Quelle carceri da svuotare adesso di Glauco Giostra Avvenire, 28 giugno 2024 I numeri che provengono dal pianeta carcere, anche a volersi fermare a quello dei suicidi, sono agghiaccianti. Ma sono tempi, questi, in cui gli orrori raccontati quotidianamente dai media hanno indotto ad alzare le difese dell’indifferenza per evitare di precipitare nello sconforto. Questi numeri, pur drammatici, sono diventati emotivamente neutri. Se almeno potessero gridare il dolore straziante e il senso di totale abbandono di chi ha deciso di farla finita, se potessero portarci il pianto sommesso della sua disperazione, se ci potessero contagiare la sua angoscia di non poter neppure salutare le poche persone al mondo che piangeranno la sua morte, se ci potessero far vedere i suoi occhi vuoti di futuro e di speranza mentre si toglie la vita - perché non ha più una sola ragione per protrarla - probabilmente ci soffermeremmo con desolazione infinita e con vergogna senza requie su questi numeri. Allora, forse, coloro che possono fare qualcosa capirebbero che neppure un giorno in più di inerzia sarebbe giustificabile. E fare qualcosa in una situazione di così drammatica emergenza non può consistere nel progettare nuove carceri, nel prevedere ulteriori assunzioni, nell’immaginare trasferimenti di detenuti stranieri. La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi. Se in un pericoloso tratto di strada si verifica un incidente gravissimo, prima di assicurare che sarà rivista la segnaletica, che verrà rafforzato il guardrail, che sarà imposta una riduzione del traffico, bisogna soccorrere chi, vittima dell’incidente, sta rischiando la vita. Nell’attuale girone penitenziario ogni intervento in grado di rendere meno insopportabile la soffocante e degradante quotidianità carceraria potrebbe risultare prezioso al di là di ogni aspettativa. Ma non c’è dubbio che in questo momento il principale fattore dell’invivibilità detentiva è il sovraffollamento, moltiplicatore esponenziale di tutti i fattori di deprivazione della dignità, che ormai è tornato al livello di quello che poco più di dieci anni fece condannare il nostro Paese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante. Non è più differibile (da tempo, per la verità) uno strumento di rapido decongestionamento. Un’amnistia e/o un indulto - strumenti ai quali sono stato contrario quando venivano usati come semplici, periodici provvedimenti di “sfioro” del “troppo pieno” penitenziario, non accompagnati da rimedi strutturali che impedissero il puntuale ripresentarsi dell’incivile fenomeno - potrebbero nella drammatica situazione penitenziaria rivelarsi provvidenziali. E sarebbe confortante vedere una volta tanto tutte le forze politiche convergere su soluzioni condivise, tanto più che nessuna di esse può dirsi del tutto esente da responsabilità. Ma, essendo facilissimo immaginare gli allarmistici slogan (“Svuotacarceri, sicurezza a rischio”) con cui si boicotterebbe qualsiasi tentativo in tal senso, almeno si provveda secondo la proposta Giachetti, attualmente in esame (della ripetutamente annunciata iniziativa del ministro Nordio, parleremo quando ad essa il Governo darà disco verde e corsia di urgenza, come avvenne in occasione dell’improcrastinabile introduzione del reato di rave-party): aumento della riduzione di pena per i detenuti che con il loro positivo percorso ne sono già stati o ne saranno dichiarati meritevoli dalla magistratura di sorveglianza. L’atteggiamento negativo sinora espresso al riguardo, non solo dalle forze di maggioranza, non consente ottimismi. La deprimente spiegazione sarebbe che pure in tal caso (come, a maggior ragione, per amnistia e indulto) lo Stato si dimostrerebbe debole. Dunque, piuttosto che ammettere la necessità di porre rimedio ad un proprio errore, lo Stato preferisce che gli venga addebitata una delittuosa condotta omissiva: sì, perché ciò a cui assisteremo durante l’incipiente estate (da sempre stagione insopportabilmente feroce con i detenuti) sarà una raccapricciante progressione del numero di suicidi, che chiamare omicidi colposi non sarà purtroppo forzata metafora. Ovviamente, qualora si riuscisse a intervenire con provvedimenti di emergenza - almeno per contenere questo insostenibile rosario di suicidi: veri j’accuse, che persone affidate allo Stato gli rivolgono non per averle private della libertà, ma della dignità di uomo - si dovrebbe immediatamente cominciare a ragionare su tutte le provvidenze normative, strutturali e di personale specializzato in grado di evitare il riproporsi di una situazione indegna di un Paese civile, dando preliminarmente risposta ad alcune ineludibili domande. Come mai l’attuale popolazione penitenziaria supera le 60.000 unità nonostante un indice di criminalità decrescente (per restare ai reati più gravi: 300 omicidi all’anno), mentre trent’anni fa la popolazione penitenziaria era di circa 40.000 con una criminalità molto più preoccupante (1.000 omicidi all’anno)? Come mai si è ritenuto di ignorare i già pronti progetti di riforma penitenziaria di cui sono inutilmente ingombri i cassetti ministeriali? Come mai, per contro, gli unici, significativi propositi di intervento normativo in materia riguardano l’abolizione del delitto di tortura (per non privare “i soggetti preposti all’applicazione della legge dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro”); l’introduzione del reato di rivolta carceraria (“a tutela dell’ordine pubblico negli istituti penitenziari”); il ridimensionamento in chiave securitaria della funzione rieducativa assegnata alla pena dall’articolo 27 della Carta (perché “l’art 27 della Costituzione è stato il grimaldello culturale di chi ha lentamente eroso la certezza della pena facendo leva su gargarismi garantistici”)? Non sappiamo se temere più il silenzio o le risposte. Carcere, strage senza fine: tre suicidi in cella in soli due giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2024 Il drammatico bilancio sale a 47. Ieri un detenuto si è impiccato a Caltanissetta e uno a Novara, mentre oggi un egiziano si è tolto la vita a Marassi. Nel cuore dell’estate 2024, mentre l’Italia si prepara alle vacanze, un’ombra inquietante continua ad allungarsi sulle strutture penitenziarie del paese. Nelle ultime 48 ore, tre nuovi casi hanno portato il bilancio dei detenuti che si sono tolti la vita nel 2024 a 47, un numero che fa inorridire e che sembra destinato a crescere. Come segnalato da Vicente Santilli, segretario per il Piemonte del Sindacato Autonomo polizia penitenziaria, verso le undici e mezza del mattino di mercoledì scorso 26 giugno, nel carcere di Novara, durante il passaggio del vitto, in cella è stato trovato un detenuto impiccato alle sbarre della finestra del bagno. Nello stesso istituto, sette giorni prima, si è ucciso Alì, un 19enne che sarebbe tornato libero il prossimo agosto. Sempre mercoledì, su segnalazione di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa polizia penitenziaria, un detenuto si è impiccato nella Casa Circondariale di Caltanissetta. Aveva 38 anni ed era considerato un detenuto modello e non aveva mai dato alcun problema. Stava facendo un percorso di riabilitazione in carcere e lavorava in cucina. Un gesto dunque totalmente inaspettato e del quale non si conoscono le motivazioni. Appena un giorno dopo, giovedì 27, un cittadino egiziano di 47 anni si è tolto la vita nel carcere genovese di Marassi, utilizzando la propria cintura. Quest’ultimo, che avrebbe finito di scontare la sua pena per immigrazione clandestina nel 2025, ha deciso di porre fine alla sua esistenza nelle prime ore del mattino, nonostante i tempestivi ma vani soccorsi della Polizia penitenziaria e del personale sanitario. Da osservare che nello stesso carcere, esattamente il giorno prima della tragedia, è stato rinvenuto il cadavere di un detenuto. Si tratta di un uomo italiano, 30 anni non ancora compiuti, morto dopo aver inalato gas dal fornello da campeggio. Ancora non è chiaro se si sia trattato di un suicidio o delle conseguenze dell’assunzione di sostanze stupefacenti. I dati aggiornati ad oggi rivelano una realtà allarmante: dall’inizio dell’anno, 105 detenuti hanno perso la vita dietro le sbarre, di cui 47 per suicidio. Questi numeri non sono solo statistiche fredde, ma rappresentano vite umane spezzate, famiglie distrutte e un sistema carcerario in profonda crisi. Il tasso di suicidi nelle carceri italiane continua a essere significativamente più alto rispetto alla popolazione del “mondo di fuori”, sollevando interrogativi urgenti sulla gestione della salute mentale e sulle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari. Particolarmente preoccupante è il confronto con gli anni precedenti. Nel 2023, l’intero anno ha visto 69 suicidi. A metà del 2024, siamo già a 47. Se questa tendenza dovesse continuare, potremmo assistere a un aumento drammatico rispetto agli anni precedenti. Ma i suicidi sono solo la punta dell’iceberg: altri 58 detenuti sono morti per cause diverse, tra cui malattie, overdose e circostanze ancora da accertare. Questo evidenzia una crisi più ampia nel sistema sanitario carcerario, con strutture sovraffollate e personale medico insufficiente. Un caso emblematico è rappresentato dal suicidio avvenuto nel Centro di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) di Roma, che solleva ulteriori domande sulle condizioni di vita in queste strutture controverse. Dal 2000 ad oggi, il numero totale di detenuti morti in carcere ha raggiunto la cifra spaventosa di 4.718, di cui 1.771 per suicidio. Questi dati sottolineano una crisi sistemica che perdura da decenni, nonostante le ripetute promesse di riforma e miglioramento. Le cause di questa situazione sono molteplici: sovraffollamento cronico, carenza di personale specializzato, insufficienza di programmi di reinserimento e supporto psicologico inadeguato. Oltre al fatto, come riportato da Il Dubbio, che i suicidi avvengono per stragrande maggioranza dei casi nei regimi a custodia chiusa. Il decreto carcere in arrivo, ma insufficiente - Il sistema carcerario italiano sta attraversando una crisi senza precedenti, con un bilancio di vite umane che cresce di settimana in settimana. Di fronte a questa emergenza, le misure proposte dal governo appaiono come palliativi insufficienti per affrontare un problema di proporzioni sistemiche. Attualmente, le prigioni italiane ospitano oltre 61.000 persone, superando di 13.500 unità la loro capacità effettiva. Questa situazione di sovraffollamento cronico è il terreno fertile su cui proliferano disperazione, violenza e, tragicamente, suicidi. Le proposte del Ministero della Giustizia, seppur ben intenzionate, sembrano non cogliere la gravità e l’urgenza della situazione. L’istituzione di un albo per le comunità del terzo settore, che permetterebbe ai detenuti con pene residue inferiori ai due anni di scontarle in regime di detenzione domiciliare o affidamento in prova, è un passo nella giusta direzione. Tuttavia, questa misura rischia di avere un impatto limitato, considerando che molti detenuti non hanno una dimora o una rete di supporto all’esterno. Allo stesso modo, l’incremento delle telefonate concesse ai detenuti da quattro a sei al mese, seppur necessario e doveroso per il mantenimento dei legami familiari, non può bastare. Le proposte per una gestione più rapida delle ordinanze di custodia cautelare, invece, potrebbero avere un effetto più significativo, ma i tempi di implementazione rischiano di essere troppo lunghi di fronte all’emergenza in corso. In questo contesto, emerge come potenzialmente risolutiva la proposta di legge presentata dal deputato Roberto Giachetti e dall’associazione Nessuno Tocchi Caino. Questa iniziativa, incentrata sulla liberazione anticipata speciale, potrebbe offrire un immediato sollievo al sovraffollamento carcerario. La proposta prevede un aumento significativo dello sconto di pena per buona condotta, passando dagli attuali 45 giorni a 60 giorni per ogni semestre di detenzione. Una misura del genere potrebbe avere un impatto rapido e sostanziale, riducendo in tempi brevi la popolazione carceraria e alleviando la pressione sul sistema. La liberazione anticipata speciale non è solo una soluzione al sovraffollamento, ma rappresenta anche un incentivo concreto per i detenuti a mantenere una buona condotta e a impegnarsi in percorsi di riabilitazione. Questo approccio potrebbe contribuire a creare un ambiente carcerario più sicuro e costruttivo, riducendo tensioni e conflitti. Inoltre, questa proposta si allinea con i principi costituzionali della funzione rieducativa della pena e del rispetto della dignità umana. In un momento in cui il sistema carcerario italiano è sotto scrutinio per le sue condizioni disumane e degradanti, un’azione decisa in questa direzione potrebbe segnare un punto di svolta. Le critiche a questa proposta, che la dipingono come un “indulto mascherato”, non solo sono completamente fuorvianti ma sembrano ignorare la realtà di un sistema al collasso e la necessità di interventi immediati per salvare vite umane. La sicurezza pubblica non è garantita da carceri sovraffollate e disfunzionali, ma da un sistema che promuove effettivamente il reinserimento e la riabilitazione. Mentre le misure proposte dal governo rappresentano un timido passo avanti, la gravità della situazione richiede azioni più coraggiose e immediate. La proposta di liberazione anticipata speciale merita una seria considerazione come strumento per affrontare l’emergenza attuale e gettare le basi per una riforma più ampia e strutturale del sistema penitenziario italiano. Solo attraverso un approccio audace e umano si potrà sperare di porre fine alla spirale di morte che affligge le nostre carceri e di restituire al sistema penitenziario la sua funzione costituzionale di rieducazione e reinserimento sociale. Il 17 luglio sarà il giorno in cui il Parlamento voterà la proposta di legge. Come già riportato su Il Dubbio, quel giorno Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, riprenderà lo sciopero totale della sete e fame. L’opposizione, tranne il M5S, voterà a favore. Si spera che anche la maggioranza faccia un atto di umanità. Potrebbe essere una delle rare volte che tutto il Parlamento, tranne casi isolati, si assume una responsabilità che magari non porta più voti, ma salva vite e ci mette al riparo da future condanne da parte della Corte europea. Carceri e manifestanti, arriva la stretta del governo di Francesco Grignetti La Stampa, 28 giugno 2024 Per un blocco stradale o ferroviario si rischieranno fino a due anni di galera. La stretta “legge & ordine” del governo era annunciata e puntualmente sta andando in porto. Tra breve, un blocco stradale o ferroviario diventerà un reato serio. Attualmente i manifestanti, che siano lavoratori che protestano contro il licenziamento o siano ecologisti che denunciano l’inerzia per la crisi climatica, quando bloccano una strada o una stazione rischiano poco, ovvero una multa da mille a quattromila euro. Quando il ddl Sicurezza sarà legge, le pene previste sono il carcere fino a un mese per chi protesta in solitaria, da sei mesi a due anni se il reato viene commesso da più persone riunite. Uguale pugno di ferro si profila in carcere, con un nuovo reato di “rivolta carceraria”. Che non solo innalza di molto le pene, ma equipara atti violenti alla resistenza passiva. Recita l’articolo 18 del ddl, che porta le firme di Carlo Nordio e Matteo Piantedosi: “Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni”. Previsti incrementi ulteriori di pena se a seguito della rivolta ci sono feriti o addirittura morti. Alla Camera stanno esaminando e votando gli emendamenti al ddl Sicurezza. Ed è subito polemica. Il Pd, per bocca di Matteo Mauri, già viceministro dell’Interno nel governo giallo-rosso, dice: “Siamo davanti a una pericolosa deriva reazionaria da parte del governo. Un giro di vite che non trova alcuna motivazione e che potrebbe portare alla reclusione fino a due anni anche di studenti che organizzano un sit-in davanti alla scuola”. Il Pd ha tentato inutilmente di opporsi. E invece. “È chiaro - insiste Mauri - l’intento intimidatorio e la volontà di limitare in maniera drastica la possibilità di protestare, anche in modo assolutamente pacifico: queste dimostrazioni di dissenso e di libero pensiero sono espressioni di libertà, devono essere considerate sacrosante in democrazia e devono essere garantite e tutelate dalle Istituzioni dello Stato”. Indignate le reazioni anche del M5S. “Il governo - sostiene il deputato Federico Cafiero De Raho, vice presidente della commissione Giustizia - criminalizza il dissenso pacifico e meramente passivo. Lo stesso prevedono per la protesta pacifica in carcere, proprio mentre i suicidi nelle celle si susseguono e il disagio dei detenuti è diventato un’emergenza. Quello che vuole fare questo governo è veramente spaventoso”. E aggiunge la deputata Valentina D’Orso: “Il governo alza volutamente l’asticella della conflittualità sociale e sa di esporre le Forze dell’Ordine a maggiori rischi. Per questo rafforza alcuni strumenti e tutele degli agenti: non allo scopo di dar loro maggiore dignità, ma per provare a proteggerli dalla crescente tensione che lo stesso governo con le sue scelte politiche sta creando. È un piano inclinato pericolosissimo e inquietante per la nostra democrazia”. Ritirati, invece, alcuni emendamenti della Lega, che avrebbero dato un sapore ancora più repressivo alla legge. Ad esempio quello che prevedeva la non punibilità per i pubblici ufficiali che “al fine di adempiere un dovere” usano o fanno usare armi o altri strumenti di coercizione fisica anche quando “vi sono costretti dalla necessità di respingere una violenza o vincere una resistenza attiva o passiva all’autorità”. Dietrofront anche sull’obbligo di arresto in flagranza per chi durante una manifestazione usa caschi o altro per rendere difficoltoso il proprio riconoscimento, misura che la polizia ha sempre ritenuto controproducente perché innesca inutili tensioni di piazza. Restano ancora accantonati gli emendamenti della Lega sulla castrazione chimica per gli stupratori e le prediche in italiano nelle moschee. Saranno esaminati presto. Decreto sicurezza, passa la norma “anti-Gandhi”: diventano reato le proteste pacifiche in carcere di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 giugno 2024 La norma anti-Gandhi, così è stato definito per rendere immediatamente l’immagine di una manifestazione pacifica, è passato. In Commissione, tutti gli emendamenti dell’opposizione al Disegno di legge sicurezza sono stati respinti e il testo della maggioranza approderà in aula così, portando una stretta mai vista al diritto di protestare. Carcere, addirittura fino a due anni, se si è in gruppo e con il proprio corpo si blocca il passaggio di veicoli. Teoricamente persino un gruppo di studenti che fa un sit-in di protesta davanti una scuola fermando il traffico per qualche minuto rischia il carcere. “Siamo davanti a una pericolosa deriva reazionaria da parte del governo - dice il responsabile sicurezza del Pd, Matteo Mauri - Un giro di vite che non trova alcuna motivazione e che potrebbe portare alla reclusione fino a due anni anche di studenti che organizzano un sit-in davanti alla scuola.È chiaro l’intento intimidatorio e la volontà di limitare in maniera drastica la possibilità di protestare, anche in modo assolutamente pacifico: queste dimostrazioni di dissenso e di libero pensiero sono espressioni di libertà, devono essere considerate sacrosante in democrazia e devono essere garantite e tutelate dalle istituzioni dello stato”. E invece, in commissione Affari costituzionali della Camera il testo della contestatissima norma varata dai ministri Nordio e Piantedosi è passato liscio. Carcere fino a un mese per chi da solo blocca una strada e da sei mesi a due anni se il reato viene commesso da più persone riunite. La legge attualmente prevede solo una multa da mille a quattromila euro, la modifica di fatto istituisce il reato penale di blocco stradale punibile appunto con la reclusione. Protestano compatte le opposizioni: “Il testo di questo provvedimento è stato scritto da qualcuno che aveva un manganello in mano, non una penna - dice il capogruppo di AVS in commissione Giustizia Devis Dori - Una follia che comprime il diritto di manifestare, da oggi la nonviolenza è reato”. “Con la trasformazione del blocco stradale e ferroviario da illecito amministrativo a reato in caso di protesta di gruppo, il governo mira a colpire il diritto dei cittadini a manifestare contro quello che si ritiene sia un fatto ingiusto, criminalizza il dissenso pacifico e meramente passivo. Lo stesso prevedono per la protesta pacifica in carcere, proprio mentre i suicidi nelle celle si susseguono e il disagio dei detenuti è diventato un’emergenza. Quello che vuole fare questo governo è veramente spaventoso”, aggiunge il deputato M5S Federico Cafiero De Raho, vice presidente della commissione Giustizia, nella discussione degli emendamenti al ddl Sicurezza nelle commissioni riunite Giustizia e Affari Costituzionali. La deputata M5S Stefania Ascari ha osservato come lei stessa si candidi ad essere prossimamente denunciata, perché da anni partecipa “a manifestazioni delle lavoratrici e dei lavoratori che protestano contro le condizioni disumane del loro impiego, per le retribuzioni da fame, per le ferie negate, per gli orari di lavoro massacranti e per tanti altri diritti di fatto soppressi. Il governo e la maggioranza con questo Ddl vogliono sostanzialmente negare il diritto alla protesta dei lavoratori, sanzionando anche la protesta pacifica e la resistenza passiva non violenta. È gravissimo, una deriva inaccettabile che annulla la nostra democrazia”. Misure alternative al carcere, siglato accordo tra CSVnet e Ministero della Giustizia csvlombardia.it, 28 giugno 2024 Promuovere la sottoscrizione di convenzioni locali tra Centri di servizio per il volontariato (Csv), enti del terzo settore e tribunali, per ampliare e diversificare ulteriormente le opportunità di svolgimento del lavoro di pubblica utilità (Lpu) ai fini della messa alla prova per adulti. ?uesto l’obiettivo del Protocollo nazionale firmato lo scorso 12 giugno dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dalla presidente di CSVnet, l’associazione nazionale dei 49 Csv italiani, Chiara Tommasini. In dieci anni dalla sua istituzione la messa alla prova (Map) è diventata un volano importante per valorizzare un’Italia diversa, attiva e solidale: quella di migliaia di associazioni che aprono le porte a chi è alle prese con la giustizia anche se per reati minori. Secondo gli ultimi dati forniti dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, solo nel 2022 oltre 24mila persone hanno usufruito dei due istituti, impegnandosi, nell’87% dei casi, nel supporto in attività socio-assistenziali e sanitarie. La messa alla prova, infatti, prevede la sospensione del procedimento per l’imputato che ha la possibilità di evitare la condanna impegnandosi in opere a favore della collettività. Il lavoro di pubblica utilità (Lpu) coinvolge invece i condannati per reati minori e consente di scontare la pena svolgendo ore di lavoro non retribuito all’interno di strutture convenzionate con il ministero. Oltre agli enti di terzo settore (Ets) diversi Csv in questi anni hanno esercitato un ruolo fondamentale di ponte tra gli Uffici di esecuzione penale esterna e le associazioni locali disponibili ad accogliere persone interessate da queste misure alternative al carcere. Molti, infatti, hanno siglato specifici accordi con gli Uepe del proprio territorio di riferimento. Ad essere al centro dell’accordo tra CSVnet e il Ministero ci sono proprio i Csv i quali, insieme agli enti e le associazioni che hanno volontari ad essi aderenti, possono favorire l’attivazione di nuove convenzioni con i tribunali ordinari per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, attraverso la mediazione e il supporto degli Uffici di esecuzione penale esterna-Uepe. ?uesto consentirà di affrontare meglio la crescente richiesta di ulteriori posti per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità in settori a forte impatto sociale. “Siamo molto soddisfatti di questo accordo, che rappresenta un passo importante verso il rafforzamento del ruolo delle associazioni del terzo settore nel sistema di giustizia di comunità - ha detto Chiara Tommasini, presidente CSVnet”. “La messa alla prova e i lavori di pubblica utilità sono strumenti fondamentali per promuovere l’inclusione sociale e offrire una seconda opportunità a chi ha commesso reati minori. Il protocollo nazionale non amplia solo le opportunità di collaborazione tra i Centri di servizio per il volontariato e i tribunali, ma riconosce anche l’impegno quotidiano delle associazioni nel sostenere chi si trova in situazioni difficili. Un passo importante, a cui siamo giunti anche grazie al protocollo siglato tempo fa con la Conferenza nazionale volontariato e giustizia e che, insieme al recente accordo siglato con Anci nazionale, testimonia l’impegno di tutto il sistema dei Csv per dare un maggiore protagonismo agli Ets, coinvolti grazie alla riforma normativa, non solo nel realizzare le politiche pubbliche, ma anche nel collaborare alla loro programmazione e progettazione” conclude la presidente di CSVnet. Il Protocollo nazionale, che è stato curato dalla Direzione generale per l’Esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità, rappresenta un ulteriore e significativo progresso verso il potenziamento - anche in Italia - di un modello di giustizia di comunità in linea con le principali tradizioni europee. CSVnet associa i 49 Csv attivi in Italia che, con 300 punti di servizio e l’aiuto fornito da oltre 700 addetti, supportano quasi 50mila realtà soprattutto piccole e poco strutturate, circa 1.600 tra enti pubblici e altri soggetti e 135mila cittadini, raggiunti dalle attività di promozione del volontariato. www.csvnet.it. Scontro in vista al Consiglio superiore della magistratura sulla gestione delle procure di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 giugno 2024 I membri togati del Csm hanno elaborato una nuova circolare sull’organizzazione interna delle procure che in alcuni passaggi va oltre, se non contro, le norme approvate dal Parlamento, con l’obiettivo di ridurre i poteri in mano ai dirigenti. I laici sul piede di guerra. Si prospetta uno scontro al Consiglio superiore della magistratura fra i componenti laici, cioè quelli eletti dal Parlamento, e quelli togati, cioè scelti dai colleghi magistrati. Tema del contendere: la futura organizzazione interna delle procure. La riforma dell’ordinamento giudiziario approvata nel 2022 (la cosiddetta riforma Cartabia) ha infatti stabilito che i dirigenti delle procure devono elaborare il piano di organizzazione interna del proprio ufficio tenendo conto dei princìpi stabiliti dal Csm e poi sottoporre il documento all’approvazione del Consiglio stesso. Una disposizione di cui non si sentiva proprio la mancanza, visto che finisce per attribuire al Csm ulteriori poteri, rispetto a quanti già non ne abbia accumulati nel corso degli ultimi decenni, sulla gestione interna degli uffici giudiziari. La palla è stata colta al balzo dai magistrati, che hanno sempre avversato ogni rafforzamento del ruolo dei procuratori della Repubblica rispetto ai semplici sostituti. Il risultato è stato che i componenti togati della Settima commissione del Csm hanno elaborato una “nuova circolare sull’organizzazione degli uffici requirenti” che, in alcuni passaggi, va oltre, se non contro, le norme (approvate dal Parlamento) in vigore sull’ordinamento giudiziario, con il chiaro obiettivo di ridurre i poteri in mano ai dirigenti delle procure. La circolare, infatti, pur riconoscendo che “il procuratore della Repubblica quale titolare dell’ufficio del pubblico ministero vanta un potere sovraordinato rispetto al sostituto”, prevede poi una serie di disposizioni che attenuano il ruolo direttivo del procuratore. Il testo, per esempio, stabilisce che “il procuratore della Repubblica definisce in via generale i princìpi e i criteri per lo svolgimento delle attività dell’ufficio”, ma anche che questo potere “deve essere esercitato a valle di uno specifico momento partecipativo, rappresentato dalle apposite riunioni con i procuratori aggiunti, i magistrati di ogni singolo gruppo o dell’ufficio e dai contributi del servizio studi, nonché tenendo conto delle indicazioni emerse in tali sedi di confronto”. Insomma, la circolare proposta dai togati, come sottolinea la stessa relazione introduttiva, prevede in questo modo una “fase consultiva che, sebbene non vincolante, comporta per il procuratore lo specifico onere di attivarla e di tenere conto delle indicazioni che da essa provengono”. Si è di fronte a una procedura non prevista né richiesta dalla riforma Cartabia che, come è evidente, avrà come effetto quello di ridurre il potere del procuratore capo nell’organizzazione dell’ufficio. Un’altra novità riguarda il potere di revoca dell’assegnazione dei procedimenti, che spetta sempre al procuratore capo. Mentre oggi è previsto che quest’ultimo determina “i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione dei procedimenti”, nella circolare si stabilisce che il potere di revoca può essere esercitato “se il magistrato non si attiene ai princìpi e ai criteri definiti in via generale” (princìpi che a loro volta, come abbiamo già visto, devono essere stabiliti tenendo conto proprio delle indicazioni dei magistrati). In questo caso sembra palesarsi un contrasto con la normativa vigente. Insomma, per quanto la materia sia piuttosto tecnica, emerge una chiara tendenza dei membri togati del Csm a sfruttare la circolare per attenuare i poteri oggi riconosciuti ai capi delle procure. Una manovra, secondo quando trapela da fonti di Palazzo Bachelet, non affatto gradita dai membri laici. Che comunque, prima ancora del merito, nutrono forti perplessità proprio sulla possibilità del Csm di introdurre norme ulteriori a quelle già in vigore (se non addirittura in contrasto con queste). La discussione sulla circolare è cominciata mercoledì scorso al plenum del Csm. Interrotto per la mancanza del numero legale nel pomeriggio, l’esame riprenderà la prossima settimana. Con un intervento, pare, anche del vicepresidente Fabio Pinelli, che vorrebbe evidenziare le criticità della circolare. Quei processi mediatici che “tralasciano” sempre (o quasi) di dare notizia delle assoluzioni di Valentina Stella Il Dubbio, 28 giugno 2024 Il 60% degli articoli riguarda l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la fase finale del giudizio. E il caso Cerciello Rega non sembra fare eccezione: aula vuota. Due giorni fa si è celebrata a Roma la penultima udienza del secondo processo d’appello per l’omicidio del vice brigadiere Cerciello Rega. Il 3 luglio ci sarà la sentenza che deciderà il destino dei due statunitensi Finnegan Lee Eder e Gabriel Natale Hjorth. Non si tratta di caso assurto alla cronaca giudiziaria come accadde per l’omicidio di Meredith Kercher, tuttavia è un processo dalla rilevanza internazionale che descrive una doppia tragedia: quella di un giovane carabiniere morto appena tornato dal viaggio di nozze e quello di due ragazzi appena maggiorenni al momento del drammatico evento, da cinque anni in custodia cautelare in un Paese straniero. Eppure il mondo dell’informazione si è dimenticato del processo, o meglio di una parte di esso. Andando ad analizzare la rassegna stampa relativa alle quattro udienze che si sono tenute fino ad oggi quello che risalta agli occhi è che tutti gli articoli hanno dato notizia solo alle richieste di condanna del procuratore generale. Nulla sulle arringhe delle difese. Ovviamente quando ci sarà la sentenza l’aula del Tribunale capitolino sarà gremita, come lo è stata il primo giorno di ogni processo. Questo conferma che l’informazione giudiziaria è parziale, appiattita sulle tesi dei pubblici ministeri e manca, di conseguenza, della narrazione di tutte le udienze, quando le difese fanno emergere le loro tesi. Le nostre non sono suggestioni ma considerazioni supportate da dati. Una ricerca condotta qualche anno fa dall’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione Camere Penali, sotto la direzione dell’avvocato Renato Borzone, in collaborazione con il dipartimento di statistica dell’Università di Bologna, ha rilevato, analizzando gli articoli di cronaca giudiziaria, “acquiescenza pregiudiziale alle tesi dell’accusa, inadeguato distacco dal ‘ poterè giudiziario, a volte ideologicamente - quanto acriticamente - considerato un ‘ contropoterè del male assoluto, ‘ la politica’”. Il contenuto degli articoli, poi, “è fondato essenzialmente su fonti di carattere accusatorio (circa il 70% degli articoli non riporta la difesa quale fonte di informazione), e comunque larga parte del contenuto è, ancora una volta, modellato sulle tesi d’accusa, siano esse oggetto di apprezzamento e consenso o di mera esposizione”. Inoltre, oltre il 60% delle notizie riguardava l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la sentenza. Questo quadro fa venir fuori tutta l’ipocrisia che ha caratterizzato il dibattito sulla norma di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza e più recentemente quello sul presunto bavaglio per lo stop alla pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Come mai ci si impegna tanto ad informare sulla fase delle indagini e sulle richieste dell’accusa in Aula ma si disertano poi le udienze del processo? Dov’era la bellicosa stampa, per esempio, quando, per causa covid, diversi procedimenti si sono tenuti a porte chiuse? Nessuno ha gridato al bavaglio o alla censura. Una delle conseguenze di questo modo di fare cronaca giudiziaria sarà l’incapacità di spiegare ai cittadini la sentenza. Ad esempio, più sarà mediatizzata la tesi accusatoria, più farà scandalo una assoluzione o una derubricazione del reato nei vari gradi del processo. 20 gennaio 2019: la Prima Corte di Assise d’Appello di Roma, riqualificando il reato di omicidio volontario con dolo eventuale in omicidio colposo con l’aggravante della colpa cosciente, condanna a 5 anni di reclusione (rispetto ai 14 anni decisi in primo grado) Antonio Ciontoli. Alla lettura della sentenza scoppia il caos dentro e fuori l’Aula con le grida di protesta nei confronti della Corte da parte dei familiari e degli amici della vittima e di persone arrivate da tutta Italia per chiedere la condanna della famiglia Ciontoli: “Vergogna, è uno schifo! - Giudici venduti, non c’è Stato per Marco!”. 15 luglio 2022: la Corte d’Assise del Tribunale di Cassino assolve la famiglia Mottola dall’accusa di aver ucciso Serena Mollicone. Appena i giudici terminano la lettura del dispositivo in Aula si odono urla contro i togati: “Vergogna, vergogna” e contro gli imputati “Assassini, vergogna, come fate a dormire stanotte?”. Molti colleghi hanno commentato queste decisioni con parole simili a quelle delle tricoteuse dei social: “vergogna per una giustizia che non fa giustizia”. Chi si occupa di cronaca giudiziaria dovrebbe, prima di esprimere un parere sulla sentenza che senza dubbio può essere criticata, spiegare ai lettori e al pubblico televisivo quali sono le regole del processo e perché la Corte è arrivata a quella decisione. Ma se fino a quel momento si è prestato l’orecchio solo alla tesi della Procura e non si è seguito il processo sarà quasi impossibile motivare sui giornali o in televisione l’assoluzione. Ingiustizia è fatta. 15 anni in fumo in 15 minuti. Come si può diventare “il mostro” di Ilaria Gaspari Corriere della Sera, 28 giugno 2024 Un filosofo imputato in un processo (in corso) e una filosofa riflettono sulla giustizia sommaria del “tribunale sociale” che, senza ancora una sentenza, può abbattere la vita di una persona: “Non credo che mi riprenderò”. A fine novembre, una notizia inizia a rimbalzare da un quotidiano all’altro. Leonardo Caffo, “filosofo progressista”, “pensatore animalista e nemico degli stereotipi di genere”, è accusato di maltrattamenti dalla ex compagna. Molti giornali la rilanciano insistendo, con diversi livelli di sarcasmo, sul contrasto fra il pensiero del filosofo, che si occupa da anni di animalità, il suo ruolo di intellettuale impegnato e la gravità dell’accusa. Bomba nella sinistra: l’idolo è “maschio tossico”, sintetizza un titolo de La Verità. Negli articoli si citano dettagli tratti dalla tesi dell’accusa, solo che il processo è ancora in corso e il dibattimento non è concluso. E invece si diffonde, con la velocità con cui gli aggiornamenti viaggiano sui social e vengono condivisi, commentati, rilanciati, la percezione che il verdetto di colpevolezza sia già stato emesso. La gogna mediatica ha tempi molto più rapidi rispetto a quelli dei processi e una scarsa inclinazione al garantismo. “Ho ricevuto messaggi di persone che mi chiedevano di potermi venire a trovare. In carcere”, mi dice Caffo su zoom. Non è in carcere, ma in un parco spelacchiato dal primo caldo dell’estate, a Milano. “È stato bizzarro dover spiegare che ero a piede libero, e a tutti gli effetti incensurato”. Com’è successo che la tua reputazione è andata in fumo? “Quello che avevo costruito in quindici anni di studio e lavoro è crollato nel giro di quindici minuti. Dal momento in cui si è diffusa la notizia, in un quarto d’ora avrò ricevuto un centinaio di mail, oltre ai messaggi e commenti sui social. Chi mi augurava di morire, chi si offriva appunto di venire a trovarmi in prigione, chi mi dava del mostro, usando una parola a cui avevo sempre attribuito un’accezione positiva, in un senso da me lontanissimo - addirittura ci fu un titolo del Giornale, a gennaio, che mi attribuiva una frase che non mi sognerei mai di pronunciare: Scusami amore mio sono un mostro”. Monstrum in latino è il prodigio, il portento, il fatto eccezionale. Nei titoli più enfatici di questa lunga rassegna stampa sei spesso citato come enfant prodige trasformato in paria. Che riflessioni hai fatto sulla risonanza del tuo caso? “Ho visto all’opera il potere del clickbait. L’articolo che esce nel momento giusto perché diventi virale: la notizia del processo, di cui tutti i miei datori di lavoro erano già al corrente da mesi perché avevo ritenuto giusto informarli di quello che era un procedimento complicato e con tempi lunghi, è stata rilanciata a mezzo stampa nei giorni tragici in cui l’Italia era sconvolta dal femminicidio di Giulia Cecchettin. La notizia è stata diffusa sull’onda di una forte e comprensibile reazione emotiva a un delitto gravissimo. Il problema è che sfruttando questa risposta emotiva in primo luogo si perde l’occasione per un dibattito serio sul tema del patriarcato interiorizzato. Che effettivamente, anche in un uomo come me - che ha l’età che ha e per quanto sia considerato giovane nel mondo accademico è nato nel Novecento - di sicuro ha messo radici, malgrado quello che posso aver studiato, pensato, perché fa parte di un abito assunto inconsapevolmente, di un discorso più ampio sui ruoli e le relazioni, sull’idea tradizionale di famiglia, che va rivisto assolutamente. Ma siamo sicuri che il patriarcato introiettato lo si estirpi così? Non credo che fare di me un mostro, pubblicare la mia foto accanto a quella di Turetta, risolva il problema, che pure è un problema grave e urgente, di limitare i danni dell’annosa interiorizzazione di una cultura patriarcale violenta. Serve, al contrario, una riflessione profonda sui limiti della famiglia tradizionale, per esempio. Una riflessione critica nel senso più proprio”. Cos’è successo a livello lavorativo? “La cosa buffa è che proprio sul tema della famiglia stava uscendo un mio romanzo per Fandango, era già tutto pronto: Famiglia criminale, su Google lo si vede annunciato. Non è ancora uscito, vedremo. E un altro mio libro, un saggio per Raffaello Cortina sull’anarchia e il pensiero selvaggio: rimandato a data da destinarsi (forse usciamo a novembre). La collaborazione con un settimanale, su cui tenevo una rubrica che fino ad allora avevo gestito liberamente, si è interrotta. Alla NABA, dove sono professore ordinario, ho avuto una sospensione, scontata solo per un mese e poi consensualmente revocata. Con il Corriere, che pure ha avuto un atteggiamento neutrale, garantista, ho deciso di fare io un passo indietro. Insomma ho perso tutti i miei lavori nel momento in cui è stata resa pubblica la notizia di un fatto di cui, appunto, tutte le persone con cui lavoravo erano già al corrente. Fino ad allora non era stato un problema”. Come hanno reagito i tuoi colleghi? “In privato devo dire che ho avuto diverse manifestazioni di solidarietà. Pubblicamente, solo alcune donne (poche) si sono esposte per me. Nessun collega uomo ha preso la parola sui giornali o in TV per difendermi. E il fatto è che li capisco: e questa è una parte del problema, il segnale dell’urgenza di una riflessione critica che non si basi sulla contrapposizione pura”. Pensi che nella risonanza del tuo caso abbia avuto un ruolo anche una forma di anti-intellettualismo? “Sì, del resto in Italia è sempre successo. Pasolini collezionò decine di processi; ma veniva difeso pubblicamente. Carmelo Bene fu accusato di comportamenti violenti e fu difeso anche lui, addirittura in tv al Maurizio Costanzo Show. Ora c’è una risonanza mediatica diversa e fa paura essere associati a chi è accusato. E questo è il segno, come diceva spesso proprio Pasolini, che “siamo tutti a rischio”. A questa paura, dall’altro lato, si somma un interesse morboso per il gossip, un sensazionalismo facile. Ho ricevuto proposte al limite del grottesco: di strumentalizzare passando io per vittima (non ci ho pensato neanche un secondo) la mia storia, per soldi. Mi hanno proposto di seguirmi in tribunale, mi hanno offerto cifre anche alte per interviste e podcast, sapendo che vivo un momento di difficoltà economica, perché ho spese importanti legate al processo e le mie entrate si sono molto ridotte. Ho rifiutato perché mi è chiarissimo che la priorità è tutelare tutte le persone coinvolte”. I giornali di questa lunga rassegna stampa hanno usato nel raccontare il tuo caso toni molto diversi a seconda dell’orientamento politico. Ma forse il risultato converge? “A destra prevale la soddisfazione di poter dire “anche fra i buoni sono dei mostri”, fra l’altro su testate su cui le vicende di ministri indagati vengono trattate con allegra indifferenza. La sinistra, al contrario, mostra di non sopportare il sospetto dell’impurità, della fallibilità. Si costruiscono santini di intellettuali e pensatori e si perde di vista la componente spuria del pensiero, il rischio dell’errore. Credo che il problema, in tutta questa storia e in questo atteggiamento disciplinare, è che si perde la possibilità di distinguere, equiparando comportamenti di differente gravità, alimentando, ancora, un antagonismo tutto oppositivo. Non mi lamento, né voglio assumere la postura della vittima. È una posizione molto sgradita quella di chi non agisce ma patisce e basta; lo spiega bene un bel libro di Daniele Giglioli, Critica della vittima. Sono stato fortunato, penso che la mia vita sia come un’altalena, fino ai 35 anni sono stato in alto, ora scendo”. Hai reagito scrivendo lettere aperte ai direttori dei quotidiani che ribattevano la notizia. “Hanno scambiato per desiderio di mantenere la mia reputazione il desiderio di proteggere faccende delicate e familiari. Non accadrà mai che io parli male delle persone implicate in questa storia. Credo profondamente nella libertà di informazione e ho fiducia nella giustizia, ma penso che tutta questa vicenda sia utile per riflettere sulla diffusione di notizie che riguardano temi sensibili. Sono questioni di cui non si vuole parlare, queste legate alla giustizia. Com’è possibile che la storia degli abusi su minori nel carcere Beccaria, denunciata e documentata, abbia avuto sui media uno spazio infinitesimo rispetto a pettegolezzi che tengono banco per mesi?”. Oggi, qualche mese è passato. Come stanno le cose? “In seguito anche a una petizione delle mie studentesse alla NABA, sono tornato a insegnare e sono estremamente grato all’atteggiamento maturo e garantista della mia istituzione. Con gli studenti non ho avuto problemi, mai. Ho ripreso una ricerca sulla condizione dei migranti e la concezione dei confini a cui lavoravo da anni. Se ne è parlato all’estero, ci sono stati giornali norvegesi che hanno dedicato molto spazio al progetto Rethinking Lampedusa. La stampa italiana, no”. Il fatto di essere uno studioso di filosofia è stato di aiuto? “Penso che un intellettuale debba avere un senso morale proprio, e quel senso morale ho cercato di coltivare, leggendo e scrivendo non per pubblicare, ma per me. Ho vissuto cose che avevo studiato: sorvegliare e punire, sulla mia pelle. Ho scoperto che può capitare che suoni il campanello a mezzanotte perché i carabinieri ti recapitano un mandato di comparizione. Ho vissuto giornate in cui la mattina spiegavo Kant ai miei studenti e il pomeriggio lo passavo a fare test per dimostrare di essere in grado di intendere e di volere ai servizi sociali. Dall’inizio di questa storia, le spese legali sono state altissime; ho fatto un mutuo. La mia psicologa credo cercasse di capire se mi sarei suicidato, statisticamente quella di saltare dal balcone è la scelta che compiono molti padri in situazioni simili alla mia. Nel 2022 si sono uccisi in molti per problemi simili al mio; la gente dice, quando succede, “si vede che erano colpevoli”. I numeri di queste morti ci interrogano, come ci interrogano e ci richiamano alla necessità di una riflessione critica profonda i numeri enormi dei femminicidi”. Cosa ti aspetti ora? “So che i tempi del processo sono lunghi, penso che potrebbero arrivare altre shitstorm. Sinceramente, e lo dico con tutta la serenità possibile, non credo che mi riprenderò da questa storia. Che la mia reputazione sarà riabilitata. L’unica cosa in mio potere è quella che cerco di fare: impegnarmi in modo che quello che ho vissuto io possa essere, in futuro, utile a qualcun altro”. Gli italiani e la corruzione di Sabino Cassese Il Foglio, 28 giugno 2024 È uno dei motivi per cui si dicono insoddisfatti del proprio paese. Ma è un fenomeno così pervasivo? E poi come si fa a calcolarla: con i titoli dei giornali o con i numeri? Dati, idee e tendenze inattese. L’Italia e gli italiani sono sempre stati poco in sintonia. È diffuso tra gli italiani un atteggiamento critico o piagnone verso la propria nazione. Prevalgono la tendenza a generalizzare e l’insoddisfazione generica e spesso generale per il Paese e i concittadini. Ora, un Paese deve conoscere sé stesso per potersi valutare, perché i cittadini possano votare - e cioè scegliere -, perché i membri della comunità possano partecipare alla vita collettiva. A questo scopo, oltre alle esperienze personali, vi sono i media. Ma questi forniscono notizia di episodi quotidiani, non riescono a metterli in prospettiva, a compararli, a misurare le loro dimensioni e la loro persistenza nel tempo. Un noto scrittore dichiarava di non leggere i giornali perché gli consentivano di conoscere “le cose”, ma non di comprendere “il senso delle cose”. Una delle ragioni della insoddisfazione degli italiani rispetto alla nazione è l’opinione diffusa che il Paese sia dominato dalla corruzione. Il calcolo della corruzione - Per questo motivo è importante uscire dagli stereotipi e calcolare la corruzione. Vi sono tre modi per farlo, tutti imprecisi. Il primo registra la corruzione percepita. Il secondo la corruzione misurata. Il terzo la corruzione giudicata. Il primo fornisce percezioni; quindi le indagini relative forniscono dati più alti quando i media dànno notizie di casi eclatanti di corruzione, e dati meno preoccupanti quando di corruzione si parla meno. Il secondo fornisce testimonianze di persone che sono state effettivamente oggetto di tentativi di corruzione o che conoscono l’esistenza di tali tentativi; quindi, non tiene conto dei casi di corruzione che possono mettere in imbarazzo il rispondente, e dei casi di corruzione di maggiori dimensioni, più nascosti. Il terzo è fondato sui casi in cui la corruzione è stata scoperta o in sede amministrativa, dall’autorità nazionale anticorruzione (Anac) o dalla Corte dei conti, o in sede giudiziaria, dalle procure e dai giudici penali. Dei dati è bene quindi fare un uso attento e principalmente usare quelli dell’istituto nazionale di statistica (Istat), che nell’ultima indagine è giunto alla conclusione che la corruzione è in diminuzione. L’indagine Istat sul 2022-2023 - Secondo l’Istat, in questo periodo “si riscontra una diminuzione dal 2,7 per cento all’1,3 per cento delle richieste ricevute dalle famiglie nel triennio precedente l’intervista rispetto all’edizione del 2015-2016; i cali più consistenti riguardano i settori lavoro, uffici pubblici, sanità e giustizia. Nel corso della loro vita si stima che il 5,4 per cento delle famiglie abbia ricevuto richieste di denaro, favori, regali o altro in cambio di agevolazioni, beni o servizi; le richieste più frequenti al Centro (6,8 per cento), meno nelle Isole (3,6 per cento). Diminuisce anche la quota di chi conosce persone che hanno avuto esperienze di corruzione: dal 13,1 per cento (2015-2016) all’8,3 per cento (20222023)”. L’Istat ha calcolato il numero di imprenditori e liberi professionisti che ritengono che càpiti sempre o spesso di pagare per ottenere alcuni servizi; la quota di cittadini, tra i 18 e gli 80 anni, cui sono stati offerti denaro, beni o agevolazioni in cambio del voto; la percentuale di persone che ritiene accettabile pagare per trovare un posto di lavoro al proprio figlio. Secondo l’indagine Istat, la quota percentuale maggiore di corruzione riguarda l’Italia centrale, probabilmente per la presenza degli uffici centrali (ministeri, autorità, agenzie) a Roma. Nella maggior parte dei casi di corruzione, c’è stata una richiesta esplicita da parte del diretto interessato (la stima è pari al 31,5 per cento, circa 94 mila famiglie) o questi lo ha fatto capire (33,0 per cento); segue la richiesta da parte di un intermediario (22,6 per cento). In altri casi le famiglie riportano che non vi è stata una vera e propria richiesta dal momento che “si sa che funziona così” (8,1 per cento), mentre in un residuale 2,1 per cento è il cittadino ad avere offerto di propria iniziativa denaro o regali. Tuttavia, a questa domanda il 4,4 per cento degli intervistati si è rifiutato di rispondere e il 4,3 per cento ha detto di non ricordare o di non sapere come si fosse svolto il fatto. La richiesta da parte di intermediari è più frequente in sanità (29,6 per cento), mentre nel settore degli uffici pubblici si è esposto il diretto interessato che lo ha fatto capire (41,3 per cento). Il metodo dell’istat - Come notato, i tipi di corruzione individuati dall’istat consistono nella richiesta di denaro in cambio di favori, prestazioni di beni e servizi, nonché nel voto di scambio, definito dalla legge scambio elettorale politico- mafioso, più frequente nelle elezioni amministrative, e nel pagamento per ottenere licenze, contratti e concessioni da funzionari pubblici o anche privati. L’istat ha calcolato la corruzione sia nei rapporti tra cittadini e pubblici ufficiali, sia nei rapporti tra privati. L’ha fatto ormai per un decennio. L’ha fatto, da ultimo, con circa 31 mila interviste. Dal 2018, si vale anche dei criteri determinati dalle Nazioni Unite per la misurazione della corruzione. Il limite principale dell’indagine sta nel fatto che essa probabilmente non coglie i singoli casi di grande corruzione, che rimangono più nascosti e non riesce a ottenere da tutti i rispondenti tutte le informazioni. Il silenzio dell’anac - L’Italia si è dotata da un decennio di un’apposita autorità, chiamata Autorità nazionale anticorruzione (Anac), con lo scopo di individuare e sanzionare i casi di corruzione. L’anac è incaricata della prevenzione della corruzione e della vigilanza, all’interno della pubblica amministrazione, della corretta gestione dei contratti pubblici, della concorrenza negli appalti, e del rispetto della trasparenza. L’Anac si affianca, quindi, alla Corte dei conti e alle procure e ai giudici penali. Essa dispone di una struttura corposa, composta di non meno di una trentina di servizi (Segreteria del presidente, Segreteria del segretario generale, Ufficio operativo speciale, Relazioni istituzionali e drafting legislativo, Misure straordinarie e commissariamenti, Relazioni internazionali, Affari generali e organizzazione, Risorse umane e Formazione, Programmazione delle risorse finanziarie, bilancio e contabilità, Gare e logistica, Precontenzioso e pareri, Regolazione contratti pubblici, Affari legali e contenzioso, Servizi informatici interni, Servizi IT per i contratti pubblici, Servizi IT per la prevenzione della corruzione e trasparenza, Servizi infrastrutturali informatici e sicurezza IT, Vigilanza collaborativa, vigilanze speciali e centrali di committenza, Vigilanza lavori pubblici, Vigilanza servizi e forniture, Vigilanza concessioni e PPP, Vigilanza sulle SOA e rating di impresa, Sanzioni contratti, Sanzioni SOA e operatori economici qualificati e annotazioni, Gestione elenchi e qualificazione stazioni appaltanti, Osservatorio studi e analisi banche dati, Rilevazione e monitoraggio prezzi di riferimento, PNA e regolazione anticorruzione e trasparenza, Vigilanza in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, Relazioni esterne, attività consultiva e vigilanza collaborativa in materia di anticorruzione e trasparenza, Vigilanza sulla imparzialità dei funzionari pubblici, Vigilanza sulle segnalazioni dei whistleblowers). L’anac dispone di un centro di documentazione per la misurazione del rischio di corruzione. Lì si possono trovare una bibliografia sulla corruzione nonché dati che misurano elementi prospettici, legati al rischio di corruzione, quindi per mettere sull’avviso e prevenire, non per conoscere e misurare. Il suo limite principale è che interviene su un fenomeno che non indaga in modo sistematico e di cui quindi ha una conoscenza episodica. Un suggerimento - Da questo breve resoconto possono trarsi una conclusione e un suggerimento. La conclusione è di non ingigantire, sopravvalutandolo, il fenomeno della corruzione, perché le indagini dell’ultimo decennio mostrano che non ha dimensioni preoccupanti e che ha un andamento decrescente. Il suggerimento è di non tenere separati gli apparati che raccolgono dati e li analizzano da quelli che intervengono e correggono (o sanzionano), perché - per parafrasare un motto di uno dei padri della patria - non si può deliberare senza conoscere. Legittimo impedimento, primo sì alla legge della Lega di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 giugno 2024 Approvata in commissione Giustizia la proposta di Erika Stefani: “Così tuteliamo avvocati e cittadini”. È stato approvato in commissione Giustizia il disegno di legge della Senatrice Erika Stefani (Lega) in materia di legittimo impedimento degli avvocati nel processo civile. Nello specifico vengono fatte delle integrazioni riguardanti l’articolo 153 del codice di procedura civile e l’articolo 81-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. In merito all’articolo 153 cpc, il testo approvato in commissione Giustizia del Senato prevede questa aggiunta dopo il secondo comma: “Il difensore che comprova a mezzo di idonea certificazione di essere incorso in decadenze per causa a egli non imputabile o comunque derivante da caso fortuito, forza maggiore o improvvisa malattia, infortunio o particolari condizioni di salute legate allo stato di gravidanza, per assistenza a figli, famigliari con disabilità o con grave patologia, esigenze improrogabili di cura della prole in età infantile o in età scolare, che non gli consentano di delegare le funzioni nella gestione del proprio mandato, è rimesso in termini con provvedimento dal giudice o, prima della costituzione delle parti, dal presidente del tribunale. Tale disposizione non si applica in caso di mandato congiunto”. Anche l’articolo 81-bis delle disposizioni di attuazione del cpc, in base al ddl Stefani, prevede un ulteriore comma: “Quando il difensore non si presenta all’udienza e l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o improvvisa malattia, infortunio o particolari condizioni di salute legate allo stato di gravidanza, per assistenza a figli, famigliari con disabilità o con grave patologia, esigenze improrogabili di cura della prole in età infantile o in età scolare, che non gli consentano di delegare le funzioni, comprovate da idonea certificazione prodotta, se possibile, prima dell’inizio dell’udienza, o comunicate alla cancelleria del giudice che procede anche a mezzo posta elettronica certificata nei medesimi termini, il giudice dispone il rinvio a nuova udienza. Tale disposizione non si applica in caso di mandato congiunto. L’assenza di comunicazione anticipata dell’impedimento, se giustificata, non può costituire da sola motivo di rigetto dell’istanza”. Secondo la senatrice Stefani la norma in materia del legittimo impedimento degli avvocati nel processo civile rappresenta una “scelta di buonsenso, portata avanti per garantire ai legali il diritto-dovere di poter svolgere il proprio lavoro liberi da condizionamenti, tutelando così i cittadini”. Il passaggio favorevole in commissione Senato è avvenuto con il voto della maggioranza (l’opposizione si è astenuta). “Siamo molto soddisfatti”, evidenzia l’esponente leghista. “Troppe volte - commenta - abbiamo visto episodi in cui un difensore, a causa di problemi familiari o di salute anche molto gravi, non ha potuto chiedere il rinvio dell’udienza o incaricare altri colleghi di seguire i propri assistiti. Con questa misura colmiamo un vuoto normativo esistente nel processo civile, prevedendo come causa di legittimo impedimento il caso fortuito, la forza maggiore e altri eventi che l’esperienza delle aule di giustizia segnala come necessari, coniugando ragionevolmente il regolare svolgimento dell’attività giudiziaria con la sussistenza di situazioni gravi riguardanti i difensori tali da giustificare un’assenza. È per la Lega una battaglia di democrazia, perché assicurare l’indipendenza e l’autonomia degli avvocati significa non abbandonare i cittadini, garantendo il diritto alla difesa previsto dalla Costituzione”. Il ricorso per cassazione inammissibile impedisce il vaglio della denuncia-querela di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2024 La Corte di cassazione ribadisce che l’inammissibilità del ricorso supera la questione di procedibilità sottoposta per la prima volta in sede di legittimità. La Corte di cassazione ribadisce che l’inammissibilità del ricorso supera la questione di procedibilità sottoposta per la prima volta in sede di legittimità. In particolare afferma che non si può pretendere con il ricorso per cassazione la valutazione, non chiesta in sede di merito, del reale contenuto dell’atto di denuncia fatto dalla parte offesa. Infatti, nel caso concreto, il ricorrente invocava la causa di improcedibilità per il furto mono aggravato, per cui era stato condannato, solo all’atto di impugnare la sentenza pronunciata dal giudice del rinvio. Non aveva in effetti sollevato la questione nel primo ricorso per cassazione quando tra la sentenza di appello e il giudizio di legittimità era già entrata in vigore la Riforma Cartabia. E neanche nel giudizio di rinvio conclusosi con la sentenza ora impugnata e con cui si chiedeva ora per la prima volta l’esame della denuncia orale della vittima. Quindi la Cassazione penale nel dichiarare - con l’attuale sentenza n. 25441/2024 - l’inammissibilità del ricorso ha ritenuto di ribadire, in base al precedente recato dalla decisione n. 5223/2023, che nei giudizi pendenti in sede di legittimità l’improcedibilità per mancanza di querela, necessaria in base alla Riforma Cartabia per reati prima perseguibili d’ufficio, non prevale sull’inammissibilità del ricorso, poiché diversamente dai casi di abolitio criminis non è idonea a incidere sul giudicato sostanziale. Sulla retroattività della procedibilità più favorevole all’imputato non sussiste ormai dubbio anche in assenza di una norma transitoria che la stabilisca. Infatti, la querela è atto di rilievo non solo formale, ma anche sostanziale, e quindi i regimi “vecchio o nuovo” vanno applicati nei procedimenti pendenti in base al principio del favor rei. Il caso - Nel caso concreto di fatto il ricorrente aveva per la prima volta sottoposto alla Corte di legittimità la domanda di interpretare il contenuto concreto della “denuncia orale-querela” presentata dalla parte offesa, al fine di escludere che integrasse tutti gli elementi della querela da porre a base della procedibilità dell’azione penale. La Cassazione risponde però che si tratta di accertamento non espletabile ictu oculi e che tale esame avrebbe dovuto essere chiesto in sede di merito. Quindi si è formata la preclusione del giudicato sostanziale non potendo svolgersi in sede di legittimità l’interpretazione del documento allegato (contenente quella che il ricorrente indicava come denuncia orale non integrante una querela) al fine di stabilire se con esso fosse stata espressa la volontà punitiva da parte del denunciante. In effetti, quest’ultimo, risulta dal ricorso che non avesse nominato un difensore e che non si fosse costituito parte civile. Frosinone. Si toglie la vita in carcere un detenuto di 21 anni I Dubbio, 28 giugno 2024 Anastasìa: “Fate la cosa giusta, altrimenti sarà un’estate di lacrime e dolore”. Il Garante del Lazio: “Quel poco che sentiamo non ci piace: nuovi reati, pene più alte, l’idea che la sofferenza e le proteste in carcere si affrontino con le maniere forti”. “Non sapremo mai se si è trattato di un suicidio o di una morte accidentale, dovuta all’abuso dell’inalazione del gas, dunque se si è trattato di un suicidio volontario o di un suicidio involontario, ma sempre e comunque di un suicidio si è trattato, di un ragazzo poco più che ventenne, detenuto in attesa di giudizio, con problemi di salute mentale (nelle scorse settimane era stato ricoverato in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio). E nel frattempo tutto tace e quel poco che sentiamo non ci piace: nuovi reati, pene più alte, l’idea che la sofferenza e le proteste in carcere si affrontino con le maniere forti: ordine, disciplina e ulteriori punizioni”. Così in una nota il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, alla notizia che un giovane detenuto è morto ieri nel carcere di Frosinone, dopo aver inalato il gas della bomboletta da campeggio che aveva in cella. “Da settimane - prosegue Anastasìa - il governo annuncia un decreto che non c’è e, se ci sarà, non cambierà le cose. È urgente, invece, un provvedimento deflattivo, che riduca la popolazione detenuta agli autori dei reati più gravi, nel numero adeguato non solo agli spazi detentivi (nelle ultime settimane abbiamo ricominciato a vedere i materassi per terra, di quelli che non riescono ad avere neanche una branda su cui metterlo), ma anche al personale in servizio che, se va bene, potrebbe gestire 40-45mila detenuti, non i 61mila che ce ne sono ora”. “Tutti gli addetti ai lavori, dai magistrati di sorveglianza al personale penitenziario, anche di polizia, dai garanti agli avvocati, sanno che solo un provvedimento di amnistia e indulto, limitato ai reati puniti fino e ai residui pena inferiori ai due anni, potrebbe ristabilire in tempi rapidi condizioni di vita e di lavoro dignitose in carcere, ma il governo si sottrae anche alla minima proposta dell’on. Giachetti di aumentare i giorni di liberazione anticipata ai detenuti che sono stati disponibili alle offerte trattamentali dell’amministrazione penitenziaria. Se continuiamo così – conclude Anastasìa - sarà un’estate di lacrime e dolore. Mettetevi una mano sulla coscienza e fate la cosa giusta, prima che sia troppo tardi”. Il drammatico racconto degli agenti penitenziari. Parla Gennarino De Fazio: “Ha messo fine alla sua brevissima vita ieri pomeriggio, poco prima delle 15.00, nella sua cella dov’era detenuto inalando gas dalla bomboletta di campeggio”. Solo ieri avevamo raccontato del 47esimo suicidio in carcere, oggi il bilancio è ancora più tragico. A comunicarlo è Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Aveva solo 21 anni, nato in Italia di seconda generazione, ha messo fine alla sua brevissima vita ieri pomeriggio, poco prima delle 15.00, nella sua cella dov’era detenuto nel carcere di Frosinone inalando gas dalla bomboletta di campeggio. Diversamente che in altre circostanze in cui lo scopo è sembrato essere quello di ‘sniffare’ il gas, in questo caso tutto lascerebbe pensare a un suicidio. È il 48esimo dell’anno, il terzo in poco più di 24 ore, in una tragica e spaventosa sequenza. Ai suicidi dei reclusi vanno peraltro aggiunti quelli dei poliziotti penitenziari, ben 4 nel 2024. Una strage senza fine e senza precedenti. Ci chiediamo come facciano a prendere sonno coloro che ne hanno, innegabilmente, la responsabilità politica e morale”. dichiara il sindacalista penitenziario. “Tante morti e, in generale, tanti eventi disfunzionali non si erano mai visti nelle carceri almeno negli ultimi 30 anni. Se, come temiamo, non si invertirà il trend, a fine anno si batterà ogni record, superando anche il numero di morti del 2020, quando ci furono le rivolte conseguenti alla pandemia da coronavirus. Nei penitenziari, la vera pandemia è oggi. La pandemia dell’indifferenza o, per dirla in termini più coloriti, del menefreghismo”, rincara la dose il Segretario della Uilpa PP. “Peraltro, nella stessa sezione detentiva in cui si è verificato il probabile suicidio, poche ore dopo, verso le 18.00, alcuni ristretti hanno aggredito un operatore di Polizia penitenziaria fratturandogli un piede. Insomma, scene di guerriglia. Tutto questo mentre dal Governo si propagandano assunzioni, assolutamente vere e di cui va dato merito, peccato che non bastino a coprire gli agenti pensionati. Dunque, il personale è sempre meno, giorno per giorno, e i detenuti sempre di più. Mancano 18mila unità al fabbisogno della Polizia penitenziaria, mentre i reclusi sono 14mila oltre i posti disponibili. Una situazione folle, indegna per un paese totalitario, figuriamoci per uno che voglia definirsi democratico e civile. Non sappiamo più come dirlo, ridurre subito il sovraffollamento, assumere agenti e assicurare l’assistenza sanitaria. Non ci sono altre ricette, se non per prescrivere placebo. Non le nostre reiterate e documentate denunce, ma i fatti, e i morti, lo dimostrano. Il governo batta un colpo”, conclude De Fazio. Genova. Suicidi in carcere, un’emorragia senza fine: “Fermiamo il massacro” di Erica Manna La Repubblica, 28 giugno 2024 Nel giorno della Maratona Oratoria “Non c’è più tempo” davanti al Palazzo di Giustizia di Genova, un egiziano di 47 anni si è impiccato con la cintura nella sua cella di Marassi. Il numero è sbagliato. Perché il tabellone rosso che tiene accesi i riflettori su quanti si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno, sistemato nel cortile del palazzo di Giustizia, non riesce a tenere il conto di una emorragia che non si arresta. E così, stamattina, 46 è diventato 47. Un’altra persona che si è uccisa dietro le sbarre. “Non c’è più tempo”, è il titolo dell’appello della maratona oratoria andata in scena in tutta Italia, a Genova davanti al Palazzo di Giustizia, organizzata dalla Camera Penale Ligure. E infatti, alle 7 della mattina, un uomo egiziano di 47 anni ancora da compiere si è impiccato con la cintura nella sua cella dentro al carcere di Marassi. Per lui, era già tardi. Un caso avvenuto a poche ore da un’altra morte, sempre in cella, sempre a Marassi: un detenuto che ha inalato volontariamente gas dal fornello da campeggio. “Siamo disperati, la maratona vuole porre l’accento proprio sui suicidi in carcere e lo striscione alle nostre spalle nel giro di poche ore è cambiato perché un detenuto si è tolto la vita nella nostra città - riflette Doriano Saracino, garante regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, alla maratona indetta dagli avvocati penalisti - in carcere si vive male e quindi si muore facilmente. Oggi siamo qui a parlare di suicidi, ma se consideriamo chi muore in carcere per altre cause, naturali o da accertare, che non vengono comunicate, si supera il numero di cento”. Saracino fa appello alla Regione, perché uno dei problemi per l’assegnazione di misure alternative che permettano di svuotare carceri perennemente sovraffollate riguarda l’emergenza casa: “Bisogna modificare la legge sull’edilizia residenziale pubblica che di fatto penalizza chi ha scontato una pena, perché non consente un reinserimento sociale. Chi ha una condanna anche di un anno per un reato punito fino a cinque anni, infatti, perde il diritto alla casa”. E poi, c’è la questione spinosa della salute dietro le sbarre, come raccontato su queste pagine partendo dalla storia di Laura Sasso, che chiede trasparenza sulla morte per polmonite della sorella Danila, detenuta a Pontedecimo. “Bisogna potenziare le cure mediche così come le opportunità di lavoro e di reinserimento”, è l’appello di Doriano Saracino. “La questione della vita in carcere non è un fatto marginale, da derubricare dall’agenda politica - interviene anche il consigliere regionale di Linea Condivisa Gianni Pastorino, vicepresidente della II Commissione Salute - bisogna intervenire con provvedimenti forti ed immediati: per detenuti e detenute, e anche operatori sanitari e penitenziari che lavorano in condizioni di grande difficoltà”. Uno dei temi meno affrontati è quello del diritto alla cura: “Una cura personalizzata, accurata - rimarca il garante - quello che riscontriamo, a volte, è una scarsa comunicazione tra direzione sanitaria e direzione del carcere, per comprensibili motivi di privacy. Legittimo, in punta di diritto: ma problematico nella gestione”. Poi, c’è l’aspetto dei farmaci. “Alcuni farmaci in carcere non sono ammessi, ed è comprensibile - spiega Saracino - cu sono però persone detenute che possono avere delle difficoltà. Per motivi di sicurezza, per lo più i farmaci vengono somministrati tutti insieme. Ma ho in mente, per esempio, una persona che ha subìto un intervento all’apparato gastrico e per lei è complicato, dovrebbe frazionarli. La tutela della salute, dentro, è complessa. Ma deve essere il più possibile individualizzata”. La maratona a staffetta, partita il 29 maggio, si concluderà a Roma l’11 luglio con una manifestazione nazionale: “Per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sul tema dei suicidi in carcere e in generale delle condizioni di detenzione”, spiega Fabiana Cilio, presidente della Camera Penale Regionale Ligure Ernesto Monteverde. Gli avvocati fanno appello al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere “interventi urgenti, a cominciare dalla liberazione anticipata speciale da 60 giorni anziché 45. Non risolverà la situazione, ma sarebbe un passo in avanti. Chiediamo anche che le misure alternative alla detenzione vengano applicate i in maniera molto più massiccia di quanto accade oggi: abbassano il tasso di recidiva”. Gianni Pastorino (Linea Condivisa): “Ennesimo suicidio in carcere, non è un fatto marginale da derubricare dall’agenda politica” Questa mattina inizia con l’ennesimo suicidio nel carcere di Marassi. Un uomo di nazionalità egiziana si è impiccato alle prime luci dell’alba. Inutili sono stati i tentativi di rianimazione. “Appare ancora più evidente oggi, quanto sia necessaria la manifestazione che si svolgerà nelle prossime ore avanti al Palazzo di Giustizia, promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane, proprio contro gli innumerevoli suicidi che avvengono nelle carceri di tutto il paese” dichiara il Capogruppo di Linea Condivisa in Regione Liguria Gianni Pastorino. Le condizioni di vita all’interno di queste strutture sono pesantissime, i detenuti e le detenute non hanno nessun tipo di supporto psicologico e non esistono piani di recupero e percorsi formativi. Dall’inizio del 2024, in sei mesi, si sono tolte la vita più di 44 persone, quasi una ogni tre giorni (dati Associazione Antigone). È più che evidente che si tratti di un’emergenza nazionale che deve essere presa in considerazione dal Governo ora. “Risulta più che mai necessario intervenire con provvedimenti forti ed immediati. Gli operatori sanitari e penitenziari lavorano in condizioni di grande difficoltà, pur intervenendo rapidamente, come accaduto questa mattina nel carcere di Marassi, ma ovviamente questo non basta. La questione della vita in carcere non è un fatto marginale, da derubricare dall’agenda politica” continua Gianni Pastorino, Vice Presidente della II Commissione Salute. Ricordiamo che le carceri italiane sono tra le peggiori della Comunità Europea, e alle condizioni in cui versano si uniscono i tempi biblici della nostra giustizia. Il carcere sembra un mondo dimenticato, dal punto di vista delle condizioni di vita, dal punto di vista dei progetti di recupero, dal punto di vista dell’architettura penitenziaria, dove le strutture sono speso inadeguate e rimaste a 100 anni fa. “Credo sia giusto intervenire nei confronti di chi ha violato la legge, ma deve essere altrettanto giusto assicurare ai detenuti e alle detenute condizioni di vita adeguate, sicure e certe, come certe e scure devono essere le condizioni di chi lavora in queste strutture” conclude il Consigliere Pastorino. Genova. Manifestazione degli avvocati penalisti fuori dal tribunale: “Servono misure alternative” di Alessandra Rossi Il Secolo XIX, 28 giugno 2024 Un detenuto egiziano si è tolto la vita stanotte. L’altro ieri un’altra tragedia sempre nello stesso carcere. Presidio degli avvocati penalisti fuori dal tribunale. Delmastro: “48 nuovi agenti a Imperia e Sanremo”. Un detenuto egiziano si è impiccato alle prime luci dell’alba nel carcere di Marassi. A darne notizia il capogruppo di Linea condivisa in Consiglio regionale, Gianni Pastorino, a poche ore da un’altra tragedia in cui ha perso la vita un’altra persona, a causa dell’inalazione di gas. “È più che evidente che si tratti di un’emergenza nazionale che deve essere presa in considerazione dal governo ora- è l’appello del consigliere- risulta più che mai necessario intervenire con provvedimenti forti e immediati. Gli operatori sanitari e penitenziari lavorano in condizioni di grande difficoltà, pur intervenendo rapidamente, come accaduto questa mattina nel carcere di Marassi, ma ovviamente questo non basta. La questione della vita in carcere non è un fatto marginale, da derubricare dall’agenda politica”. L’esponente del centrosinistra ligure rileva che “le condizioni di vita all’interno di queste strutture sono pesantissime, i detenuti non hanno nessun tipo di supporto psicologico e non esistono piani di recupero e percorsi formativi. Il carcere sembra un mondo dimenticato. Credo sia giusto intervenire nei confronti di chi ha violato la legge, ma deve essere altrettanto giusto assicurare ai detenuti condizioni di vita adeguate, sicure e certe, come certe e sicure devono essere le condizioni di chi lavora in queste strutture”. La manifestazione degli avvocati penalisti: “Servono misure alternative” - Oggi, proprio per denunciare le condizioni di vita e di lavoro all’interno delle carceri italiane e lanciare all’allarme sui casi di suicidio in aumento, Pastorino ha partecipato alla manifestazione promossa dall’Unione delle camere penali italiane davanti al tribunale. “Si tratta di una maratona a staffetta partita il 29 maggio e che si concluderà a Roma l’11 luglio con una manifestazione a livello nazionale per sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sul tema dei suicidi in carcere e in generale delle condizioni di detenzione” spiega Fabiana Cilio, presidente della Camera Penale Regionale Ligure ‘Ernesto Monteverdè. Gli avvocati si rivolgono al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere “interventi urgenti a cominciare dalla liberazione anticipata speciale da 60 giorni anziché 45., che non risolverà la situazione ma sarebbe un passo in avanti. Chiediamo inoltre che le misure alternative alla detenzione vengano applicate i in maniera molto più massiccia di quanto accade oggi perché ricordiamo le misure alternative alla detenzione abbassano il tasso di recidiva mentre il carcere le fa schizzare in alto”. Presente alla maratona anche il garante regionale per le carceri Doriano Saracino: “In carcere si vive male e quindi si muore facilmente - spiega - oggi siamo qui a parlare di suicidi, ma c’è anche il problema delle morti perché se consideriamo i morti per altre cause superiamo il numero di 100”. Saracino sottolinea inoltre la necessità di “potenziare le cure mediche così come le opportunità di lavoro e di reinserimento sociale”. Il Garante chiede inoltre “alla Regione Liguria di modificare la legge sull’edilizia residenziale pubblica che di fatto penalizza chi ha scontato una pena perché non consente un reinserimento sociale perché chi ha una condanna anche di un anno per un reato punito fino a cinque anni perde il diritto alla casa”. Il Garante dei diritti dei detenuti: “Dati inaccettabili” - “Stamane avevamo iniziato la nostra maratona delle Camere penali davanti palazzo di giustizia di Genova per porre l’accento proprio sui suicidi in carcere - ha detto il garante regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della Libertà personale, Doriano Saracino, commentando l’ennesima morte nella casa circondariale di Marassi - avevamo alle spalle uno striscione con il numero 46 che, nel giro di poche ore, abbiamo dovuto far diventare 47 perché si è tolto la vita un detenuto quarantenne egiziano, proprio questa mattina, nel carcere della nostra città”. “Quarantasette suicidi da inizio anno, 104 morti complessivamente dietro le sbarre - ricorda Saracino - Si tratta del 15-20% di suicidi in più rispetto a quanto avviene fuori dal carcere e anche di un numero altissimo di morti dovuti a patologie o altro. Io credo che sia necessario uscire dalla logica del singolo caso e guardare complessivamente a queste oltre 100 morti registrate in sei mesi per capire cosa non funziona nei penitenziari: in carcere ci sono persone anziane, persone con problemi di salute, se tanti mi segnalano carenza di cure, evidentemente un problema c’è”. Bisogna anche capire cosa c’è dietro questi suicidi: “La persona che ieri è morta dopo aver inalato gas aveva una condanna a pochi mesi, quindi per reati di poco conto - sottolinea Saracino - Un altro detenuto che si è tolto la vita lo scorso febbraio, aveva una condanna a sei mesi, poi è stato protagonista di una rissa in carcere e gli hanno dato l’isolamento: si è ucciso. Un altro ancora, a inizio settimana, ha tentato il suicidio e i famigliari mi dicono che era in isolamento da molto tempo. Domani andrò a verificare anche questo caso e a cercare di capire cosa sta accadendo. Il carcere di Marassi rischia di vivere una situazione fuori controllo: inoltre - ricorda - è arrivata l’estate e con sé non porta solo il disagio del caldo, ma anche una distanza maggiore dalle famiglie e altri problemi”. Il garante ricorda anche che, a quanto risulta, non esiste uno specifico sostegno per i detenuti che assistono al suicidio di un compagno: “Vedere qualcuno che si toglie la vita e non poter fare nulla, è qualcosa che fa male - racconta - qualcosa che, come alcuni detenuti mi hanno raccontato, non ti togli più alla testa: ci pensi la notte, quando provi a dormire, ti viene davanti quell’immagine in ogni momento - conclude - E ti senti impotente”. Delmastro: “48 nuovi agenti tra Imperia e Sanremo” - “Prosegue l’azione del Governo Meloni per ripristinare sicurezza e legalità nelle carceri italiane. Con la conclusione del 183° Corso Allievi della Polizia Penitenziaria, 1704 nuovi agenti entrano finalmente in servizio presso gli Istituti penitenziari italiani. In particolare, verranno assegnati 3 nuovi agenti alla Casa Circondariale di Imperia e 45 alla Casa di Reclusione di Sanremo. “I nuovi 48 agenti contribuiranno al miglioramento delle condizioni lavorative di chi vive il carcere, un’iniezione di forze nuove che daranno sollievo agli istituti che soffrono le conseguenze di anni e anni di abbandono da parte dei governi precedenti”, dichiara il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. “Le nuove assegnazioni di oggi dimostrano tutta l’attenzione del Governo Meloni per il nostro territorio. Ringrazio il Sottosegretario Delmastro per quanto sta facendo per la Polizia Penitenziaria, continuerò a lavorare al suo fianco per il bene del nostro territorio”, dichiara il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino. Pavia. Troppi detenuti e sporcizia, l’inferno nel carcere di Isabella De Silvestro Il Domani, 28 giugno 2024 Nella struttura sono detenute 680 persone a fronte di capienza effettiva di 453 posti, con un tasso di sovraffollamento reale del 150 per cento, maggiore nei reparti comuni. Si registrano. tra le altre cose, grossi problemi di areazione e l’igiene minima dei detenuti con fragilità psichica non è tutelata. Una situazione di grave sovraffollamento e situazioni igienico-sanitarie che in diversi reparti sono al limite del drammatico. È ciò che segnala l’associazione Antigone in seguito a una visita di monitoraggio realizzata il 7 giugno scorso presso la casa circondariale Torre del Gallo di Pavia. Nella struttura sono detenute 680 persone a fronte di capienza effettiva di 453 posti, con un tasso di sovraffollamento reale del 150 per cento, maggiore nei reparti comuni. Significa, per esempio, che in sezioni che dovrebbero ospitare 50 persone ne vengono stipate 70, con il conseguente aumento della sofferenza dei reclusi e delle difficoltà nella gestione dei reparti da parte del personale penitenziario. Oltre al sovraffollamento, colpiscono le pessime condizioni igienico-sanitarie dell’istituto. A ottobre 2023 gli osservatori di Antigone avevano riscontrato un’infestazione di cimici del letto tanto pervasiva da essere trovate anche sulla testa di un detenuto. A oggi, dopo nove mesi, l’infestazione non è stata completamente debellata nel padiglione C e nella biblioteca del carcere, che rimane infatti chiusa impedendo così ai detenuti di godere di un loro diritto, ovvero l’accesso al prestito dei libri. La direzione attribuisce la colpa alla mancanza di igiene personale dei detenuti, che non laverebbero di frequente i loro vestiti e le loro lenzuola: peccato che la lavatrice condivisa in sezione sia a pagamento e ogni ciclo costi 5 euro, trasformando un’attività basilare di igiene in un privilegio che non tutti si possono permettere. Al di là delle cimici, si registrano grossi problemi di areazione e l’igiene minima dei detenuti con fragilità psichica non è tutelata. “Le 12 persone presenti nell’Articolazione di salute mentale non sono assistite quotidianamente per quel che riguarda la manutenzione della cella e l’igiene personale. Nel reparto di isolamento, abbiamo incontrato un detenuto che presentava bruciature sulle braccia, aveva scaricato negli indumenti e tremava”, racconta Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. Sempre nella sezione di isolamento disciplinare Antigone ha trovato un detenuto in una cella dove le pareti del bagno erano state distrutte; durante la visita il detenuto ha rotto con un calcio il sanitario già malfunzionante e la cella si è riempita di urina. “In generale, in questi reparti le persone con gravi fragilità psichiche versano in condizioni inumane e degradanti, inaccettabili per una custodia dello Stato nel 2024”, aggiunge Verdolini. Il problema di questo istituto è anche l’alta concentrazione di persone con fragilità psichica non pienamente autosufficienti, dovuta al fatto che il carcere di Pavia ha, da organico, un numero di psichiatri più alto della media, per la presenza dell’articolazione di salute mentale nell’istituto. Sono tre più il direttore sanitario Davide Broglia, a sua volta psichiatra. Broglia, però, già nel 2021 segnalava difficoltà a garantire un’assistenza psichiatrica adeguata ai detenuti, dal momento che gli psichiatri erano chiamati a coprire anche i turni della normale guardia medica, altrimenti scoperta. In ogni caso, anche se in numero maggiore rispetto alla media, si parla di 4 psichiatri per 680 detenuti. Ma i problemi non riguardano solo la gestione della salute mentale e dell’igiene. Un detenuto affetto da sclerosi multipla dorme in una cella con il letto con le sponde assistito dal compagno su base volontaria. A queste situazioni si dovrebbe rispondere in maniera sistematica, senza affidarsi alla buona volontà del singolo. Un modello efficace, già sperimentato e applicato in altri istituti, è la formazione di detenuti come operatori sociosanitari, innescando un circolo virtuoso di peer-support che risponda ai bisogni specifici dei detenuti con condizioni di fragilità fisica e psichica e al contempo permetta ad altri detenuti di svolgere un lavoro retribuito e di sviluppare competenze che potrebbero essere spese anche una volta liberi. Si tratta però di un sistema che richiede fondi e risorse e che non viene incentivato a sufficienza. La gravità della situazione nella casa circondariale pavese, che aiuta a comprendere il triste dato dei 44 suicidi nelle carceri dall’inizio dell’anno, ha spinto Antigone a richiedere una verifica da parte delle autorità competenti e un intervento tempestivo. Questo istituto è il paradigma di come si sia scaricato sul sistema-carcere una gestione della massima sofferenza e marginalità sociale a cui lo Stato non riesce a rispondere attraverso politiche adeguate e capillari interventi sul territorio. Il carcere è un’istituzione che non ha gli strumenti per rispondere adeguatamente a condizioni di grave fragilità mentale e fisica. Siccome però gli viene chiesto di farlo, risponde con gli strumenti che ha: quelli punitivi. Con gravi violazioni della dignità dei detenuti, oltre che nel fallimento della rieducazione, scopo dichiarato prioritario dall’articolo 27 della Costituzione, ogni giorno disatteso. Catania. Dal carcere a Fuori le Mura, Daniel e Giuseppe: “Un lavoro per essere felici” Corriere della Sera - Buone Notizie, 28 giugno 2024 Entrambi vengono da esperienze difficili e oggi hanno un contratto alla Dusty srl come meccanici. L’inserimento di ex detenuti in sei delle nove province siciliane con il progetto. “Grazie a “Fuori le Mura” con un contratto indeterminato si sta bene. In famiglia si sta bene ed è sempre più felice”. Così Daniel, 41 anni. E ancora Giuseppe, di 37: “Sto imparando un mestiere e avendo famiglia è importante avere un lavoro sicuro”. Entrambi vengono da una vicenda di vita complicata, ma oggi hanno un lavoro come meccanici per una grande impresa catanese. L’azienda è la Dusty srl, tra le maggiori in Italia nel settore della raccolta e del trattamento dei rifiuti. Lavorano nell’officina, dove l’azienda si occupa della manutenzione di un migliaio di mezzi che servono sei delle nove province siciliane. Un lavoro di responsabilità, arrivato però con un iter non comune: da un tirocinio professionale svolto durante l’esecuzione di pena. Un percorso svolto all’interno del progetto “Fuori le Mura”, imperniato sul lavoro come fattore centrale del processo di inclusione sociale, sostenuto dalla Fondazione Con il Sud nell’ambito dell’Iniziativa Carceri 2019. “Tre anni fa abbiamo avuto la fortuna di conoscere Fuori le Mura. Abbiamo iniziato con la raccolta del cartone, poi con il lavaggio”, racconta Giuseppe. Otto mesi di percorso per ogni tappa, culminati nell’assunzione a tempo indeterminato in officina, esattamente come Daniel. “Ho avuto la possibilità di crescere, di stabilizzarmi economicamente e grazie all’aiuto dei colleghi ho la possibilità di imparare ancora qualcosa in più per la mia vita. Si sta bene, nella famiglia non ci sono più problemi. Andiamo avanti, sempre più avanti”, racconta Daniel. Oggi “la soddisfazione è quella di imparare un mestiere”, afferma Giuseppe, a cui fa eco Daniel: “Sono felice di quello che faccio”. “Dei 52 tirocini avviati grazie al progetto, molti sono diventati contratti di lavoro e, per Daniel e Giuseppe, a tempo indeterminato”, spiega Domenico Palermo della Cooperativa Prospettiva Futuro, ente capofila del progetto di cui è direttore. La sfida di “Fuori le Mura”, progetto avviato nel 2020 e che si avvia alla conclusione, non era del resto facile. “Abbiamo fatto una scommessa: non creare laboratori protetti per reinserire al lavoro le persone in esecuzione di pena, ma farli entrare come tutti gli altri nel mercato del lavoro ordinario. E abbiamo scelto un’azienda partner come Dusty srl, che ha 1.500 dipendenti, affrontando e superando i problemi di inserimento”. Una visione confermata da Rossella Pezzino De Geronimo, amministratrice di Dusty. “Quando mi è stato proposto siamo stati felicissimi di essere partner di un progetto di inclusione. Ora a progetto finito siamo soddisfatti perché queste persone hanno iniziato una nuova vita”, conclude Pezzino De Geronimo. Lavoro da manuale, Fondazione Con il Sud - Il progetto “Fuori le Mura” ha visto oltre 200 partecipanti. 52 sono stati destinatari di tirocini, e 20 sono stati gli avviamenti al lavoro con un regolare contratto. L’iniziativa è frutto di una vasta partnership, guidata da Prospettiva Futuro, e di cui fanno parte anche l’Impresa Sociale “Arché” di Catania, specializzata nella formazione professionale, le Case Circondariali di Catania “Piazza Lanza”, di Gela (Cl) e di Palermo “Ucciardone”, la Casa di Reclusione di S. Cataldo (Cl), il Centro Astalli per l’Assistenza agli Immigrati di Catania, il Centro di Accoglienza Padre Nostro di Palermo, il Consorzio di Cooperative Sociali “Il Nodo” di Catania, la Cooperativa Sociale “Golem” di Valguarnera (En), l’Istituto Penale per Minorenni di Catania e gli Uepe di Caltanissetta/Enna, Catania, Messina e Palermo, nonché l’Ufficio del Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Siciliana. Pavia. I detenuti si trasformano in sarti e designer: “Nuova vita ai jeans usati, una seconda opportunità per noi” di Eleonora Lanzetti Corriere della Sera, 28 giugno 2024 Il progetto A filo libero riutilizza e rimodella l’esistente. “Già raccolti 150 jeans”. Restituire fuori qualcosa di bello creato dentro. In un laboratorio del carcere Torre del Gallo di Pavia i detenuti diventano designer di moda e sarti. C’è chi taglia i modelli, chi cuce, chi lavora al telaio del denim, chi studia come dar vita a scampoli che diventano nuovi abiti. È il progetto “A filo libero”, promosso da Lavgon, “manifattura sartoriale e vita rurale” di Michela e le sue figlie, Carlotta e Lavinia, col supporto della dirigenza della casa circondariale. Il tempo, in questa piccola sartoria, scorre in modo diverso, scandito dal rumore della macchina da cucire e dal ferro da stiro. All’esterno il trambusto, le liti, le celle problematiche. Qui, invece, la prospettiva cambia, e un reinserimento lavorativo nella società si fa concreto. “Già nell’aprile del 2020, in piena pandemia, avevamo avviato la sartoria per la produzione di mascherine - racconta Lavinia Vicenzi, designer di moda e coordinatrice del progetto -. Oggi stiamo facendo formazione a sei detenuti e in un mesetto abbiamo raccolto oltre 150 jeans donati dalla gente”. L’obiettivo del laboratorio, infatti, oltre a dare una seconda possibilità a chi ci lavora, è quello di sostenere un’economia circolare, che passa dal riuso e l’upcycling di beni esistenti. “Abbiamo lanciato la campagna “Nuova vita ai tuoi jeans”, per raccogliere tessuti in denim e vecchi jeans che potranno essere utilizzati per la collezione Denim Pro dei sarti di Torre del Gallo - continua Lavinia -. I capi vengono venduti da noi, Lavgon, e da Freedom a Torino, negozio di economia carceraria, ma anche creati su misura come già fatto per i grembiuli di un ristorante o le shopper customizzate per diverse botteghe”. Eliseo ha 63 anni e fino al 2029 la sua casa sarà qui, in via Vigentina. “Do libero sfogo alla mia testa creando qualcosa che prima non esisteva. È un mondo nuovo per me”. Nicolò è il più giovane, ha 28 anni. Le sue braccia si muovono con maestria sul telaio. “Uscirò da qui a 36 anni, diciamo che lavorando tutti insieme, in un questo momento di condivisione, non solo produco qualcosa, ma penso alla mia rinascita”. Ovviamente il piccolo laboratorio “A filo libero” va alimentato. Per questo è sempre aperta una raccolta fondi sul sito www.afilolibero.org e la raccolta di jeans presso il Girasole di Travacò, bottega alimentare forno e caffetteria a Travacò Siccomario (Pv), e all’ecobottega Verdessenza di Torino. “Io sono arrivata in questo istituto ed era l’unica attività strutturata che si stava facendo. In altri istituti penitenziari come San Vittore e Voghera avevo visto nascere laboratori simili che appassionavano molto i detenuti. L’atmosfera rilassata e la creatività che si esprime attraverso l’ingegno e il lavoro manuale credo facciano bene e siano stimolanti per loro - spiega Stefania Mussio, direttrice del carcere pavese -. Si crea una professionalità spendibile per un futuro virtuoso”. Mentre il telaio scorre avanti e indietro, i tessuti vengono stoccati sugli scaffali e si ragiona su quale tasca applicare ad un pantalone. Nei discorsi vengono presi in prestito gli scampoli per parlare di vita e di nuove chance. Giovanni ha 41 anni, ancora 3 e avrà terminato di scontare la pena. “Mi sto reinventando come sarto, e mi sono scoperto creativo. È una grande soddisfazione vedere che qualcosa che altrimenti andrebbe buttata, ha una seconda possibilità, un po’ come le nostre esistenze”. Monza. Celle sovraffollate e pochi agenti. I politici si mobilitano per Monza di Barbara Calderola Il Giorno, 28 giugno 2024 Una delegazione di amministratori di Vimercate in visita in carcere con l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. “Ci sono quasi 300 detenuti in più rispetto alla capienza: difendiamo la dignità di chi vive e lavora lì dentro”. Le foto dei figli appese alle pareti, il dolore del distacco, la speranza di uscire. Scossa emotiva per i consiglieri e gli assessori di Vimercate che hanno visitato il carcere di Monza. Celle, detenuti, personale: una realtà durissima, per tutti un bagno di realtà che fa riflettere. Ad accompagnare maggioranza di centrosinistra e opposizione di centrodestra, c’era Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino”. Il sovraffollamento, che affligge l’intero sistema penitenziario italiano, al carcere di via Sanquirico arriva al 170%, “le celle ospitano 699 persone, ma la capienza è di 411. Più di un terzo è recluso in attesa di giudizio, cioè non c’è ancora una sentenza che dica se è colpevole o innocente”, ha spiegato il dirigente della Ong agli amministratori guidati dal sindaco Francesco Cereda. “Il tema dei diritti dei detenuti è fondamentale - dice Davide Nicolussi, presidente del consiglio comunale - qui ci sono cittadini che stanno pagando per i loro errori, ma questo non significa che non debbano vivere con dignità”. Ed ecco il nodo. L’iniziativa ha preso forma a marzo, dopo che in aula era stata approvata all’unanimità una mozione per il rientro a casa di Ilaria Salis. Negli occhi, le immagini choc dell’insegnante in catene. Una sensibilità che in città non ha colore politico. E mercoledì, c’erano tutti, da una parte e dall’altra. Era stato il primo cittadino durante il dibattito sul caso dell’attivista monzese a chiedere di organizzare la trasferta, “un’esperienza istruttiva che può fare cambiare il proprio punto di vista sulla reclusione”, aveva chiarito. “Abbiamo parlato con i detenuti che, anche se privati della libertà, fanno parte della società ed è nostro compito fare in modo che il periodo vissuto all’interno del penitenziario sia un’occasione per rinascere”, sottolinea Nicolussi. I consiglieri Susi Rovai, Matteo Trassini, Daniele Dossi, Federica Villa e Guido Fumagalli hanno acceso i riflettori “sulla necessità che la politica si attivi per dare opportunità reali a chi esce e permetterne così un vero reinserimento”. Attenzione anche per chi lavora nelle strutture, “un aspetto che non va sottovalutato, essenziale per il loro funzionamento”. Tema più attuale che mai fra cronache di abusi e disagi per le carenze di organico. “Vimercate è il primo Comune che ha voluto varcare formalmente le porte di un carcere - ricorda D’Elia - c’erano i rappresentanti di tutti i partiti. Quello della città è un impegno trasversale per la conoscenza di una realtà difficile e per la costruzione di un modello che rieduchi”. Roma. Disordini nel carcere di Regina Coeli dopo una perquisizione. Incendiate alcune celle di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 28 giugno 2024 Telecamere di sorveglianza spaccate, il pianterreno in parte allagato, controsoffitti caduti. E ancora celle devastate e incendiate, e altri danni per decine di migliaia di euro. È il risultato di una mezza sommossa da parte di un’ottantina di detenuti di Regina Coeli che ieri mattina hanno dato vita a una violenta protesta durata alcune ore che ha impegnato gli agenti della polizia penitenziaria, polizia di Stato e anche i vigili del fuoco, intervenuti per mettere in sicurezza i locali coinvolti. Non ci sono stati feriti e l’allarme è rientrato all’ora di pranzo. Indagini in corso per identificare gli organizzatori dei disordini, solo l’ultimo episodio di tensione all’interno del carcere di Trastevere. La rivolta è collegata ad alcune perquisizioni effettuate mercoledì scorso e anche ieri dalla Penitenziaria nella IV sezione, dove sono reclusi anche soggetti tossicodipendenti, che ha portato alla scoperta e al sequestro di armi rudimentali - bastoni e lame -, oltre a una grappa autoprodotta. Anche su questo punto sono in corso indagini da parte del Nucleo investigativo centrale dei baschi azzurri. Secondo il segretario generale della Fns Cisl Massimo Vespia “a Regina Coeli ci sono 180 agenti in meno rispetto a quelli previsti dal ministero della Giustizia, e nella regione sono 930, ovvero il 20% delle mancanze a livello nazionale”. Su quella che per i sindacati è tuttora “una grave emergenza”, è intervenuta anche Ilaria Cucchi, senatrice di Avs, per la quale “la situazione degli istituti penitenziari è completamente fuori controllo. Le proteste sempre per gli stessi motivi: il sovraffollamento. Questione irrisolta. Non una bomba pronta ad esplodere ma una bomba già esplosa, che coinvolge detenuti e agenti della Penitenziaria, spesso con tragiche conseguenze come il suicidio”. Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria “le carceri si confermano una polveriera pronta a esplodere alla minima scintilla. Suicidi, omicidi, violenze, stupri, devastazioni, traffici illeciti alla frequenza mai vista in precedenza, eppure dal Governo non si avverte il dovere di intervenire in maniera decisa. Lo stato generale delle prigioni è in grave emergenza, come mai negli ultimi 30 anni: la premier Meloni convochi una riunione straordinaria del Cdm e vari immediatamente un decreto legge per ridurre il sovraffollamento di 14mila reclusi, consentire assunzioni straordinarie nel Corpo deficitario di 18mila agenti, e garantire l’assistenza sanitaria, soprattutto psichiatrica”. “Quel che è avvenuto oggi nel carcere di Regina Coeli a Roma è semplicemente incredibile ed inaccettabile: lo Stato non può più assistere passivamente al degrado ed alle violenze di una frangia di detenuti che pensa e crede di poter fare, nella detenzione, quel che vuole”. Così Donato Capece, segretario generale del Sappe. Per Maurizio Somma, segretario regionale “questa mattina nella IV Sezione a seguito di perquisizione in cui sono stati rinvenuti dei cellulari e spranghe, i detenuti hanno incendiato e distrutto diverse celle, oltre ad avere aggredito un ristretto. Grazie al comandante di reparto e al presidente del Tribunale di Sorveglianza la violenta protesta è rientrata”. Sempre per Capece “si è consumato un attacco allo Stato e a chi lo rappresenta in carcere: ci vuole una completa inversione di rotta nella gestione delle carceri regionali e della Nazione: siamo in balia di questi facinorosi, convinti di essere in un albergo dove possono fare quel che non vogliono e non in un carcere”. Torino. Suicidi in carcere, il tempo è scaduto di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 28 giugno 2024 Togliersi la vita in carcere, una tragedia che negli ultimi tempi si ripete con sempre maggiore frequenza tant’è che, solo nei primi sei mesi dell’anno in corso, è già salito a 45 il numero dei suicidi tra i detenuti. Tanti casi, troppi ricordando anche che proprio l’essere reclusi, quindi sotto la custodia e la responsabilità dello Stato, avrebbe dovuto garantire loro una maggiore tutela. 45 persone che, come previsto dalla legge e per averla infranta, stavano scontando una pena a causa dei propri errori ma, secondo quanto indicato esplicitamente dall’articolo 27 della Costituzione italiana, questa avrebbe dovuto essere finalizzata alla “rieducazione” per prepararle al reinserimento nella società dei liberi. E invece, per quelle persone, la pena in mesi e anni si è trasformata in una condanna a morte, certamente autoinflitta ma comunque non accettabile. Perché? Quali sono le cause di un così alto numero di suicidi? Come e cosa fare per fermare il ripetersi di queste tragedie umane nei luoghi di detenzione? È un tema che compare di frequente nelle nostre colonne e se n’è parlato martedì scorso in occasione dell’incontro “Non c’è più tempo, indignarsi non basta più”, a Palazzo Lascaris, sede del Consiglio regionale del Piemonte (nella foto), organizzato dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano, e a cui hanno preso parte l’avvocato Roberto Capra, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale, l’avvocato Davide Mosso dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Unione camere penali e Nathalie Pisano, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Novara, città nel cui carcere, in ordine di tempo, si è verificato l’ultimo suicidio, un 19enne a tre mesi dal fine pena. “I suicidi” ha introdotto Mellano “non sono altro che lo specchio più evidente di una situazione che vede oggi le carceri italiane al collasso”. Sovraffollamento, problemi strutturali degli istituti di pena, carenza di personale nelle diverse professionalità, dagli agenti agli educatori e altre figure ancora, sono tra le criticità del sistema penitenziario italiano e in parte anche concausa di tragiche conseguenze. “L’88/% dei suicidi” ha ricordato Mellano “sono avvenuti nelle sezioni cosiddette chiuse, cioè quelle in cui si applicano particolari restrizioni e limitazioni alle attività che favoriscono le relazioni sociali e in quelle riservate al trattamento sanitario. Mentre proprio le attività culturali, scolastiche o legate alla formazione professionale e al lavoro sono da considerare strumenti importanti per contrastare fenomeni come il suicidio e la recidiva, rendendo peraltro utile il tempo della detenzione”. Ma quando mancano gli spazi e il personale risulta molto difficile assicurarli. Che fare allora? Forse pensare a provvedimenti clemenziali, come amnistia e indulto, per alleggerire la pressione nelle carceri o, come indicato dal garante Mellano, “in attesa di riforme di sistema, servirebbe immediatamente qualche provvedimento urgente che permetta di dare concretezza all’esecuzione penale esterna per chi sia a fine pena o abbia una condanna da scontare inferiore a un anno, garantendo percorsi di presa in carico fra il dentro e il fuori”. Accanto ai problemi strutturali, nel corso dell’incontro sono stati ricordati anche quelli legati a un modello di detenzione che Roberto Capra ha definito “antico, in cui il profilo della punizione è ancora predominante e prevalente su quello risocializzativo, che secondo la nostra Carta costituzionale dovrebbe avere un ruolo determinante. Se non cambiamo questo approccio, se non mutiamo il modo di vedere la detenzione risulterà impossibile fare passi avanti, ma non possiamo arrenderci”. E per richiamare l’attenzione e sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi delle carceri e sui suicidi dietro le sbarre, è stata organizzata una “Maratona Oratoria” per mercoledì 3 luglio a Torino, in piazza Arbarello, dalle 11 alle 16 (la stessa iniziativa, in giornate diverse, è proposta anche in altre città italiane. In Piemonte, oltre a Torino, si terrà ad Alessandria, Cuneo, Asti, Vercelli e Novara). L’invito è quello di partecipare, ascoltare e, per chi lo vorrà, anche di intervenire. Torino. Sono recluso ma non smetto di essere papà di Emanuele Carrè La Voce e il Tempo, 28 giugno 2024 Nonostante la giornata grigia e piovosa, una luce, quella del sorriso di bambini e bambine felici di poter incontrare i propri papà, ha illuminato il teatro della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” lo scorso 20 giugno. Una mattina di “evasione”, un paio d’ore di gioco insieme ai propri figli e alle mogli e compagne, è quella che hanno potuto vivere una dozzina di papà detenuti nel teatro del carcere. L’incontro, nell’ambito del progetto nazionale “Bambini Senza Sbarre “ (nel 2023 ha coinvolto 79 istituti, 4250 bambini, 2050 detenuti e le loro famiglie) e di quello promosso dal penitenziario torinese “Un Passo Avanti”, è stato reso possibile dalle educatrici della cooperativa “Il Margine” che seguono da tre anni alcuni padri detenuti e alcune donne dell’Istituto a custodia attenuata per madri. Incontri come questo, seppur brevi, hanno un’importanza fondamentale per le famiglie: proviamo per un attimo a ricordare cosa abbiamo provato da bambini la prima volta che siamo rimasti per qualche giorno senza genitori o da genitori quando siamo rimasti lontani dai nostri figli. I bambini e le bambine con un papà recluso possono giocare e disegnare con lui solamente una volta al mese e in occasioni come questa. Momenti che valgono una vita per mantenere viva la relazione genitoriale. “Sono entrato in questo progetto due anni fa” ci ha spiegato un detenuto 33enne con due figlie “e lo trovo molto bello ed utile per le mie bambine, che possono giocare e divertirsi qualche volta con me e passare alcune feste come il Natale sia con la mamma sia col papà, ma anche per me: sono una persona molto chiusa, ma con le educatrici sono riuscito a parlare di molte cose, come le difficoltà famigliari. Sono troppo contento di poter vivere momenti come questo, anche solo due ore valgono tantissimo. Ho ancora molti anni da scontare, ma queste occasioni mi danno speranza, sembra quasi di essere tornati alla normalità, quando le portavo a giocare al parco”. “Sicuramente”, ci confida un altro ristretto, 34 anni, padre di un bambino e due bambine “è un’opportunità in più per mantenere i rapporti famigliari, stare di più coi figli e pensare a cosa è veramente importante: i miei bambini e la libertà. Cose che spesso vengono date per scontate. Momenti simili sono diversi dai normali colloqui, sono più piacevoli, meno ‘carcerati’. Ce ne vorrebbero di più per noi famigliari e per far sentire meno la distanza ai nostri figli”. Obiettivo di questo progetto sulla genitorialità è sostenere i rapporti padre-figlio e la famiglia. “Con i detenuti coinvolti nel progetto proponiamo cicli di appuntamenti settimanali di gruppo e, una volta al mese, incontri più intimi dei normali colloqui in cui papà e bambini possono stare da soli a giocare e disegnare, sotto la supervisione di un educatore” spiega Letizia Forlani della cooperativa “Il Margine”. “Lavoriamo anche sulle famiglie che hanno un genitore ‘dentro’ perché la vita va avanti, i figli crescono; riflettiamo insieme sulla ‘verità’, perché riteniamo sia importante, anche se molto difficile rispondere alla domanda, ‘dov’è papà?’… Tutte iniziative possibili grazie alla collaborazione del personale carcerario e della polizia penitenziaria”. Questi percorsi aiutano le famiglie, i bambini e i reclusi stessi, come spiega il funzionario giuridico e pedagogico Tommaso Picone: “se ad altri progetti i detenuti possono aderire per ‘fare bella figura’, a questo partecipano solo per lavorare su sé stessi, per migliorare il rapporto coi loro bambini, anche in momenti come questo di ‘piacevole evasione’. Non lo fanno per ottenere diplomi o qualifiche”. Quel poco che sappiamo della salute di homeless, detenuti e migranti di Sabina Pignataro vita.it, 28 giugno 2024 L’assistenza sanitaria alle persone che vivono in condizione di grave marginalità sociosanitaria, come ad esempio homeless, detenuti e migranti irregolari, è ancora poco studiata. È forse anche poco sfruttato il patrimonio di dati raccolto dagli operatori del terzo settore, che potrebbe rappresentare una base per avviare buone prassi. L’Istituto Superiore di Sanità fa il punto, valorizzando le esperienze di Intersos, Caritas e Opera San Francesco. L’assistenza sanitaria alle persone che vivono in condizione di grave marginalità sociosanitaria, come ad esempio homeless, detenuti e migranti irregolari, è ancora poco studiata. Nonostante alcune buone pratiche siano state messe in campo soprattutto a livello locale, come ad esempio Intersos a Foggia, Caritas a Roma e Opera San Francesco a Milano, vi sono ancora lacune. A questo tema l’Istituto Superiore di Sanità ha dedicato una ricerca dal titolo “La salute delle popolazioni in condizione di grave marginalità sociosanitaria”, evidenziando come “in Italia, come in altri Paesi considerati ad alto reddito, le persone in condizione di grave marginalità sociosanitaria, definite anche come “esclusi”, “invisibili” o “difficili da raggiungere” soffrono delle forme più gravi di iniquità nella salute”. “Purtroppo questo ambito di ricerca epidemiologica appare ancora poco esplorato”, sottolineano curatori della monografia, Roberto Da Cas e Cristina Morciano. “Mancano le infrastrutture per una raccolta sistematica dei dati o se realizzate sono da perfezionare, e sono poche le iniziative di formazione e informazione destinate agli operatori sanitari dei servizi territoriali. È forse anche poco sfruttato il patrimonio di dati raccolto dagli operatori del terzo settore, che potrebbe rappresentare una base per avviare politiche almeno a livello di comunità. Ulteriori studi su questi temi, con quesiti di ricerca rilevanti e ben condotti, potrebbero rappresentare il fondamento razionale per comunicare con i decisori politici e sarebbero anche funzionali a rappresentazioni sociosanitarie finalizzate a trasmettere ‘una scossa etica’ in Italia e nel resto dell’Europa”. Tra modelli di attività in favore di gruppi fragili o in condizione di marginalità socioeconomica analizzati da Iss c’è uno studio di Intersos che ha indagato lo stato di salute nell’area della Capitanata di Foggia, dove migranti per lo più irregolari, sfruttati nel comparto agro-alimentare, dimorano in un ghetto isolato, permanente e sovraffollato. Dalla ricerca si delinea un profilo di salute caratterizzato prevalentemente da patologie non trasmissibili come quelle a carico dell’apparato digerente e muscoloscheletrico, mentre non vi è evidenza di patologie infettive di importazione/tropicali; sono invece frequenti traumatismi dovuti a incidenti sul lavoro. Intersos non documenta solo il profilo di salute delle persone che dimorano negli insediamenti informali nell’area della Capitanata, ma restituisce la consapevolezza di “un fenomeno diffuso in tutta Italia e ben documentato da una recente indagine nazionale del Ministero del lavoro e delle politiche sociali sulle condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agro-alimentare”. Nel 2022, l’indagine ha mappato, in Italia, almeno 150 realtà simili a quella della Capitanata, luoghi in cui vengono negati dignità e diritti dei lavoratori migranti. Due studi hanno poi analizzato lo stato di salute degli esclusi nelle grandi aree urbane che si rivolgono ad ambulatori del terzo settore per ricevere assistenza sanitaria. Il contributo di Caritas di Roma ha rilevato una modifica del quadro epidemiologico degli assistiti nel corso di quarant’anni: un aumento delle malattie croniche, soprattutto cardiovascolari e metaboliche, e una riduzione delle malattie infettive. I dati del contributo di Caritas dimostrano, inoltre, che nel tempo è cresciuto il grado di complessità e di fragilità della popolazione da assistere: sono aumentate le persone con nessun titolo di studio e anche quelle di nazionalità italiana e i senza dimora, verosimilmente anche a causa delle ricorrenti crisi economiche. Complica l’attività assistenziale il notevole aumento nel tempo del numero dei Paesi di provenienza di coloro che sono costretti a lasciare il proprio Paese per situazioni di conflitto, emergenze umanitarie e ambientali. Come spiegano i curatori, “l’esperienza della migrazione è un determinante fondamentale della salute e del benessere, poiché la salute dei migranti si presenta particolarmente vulnerabile per il sommarsi degli effetti delle condizioni di partenza, viaggio e permanenza nel Paese di transito o accoglienza. Le esperienze Intersos e Caritas evidenziano una situazione in cui le persone sono esposte a molteplici processi di esclusione: precarietà abitativa e giuridica, sfruttamento lavorativo, bassi livelli di educazione e isolamento che, come già verificato in alcuni studi, sono associati a esiti di salute peggiori rispetto al resto della popolazione, inclusi i migranti regolari”. L’Opera San Francesco a Milano ha invece approfondito la frequenza delle malattie croniche nei propri assistiti e ha stimato una maggiore prevalenza di malattie cardiovascolari, mentali e metaboliche (diabete) tra i migranti del Sud America e dell’Asia rispetto alle popolazioni europee. L’attività del Poliambulatorio di Opera San Francesco si basa sul servizio volontario offerto gratuitamente da professionisti della salute (tra cui circa 200 medici e 30 odontoiatri) che coprono tutte le specialità cliniche. Si tratta di un vero e proprio presidio sanitario operante in regime di autorizzazione, che collabora con strutture sanitarie pubbliche e private presenti sul territorio. Nel 2022 ha erogato complessivamente 27mila prestazioni. Il limite di questi progetti nasce dal fatto che generalmente si tratta di interventi realizzati su scala locale e quindi di ridotte dimensioni e di breve durata, anche in relazione ai costi aggiuntivi che implicano per l’Servizio sanitario nazionale. Caratteristica comune a molti interventi è il fatto che prevedano una stretta collaborazione con le organizzazioni del privato sociale, a cui può essere affidata parte della risposta, ma che soprattutto sono in grado di fare da intermediari tra le istituzioni sanitarie e le comunità, in virtù della presenza capillare sui territori e della maggiore flessibilità di azione. Anche lo stato di salute delle persone in condizione di detenzione, rileva l’Iss, non è ancora sufficientemente studiato. “In Italia vi sono poche conoscenze circa il profilo di salute delle persone in condizione di detenzione. La popolazione carceraria italiana è composta da oltre 56mila persone detenute (dati 2022 del Ministero della Giustizia), spesso in condizioni di sovraffollamento. Questa situazione determina, tra l’altro, un’elevata prevalenza di diagnosi psichiatriche (9,2 ogni 100 detenuti) e, con l’invecchiamento della popolazione carceraria, una maggiore domanda di salute e necessità di cure per il trattamento di patologie croniche”. La valutazione dell’uso dei farmaci condotta in cinque istituti penitenziari delle Asl Roma 2 e della Asl Viterbo ha riportato un elevato ricorso a farmaci per le patologie del sistema nervoso centrale, dell’apparato gastrointestinale e per il trattamento dei disordini metabolici. Come si legge nel rapporto “è consolidata l’evidenza che le diseguaglianze di salute siano una conseguenza delle diverse condizioni socioeconomiche, delle crisi finanziarie, delle politiche economiche e sociali. In termini semplici, le persone più abbienti e con un più alto livello di educazione godono di una salute migliore, si ammalano di meno e vivono più a lungo. Non solo, esiste un gradiente di salute che si estende lungo tutta la scala sociale: la salute peggiora gradualmente man mano che si discende dalla scala sociale, procedendo dalla fascia socioeconomica più elevata a quella più bassa. Si aggiunge a ciò un altro elemento: il cumularsi fin dalla nascita dei fattori sociali che influenzano l’intero corso della vita, come la salute degli stessi genitori ma anche il loro reddito, l’educazione, la condizione lavorativa, la qualità dell’abitazione dove risiede la famiglia e il quartiere in cui si trova. La povertà assoluta, la mancanza delle risorse elementari per vivere sono presenti anche nei Paesi più ricchi. Alla popolazione che si viene a trovare in questa situazione è negato l’accesso a un’abitazione dignitosa, all’istruzione, ai trasporti e ad altri elementi vitali per una completa partecipazione alla vita sociale. Essere esclusi dalla vita sociale è causa di una salute peggiore e di un maggior rischio di morte prematura. In Italia, secondo l’Istat, il numero di persone in povertà assoluta è passato da circa 1,8 milioni nel 2008 a oltre 5,6 milioni nel 2022, rendendo più urgenti politiche sanitarie mirate e inclusive per affrontare efficacemente le loro esigenze di salute. Le evidenze generate nel corso del tempo nel settore della ricerca sulle diseguaglianze di salute, e sugli specifici interventi volti a ridurle o a eliminarle, hanno orientato la formulazione e l’implementazione di diverse politiche sociosanitarie. “Tuttavia, la ricerca epidemiologica ha meno esplorato la grave esclusione sociale come determinante di salute e il grado di iniquità di salute sofferto dalle popolazioni gravemente marginalizzate nei Paesi ad alto reddito”. Migranti. “Esternalizzare le frontiere significa negare i valori fondanti dell’Europa” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 28 giugno 2024 Intervista a Cecilia Strada, parlamentare europea del Partito democratico. Cecilia Strada, parlamentare europea eletta nelle liste del Partito democratico, è seduta al tavolino di un bar a Bruxelles quando incontra una donna che non aveva mai visto prima: sfoggia una borsa con la scritta “Sta rottura di coglioni dei fascisti” (la frase divenuta un tormentone che venne pronunciata qualche anno fa da un attivista dei castelli romani che proteggeva un gruppo di rifugiati dalle contestazioni di una squadraccia di estrema destra) e la maglietta di Emergency. Strada non può fare a meno di fermarla e presentarsi per complimentarsi per l’outfit. A questo punto la nostra intervista può cominciare. La lettera sui migranti di Ursula Von der Leyen sembra spostare a destra l’asse della commissione. Che ne pensa? Già la scorsa legislatura si era chiusa con approvazione del patto immigrazione e asilo che di certo non era di sinistra. Il problema era già allora rispetto dei diritti umani e infatti il Partito democratico non ha votato. Von der Leyen ha fretta, perché ci sono due anni prima che il patto entri in vigore. Ecco, bisogna trovare in modo di correggere il testo che è stato approvato. Non solo per i diritti dei migranti, anche per i paesi di primo approdo che non vengono tutelati in alcun modo. Quel patto non genera alcun meccanismo di solidarietà europea Giorgia Meloni ha lavorato per concentrare l’azione dell’Ue sul blocco delle partenze invece che sulla gestione comune dell’accoglienza. Meloni probabilmente non può più chiedere solidarietà europea. Magari altri potevano farlo, ma in questo momento gli amici del governo Meloni non vogliono che ci sia alcuna solidarietà europea. Quindi puntano su altro, ma puntano su cose che non funzionano. Pensare di fermare le partenze è soltanto una pia illusione. E in ogni caso tentare di farlo ha come prezzo una gravissima violazione dei diritti umani. Inoltre, questo tipo di scelte rende l’Europa ricattabile. In attesa del pre-consiglio Elly Schlein ha criticato duramente ogni scelta di esternalizzare la gestione delle frontiere. Esternalizzare le frontiere significa negare i valori sui quali è fondata l’Europa. È quello che si è fatto con la Libia, che ha preso soldi per violare i diritti umani al posto nostro. Quel memorandum, va detto, non l’aveva inventato Meloni, purtroppo era opera del centrosinistra. Schlein per fortuna su questo è stata molto netta: non possiamo accettare violazioni del genere. Sembra però disposta ad accettarle Von der Leyen… Von der Leyen dice nella sua lettera che alcuni paesi membri stanno pensando a “soluzioni innovative”. Ma l’unica soluzione veramente innovativa è l’apertura di canali di accesso sicuri e legali. È l’unica cosa che funziona concretamente, anche in termini egoistici. Lo dice anche il governatore della Banca d’Italia: bisogna attirare lavoratrici e lavoratori migranti altrimenti nel 2045 spegneremo la luce. Queste valutazioni sono condivise dal gruppo dei Socialisti e democratici? Ne parleremo, cominceremo a farlo appena possibile. La protezione dei diritti umani è un tema su cui bisogna discutere. Nel frattempo in Italia Schlein ha finalmente presentato una proposta di legge per superare la Bossi-Fini. Fa parte del percorso di ripensamento degli errori del passato? Anche questa è una necessità, non solo per i diritti ma anche per quelli che dicono di volere la sicurezza, che si ottiene con la legalità e non con la Bossi-Fini. Una legge che genera illegalità non è molto funzionale. Gli eventi europei di questi giorni segnano la prima vera battuta d’arresto per il governo e Giorgia Meloni? Meloni in termini assoluti ha già perso 700 mila voti alle europee. E poi ha perso le amministrative. Il governo non sta tutelando i diritti dei cittadini. Ma sembra che gli italiani se ne stiamo accorgendo. Condannata la nave che consegnò 150 migranti alla Libia: “Violati i diritti umani” di Eleonora Camilli La Stampa, 28 giugno 2024 Invece di respingerli, la Asso 29 avrebbe dovuto condurli in Italia. Giudicato illegittimo anche il fermo nel marzo scorso della Humanity 1. L’accusa per l’equipaggio era di non aver seguito le istruzioni delle autorità libiche. La Asso 29 avrebbe dovuto “condurre i migranti in Italia, non in Libia”. Perché “il fatto che la Libia non sia un luogo sicuro costituisce, allo stato, acquisizione pacifica nella giurisprudenza di legittimità”. Lo dice chiaramente il tribunale di Roma nella sentenza sul caso Asso 29 con cui condanna non solo il capitano della nave, ma anche la società armatrice Augusta Offshore, i ministeri della Difesa, dei Trasporti, la Presidenza del Consiglio. Il caso risale al 2018, i ricorrenti sono 5 migranti eritrei che dopo essere stati soccorsi in mare sono stati riportati in Libia dal mercantile italiano. E, in questo modo sono stati esposti alla violazione dei loro diritti, perché come affermato anche da altre sentenze “la Libia non è un luogo sicuro” in cui può concludersi un’operazione di ricerca e soccorso. Il mercantile Asso 29 il 2 luglio 2018 sotto il coordinamento dalla nave militare italiana Duilio era intervenuto in soccorso di una motovedetta libica in avaria che aveva da poco intercettato un’imbarcazione con circa 150 persone a bordo. Sotto il coordinamento italiano e libico, la Asso 29 aveva ricondotto le 150 persone a Tripoli, dove erano state detenute e torturate nei centri di detenzione di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan. Cinque persone sopravvissute, tra cui un bambino che aveva due anni all’epoca dei fatti e una donna allora incinta all’ottavo mese, all’inizio del 2021 hanno agito in giudizio chiedendo il risarcimento del danno subito a seguito della condotta delle autorità italiane e del capitano della nave. Dopo essere arrivati in Europa alcuni attraverso corridoi umanitari, altri attraversando nuovamente il Mediterraneo hanno ricevuto il riconoscimento della protezione internazionale e hanno presentato il ricorso. Attorno al caso del respingimento della Asso 29 si è mobilitata la società civile italiana: Amnesty International, ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e il collegio difensivo composto da avvocate e avvocati (Cristina Laura Cecchini, Giulia Crescini, Salvatore Fachile, Alberto Guariso, Lucia Gennari, Loredana Leo e Luca Saltalamacchia) insieme al Josi&Loni Project. “Sono numerose le persone sopravvissute a quel respingimento che si trovano ancora in Libia e con le quali stiamo lavorando affinché possano entrare legalmente in Italia e chiedervi protezione” raccontano i legali di ASGI. “Il ministro Piantedosi continua a sostenere che Tunisia e Libia sono Paesi sicuri, solo perché anche l’Ue finanzierebbe in parte il nostro intervento a sostegno delle operazioni di respingimento delegato alle rispettive guardia costiere - aggiunge Filippo Miraglia, responsabile immigrazione di Arci -. È evidente che il ministro, in linea con tutto il governo, non riesce ad arrendersi al fatto che chi governa non è al di sopra delle leggi e anzi dovrebbe dare l’esempio e rispettare soprattutto la Costituzione e il diritto internazionale”. Il caso della Humanity 1 - Intanto sempre oggi è arrivata un’altra sentenza che stigmatizza il comportamento del governo rispetto alle ong che fanno salvataggio in mare. Il tribunale di Crotone ha infatti giudicato illegittimo il fermo nel marzo scorso della Humanity 1. L’accusa per l’equipaggio era di non aver seguito le istruzioni delle autorità libiche. “La decisione di Crotone finalmente ristabilisce l’ordine corretto del discorso”, spiega Cristina Laura Cecchini, avvocato di SOS Humanity. “Ribadisce come le autorità libiche, che commettono quotidianamente violazioni dei diritti delle persone in fuga non sono attività di ricerca e soccorso anche perché, riconducendo le persone in Libia, non terminano con lo sbarco in un luogo sicuro come impone il diritto internazionale”. Molto duro anche Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi e Sinistra. “Il ministro Piantedosi può continuare tranquillamente a definire la richiesta di cambiare o di abolire la Legge Bossi-Fini uno slogan, facendo finta di non capire che è proprio quella normativa da decenni ormai che sta dimostrando tutti i fallimenti dei governi nelle politiche sui flussi migratori. Tuttavia sia Piantedosi che Meloni non possono far finta di niente di fronte alle continue sentenze della magistratura che sgretolano tutti i provvedimenti ingiusti e inutilmente feroci decisi da questo governo - dice -. L’ultima sentenza arriva dal tribunale di Crotone ed è chiara. Addirittura il ministero di Salvini, quello di Piantedosi e quello di Giorgetti, insieme alla locale questura e alla Guardia di Finanza devono corrispondere un risarcimento alla Ong. E anche la Corte d’Appello di Roma, pur confermando la prescrizione per due alti ufficiali della Marina Militare sul naufragio e il ritardato soccorso di Nave Libra che nel 2013 provocò vittime, ha rigettato le assoluzioni confermando il carattere criminogeno del comportamento che ritardò i soccorsi”. Migranti. Il tribunale di Crotone annulla il fermo della Humanity I di Angela Gennaro Il Domani, 28 giugno 2024 Secondo i giudici il centro libico di coordinamento dei soccorsi e la cosiddetta guardia costiera libica non possono essere considerati legittimi attori di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Le autorità italiane sono state condannate a pagare le spese legali alla ong Humaniy I. Per la prima volta un tribunale italiano sancisce l’illegittimità del coordinamento di Tripoli in mare, “appaltato” alla Libia da Italia ed Europa. Definitivamente annullato il provvedimento di fermo amministrativo della nave umanitaria Humanity 1. Un altro tribunale italiano dà ragione alle organizzazioni non governative di soccorso in mare contro il decreto Piantedosi. E, per la prima volta, sancisce il principio per cui le navi che non rispettano le istruzioni della cosiddetta guardia costiera libica e il coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare da parte di Tripoli “non stanno assumendo comportamenti pericolosi ma anzi sicuri e nel rispetto del diritto del mare, perché la Libia non può fare search and rescue: il paese non può essere mai considerato un porto sicuro dove riportare le persone salvate”, dice Cristina Laura Cecchini, avvocata di Sos Humanity. Il ricorso - Il tribunale civile di Crotone ha annullato il sequestro amministrativo deciso il 4 marzo scorso dal Viminale guidato da Matteo Piantedosi alla nave di soccorso Humanity1. La detenzione, per il giudice Antonio Albenzio, è stata illegale. La corte - questa la novità - “ha inoltre ritenuto che il centro libico di coordinamento dei soccorsi e la cosiddetta guardia costiera libica non possono essere considerati legittimi attori di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo”, spiegano dalla ong tedesca. Il ministero delle Infrastrutture e Trasporti, quelli dell’Interno e delle Finanze, la questura di Crotone e la Guardia di finanza sono stati condannati a risarcire la ong con oltre 14mila euro per le spese. Dopo la decisione del tribunale di Brindisi nei mesi scorsi sulla Ocean Viking di Sos Mediterranèe “non è la prima decisione positiva sui fermi”, spiega Cecchini. “Ma è assolutamente la prima volta che viene sancito da un tribunale il principio per cui le navi che non rispettano le istruzioni dei libici stanno rispettando il diritto internazionale, perché la Libia non può fare attività di ricerca e soccorso”. Attività che invece, da anni, l’Unione europea e l’Italia provano ad “appaltare” a Tripoli, finanziando ed equipaggiando il centro di coordinamento e la cosiddetta guardia costiera libica nel tentativo di “intercettare i rifugiati nel Mediterraneo centrale in violazione del diritto internazionale e riportarli in Libia”. La sentenza, di fatto, aggiunge un ulteriore tassello, dopo che a febbraio la Corte di Cassazione - dopo anni di denunce della società civile e delle organizzazioni internazionali - aveva detto nero su bianco che la Libia non può essere considerata un “porto sicuro”. “Ci auguriamo che la sentenza contribuisca a porre fine a queste forme illegittime di cooperazione, come quelle praticate dall’Italia con la Libia e, recentemente, con la Tunisia”, dice Cecchini. Cos’è successo - Il 2 marzo 2024, l’equipaggio della Humanity 1 viene minacciato, armi alla mano, dalla cosiddetta guardia costiera libica che interrompe violentemente un’operazione di salvataggio in corso da parte della nave umanitaria. “Indietro, indietro, sparo!” gridano gli uomini sulla motovedetta libica. Ci sono persone in acqua. È l’aereo di pattugliamento Seabird 2, della ong tedesca Sea Watch, a riprendere la scena. “L’equipaggio della Humanity non ha avuto altra scelta che guardare mentre circa 50 persone venivano costrette a salire sulla motovedetta per essere rimpatriate illegalmente in Libia, il paese da cui hanno tentato di fuggire”, raccontano dalla ong. La Humanity 1 riesce comunque a soccorrere 77 persone in tre operazioni e sbarcare due giorni dopo a Crotone. Alla nave viene imposto il fermo amministrativo di 20 giorni, sulla base di mail inviate alle autorità italiana dalla guardia costiera libica, per non aver rispettato le indicazioni di Tripoli e per aver creato “situazioni di pericolo durante le operazioni Sar”, si legge nel decreto di fermo impugnato da SOS Humanity. Per il giudice di Crotone è “circostanza indiscussa e documentata che il personale libico fosse armato e avesse anche sparato”, e “costituisce circostanza desumibile dalla corrispondenza agli atti che nessun luogo sicuro risulta essere stato reso noto dalle stesse autorità libiche intervenute per coordinare le operazioni di recupero dei migranti sul posto”, si legge oggi nella sentenza. Tradotto: vogliamo proprio far salvare persone in mare ai libici? Non devono essere armati né violenti, ça va sans dire, e non devono neanche riportare quelle persone in Libia. Le riportano in Libia? Il loro coordinamento è illegittimo. “Né può ritenersi conforme ai parametri internazionali l’attività posta in essere dalla guardia costiera libica, neppure laddove si ritenga esecutiva degli accordi sottoscritti tra il governo italiano e quello libico, in tema di individuazione del luogo di sicurezza rilevante ai fini della operazioni di salvataggio”, si legge ancora nella sentenza. D’altra parte “nessuna condotta ostativa è riscontrabile nei confronti della ong coinvolta”, che invece “è risultata l’unica imbarcazione a intervenire per adempiere, nel senso riconosciuto dalle fonti internazionali, al dovere di soccorso in mare dei migranti”.