Sono 48 i suicidi in cella crisi senza precedenti e governo sotto accusa di Damiano Alprandi Il Dubbio, 29 giugno 2024 L’emergenza nelle carceri italiane raggiunge livelli sempre più allarmanti, con un nuovo tragico record di suicidi che sta scuotendo l’opinione pubblica e sollevando dure critiche all’operato del governo. Dall’inizio dell’anno, sono già 48 i detenuti che si sono tolti la vita, di cui 4 nelle ultime 48 ore. L’ultimo caso, avvenuto giovedì nel carcere di Frosinone, ha visto un giovane detenuto suicidarsi, inalando gas da un fornello da campeggio presente nella sua cella. Un episodio che ha suscitato l’indignazione del garante regionale dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. “Potremmo non sapere mai se si sia trattato di un suicidio o di una morte accidentale per abuso di inalazione di gas”, ha affermato Anastasìa in una nota. “Che si sia trattato di un suicidio volontario o involontario, si tratta comunque di un suicidio di un giovane ventenne, detenuto in attesa di giudizio, con problemi di salute mentale (nelle ultime settimane era stato ricoverato in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio)”. Ha proseguito Anastasìa: “Nel frattempo, tutto tace e il poco che sentiamo non ci piace: nuovi reati, pene più severe, l’idea che la sofferenza e le proteste in carcere debbano essere affrontate con misure forti: ordine, disciplina e ulteriori punizioni”. Il Garante ha criticato l’inazione del governo nel risolvere la crisi di sovraffollamento nelle carceri. “Per settimane il governo annuncia un decreto che non c’è e, se mai arriverà, non cambierà le cose. C’è urgente bisogno di un provvedimento deflattivo per ridurre la popolazione carceraria ai soli autori dei reati più gravi, in un numero adeguato non solo agli spazi detentivi (nelle ultime settimane abbiamo ricominciato a vedere materassi per terra, per chi non riesce neanche ad avere una branda su cui sdraiarsi), ma anche al personale in servizio che, se tutto va bene, potrebbe gestire 40- 45.000 detenuti, non i 61.000 che ci sono adesso”. Anastasìa ha chiesto un’amnistia e un indulto per i reati minori, una misura che è stata proposta anche dal deputato Riccardo Giachetti. “Tutti coloro che lavorano nelle carceri, dai giudici di sorveglianza al personale penitenziario, compresi gli agenti di polizia, i garanti e gli avvocati, sanno che solo un’amnistia e un indulto, limitati ai reati punibili fino a e compresi i residui di pena inferiori ai due anni, potrebbero ripristinare rapidamente condizioni di vita e di lavoro dignitose in carcere, ma il governo sta evitando anche la minima proposta del deputato Giachetti di aumentare i giorni di liberazione anticipata per i detenuti che si sono dimostrati disponibili alle proposte di trattamento dell’amministrazione penitenziaria. Se continuiamo così - ha concluso Anastasìa - sarà un’estate di lacrime e dolore. Mettetevi una mano sulla coscienza e fate la cosa giusta prima che sia troppo tardi”. Il duro monito di Anastasìa evidenzia la grave situazione nelle carceri italiane, gravemente sovraffollate e sottoposte a carenze di personale. La morte del giovane detenuto a Frosinone è l’ennesimo tragico monito del costo umano di questa crisi. Tuttavia, le risposte del governo appaiono inadeguate di fronte alla gravità della situazione. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato alcune misure, tra cui una norma sui benefici penitenziari per i detenuti con buona condotta (senza sconti di pena), un aumento delle telefonate concesse ai detenuti da 4 a 6 al mese, e un piano per il trasferimento di detenuti stranieri verso istituti nel loro Paese d’origine. Misure che, secondo molti esperti e associazioni, non sono sufficienti ad affrontare l’emergenza in corso che merita azioni immediate. Monica Bizaj e Marco Costantini dell’Associazione “Sbarre di Zucchero” hanno criticato duramente l’approccio del governo: “Non c’è più tempo! In carcere e di carcere si continua a morire nel frattempo, e non saranno queste norme a risolvere il drammatico problema di suicidi e sovraffollamento”. Hanno inoltre sottolineato come le misure proposte presentino notevoli difficoltà di attuazione, dalla carenza di personale per gestire nuovi padiglioni alla complessità degli accordi transnazionali necessari per il trasferimento dei detenuti stranieri. L’Associazione ha quindi esortato il ministro Nordio ad adoperarsi per far approvare rapidamente la proposta di legge Giachetti/Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale e a valutare un decreto urgente per deflazionare le presenze in carcere. “Altrimenti a fine anno saremmo costretti a parlare di strage annunciata ed a considerarvi colpevoli di essere rimasti inermi di fronte ad un dramma senza precedenti”, hanno affermato. Il dibattito si fa sempre più acceso, con la consapevolezza che solo interventi rapidi e incisivi potranno evitare che l’estate 2024 si trasformi, come paventato dal garante Anastasìa, in “un’estate di lacrime e dolore”. Il governo ormai si trova di fronte alla dura e tragica realtà: deve prendere provvedimenti urgenti per affrontare il problema del sovraffollamento e garantire che tutti i detenuti abbiano accesso a condizioni di vita sicure e umane. Può partire dall’approvazione della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale presentata da Giachetti di Italia Viva e Nessuno Tocchi Caino. La votazione ci sarà il 17 luglio. Ma forse bisognerebbe anticipare la data. Ancora un suicidio in cella: “È un massacro da fermare subito” di Fulvio Fulvi Avvenire, 29 giugno 2024 E con la morte di un 21enne italiano nel carcere di Frosinone, ieri, sono 48 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. È un massacro che va fermato al più presto con provvedimenti urgenti che favoriscano il decongestionamento delle strutture: decisioni della politica che però tardano ad arrivare. E con l’estate e il grande caldo la situazione rischia di peggiorare. Qualche segnale dagli uffici del ministero di via Arenula si intravvede ma di concreto ancora nulla: è atteso infatti entro luglio un mini-decreto in materia da parte del governo. Ma, come è stato già annunciato dal ministro Carlo Nordio, non si tratterà di uno svuota-carceri con effetti immediati. Il giovane recluso che si è ucciso ieri a Frosinone inalando il gas di una bomboletta da campeggio (di quelle usate per cucinare) era in attesa di giudizio e avrebbe avuto, come circa il 30% delle persone rinchiuse nelle patrie galere, problemi di salute mentale: nelle scorse settimane era stato ricoverato all’ospedale Spaziani del capoluogo per un “Trattamento sanitario obbligatorio”, fanno sapere i sindacati degli agenti di polizia penitenziaria. Per l’Uilpa, in particolare “Diversamente che in altre circostanze in cui lo scopo è quello di “sniffare” il gas, in questo caso tutto lascerebbe pensare a un suicidio” sostiene il segretario generale Gennarino De Fazio. Il suo collega del Sappe, Donato Capece, rileva che “in attesa che le indagini facciano chiarezza è ora che al posto delle pericolosissime bombolette a gas, a volte trasformate anche in bombe contro il personale carcerario, si dotino le celle di piastre elettriche per riscaldare il cibo”. Ma la tensione nei penitenziari, dopo le violenze registrate nei giorni scorsi a Roma Regina Coeli e all’Ucciardone di Palermo, è continuata anche oggi con un’aggressione dalle gravi conseguenze per un addetto alla sorveglianza nella Casa circondariale di Rieti. “Un detenuto di nazionalità africana, ristretto al secondo piano F e pare affetto da problemi psichiatrici - riferisce Maurizio Somma, segretario per il Lazio del Sappe) - in preda ad un attimo di follia durante la somministrazione della terapia giornaliera, ha colpito brutalmente il sovrintendente di turno, ferendolo all’occhio destro: il poliziotto era accorso per divedere l’infermiera che stava per essere strattonata dal soggetto”. Il tempestivo intervento di altri agenti, comunque, ha scongiurato il peggio. Il ferito ha dovuto ricorrere alle cure dei medici del pronto soccorso. La situazione anche a Rieti viene ritenuta “insostenibile”. Le organizzazioni sindacali dei poliziotti sollecitano il ministero a inviare gli ispettori per i necessari controlli sulle condizioni di vita all’interno della struttura. Sull’emergenza carceri nel Lazio interviene anche Stefano Anastasi, garante regionale delle persone private della libertà personale: “Da settimane il governo annuncia un decreto che non c’è e, se ci sarà, non cambierà le cose. È urgente, invece, un provvedimento deflattivo, che riduca la popolazione detenuta agli autori dei reati più gravi, nel numero adeguato non solo agli spazi detentivi (nelle ultime settimane abbiamo ricominciato a vedere i materassi per terra, di quelli che non riescono ad avere neanche una branda su cui metterlo), ma anche al personale in servizio che, se va bene, potrebbe gestire 40-45mila detenuti, non i 61mila che ce ne sono ora in Italia”. Intanto Luisa Regimenti, assessore al Personale, alla Sicurezza urbana, alla Polizia Locale, agli Enti Locali e all’Università della Regione Lazio annuncia che la giunta sta lavorando ai nuovi bandi per il reinserimento sociale dei detenuti e per garantire il diritto all’istruzione. E chiede l’istituzione di un tavolo interistituzionale che coinvolga il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, il Garante delle persone private della libertà personale, Asl e associazioni che operano negli istituti penitenziari. “L’obiettivo - precisa l’assessore - è quello di elaborare un Piano regionale per la prevenzione dei suicidi nelle carceri: molte volte si verificano eventi sentinella, i quali, se colti tempestivamente, possono essere fondamentali per entrare in contatto con le persone detenute e attuare idonee azioni di sostegno”. Carceri, le telefonate allungano la vita, ma Nordio non risponde di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 29 giugno 2024 Consentire ai detenuti di passare più ore in conversazione con i propri cari è fondamentale per prevenire i suicidi. Finora il ministro della giustizia ha solo annunciato di voler intervenire, con un nulla di fatto. Nei giorni scorsi, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha annunciato nuove misure sulle carceri. Il decreto legge è pronto, ma sembra faccia fatica a essere portato in Consiglio dei ministri. E non si sa nulla del suo contenuto nel dettaglio. Solo indiscrezioni. Tra le misure, potrebbero esserci dei provvedimenti anche sulle telefonate a disposizione delle persone detenute. Tuttavia, la loro presenza non è scontata, così come non si sa nulla di questo possibile aumento. In passato Nordio aveva parlato di un aumento delle telefonate: dalle attuali quattro al mese a sei, quindi da 40 minuti (dieci minuti a chiamata) a un’ora. Se fosse questo l’incremento contenuto nel decreto legge sulle carceri, nella sostanza non cambierebbe nulla. Non solo. Era agosto dello scorso anno quando il ministro della Giustizia, uscendo dal carcere di Torino dove si erano tolte la vita due donne a distanza di poche ore, si impegnò a prendere una serie di iniziative per prevenire i suicidi e, tra queste, un aumento delle telefonate. L’impegno è rimasto, finora, tale. Una chiamata non costa niente - Nel 2022, l’anno più tragico per i suicidi in carcere (a fine anno se ne contarono 85), Antigone lanciò la campagna Una telefonata allunga la vita: sentire una persona cara, infatti, può aiutare nei momenti di sconforto o evitarli. L’allora capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria emanò una circolare dove scriveva ai direttori degli istituti di utilizzare il loro potere discrezionale per garantire un numero di telefonate maggiore. Cosa che, dal monitoraggio delle carceri di Antigone, non è avvenuta così di frequente. Per questo, dopo l’espansione della possibilità di telefonare a casa durante il periodo della pandemia da Covid-19 (con anche un aumento importante di dotazione di telefoni cellulari e tablet utilizzati per le videochiamate), il limite è tornato a essere di dieci minuti a settimana quasi ovunque. “Quando hai una famiglia numerosa fuori, come la mia, con una moglie e tre figli, in quei dieci minuti hai tempo solo per salutarli, chiedere come stanno e il tempo è finito. Non riesci a essere un padre e un marito presente, per quanto la tua situazione di privazione della libertà potrebbe comunque lasciartelo essere”. Questo è stato il racconto di una persona detenuta che ha contattato Antigone qualche tempo fa. Perché se si guarda bene a quei dieci minuti è adesso difficile trovargli un senso: forse ne avevano uno nel 2000, quando questo limite è stato fissato dall’articolo 39 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Allora c’erano ancora le chiamate interurbane e le telefonate erano molto costose. Oggi invece non ci sono limiti tecnologici, i telefoni sono parte integrante della nostra vita quotidiana e quasi tutti ne hanno almeno uno; non ci sono limiti economici, perché i costi decisamente molto contenuti; non ce ne sono neanche di sicurezza, considerando che, a parte per alcuni regimi, ad esempio il 41-bis, o alcune situazioni specifiche, la maggior parte delle persone detenute non ha censure per le comunicazioni con l’esterno: possono scrivere e ricevere lettere da chiunque, senza che la loro corrispondenza sia in alcun modo oggetto di controllo. In Uk rapporti più stretti con la famiglia abbassano la recidiva - Un limite, denunciato dai alcuni sindacati penitenziari che si oppongono all’aumento delle telefonate, sarebbe il lavoro ulteriore che comporterebbe per gli agenti di polizia penitenziaria: dovrebbero aprire e chiudere le celle con un via vai continuo tra queste e il telefono, che generalmente è collocato in una stanzetta a parte all’interno della sezione. Ma anche per questo una soluzione ci sarebbe ed è quella percorsa ad esempio dal Regno Unito. Lo scorso gennaio il ministro della Giustizia britannico Lord Bellamy ha annunciato che tutte le 92 carceri inglesi avrebbero avuto un telefono per ogni cella. Fno a quel momento questa dotazione riguardava già 86 istituti. Un’iniziativa nata prima del Covid-19, che trova basi in alcune ricerche: i loro dati mostrano che un rapporto più stretto con la famiglia abbassa il tasso di recidiva. Così ogni detenuto ha la possibilità di chiamare a casa in diversi momenti e orari della giornata, compatibilmente anche con le esigenze lavorative o di altro tipo dei suoi famigliari, acquistando del credito telefonico e accedendo a dei numeri pre-autorizzati. Tra i numeri ve ne sono poi due, contattabili in maniera gratuita, che fanno riferimento a servizi come Samaritans e MIND, che garantiscono supporto alle persone con pulsioni suicidarie. Un’altra importante possibilità per tentare di prevenire gesti anti-conservativi. Il problema dei cellulari illeciti - La scelta del Regno Unito guarda anche in un’altra direzione: la necessità di prevenire e ridurre l’introduzione illecita di cellulari che alimentavano la criminalità, la tensione e la violenza negli istituti. Quello dell’accesso illecito di telefonini nelle carceri è un problema che riguarda anche l’Italia. E, nonostante la recente previsione di reato nel Codice penale di condanne severe che vanno da uno a quattro anni, il fenomeno non sembra attenuarsi. Ogni anno vengono effettuati diversi sequestri, con un lavoro extra per la polizia penitenziaria, che deve impegnarsi in attività di controllo, a prescindere dall’effettivo utilizzo che i detenuti fanno poi di questi strumenti: se li sfruttano per rimanere in contatto con i propri famigliari o con le proprie, eventuali, reti criminali. Seguire il modello inglese, e quindi dotare anche le celle delle carceri italiane di telefoni, avrebbe molti risvolti positivi: aiuterebbe a garantire i contatti con l’esterno, intervenendo positivamente sulla recidiva; potrebbe aiutare a ridurre il numero dei suicidi e degli atti di autolesionismo; potrebbe agevolare il compito degli agenti penitenziari nel controllo dei dispositivi illeciti, eliminando la necessità di introdurre un telefono cellulare illegalmente solo per mantenere il legame con i propri affetti. *Responsabile comunicazione di Antigone In carcere solo a giugno 12 suicidi. Ecco 12 provvedimenti urgenti da approvare antigone.it, 29 giugno 2024 3 suicidi in due giorni, 47 dall’inizio dell’anno, 12 solo nel mese di giugno, nel quale si è uccisa una persona detenuta ogni due giorni e mezzo. Se il dato fosse questo, a fine anno avremo circa 100 suicidi, superando il dato degli 85 avvenuti nel 2022. Va tenuto conto che quell’anno, proprio l’estate, fu un periodo drammatico, quando nel solo mese di agosto se ne contarono 17. Quella dei suicidi è una conta drammatica. Già nei giorni scorsi avevamo lanciato l’allarme, indicando in questa una vera e propria emergenza nazionale e chiedendo provvedimenti immediati da parte del Governo e del Parlamento. Che torniamo a chiedere ancora una volta, proprio in vista dei mesi estivi, quelli dove le attività scolastiche chiudono, quelle di volontariato si rarefanno e le persone detenute restano più sole e le loro giornate diventano piene di apatia e noia, che portano disperazione. Disperazione e solitudine che sono un volano per gli episodi più estremi. Per questo chiediamo dodici provvedimenti urgenti, alcuni dei quali possono essere inseriti già all’interno del, finora solo annunciato, decreto carceri che il Ministro della Giustizia Nordio vorrebbe portare in discussione in Consiglio dei Ministri: 1. ritirare il pacchetto sicurezza (in via di approvazione) che introduce molte nuove fattispecie di reato tra cui quello di rivolta penitenziaria (che sanziona fino a otto anni anche tre persone che con resistenza passiva e non violenta disobbediscono a un ordine dell’autorità) e che vuole far scontare in carcere la pena alle donne in stato di gravidanza o con un bimbo sotto 1 anno. Punendo anche le proteste non violente alle persone detenute non rimarrà che il proprio corpo per attirare l’attenzione sulle tante carenze del sistema penitenziario (con un presumibile aumento di atti di autolesionismo e suicidi); 2. aumentare a 75 giorni la liberazione anticipata per semestre velocizzando le procedure; 3. approvare misure che consentano telefonate quotidiane; 4. dotare tutte le celle di tutti gli istituti di ventilatori o aria condizionata e frigoriferi, quanto meno di sezione; 5. ritornare dal sistema a celle chiuse a celle aperte durante il giorno; 6. modernizzare la vita penitenziaria attraverso la possibilità di collegarsi, con le dovute cautele, alla rete; 7. assumere 1000 giovani mediatori culturali e 1000 giovani educatori e assistenti sociali; anche la polizia penitenziaria ha bisogno di un supporto, non potendosi sostituire a queste figure professionali; 8. favorire la presenza del volontariato nei mesi di luglio e agosto riempiendo in queste settimane di vita le carceri; 9. moltiplicare la presenza di psichiatri, etno-psichiatri e medici; 10. chiedere ai direttori di convocare consigli di disciplina allargati e chiedere l’applicazione di misure alternative come premi; 11. prevedere che si possa entrare in carcere solo se è assicurato lo spazio vitale; 12. far trascorrere la notte ai semiliberi fuori dal carcere. Forza Italia: sì alla “liberazione anticipata speciale” chiesta da Giachetti e Bernardini di Liana Milella La Repubblica, 29 giugno 2024 “Non possiamo far finta di nulla rispetto allo spaventoso aumento dei suicidi” dice il vicepresidente berlusconiano della commissione Giustizia Pietro Pittalis che annuncia il voto a favore del suo gruppo quando il 17 luglio la proposta andrà in aula. Quarantasette suicidi dall’inizio dell’anno. L’ultimo giovedì notte. Un egiziano di 47 anni si uccide a Genova. Il giorno prima un uomo di 46 anni a Caltanissetta. E quello precedente ha chiuso con la vita, sempre al Marassi di Genova, un trentenne. Le mail di Gennarino De Fazio, il segretario della Uilpa, la Uil dei penitenziari, consegnano alla cronaca un incredibile libro nero. E allora Forza Italia rompe gli indugi e con Pietro Pittalis, il vice presidente della commissione Giustizia della Camera, annuncia a Repubblica il sì del suo partito alla “liberazione anticipata speciale” lanciata un anno fa da Roberto Giachetti di Italia viva e sottoscritta dalla presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini che riprenderà lo sciopero della fame e della sete il 17 luglio quando la Giachetti tornerà in aula alla Camera. Il passo di Pittalis è destinato a cambiare la partita sulla “liberazione anticipata speciale”, 75 o almeno 60 giorni di sconto di pena ogni sei mesi, anziché gli attuali 45, con il via libera del magistrato di sorveglianza per chi ha dimostrato una buona condotta e un serio ravvedimento. Proposta che vede contrario il Guardasigilli Carlo Nordio. Ma quello di Pittalis non è solo un annuncio politico, ma si sostanzia anche in una serie di emendamenti che a nome del suo partito ha già depositato in aula, e che dimostrano la precisa volontà di non buttare la Giachetti nel dimenticatoio. Perché, come dice Pittalis, “dobbiamo aprire subito un focus sulle carceri, non possiamo più assistere al dramma dei suicidi che proseguono con un ritmo spaventoso, girando la testa dall’altra parte, e facendo finta che il problema non esiste. Invece siamo testimoni di un sovraffollamento inaccettabile, ce l’abbiamo sotto i nostri occhi. Non possiamo più stare a guardare perché servono risposte immediate”. Pittalis lascia intendere che le indiscrezioni trapelate finora sul decreto carceri di Nordio non palesano quell’immediatezza d’intervento che invece l’attuale situazione carceraria richiede. Il ministro respinge l’aumento dei giorni per la liberazione anticipata e vorrebbe affidare solo al pm il compito di dare il via libera per i 45 giorni. L’altra ipotesi è quella di prevedere un maggior numero di cooperative in cui i detenuti giunti al fine pena possano scontare il periodo residuo. Ma è evidente che si tratta di una soluzione non immediata, mentre l’emergenza ci dice che i detenuti continuano a morire. Per Pittalis invece “non c’è più un minuto da perdere”. Tant’è che da un lato cita la recentissima uscita di Marina Berlusconi sul fronte dei diritti, dall’altro richiama “lo spirito garantista che ha sempre contraddistinto l’azione di Forza Italia”. Per dire che “non possiamo stare a guardare l’elenco dei suicidi che ogni giorno diventa sempre più lungo”. Serve subito un’azione politica: “Sul tavolo c’è la proposta di Giachetti. Dobbiamo utilizzarla. Ovviamente con le dovute garanzie e gli accorgimenti necessari”. Tra questi, per esempio, c’è un netto no a un’applicazione generalizzata dei giorni in più. E via i reati gravi, come mafia e terrorismo, dall’elenco di chi ne può fruire. Cioè proprio l’obiezione più pesante che in aula a Montecitorio ha sollevato il gruppo di M5S. Resta il problema politico. Perché la Lega ha chiuso la porta alla proposta Giachetti, e nessuna apertura esplicita è giunta da Fratelli d’Italia che col il sottosegretario Andrea Delmastro lavora soprattutto a rafforzare il fronte degli agenti penitenziari con nuove assunzioni, nonché con la squadretta di intervento rapido in caso di rivolte. Ma qui Pittalis invita i partner di governo a una riflessione: “Quindici giorni in più ogni sei mesi non sono assolutamente un ‘libera tutti’. Stiamo parlando di 4-5mila detenuti che hanno già scontato gran parte della pena, l’hanno fatto con la buona condotta, e hanno di fronte solo un residuo, una manciata di mesi. Non possiamo negar loro la parola garantista dello Stato”. La Corte dei conti: “Il carcere non sia una vendetta di Stato” di Massimo Nesticò ansa.it, 29 giugno 2024 Il sovraffollamento e la “cesura dei legami affettivi” in carcere, con norme troppo restrittive, rischiano di rendere la detenzione una “vendetta di Stato”. L’allarme - in piena emergenza suicidi, ieri a Frosinone il 47/o caso dell’anno - arriva dalla Corte dei conti, con il Procuratore generale, Pio Silvestri, che nell’ambito del Giudizio sul rendiconto generale dello Stato 2023, ammonisce: “le risorse pubbliche costruttivamente utilizzate per creare condizioni di vita più umane nelle carceri, nella prospettiva di un reale reinserimento, non sono sprecate, ma ben impiegate per garantire la sicurezza di tutti”. Se è vero che i detenuti sono inevitabilmente privati di una parte della libertà, rileva la memoria, “è vero anche che devono esser loro garantiti i diritti all’integrità fisica, alla salute, ai rapporti familiari e all’affettività, al lavoro, all’istruzione, all’informazione, alla libertà di pensiero, alla professione della propria religione”. Il documento passa quindi in rassegna le varie criticità delle carceri, come la scopertura dell’organico della polizia penitenziaria, in aumento per effetto del turnover. Un dato, si legge, che “merita attenzione in quanto non può prescindersi dall’effettiva presenza di operatori adeguatamente formati ed in numero proporzionato rispetto agli ospiti degli istituti per dare concreta ed effettiva attuazione al finalismo rieducativo della pena”. Ci sono poi “insufficienze significative” riguardo la presa in carico di detenuti affetti da patologie di natura psichiatrica. Solo presso alcuni istituti sono state costituite apposite sezioni denominate ‘Articolazioni per la tutela della salute mentale’, mentre per le Rems c’è una lista d’attesa di ben 735 persone. In crescita anche il sovraffollamento: dai 52.273 detenuti del dicembre 2020 si è passati ai 61.435 di oggi, a fronte di una capienza regolamentare di 51.234. “L’affollamento dei luoghi, la sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva, sommata alle fragilità individuali, nell’analisi del Garante, delineano il contesto entro il quale si collocano le scelte suicidarie”, osserva la Corte dei conti. Uno scenario, peraltro, che non investe solo i detenuti, ma anche il personale che opera all’interno degli istituti, esposto a burnout e depressione. Il carcere, inoltre secondo la memoria, deve essere ripensato anche come luogo fisico che offra “spazi riservati all’intimità dei rapporti affettivi intrattenuti dai suoi ospiti”. Si auspica quindi la possibilità di ampliare i colloqui con i familiari e si definisce “particolarmente restrittiva” la disciplina che riconosce ai detenuti una telefonata a settimana della durata massima di 10 minuti ed ai detenuti per reati ostativi due soli colloqui telefonici al mese. La conclusione è che “l’universo penitenziario appare ancora oggi espressione di una frattura fra ciò che dovrebbe essere e ciò che in effetti è”. E l’opinione pubblica “non deve disinteressarsi di ciò che accade oltre le mura degli istituti di pena, dal momento che le condizioni delle carceri, com’è noto, rappresentano la misura del livello di civiltà di uno Stato. Occuparci del carcere, in definitiva, vuol dire occuparci del livello di salute della nostra democrazia”. Se il difensore lascia il passo al mediatore di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 29 giugno 2024 La giustizia riparativa ha certamente rappresentato la connotazione culturale più schiettamente identitaria della intera riforma Cartabia. Inserita in una complessa - ed in verità assai apprezzabile - riscrittura del sistema della pena, messo coraggiosamente al riparo dal furioso carcero-centrismo che ispirava parti cospicue (Lega e 5S) della maggioranza del Governo Draghi, la giustizia riparativa segna però il passo oltre il confine, l’autentica rivoluzione culturale voluta da quella riforma. Ed è una rivoluzione che suscita più di una preoccupazione, più di un legittimo allarme. Ne parliamo oggi - anche raccogliendo posizioni tra di loro contrastanti - su questo numero di PQM. Nessuno può negare il valore positivo di una spinta normativa alla “riconciliazione” tra autore e vittima del reato, ancor più se letta come alternativa all’idea di una esecuzione punitiva sterile, che lascia inutilmente sole con sé stesse, come monadi ammutolite dal loro contrapposto destino, le parti protagoniste della vicenda criminale. È feconda l’idea di incoraggiare il reo ad acquisire consapevolezza del male che egli ha fatto alla vittima, e di dargli una prospettiva di riscatto, anche rispetto alla durezza della pena che egli meriterebbe, nell’impegno a trovare la strada di una riparazione condivisa dalla parte offesa. Ma, appunto, tutto ciò ha un senso se partiamo dalla certa identificazione del colpevole e della vittima, il che accade solo (e nemmeno sempre, purtroppo!) all’esito di una sentenza definitiva di condanna. L’azzardo di questa riforma, ossessionata dalle prescrizioni deflattive del PNRR, è aver previsto il percorso della giustizia riparativa anche prima della definizione del procedimento penale, ed anzi ai suoi albori. La qual cosa può funzionare rigorosamente e solo su base volontaria, cioè su iniziativa spontanea e autonoma dell’indagato che sappia di aver commesso il reato, e voglia adoperarsi per avviare un percorso riparativo condiviso dalla vittima. Ma qui c’è un giudice - ed addirittura un PM! - che può dare impulso al percorso riparativo, muovendo dunque dal presupposto della fondatezza dell’accusa, che è il modo più semplice, diretto ed inequivocabile di sovvertire, nel nostro sistema processuale, la presunzione costituzionale di non colpevolezza. Hai voglia a dire che si tratta solo di un invito, che l’indagato/imputato è liberissimo di non accogliere, rivendicando la propria innocenza. Non saprei dire se qui vi sia più ipocrisia, o più inesperienza della quotidianità delle vicende processuali. Qui abbiamo un indagato che si sente dire: se ti penti, se mostri resipiscenza verso la tua vittima (ma addirittura anche quando non c’è una vittima intesa come persona specificamente individuabile!), insomma se vuoi ravvederti, il tuo trattamento sanzionatorio ne beneficerà, io giudice mi libero di questo processo, e la collettività beneficerà di un procedimento penale in meno; valuta tu -liberamente, s’intende - l’impatto della tua indisponibilità. Come se non bastasse questa terribile melassa penitenziale vagamente ricattatoria, il percorso riparativo sarà affidato - sissignore - ad un “mediatore”, nuova fi gura professionale della quale ancora non sappiamo nulla, se non che sia nata per escludere il difensore dell’imputato da questa cerimonia di lavacro sociale preventivo. Chiedetevi per quale ragione l’imputato debba rinunziare, in questa fase, al suo difensore, e datevi una risposta. Io non ne ho altre che questa: se entra nella terra del riscatto, del pentimento, della riparazione, l’imputato non ha più diritti da invocare. Il difensore non solo non serve, ma - da autentico e demoniaco complice del suo assistito - vorrà piuttosto sabotare quel percorso virtuoso. Il demonio resti fuori dal regno degli Angeli. Il nuovo sistema: colloquio con Fausto Giunta di Lorenzo Zilletti Il Riformista, 29 giugno 2024 La giustizia riparativa continua ad alimentare il dibattito tra gli addetti ai lavori Con lo studioso di diritto penale approfondiamo il tema da una nuova prospettiva. Per quanto ancora poco applicata nei tribunali, la giustizia riparativa suscita ampio dibattito tra gli addetti ai lavori. Molte le riflessioni critiche, specie dei processualisti che ne denunciano il contrasto con il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Qui approfondiamo il tema da una prospettiva diversa, assieme a Fausto Giunta, studioso di diritto penale che vivifica le proprie riflessioni scientifiche con lo svolgimento della professione forense. L’espressione “giustizia riparativa” indica un modello di trattamento del conflitto sociale creato dal reato, teorizzato e poi sperimentato negli USA a partire dagli scorsi anni 70. È una risposta al reato radicalmente distinta dai tradizionali approcci penalistici, sia da quelli più risalenti di impronta retributiva, sia dalle impostazioni preventive oggi prevalenti. Il suo obiettivo è superare la pena come categoria logica e favorire la composizione della frattura relazionale tra reo e vittima. Qualcosa in termini di riparazione esisteva anche prima della riforma Cartabia… In effetti, negli ultimi cinquant’anni il sistema ha valorizzato, in chiave rieducativa, deflattiva e collaborativa condotte riparative in senso lato. Penso alle previsioni premiali in materia di criminalità organizzata, che incentivano condotte antagonistiche rispetto all’offesa, come la liberazione dell’ostaggio o la collaborazione processuale. O alle condotte risarcitorie e ripristinatorie nell’ambito di istituti come la sospensione condizionale e in quelli concernenti la fase esecutiva della pena. Per non dire dei meccanismi estintivi, in settori come la sicurezza del lavoro, che scattano con la regolarizzazione tardiva di violazioni formali. La giustizia riparativa è molto diversa perché prescinde dalla fattispecie incriminatrice e si occupa del sottostante conflitto intersoggettivo. L’obiettivo è riavvicinare le parti, mentre la giustizia tradizionale seda il conflitto allontanandole (il carcere è strumento di punizione mediante separazione). Per chi non vede con favore il sistema introdotto dalla riforma Cartabia, che il mondo della giustizia riparativa sia diverso da quello del diritto penale è positivo, purché questi mondi restino nettamente separati. Nulla di negativo se l’imputato o il condannato trovano il consenso dell’offeso per cercare di ricucire il loro rapporto. Basta che ciò resti un affare privato. Il problema, invece, è che la riforma interseca i piani… Il modello oggi introdotto nell’ordinamento è chiamato a convivere e a integrare quello penale in senso stretto. Sotto questo profilo, in quanto alternativo alla punizione, esso porta alla contrazione del diritto penale carcerocentrico e alla sua inumanità. Ciò non impedisce, però, che l’innovazione abbia ricadute negative sui diritti del reo, tra i quali rientra anche il non rinnegare il proprio passato, quand’anche lo si consideri definitivamente chiuso. L’avvicinamento reo-vittima non era certo precluso o scoraggiato dalla normativa precedente. Oggi è perseguito espressamente. Da qui gli interrogativi circa l’autenticità dei propositi del reo, che potrebbe prestarsi solo per ottenere benefici sanzionatori. Inquieta che l’avvicinamento alla vittima stia diventando un passaggio obbligato, non espressamente previsto dalla legge per ottenere benefici penitenziari. Si rischia così di fagocitare il principio di rieducazione, introducendo nel trattamento un particolare “elemento soggettivo” del colpevole la cui mancanza vanifica l’oggettività dei progressi risocializzativi. Nella giustizia riparativa, poi, la vittima può avere una forza di incidenza sul destino del reo che rischia di privatizzare la risposta al reato. Purtroppo le tue considerazioni sollevano dubbi anche sulla bontà dell’adozione del nuovo sistema nella fase esecutiva che, a differenza di quella del processo, ha il vantaggio di non confliggere con la presunzione di innocenza… La giustizia riparativa presenta luci e ombre. Concentrandosi sulle prime, non possono dimenticarsi gli incontri tra terroristi e i parenti delle loro vittime. Credo fermamente nell’autenticità del bisogno esistenziale di parlare insieme di ciò che ha unito tragicamente le loro vite. Altro discorso, e qui si allungano le ombre, se l’obiettivo della vittima è quello di sollecitare una richiesta di perdono. Al già segnalato rischio di privatizzazione del “penale” si aggiunge quello di una sua eticizzazione. Convengo che la risocializzazione non implichi obbligatoriamente l’ammissione postuma di una responsabilità precedentemente negata. Nutro il convincimento laico che, con l’adesione dell’interessato, si possa risocializzare chiunque, anche chi mantenga la convinzione di essere stato condannato ingiustamente. Tu hai accennato agli incontri tra ex terroristi e parenti delle vittime: questi, però, sono avvenuti a distanza di decenni dai fatti, dopo che i condannati avevano scontato l’intera pena. Non possiamo equiparare l’esperienza di fi gure straordinarie come la fi glia di Moro o il figlio di Bachelet, con quella spicciola del quotidiano. La reazione comune di chi ha subìto un reato non è domanda di riconciliazione, è domanda di riconciliazione, piuttosto di “vendetta”… Se si guarda alle misure alternative al carcere, compresa la liberazione condizionale quale unico beneficio penitenziario previsto dal codice Rocco, è agevole osservare come esse non perseguano l’emenda del condannato. Il loro funzionamento ruota sulla ben più “laica” prognosi favorevole di reinserimento sociale. Oggi i progressi rieducativi non bastano più. Decisivo diventa l’atteggiamento del reo nei confronti della vittima e quello di quest’ultima rispetto al primo. Si apre uno scenario molto complesso. Nel modello della riparazione “pura”, l’avvicinamento delle parti non è un fenomeno giuridico ma una dinamica relazionale. I professionisti del processo devono restare fuori della stanza della mediazione. Il che significa separazione del reo da colui che lo ha difeso, l’avvocato, che non può entrare nella stanza del mediatore perché la parte finale gli è interdetta. Può risentirne la tutela del reo, che l’epoca moderna ha indicato come il beneficiario del sistema delle garanzie, prima tra tutte l’assistenza di un difensore. Il sistema rischia di passare nelle mani del mediatore: fi gura professionale di cui sappiamo ancora poco o nulla. Per questa via non viene svalutato soltanto il ruolo del difensore, ma si finisce anche per de-giurisdizionalizzare il conflitto innescato dal reato. Ne risente il ruolo garantistico del giudice: il colpevole, del quale non cesserò di preoccuparmi, resterà nelle mani di se stesso. *Avvocato penalista Il surrealismo penale della giustizia riparativa di Oliviero Mazza* Il Riformista, 29 giugno 2024 Il dibattito sulla giustizia riparativa assume sempre più spesso caratteri surreali. I ferventi sostenitori descrivono un sistema idealizzato di risoluzione alternativa ed etica della controversia penale che non trova alcun riscontro nella disciplina normativa e che ne ignora, volutamente, l’ontologica incompatibilità con la presunzione d’innocenza e con la funzione cognitiva del processo penale. Il punto di maggior criticità è rappresentato proprio dalla scelta di incistare la giustizia riparativa nel processo penale in modo tale da istituzionalizzare, con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di spesa pubblica (4 milioni e mezzo di euro all’anno), un percorso che, se fosse rimasto in ambito privato e volontario, avrebbe avuto pochissime possibilità di essere finanziato. La giustizia riparativa presuppone una già intervenuta cristallizzazione dei ruoli, colpevole e vittima. Che per la logica del processo penale non solo non possono essere affermati fino all’accertamento definitivo di responsabilità, ma sono addirittura ribaltati dalla previsione costituzionale per cui l’imputato va considerato non colpevole e la vittima va presunta non tale o comunque non vittima dell’azione dell’imputato. Del resto, risponde a una logica elementare che la riparazione presuppone l’accertamento della rottura dei rapporti sociali o interindividuali ad opera dell’imputato. Al di là della descrizione quasi esoterica della “conca riparativa”, al mediatore è rimessa dal giudice o dal pm, con decisione d’ufficio ben diversa dalla libera scelta delle parti, la risoluzione alternativa della questione penale. La giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto. Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale ed è intrisa di vittimocentrismo e di comunitarismo. Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa. Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono stragiudiziale e ad accogliere nuovamente l’imputato che abbia compiuto tangibili atti di contrizione. Come se ciò non bastasse, la giustizia riparativa delinea un procedimento incidentale senza garanzie, in cui il difensore non è ammesso per scelta ideologica, mentre sono graditi ospiti associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato, delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali (art. 45 lett. c d.lgs. n. 150 del 2022) ovvero chiunque altro vi abbia interesse (art. 45 lett d d.lgs. n. 150 del 2022). Come si giustifica che l’accusato sia lasciato solo dinanzi a questo “tribunale del popolo” composto addirittura dalla polizia? Ma soprattutto, perché chiunque vi abbia interesse può partecipare, ma non il difensore che sarebbe il primo ad avere un interesse per di più qualificato? C’è una sola possibile chiave di lettura ed è il malinteso ruolo del difensore quale complice processuale dell’imputato. Alla garanzia della giurisdizione si sostituisce la figura mitologica del mediatore, psicoanalista o parroco più che giurista, attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto, citando la felice definizione di Cavallone. Sarebbe opportuno interrogarsi sulla scelta di delegare la risoluzione dei conflitti interpersonali integranti il reato non più ai giudici, ma agli operatori sociali. È questo il nuovo modello di giustizia penale al quale aspiriamo? Senza potersi soffermare su altre aporie, dalla presunta impermeabilità dei procedimenti fino ai riflessi nel processo penale di un esito negativo della mediazione, la più rilevante questione riguarda la confusione fra diritto e morale, plasticamente delineata dalla vittima aspecifica, una specie di “inginocchiatoio” messo a disposizione dell’imputato nel caso in cui la vittima del reato non ci sia o non voglia partecipare al percorso riparativo. La laicità del diritto penale è un valore liberale che va difeso di fronte alla deriva che trasfigura il reato da categoria giuridica a evento psicosociologico e che confonde la rieducazione con la riparazione. *Professore di Procedura penale Le buone ragioni che contemperano i dubbi di Valentina Alberta* Il Riformista, 29 giugno 2024 La riforma organica della giustizia riparativa, non foss’altro per il fatto che appare in questo momento chiaramente boicottata nella sua piena attuazione da una politica che osteggia meccanismi di favore per le persone accusate di o condannate per un reato, deve essere osservata con uno sguardo laico. Non aiutano infatti a cogliere i punti qualificanti della disciplina approcci ideologici di esasperato favore senza attenzione per gli aspetti problematici, né atteggiamenti aprioristicamente impermeabili rispetto a considerazioni pragmatiche che suggeriscono di lasciare uno spazio di utilità alla disciplina, anche nel processo di cognizione. Ma andiamo al sodo. Sono almeno quattro le ragioni per le quali i dubbi - non certo banali e che devono essere tenuti sempre presenti nell’approccio alla restorative justice - non possono sovrastare la giusta valorizzazione di una disciplina che, se non è la panacea di tutti i mali, è però uno strumento potente adatto ad alcune situazioni processuali. Il primo aspetto, che va nel senso opposto alla paventata monetizzazione della giustizia penale, è quello della possibilità per chiunque di ottenere la remissione di querela oppure l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. senza condizionarli al pieno risarcimento del danno. Nulla di più democratico, se ci si pensa. Certo, ovviamente il percorso di dialogo con la persona offesa non è affatto semplice, ma non necessariamente per avere successo deve essere legato ad un aspetto patrimoniale che talvolta nelle relazioni è secondario. Peraltro, a questo proposito, va detto che molte delle perplessità dei detrattori della giustizia riparativa si pongono in termini facilmente superabili solo che ci si confronti con quello che accade nel caso di trattative sul risarcimento del danno: l’invito (altro che nudge…) del giudice a “chiuderla”, la teorica necessità di riservatezza sulle trattative che non impedisce sempre, nel caso di mancato accordo, che le parti ne riportino i contenuti, il fatto che con il risarcimento si rischi implicitamente di ammettere il fatto... Ma le relazioni personali sembrano spaventare i giuristi molto più del vil denaro. Il secondo dato positivo è legato al ruolo della vittima. Se sappiamo tutti come la persona offesa possa nel procedimento penale mirare soltanto ad un ristoro patrimoniale come parte civile, conosciamo benissimo quali effetti distorsivi siano provocati dal fatto che la vittima del reato abbia in realtà necessità di ascolto, di confronto con il presunto autore, di sfogo, che il processo penale giustamente esclude, per le sue preminenti esigenze di accertamento. O dovrebbe escludere, finendo invece spesso per tollerare ingerenze emotive e mediatiche proprio legate alle aspettative frustrate. La persona offesa/vittima trova invece nella giustizia riparativa un luogo riservato di pieno ascolto e di tutela di uno scambio dialogico anche con contenuti fortemente emotivi. Nel caso di successo, come è evidente nelle parole delle vittime anche note che abbiano fatto percorsi di questo tipo, questo spazio serve anche a far trovare pace alle vittime. Ma soprattutto potrà fare “trovare pace” al processo penale martoriato da ingerenze indebite esterne (mediatiche soprattutto) ed interne (che coinvolgono gli stessi soggetti processuali) rispetto ad una concezione distorta del ruolo della vittima. Ancora, e specialmente in questo momento storico, non possiamo non fare una riflessione sull’efficacia della sanzione. Una pena, in qualsiasi forma, difficilmente genera un effetto di adesione al precetto normativo paragonabile ad un percorso profondo come quello riparativo. Anche questo deve essere tema di riflessione, insieme infine all’ambizione alla pacificazione e alla fiducia reciproca che il sistema giustizia non può non avere. I dubbi restano. La tutela della presunzione di non colpevolezza, attraverso il presidio delle paratie che devono separare i sistemi penale e riparativo, e il cardine sistematico secondo cui il processo è reo-centrico devono essere il parametro dell’attività difensiva nel campo della giustizia riparativa, non invece il dubbio esiziale che trascina con sé tutto il resto. Con una corretta distinzione tra il ruolo del giudice (che non raccoglie il consenso né verifica l’ammissione del nucleo essenziale del fatto, compiti questi del mediatore esperto) e quello del mediatore (che non accerta responsabilità e non restituisce prove, compiti riservati al processo) le questioni pratiche che si pongono possono essere sicuramente risolte. Il rischio è altrimenti quello di rafforzare il punto di vista di chi osteggia la giustizia riparativa, svilendone il significato a scappatoia dalla mannaia della responsabilità penale. *Avvocato penalista La frattura causata dal reato e la giustizia riparativa di Luca Bisori* Il Riformista, 29 giugno 2024 La giustizia riparativa (g.r.) disegna strumenti di ricomposizione della frattura generata dal reato che si definiscono come totalmente altri rispetto a quelli della giustizia tradizionale. Le esperienze comparate confermano l’efficacia di questi strumenti, che debbono perciò essere valutati con intelligente disponibilità, senza indulgere a contrarietà pregiudiziali. La disciplina positiva determina però una rilevante criticità, foriera di potenziali conflitti coi princìpi di garanzia: si prevede infatti l’innesto del percorso riparativo nel processo penale, consentendo così una significativa interlocuzione tra due mondi che dovrebbero restare separati. Talora questa interferenza può dipendere da una iniziativa dell’imputato, e allora nulla quaestio: si pensi al caso in cui si chiede l’attivazione della g.r. per conciliare un danno non disconosciuto, oppure per far risaltare l’irragionevolezza delle richieste della vittima. Fuori di queste ipotesi, però, un pericolo di contaminazione del libero convincimento del giudice si può generare a valle della possibilità, per il giudice, di inviare l’imputato ex officio ai centri di g.r., così assegnandogli il potere di costringere il giudicabile a ‘prendere posizione rispetto all’accusa’ (in ogni stato e grado del procedimento - dice l’art. 129 bis c.p.p. - l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima al Centro per la g.r., per l’avvio di un programma di g.r.). In nessun altro caso è consentito al giudice di fare altrettanto: l’esame dell’imputato può essere chiesto solo dalle parti, non può essere disposto d’ufficio, ed è l’unica prova per cui esiste questa limitazione. È sì vero che ogni programma di g.r. presuppone la volontarietà del percorso e che l’imputato deve consentirvi: ma come sarà valutata l’adesione al dialogo con la vittima da parte di chi ha diritto di professarsi innocente e di negare che un fatto illecito sia stato commesso? Potrà essere inteso come disponibilità ad ammettere la colpevolezza? Lo stesso esito positivo del percorso di g.r. potrà essere interpretato come riconoscimento della fondatezza delle pretese della vittima e dunque dell’addebito? Di tutto questo - se l’imputato consente, come va a finire il percorso etc. - il giudice ‘inviante’ sarà edotto dal mediatore, attraverso apposite relazioni. Il nesso tra adesione alla g.r. e ‘ammissione del fatto’ non è questione astratta, costituisce anzi un aspetto nevralgico della g.r.: la legge italiana, forse proprio per consentire una più forte interlocuzione tra processo e sede riparativa e minimizzarne le criticità, ha omesso di recepire quale presupposto della g.r. la previa ammissione della responsabilità del fatto da parte dell’imputato, che è invece espressamente prevista dalla direttiva europea. Qui si disvela la coperta corta: se, nella prospettiva ideale che massimizza l’alterità della g.r. al processo, è ragionevolmente indispensabile la previa ammissione del fatto, al contempo è però inammissibile che quel presupposto sopravviva in un sistema che consente al giudice di invitare l’imputato a quei percorsi, poiché diversamente l’invito suonerebbe come sollecitazione ad ammettere la responsabilità. La verità è che il legislatore interno non ha voluto rinunciare alle possibili (ma illusorie) ‘virtù deflattive’ della g.r. (sperando che un po’ di processi siano definiti fuori dai tribunali), e per far ciò ha dovuto snaturare lo strumento, rendendolo un po’ meno ‘altro’ dalla giustizia tradizionale: un pasticcio. Si dirà che l’imputato può comunque rifiutare l’invito del giudice: ma quale imputato resisterà al timore di dispiacere così a chi dovrà giudicarlo ed eventualmente commisurare la pena, riconoscere attenuanti, concedere benefici? Vi è poi un altro paradosso, determinato dalla previsione di una attenuazione di pena in caso di esito positivo della g.r.: in molte ipotesi la promessa di uno sconto della pena - pur a fronte di una determinazione di principio a difendersi, professando innocenza - può determinare una indebita pressione psicologica sull’imputato, specie se l’occasione per meritare quello sconto dipende da una iniziativa dello stesso giudicante. I problemi ora descritti verrebbero meno se al requisito della volontarietà si sostituisse quello della spontaneità dell’accesso alla g.r., inibendo al giudice di assumere iniziative rispetto all’invio ai percorsi di g.r., lasciandolo mero fruitore, non anche promotore del percorso riparativo. Solo così egli resterà autenticamente indifferente alle dinamiche della mediazione, di cui potrà semmai giovarsi se le parti, libere da qualsiasi condizionamento, vi avranno aderito, giungendo infine ad un esito positivo. *Avvocato penalista Aspetti positivi e negativi del “fiore all’occhiello” della riforma Cartabia di Adelmo Manna* Il Riformista, 29 giugno 2024 Di fronte a un reato, soprattutto se grave, si fa avanti il senso di vendetta della collettività che costituisce l’antitesi della Giustizia riparativa, ma che non è facile da esorcizzare. La giustizia riparativa costituisce il “fiore all’occhiello” della riforma Cartabia, tanto è vero che la stessa riforma, di cui al d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, è stata posticipata nella sua entrata in vigore al 30 dicembre dello stesso anno e, soprattutto, riguardo ai decreti attuativi attinenti alla giustizia riparativa, al 30 giugno 2023. Onde dimostrare i chiaroscuri della G.R., in un primo tempo gli aspetti operativi della stessa erano originariamente molto rigidi ma, per facilitarne l’avvio, in data 15 gennaio 2024 è stato pubblicato in G.U. il decreto del Ministro della Giustizia di modifica dei requisiti soggettivi per l’inserimento nell’elenco dei mediatori e delle cause di incompatibilità con l’esercizio dell’attività di mediatore esperto. Più in particolare l’intervento legislativo è stato “timido” perché, a livello di diritto penale sostantivo, ci si è limitati alla estinzione del reato per condotte riparatorie, limitatamente ai reati perseguibili a querela di parte, ed inoltre sono stati modificati gli artt. 62 n. 6, 152, 131 bis e 168 bis c.p.. Ciò per quanto riguarda il diritto penale sostanziale mentre per ciò che attiene al diritto processuale penale la norma fondamentale risulta l’art. 129 bis c.p.p. che facoltizza l’autorità giudiziaria, in ogni stato e grado del procedimento, di disporre l’invio dell’imputato e della vittima al centro per la G.R.. Anche l’ordinamento penitenziario è stato modificato, con riguardo soprattutto all’art. 13, ove al 3° comma si offre l’opportunità all’interessato di una riflessione sul fatto criminoso commesso, sulle motivazioni e le conseguenze prodotte, in particolare per la vittima, nonché sulle possibili azioni di riparazione. Sulla stessa falsariga si muovono anche i successivi artt. 13 bis e 15 bis. Stabilito ciò da un punto di vista esegetico, veniamo ora alle problematiche più squisitamente di politica criminale. Orbene, la differenza tra il concetto di pena subìta e quello di pena agìta, secondo la nota distinzione del Donini, ci sembra che fotografi esattamente la differenza fra la pena tradizionale, orientata ancora alla retribuzione, ed invece il modello, non solo italiano, della G.R. ove fra autore e vittima si dovrebbe instaurare un dialogo costruttivo sotto la guida del mediatore attraverso un percorso nell’ambito dell’ufficio di mediazione che consenta di riconoscere reciprocamente le proprie motivazioni sia all’autore che alla vittima del reato. Non c’è dubbio che la radice della G.R. sia di carattere cattolico, tanto è vero che fu propugnata dal Centro di Studi giuridici Federico Stella dell’Università Cattolica di Milano e dalla Caritas. Tale ascendenza ideologica però, non comporta un rifiuto di tale prospettiva per il laico, in quanto anche per quest’ultimo un percorso di mediazione tra l’autore del reato e la vittima comporta un benefico effetto sia a livello sociale, che anche in chiave costituzionale nell’ottica di un rafforzamento dell’art. 27, 3° comma, Cost., sia sotto il profilo dell’”umanità della pena”, sia sotto quello della rieducazione- risocializzazione. Gli aspetti non favorevoli alla G.R. riguardano reati senza vittima, oppure di criminalità organizzata, oppure ancora gravi fatti di sangue come i femminicidi, ove purtroppo la vittima è stata fisicamente eliminata. Tutto ciò, tuttavia, non basta per esprimere i dubbi sulla efficacia della G.R., perché, nell’ottica di Luhmann, dobbiamo tener conto che la società è divisa in tanti sottosistemi, per cui il reato costituisce un’indubbia frattura nell’ambito del sottosistema, che non è facile che venga ricomposta, proprio perché la reintegrazione del bene giuridico offeso o anche la G.R. possono non risultare sufficienti a ricucire la ferita che si è verificata nel sottosistema sociale di riferimento. Con ciò vogliamo significare che abbiamo l’impressione, nonostante l’esistenza di importanti esperienze straniere, sia europee che americane, che ancora la collettività non sia pronta ad accettare in toto la G.R., proprio perché di fronte a un reato, soprattutto se particolarmente grave, si fa subito avanti il senso di vendetta da parte della collettività, che costituisce l’antitesi della G.R. ma che non è facile esorcizzare, proprio perché nell’inconscio collettivo della popolazione la retribuzione è ancora purtroppo emotivamente la funzione che si esige dalla pena detentiva. *Professore emerito di diritto penale La riparazione dopo la condanna di Ornella Favero Il Riformista, 29 giugno 2024 “Tra gli strumenti che ci ha dato la Giustizia riparativa c’è la capacità di ascoltare la sofferenza che abbiamo inflitto”, racconti di un detenuto e di una vittima. “Omicidio di Carol Maltesi, i giudici dicono sì al reinserimento del killer con la giustizia riparativa”: è, questo, un titolo “esemplare” di quello che fa tanta informazione, prende un reato grave commesso di recente, una ragazza fatta a pezzi, e fa credere al lettore che, grazie alla Giustizia riparativa, l’assassino se la caverà con una pena da niente. Non è così, questa “strana” giustizia può però dare gli strumenti per lavorare sul tema dell’assunzione di responsabilità. A Padova, nella redazione di Ristretti Orizzonti, c’è un’esperienza consolidata che riesce, con questi strumenti, l’ascolto, la narrazione di sé, lo scavare dentro la propria vita, la mediazione anche, a trasformare la pena rabbiosa in una pena riflessiva. Lo raccontano una persona detenuta, Marino, e Silvia Giralucci, vittima di un omicidio che l’ha privata del padre. Marino O.: Ricordo la prima volta in cui abbiamo ascoltato il racconto delle vittime Quando cominciarono ad entrare in carcere le scolaresche nel Progetto di confronto tra le scuole e il carcere che facciamo come Ristretti Orizzonti, entrarono pure le prime vittime anche se vittime di reati “minori”. Ricordo una studentessa che aveva subito un furto in casa, e noi spesso minimizziamo queste realtà, lei invece ci raccontò che quel furto le aveva un po’ rovinato la vita, perché dopo quell’esperienza aveva paura a tornare a casa, paura ad uscire. Poi ci fu la professoressa che ci raccontò di essere stata presa in ostaggio in una rapina in banca, anche in quel caso, e come quel fatto avesse influito tantissimo sulla sua serenità. Mentre per chi di noi aveva rapinato banche, era tutto un minimizzare “io prendo i soldi alla banca, l’assicurazione paga…”. E poi ricordo quando nel 2008 ci fu qui in carcere un convegno dove era presente Silvia Giralucci. Silvia ha perso… no, le è stato ucciso il papà quando aveva tre anni. Quel giorno ci raccontò di quella che era stata la sua sofferenza, e mi ricordo io e tanti miei compagni detenuti non riuscivamo a smettere di piangere. E ricordo che un giorno io le chiesi: “Hai mai pensato di fare un incontro di mediazione con le persone che hanno ucciso tuo papà?”, e lei disse: “No perché io vivo con un cappotto di dolore e non voglio che neanche chi ha ucciso mio papà quel cappotto possa toglierselo”. Quando Silvia parlava, mi ricordo che davvero era una pena che graffiava il cuore, perché poi c’è l’immedesimazione, io sono direttamente responsabile, nella mia vicenda giudiziaria, che purtroppo è molto più ampia, anche di una rapina ad un furgone portavalori, dove io all’inizio dicevo: “Ho partecipato ad una rapina a un furgone portavalori, dove è morta una guardia giurata”. È morta una guardia… Per dire delle cose bisogna a volte, quando ci si trova di fronte alle persone, soprattutto quelle che hanno subito le conseguenze delle nostre azioni, che siano mie vittime direttamente o vittime indirette poco cambia, bisogna avere l’accortezza di usare le parole giuste. E pensare che oggi ci sono io che sono condannato all’ergastolo per il reato di omicidio, e ci sono persone di fianco a me che non hanno più un familiare a causa di gesti come il mio è una cosa importante, che apre un dialogo, ma aiuta ad aprire un dialogo anche con sé stessi. E questo porta a delle svolte per entrambe le parti, che oggi ci siano persone così lontane che invece sono fianco a fianco è sicuramente importante. Tra gli strumenti che ci ha dato la Giustizia riparativa c’è proprio la capacità di ascoltare, ascoltare la sofferenza che abbiamo inflitto, il dolore che abbiamo causato. Il racconto di Silvia Giralucci Io ho perso papà quando avevo tre anni. Quando ero bambina mi capitava che mi chiedessero: “E la tua famiglia? Non parli mai del tuo papà”, e io dovevo dire che era stato ucciso. E a quel punto seguiva la domanda: “E come?”, e così dovevo rispondere: “Dalle Brigate Rosse”. A quel punto l’interlocutore era devastato perché mi aveva creato imbarazzo, e io anziché trovare supporto per me, dovevo anche cercare di supportarlo. Sono entrata in carcere col preciso intento di dire finalmente ai detenuti quello che provavo, di raccontare come mi sentivo e soprattutto di fagli sapere che non accettavo che loro dicessero che finita la pena avevano pagato il loro debito con la giustizia, perché il loro debito con me non lo avrebbero pagato mai, io il peso lo portavo tutti i giorni, per sempre, e mi aspettavo che lo portassero anche loro. Che cosa è successo quel giorno? Quello che è successo a loro lo ha raccontato Marino, quello che è successo a me è che per la prima volta mi son sentita ascoltata, ho sentito che potevo trovare qualcuno che avesse la forza di ascoltare questa storia così terribile e in qualche modo di condividerla. Negli anni successivi questa esperienza di volontariato in carcere mi ha offerto il modo di dare un senso alla mia storia, perché se raccontarla e condividere questo peso poteva aiutare qualcuno a riflettere su quello che aveva fatto e a tornare alla società diverso, la mia storia poteva avere un senso. E poi è diventata una riflessione di tipo politico: se quello che viene istintivo quando uno commette il reato è dire: “Bene, tu hai commesso un reato, non sei degno di stare in questa società, noi ti chiudiamo e per dare un senso di giustizia alla vittima, diamo la pena più dura possibile e buttiamo via la chiave”, ecco, quello che vorrei testimoniare è che non c’è nessuna terribile pena che possa lenire il dolore di una vittima. Quello che lo lenisce è il riconoscimento e la presa in carico da parte della società di quel dolore, e questo è molto più difficile che infliggere una pena a chi ha sbagliato, che comunque dovrà tornare in società. Per questo ci conviene dare un senso alla pena. Io non vengo a fare la volontaria in carcere perché sono buona, lo faccio perché mi conviene che tornino in società persone migliori di come sono entrate qui. *Ristretti Orizzonti Norma anti-Gandhi, carcere per chi blocca una strada: “A rischio i sit-in degli studenti” di Angela Stella L’Unità, 29 giugno 2024 Sì in commissione all’articolo del Ddl sicurezza, respinti gli emendamenti delle opposizioni che denunciano: “A rischio anche gli studenti in sit-in”. Dopo una serie di sedute sconvocate nei giorni scorsi le commissioni Affari costituzionali e Giustizia alla Camera hanno ripreso ieri l’esame del ddl Sicurezza che dovrebbe arrivare in Aula il 25 luglio. In particolare i deputati hanno votato diversi emendamenti riferiti all’articolo 10 sul “daspo urbano” e all’articolo 11 sui blocchi stradali. Quest’ultimo prevede fino a un mese di carcere per chi, da solo, impedisce la circolazione su strade o binari delle ferrovie. Pena che aumenta fino a due anni se a bloccare la circolazione di veicoli o treni sono più persone insieme. Le opposizioni, con diversi emendamenti, hanno tentato di non modificare la normativa esistente, accusando la maggioranza di voler “impedire il diritto di manifestare, anche a quelli che vogliono fare un sit-in”, ad esempio agli studenti. Secondo il capogruppo di Avs in commissione Giustizia Devis Dori “il testo di questo provvedimento è stato scritto da qualcuno che aveva un manganello in mano, non una penna”. L’articolo 11 “è noto come articolo ‘anti-Gandhi’, quello che dispone arresti per chi attua blocchi stradali con resistenza passiva. Una follia che comprime il diritto di manifestare, da oggi la nonviolenza è reato”, ha aggiunto Dori. “Siamo ancora in tempo, il governo si fermi. Il disegno di legge in tema di sicurezza urbana contiene norme sbagliate e pericolose”. E’ stato l’appello del capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, Federico Gianassi. “Siamo nella fase di voto sugli emendamenti, ma la maggioranza - spiega - va avanti: nuovi reati, criminalizzazione della resistenza passiva, galera per le donne incinte e per le madri con neonati. Stiamo assistendo da tempo ad una strategia del governo in materia di sicurezza e giustizia totalmente fallimentare. Al contrario degli annunci del ministro della giustizia Carlo Nordio, che aveva detto che l’introduzione di nuovi reati non produce maggiore sicurezza, il governo sta continuando a sfornare reati su reati”. “Se questo provvedimento diventerà legge non risolverà i problemi presenti nelle città italiane, restringerà le libertà e non portando alcun risultato positivo indurrà il governo, anziché ad ammettere l’errore, ad adottare ulteriori provvedimenti ancora più restrittivi: finiremmo in una spirale perversa e pericolosa che deve essere subito fermata”, ha concluso il parlamentare dem. “Con la trasformazione del blocco stradale e ferroviario da illecito amministrativo a reato di protesta di gruppo, il governo mira a colpire il diritto dei cittadini a manifestare contro quello che si ritiene sia un fatto ingiusto, criminalizza il dissenso pacifico e meramente passivo. Lo stesso prevede per la protesta pacifica in carcere, proprio mentre i suicidi nelle celle si susseguono e il disagio è diventato un’emergenza. Quello che vuole fare questo governo è veramente spaventoso”, è stato invece il commento del deputato M5S, Federico Cafiero De Raho, vicepresidente della commissione Giustizia. Gli emendamenti delle opposizioni sono stati tutti respinti. Invece la Lega ha ritirato una serie di emendamenti che erano stati per il momento accantonati. Tra questi anche quello che prevede la non punibilità per i pubblici ufficiali che “al fine di adempiere un dovere” usano o fanno usare armi o altri strumenti di coercizione fisica anche quando “vi sono costretti dalla necessità di respingere una violenza o vincere una resistenza attiva o passiva all’autorità”. Ritirati anche gli emendamenti leghisti sull’utilizzo di strumenti di controllo di sicurezza sui mezzi di trasporto pubblico e sul divieto degli arresti domiciliari per resistenza, violenza o minaccia a pubblico ufficiale. Dietrofront anche sull’obbligo di arresto in flagranza per chi durante una manifestazione usa caschi o altro per rendere difficoltoso il proprio riconoscimento. Il Ddl Sicurezza contro i blocchi stradali di “Ultima generazione” e pro-Palestina di Francesca Galici Il Giornale, 29 giugno 2024 Reclusione fino a 2 anni per chi, in gruppo, blocca strade e ferrovie: è il contenuto nel ddl Sicurezza con il quale si inaspriscono le pene per le manifestazioni pericolose non autorizzate. Stop ai blocchi stradali e ferroviari con il ddl Sicurezza all’esame delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera. Nonostante le proteste delle opposizioni, secondo le quali si tratta di un dispositivo realizzato allo scopo di “impedire il diritto di manifestare, anche agli studenti che vogliono fare un sit-in”, l’articolo 11 del ddl Sicurezza va a modificare il reato di blocco stradale e ferroviario da amministrativo a penale. Gli studenti, per fare i sit-in, hanno le piazze o possono chiedere le autorizzazioni alla questura, quindi la rimostranza delle opposizioni non coglie il punto, perché ignora completamente lo scopo, che è quello di evitare i blocchi di tangenziali e strade primarie nelle ore di punta da parte degli attivisti, causando enormi problemi alla circolazione. Chi blocca il traffico commette un reato - Pari scopo ha la disposizione sulle strade ferrate, sempre più spesso obiettivo dei manifestanti, che hanno l’obiettivo di causare ritardi, anche gravi, alla circolazione dei treni, anche dell’alta velocità, come accaduto già a Torino e Bologna. Per le manifestazioni esistono molte soluzioni e queste non possono implicare enormi disagi ai fruitori dei servizi pubblici essenziali: questa è la ratio del ddl Sicurezza in estrema sostanza. Gli emendamenti proposti dalle opposizioni sono stati bocciati e il ddl è passato in commissione nella sua forma originale, che prevede fino a un mese di carcere per chi, da solo, impedisce la circolazione su strade o binari delle ferrovie. Pena che sale fino a due anni di reclusione per chi compie le stesse azioni in gruppo. L’articolo 11 va a modificare l’articolo 1-bis del dlgs del 22 gennaio 1948, n. 66, relativo all’impedimento della libera circolazione su strada, che sanziona amministrativamente “colui che impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo”. Da amministrativa si passa a penale con la reclusione fino a un mese o un’ammenda fino a 300 euro. Mentre, in caso di gruppi che effettuano il blocco, come detto la reclusione sale fino a due anni o a una sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.000 a 4.000 euro. M5s, Pd e altri partiti alle opposizioni parlano di “deriva reazionaria” da parte del governo ma l’unica cosa che si vuole evitare è il blocco della circolazione. Troppo spesso si sono viste immagini di code chilometriche su tangenziali, statali e autostrade, causate da attivisti che, ignorando il pericolo, invadono le carreggiate impedendo ai cittadini di andare a lavoro, a fare cure mediche o assistere parenti malati. Situazioni che in più d’una occasione hanno causato anche tensioni che solo per il self-control degli automobilisti non sono degenerate. Lo stesso i blocchi ferroviari, che hanno avuto ripercussioni su tutta la rete a livello nazionale, causando ritardi e fortissimi disagi ai passeggeri. Lazio. Le carceri sotto pressione: ci sono 1.500 detenuti in più e 930 agenti in meno di Francesco Paravati rainews.it, 29 giugno 2024 Dopo il caso del 21enne che si è tolto la vita in cella a Frosinone riemerge il problema del sovraffollamento nei penitenziari. L’assessore Regimenti prepara un piano anti suicidi. Era in custodia cautelare per stalking il 21enne che si è tolto la vita in carcere a Frosinone respirando il gas della bomboletta da campeggio che i detenuti usano per cucinare. Pochi giorni prima era stato ricoverato per le sue condizioni psichiatriche, poi tornato in cella si è tolto a vita. È il terzo suicidio dell’anno nelle carceri del Lazio sovraccariche di quasi 1500 detenuti in più rispetto alla capienza ufficiale. Nei 14 istituti penitenziari della regione c’è posto solo per 5281 persone, invece sono rinchiusi in 6779. Regina Coeli è il carcere più sovraffollato: ospita 500 detenuti in più di quanto potrebbe e vanta il triste primato nazionale di 5 suicidi in un anno. Al sovraffollamento si aggiungono i 930 agenti di polizia penitenziaria che mancano nei 14 istituti penitenziari laziali. Una pentola a pressione in cui è difficile sopravvivere da soli, l’assessore alla sicurezza della Regione Luisa Regimenti ha annunciato un piano per la prevenzione dei suicidi in carcere. Ieri poi è stata una giornata campale in tutta la Regione, a Regina Coeli la rivolta dei detenuti che hanno dato fuoco ai materassi e allagato le celle dopo che erano state trovati e sequestrati alcool droga e telefoni. A Civitavecchia un detenuto con un coltello realizzato in carcere ha aggredito 4 agenti infine una rissa dei detenuti nell’istituto minorile di Casal del Marmo dove ci sono 15 minori in più dei 50 previsti. Sicilia. Politiche sociali, 9 milioni di euro per l’inserimento lavorativo dei detenuti sicilia-fse.it, 29 giugno 2024 Sostenere l’inclusione sociale delle persone svantaggiate rafforzandone l’occupabilità attraverso iniziative di formazione e inclusione professionale. Con questo obiettivo, l’assessorato regionale della Famiglia e delle politiche sociali ha pubblicato un avviso pubblico per la presentazione di progetti per l’inserimento socio-lavorativo dei soggetti che stanno scontando una pena. Le risorse finanziarie ammontano a 9.166.293 euro a valere sul programma FSE+ Sicilia 2021-2027. “Con questo provvedimento - dice l’assessore regionale alla Famiglie e alle politiche sociali, Nuccia Albano - incentiviamo l’inclusione, sosteniamo le pari opportunità e combattiamo la discriminazione favorendo la partecipazione attiva e l’occupabilità di soggetti socialmente fragili. Credo fermamente nel principio della finalità rieducativa della pena e il detenuto, dopo averla scontata, deve essere messo nelle condizioni di poter tornare a una vita normale. Perciò, va supportato nel percorso di reinserimento nel mondo del lavoro. Questo è un primo avviso, nei prossimi mesi ne seguirà un altro dello stesso importo”. I soggetti che possono presentare istanza di finanziamento sono gli enti di formazione e le agenzie per il lavoro che partecipano in forma associata con organismi del Terzo settore che operano in favore della rieducazione e dell’inserimento sociale. La proposta progettuale, ai fini dell’ammissibilità, deve coinvolgere attivamente gli istituti penitenziari o gli uffici di esecuzione penale esterna, o i servizi minorili (uffici di servizio sociale per i minorenni e istituti penali per minorenni) interessati, al fine di verificare il fabbisogno e la sostenibilità organizzativa dell’operazione progettuale. Il target di riferimento è rappresentato dai soggetti condannati detenuti o ammessi a misure alternative, inclusi minori, cittadini di Paesi terzi, migranti e comunità emarginate. La presentazione dell’istanza di finanziamento dovrà avvenire esclusivamente mediante il supporto del sistema informativo, accedendo preliminarmente al sito www.sicilia-fse.it. L’avviso si inserisce nel percorso avviato dalla Regione Siciliana con la sottoscrizione dell’Accordo interregionale transnazionale “Interventi per il miglioramento dei servizi per l’inclusione socio-lavorativa dei soggetti in esecuzione penale” del 27 aprile 2011 promosso Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. L’avviso è pubblicato a questo link: https://www.sicilia-fse.it/documenti-e-dati/documenti/avviso-122024-pr-fse-2021-2027 Frosinone. Suicidio in carcere, il 21enne aveva problemi di salute mentale di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 29 giugno 2024 Era in attesa del processo, aperta un’inchiesta. È morto in cella, dopo avere inalato il gas della bombola del fornello da campeggio. È il terzo caso in Italia in poco più di 24 ore. È accaduto al carcere di via Cerreto, a Frosinone. La vittima è un ragazzo italiano di 21 anni. L’episodio è avvenuto nel pomeriggio di giovedì, poco prima delle 15. La Procura ha aperto un fascicolo e sono in corso gli accertamenti da parte degli investigatori, ma sembrano esserci pochi dubbi sulle modalità del suicidio. La salma è a disposizione dell’autorità giudiziaria e non è escluso che sia disposta l’autopsia. Sono stati anche acquisiti i documenti relativi alla detenzione e la cartella clinica della giovane vittima. Il ragazzo, infatti, aveva problemi di salute mentale, era stato spesso in ospedale e di recente e aveva subito anche un “Tso”, il trattamento sanitario obbligatorio. Aspettava di essere processato per minacce, la sua era una detenzione preventiva. Cosa sia successo e perché abbia compiuto l’estremo gesto è tutto da capire, resta il fatto che a togliersi la vita sono, sempre più spesso, i detenuti che non hanno ancora una pena da scontare ma sono in carcere aspettando il giudizio. A trovare il corpo del ragazzo, che era in cella da solo, un agente della polizia penitenziaria che si è accorto del fatto che il giovane non rispondeva e non usciva dal bagno. “È una tragica e spaventosa sequenza” - dicono dal sindacato Uilpa, denunciando, fra l’altro, anche un’aggressione - l’ennesima - sempre nel carcere di Frosinone e sempre giovedì. Un agente è finito in ospedale con la frattura di un piede. “Chiediamo come facciano a prendere sonno coloro che ne hanno, innegabilmente, la responsabilità politica e morale” - dichiara Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa. “È’ un fatto triste e grave” dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe, il quale sottolinea: “È ora che al posto delle pericolosissime bombolette a gas, a volte trasformate anche in bombe contro il personale, si dotino le carceri di piastre elettriche per riscaldare il cibo dei detenuti”. Per Massimo Costantino, segretario generale Fns Cisl Lazio “più volte il ragazzo aveva dato segnali di disagio psichico”. Non solo patologie e carcerazione preventiva, ma anche sovraffollamento: “Ci sono 1.498 detenuti in più rispetto alla capienza dei 14 istituti del Lazio - sono i dati forniti dalla Cisl - risultano infatti 6.779 su un massimo di 5.281”. “Tutto tace e quel poco che sentiamo non ci piace: nuovi reati, pene più alte, l’idea che la sofferenza e le proteste in carcere si affrontino con le maniere forti: ordine, disciplina e ulteriori punizioni”, le parole di Stefano Anastasia, garante per i diritti dei detenuti. “Una strage silenziosa che prosegue nell’indifferenza del dibattito pubblico - le parole di Claudio Marotta, capogruppo per Alleanza Verdi e Sinistra in Consiglio Regionale del Lazio - le gravi condizioni in cui versano le nostre carceri sono una vergogna che deve essere affrontata con urgenza”. Per l’assessore regionale a personale e sicurezza urbana, Luisa Regimenti: “L’ennesimo suicidio in un istituto penitenziario, rappresenta una sconfitta per lo Stato. In Regione Lazio stiamo lavorando ai nuovi bandi per il reinserimento sociale dei detenuti e per garantire il diritto all’istruzione. Intendo, inoltre, essere promotrice di un tavolo di lavoro interistituzionale che, recependo un atto di indirizzo della Conferenza unificata mai attuato nel Lazio, coinvolga il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, il garante delle persone private della libertà personale, le Asl e le associazioni che operano negli istituti penitenziari. L’obiettivo è quello di elaborare un piano regionale per la prevenzione dei suicidi negli istituti penitenziari”. Torino. Pesa 160 chili, bloccato in cella da un anno: “Fatemi uscire”. E il giudice scrive al Dap di Elisa Sola La Stampa, 29 giugno 2024 Al centro clinico del carcere Lorusso e Cutugno un detenuto obeso non può muoversi dalla stanza al terzo piano. Manca anche l’ascensore. Costretto “all’ozio totale” perché pesa 160 chili. Intrappolato da un anno e mezzo in una cella. Prigioniero per la condanna che deve espiare. Prigioniero del suo stesso peso. Dal febbraio del 2023 Antonio Epicoco, 50 anni e 15 ancora da scontare per un omicidio commesso nel Montenegro nel 1998, vive bloccato. Non può alzarsi dalla sedia a rotelle. Non può fare due passi durante l’ora d’aria. Non può vedere nessuno. Vive al terzo piano del centro clinico del Lorusso e Cutugno, insieme ai carcerati come lui che hanno problemi di salute. Un luogo dove non c’è l’ascensore, nemmeno un montacarichi. L’altro giorno, all’udienza davanti al tribunale di sorveglianza, il suo avvocato difensore Roberto De Sensi ha esclamato: “Signor giudice, qui se c’è un incendio o un terremoto muoiono tutti, non li possono spostare”. Quando Epicoco è entrato alle Vallette, nel 2023, pesava 158 chili. Da alcuni mesi ha superato i 160. È un uomo in trappola. I suoi legali il quattro giugno hanno chiesto al tribunale di sorveglianza di Torino il rinvio dell’esecuzione della pena o i domiciliari per “gravi problemi di salute”. “È affetto da un quadro pluri patologico, polmonare, metabolico e cardiologico, costantemente collegato con il dispositivo che dispensa l’ossigeno”, la denuncia degli avvocati De Sensi e Cinzia Cavallo, che alla presidente Elena Bonu hanno detto: “Ha bisogno di assistenza per ogni movimento. Di fatto è costretto all’immobilità e all’ozio totale. Non può essere rieducato. Vive in condizioni disumane”. Il tribunale ha rigettato la richiesta anche perché, sottolinea la giudice, il detenuto peggiora “anche per via di alcune abitudini contro indicate assunte dal soggetto stesso, che non ha interrotto il fumo attivo”. Inoltre Epicoco, che soffre di obesità e patologie correlate dal 2010, per i giudici starebbe meglio in carcere che a casa della madre, dove ha chiesto di andare. Al Lorusso e Cutugno “gli vengono dispensate le cure necessarie”, scrivono. Ma sulla pericolosità della struttura dove tuttora è bloccato l’uomo, è lo stesso tribunale di sorveglianza a bacchettare il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) riguardo a quella che la difesa definisce “una palese violazione della normativa antincendio, non essendo prevista, in caso di forzosa evacuazione, alcuna possibilità di utilizzare vie di fuga”. Tutti i detenuti malati ristretti qui sarebbero in pericolo in caso di incendio o terremoto. Nessuno li può spostare senza un ascensore. Per il tribunale si tratta di “legittimi dubbi” che “meritano considerazione”. Nell’ordinanza i giudici segnalano la situazione al Dap affinché valuti “l’effettiva sussistenza delle condizioni di sicurezza per garantire, in caso di necessità di evacuazione d’urgenza dell’edificio, l’incolumità di tutti gli occupanti, anche quelli affetti da grave impedimento nella deambulazione” Anche i legali del detenuto obeso hanno scritto al Dap. Non hanno ricevuto risposta. Milano. Carcere di Opera, 170 metri quadri per costruirsi il dopo di Ilaria Dioguardi vita.it, 29 giugno 2024 Nell’istituto penitenziario milanese inaugurato il laboratorio della scuola edile. Regina De Albertis, Assimpredil-Ance: “Cerchiamo di unire due esigenze: la mancanza di manodopera nel nostro settore e il bisogno di dare una seconda possibilità a persone che, dopo un periodo in carcere, vogliono cercare di ricostruirsi una vita ed essere reintrodotti nella società”. Sono saliti a 48 i suicidi nelle carceri italiane in questi primi sei mesi del 2024. L’ultimo detenuto a togliersi la vita aveva solo 21 anni, nato in Italia di seconda generazione, si è suicidato nel carcere di Frosinone inalando gas dalla bomboletta di campeggio. Ieri si sono verificati dei disordini nel carcere romano di Regina Coeli, dove un’ottantina di detenuti si è rivoltata appiccando il fuoco e distruggendo numerose celle: l’istituto penitenziario della Capitale è tra i più sovraffollati, ha raggiunto un sovraffollamento del 181,8% (dati di fine marzo da Nodo alla gola, il XX rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione). Su VITA vogliamo tenere alta l’attenzione sulla situazione carceraria, raccontando anche di aziende e associazioni che, coraggiosamente, collaborano a progetti di recupero. Nel carcere di Opera, a Milano, ha inaugurato il laboratorio della scuola edile, come previsto dal protocollo firmato lo scorso anno dall’Amministrazione penitenziaria di Opera, Assimpredil Ance, Feneal Uil, Filca Cisl, Fillea Cgil, Esem-Cpt, Umana SpA, Fondazione Don Gino Rigoldi per incrementare le opportunità di lavoro tra le persone detenute e favorire il loro reinserimento sociale. L’obiettivo della scuola edile è quello di sviluppare un’attività formativa costante, partendo dalla figura del manovale, ma non escludendo di poter, nel tempo, innescare meccanismi di valorizzazione delle diverse competenze già presenti tra i carcerati interessati al lavoro nel settore delle costruzioni. Tutor specializzati e docenti esperti - Le modalità di inserimento lavorativo verranno, di volta in volta, definite in base alle opportunità di lavoro secondo le esigenze delle aziende e le possibilità dei singoli detenuti, nell’ambito dei programmi di trattamento predisposti dalla direzione dell’istituto penitenziario e sottoposti alla magistratura di sorveglianza per l’approvazione. L’edificio dove si trova il laboratorio è stato ristrutturato e attrezzato da Esem-Cpt, che ne ha curato la parte funzionale e lo ha dotato dei materiali e attrezzature necessarie per il corso base di manovale. Gli alunni, infatti, realizzeranno delle piccole casette in muratura potendo in tal modo apprendere le modalità operative che poi serviranno in cantiere nella esecuzione delle opere. I detenuti saranno affiancati da tutor specializzati per l’accompagnamento motivazionale e personale oltre che da docenti di consolidata esperienza in cantiere. Uno spazio attrezzato di 170 metri quadri - “Nel laboratorio di 170 metri quadri, stabile e appositamente attrezzato, gestito da Esem-Cpt, si svolgeranno le attività di formazione edile intramuraria per la promozione di attività lavorative extra murarie da parte di persone in stato di detenzione”, dice Regina De Albertis, presidente Assimpredil Ance, Associazione delle imprese edili e complementari delle province di Milano, Lodi e Monza Brianza. Unire due esigenze: mancanza di manodopera e bisogno di una seconda chance - Un anno e mezzo fa l’idea di questa scuola è nata con don Gino Rigoldi (presidente Fondazione Don Gino Rigoldi ed ex cappellano del carcere Cesare Beccaria, ndr), “cercando di unire due esigenze: la mancanza di manodopera nel nostro settore, che è un problema grandissimo, e parallelamente un altro bisogno, che è ancora più grande, che è quello di dare una seconda possibilità a persone che, dopo un periodo in carcere, vogliono cercare di ricostruire una loro vita ed essere reintrodotti nella società”, continua De Albertis. “Abbiamo pensato che riuscire a realizzare un laboratorio all’interno del carcere fosse la modalità migliore per formare le persone all’interno della loro struttura e poi, via via, riammetterli nel mondo del lavoro, all’inizio nel regime di detenzione mista: escono di giorno per andare a lavorare, la sera rientrano in carcere”. Dieci detenuti già formati - Per arrivare al compimento della struttura in cui effettuare il laboratorio ci è voluto del tempo. “Ma non volevamo fermarci in questa fase di mezzo. Noi, associazione degli imprenditori, e i nostri sindacati abbiamo una scuola edile che si occupa della formazione dei nostri lavoratori a 360 gradi. Abbiamo pensato di usare la nostra scuola anche per formare i detenuti. Li abbiamo trasportati nella nostra scuola edile a Pioltello”. Sono stati già formati 10 detenuti che ora, di giorno, lavorano nelle imprese e la sera rientrano in carcere. “Con l’apertura di una scuola operativa nel carcere non ci sarà più bisogno di trasferire i detenuti, ma i nostri insegnanti andranno nel carcere a formarli, con problemi logistici e gestionali che vengono meno”, prosegue De Albertis. “Avendo una struttura all’interno dell’istituto penitenziario, speriamo che il numero dei detenuti possa salire sempre di più”. Dopo la selezione, l’inizio della formazione - Ora è il momento della selezione delle persone, dal prossimo autunno inizia la formazione. “Abbiamo fatto un grosso lavoro anche con la rete degli imprenditori”, spiega, “all’inizio c’è un po’ di ritrosia ad assumere una persona che è in regime misto di carcerazione, ma hanno espresso un grosso senso di responsabilità e sta aumentando il numero delle imprese disponibili”. E dopo la scuola? Finito il periodo di carcerazione, si spera che i detenuti che hanno appreso un lavoro possano continuare in una professione nell’edilizia. “Posso dire che il lavoro edile ha grandissime potenzialità, il contratto edile è tra i più cari in assoluto, per il lavoratore c’è una grande assistenza”. Torino. A più di 80 anni prende il diploma in carcere con 90 su 100: “Voglio sognare ancora” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 29 giugno 2024 È uno dei nove detenuti hanno scelto l’indirizzo socio-sanitario con gli insegnanti dell’istituto Giulio. C’è tanto riscatto, una grande emozione e soprattutto molta soddisfazione. Ognuno di loro si è impegnato per superare le difficoltà incontrate in carcere, per qualcuno, detenuto nella sezione dell’alta sicurezza, lo studio sui libri e le lezioni con gli insegnanti hanno rappresentato un’ancora di salvezza, un appiglio di sopravvivenza psicologico e anche un importante spiraglio sul futuro. Se affrontare l’esame di maturità non è mai semplice per nessuno, farlo da detenuto è ancora più complesso e coinvolgente. Tanto per chi si è messo in gioco, quanto per gli insegnanti che li hanno preparati, spronati e osservati crescere e cambiare. Nove ristretti al carcere Lorusso e Cotugno di Torino, si sono diplomati, nei giorni scorsi, dopo aver frequentato l’indirizzo socio-sanitario con un gruppo di insegnanti dell’istituto Giulio di Torino che è andato nel penitenziario per far loro lezione. Tra gli studenti che hanno affrontato la grande prova c’è anche un detenuto con oltre 80 anni, che ha scelto di diplomarsi, come ha spiegato durante la prova, per mettersi in gioco e poter forse sognare ancora, ritrovando scampoli di normalità attraverso i libri e il confronto con i docenti. Rivelandosi, tra l’altro, uno dei migliori studenti, tra i quattro cioè che hanno preso un voto superiore al 90 su 100. Sono state tante le problematiche che hanno dovuto affrontare, dal sovraffollamento alla mancanza, per qualcuno, di un luogo dove poter studiare, dal problema del dover saltare l’ora d’aria all’isolamento a cui qualcun altro era sottoposto. Hanno però trovato il conforto dei docenti, la sensibilità della commissione arrivata per esaminarli e la collaborazione degli agenti di polizia penitenziaria, l’aiuto dei volontari dell’associazione “Se non Sai non Sei”, composta da insegnanti in pensione e non solo. Il gruppo di studenti, di varia nazionalità, era per altro composto per la maggioranza da detenuti in regime di alta sicurezza. I temi affrontati nel corso scelto poi, li hanno toccati particolarmente da vicino: il corso infatti prevede lezioni di psicologia, di diritto, oltre alle classiche materie di italiano, storia, inglese, matematica, hanno affrontato lezioni sulle droghe e le dipendenze e hanno studiato le malattie degli anziani, le loro fragilità e bisogni, imparando concretamente come funziona il sistema del welfare, le differenze di contributi e pensioni. Tra i temi che li hanno più emozionati durante il corso di preparazione c’è stato quello della “banalità del male” che li ha visti interrogarsi, mettersi allo specchio e in discussione, confrontandosi tra loro e con se stessi. È attraverso i libri, i quaderni, le dispense e le interrogazioni che hanno conosciuto meglio se stessi, superando i limiti, della lingua, del luogo e, per qualcuno, dell’età. E hanno imparato a mettersi al servizio degli altri, oggi all’interno del carcere e domani per tutti, nell’ambito socio-sanitario o chissà. Civitavecchia (Rm). Mogol racconta le sue canzoni ai detenuti e invita alla poesia di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 giugno 2024 Ha cantato insieme ai detenuti, agli operatori penitenziari e a tutti gli ospiti i suoi brani più famosi, accompagnato al pianoforte dal maestro Gioni Barbera. Giulio Rapetti Mogol ha regalato ieri emozioni nella casa circondariale di Civitavecchia ma, soprattutto, ha offerto alle persone che stanno scontando una pena, un percorso importante di formazione e di crescita culturale. Un progetto che inizia con un concorso di poesia. “Anima Forte”, voluto dal maestro e realizzato, come lui stesso ha tenuto a specificare, insieme all’Università Cà Foscari di Venezia e alla società Dante Alighieri. “Abbiamo deciso di proporre ai detenuti di cimentarsi nella scrittura di poesie brevi che, in prospettiva, raccoglieremo in un libro” ha detto Mogol, che ha ringraziato i presenti “perché mi hanno fatto il regalo di esprimere con tanti applausi la loro gratitudine”. “Il concorso di poesie rientra nel progetto ‘Anima Forte’ che inizia da questo istituto ma si estenderà a tutto il territorio nazionale, in quanto il CET Centro Europeo Toscolano, l’associazione presieduta dal paroliere, ha stipulato una convenzione triennale con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per realizzare insieme iniziative mirate alla crescita culturale dei ristretti” ha spiegato la direttrice della casa circondariale Patrizia Bravetti. “La poesia è fondamentale nei momenti di fragilità, come quello della detenzione -ha commentato Fabio Caion dell’Università Ca’ Foscari - perché offre l’opportunità di vedere il mondo da un’altra prospettiva. Credo che in questo si possa sintetizzare il senso del concorso”. La presenza di Mogol nel circondariale di Civitavecchia per il lancio del progetto è stata programmata in occasione della settimana della “Festa della Musica” e ha rappresentato “un momento di condivisione molto apprezzato dai detenuti - ha aggiunto Patrizia Bravetti - perché il maestro ha raccontato anche la storia di alcune canzoni e ha lasciato intravedere momenti del proprio vissuto”. Emozionante, ascoltata dalla voce del suo protagonista la storia, entrata nella leggenda, della nascita di Arcobaleno, brano scritto per Celentano con Gianni Bella. Racconta il suo autore che una medium spagnola gli riferì di aver ricevuto un messaggio da Lucio Battisti che dall’aldilà le chiedeva di scrivere un brano indicandogli, titolo, frasi iniziali e parole contenute all’interno di un volume che avrebbe trovato in una libreria. Lo scettico e pragmatico Mogol all’inizio non ascoltò la medium ma, in seguito, altri segni e coincidenze lo convinsero a comporre, in soli 15 minuti, uno dei testi più belli della musica leggera italiana, interpretato da Adriano Celentano con toni intimi e rispettosi del mistero che circonda la sua origine. “Se emoziona così - ha commentato Mogol - vuol dire che l’Arcobaleno non riguarda solo questa realtà, evidentemente non si spegne con la morte”. Detenute, chi sono le donne senza libertà di Alessandra Vescio Marie Claire, 29 giugno 2024 “Così come il carcere è distillato e persino avamposto della vita per quanto riguarda sentimenti e cambiamenti sociali, allo stesso modo lo è per la condizione delle donne. Proprio come succede fuori, anche dentro le donne stanno peggio degli uomini”. Scrive così la giornalista e scrittrice Daria Bignardi nel suo ultimo libro “Ogni prigione è un’isola”, in cui racconta della condizione delle carceri italiane. Bignardi da molti anni svolge attività di volontariato in carcere, un’esperienza che le ha permesso di conoscere bene i limiti, la violenza e l’inutilità del sistema attuale, come le hanno confermato anche alcune persone che ci lavorano. “Il carcere è la cosa più stupida che esista”, le ha detto ad esempio Michele, ispettore di polizia penitenziaria. Se ciò è valido per tutti, lo è in particolare per le donne. Costituendo poco più del 4% del totale delle persone detenute in Italia, le donne sono condannate principalmente per reati meno gravi rispetto agli uomini e con pene inferiori. Molte di loro provengono da contesti di marginalizzazione sociale, di violenza e abusi, e spesso finiscono in carcere “per aver protetto un uomo o perché sono state sfruttate da un uomo”, scrive Bignardi. È soprattutto in questi casi, sostiene la professoressa associata di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale Francesca Vianello, che il carcere non rappresenta una soluzione: “Per il tipo di struttura che è, per cui riduce al massimo i contatti con l’esterno e con la famiglia, rischia infatti di diventare un ulteriore ostacolo al reinserimento sociale. Piuttosto, bisognerebbe prevedere forme di esecuzione penale esterna, come misure di affidamento al servizio sociale”. Secondo Vianello, infatti, “il contenitore carcere potrebbe avere senso solo qualora riuscisse a funzionare come collettore di disponibilità di risorse di tipo sociale, attraverso l’incontro con operatori, medici, educatori, assistenti sociali, e quel percorso di trattamento individualizzato e personale previsto dalla legge. Anche in questo caso però è necessario avere sempre una prospettiva post pena o con una pena in esecuzione extra muraria, altrimenti non serve a niente”. Il rischio, spiega l’esperta, è che il carcere vada a creare solo un ulteriore svantaggio: “Oltre che sofferenza, la detenzione porta con sé anche stigma sociale”, con cui fare i conti una volta fuori. Nel percorso di trattamento individualizzato accennato da Vianello rientrano le cosiddette attività trattamentali, e cioè le opportunità lavorative, formative e culturali che sono necessarie per il benessere della persona oltre che per una prospettiva di reinserimento sociale. Se queste attività sono carenti per tutti a prescindere dal genere, per le donne la situazione è particolarmente complicata. In Italia infatti esistono quattro carceri esclusivamente femminili, che accolgono meno del 25% del totale delle detenute: le altre scontano la pena nelle oltre quaranta sezioni femminili all’interno delle carceri maschili. Secondo un’indagine dell’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario e di cui la professoressa Vianello fa parte, solo nel 10% degli istituti misti, però, le iniziative sono in comune per uomini e donne: in tutti gli altri casi, sono separate per genere. Questo può tradursi in una mancanza di opportunità per le detenute, il cui numero ridotto è definito spesso come insufficiente per organizzare attività a loro dedicate: nelle sezioni più piccole, ad esempio, i corsi di formazione professionale e di istruzione di secondo livello sono pochi o del tutto assenti. Come sottolinea la professoressa Vianello, “le risorse non sono distribuite in tutti gli istituti equamente”, ma le difficoltà vanno oltre la superficie: “A livello percentuale, le donne detenute che lavorano sono quasi di più rispetto agli uomini, così come non mancano ovunque i corsi professionali; anche gli educatori in proporzione sono in numero maggiore nelle sezioni femminili”. Il problema è piuttosto un altro: il tipo di lavoro che viene perlopiù affidato alle detenute impegna e paga poco; la formazione professionale è organizzata in alcuni casi in un’ottica stereotipata, per cui vengono tipicamente offerti corsi di pasticceria, ricamo o sartoria; e soprattutto i bisogni specifici delle donne vengono tenuti poco in considerazione. Il carcere è un sistema androcentrico, e cioè è pensato, creato e organizzato da uomini e per gli uomini, ma “le esigenze delle donne sono di tipo diverso, così come lo è la loro sofferenza”, spiega Vianello. Al netto del fatto che la privazione della libertà e l’allontanamento dagli affetti generano malessere in chiunque ne faccia esperienza, chiarisce la docente, la questione di genere nella detenzione è centrale: “Per ragioni culturali e per com’è costruita la nostra società, le donne molto spesso si fanno carico della dimensione relazionale, familiare e di sostegno psicologico. Quando questa si interrompe, per le donne vengono meno risorse importanti, ma anche il senso del sé e della propria utilità”. Perciò, “anche il pensarsi in una prospettiva trattamentale e risocializzante, non avendo strumenti di tipo relazionale con gli amici e la famiglia”, può risultare difficile. Non è un caso allora che gli atti di autolesionismo siano quasi il doppio tra le donne rispetto che tra gli uomini, così come più alti sono anche i tentati suicidi. In un incontro con le detenute di Tirana raccontato nel suo libro, Daria Bignardi nota come le sia capitato più volte di incontrare donne in carcere in lacrime, mentre mai ha visto piangere un detenuto. Chiedendo alle presenti se avessero idea del perché questo succeda, una delle detenute ha risposto: “Perché quando un uomo entra in carcere la moglie o la madre lo vanno a trovare e si prendono cura di lui, mentre a noi, anche se siamo dentro per causa loro, ci abbandonano, ci ripudiano”. Sono donne che piangono per la solitudine, l’isolamento, l’abbandono e, se li hanno, anche per i figli. Alla fine del 2021, le madri nelle carceri italiane costituivano il 63,7% delle donne detenute. Nonostante rappresentino dunque una buona fetta della popolazione femminile in istituti penitenziari, di loro ci si occupa ben poco. Come ha scritto il ricercatore in diritto penale e membro di Antigone Campania Marco Colacurci, “se il mondo all’esterno del carcere assegna alla donna, volente o nolente, soprattutto il ruolo di madre, quello all’interno non si preoccupa più di questo aspetto, o, al limite, lo utilizza in chiave punitiva”. Spesso manipolato per indurre senso di colpa nelle donne in stato di detenzione, perché avrebbero dato il cattivo esempio e abbandonato i loro figli, il tema della maternità non è infatti tenuto in considerazione in altro modo: non si parla del dolore delle madri separate dai loro figli, non si cercano soluzioni efficaci e a lungo termine per chi non ha nessuno fuori a cui lasciarli. La libertà di stampa non si discute di Francesca Sforza La Stampa, 29 giugno 2024 Definire “metodo da regime” l’inchiesta di Fanpage.it che ha scoperchiato il verminaio della formazione giovanile di Fratelli d’Italia significa implicitamente ammettere che sarebbe stato meglio se non fosse venuto fuori. Se è vero infatti, come ha dichiarato Giorgia Meloni l’altra sera al termine del Consiglio europeo, che “i sentimenti razzisti, antisemiti o nostalgici sono incompatibili con Fratelli d’Italia” allora si sarebbe dovuto salutare con tutti altri toni il fatto che quell’incompatibilità sia stata apertamente e ripetutamente rinnegata. Fanpage andrebbe casomai ringraziata, per aver consentito di portare alla luce - nella migliore tradizione della stampa occidentale, quella che fece diventare uno slogan da maglietta la frase del Washington Post “Democracy Dies in Darkness”, la democrazia muore nell’oscurità - una situazione che fa male prima di tutto al partito di governo. E invece la premier, dopo aver detto una cosa giusta a proposito di chi ha sbagliato casa, ne ha aggiunta una che risulta sbagliata due volte: in sé, perché la libertà di stampa non dovrebbe essere messa in discussione, e relativamente a quanto aveva appena detto, perché appunto se non fosse stato per Fanpage lei adesso sarebbe all’oscuro di quanto avviene nella sua Gioventù Nazionale. L’inciampo logico, a questo punto, legittima il dubbio se la premier fosse davvero all’oscuro dell’esistenza di una propaganda razzista, antisemita, antidemocratica e inequivocabilmente fascista all’interno della sua stessa casa politica. E se non abbia invece preferito minimizzare, sottovalutare, relegare a folclore ciò che appare indifendibile sotto ogni punto di vista. Perché se così fosse, la questione si farebbe meno “di forma” e andrebbe a toccare la sostanza stessa della politica meloniana. La fase degli underdog al potere e la conseguente narrazione “riscatto e vittimismo” dovrebbe forse considerarsi chiusa; anche gli ultimi segnali che arrivano dall’Europa chiedono al partito di Giorgia Meloni di fare maggiore chiarezza, di allargare al centro, di liberarsi di zavorre e vecchi arnesi. Il momento è cruciale, perché in Europa davvero ci sono nei suoi confronti due diversi tipi di atteggiamento: alcuni pensano che sia da collocare nel recinto delle “estreme” - per usare il linguaggio di Macron - e che sostanzialmente sia meglio buttare la chiave. Altri però - tra cui Manfred Weber e Ursula von der Leyen, che l’ha persino aiutata con il rinvio del report sullo stato dei media in Italia previsto proprio nei giorni del voto - pensano che invece non tutto sia perduto, e che l’Italia possa fare la differenza per la costruzione di un centrodestra popolare ed europeo. Certo mettersi ad attaccare la libertà di stampa, chiamare maldestramente in causa il presidente della Repubblica, utilizzare terminologia da scontro sociale anni Settanta non sembra il modo giusto per convincerli. Droghe. Il proibizionismo serve soltanto a riempire le carceri di Franco Corleone L’Espresso, 29 giugno 2024 Le norme antidroga hanno effetti deleteri: dietro al sovraffollamento c’è una questione sociale. Il 26 giugno è la Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droghe; per i proibizionisti di casa nostra è diventato l’appuntamento contro la droga e un’occasione per riproporre la guerra infinita contro i consumatori di sostanze illecite, sulla base di scelte moralistiche e non scientifiche (perché la canapa e non l’alcol o il tabacco?). Da quindici anni la Società della Ragione assieme a molte associazioni presenta un Libro bianco con i dati inoppugnabili sugli effetti, collaterali o voluti, della legge antidroga sulla giustizia e soprattutto sul carcere. Il quindicesimo Libro bianco, “Il gioco si fa duro”, conferma che la causa del sovraffollamento è determinata da una questione sociale. I numeri dei presenti confermano la preponderanza della questione legata al consumo e al piccolo spaccio di droghe: 60.166 detenuti erano presenti alla fine del 2023 (oggi sono lievitati a 61.547 e sono destinati ad aumentare ancora, per non parlare dei 45 suicidi, con il rischio di stabilire un triste record a fine anno) di cui 19.521 (34°A) per violazione dell’art. 73 e 17.405 (28,9%) classificati come tossicodipendenti. Il totale è di 36.926 soggetti espressione della detenzione sociale: un vero scandalo. Dopo la scelta del governo di alzare le pene per i fatti di lieve entità previsti dal 5° comma dell’art. 73 (fino a cinque anni!) e la scelta di inserire nel disegno di legge in discussione in Parlamento sulla sicurezza (Atto Camera n.1660) l’equiparazione della cannabis light a quella con capacità drogante, non rimane che il confronto nel Paese. È tempo di ripresentare un referendum sulla de-carcerizzazione di tutte le condotte previste dall’art. 73, dalla detenzione alla cessione gratuita, riguardanti la cannabis e punite con la reclusione da due a sei anni. Prova che fu impedita nel 2022 dalla Corte costituzionale grazie a una sciagurata interpretazione, capziosa e sbagliata del quesito, da parte di Giuliano Amato. La simulazione di un carcere senza i prigionieri frutto della legge proibizionista rende evidente che non ci sarebbe sovraffollamento e il carcere potrebbe essere davvero l’extrema ratio. Le segnalazioni ai prefetti per mero consumo proseguono implacabilmente e ormai si attestano, dal 1990, sopra il milione e quattrocentomila, una vera persecuzione contro una generazione di giovani: va notato che il 76% si riferisce a cannabinoidi. Lo spinello come stigma sociale è davvero allucinante. Occorre coraggio e mettere all’ordine del giorno l’approvazione di un provvedimento di amnistia e indulto, accompagnato da provvedimenti strutturali come l’abbassamento delle pene per lo spaccio e le altre ipotesi riguardanti tutte le droghe (pene che vanno da sei a venti anni di reclusione) o un intervento che consenta la concessione di misure alternative. Anche l’istituzione di Case di reinserimento sociale per ospitare le persone con pene inferiori a dodici mesi e la cui gestione sia affidata al sindaco, attuando una pratica sociale per superare l’esclusione e abbattere la recidiva, può rappresentare un cambio di paradigma. Il numero chiuso per impedire che le carceri siano un ammassamento di corpi va immaginato. Infine, perché il carcere rispetti la legge va garantito il diritto alla affettività e a colloqui intimi senza controllo visivo. Le proposte intelligenti e ragionevoli ci sono. Lgbtq+, un giugno di manifestazioni contro le discriminazioni e per i diritti di Monica D’Ascenzo Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024 Il mese dell’orgoglio della comunità arcobaleno assume valenze diverse a seconda delle latitudini e delle leggi in essere nelle diverse nazioni: si va dai Paesi in cui è illegale essere gay alle conquiste del matrimonio egualitario in Thailandia e Grecia. Un mese dedicato a una minoranza a livello globale. Una conquista, dopo 55 anni dai moti di Stonewall Inn, da cui ebbe inizio la lotta contro le discriminazioni della comunità Lgbtq+. Tutto cominciò nel 1969 con gli scontri che dal 28 giugno si aprirono fra la polizia, che aveva organizzato una retata nel bar di Christopher Street a New York, e manifestanti omosessuali e trans. Pride 2024 - Nel 2024 il Pride è una realtà in svariati Paesi al mondo. Così si va dalla prima parata Lgbtq+ a Kiev dopo l’inizio degli attacchi militari russi, che ha visto momenti di tensione per la contro parata organizzata da neonazisti, alla manifestazione a Lagos in Nigeria come sfida alla repressione; dalle migliaia di persone in strada per l’annuale Pride Parade di Gerusalemme alla celebrazione dei due spiriti dei nativi americani del villaggio di Miccosukee, in Florida. Manifestazioni che spesso travalicano il significato originario, per divenire espressione di libertà soprattutto nei Paesi in cui esiste una criminalizzazione per legge o di fatto contro la comunità Lgbtq+. I dati della comunità - Una comunità che è andata via via allargando i propri confini come dimostra l’evoluzione dell’acronimo arrivato a contenere più sfumature degli orientamenti sessuali: Lgbtqiap+ che sta per lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, intersessuali, asessuali, pansessuali con il + finale che apre a tutti gli orientamenti sessuali e le identità di genere non eteroconformi. Ma che allo stesso tempo ha aggregato consensi che vanno oltre la propria comunità. In Italia, ad esempio, secondo un report di Pew Resaerch a livello globale il 73% degli italiani intervistati si dichiara a favore del matrimonio gay, in un panorama che vede le percentuali europee comunque ben più alte: in Svezia il 92%, nei Paesi Bassi l’89%, in Spagna l’87%, in Francia l’82% e in Germania l’80%. Percentuale, quella italiana, però alta se si confronta con i dati delle persone che si riconoscono nell’acronimo Lgbtq+: secondo il sondaggio Ipsos pubblicato per il Pride Month 2023, condotto in 30 nazioni del mondo e che ha visto coinvolte oltre 22.500 persone di età compresa tra i 16 e 74 anni, il 9% degli italiani si dichiara Lgbtq+. In particolare, il 2% si definisce omosessuale, il 3% bisessuale, l’1% pansessuali/omnisessuale e l’1% asessuale. C’è poi un 4% che si definisce transgender/genderfluid/non-binario. Il dato italiano è in linea la media dei 30 Paesi, ma questa percentuale varia notevolmente tra le generazioni: i dati vanno dal 18% tra i GenZ al 4% tra i Babyboomers. A livello geografico, Spagna, Brasile e Olanda sono i Paesi ad avere il maggior numero di persone che si identificano come omosessuali, bisessuali, pansessuali/omnisessuale o asessuali. Al contrario, Polonia, Giappone e Perù sono i Paesi con le percentuali più basse. In realtà le statistiche nazionali faticano a indagare in modo esaustivo l’identità di genere e l’orientamento sessuale della popolazione e problemi di riservatezza hanno spesso ostacolato il lavoro di istituti di statistica e di centri di ricerca quantitativa. Così la stessa Unione Europea, che già nel 2011 aveva espresso la necessità di avere dati più certi per poter monitorare e garantire una protezione sociale, non è riuscita a elaborare report esaustivi a riguardo. Negli?Stati Uniti, un sondaggio Gallup sulla base di interviste telefoniche su oltre 12.000 americani, rivela che circa un adulto su 13 si identifica come Lgbtq +. Anche in questo caso la percentuale si alza con l’abbassarsi dell’età, fino ad arrivare a un quinto fra le persone nate tra il 1997 e il 2005. L’evoluzione normativa - L’attenzione, anche politica, negli Stati Uniti è molto alta rispetto alla comunità Lgbtq+, tanto che nel suo discorso per il mese del Pride il presidente Joe Biden ha sottolineato: “Ho firmato lo storico Respect for Marriage Act, che protegge il matrimonio delle coppie omosessuali e interrazziali. Sono orgoglioso di aver posto fine al divieto per gli americani transgender di prestare servizio nell’esercito degli Stati Uniti. Ho firmato storici ordini esecutivi che rafforzano la tutela dei diritti civili per quanto riguarda l’alloggio, l’occupazione, l’assistenza sanitaria, l’istruzione e il sistema giudiziario. Stiamo anche combattendo la pratica pericolosa e crudele della cosiddetta “terapia di conversione”“. L’altra faccia della medaglia nel Paese è la raffica di proposte di legge che ogni anno prendono di mira i diritti Lgbtq+. Solo nella prima metà del 2024 sono state 275 leggi, secondo l’American Civil Liberties Union. D’altra parte a livello globale la mappa dei diritti è fatta di luci e ombre: se ci sono Paesi come la Thailandia e poco prima la Grecia che hanno approvato il matrimonio egualitario, dall’altra non mancano Paesi che stanno esacerbando le misure contro la comunità Lgbtq+ come la Russia, che nel marzo scorso ha inserito il “movimento Lgbt” nell’elenco di organizzazioni estremiste e terroristiche. Dove è ancora illegale essere gay? A livello globale sono ancora 60 i Paesi in cui è illegale essere gay, con pene che vanno dalla detenzione fino alla condanna a morte. In questi contesti il mese del Pride diventa occasione per poter uscire allo scoperto e manifestare contro leggi discriminatorie. Fra le icone di coraggio la foto di qualche anno fa che ritrae un giovane ugandese con un adesivo sul volto che recita “Some ugandans are gay. Get over it!” (Alcuni ugandesi sono gay. Fatevene una ragione!), in un Paese in cui i rapporti fra uomini vengono puniti con l’ergastolo. Le violenze contro le persone Lgbtq+ - Alle leggi contro i gay si sommano le violenze per discriminazione. L’associazione Tgeu, ad esempio, monitora ogni anno le morti violente di presone trans: dal settembre 2022 al settembre 2023 si sono contate 320 morti, con il Brasile che detiene il primato, tanto che dal 2008 ad oggi ha superato i mille assassini. Si tratta, però, solo della punta dell’iceberg, perché ad esempio il Bureau of Justice Statistics sottolinea come fra le persone Lgbtq+ le vittime di crimini d’odio siano 43,5 ogni mille persone di età pari o superiore a 16 anni, un dato più di due volte superiore rispetto alle persone etero (19 per mille). Da questa parte dell’Atlantico l’ultimo report dell’European Union Agency for Fundamental Rights ha evidenziato come le violenze contro le persone Lgbtq+ risultino in aumento, tanto che nel 2023 il 33 % degli intervistati ha dichiarato di aver subito nei cinque anni precedenti tre o più attacchi violenti (contro il 26% del 2019). A destare preoccupazione poi il dato del bullismo nelle scuole: nell’Ue il 67% dichiara di esserne stato vittima con la percentuale che sale al 79% per i gay. Tanto che il 54% delle persone Lgbtq+ evita di tenersi per mano nei luoghi pubblici. E questo succede nell’avanzata Europa in tema di diritti, diventata meta per l’immigrazione dovuta alla discriminazione in altri Paesi. Il mese del Pride, alla luce di tutto questo, assume una valenza che va oltre la celebrazione colorata e festosa delle parate. Resta un mese dedicato a una minoranza che viene ancora discriminata. Il tortuoso percorso dei diritti Lgbtq+ di Vincenzo Miri* Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024 In settimana il Tribunale di Lucca ha rimesso alla Consulta la questione relativa allo stato dei figli nati dal progetto genitoriale di due donne realizzato all’estero tramite fecondazione assistita. Ancora una volta la Corte costituzionale si occuperà di famiglie omogenitoriali: con ordinanza pubblicata in settimana il Tribunale di Lucca ha rimesso alla Consulta la questione relativa allo stato dei figli nati dal progetto genitoriale di due donne realizzato all’estero tramite fecondazione assistita. E, infatti, nonostante l’invito a legiferare espresso dalla Consulta già nel marzo 2021, il nostro Parlamento è rimasto silente, anzi apprestandosi, oggi, a introdurre un reato universale di gestazione per altri al fine di impedire il sorgere di nuove famiglie. Del resto, solo con la legge 76 del 2016 introduttiva delle unioni civili era stata riconosciuta la vita familiare delle persone omosessuali, ma il compromesso parlamentare aveva espunto ogni disciplina dei rapporti di filiazione, generando un disordine giurisprudenziale di rara latitudine. Come se non riconoscere nelle leggi potesse significare eliminare dalla storia. Tortuoso, insomma, in Italia il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbti+: mentre le legislazioni di altri Paesi europei ne hanno da tempo accolto istanze e rivendicazioni, l’Italia le ha ignorate, affidandole a una supplenza giudiziaria ormai fiaccata. Se, poi, dall’orientamento sessuale si volge lo sguardo all’identità di genere, l’abisso giuridico si slarga: tante soggettività sono escluse dalla regolamentazione di una legge risalente al 1982, con grave sacrificio di efficacia ed effettività normativa. Sentenze storiche hanno consentito di superare la necessità di demolizione di caratteri sessuali, ma è ormai urgente una integrale riforma della legge 164/1982, per affrancare le persone trans e non binarie da maglie di patologizzazione o invisibilizzazione. Tanto è vero che, proprio su questi aspetti, si attende ancora una volta l’intervento della Corte costituzionale, dopo l’udienza del 18 giugno scorso. E ancora: nessuna tutela specifica si registra in campo penale e nessun ascolto normativo è offerto a persone minorenni, dolentemente lacerate, proprio dalle lacune legislative, nelle loro intime esperienze identitarie. Esigenze di sintesi sciupano qui, inevitabilmente, la varietà di istanze, ma si vorrebbe far emergere una specifica tonalità di riflessione. La storia della legislazione e della giurisprudenza sulle persone Lgbti+, proprio perché relativa a diritti costituzionalmente garantiti, richiede alla collettività tutta di non restare sopita, ma di farsi partecipe dell’attuazione della Costituzione in ogni solco dell’umanità, senza urti ideologici e senza timore di accogliere la straordinaria ricchezza di identità e corpi, che colora le esistenze senza macchiarne alcuna. *Presidente Rete Lenford - Avvocatura per i diritti LGBTI+ Dal matrimonio al riconoscimento dei figli, i diritti per cui si batte la comunità Lgbtq+ di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024 “Troppi vuoti normativi”. L’avvocata e attivista Cathy La Torre mette in evidenza alcune lacune. E sui crimini d’odio rilancia: “Bisogna ampliare la legge Mancino perché sia prevista una protezione rafforzata per chiunque sia aggredito o discriminato per una caratteristica personale”. La storia dei diritti Lgbt+ in Italia è ancora una storia di assenze e vuoti. Niente matrimoni egualitari, nessuna legge che disciplini il riconoscimento dei figli delle coppie formate da persone dello stesso sesso, nessuna tutela specifica dai crimini d’odio. “Dal punto di vista culturale, la previsione di un istituto ad hoc come l’unione civile produce l’idea che le coppie dello stesso sesso abbiano meno diritti e minore dignità - spiega l’avvocata e attivista Cathy La Torre - ma la vera grande diseguaglianza rispetto al matrimonio sta nel fatto che l’istituto non contempla la genitorialità”. Riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali - Un tasto dolente. “Un figlio nato da una coppia unita civilmente non è automaticamente figlio di quella coppia, bisogna andare davanti a un tribunale”, sottolinea La Torre. “C’è un vuoto normativo mai colmato, nonostante sia la Cassazione sia la Corte costituzionale siano più volte intervenute nel chiedere al legislatore di regolamentare i figli nati da queste coppie. Di conseguenza, la figlia o il figlio nato da una coppia di due mamme o due papà avrà un genitore biologico che verrà immediatamente iscritto all’anagrafe. L’altro, con cui è nato il progetto genitoriale, dovrà invece rivolgersi a un tribunale per chiedere l’adozione in casi particolari, ex articolo 44 della legge 184/1983, che prevede la possibilità di adottare il figlio o la figlia del partner. Lì sta l’anomalia, e l’ipocrisia. Perché sono già figli di quella coppia”. Per l’avvocata, servirebbe un bagno di realtà: “Questi bambini esistono, lo Stato deve assicurare loro una tutela”. Le cose si complicano per i padri che ricorrono all’estero alla gestazione per altri. “Non voglio parlare di ciò che in Italia è severamente vietato dalla legge- dice La Torre - e non credo che questo Paese abbia tra le sue priorità una legge sulla Gpa”. Pratica a cui, ricorda, fanno ricorso “al 90% coppie eterosessuali sterili”. Più opportuno sarebbe riformare la legge sull’adozione “per permettere anche a singole e singoli e a tutte le coppie, senza distinzione, eterosessuali o omosessuali, conviventi o sposate, di adottare, perché in Italia ci sono circa 13.500 bambini in casa famiglia in attesa di un affido”. Legge contro la omotransfobia - Allo stesso modo, “abbiamo l’esigenza di estendere la legge Mancino, secondo cui quando una persona viene picchiata, aggredita o discriminata in base alla sua religione o alla sua provenienza, quindi quando il movente è di tipo etnico, razziale o religioso, la pena per quel reato è aumentata. Ma soltanto quei gruppi di persone meritano una protezione rafforzata?”. La strada giusta, per La Torre, è quella di ampliarla in modo netto: “Non mi piace la parcellizzazione delle diversità. Vorrei una legge che stabilisse che chiunque venga aggredito per una caratteristica personale, compreso un corpo non conforme, è protetto maggiormente dallo Stato”. Questione di linguaggio - Insieme alle mancanze, ci sono le lotte intorno alle parole. A maggio ha fatto discutere la decisione del Governo italiano di non sottoscrivere, insieme ad altri otto Paesi, la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità Lgbt+ presentata dalla presidenza di turno belga. “Siamo a favore dell’inclusione e contro la transfobia - ha chiarito la ministra Eugenia Roccella - ma quel documento parla di “espressione di genere”“. E davanti alla possibilità di legittimare la comunicazione all’esterno del genere autopercepito l’Esecutivo Meloni si è fermato, in difesa del “binarismo sessuale”: “Qui si cerca di negare la biologia - ha commentato Roccella - l’identità maschile e femminile che tante ingiustizie ha prodotto nel mondo, in particolare ai danni delle donne”. Argomenti a cui La Torre replica citando la sua esperienza: “Quando avevo 4-5 anni e vivevo in Sicilia chiedevo a mia madre: “Chi sono? Perché io non mi sento né maschio né femmina”. Ho imparato che sono una soggettività. Non mi sento completamente a mio agio se mi penso una donna, ma non voglio nemmeno fare una transizione per diventare un uomo. Sono la testimonianza che la teoria del gender non esiste, perché vorrei sfidare chiunque a provare che in un piccolo paese della provincia di Trapani nel 1984 esistesse qualcuno che potesse condizionarmi. Detto questo, io sono una persona non binaria e non disconosco il binarismo. Rispetto l’identificazione di ogni persona cisgender, che si riconosce nel sesso e nel genere di nascita, la stragrande maggioranza della popolazione. Desidero allo stesso modo che venga rispettata la mia identità, proprio perché siamo una minoranza. Il binarismo rimarrà salvo anche se vengono riconosciuti diritti a noi persone non binarie. Qual è il principale che chiediamo? Poter avere nome più neutro, come Alex o Andrea”. Quali leggi mancano? In definitiva, quale quadro normativo costruirebbe? “Andrei verso leggi che comprendono sempre di più in maniera intersezionale tanti bisogni diversi fra loro. Mi interessa che ci sia parità di trattamento sui luoghi di lavoro, che le donne siano messe al riparo dalle molestie, che possano davvero conciliare vita personale e lavoro. Mi interessa che si possa scegliere come morire, perché conosco il dolore di chi non ha potuto farlo. Il tema della dignità nella morte riguarda chiunque. In questo momento l’Italia può fare tante leggi che non hanno a che fare col colore politico, ma soltanto con il benessere delle persone”. La legge 164 tra diritto e libertà di autodeterminarsi di Nicoletta Labarile Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024 Essere visibili e riconosciuti per chi si è: un diritto non scontato per le persone transgender che chiedono di cambiare sesso sull’atto di nascita. In Italia è possibile farlo con la legge 164/1982 che autorizza la rettificazione di attribuzione di sesso ad avvenute modificazioni dei caratteri sessuali. Pur consentendo un diritto fino ad allora negato, “se oggi confrontiamo la legge 164 con quello che accade in molti altri Paesi - Spagna, Belgio, Malta, Germania - la norma italiana chiede ancora alla persona in affermazione dell’identità di genere di presentarsi davanti a un giudice per affermare la propria identità di genere e modificare i dati anagrafici” commenta Angelo Schillaci, professore di diritto pubblico comparato all’università Sapienza. Il riconoscimento dell’identità di genere è vincolato a “intervenute modificazioni dei caratteri sessuali” disposte e verificate dal tribunale: un nodo cruciale che, sulla scia di definizioni patologizzanti della disforia di genere - rimossa dalla lista delle malattie mentali dall’Oms nel 2018 - lede il diritto all’autodeterminazione. Ma, precisa Schillaci, “la formulazione della legge è sufficientemente ampia da consentire alla giurisprudenza, a partire dal 2015, di interpretarla in modo più favorevole alla persona”. Sia la Corte di Cassazione (sent. 15138/2015) che la Corte Costituzionale (sent. 221/2015) hanno stabilito che la corretta interpretazione della legge 164 esclude la necessità, ai fini della rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico. “Le sentenze danno spazio alla scelta della singola persona - continua Schillaci - perché riconoscono che non esiste un unico schema di affermazione dell’identità di genere che includa necessariamente l’intervento chirurgico”. Nell’applicazione della legge, questo implica un cambiamento sostanziale: “La richiesta non si articola più in due procedimenti l’uno condizionato all’altro, ma in un’unica domanda in cui si chiede la rettificazione anagrafica e, se la persona lo desidera, anche l’autorizzazione all’intervento chirurgico”. I passi avanti negli altri paesi - in Spagna la rettifica del sesso si basa sulla dichiarazione di volontà - aprono la strada per sciogliere i nodi che restano. Il Parlamento chiamato a legiferare per la tutela dell’interesse dei minori di Martina Soligo Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024 Una nuova questione di costituzionalità per il riconoscimento dei figli in una coppia omosessuale. Questa volta è stato il tribunale di Lucca a sospendere il giudizio e trasmettere gli atti alla Consulta affinché si pronunci sulla legittimità della questione. È solo l’ultimo caso, in ordine temporale. All’interno del panorama legislativo italiano, infatti, “non esiste una legge che regolamenti e tuteli la genitorialità di una coppia omosessuale e questo ha ricadute importanti sui figli, soprattutto in caso di decesso del genitore biologico o di separazione conflittuale della coppia; inoltre l’adozione in casi particolari si sta dimostrando un istituto del tutto inadeguato e lesivo della dignità delle figure genitoriali perché i tribunali per prassi hanno introdotto indagini addirittura sulla loro “moralità”“ sottolinea l’avvocata Maria Grazia Sangalli già presidente di Rete Lenford. In Italia, infatti, viene riconosciuto esclusivamente il genitore biologico, mentre il genitore elettivo non esiste dal punto di vista legale. Malgrado la Corte costituzionale abbia riconosciuto che il desiderio di avere figli è espressione della “fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi” di qualunque essere umano, non è automatico il riconoscimento del genitore non biologico per i figli di coppie omogenitoriali. Dall’inizio dello scorso anno le procure di diverse città italiane hanno chiesto l’annullamento del riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali dopo che il ministero dell’Interno aveva emesso una circolare con cui chiedeva ai sindaci di non trascrivere in automatico i certificati di nascita dei bambini nati di coppie omogenitoriali in cui compariva anche il nome del genitore non biologico. In caso di annullamento, l’unica via che ha il genitore non biologico per vedersi riconosciuto il proprio ruolo è la stepchild adoption, ovvero l’adozione di minori in casi particolari. Già nel gennaio 2021 la Corte Costituzionale aveva emesso una sentenza in merito al riconoscimento delle famiglie omogenitoriali, stabilendo che “l’interesse del minore è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che nella realtà fattuale già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata” e chiedendo al Parlamento italiano di legiferare in merito, in modo tale da tutelare gli interessi dei minori. Nel 2024 però ancora una legge in materia non esiste. In aumento i crimini d’odio, manca una disciplina di tutela di Giorgia Colucci Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2024 Insulti per strada, adescamenti online e violenze fisiche. O ancora discriminazioni sanitarie e sul posto di lavoro, minacce e vandalismo sulle sedi associative. Questi sono solo alcuni dei reati di odio commessi ai danni dalle persone Lgbtq+ in Italia. Solo negli ultimi 12 mesi, in base al report annuale pubblicato da Arcigay per la Giornata mondiale contro l’omotransfobia (17 maggio), sono stati 149 i casi censiti (contro i 133 del 2023). Il loro numero è in crescita di anno in anno, così come la loro intensità. La maggior parte degli episodi però non viene denunciata e, anche quando questo succede, si fa fatica a tutelare le vittime. Infatti in Italia manca una legge specifica che consenta di perseguire gli atti di omotransfobia e la conoscenza del fenomeno è ancora limitata. A due anni e mezzo dalla bocciatura del cosidetto “Ddl Zan”, che prevedeva una modifica all’articolo 604-bis del Codice penale e l’estensione della legge Mancino (decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122) anche agli atti discriminatori fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, il nostro Paese non ha ancora una legge a riguardo. Eppure, leggi simili sono in vigore da anni in ben undici Paesi dell’Unione Europea e, se si guarda al Consiglio d’Europa, il numero sale a 20. In alcuni Stati, come Norvegia e Svezia, tali norme esistono sin dagli Anni Ottanta. In Italia invece si procede a rilento: un segnale positivo sembrava essere arrivato lo scorso 7 maggio, con l’adesione del governo alla dichiarazione contro l’Omofobia, Transfobia, Bifobia del Servizio di Azione Esterna Ue e dei 27. A cui però non è seguita la ratifica dello stesso impegno a Bruxelles solo dieci giorni dopo. “L’Italia rimane l’ultimo grande Paese occidentale a non essersi dotato di una legge contro i crimini d’odio sulla base dell’orientamento sessuale, del genere, dell’identità di genere o sulla disabilità delle vittime” afferma l’on. Alessandro Zan, che ha ripresentato il disegno di legge nell’ottobre 2022 (C 401) assegnato poi alla Commissione Giustizia, e conclude: “È un ritardo ormai decennale, che pesa sulla carne viva delle persone, ora aggravato da parole d’odio che spesso arrivano dalle istituzioni e da una vera e propria crociata del governo Meloni contro la cittadinanza Lgbtq+”. Russia. Quelle lettere dal carcere che parlano di speranza e di futuro di Raffaella Chiodo Karpinski Avvenire, 29 giugno 2024 Assange è libero. Così non è per Vladimir Kara Murza, Ilya Yashin, Aleksej Gorimov, Boris Kagarlitsky, Evgenya Berkovitch ... e centinaia di altri prigionieri per aver detto no alla guerra. E così finalmente Assange è libero. Così non è per Vladimir Kara Murza, Ilya Yashin, Aleksej Gorimov, Boris Kagarlitsky, Evgenya Berkovitch e Svetlana Petriychuk, Alexandra Skochilenko e centinaia di altri prigionieri politici, tra cui almeno due minorenni come Yegor Balazeikin e Arsenij Turbin arrestato all’età di 14 anni. Tutti colpevoli di chiamare la guerra col suo nome. Per aver espresso il proprio no alla guerra. A volte anche quando “formalmente” non commetti “reato” vengono fabbricate prove ad hoc. Si tratti di interpretare testi, o registrazioni audio, sedicenti esperti vengono chiamati a interpretare il contenuto. È capitato al più noto Oleg Orlov dell’associazione Premio Nobel per la Pace Memorial e capita a persone meno note, inclusi appunto adolescenti come Arsenij che per questo è condannato a scontare 5 anni in un campo di rieducazione. Un grande supporto morale arriva e ai prigionieri politici con le lettere. Missive che giungono da tutto il mondo e sono la testimonianza del supporto di russi e anche di stranieri che si mobilitano per loro. E poi le lettere che arrivano dal carcere e vengono condivise sugli account social come succede con Ilya Yashin e appunto Orlov. Da queste emerge con forza un messaggio di responsabilità, coscienza e persino di invito alla speranza. Parlano sempre della “Meravogliosa Russia del futuro”. Un invito ad avere fiducia, a crederci che viene proprio da loro che sono reclusi da uno, due anni e più. Come per altri personaggi della storia che sono stati incarcerati per le loro idee, trapela dalle loro lettere il farsi carico dei problemi dei detenuti, perfino su come sarà necessario mettere mano al sistema penitenziario nella Russia del futuro. Dice Orlov che bisognerà invitare pittori e designer per riorganizzare gli ambienti, perché non può essere tutto grigio bianco, nero o verde sporco. Non è necessario aggiungere depressione alla limitazione della libertà per chi si trova a scontare una pena. Yashin racconta delle sue conversazioni con i compagni di cella (prima che venisse messo in punizione per l’ennesima angheria delle autorità) di come si tratti di persone fragili finite li per le ragioni più diverse. La sintesi di un mondo tormentato da dinamiche assurde. Quanto riporta alla mente questa preoccupazione, ad altre storie passate e recenti! L’onestà intellettuale e morale è reclusa e c’è chi vorrebbe buttare la chiave. Ad assumere il peso di una speranza siamo in fin dei conti tutti. Al di qua e al di là dei confini. Oggi ho incontrato una ragazza (non dico dove per preservarne l’incolumità), russa dai bellissimi tratti buryati. Ha lasciato il Paese appena è iniziata la guerra. La famiglia come lei non condivide questa guerra e sa quanto colpisce oltre al popolo ucraino anche la popolazione buryata visto che l’arruolamento ha pescato soprattutto tra loro. È riuscita a iscriversi a un corso di studi grazie al quale ha un visto che altrimenti sarebbe difficile ottenere. Come lei tanti altri ragazze e ragazzi. Tutti conoscono il caso di Alexandra Skochilenko e si riconoscono in lei. Dicono che sono esuli senza esserlo, senza che questo sia riconosciuto. Le sanzioni non colpiscono questo ambito per fortuna. Soprattutto le istituzioni accademiche accolgono ancora studenti provenienti dalla Russia. Non dappertutto ma in Italia per ora è così. Per fortuna a livello culturale c’è questa via di fuga.