Scarcerazione sì, ma solo di detenuti-modello: perché la proposta Giachetti batte Nordio di Corrado Limentani ilsussidiario.net, 27 giugno 2024 Le carceri esplodono, ma le misure proposte da Nordio non convincono i partiti di maggioranza. Molto meglio sarebbe la proposta Giachetti. Le carceri non sono in grado di superare l’estate senza un provvedimento urgente che si faccia seriamente carico di risolvere il problema del sovraffollamento. Aumentano i detenuti (ora sono oltre 61mila a fronte di una capienza massima degli istituti penitenziari di 48mila) e aumentano i suicidi (già 45 dall’inizio dell’anno e in netta crescita rispetto al 2022), ma in Parlamento e al Governo si continua a litigare anziché trovare soluzioni radicali e rapide. Si doveva trattare la questione in Consiglio dei ministri, ma la discussione sugli interventi da approvare è stata ancora rinviata. Da indiscrezioni di palazzo si apprende che le proposte del ministro Nordio sarebbero tre, ma nessuna sembra andare nella direzione auspicata di scarcerare un numero significativo di detenuti per far vivere meglio quelli che in carcere devono restare. Il primo provvedimento sarebbe quello di approvare procedure più rapide per le decisioni dei tribunali di sorveglianza, l’organo giurisdizionale che decide di concedere ai detenuti di scontare le pene con misure alternative al carcere e che oggi non riesce a smaltire l’enorme mole di lavoro da cui sono oberati: intervento utile, ma i cui benefici si appaleseranno tra mesi. Il secondo intervento in progetto è quello di organizzare una rete di comunità che possa accogliere detenuti privi di abitazione che debbono scontare pene brevi: anche questo intervento è meritorio, ma certamente non in grado di essere realizzato in tempi brevi. Infine vi è il solito proposito di costruire nuovi istituti di pena e ampliare quelli esistenti: impegno assunto mille volte in passato, ma mai realizzato. E si vorrebbe dire fortunatamente mai realizzato, perché in controtendenza rispetto alle più moderne concezioni in tema di sanzioni penali sempre più orientate a implementare il ricorso a pene diverse dalla reclusione in carcere. Intervento, quindi, sbagliato e che comunque richiede tempi lunghissimi. In conclusione si può affermare che nessuno di questi interventi governativi è in grado di risolvere in tempi brevi il problema del sovraffollamento. Diversa la partita che si sta giocando in Parlamento, ove è in discussione il disegno di legge proposto dall’on. Giachetti che prevede di allungare da 45 a 60 giorni all’anno (anche con effetto retroattivo) lo sconto di pena per i detenuti che hanno tenuto una buona condotta. Questo provvedimento, contrariamente a quelli sopra indicati, comporterebbe diverse migliaia di scarcerazioni con conseguente beneficio di chi in carcere deve restare. È una misura intelligente perché favorirebbe la liberazione solo di “detenuti modello”, di soggetti cioè che sono stati considerati dai magistrati di sorveglianza meritevoli di godere di sconti di pena per la loro positiva partecipazione all’opera di rieducazione proposta in carcere. L’approvazione della legge è incerta per vari distinguo che vengono da maggioranza (FdI, Lega) e opposizione (M5s). Sarà come sempre la premier e il suo schieramento a decidere se approvare la legge oppure affossarla. Si vedrà nei prossimi giorni. Morire dietro le sbarre: oltre 100 vittime in carcere da inizio anno ansa.it, 27 giugno 2024 Oltre cento detenuti morti nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, di cui 45 per suicidio, una media è di un recluso che si toglie la vita ogni quattro giorni. L’ultimo è un 29enne del penitenziario di Genova, che in cella ha inalato il gas di un fornello. Sulla vicenda sono in corso indagini per capire se possa trattarsi del tentativo del giovane di procurarsi effetti allucinogeni poiché episodi come questo sono in aumento e molte volte sono dovuti al sovraffollamento degli istituti e alle difficoltà psichiche di alcuni individui, ripete spesso il ministro Nordio che - dopo uno slittamento - sarebbe pronto a presentare il decreto svuota-carceri entro il mese di luglio. Il provvedimento - aveva spiegato nei giorni scorsi il Guardasigilli - era atteso la scorsa settimana ma c’è ancora bisogno di tempo per metterlo a punto ed è in arrivo, assicurano da via Arenula, “prestissimo”. Il testo prevede anche una norma che disciplina il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta. Ma non saranno introdotti sconti di pena. L’obiettivo è alleggerire i tribunali di sorveglianza, gravati dalla necessità di evadere 200mila richieste all’anno e, contemporaneamente, garantire ai detenuti i diritti già previsti dalla normativa vigente. Negli istituti di pena sono attualmente recluse oltre 61mila persone a fronte di una capienza di 51.178 posti, con 13.500 detenuti in eccesso. L’alto numero dei suicidi, finora 45 da inizio anno, è in prospettiva quello sempre più allarmante, considerando che il 2022 è stato l’anno record, con 85 casi accertati in 365 giorni. A via Arenula sono ancora al lavoro per istituire (questo avrebbe portato a dilazionare i tempi di presentazione del dl) un albo delle comunità per associazioni del terzo settore, già dotate di strutture di accoglienza, per consentire, a chi ha già i requisiti ma non dispone di una casa, di scontare la pena in regime di detenzione domiciliare o di affidamento in prova, purché svolga un’attività lavorativa. In pratica far scontare ai detenuti, in carcere per reati minori, la parte finale dell’esecuzione della loro pena in comunità. La misura potrebbe dunque riguardare coloro che hanno un fine pena inferiore ai due anni, oltre a chi è inserito in uno specifico percorso trattamentale. Grazie a un’intesa con la Cassa Integrazione e le Regioni, le associazioni iscritte nel nuovo albo si farebbero quindi carico di una parte dei costi per mantenerle in vigore. Oggetto di riflessione è anche come velocizzare il lavoro dei tribunali di sorveglianza oberati da 200mila fascicoli per pratiche di riconoscimento di buona condotta quando non ci sono reati ostativi (lo sconto di 45 giorni di reclusione ogni sei mesi di carcere trascorsi senza note negative), procedura che richiede vari ‘visti’ e che potrebbe essere resa più fluida. Da escludere che il ‘bonus’ dei 45 giorni salga a 60. Inoltre le telefonate standard potrebbero aumentare, per tutti, dalle attuali 4 a 6 al mese. C’è poi l’ipotesi - non tramite decreto ma con un iter legislativo più lungo - di devolvere l’ordinanza di custodia cautelare a tre giudici che interverrebbero in tempi più rapidi, con l’obiettivo di avere circa 3.500 carcerati in meno. La stima è stata fatta sulla base dei numeri del 2022, quando su 12mila provvedimenti cautelari impugnati 1.200 sono stati annullati, quindi il 10% è finito in carcere mentre avrebbe dovuto restare libero, e 1.940, quasi il 20%, hanno avuto il provvedimento modificato, cioè dal carcere sono passati agli arresti domiciliari. La ricerca di spazi negli istituti penitenziari passa anche per piani con un’ottica più ampia, attraverso il tentativo di accordi con Stati africani per il trasferimento dei detenuti stranieri dalle carceri italiane verso gli istituti del loro Paese di origine. Il progetto si inscrive nell’ambito del cosiddetto piano Mattei. Il programma al momento è ancora agli albori della sua stesura ed è legato all’accordo con ogni singolo Paese nell’ambito dei prossimi anni. Boschi: “Sovraffollamento e record di suicidi, sul carcere non abbiamo più tempo” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 27 giugno 2024 Intervista alla deputata di Italia Viva: “Se andiamo avanti con questo ritmo entro fine anno ci saranno circa 65mila detenuti a fronte di una capienza reale di 48mila. Dal governo tanti annunci ma nessuna soluzione”. L’approdo in aula alla Camera del ddl Giachetti sulla liberazione anticipata ha acceso un faro sulle condizioni inumane di sovraffollamento dei nostri istituti di pena, e della tragedia dei sempre più numerosi suicidi in carcere. La scorsa settimana, per impulso della deputata di Italia Viva ed ex ministro, Maria Elena Boschi, a Montecitorio si è svolto un dibattito sul tema, con una richiesta delle opposizioni di un’informativa del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Abbiamo chiesto a lei quali sono a suo avviso gli interventi più urgenti da operare. Onorevole, dall’inizio dell’anno in Italia ci sono stati già più di 40 suicidi in carcere. Un triste primato per un grande paese europeo. Quali sono a suo avviso le ragioni di questa piaga? Purtroppo sono stati esattamente 46 i suicidi di detenuti da gennaio. Un bilancio drammatico. Ognuno di loro aveva un volto, un nome, un valore. Un detenuto non può essere considerato uno scarto anche se condannato per aver sbagliato. E a questo elenco tragico si sommano anche i quattro suicidi di agenti della penitenziaria. Polizia penitenziaria costretta ad operare in condizioni estreme per la mancanza di personale, per le condizioni delle carceri, con un impatto nefasto in termini psicologici anche per loro. E i suicidi sono la punta più tragica di un iceberg fatto da oltre 850 tentati suicidi e migliaia di atti di autolesionismo. Il sovraffollamento carcerario, con detenuti costretti in celle adeguate per la metà delle persone, è la causa principale di questo disastro. Ve lo posso garantire, andando nelle carceri, parlando coi detenuti. Anche con chi ha tentato il suicidio e per fortuna si è salvato. Se andiamo avanti con questo ritmo entro fine anno ci saranno circa 65mila detenuti a fronte di una capienza reale di 48mila. A questo si sommano strutture obsolete dove manca anche l’acqua calda, l’assenza di spazi per poter svolgere attività sportive o di lavoro, che rendono spesso invivibile la condizione carceraria. Al disagio estremo per tutti i detenuti legato alla costrizione fisica, si aggiunge spesso l’assenza di un supporto psicologico o psichiatrico adeguato per insufficienza di fondi e risorse umane. Senza considerare i troppi casi di detenuti che dovrebbero essere destinati ad altre strutture in quanto malati psichici ma che restano sospesi/parcheggiati in prigione per assenza di alternative. E lì si perdono definitivamente. Tutto questo non è degno del Paese di Beccaria. Cosa si può e si deve fare? Quali sono le responsabilità in capo al governo? Il Governo ha fatto tanti annunci, anche di un prossimo dl, ma non ha fornito nessuna soluzione. Anzi, con il continuo proliferare di nuovi reati e di aumento delle pene, il Governo Meloni ha drammaticamente contribuito all’aumento del sovraffollamento carcerario. Potrebbero intanto smetterla con la loro ansia panpenalistica. E poi dovrebbero evitare di continuare a sottovalutare perché con l’arrivo dell’estate i problemi esploderanno. Servono interventi infrastrutturali sugli immobili e nuove strutture, certo, ma richiede tempo. La priorità allora è intanto individuare delle soluzioni per ridurre subito il sovraffollamento, come ha proposto il collega Giachetti. Servono poi risorse immediate per le attività trattamentali per rendere più sopportabile la vita in carcere. Incentivare il lavoro dei detenuti ma soprattutto fornire adeguato supporto medico e psicologico, specie alle persone più fragili. Non dimentichiamo che in carcere ci sono anche innocenti o persone in attesa di giudizio che vivono con particolare fatica quella condizione. E magari rivedere anche l’apertura delle celle e la sorveglianza dinamica per la bassa e media sicurezza, come chiedono coloro che operano in carcere. Misure a costo zero che nell’immediato darebbero sollievo ad una situazione ormai esplosiva. E sicuramente aumentare il personale dell’amministrazione penitenziaria, a cominciare dalla polizia. In aula, come detto, è arrivato il ddl Giachetti, ma il suo esame rischia di andare a rilento e la destra ha già fatto muro. Ce la farete ad approvarlo? Il collega Giachetti ha presentato una proposta elaborata insieme a “Nessuno tocchi Caino” ed è stato costretto ad un prolungato sciopero della fame insieme a Rita Bernardini anche solo perché potesse essere discussa in commissione. È evidente che da parte della maggioranza non ci sia la volontà di affrontare la questione e con vari trucchetti nel calendario lo trascineranno all’infinito per poi arrivare a bocciare la proposta. Noi ci siamo detti disponibili a modifiche, a trovare una mediazione con il Governo, ma non c’è la volontà politica nella maggioranza. Preferiscono mettere la testa sotto la sabbia. In attesa del prossimo suicidio o fino a che la situazione sarà talmente insostenibile anche per chi lavora nelle carceri da dover adottare misure ben più drastiche per svuotare le carceri. E prima o poi i cittadini dovranno pagare anche il conto di una nuova condanna della Cedu grazie al governo Meloni. Sempre in aula, il M5S è prima intervenuto per chiedere l’informativa a Nordio, denunciando le condizioni inumane di sovraffollamento nelle nostre carceri, poi nella discussione generale del ddl Giachetti, con Cafiero de Raho, ha assunto una posizione contraria. Che ne pensa? Il M5S si è limitato ad unirsi ad una richiesta di informativa urgente promossa dal nostro gruppo di IV alla quale, peraltro, il ministro Nordio non ha dato seguito. E già questo mi pare grave: il Governo non sente il dovere di venire in Parlamento nemmeno a riferire sulla situazione drammatica delle carceri e su cosa intenda fare. Quanto al M5S, sappiamo bene quali sia la loro idea di giustizia. La loro idea non è molto diversa da quella di Lega e Fratelli d’Italia, tutti i populisti si assomigliano in questo. L’onorevole Giachetti si è sempre detto disponibile a cambiare alcune parti della propria proposta, magari escludendo anche alcuni reati dalla liberazione anticipata. Ma il M5S parte da una posizione molto netta: bocciare la legge. La situazione nelle carceri italiane è drammatica anche per gli affetti, oltre che per le condizioni igieniche. Ci sono detenute madri che non possono vedere i propri bambini e detenuti che non hanno il diritto di vedere le proprie compagne i propri compagni. Lei si sta impegnando su questi temi, da dove si può iniziare per migliorare la situazione? La vigilia di Natale sono stata a Rebibbia e le posso assicurare che è stato un cazzotto nello stomaco incontrare una giovane madre detenuta con il suo bambino di due anni. Un bambino che vede il mondo attraverso le sbarre, che a due anni non ha mai potuto giocare con un altro bambino. Qualunque colpa abbia commesso la madre, il prezzo più alto lo sta pagando il figlio. Il Governo Meloni, con le nuove norme del ddl sicurezza che stiamo discutendo alla Camera, vuole rendere il carcere per le detenute incinta o madri con figli piccoli la regola. Noi ci opporremo fermamente. I diritti dei bambini vengono prima di tutto. Occorrerebbe un atto di coraggio sulla custodia cautelare, sul differimento della detenzione nel caso di bambini piccoli o con disabilità, aumentare i fondi per le case famiglia protette. Ma sicuramente queste misure non sono lontanamente nei radar del governo. Lo scrittore Balzano: “Ho insegnato in carcere: la rieducazione non esiste” di Ilaria Dioguardi vita.it, 27 giugno 2024 Marco Balzano ha insegnato italiano in carcere e continua ad incontrare i detenuti. “Ho sempre trovato una situazione drammatica negli istituti penitenziari. Non c’è un percorso di rieducazione. La scuola in carcere è una grande Cenerentola, non gode di nessuna considerazione”. Il decreto sulle carceri arriverà “prestissimo”, ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a margine di una conferenza stampa a palazzo Chigi. Sono 45 i detenuti che si sono tolti la vita in un istituto di pena nei quasi sei mesi del 2024, una ogni quasi tre giorni. Un numero che se continuasse a crescere a questo ritmo porterebbe il 2024 a superare il tragico dato del 2022 quando i suicidi in prigione furono 85. “Non pare che questo Governo sia particolarmente interessato a scongiurare questi eventi”, dice lo scrittore Marco Balzano, che ha insegnato italiano in carcere. Balzano, le capita di andare negli istituti penitenziari? Saltuariamente vado in carcere ad incontrare i detenuti. Insegnare in quei luoghi in cui c’è una maggiore fragilità è una parte del mio lavoro e del mio interesse. È lì che, ancora di più e prima di tutto, serve la parola, e la parola può esprimere una funzione non tanto consolatrice o terapeutica (come va troppo spesso di moda) ma una funzione autoanalitica e narrativa, nel senso di racconto di sé per prenderne meglio coscienza. È una cosa che faccio anche perché la scuola in carcere è un tasto molto dolente. Perché la definisce “un tasto molto dolente”? Ci sono gruppi troppo eterogenei per preparazione, per pena da scontare, le classi si smembrano continuamente per i trasferimenti, le persone non seguono con continuità. Questo rende molto difficile portare avanti un progetto scolastico capillare, tradizionale. Quindi, ha ancora più importanza che in carcere entrino figure come gli scrittori, gli artisti in genere, perché possano far ripuntare gli occhi su ciò che c’è di umano nella letteratura, nelle arti figurative. Secondo me una delle più grandi storture del sistema è questo. I detenuti, durante le lezioni, non sono sorvegliati a vista ma sono con il loro docente, quindi è un relativo spazio di libertà, perlomeno di libertà di discussione, di libertà interiore. Ma sappiamo benissimo che l’insegnante, anche se segue una persona per uno o più anni, non ha nessun diritto di espressione, di giudizio sul suo profilo, che viene invece deciso dai giudici che non l’hanno mai visto. Questo lo trovo semplicemente abnorme. Quanto è importante lo spazio di libertà della parola e dell’espressione per un detenuto? È uno spazio di libertà quello della lettura, della parola, della scrittura, del racconto di sé. Sono momenti determinanti che, oltre a questi frangenti, non so quanti spazi trovino generalmente in carcere, dove nel migliore dei casi (ed è importantissimo) trova spazio il lavoro, molto più che quel tempo necessario a uno studio delle parole o delle storie che sia, inevitabilmente, uno sguardo su loro stessi, come si fa con la letteratura. Leggiamo nel tentativo di capire meglio gli altri e noi stessi in relazione agli altri. È evidente che, nove volte su 10, chi è in carcere lo ha fatto poco come esercizio nella vita, quello di mettersi nei panni degli altri perché si è ritrovato delle vicissitudini troppo incombenti o interpretate in maniera troppo sbagliata. Invece credo sia un esercizio che non abbia nulla di erudito, ma che possieda degli specifici enzimi che attivano la riflessione su loro stessi. In quali istituti penitenziari è andato? Nel 90% dei casi capita che, all’uscita di un mio romanzo, i bibliotecari o gli insegnanti lo leggano o lo propongano ai detenuti, dopodiché vado ad incontrarli. Ne ho girate da Nord a Sud, da Torino a Palermo, anche nei minorili, nei femminili. Quelle in cui sono andato di più sono le carceri milanesi, in particolare quello di Bollate, che tra gli istituti penitenziari più all’avanguardia d’Europa. Tantissimi anni fa ho insegnato italiano in un anno di supplenza nel carcere di Opera. Com’è stato quell’anno di insegnamento in carcere? Avevo 20 anni di meno, ero senz’altro più ingenuo. Era una supplenza, c’era una cattedra vacante, è stato un anno in crescendo. Ci sono state una serie di difficoltà relazionali, logistiche, di impostazione della lezione da capire e da affrontare. Mi è rimasto molto quell’anno lì, l’ho anche raccontato in qualche pagina. Quello che ne porto a casa e che rifarei da subito, se mi ricapitasse la stessa situazione, è il fatto di dover impostare dei macro argomenti su cui riflettere. Partendo da questi macro argomenti, quali la responsabilità, il senso dell’altro, la considerazione e via dicendo, impostavo delle lezioni per poi, da lì, recuperarli alla letteratura, allo studio. Evidentemente in carcere non si può entrare in classe e dire: “Oggi spiego Machiavelli”. Ma si può entrare in classe e chiedere se il fine giustifica i mezzi, partendo da qui si può arrivare a Machiavelli. In carcere va cercato un modo diverso di impostare le lezioni? Va trovato un senso. Già noi e gli alunni, a volte, ci lamentiamo di non trovare un senso di applicazione del sapere umanistico letterario e, per questo, prende sempre il sopravvento questa deriva assurda e atroce della scuola come professionalizzazione: il mondo è cambiato e dobbiamo già interrogarci nelle scuole a cosa serve Machiavelli e conoscere il suo pensiero. A maggior ragione in una situazione di disagio, di sofferenza, di intolleranza qual è quella della clausura forzata, della costrizione è umanamente possibile che una persona, per degnarti della sua attenzione o per cercare di recuperare la sua attenzione, abbia uno stimolo forte. Frequentando le carceri da vent’anni, ha notato un peggioramento delle condizioni degli istituti penitenziari italiani? Io ho sempre trovato una situazione drammatica nelle carceri, quindi è anche più difficile metterle in scala, in classifica. A mio modo di vedere, ci sono carceri e carceri. Se a un detenuto chiuso nel carcere di Sulmona dici che sei stato a Bollate, lui ti dice che Bollate in confronto è Gardaland. A Bollate spesso c’è la coda di gente che va a costituirsi, così almeno un pezzetto di pena la fanno lì, dove una direttrice illuminata ha impostato tempo fa un lavoro dei detenuti all’aria aperta, un’idea di formazione e di professionalizzazione che porta a un abbassamento molto sensibile della recidiva. Ci sono carceri che sono più soggette a ispezioni, con condizioni inevitabilmente migliori, che sono spesso quelle delle grandi città, e ci sono carceri un po’ abbandonate, dove si è più certi che le condizioni tragiche in cui si passa la quotidianità vengano meno a galla. Secondo me, è proprio il sistema che non va. Da questo punto qui, entrare in carcere come docente è fare un percorso all’interno del carcere molto privilegiato ed esclusivo perché arrivano solo poche persone, solo quelle che hanno un’intenzione o che non si sono completamente abbandonate a loro stesse. Le celle si vedono poco, si conoscono per racconto. Le ho viste, so di cosa si parla. Per me la situazione nelle carceri è sempre stata uno schifo. Chi è che riesce a imparare, a rieducarsi, a capirsi in uno stato di costrizione che è, di per sé, uno stato di ulteriore travaglio? In una recente intervista a Vita, Ornella Favero, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia, racconta le difficoltà frapposte al lavoro delle associazioni nelle carceri, sempre più “burocratizzate”... Sì, condivido queste difficoltà e credo che questo lo si veda ancora di più nelle carceri minorili, dove mi pare siano detenute persone che non hanno nulla di nulla fuori. E che non possono fare altro, una volta che sono state sorprese al supermercato a rubare e hanno scontato la pena, che tornare fuori e riandare allo stesso supermercato a procurarsi da mangiare rubandolo e, quindi, senza sorprese, ritornare in carcere. C’è tutto un andirivieni inutile da ogni punto di vista e che serve esclusivamente a indurire e a incattivire gli animi di tutti. Com’è considerata la scuola in carcere? La scuola in carcere è una grande Cenerentola, non gode di nessuna considerazione. Se lo scrittore vuole andare in carcere può andare, ma il senso è: “Vieni e poi vattene”. Non sto parlando dei direttori degli istituti che aprono agli artisti, agli intellettuali, ai medici, a tutto il personale della società civile. Ma generalmente il sistema è chiuso, da fuori non si vede nulla e, quando si entra dentro, non c’è particolare interesse da parte del sistema che ci ruota attorno, anche da parte del sistema burocratico. Soprattutto nelle carceri minorili bisognerebbe cercare di costruire... Invece non c’è un percorso prestabilito e consolidato, strutturato in maniera forte, per cui si riempiono le lacune e si fa un percorso di rieducazione. La parola “rieducazione” in carcere non esiste ancora, se non praticata in singoli momenti da menti illuminate, da persone che dedicano volontariamente il loro tempo. Sono ovviamente, per certi aspetti, la spina dorsale dell’Italia, sto parlando del sistema, sia ben chiaro, non delle persone, dei volontari, delle eccezioni: lo sottolineo per non offendere nessuno, nemmeno me stesso che lo faccio. Il sistema in sé non c’è, non c’è un percorso di rieducazione. Ci spieghi meglio... Se voglio inviare ad una persona detenuta una lettera, se la sua prima qualità fosse quella di dover essere rieducato sarebbe (anche se suona male in italiano) “rieducando, nome, cognome”. Invece devo mandarla al “costretto, nome, cognome”. La prima parola che è stata scelta è “costrizione”. Se le parole hanno un senso, significa che bisogna stare costretti. Chi è che riesce a imparare, a rieducarsi, a capirsi in uno stato di costrizione che è, di per sé, uno stato di ulteriore travaglio? Si aumenta il rischio di non recuperare. Quando uno Stato rinuncia a recuperare, che sia negli anni della scuola, che sia nella sanità, che sia nella legge, che sia nelle condizioni di povertà nell’ambito sociale, evidentemente sta alzando una bandiera bianca importantissima. Questo “ulteriore travaglio” porta molte persone in carcere a decidere di togliersi la vita. Sono 45 i detenuti che si sono suicidati dall’inizio dell’anno... Non pare che questo Governo sia particolarmente interessato a scongiurare questi eventi. Anzi, l’immagine che ci vuole restituire è che, se sbagli, in carcere ci entri, anche se hai 16 anni e non 18. Quando si vuole far vedere la propria forza solo sull’ultimo anello della catena, funziona per quella platea di votanti. Ma si interviene sempre sull’ultimo anello della catena, quello che andrebbe scongiurato. Separazione delle carriere, è già scontro alla Camera. Esclusa la commissione Giustizia di Liana Milella La Repubblica, 27 giugno 2024 Il Ddl affidato solo alla Commissione Affari costituzionali. Ma la Commissione Giustizia è intenzionata a rivendicare l’affidamento congiunto, già chiesto ufficialmente da Enrico Costa di Azione. Accelera l’abuso d’ufficio, già in aula il 4 luglio. La proposta costituzionale sulla separazione delle carriere approda alla Camera, ed è già scontro. Perché è stata affidata “solo” alla prima commissione, quella per gli Affari costituzionali. Esclusa del tutto la commissione Giustizia. Anche se proprio il contenuto del ddl di Carlo Nordio riguarda completamente proprio quella commissione. Che potrebbe sollevare subito una questione formale con il presidente della Camera Luciano Fontana. Un’esigenza già sollevata dal responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa che la settimana scorsa aveva scritto al presidente della commissione Giustizia, il meloniano Ciro Maschio, per sollecitare l’affidamento congiunto. Proprio come, al Senato, ha già teorizzato il presidente della prima commissione per gli Affari costituzionali Alberto Balboni, anche lui di FdI, ritenendo scontato il doppio affidamento. Che ovviamente è condiviso anche dalla presidente della Giustizia Giulia Bongiorno. Come dice Costa “la scelta di assegnare la proposta di legge in sede referente in via esclusiva alla commissione Affari Costituzionali contrasta con il tema specifico in oggetto, il quale, disciplinando la separazione delle carriere dei magistrati e la distinzione degli organi di governo delle due magistrature - requirente e giudicante - presenta un impatto significativo su ambiti di stretta e assoluta competenza della commissione Giustizia”. Basti pensare alle future audizioni, che ovviamente comprenderanno non solo gli esponenti dell’Anm, ma anche sia pm che giudici. Oltre ovviamente ai costituzionalisti e ai giuristi. Escludere la commissione Giustizia è una vera e propria anomalia. Ma non basta. C’è anche una questione di tempi che crea un caso politico. Perché la commissione Affari costituzionali dovrà trattare contemporaneamente anche il premierato, in arrivo alla Camera dopo il primo voto del Senato. L’esclusione della Giustizia, sotto entrambi i profili, risulta solo dannosa e destinato peraltro a creare sin da subito un conflitto all’interno della Camera stessa. La decisione dell’affidamento alla sola prima commissione contrasta peraltro con l’accelerazione che sta caratterizzando il comparto della Giustizia. In aula, già il 4 luglio, arriva il ddl sull’abuso d’ufficio, nonostante la ressa dei decreti, in modo da garantirne il voto prima dell’estate, anche se si addensa l’annuncio di possibili voti segreti. Che potrebbero riservare delle sorprese, perché è ben noto che nel Pd i sindaci siano favorevoli all’abolizione. Non solo. Sempre Costa chiederà che, come ordine del giorno, venga votata la sua proposta di legge sui soli 60 giorni concessi ai gip per esaminare una richiesta di arresto dei pm. Un tempo strettissimo. E una richiesta che è stata presentata da Costa subito dopo il caso Genova e i mesi utilizzati dalla gip ligure per autorizzare gli arresti del caso Toti. È già scontato che la maggioranza, nonché Italia viva, saranno favorevoli alla proposta Costa. Mattarella e il “file” sulle carriere separate: “Procure, materia delicata” di Errico Novi Il Dubbio, 27 giugno 2024 Nella nota con cui dà l’assenso alla discussione in Csm sulle circolari per uffici giudicanti e requirenti, il Capo dello Stato incrocia la “specificità” di questi ultimi e, indirettamente, le incognite che potrebbero aprirsi con la riforma costituzionale. Di cui, la settimana prossima, la prima commissione di Montecitorio fisserà il calendario d’esame. Di sicuro il presidente della Repubblica non dichiara né l’illegittimità né l’inopportunità delle riforme. Al più invita a riflettere. Con il rinvio alle Camere di una legge appena approvata, e il relativo messaggio. Stamattina ha molto, ma molto indirettamente incrociato la separazione delle carriere nella nota, trasmessa al Csm, di assenso all’ordine del giorno in cui il plenum ha inserito due circolari, una sulle Procure e un’altra sugli uffici giudicanti. Due testi, due provvedimenti di “normazione secondaria” dell’ordinamento giudiziario. Di quelli con cui il Consiglio superiore definisce aspetti di dettaglio nel quadro di leggi vere e proprie. Ma non passano inosservate le parole del messaggio presidenziale con cui si ricorda quanto siano “delicati”, in particolare, i “temi” di cui si occupa “la nuova circolare sugli uffici requirenti”, anche considerata la necessità di “garantire la funzionalità” di questi ultimi “nell’interesse della collettività e delle legittime aspettative di giustizia, tenuto conto della specificità ordinamentale” delle Procure, appunto. Da una parte, è chiaro come Mattarella non intenda trascurare le tensioni che, da anni, scuotono gli uffici del pubblico ministero, soprattutto per via della loro eccessiva gerarchizzazione, introdotta dalla riforma Castelli e foriera, a detta degli stessi magistrati, di un fatale impulso al “carrierismo”. Dall’altra è difficile sottrarre la valutazione del Quirinale alla cornice più generale definita, per l’ordinamento giudiziario, dal ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Anche la riforma varata in Consiglio dei ministri su iniziativa di Carlo Nordio si occupa, ovviamente, sia dei giudici che dei pm. Ma è chiaro come la delicatezza delle conseguenze che ne verranno riguardi soprattutto i requirenti, e il Capo dello Stato lo sa bene. Lo sa in quanto garante delle istituzioni, ma anche nella veste di presidente dell’attuale, unico Csm, e dei due eventuali futuri Consigli superiori - uno per i giudicanti e appunto uno per i requirenti - previsti dalla riforma. E Mattarella evidentemente comincia a tenere a vista un dossier per ora solo futuribile, ma che è di certo l’aspetto più delicato e pieno d’incognite dell’intero ddl Nordio: la particolarissima condizione in cui la magistratura requirente si verrà a trovare una volta che la separazione delle carriere andasse a regime. Una collocazione inedita per i pm e i loro capi, per il loro ordine separato e in qualche modo “atipico”. Non assoggettato al potere dell’Esecutivo o del Legislativo, certo. Ma, a quel punto, neppure ancorato a un unico ordine insieme con i colleghi giudici. Un potere dello Stato forte, pervasivo, eppure sganciato e quasi sospeso rispetto al resto. Governato, certo, da un organo il cui presidente sarà sempre il Capo dello Stato, ma con una composizione a maggioranza togata. Sorteggiato, nella sua componente magistratuale come in quella laica, e non più eletto sotto il controllo delle correnti Anm, ma pur sempre espressione di un sistema, quello delle Procure, che da oltre trent’anni rappresenta una sorta di antagonista della politica. Mattarella ovviamente non può né porsi ora tutte le complicatissime questioni che discenderanno dalla riforma né, evidentemente, chiedere di prevenire eventuali disfunzioni, proprio perché si tratta di disfunzioni eventuali, teoriche, inesplorate e imprevedibili. Ma oggi è come se avesse aperto un file. Gli avesse dato un nome e lo avesse lasciato, necessariamente, in bianco. Adesso quel file sta lì. Nell’orizzonte del Capo dello Stato e dunque a disposizione del legislatore. Nessuno può azzardarsi a sostenere che si tratti di una pregiudiziale sulla riforma, né di una pur assai indiretta critica. È al limite il suggerimento a considerare la magistratura requirente, e il suo potere, sempre con la dovuta prudenza. Magari, il legislatore può liberamente ricavarne un suggerimento a considerare che non ci sono molti altri modelli stranieri di magistratura scissa tra giudicante e requirente con la seconda svincolata anche dal controllo politico. Non si può certo dedurre, dalle parole trasmesse oggi dal Quirinale al Csm, uno stimolo affinché il legislatore ci ripensi e, per assurdo, imprigioni davvero i pm e il loro futuro autogoverno sotto il controllo dell’Esecutivo. Piuttosto, il Parlamento potrebbe estrarne un promemoria, ora che si accinge a esaminare il ddl sulle carriere separate. Si è appreso, proprio nelle ultime ore, che la commissione Affari costituzionali della Camera la settimana prossima fisserà, nel proprio ufficio di Presidenza, il calendario della discussione sulla riforma di Nordio. Anche alla luce delle parole di Mattarella, i deputati farebbero bene a considerare con cura, di quel ddl, aspetti meno dibattuti ma assai più seri rispetto al fantomatico controllo del governo sulle Procure. Al limite, il problema vero sarà capire quale controllo ci sarà, sulle Procure, una volta che avranno un Csm tutto per loro. Nuova circolare per le Procure, caos al Csm: tutto rinviato di Simona Musco Il Dubbio, 27 giugno 2024 Al plenum straordinario autorizzato dal Capo dello Stato, due visioni opposte del ruolo di procuratore: “primus inter pares” o monarca dell’ufficio. Tensioni sottotraccia, malumori malcelati e un involontario sgarbo istituzionale nei confronti del Capo dello Stato. Si può riassumere così il plenum straordinario del Csm sulle nuove circolari che regolano il funzionamento di Procure e Tribunali, autorizzato da Sergio Mattarella con un messaggio letto in assemblea dal vicepresidente Fabio Pinelli. Nella sua lettera, il presidente della Repubblica rimarcava “il rispetto del quadro normativo primario nel quale si collocano le due proposte di circolare elaborate dalla settima Commissione”. La seduta si è però conclusa con un rinvio per il voto sul documento più delicato, quello che, di fatto, ridisegna la figura del procuratore. In gioco due opposte visioni: una che mira a concretizzare la lettera della Costituzione, che vuole il capo dell’ufficio come primus inter pares, e una che invece aspirerebbe a una gestione centralizzata, con alla guida un procuratore-monarca illuminato. E sarebbe proprio questo l’oggetto del contendere - non detto - tra i consiglieri. La prima circolare in votazione è stata quella sugli uffici giudicanti, passata all’unanimità, seppure con qualche scontro dialettico. “Con questo copioso intervento secondario si traccia una figura di dirigente imbrigliato in un reticolo importante, al quale poco resta da fare, perché regoliamo minuziosamente” ogni cosa, secondo il togato indipendente Andrea Mirenda. Così, per il consigliere, si disegna un dirigente “dimidiato”. D’altra parte, però, grazie alla riforma del 2006. “siamo cultori dell’attitudine direttiva”, salvo poi “imbrigliare il dirigente in lacci e lacciuoli che poco o nulla lasciano alla sua skillness”. Se il dirigente è “limitato”, conclude Mirenda, “qualsiasi magistrato può svolgere questa funzione, che alla fine di direttivo non ha più niente. Pare chiaro che in un contesto simile la soluzione più coerente e adeguata sarebbe allora quella della rotazione, perché per dare esecuzione a un sistema del genere uno è uguale a uno”. Per Margherita Cassano, prima presidente della Cassazione, la circolare rispecchierebbe invece una “concezione comunitaria dell’ufficio, in cui ciascuno è tenuto a offrire il proprio apporto. Se l’ufficio è una comunità, il ruolo del dirigente è stimolante e nuovo rispetto al passato: al buon dirigente spetta anche stimolare l’apporto di idee e progetti da parte di ognuno. Non ci sarà nessun automatismo o limitazione, ma uno stimolo a una nuova creatività e progettualità”. Più complessa la circolare sugli uffici requirenti, anche per il periodo storico in cui arriva: mentre la politica propone la separazione delle carriere, il Csm mette in atto un tentativo di omogeneizzare la giurisdizione, “imponendo” uno stretto dialogo tra Procura, Tribunali e avvocatura. La novità più importante deriva direttamente dalla riforma Cartabia, con la scelta di estendere alle Procure il procedimento tabellare previsto prima solo per gli uffici giudicanti, e che dovrà essere approvato dal Csm. L’articolo più atteso è però quello relativo al ruolo del procuratore, diventato con la riforma del 2006 un vero monarca, andando a incrinare quanto sancito dalla Costituzione, secondo la quale i magistrati si differenziano solo per funzioni. La nuova circolare tenta di “smorzare” a valle il potere del procuratore, con “uno specifico momento partecipativo, rappresentato dalle apposite riunioni con gli aggiunti, i magistrati di ogni singolo gruppo o dell’ufficio e dai contributi del servizio studi, nonché tenendo conto delle indicazioni emerse in tali sedi di confronto”. Si tratta di una fase consultiva “non vincolante”, ma che comporta per il procuratore “lo specifico onere di attivarla e di tenere conto delle indicazioni che da essa provengono”. Un concreto “momento di partecipazione attiva nella pianificazione strategica dell’ufficio, onde colmare un vulnus riscontrato nella circolare previgente”. Come spiegato dal togato Marco Bisogni, relatore della pratica insieme a Roberto Fontana, Eligio Paolini e Maurizio Carbone, la scrittura della circolare si è basata sull’ascolto di quasi 200 magistrati, momento dal quale sono emerse le contrapposizioni tra dirigenti e sostituti, con la rivendicazione, da parte di questi ultimi, di un maggiore spazio di indipendenza e autonomia. “In questa dialettica il Consiglio non è voluto entrare - ha spiegato Bisogni -, perché abbiamo pensato che la soluzione fosse tentare di ricostruire un tessuto comune di sentire, di appartenenza all’interno degli uffici. Quindi la circolare è costruita su un’idea di condivisione: il contesto deve essere unico per un fine unico”. Un tentativo, ha aggiunto Fontana, di “rendere effettiva l’attuazione di quei principi generali cui deve ispirarsi la procura”, per raggiungere gli obiettivi “di efficienza e di efficacia, in linea con un ruolo del pm che sia pienamente collocato nella Costituzione”. Il ruolo del procuratore è “funzionale all’attuazione di quegli obiettivi e assicura unitarietà e impersonalità dell’ufficio della procura”. A far saltare il piatto, però, è stata la presentazione di alcuni emendamenti, tra i quali quelli del togato Dario Scaletta, di Magistratura indipendente, che sarebbero andati oltre i confini tracciati dal Presidente Mattarella. Emendamenti che avrebbero spinto ancora più a “sinistra” la circolare, nel senso auspicato da un gruppo di magistrati riuniti sotto il nome di “Facciamo presto”, che in un documento avevano evidenziato come “la proposta, sebbene rafforzi le procedure di partecipazione dei sostituti nella formazione del progetto organizzativo, relega questi ultimi ad un ruolo meramente consultivo, in quanto le indicazioni fornite (anche a maggioranza) non sono mai vincolanti” e “non fornisce rimedi per neutralizzare abusi, in quanto non prevede un potere di annullamento dei provvedimenti illegittimi”. Elementi che erano stati analizzati nel corso della discussione in Commissione, ma messi da parte a seguito dell’interlocuzione col Quirinale, che aveva ricordato la cornice normativa cui attenersi. Da qui il rinvio della seduta alle 15, quando, però, è venuto meno il numero legale, vista l’assenza del laico di Forza Italia Enrico Aimi, anche se per motivi non legati alla discussione. Ma quello che emerge tra i corridoi di Palazzo Bachelet è uno scontro tra due diverse visioni sulla funzione del procuratore, con un malumore serpeggiante - specie tra i laici - su una gestione partecipata della procura. Tutto rinviato, dunque, alla prossima seduta. Quando si attende, stando ai rumors, anche un intervento durissimo del vicepresidente Pinelli. I tentativi di abolire il reato di tortura in Italia: cosa prevede la legge e le proposte in campo di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 27 giugno 2024 Fratelli d’Italia vuole abolire il reato e derubricarlo a mera aggravante. Il Movimento Cinque stelle vorrebbe rafforzarlo. Le opposizioni spingono, invece, per i codici identificativi. Tutto quello da sapere sulla normativa e su come nasce il reato di tortura in Italia. “Se oggi esiste, in Italia, una versione sia pur blanda del reato di tortura è soprattutto merito suo, del suo coraggio e della sua tenacia”. Questo il messaggio di cordoglio con cui l’Associazione per il rinnovamento della Sinistra ha salutato Arnaldo Cestaro, morto a 85 anni lo scorso 20 giugno. Cestaro, il 21 luglio 2001, faceva parte del gruppo di 93 persone che quella notte dormiva alla scuola Diaz-Pertini di Genova ed è stato massacrato dalle forze dell’ordine, in quello che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha qualificato come un atto di tortura. Il 26 giugno ricorre la giornata mondiale a sostegno delle vittime di tortura. L’Italia, pur di fronte a numerose sentenze di condanna della Corte Edu, è stata per anni inadempiente, non avendo una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. Non sono bastate battaglie, petizioni e pressioni nei confronti dei governi che si sono succeduti dopo i fatti del G8 di Genova. Già nel 2013 la Corte di Strasburgo, con la sentenza Torreggiani, aveva condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Cedu, che vieta la tortura e trattamenti inumani o degradanti, in connessione al fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Solo due anni più tardi, lo stato italiano è stato di nuovo condannato per i fatti della Diaz. E fu Cestaro a portare l’Italia davanti alla Corte, che qualificò come atti di tortura i maltrattamenti e le percosse subite dal ricorrente a opera di funzionari di polizia nel corso della perquisizione alla Diaz. La condotta delle forze dell’ordine - scrivono i giudici - ha costituito una violazione chiara della legge, della dignità umana e del rispetto della persona. L’inadeguatezza della legislazione ha poi impedito alla magistratura di perseguire in modo efficace gli atti di tortura commessi e ha contribuito a un clima di sostanziale impunità per chi ha preso parte alle violenze, continua la Corte. L’Italia era quindi stata chiamata a più riprese a introdurre una nuova fattispecie di reato per prevenire e reprimere chiunque commettesse atti contrari all’articolo 3 della Cedu. Cosa prevede la legge attuale - Il 14 luglio 2017, con la legge 110, è stato finalmente introdotto nel codice penale italiano il reato di tortura. Un iter parlamentare lungo che ha incontrato non poche pressioni e ha portato a una legge ampiamente modificata, tanto da portare il senatore Luigi Manconi, promotore della legge, ad astenersi il 17 maggio perché considerava il testo approvato “mediocre”. Poco prima dell’approvazione della legge, l’Italia ha collezionato un’ulteriore condanna a Strasburgo per i fatti della Diaz, con una sentenza che ha messo anche in luce le responsabilità dei vertici della polizia. Proprio i sindacati autonomi di polizia sono sempre stati contrari alla legge e da anni chiedono che venga modificata, perché le fattispecie del reato di tortura e di istigazione alla tortura “sono costruite male nel nostro ordinamento”, ha detto il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, nel marzo del 2023. De Fazio ha sostenuto che lo dimostrerebbero alcune inchieste giudiziarie finite poi nel nulla. Ma è davvero così? Il reato di tortura e quello di istigazione alla tortura sono disciplinati dagli articoli 613-bis e 613-ter. Il primo punisce con una pena dai 4 ai 10 anni “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Ci sono poi una serie di aggravanti al reato nel caso in cui sia stato commesso da un pubblico ufficiale abusando dei poteri; nel caso in cui siano state commesse lesioni personali comuni, gravi o gravissime; oppure la morte causata dalla tortura. Il reato di istigazione alla tortura (613 ter) prevede invece una pena da sei mesi a tre anni nei confronti del “pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio” che, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, “istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso”. Le proposte di modifica - Dopo l’avvio della discussione in Commissione giustizia al Senato del disegno di legge del Movimento Cinque stelle per modificare il reato, ad agosto 2023, è arrivata la congiunzione con il testo proposto da Fratelli d’Italia, che propone di abolire il reato di tortura, derubricandolo a mera aggravante. Abolire la legge rischierebbe di “rallentare o far saltare i processi e i procedimenti”, hanno denunciato Amnesty International, Antigone e A Buon Diritto, oltre a rischiare di mandare “di far ripiombare il carcere nel sistema opaco che lo caratterizzava fino a pochi anni fa”. Per i promotori della riforma, “l’incertezza applicativa in cui è lasciato l’interprete potrebbe comportare la pericolosa attrazione nella nuova fattispecie penale di tutte le condotte dei soggetti preposti all’applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica”. Inoltre, secondo i meloniani, le pene previste dal reato sono “sproporzionate rispetto ai reati che puniscono nel codice attualmente tali condotte (percosse, lesioni, minaccia eccetera)”. Al momento il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto lo scorso febbraio che “il governo è al lavoro per modificare il reato di tortura adeguandolo ai requisiti previsti dalla convenzione di New York”, precisando che si tratterebbe di aggiustare un problema tecnico. Ma per il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, la questione non ha nulla di tecnico, “è solo ed esclusivamente politica”, ha scritto sulle pagine del Manifesto, e modificare il reato significherebbe “dare un messaggio di impunità”, “rispondere alle richieste dei sindacati autonomi di polizia”, “non rispettare le vittime di tortura” e “mettere a rischio processi come quello per i pestaggi e le mattanze di Santa Maria Capua Vetere o di Reggio Emilia”. I processi per imputazioni di tortura - La prima condanna in Italia per tortura risale al 15.01.2021, ricorda il XX rapporto di Antigone. È stata emessa dal tribunale di Ferrara nei confronti di un agente della penitenziaria accusato di aver appunto torturato un detenuto nel carcere della città. Ma tanti altri processi ancora in corso non sarebbero possibili senza l’attuale legge. Tra questi c’è quello riguardante i fatti avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, dove nell’istituto penitenziario Francesco Uccella il 6 aprile 2020, dopo una protesta dei detenuti preoccupati per la diffusione della notizia di un detenuto positivo al Covid-19, alcuni agenti penitenziari hanno colpito ripetutamente i detenuti. Domani fu il primo giornale a pubblicare i video di quella mattanza. Il gup ha rinviato a giudizio di 105 persone. Due agenti sono stati prosciolti per non aver commesso il fatto, per gli altri è in corso il dibattimento. A Reggio Emilia sono iniziati il 25 giugno gli interrogatori nei confronti di dieci agenti accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso nelle relazioni. I reati contestati fanno riferimento ai fatti accaduti nell’aprile del 2023 all’interno del carcere di Reggio Emilia nei confronti di un detenuto tunisino di 44 anni. Domani aveva pubblicato il video del pestaggio subíto che mostra il detenuto bendato, preso a pugni, calpestato con le scarpe d’ordinanza e trattenuto per alcuni minuti dagli agenti. Tutti gli imputati hanno richiesto il rito abbreviato. A Modena il giudice si è riservato e la decisione sull’opposizione all’archiviazione arriverà nei prossimi mesi del caso che vede indagati 120 agenti della polizia penitenziaria accusati di tortura dopo la protesta nel carcere di Sant’Anna nel marzo del 2020. Una protesta in cui avevano perso la vita nove detenuti. Codici identificativi - Per garantire l’identificazione degli agenti che compiono violenze e pestaggi la società civile chiede da anni che siano riconoscibili attraverso codici identificativi alfanumerici scritti sulle divise e sui caschi. A riaccendere il dibattito nei mesi scorsi, le accuse di manganellate da parte della polizia sui cortei degli studenti che manifestavano a sostegno della Palestina a Pisa e Firenze. La richiesta di introdurre codici identificativi è arrivata anche da organismi internazionali che hanno più volte dato indicazioni agli stati di rendere riconoscibili e identificabili gli agenti delle forze dell’ordine. Le prime proposte presentate alla Camera risalgono al 2001, ma anche in questa legislatura ci sono diverse proposte di legge che sono state presentate dalle opposizioni. Quelle presentate dal segretario di Più Europa, Riccardo Magi, e da Matteo Orfini del Pd sono state assegnate alla Commissione Affari costituzionali. Chiedono che venga introdotto un codice alfanumerico sui caschi e sulle divise visibile da almeno 15 metri, per rendere riconoscibile l’agente in servizio. Ma anche in questo caso i sindacati autonomi di polizia, supportati dalla destra, sono contrari. L’appello per la strage dei treni: la giustizia su un binario cieco di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 27 giugno 2024 Strage dei treni sulla Andria-Corato: “C’erano regole per il blocco”. Un doppio tuffo nel passato. Tragico per un verso, desolante per l’altro. La strage dei treni sulla tratta Andria-Corato avvenne su un binario unico alternato regolato col sistema del blocco telefonico, un sistema ritenuto dall’accusa “non sicuro ed obsoleto”. Il processo d’appello sulle presunte responsabilità è iniziato due giorni fa a Bari in un’aula senza stenotipia e senza microfoni. E così gli interventi degli avvocati difensori sono stati prima riassunti dal presidente della Corte, poi dettati al cancelliere e infine riportati a mano sul verbale di udienza. L’assenza di aria condizionata (di per sé non piacevole considerate le elevate temperature di questi giorni), passa quasi in secondo piano. Altro che separazione delle carriere dei magistrati, sdoppiamento del Csm, leggi bavaglio, limitazioni imposte alla cronaca giudiziaria, prescrizione. Passano le riforme, restano i veri problemi della Giustizia. Da un lato i tempi elefantiaci se ci sono perfino requisitorie di primo grado (come è accaduto qualche giorno fa per un vecchio blitz di criminalità organizzata) discusse a 25 anni dai fatti contestati. E qui bisognerebbe capire come mai un fascicolo polveroso ci mette così tanto prima di arrivare a sentenza, ribadiamo di primo grado. Dall’altro pochi uomini, risorse e mezzi messi a disposizione dallo Stato per esercitare la funzione giudiziaria “in nome del popolo italiano” anche in tutte le aule di udienza, a partire dalla austera e gloriosa aula della Corte d’Assise del Palagiustizia di piazza De Nicola, un pezzo importante della storia giudiziaria non solo pugliese. Proprio qui, dunque, il dibattimento d’appello su una delle più gravi stragi ferroviarie del nostro Paese viene celebrato come se una macchina del tempo dispettosa avesse spostato le lancette dell’orologio a fine Ottocento. Altro che 2024. Al pari di alcune tratte ferroviarie come la Andria-Corato dove il 12 luglio 2016 persero la vita 23 persone (51 i feriti). Una infrastruttura non da terzo millennio. È immaginabile oggi non avere a disposizione microfono e stenotipia? Può un collegio preoccuparsi di riassumere la discussione di un avvocato, riportandola al cancelliere che a sua volta sintetizza con la penna biro ciò che gli viene riferito, il tutto senza neanche un computer a disposizione? “Purtroppo l’aula non è attrezzata” è stata la risposta dell’incolpevole presidente alle legittime perplessità sollevate dai difensori. Di certo, tanto le presunte responsabilità degli imputati quanto le (sacrosante) ragioni delle parti civili vengono valutate in queste condizioni. In primo grado, ricordiamo, il 15 giugno 2023 il tribunale di Trani condannò il capostazione di Andria Vito Piccarreta (a 6 anni e 6 mesi) e il macchinista del treno partito da Andria e diretto a Corato, Nicola Lorizzo (7 anni), assolvendo 14 altri imputati ed escludendo la responsabilità civile di Ferrotramviaria (imputata per illecito amministrativo). Piccarreta e Lorizzo furono condannati per cooperazione in disastro ferroviario, omicidio e lesioni personali colpose aggravate dalla mancata osservanza delle norme per la sicurezza sul lavoro. Entrambi, in solido con Ferrotramviaria, dovranno risarcire i danni alle parti civili, ha stabilito quel verdetto. La pubblica accusa due giorni ha parlato di “gestione rudimentale, basata solo sulla comunicazione telefonica”, del sistema di circolazione dei treni su quella tratta, “demandato in tutto all’uomo” e quindi “fallibile”. Le difese si sono opposte alle richieste istruttorie dell’accusa con argomentazioni sintetizzate in un dettato, un po’ come avveniva in altre aule, quelle della scuola elementare. Nell’udienza di lunedì, in particolare, la Procura generale ha chiesto alla Corte di ascoltare 38 testimoni. E se qualcuno venisse chiamato a deporre in un’aula senza microfono e stenotipia? Cosa succederebbe? La sensazione è che troppo spesso ci si affidi ai sacrifici quotidiani e alla dedizione di personale amministrativo, magistrati, forze dell’ordine, avvocati pur di non inceppare una macchina che cammina a fatica. Di certo, quell’aula “muta” e con un verbale scritto a mano, trasmette una desolante sensazione di precarietà. La Giustizia così, rischia di finire su un binario cieco. Nove giorni in carcere per un reato commesso 18 anni fa di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 giugno 2024 È stato sbattuto in carcere nove giorni per espiare una pena per fatti risalenti a diciotto anni fa, quando era appena 22enne. Un caso di pazza giustizia italiana: rispetto a diciotto anni fa infatti il giovane, di origini calabresi, indagato e condannato per aver spacciato hashish e marijuana, in altre parole per aver venduto “spinelli”, ha completamente cambiato vita. È diventato uomo, si è trasferito in Veneto, dove è riuscito a trovare un lavoro prima part-time e poi a tempo indeterminato, si è sposato con una ragazza, ha avuto due figli, svolge attività di volontariato e soprattutto non ha più avuto problemi con la giustizia. Che però si è ricordata di lui diciotto anni dopo. Nel 2006 il 22enne viene arrestato a Reggio Calabria per aver spacciato insieme a un gruppo di amici sostanze stupefacenti: hashish e marijuana. Un reato da punire, certamente, anche se non si è di fronte a Pablo Escobar. Il giovane trascorre un anno e 21 giorni in custodia cautelare: nove mesi in carcere e il resto ai domiciliari. Il procedimento penale si sdoppia in due tronconi, uno incentrato sull’attività di spaccio, l’altro sull’accusa di partecipazione a un’associazione finalizzata al traffico di droga: i ragazzi, infatti, raccoglievano prima i soldi tra di loro e poi si spartivano le sostanze da vendere. Ne è risultata una vicenda giudiziaria lunghissima. La sentenza definitiva per lo spaccio di stupefacenti arriva nel 2017, cioè a undici anni di distanza dai fatti. L’uomo viene condannato a tre anni e sei mesi, ma considerato l’effetto dell’indulto del 2006 e la carcerazione preventiva già subìta non torna in carcere. Il secondo processo arriva a sentenza definitiva nel dicembre 2023, quando ormai sono trascorsi 17 anni. L’uomo viene condannato anche per l’accusa di associazione. Calcolando l’indulto e la misura cautelare già sofferta, la pena residua finale risulta essere di nove giorni di reclusione. L’avvocato Gianpaolo Catanzariti, legale dell’uomo, scrive al pubblico ministero competente dell’esecuzione della pena, sottolineando che anche quei miseri nove giorni sarebbero in realtà coperti dai tre mesi di libertà anticipata maturati durante la carcerazione preventiva. Il pm, però, non sente ragioni. L’associazione finalizzata al traffico di droga, infatti, rientra fra i reati ostativi, cioè quelli per i quali è impossibile applicare i benefici penitenziari. La mattina del primo giugno 2024, così, l’uomo, operaio metalmeccanico, viene prelevato dai Carabinieri e portato in carcere, dove rimane fino al nove giugno. “La vicenda dimostra tutta l’ottusità del sistema giudiziario italiano”, dice al Foglio l’avvocato Catanzariti. “Una condanna che si materializza a diciotto anni di distanza dei fatti, e che consiste in nove giorni di carcere, la dice lunga sul senso della funzione della pena che si ha in questo paese - aggiunge - L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma il mio assistito si era perfettamente reintegrato nella società, a cosa serviva sbatterlo in carcere, per nove giorni poi? Non avrebbe avuto senso piuttosto sostituire il carcere con un lavoro di pubblica utilità? Ma il sistema delle ostatività lo impedisce a priori”, nota Catanzariti. “Il ritorno in carcere, invece, seppur per pochi giorni, è stato un trauma per l’uomo”, afferma il legale. La carcerazione ha infatti rischiato di distruggere la vita che nel frattempo l’uomo si era ricostruito. Per fortuna l’azienda per cui lavorava è stata comprensiva. “Il giorno dopo l’arresto, con la speranza di non fargli perdere il posto di lavoro, ho chiamato l’azienda in cui lavora, spiegando cosa era successo”, racconta l’avvocato Catanzariti. “La responsabile delle risorse umane mi ha risposto con queste parole: ‘Non si preoccupi, sappiamo bene come funziona la giustizia in questo paese’. Poche ore dopo mi comunicavano via pec che la vicenda non avrebbe avuto alcun impatto sul mio assistito, al quale sarebbe stata garantita la massima privacy”. Ai figli, invece, l’uomo ha raccontato di essere stato ricoverato in ospedale per dei controlli. Una piccola bugia per coprire un’enorme follia giudiziaria. Caltanissetta. Detenuto 38enne muore suicida in carcere livesicilia.it, 27 giugno 2024 Tragedia nel carcere Malaspina di Caltanissetta dove un detenuto nisseno di 38 anni si è tolto la vita. Il giovane era considerato un detenuto modello e non aveva mai dato alcun problema. Stava facendo un percorso di riabilitazione in carcere e lavorava in cucina. Un gesto dunque totalmente inaspettato e del quale non si conoscono le motivazioni. La procura ha aperto un fascicolo per fare luce sul gesto del detenuto, che si chiamava Francesco Fiandaca. Una ventina di parenti del giovane, venuti a conoscenza della notizia, si sono recati davanti al carcere. I dati preoccupanti - Da inizio anno, le carceri italiane hanno registrato la morte di oltre cento detenuti, 46 dei quali per suicidio, segnando una media di un decesso ogni quattro giorni. Prima di Caltanissetta, l’ultimo caso aveva visto protagonista un giovane di 29 anni nel penitenziario di Genova, deceduto dopo aver inalato il gas di un fornello. Le autorità indagano sulla possibilità che il gesto fosse un tentativo di procurarsi effetti allucinogeni, poiché episodi simili sono in crescita e sono spesso correlati al sovraffollamento carcerario e alle difficoltà psichiche dei detenuti. Il decreto svuota-carceri - Il provvedimento è atteso per il mese di luglio. Il ministro Nordio ha dichiarato che “c’è ancora bisogno di tempo per metterlo a punto, ma è in arrivo prestissimo”. Nonostante il ritardo, il Guardasigilli ha assicurato che nel decreto sarà presente anche una norma che disciplina il procedimento sui benefici penitenziari ai detenuti che dimostrano buona condotta, senza introdurre sconti di pena. L’obiettivo è quello di alleviare il carico ai tribunali di sorveglianza, oberati da 200mila richieste annue, e garantire i diritti già sanciti dalla legge. I provvedimenti - Attualmente, le prigioni italiane ospitano oltre 61mila persone, ben al di sopra della loro capacità, con un eccesso stimato in 13.500 detenuti. In risposta al crescente numero di suicidi, il ministero sta lavorando anche per istituire un albo per le comunità del terzo settore, permettendo ai detenuti con i requisiti ma senza una dimora, di scontare la pena in regime di detenzione domiciliare o affidamento in prova, con obbligo di lavoro. Si prevede che questo possa applicarsi a chi ha una pena residua inferiore ai due anni. Inoltre, si valuta un incremento delle telefonate concesse ai detenuti, da quattro a sei al mese, e sono in esame proposte legislative per una gestione più rapida delle ordinanze di custodia cautelare, con l’obiettivo di ridurre il numero dei detenuti. Si contempla anche un piano per trasferire detenuti stranieri verso istituti nel loro Paese di origine, parte del più ampio piano Mattei, ancora in fase preliminare. “Politica miope davanti alle proposte del Garante regionale dei detenuti” “L’ennesimo suicidio di stamani presso il carcere di Caltanissetta, sommato alle parole del garante regionale dei diritti dei detenuti, già capo del DAP, Santi Consolo, riportate in una intervista a LiveSicilia, mi lasciano sgomento”, dichiara Totò Cuffaro, segretario nazionale della DC. “Il sovraffollamento carcerario unito a tutte le difficoltà con cui detenuti si confrontano quotidianamente, dall’assistenza sanitaria alla mancanza d’acqua, non possono che essere definiti trattamenti indegni, trattamenti che lo Stato riserva non solo ai nostri cittadini detenuti nelle carceri siciliane ma anche agli agenti di polizia penitenziaria. La politica però sembra essere miope davanti alle tante proposte avanzate non soltanto dal Garante regionale, pare quasi prediligere un trattamento squisitamente punitivo e incostituzionale riservato ai detenuti, sembra quasi che abbia dimenticato il senso rieducativo del carcere ed insieme ad esso gli art. 3 e 27 della costituzione italiana. Allora serve un po’ di umanità insieme a lucidità politica, assente oramai da troppo tempo riguardo alle condizioni delle carceri. ‘Dove dimora il dolore il suolo è sacro’ scriveva nella sua opera “La ballata del carcere di Rending” Oscar Wilde che in quel carcere fu a lungo recluso. Il mio appello alla politica è torniamo ad occuparci delle cose che contano. I partiti devono inneggiare alla vita, non far accomodare la morte, come accade negli istituti penitenziari, luoghi di tortura, dolore e decessi. La vita ha un valore che per noi democristiani è identico per tutti, anche per coloro i quali seppur rei consapevoli, vivono nella speranza di poter vivere un domani migliore. Sento di ringraziare la Presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini la quale ha annunciato la sospensione dello sciopero della sete e della fame a seguito della decisione della conferenza dei capigruppo di calendarizzare per il 17 luglio il voto in aula a Montecitorio della proposta di legge di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata”, conclude Cuffaro. Genova. Detenuto egiziano di 47 anni si suicida nel carcere di Marassi lapresse.it, 27 giugno 2024 Egiziano, 47 anni non ancora compiuti, nel 2025 avrebbe finito di scontare la pena infittagli per immigrazione clandestina, invece ha deciso di porre fine alla sua esistenza impiccandosi con la cintura nella sua cella del carcere genovese di Marassi. È accaduto queta mattina verso le 7:00, a nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari”. Lo dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria. “Solo due giorni fa un altro ristretto era deceduto a Marassi per aver inalato gas dal fornello da campeggio. Con quello odierno, sono ben 47 i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, cui aggiungere i 4 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che parimenti si sono tolti la vita. Numeri che fanno inorridire, per lo meno noi, ma che sembrano lasciare indifferenti il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il Governo Meloni. Si annuncia un decreto carceri che poi non viene discusso in consiglio dei ministri, a dire di qualcuno per migliorarlo, ma nel frattempo nelle prigioni si continua a morire. Nei sette giorni passati dall’annuncio ci sono stati 3 suicidi, a parte i decessi per altre cause”, aggiunge il Segretario della UILPA PP. “Il governo dell’annuncite cronica passi ai fatti, sapendo che è politicamente e moralmente responsabile di queste morti in carceri diffusamente illegali e che la Polizia penitenziaria non può continuare a lavorare in queste condizioni drammatiche. Senza ulteriore indugio va ridotto il sovraffollamento detentivo, sono 14mila i detenuti in eccesso rispetto ai posti occupabili, servono assunzioni straordinarie e con procedure accelerate nella Polizia penitenziaria, mancante di 18mila unità, dev’essere assicurata l’assistenza sanitaria, specie psichiatrica. Occorrono poi riforme complessive e strutturali anche per riorganizzare l’Amministrazione e il Corpo di polizia penitenziaria. L’esecutivo non può far finta che tutto sia normale”, conclude De Fazio. Genova. L’accusa di Laura Sasso: “Mia sorella abbandonata in carcere, l’hanno fatta morire” di Erica Manna La Repubblica, 27 giugno 2024 Daniela era detenuta a Pontedecimo, ancora non si conoscono gli esiti dell’autopsia effettuata il 22 febbraio. La Procura ha aperto un’inchiesta. Cinque borsoni da palestra. Sopra sono appiccicati dei post-it gialli, con su scritto un nome e un numero. Sasso, 11. “La vita di mia sorella è tutta lì dentro. Io non ho ancora trovato la forza di aprirle”. Laura Sasso nei giorni scorsi è andata a recuperare gli effetti personali di sua sorella Danila. Danila era detenuta a Pontedecimo: era finita in carcere il 29 settembre, in seguito a una indagine della polizia sul traffico di droga. Da Pontedecimo non è mai uscita. Danila è morta il 22 febbraio: per una polmonite in stato avanzato. Ma sua sorella Laura non si arrende: “Danila è stata abbandonata a se stessa. Le cure mediche sono state inadeguate. Perché non l’hanno portata in ospedale? Perché per giorni l’hanno lasciata in cella, mentre lei non riusciva nemmeno a mangiare e respirava a fatica?”. La famiglia di Danila ha presentato un esposto, la Procura di Genova ha aperto un’inchiesta, affidata al pm Giuseppe Longo. È stata effettuata l’autopsia, ma dal 22 febbraio “ancora non abbiamo avuto i risultati”, denuncia Laura. Che non si dà pace: “Negli ultimi giorni mia sorella stava male. La sua salute era compromessa. Aveva i piedi gonfi, non riusciva a mangiare. Mi telefonava, la sentivo rantolare. Diceva: quando esco i borsoni devi prenderli tu perché io non ce la faccio. E io mi sentivo impotente. Ho pensato: sta morendo. Così le ho consigliato di non alzarsi dal letto: almeno qualcuno sarebbe venuto a vederla. Non posso pensare che sia morta su una branda, da sola. Almeno - e la voce di Laura si spezza - avremmo potuto salutarla”. Fonti penitenziarie, contattate da Repubblica, respingono ogni accusa. “Per il risultato dell’autopsia servono tempi lunghi - fanno sapere - dai sessanta ai novanta giorni, a volte sforati per l’immane carico di lavoro. A Pontedecimo ci sono circa 150 detenuti: sono garantite dodici ore di assistenza medica e infermieristica al giorno, come da disposizioni ministeriali. Non è prevista un’assistenza 24 ore su 24”. Quanto al caso specifico, le stesse fonti parlano di “episodio acuto seguito da rianimazione, purtroppo non c’è stato niente da fare. Non mi sembra ci sia discostati dalle corrette pratiche cliniche assistenziali”. Ma Laura Sasso, con una anziana madre di 91 anni, non si arrende. “Danila aveva problemi di dipendenze e vari problemi di salute, ma sapeva bene di avere assoluta necessità di certe medicine. Aveva bisogno di un farmaco ipertensivo. La cardiologa che l’ha visitata diceva che non le avevano dato un equivalente. Ma le gocce sublinguali che le venivano somministrate sono un salvavita che si dà in casi di emergenza per abbassare di botto la pressione. Questo farmaco - questa l’ipotesi della famiglia - le causava dei problemi: aveva i piedi gonfi, non riusciva a stare in piedi. Non riusciva a mangiare niente di solido, peggiorava di giorno in giorno. E nessuno interveniva”. Le fonti penitenziarie replicano: “Il farmaco aveva le stesse molecole”. “Il sistema carcere rischia di essere un mondo opaco dove è difficile avere informazioni dall’esterno”, è la dura riflessione di Doriano Saracino, garante ligure delle persone private della libertà, che oggi dalle 10 alle 15 sarà davanti a Palazzo di Giustizia per la maratona oratoria organizzata dalla Camera penale ligure per fermare i suicidi in carcere: “La morte di Danila ha profondamente scosso le persone detenute a Pontedecimo. In Italia quest’anno ci sono già stati 44 suicidi e oltre 50 morti in carcere per altre cause che non vengono comunicate. Cosa accade dentro trapela con difficoltà. Mi è capitato di dover attendere due mesi e mezzo per una cartella clinica”. Laura intanto custodisce gelosamente una lettera che le hanno scritto le detenute il giorno dopo la morte di Danila. Due pagine scritte a mano, raccontano come Danila passasse le giornate a letto, senza mangiare nulla. “Quando hanno chiamato qualcuno, era troppo tardi. Noi, dietro queste maledette sbarre, piangevamo”. Benevento. “La sanzione è una cosa, ma il carcere che toglie dignità ai detenuti è barbarie” di Enzo Spiezia ottopagine.it, 27 giugno 2024 Situazione delle carceri, maratona oratoria della Camera penale. Il sistema delle pene non funziona in modo evidente, le strutture sono sovraffollate, stracolme soprattutto di una disperazione sfociata, dall’inizio dell’anno, in 44 suicidi. Benvenuti (si fa per dire) nel girone infernale delle carceri italiane: un mondo che facciamo finta di ignorare, costantemente sballottati da ondate securitarie figlie di interessate sollevazioni partitiche. Un po’ di fumo qua e là, poi tutto ritorna nell’alveo della considerazione che se sei un detenuto, anche se in attesa di giudizio, è giusto, in fondo in fondo, che paghi a prescindere dalle condizioni nelle quali sei costretto a farlo. Tema spinosissimo, sul quale l’Unione delle Camere penali italiane ha indetto dal 10 al 12 luglio tre giornate di astensione dalle udienze, invitando gli organismi locali ad attivarsi nel frattempo per iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. L’ha fatto questa mattina, con altre sei organizzazioni territoriali, la Camera penale di Benevento, con una maratona oratoria dinanzi al Tribunale. “È una situazione scandalosa ed inaccettabile - ha esordito Simona Barbone, presidente della Camera penale sannita- che vive di sovraffollamento, della carenza di assistenza sanitaria e psichiatrica, di educatori, della mancanza di agenti della polizia penitenziaria. La pena deve svolgere una funzione rieducativa e non deprimere e terrorizzare una persona”. L’avvocato Nico Salomone, dell’Osservatorio delle carceri della Camera penale, ha evidenziato quanto l’argomento “passi sempre sotto traccia”, auspicando un “aumento delle pene alternative alla detenzione, un cambio di passo della magistratura di sorveglianza e l’approvazione della norma sulla liberazione anticipata speciale per chi la merita”. La conclusione: “L’attuale condizione delle carceri ci dice, purtroppo, che l’Italia è un Paese incivile”. Il consigliere comunale Marcello Palladino, avvocato, ha sottolineato l’approvazione in commissione del regolamento per l’istituzione del garante cittadino dei detenuti. Una figura la cui istituzione è stata proposta dall’avvocato Vincenzo Sguera, che siede anch’egli a Palazzo Mosti, che l’ha rivendicata con l’obiettivo di “dare una mano ai familiari, ai figli” di coloro che sono dietro le sbarre. Patrizia Sannino ha affermato che i detenuti, di cui è garante provinciale, “devono avere la possibilità di una rivisitazione critica dei reati commessi, ed invece sono considerati lo scarto della società. Tutto ciò non è accettabile: la politica non vuole risolvere i problemi, i magistrati di sorveglianza per poter giudicare devono andare in carcere a vedere come vivono le persone”. Per il giudice Sergio Pezza, presidente della Sezione penale del Tribunale, la “scarsa sensibilità istituzionale riflette quella della società”. Bisogna guardare “con empatia - ha proseguito - a ciò che succede nelle carceri, è necessaria una pena che includa: ma se un determinato soggetto si sente vilipeso ed offeso durante la detenzione, come si sentirà quando esce?”. E ancora: “Servono più cappellani, più educatori, più psicologi, bisogna educare a gestire la sconfitta. Esiste un problema culturale legato a come guardiamo l’altro. E istituire reati ed aumentare le pene è la cosa più facile per un politico”. Il sindaco Clemente Mastella ha ricordato la sua esperienza come ministro della Giustizia, quando aveva “visitato quasi tutte le carceri”, l’approvazione dell’indulto con il via libera dei 2/3 del Parlamento, “anche se tuta la responsabilità negativa è stata affibbiata soltanto a me”, ed ha criticato - ma questa non è una novità - “il populismo penale che fa addirittura annunciare il rientro nei loro Paesi, impossibile, dei detenuti stranieri”. Dal canto suo, l’avvocato Vincenzo Regardi, ex vertice della Camera penale, ha insistito “sull’uscita dall’idealismo: dobbiamo far capire all’opinione pubblica che una cosa è la sanzione, ud un’altra è togliere la dignità. Un carcere che toglie la dignità è la barbarie”. Busto Arsizio. Trentatré voci in piazza per chiedere un carcere più umano aresenews.it, 27 giugno 2024 Un gazebo, un microfono e un cartello che riportava il numero 45 che rappresentano le vite perse all’interno di un sistema carcerario che Stefano Binda ha definito “una condanna a morte per sottrazione”. Su una popolazione carceraria di circa 62 mila detenuti l’anno scorso ci sono stati 45 suicidi in Italia. Un numero impressionante che è stato al centro della maratona oratoria che si è svolta oggi, mercoledì, in piazza San Giovanni a Busto Arsizio in un’iniziativa organizzata dalla Camera Penale bustese e che ha visto alternarsi al microfono 33 voci autorevoli come quella del giudice Adet Toni Novik, di chi lavora in carcere come quella del garante dei detenuti Pietro Roncari e di don David Maria Riboldi, di ex-detenuti come Stefano Binda (da innocente) e Nino Caianiello e di molte altre figure che in un modo o nell’altro hanno deciso di portare la loro testimonianza a favore di un sistema carcerario più umano e che davvero miri al reinserimento sociale. Un gazebo, un microfono e un cartello che riportava il numero 45 hanno mostrato per una giornata a chiunque fosse passato dalla piazza, la durezza di una situazione che è andata oltre il rispetto della vita umana e di cui nessuno, a partire dalla politica, si vuole occupare in modo strutturale. Lo ha sottolineato l’avvocato Samuele Genoni che ha definito le attuali condizioni dei detenuti “indegne per un paese che fa della rieducazione uno degli scopi fondamentali della privazione della libertà. A ciò poi si deve aggiungere la cronica carenza di personale, di attività di trattamento la difficile gestione delle problematiche sanitarie, il dramma nel dramma che è rappresentato dai detenuti cosiddetti psichiatrici, cioè quelli che in carcere per come è concepito oggi, non dovrebbero stare perché non hanno assistenza qualificata e poi torniamo a parlare del numero dei detenuti che dà inizio anno si sono tolti la vita senza dimenticare di quelli che la vita l’hanno avuta salva, grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria, del personale medico infermieristico presente nelle strutture. Parliamo in piazza tra la gente alla gente per la gente, aspettiamoci di certo perplessità, dubbi perché il carcere è un argomento di cui nessuno vuole sentire parlare o un argomento che suscita reazioni di pancia che però sono anche il carburante di una certa politica che ha un’idea di carcere che è profondamente errata e che parte da un presupposto sbagliato, cioè dal presupposto, secondo il quale la repressione è la cura per la devianza la carcerazione la cura per riparare un’offesa”. Particolarmente toccante la testimonianza portata da Stefano Binda, oggi presidente della cooperativa La Valle di Ezechiele che aiuta i detenuti a reinserirsi attraverso il lavoro. Le sue parole, alla luce di una carcerazione preventiva durata 4 anni prima della sentenza di assoluzione, sono toccanti: “Da noi non è prevista la pena di morte ma di fatto, già oggi, una qualsiasi condanna al carcere è una condanna ad una morte civile, sociale, genitoriale. 45 suicidi sono tanti dei quali 16 erano in carcerazione preventiva. Il carcere non può diventare una condanna alla morte fisica per omissione perché non si fa quello che si deve fare perché sia vivibile il carcere”. Lecce. Assistenza e inserimento lavorativo dei detenuti: protocollo tra Caritas e carcere lecceprima.it, 27 giugno 2024 Dai prodotti per l’igiene personale e vestiario, fino all’organizzazione di manifestazioni in occasioni di particolari ricorrenze, sarà attivato anche uno sportello d’intesa con il Comune, finalizzato al disbrigo delle pratiche relative ai servizi demografici. Caritas di Lecce e carcere di Borgo San Nicola firmano un protocollo d’intesa per aiutare concretamente i detenuti. L’arcivescovo di Lecce, monsignor Michele Seccia, accompagnato dal direttore della Caritas, monsignor Nicola Macculi e dalla direttrice della casa circondariale di Lecce, Maria Teresa Susca, firmeranno domani 27 giugno un protocollo che permetterà alla Caritas di realizzare un servizio di ascolto dei detenuti per la fornitura di servizi e prodotti. Dai prodotti per l’igiene personale e vestiario, fino all’organizzazione di manifestazioni in occasioni di particolari ricorrenze, sarà attivato anche uno sportello d’intesa con il Comune, finalizzato al disbrigo delle pratiche relative ai servizi demografici. Particolare attenzione sarà dedicata dai rappresentanti della Caritas diocesana alle azioni per l’inserimento lavorativo, in sinergia con il servizio svolto da uno sportello di comunità, promuovendo azioni di reperimento di attività lavorative e di giustizia riparativa, oltre che di primo alloggio, a chi lascia il carcere per fine pena o per lavori alternativi. I volontari della Caritas avranno a diposizione, da parte dell’organizzazione penitenziaria, dei locali idonei nel carcere, per i servizi di ascolto e distribuzione dei beni raccolti presso le comunità parrocchiali a favore dei detenuti. Il protocollo regolerà un servizio importante per dare risposte alla necessità, ribadita più volte e anche di recente dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al reinserimento sociale. Brescia. Il Dams in carcere parla la lingua del teatro sociale cattolicanews.it, 27 giugno 2024 “Da tre anni sono entrate prepotentemente nella mia vita”. Loredano, detenuto che ha aderito al progetto di Teatro sociale e di comunità “Fragili legami”, promosso dall’Università Cattolica, dalla direzione delle carceri di Verziano e Nerio Fischione di Brescia e da alcune cooperative, parla così di Carla Coletti e Barbara Pizzetti, le animatrici che collaborano con l’Ateneo e sono l’anima di questo percorso. “Ogni volta che finisce il laboratorio siamo rammaricati e non vediamo l’ora che arrivi il martedì successivo, perché per noi è una fonte di stabilità” aggiunge Loredano. “In quelle due ore non ci sentiamo detenuti ma ci ritagliamo uno spazio in cui siamo noi stessi, dove possiamo dimostrare che, se ci viene data l’opportunità, possiamo dare qualcosa anche noi”. Loredano è uno dei circa quindici detenuti che, insieme ai loro familiari, molti dei quali bambini piccoli, ha partecipato alla festa conclusiva del progetto che ha coinvolto, da marzo a giugno, anche un gruppo di studenti del Dams grazie al coordinamento della professoressa Carla Bino e al finanziamento dei fondi del 5xmille erogati all’Università. Il pomeriggio di chiusura è una vera e propria festa, con giochi, animazioni, musiche, improvvisazioni nel chiostro del Museo diocesano, che ha ospitato l’iniziativa lo scorso 18 giugno. Sullo sfondo, gli agenti penitenziari in abiti civili osservano discreti e rilassati. Al centro detenuti e detenute, con i loro congiunti, si mescolano in un clima di estrema familiarità con operatori e studenti del Dams. “Il progetto “Fragili Legami”, che va avanti ormai da quindici anni, è una produzione che permette di creare all’interno del carcere un momento di evasione attraverso il teatro” afferma Francesca Paola Lucrezi, direttrice della Casa di reclusione di Brescia “Verziano” e della casa circondariale Nerio Fischione di Brescia. “Un teatro non meramente rappresentativo ma un teatro sociale e di comunità, che consente ai detenuti di mettersi in gioco, usando la mediazione e le tematiche di un laboratorio performativo”. Il laboratorio prevede, infatti, una prima fase “in cui ci sono dei giochi che creano un clima tale per cui non si capisce più chi sia il detenuto e chi l’operatore” spiega il professor Claudio Bernardi, tra gli inventori del teatro sociale e di comunità. “Dopo questa fase di benessere, la seconda prevede delle improvvisazioni, da cui si tirano fuori vari spunti e anche delle storie. Ogni gruppo lavora su un tema e poi lo presenta agli altri. Su questa serie di materiali alla fine si costruisce uno spettacolo, ma, in parallelo a quest’arte performativa, i legami si cementano e le amicizie si rinforzano”. Un’iniziativa che ha segnato anche gli studenti del Dams. “Abbiamo avuto la possibilità non solo di fare qualcosa di concreto, ma anche di entrare in una realtà intorno alla quale ruotano molti pregiudizi” racconta Fabio. “Abbiamo avuto, invece, un incontro diretto con i detenuti, siamo stati insieme per tante ore da marzo a giugno. Il teatro è un modo per creare una bolla in cui dimentichi i tuoi problemi e questo è stato molto importante per le persone recluse che abbiamo incontrato”. Il coinvolgimento negli anni dei coniugi liberi, dei figli e, nel tempo anche di nipoti e altri familiari stretti, è servito “a recuperare un momento di astrazione rispetto al contesto penitenziario, che, attraverso lo strumento del teatro sociale, cioè senza uno spartito preciso, permetteva di costruire un percorso alimentato dalle tematiche che potevano essere importanti per loro da affrontare e da rappresentare” aggiunge Francesca Paola Lucrezi. “Questo perché il teatro sociale è una modalità di espressione traslata che può far recuperare quel pezzettino di identità, di libera scelta, di autodeterminazione che non sia quella contingentata delle tempistiche penitenziarie. È un progetto prezioso che è stato esportato in altre realtà e mi sta molto a cuore perché è di qualità”. Milano. “Oltre le sbarre, la vera libertà”. Convegno su Giustizia minorile e ruolo delle comunità unimondo.org, 27 giugno 2024 Il convegno, promosso da Fondazione Asilo Mariuccia con Regione Lombardia, affronterà il tema delle comunità minorili penali e il sistema detentivo e rieducativo minorile. Alla tavola rotonda partecipa il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Fondazione Asilo Mariuccia in collaborazione con Regione Lombardia e con il patrocinio di Uneba e dell’Ordine degli Avvocati di Milano, promuove una tavola rotonda con la partecipazione straordinaria del ministro della Giustizia Carlo Nordio sul sistema detentivo e rieducativo minorile. Il titolo scelto per il convegno che si terrà lunedì 1 luglio alle ore 16,30 alla Sala Biagi di Palazzo Lombardia (ingresso N4) è “Oltre le sbarre, la vera libertà”. Il contesto: la giustizia minorile in Italia - Gli ospiti si confronteranno su alcuni temi di grande attualità: il contesto della giustizia minorile in Italia e il ruolo delle comunità penali; come sta cambiando il minore autore di reato, quali le tipologie di reato da parte dei minori, quali evoluzioni nella funzione educativa e realmente reintegrativa nella società, gli strumenti a disposizione di chi è sul territorio per entrare in rapporto con chi commette reato. Il programma - Saluti Istituzionali: Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia. Intervento del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Saluti Istituzionali di Elena Lucchini, Assessore alla Famiglia, Disabilità e Pari Opportunità di Regione Lombardia. Tavola rotonda - Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano; Giulio Gallera, presidente della Commissione Speciale Pnrr di Regione Lombardia; Emanuela Baio, presidente di Fondazione Asilo Mariuccia; Don Gino Rigoldi, presidente Comunità Nuova; Don Claudio Burgio, cappellano dell’Istituto penale per minorenni Beccaria; Francesca Perrini, direttrice del Centro per la Giustizia Minorile di Milano. Modera: Andrea Del Corno, avvocato penalista. L’incontro dà diritto a 2 crediti formativi per gli avvocati. Partecipazione gratuita, previa iscrizione qui: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-oltre-le-sbarre-la-vera-liberta-924325371067 Udine. L’antimafia tra le materie di studio nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università do Maurizio Mervar rainews.it, 27 giugno 2024 La lotta alla criminalità organizzata entra all’università grazie alla collaborazione tra Osservatorio antimafia e ateneo di Udine. La criminalità organizzata entra nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine, ovviamente non come corpo docente ma come oggetto di studio e approfondimento grazie all’accordo quadro con l’Osservatorio Regionale Antimafia. Un accordo che consentirà agli studenti un’esperienza diretta sulle dinamiche criminose emergenti. Elena D’Orlando, Direttrice Dipartimento Scienze giuridiche UNIUD: “Le iniziative che metteremo in campo su questi temi comprendono tirocini formativi, poi i nostri studenti potranno essere ospitati anche per i tirocini post laurea, inoltre le attività dell’Osservatorio verranno valorizzate attraverso i nostri percorsi didattici che poi verranno anche presentati al territorio tramite un’attività di tipo seminariale”. Nei suoi sei anni di attività l’Osservatorio Regionale Antimafia ha realizzato un intenso monitoraggio sugli aspetti di legalità e trasparenza che emergono dal tessuto economico e sociale fornendo agli enti locali strumenti conoscitivi e difensivi che diventano ora patrimonio didattico. Enrico Sbriglia, Presidente Osservatorio Regionale Antimafia: “Il nostro tentativo è di non fare una bella, buona letteratura scientifica che certamente è importante per il mondo accademico, ma anche tradurre questo in suggerimenti, iniziative, riflessioni che possano diventare un bagaglio comune per quanti operano all’interno delle realtà securitarie ma anche all’interno delle istituzioni perché non c’è settore, campo, contesto che non possa non interessare la criminalità organizzate sia come sviluppo delle loro attività vere e proprie sia anche come depredazione del territorio”. La Spezia. A Villa Andreino il bellissimo concerto rap dei detenuti di Anna Mori Gazzetta della Spezia, 27 giugno 2024 Tutti ragazzi giovanissimi quelli che oggi hanno offerto anche a noi giornalisti un bellissimo concerto rap. Sui loro visi la felicità di poter esprimere sé stessi attraverso la musica, per tanti di loro l’amore della vita. Collaborazione, sinergia, divertimento e tanto impegno è quello che abbiamo potuto vedere oggi, non sono mancati i sorrisi e l’emozione. I ragazzi di Villa Andreino che oggi si sono esibiti inizieranno un percorso che li vedrà impegnati in un laboratorio di produzione musicale - beatmaking e audio-editing - organizzato nell’ambito di ‘Music for Freedom’, il progetto co-finanziato dal Programma europeo Erasmus+ e dall’Agenzia Italiana per la Gioventù (AIG) che coinvolge sette partner da Italia, Belgio, Germania, Portogallo, Romania e Turchia. Oltre al carcere spezzino, infatti, sono coinvolti nel progetto svariati istituti penitenziari di diversi paesi europei e non, come quello di Berlino, Timisoara, Turnhout e il sistema di esecuzione della libertà vigilata di Izmir. Capofila del progetto è Arci Liguria. L’obiettivo quello di dare un’opportunità di riscatto ai giovani che hanno condanne penali o in libertà vigilata, detenzione o post-detenzione, permettendo loro, grazie al laboratorio, di acquisire competenze professionali, artistiche e digitali nell’ambito della musica urban, competenze che un giorno potranno spendere nel mondo del lavoro. Il laboratorio di ‘Music For Freedom’, sviluppato da Arci nel carcere spezzino, è stato presentato oggi in occasione del concerto. Un’ala di Villa Andreino è stata ripristinata dando vita ad un vero e proprio laboratorio di produzione dotato di sei computer e di tutte le attrezzature professionali necessarie. “È proprio dai positivi risultati riscontrati attraverso questo laboratorio”, afferma Giuditta Nelli, project manager di Music for Freedom, “e per rispondere a bisogni emersi negli anni, che l’Arci ligure ha pensato di sviluppare e proporre al programma europeo, questo progetto, che - caso unico, a quanto risulta dalla ricerca condotta nel primo anno di lavoro - porta nelle carceri uno spazio di apprendimento e crescita, legato allo studio dell’audio editing per la creazione di beat, tracce per le basi musicali e per il reinserimento socio-lavorativo: Music for Freedom è una promessa e una sfida, in cui noi tutti crediamo e di cui i giovani allievi sono i veri protagonisti”. “E’ un progetto che vuole affermare - prosegue Giuditta Nelli - che i ragazzi hanno la possibilità di manifestare le proprie abilità e crearsi la possibilità di un inserimento sociale e lavorativo attraverso una loro passione. Il mondo è quello del rap, che usa il linguaggio dei giovani. Acquisiranno competenze molto specifiche: sappiamo che un ragazzo che ha un periodo detentivo alle spalle, non avrà una vita facile nel suo inserimento lavorativo, forse sarà più facile se arriverà con un suo trascorso di formazione così specifico e una buona esperienza”. Fondamentale per il progetto la collaborazione dell’intero organico di Villa Andreino, in particolare della direttrice della Casa Circondariale, Cristina Bigi, e di Licia Vanni, capo area trattamento. “Questi progetti sono difficili - dichiara la direttrice Cristina Bigi - perché portare la musica dentro un carcere, la musica che piace ai giovani, non è semplice. Il rap, però, è un tipo di musica che ci consente di ‘agganciarli’, perché partiamo sempre dai loro interessi per fargli fare un percorso che li porti a ‘disintossicarsi’ da certe dinamiche. Il concerto di musica rap è nato grazie alla collaborazione e al contributo di ARCI Liguria che è riuscito, grazie ai fondi europei, anche ad ampliare questo progetto formativo e a portarlo a diventare ‘Music for Freedom’“. “Il rap per me è la vita - spiega Genesis, uno dei ragazzi impegnati nel laboratorio, che ci ha regalato un bellissimo momento di musica - per me è davvero tutto, è il mio mondo. Mi sento libero, sia stando qua dentro facendo il rap, che fuori. Scrivo i testi, anche quelli che ho cantato oggi. Ero emozionato, perché oggi ho proposto alcune canzoni d’amore dedicate ad una ragazza, la musica mi permette di esprimere le emozioni”. I detenuti, guidati da Danilo ‘Othavio’, rapper spezzino che da sempre cura il laboratorio di Rap, attraverso lo studio professionale dei principali software di produzione in uso nel mercato musicale odierno, punteranno alla realizzazione di beats, basi musicali totalmente autoprodotte, che possano entrare nel mercato della musica urban ma anche in quello del sound design. La cultura Hip-Hop ha dimostrato di essere un potente mezzo di coinvolgimento, consapevolezza e auto espressione per i giovani con minori opportunità e, in particolare, a rischio di devianza. Il laboratorio vuole supportare il benessere e la libertà d’espressione dei detenuti, ma anche offrire nuove opportunità professionali e lavorative arrivando a creare sinergie e collaborazioni con realtà di produzione musicale ed artistica locali, nazionali ed internazionali. Al live, realizzato all’interno della Casa Circondariale con il supporto di Furgomytho-RadioRogna, ha partecipato, accompagnata da una delegazione ligure, Stefania Novelli, presidente Comitato Arci della Spezia e vicepresidente Arci Liguria: “Sono molto orgogliosa di questo progetto che nasce dalle buone pratiche dei laboratori musicali che da anni Arci Comitato territoriale La Spezia svolge in carcere, perché può rappresentare un vero momento di riscatto e formazione di alcuni giovani detenuti spezzini”. Crimine e dissenso, esistenze fra palco e sbarre di Luca Pakarov Il Manifesto, 27 giugno 2024 Libri. “Jailhouse Rap” il volume di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti. Le biografie dei rapper di frequente si legano al carcere, le loro stesse canzoni narrano in prima persona l’esperienza nei luoghi di detenzione o di come ci sono arrivati. Il che però è una conseguenza delle diseguaglianze sociali, il carcere statisticamente è frequentato dai poveri, se a questa considerazione aggiungiamo che rap o trap sono una delle espressioni delle classi popolari, si riesce facilmente a tracciare la circolarità del fenomeno. Una concatenazione che c’è in ogni latitudine come chiaramente emerge nel libro Jailhouse Rap. Storie di barre e sbarre (Arcana, pp. 183, 16 euro), scritto da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, presidente e coordinatrice dell’Associazione Antigone, l’organizzazione no-profit che monitora la situazione nei penitenziari italiani e allo stesso tempo tutela i diritti dei detenuti. Un lavoro inestimabile e di cui questo libro è un piccolo ma significativo tassello. Droga, evasione fiscale, armi e violenza sono i motivi formali che specialmente negli Usa conducono i rapper in galera, nel libro sotto la lente finiscono le vicende anche di artisti che macinano milioni di dollari, con una notorietà che supera l’Oceano, ma dietro al successo c’è sempre la povertà e quasi sempre la discriminazione razziale. I portoni blindati si chiudono alle spalle delle future star fin dalla giovanissima età, alcuni semplicemente perpetuano ciò che hanno sperimentato nel contesto in cui sono cresciuti. Nel libro tanti sono gli artisti presi in esame, dal caso emblematico dei Public Enemy che hanno scritto pezzi memorabili contro la discriminazione razziale, basti pensare che alla morte di George Floyd gli ascolti del pezzo Fight the Power sono aumentati del 90 per cento, passando per le vicende degli Assalti Frontali e dei 99 Posse, oppure incrociando le storie di Eminem, 50 Cent, 2Pac, si ravvisa come il rap sia prima di tutto una forma di espressione del dissenso. Sì, anche quando ostentano orologi d’oro, supercar e pistole. Storie di artisti, diseguaglianze sociali e discriminazione razziale In barba al primo emendamento e quindi alla libertà di espressione, gli stessi testi dei brani vengono usati dai procuratori per accusare i rapper, come nel caso di Young Thug, recluso nella Fulton Country Jail di Atlanta, incriminato per aver violato il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations, una legge per contrastare il crimine organizzato, tra le prove appunto i testi, come se fossero una riproduzione fedele della realtà e quindi una confessione dei crimini commessi. Al punto tale che lo Stato di New York nel 2022 approva il Rap Music on Trial Bill, un disegno di legge che limita l’uso dei testi rap nei processi penali. Diverse sono le ragioni di rapper come il tunisino El General che denuncia gli abusi della polizia (con conseguenze immaginabili) o di Emino, sempre tunisino che critica il governo e la dittatura ma dopo otto mesi di carcere scompare. È il 2015, si radicalizza e annuncia di essersi unito all’Isis, viene ucciso a Mosul nel 2017. Esempi di come la musica rap viene criminalizzata e di come il carcere stravolge le esistenze di chi vi entra. Basti pensare ai casi Jordan Jeffrey Baby, trapper morto suicida nel carcere di Pavia, e a Jhonny Cirillo, stessa fine nel carcere di Salerno. Come sappiamo è il carcere il primo a non rispettare le regole, ci sono regole non scritte, gli abusi possono essere all’ordine del giorno nei luoghi in cui una struttura verticale stabilisce l’ordine, lo sa bene Chicoria che, dopo 15 mesi di detenzione, inizia a raccontare la sua vicenda nelle scuole e a collaborare con Antigone. Con Jailhouse Rap ci addentriamo in queste esistenze liminali fra palco e sbarre. Agostino Pirella e il manicomio di Arezzo di Vinzia Fiorino Il Manifesto, 27 giugno 2024 Libri. “Pratiche di liberazione”, di Caterina Pesce (Pacini). Un volume che ripercorre la sua esperienza di medico dal 1971 al 1978. Nell’anno “basagliano” numerose iniziative hanno ricordato i cent’anni dalla nascita di colui che, con un atto di “utopia concreta”, ha chiuso i manicomi e ridato dignità agli ex-internati. Già qualche mese prima, però, un libro di ricerca, acuto e approfondito, (Caterina Pesce, “Pratiche di liberazione. Il manicomio di Arezzo negli anni di Agostino Pirella” (1971-1978), Pacini, pp. 240, euro 24) ci raccontava dall’interno la transizione da un’istituzione totale classica a un progetto incentrato sui servizi territoriali; nel mezzo ci sono esperienze di “democrazia dal basso” importanti, pratiche di liberazione per l’appunto. Il caso di studio è quello di Arezzo, dove nel 1971 a dirigere il locale manicomio sarà, grazie anche alla lungimiranza della locale classe dirigente, Agostino Pirella, uno dei maggiori collaboratori di Franco Basaglia. Come prese avvio e cosa comportò “il rovesciamento pratico” dell’istituzione? Quali principi furono seguiti nella gestione dei ricoverati ora soggetti della nuova comunità terapeutica? E soprattutto: come reagirono i pazienti, le loro famiglie, gli operatori tutti? E come accolse questa trasformazione la cittadinanza? In primo luogo “l’ospedale aperto” è stata un’esperienza corale: volontari, giornalisti, curiosi, studenti ne furono a vario titolo protagonisti individuando nel crollo dei muri manicomiali la quintessenza delle lotte contro l’autoritarismo e contro la repressione del potere statuale che combattevano su piani più generali. Non sarà inutile ricordare che anche per una parte della cultura democratica e comunista non si trattò di un passaggio facile: bisognava rimettere in discussione quella scienza che (certamente) aveva migliorato le condizioni delle classi povere e su cui per decenni era stata riposta un’acritica e progressiva fiducia contro le antiche superstizioni. Agostino Pirella, che rielabora la lezione di Pier Francesco Galli e che aveva già alle spalle anni di lavoro con Basaglia a Gorizia, pone al centro del suo nuovo approccio terapeutico il rapporto personale con i malati. Anche ad Arezzo la comunità terapeutica gli sembra la soluzione maestra per superare la solitudine dell’individuo reificato nell’istituzione. Non fu facile perché la comunità terapeutica non era in grado di estirpare del tutto la violenza insita nel sistema manicomiale, né di eliminare le dinamiche di potere e di emarginazione: non tutti prendevano la parola, non tutti avevano le risorse per farlo. Eppure è la svolta. Nicoletta Goldschmidt, psichiatra ad Arezzo, chiama “azioni parlanti” l’introduzione di tutte quelle basilari misure di igiene che interessavano i corpi e gli spazi manicomiali, come pure parla di riconoscimento di nuove soggettività ora ascoltate in comunità. L’introduzione dell’assemblea generale, voluta da Pirella, e di cui qui vengono esaminati i verbali, segna un ulteriore avanzamento: la gestione dell’istituzione è affidata all’”attività spontanea di tutti coloro che partecipano, a qualsiasi titolo, alla giornata ospedaliera”; ora i bisogni sono verbalizzati e il lemma “Libertà” suona come il più sentito, “Dialettica” quello più ricorrente nelle fonti. L’interesse del libro di Caterina Pesce consiste, però, nel restituirci i contraccolpi, le afasie, le spavalderie di donne e uomini in sofferenza nel momento in cui prendono parola, rivendicano diritti, iniziano nuovi cammini. Cambia profondamente anche la narrazione della malattia: ora i giovani psichiatri osservano il malessere esistenziale e ascoltano i diversi linguaggi. Le storie raccontano codici culturali tradizionali e voglia di riscatto, sensi di colpa e incapacità di autodeterminarsi, un caleidoscopio di situazioni. Molti gli insuccessi e tante le sconfitte che alimentano scetticismi e infuocano la stampa ostile; la comunità aretina in parte sostiene, in parte è ostile e impaurita. Non mancano ovviamente gli scontri; il nuovo team di psichiatri discute e si divide su tutto: ad esempio su come pensare la nuova legge, su come organizzare i servizi territoriali, se considerare la psicoanalisi una risorsa o una “scienza borghese”. Superare le pratiche violente e gli antichi paternalismi non sarà facile per infermieri e operatori, mentre una nuova figura, quella delle assistenti sociali, prende piede e attiva le relazioni con i familiari. L’incontro empatico con i pazienti porta i suoi frutti: Luciano Della Mea, giornalista sofferente e insofferente al manicomio, promuove la pubblicazione del racconto autobiografico della lungodegente Adalgisa Conti (Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita. Manicomio 1914) e di altri “Senza storia”. Una infermiera ricorda icasticamente: “Sforzarsi di capire un malato è un lavoro che in fondo fai su te stessa. Capisci come sei”. Sarebbe sciocco negare le difficoltà, oggi sempre più acute a causa dei famosi tagli sulla sanità, ma sarebbe altrettanto sciocco negare la portata storica di questa storia e di quella legge. Franco Mussida, suoni di libertà di Paolo Foschini Corriere della Sera, 27 giugno 2024 Musica. Il 28 giugno si festeggiano i 40 anni del Cpm, la scuola di musica fondata a Milano nel 1984 da Franco Mussida per i giovani detenuti: un’esperienza ancora unica. Qui raccontiamo l’impegno sociale del musicista fondatore della Pfm. Il suo giorno è il martedì. Con qualsiasi tempo, qualunque altro impegno artistico/musicale/didattico/letterario abbia in ballo tra i mille che continua a prendersi ridendo in faccia agli anni, Franco Mussida (sopra, foto di Omar Cantoro) al martedì torna in galera: se c’è uno che in Italia dagli anni Ottanta è un esempio di recidività positiva senza dar segno di cambiar strada è lui. E dire che di roba da fare il fondatore della Pfm ne aveva allora quanta e più di adesso: le tournée, i dischi con De André, insomma ci siamo capiti. Eppure, quasi in contemporanea, Mussida proprio allora ha cominciato a fare due cose extra rispetto a ciò che fino a quel momento era stato il suo mestiere: ha aperto una scuola di musica, cioè il Cpm che giusto adesso ha fatto quarant’anni; e si è messo a fare il volontario nel carcere milanese di San Vittore, portando la musica a quelli che una volta si chiamavano drogati e basta, ma che per di più stavano in prigione. Denominatore comune di queste due faccende? La parola “altri”. Perché di questo si tratta. Di questa “attenzione per”. Ora, è chiaro che fino a un certo punto il concetto di “altro” è legato di per sé a chi fa musica: se tu suoni o canti c’è quasi sempre un altro che ascolta, anche se non vuoi. Figuriamoci quando vuoi, e quando gli altri sono un palasport intero. Ma qui si parla d’altro, appunto. Qui si parla del fare qualcosa in più, attraverso la musica. Non a tutti i musicisti viene in mente di aprire una scuola per insegnarla ai giovani, specie se ad alto livello. Molti anzi ne sono quasi gelosi, dei propri segreti. Per carità, moltissimi altri no. E infatti Franco Mussida ha potuto contare, fin da subito, sulla collaborazione di molti suoi colleghi importanti che al suo fianco sono diventati professori. Ma il punto è l’approccio: la considerazione cioè dei ragazzi in quanto “persone” che la musica può aiutare a crescere, molto prima che come “talenti” per i quali può essere un mestiere. Poi anche quello, ci mancherebbe. E poi c’è il carcere. Anzi le carceri, per essere precisi. Perché dal volontariato diciamo “di base” che Mussida aveva iniziato a praticare quarant’anni fa a San Vittore - andar dentro e suonare per e con le persone detenute, proporre loro un coro, dei concerti, cose così - quel che pian piano si è sviluppato è un progetto strutturato, messo a punto con altri esperti e psicologi, per connettere i vari tipi di intervalli e forme musicali (strumentali, senza parole) ad altrettanti stati d’animo ben precisi. Il progetto CO2, così lo ha chiamato, oggi presente non solo a San Vittore ma in 14 tra penitenziari e case circondariali di tutta Italia. E però è ancora a San Vittore che Mussida entra al martedì, per seguire quel progetto personalmente. Nel reparto La Nave, dove CO2 è una delle attività trattamentali coordinate dalla équipe della Asst Santi Paolo e Carlo a beneficio dei detenuti-pazienti con problemi di dipendenza. L’ultima volta ha proposto a una quarantina di loro l’ascolto - guidato da lui - di una serie di brani sul filo conduttore della “musica che riporta a casa”. Il passo successivo? Unire i due ambiti, naturalmente: e cioè invitare gli studenti della scuola a condividere a loro volta l’idea della musica (anche) come impegno sociale. Così l’anno scorso hanno partecipato con il loro coro alla Passione eseguita nella basilica di Sant’Ambrogio con il coro dei detenuti e volontari degli Amici della Nave,e quest’anno sono entrati a San Vittore con il musical Wait. In attesa della prossima telefonata in cui qualcuno gli chiederà “Franco, ci sarebbe questa cosa musicale da fare in carcere, ci dai una mano?”, per sentirsi rispondere come sempre “ok, quand’è?”. Mettendoci poi come professori i migliori tra i suoi colleghi in circolazione. Dai migranti ai detenuti agli homeless, in Italia la salute degli “esclusi” è ancora poco studiata salutedomani.com, 27 giugno 2024 L’assistenza sanitaria alle persone che vivono in condizione di grave marginalità sociosanitaria, come ad esempio homeless, detenuti e migranti irregolari, richiede informazioni sullo stato di salute e un approccio integrato e multisettoriale, risorse adeguate, politiche inclusive, sostenute da evidenze scientifiche, ma vi sono ancora diversi aspetti da migliorare, nonostante alcune buone pratiche siano state messe in campo soprattutto a livello locale. Se ne è discusso durante un convegno organizzato oggi, nella sede dell’Iss in occasione della presentazione di un numero monografico del Bollettino Epidemiologico Nazionale (Ben) dedicato all’argomento. Durante l’evento sono state presentate diverse esperienze nell’ambito dell’assistenza alle persone cosiddette “escluse” o “invisibili”. Uno studio di Intersos, organizzazione no-profit che realizza interventi quotidiani di cure primarie e promozione della salute, ha indagato lo stato di salute nell’area della Capitanata di Foggia, dove migranti per lo più irregolari, sfruttati nel comparto agro-alimentare, dimorano in un ghetto isolato, permanente e sovraffollato. Dalla ricerca si delinea un profilo di salute caratterizzato prevalentemente da patologie non trasmissibili come quelle a carico dell’apparato digerente e muscoloscheletrico, mentre non vi è evidenza di patologie infettive di importazione/tropicali; sono invece frequenti traumatismi dovuti a incidenti sul lavoro. Due studi hanno poi analizzato lo stato di salute degli esclusi nelle grandi aree urbane che si rivolgono ad ambulatori del terzo settore per ricevere assistenza sanitaria. Il contributo di Caritas di Roma ha rilevato una modifica del quadro epidemiologico degli assistiti nel corso di quarant’anni: un aumento delle malattie croniche, soprattutto cardiovascolari e metaboliche, e una riduzione delle malattie infettive. L’Opera San Francesco a Milano ha invece approfondito la frequenza delle malattie croniche nei propri assistiti e ha stimato una maggiore prevalenza di malattie cardiovascolari, mentali e metaboliche (diabete) tra i migranti del Sud America e dell’Asia rispetto alle popolazioni europee. Il tema del mancato accesso all’assistenza sanitaria da parte soprattutto dei migranti irregolari è stato approfondito da uno studio dei ricercatori dell’Iss, che si sono focalizzati sul tema della vaccinazione anti Covid. Come già documentato in molti Paesi europei, è stata osservata una limitatissima percentuale di vaccinati stranieri non residenti, con un ritardo nella somministrazione del ciclo vaccinale primario, rispetto al totale dei vaccinati. Anche lo stato di salute delle persone in condizione di detenzione, rileva un’analisi presentata al convegno e nella monografia, non è ancora sufficientemente studiato. La valutazione dell’uso dei farmaci condotta in cinque istituti penitenziari delle ASL Roma 2 e della Asl Viterbo ha riportato un elevato ricorso a farmaci per le patologie del sistema nervoso centrale, dell’apparato gastrointestinale e per il trattamento dei disordini metabolici. Viene, inoltre, evidenziata un’importante disomogeneità prescrittiva tra i diversi istituti. Gli autori osservano che, tra le criticità nelle modalità di offerta dell’assistenza alle persone detenute, vi sia la mancanza di un sistema informativo che consenta la raccolta di dati relativi alla salute di queste persone. La disponibilità di queste informazioni è presupposto fondamentale per implementare iniziative di valutazione dell’assistenza e di formazione degli operatori sanitari, e gli stessi autori auspicano una maggiore collaborazione tra gli istituti penitenziari e le strutture sanitarie locali. “Purtroppo questo ambito di ricerca epidemiologica appare ancora poco esplorato - sottolineano li curatori della monografia. Mancano le infrastrutture per una raccolta sistematica dei dati o se realizzate sono da perfezionare, e sono poche le iniziative di formazione e informazione destinate agli operatori sanitari dei servizi territoriali. È forse anche poco sfruttato il patrimonio di dati raccolto dagli operatori del terzo settore, che potrebbe rappresentare una base per avviare politiche almeno a livello di comunità. Ulteriori studi su questi temi, con quesiti di ricerca rilevanti e ben condotti, potrebbero rappresentare il fondamento razionale per comunicare con i decisori politici e sarebbero anche funzionali a rappresentazioni sociosanitarie finalizzate a trasmettere ‘una scossa etica’ in Italia e nel resto dell’Europa”. Il convegno è stato organizzato dal Centro Nazionale per la Ricerca e la Valutazione preclinica e clinica dei Farmaci, dal Dipartimento Malattie Infettive e Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute, per la presentazione del fascicolo monografico dedicato all’argomento, a cura di Roberto Da Cas e Cristina Morciano, del Bollettino Epidemiologico Nazionale (Ben) dell’Iss di cui sono Responsabili Antonino Bella e Carla Faralli. Migranti. Piantedosi: “Cambiare la legge Bossi-Fini? È solo uno slogan. Ma rivedremo i flussi” di Ilario Lombardo La Stampa, 27 giugno 2024 Il ministro dell’Interno: “La legge sull’immigrazione modificata decine di volte, va adattata al contesto. Con Libia e Tunisia consolidiamo gli accordi, contrastare le partenze illegali significa ridurre le tragedie”. In questi giorni il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è in Africa per una serie di bilaterali. È quasi naturale, quindi, parlare di migranti, partenze e di accordi con i Paesi sul tema dei rimpatri. Tutti temi caldi che peraltro infiammano anche il clima politico. L’ultima strage al largo delle coste della Calabria ripropone l’emergenza migranti. È vero che si registrano meno arrivi, ma i morti sono sempre tanti. Che cosa si può fare per ovviare a questa drammatica realtà? “Il minor numero di sbarchi è dovuto a minori partenze illegali. E ridurre le partenze illegali può significare anche ridurre i rischi che si verifichino tragedie. Contrastare in ogni modo il traffico di esseri umani serve proprio soprattutto a salvare vite umane”. In che modo Libia e Tunisia sostengono l’Italia nella lotta all’immigrazione? “Stiamo consolidando una collaborazione su molteplici direzioni: dalla prevenzione delle partenze sulla terraferma ai salvataggi e recuperi in mare. Ma di particolare importanza si sta rivelando un articolato programma di rimpatri volontari assistiti che Libia e Tunisia stanno effettuando, dai loro territori, di migliaia di migranti a cui vengono offerte opportunità alternative di reinsediamento nei propri paesi di origine. Con la nostra collaborazione e quella delle organizzazioni umanitarie internazionali”. E come si concilia il sostegno all’Italia con la connotazione non proprio democratica di Libia e Tunisia? “La collaborazione con questi Paesi si sviluppa su programmi che sono approvati, condivisi e spesso sostenuti dall’unione europea”. La premier Giorgia Meloni ha ribadito ancora una volta che in Italia si può entrare solo in maniera legale. Ma allora è possibile modificare la legge Bossi-Fini? Come raccordare posizioni diverse tra governo e opposizione? “L’espressione “modificare la Bossi Fini”, senza alcuna specificazione, sembra più uno slogan praticato soprattutto da chi, talvolta, non sa neanche bene di cosa parla. La nostra legge sull’immigrazione è stata modificata o integrata svariate decine di volte. Dopodiché ogni normativa va tenuta adeguata alle mutevoli esigenze che pongono fenomeni così complessi”. L’esecutivo pensa di rivedere i flussi di accesso? “Il governo, di fronte all’evidenza di alcune anomalie, ha avviato una riflessione sull’effettivo funzionamento del sistema attuale”. La premier ha denunciato che da alcune regioni, su tutte la Campania, abbiamo registrato un numero di domande di nulla osta al lavoro per extracomunitari sproporzionato rispetto al numero dei potenziali datori di lavoro. Come intervenire? “Stiamo ragionando su alcune soluzioni a legislazione invariata, quali quelle rivolte a realizzare un sistema di certificazione preliminare dei datori di lavoro che poi possono presentare domanda. Non escludiamo qualsiasi altra misura, anche di tipo normativo, per rendere più concreto ed efficace l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro”. Come rispondere alle opposizioni che stigmatizzano i costi eccessivi del centro in Albania a fronte di un’accoglienza ridotta? “I costi vanno rapportati ai benefici attesi dalla realizzazione del progetto, anche dal punto di vista della progressiva riduzione dei costi di accoglienza che il nostro paese e l’intera Europa sostengono a beneficio di persone che poi, al 90% circa, si riveleranno non averne diritto”. Quanto è importante il centro migranti in Albania? “L’attenzione riservata pubblicamente al progetto, dalla maggioranza dei paesi europei e dalla stessa Unione Europea, credo sia la maggiore riprova del valore, anche sperimentale, di una iniziativa che si ripromette di contrastare l’immigrazione illegale senza ridurre le garanzie dei diritti delle persone”. Come favorire le politiche di integrazione dei migranti? “Il primo fattore di integrazione è legato alla sostenibilità dell’immigrazione. Numeri adeguati al contesto sociale e alle reali capacità del mercato del lavoro e del nostro sistema di welfare sono la condizione imprescindibile per una doverosa e proficua integrazione delle popolazioni immigrate nelle nostre comunità. Questo governo, nello spirito del piano Mattei, sta lavorando alla realizzazione di programmi di formazione nei paesi di origine finalizzati proprio ad una più mirata integrazione”. Qual è lo scopo dei bilaterali con alcuni Paesi dell’Africa che lei sta per affrontare? “Le collaborazioni operative che funzionano si fondano sempre su eccellenti sistemi di relazioni, che vanno tenuti costanti ed aggiornati. Sto per tornare in Costa d’Avorio dopo esserci stato lo scorso anno. Da allora si sono praticamente azzerati gli arrivi dei cittadini ivoriani”. Molti migranti vengono sfruttati nelle campagne del nostro Paese. Come arginare la piaga del caporalato? “Va tenuto alto il livello dei controlli. Ma serve anche una maggiore e più diffusa cultura del rispetto della dignità della persona che deve esserci verso ogni lavoratore. Ogni singolo lavoratore ha innanzitutto il diritto a contribuire al miglioramento della propria esistenza e della società in cui vive ed opera. Nessuno deve essere sfruttato per poter accedere a questo fondamentale e prioritario diritto”. Migranti. Denuncia il caporalato e ottiene il permesso di soggiorno per sfruttamento lavorativo di Lavinia Lundari Perini La Repubblica, 27 giugno 2024 La storia di G.A., 30enne marocchino, affiancato dalla Fillea Cgil e dal Centro lavoratori stranieri. Un euro all’ora. Uno stipendio, se così lo si può chiamare, simile alle cifre intascate dai lavoratori dell’Agro Pontino, lavoratori come Satnam Singh, il bracciante morto a Latina. Accade però a Modena, e ora grazie al sostegno della Fillea Cgil e del Centro lavoratori stranieri un 30enne di origine marocchina, G.A., è riuscito a denunciare il caporalato e ha ottenuto un permesso di soggiorno di un anno per grave sfruttamento lavorativo. Il 30enne, che aveva contattato il sindacato modenese, “era completamente irregolare”, ricostruisce il segretario Rodolfo Ferraro. E aveva subito un grave infortunio. Ha quindi presentato querela per grave sfruttamento nel cantiere edile di Castelfranco Emilia (Modena). A quel punto, ricostruisce il sindacato, “sia la denuncia per sfruttamento che quella per omissione di registrazione Inail e Inps, presentate alla Procura e all’Ispettorato lavoro, determinano da parte del pubblico ministero una decisione davvero importante: il 30enne marocchino ottiene ‘il permesso di soggiorno per grave condizione di sfruttamento lavorativo della durata di un anno rinnovabile”. Si tratta, sottolinea la Cgil, del primo caso riconosciuto a Modena di sfruttamento lavorativo “reso possibile soprattutto grazie alla collaborazione attiva dell’operaio nella fase delle indagini”. “Molti lavoratori migranti vivono situazioni di sfruttamento. Grazie al coraggio di G.A. siamo riusciti a dargli giustizia. Questa rappresenta una grande conquista”, sottolinea Souad Elkaddani, funzionaria Fillea Cgil di Modena di lingua araba. “L’importanza della lingua e dell’alfabetizzazione dei lavoratori stranieri. L’edilizia è il settore dove operano più migranti. In questo caso la vertenza è stata vinta, anche grazie all’incredibile lavoro di mediazione linguistica e culturale”. “Proibire e punire”, il mantra italiano sulle droghe che aiuta le mafie di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 27 giugno 2024 Il proibizionismo non scalfisce il mercato illegale. I dati del Libro Bianco fotografano il fallimento e i disastri delle politiche repressive. In questo il governo Meloni si è distinto. E nel mirino finiscono sempre più i giovani. Nel presentare il 25 giugno scorso la relazione del Governo sulle dipendenze, il sottosegretario Mantovano ha, come ormai consuetudine, lanciato l’ennesimo allarme sulla cannabis, che sostanzialmente non è più “leggera” perché i derivati sequestrati arrivano al 29% di principio attivo di media. Al di là del fatto che si parla di concentrati, e che la media delle infiorescenze sequestrate è invece da alcuni anni ferma intorno al 12-13% di THC, l’allarme di Mantovano nasconde solo l’ennesimo fallimento del proibizionismo. Il mercato illegale non solo sopravvive alla repressione ma riesce ad aumentare pure la qualità dei suoi prodotti a prezzi invariati. Infischiandosene serenamente dei miliardi di euro spesi fra un paio di controproducenti spot di propaganda, centinaia di cani nelle scuole e 20.489 operazioni antidroga, 27.674 persone denunciate per spaccio, altre 32.346 segnalate per uso, 215.577 sotto processo e altre 20.515 nelle patrie galere. Nel solo 2023, nella sola Italia. Qualcuno diceva che fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati differenti è semplicemente follia. In effetti l’unico modo sinora rivelatosi efficace per far aumentare l’età media di primo uso, diminuire i consumi dei minori e i comportamenti a rischio, oltre che avere un reale controllo sul principio attivo, sono le regolamentazioni legali. Lo dimostrano i dati provenienti dalle legalizzazioni della cannabis, dall’Uruguay al Canada, passando per 25 stati degli USA. Per decostruire la narrazione proibizionista, da quindici anni la Società civile italiana impegnata nella riforma delle politiche sulle droghe produce il Libro Bianco sulle droghe (www.fuoriluogo.it/librobianco), un rapporto indipendente sugli effetti della legge italiana sugli stupefacenti. Il volume quest’anno è intitolato “Il gioco si fa duro”, ed è stato presentato in occasione della Giornata mondiale sulle Droghe del 26 giugno, nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione Support! don’t Punish che chiede politiche sulle droghe rispettose dei diritti umani e delle evidenze scientifiche. Il rapporto, promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali, ha l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD, ITANPUD, Meglio Legale e EUMANS. Dopo 34 anni di applicazione del Testo Unico sulle droghe, i dati purtroppo confermano sé stessi. Gli effetti penali sono sempre devastanti e testimoniano come il proibizionismo continui a essere il volano delle politiche repressive e carcerarie. Senza non avremmo alcun problema di sovraffollamento carcerario. Nel 2023 tornano a salire gli ingressi in carcere, trascinati da quelli per droghe. Oltre un quarto (26,3%) di chi è entrato in carcere lo scorso anno era accusato di violazione di un articolo di una legge: l’art. 73, quello che punisce lo spaccio, spesso di lieve entità. È quindi poi naturale che i detenuti per droghe in carcere rappresentino oltre un terzo della popolazione detenuta. Per la precisione il 34,1%, sostanzialmente il doppio delle media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Restano poi catastrofici i dati sui detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 38,1% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/12/2023 erano presenti nelle carceri italiane 17.405 detenuti “certificati”, il 28,9% del totale. Anche sulle misure alternative si confermano i trend storici in aumento, ma il dato politico è un altro. Queste sono diventate in realtà una alternativa alla libertà piuttosto che alla detenzione. L’area del controllo quindi aumenta: a fine 2023 oltre 143.000 persone erano detenute o soggette ad una qualche misura alternativa o sanzione di comunità in Italia. Per quello che riguarda la repressione dell’uso di sostanze stupefacenti, continuano ad aumentare i minori segnalati, anche con i dati ancora non consolidati. Sono 3799 la quasi totalità è stata segnalata per cannabis (97,3%). In termini più generali vengono colpite principalmente persone che usano cannabis (76%), seguono a distanza cocaina (16,7%) e eroina (3,7%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Il 38% dei segnalati subisce una sanzione amministrativa, le più comuni la sospensione della patente (o il divieto di conseguirla) e del passaporto. Questo anche in assenza di un qualsiasi comportamento pericoloso messo in atto dalla persona sanzionata, provocando spesso serie conseguenze sulla vita sociale e lavorativa del soggetto colpito. Oltre ai dati, il Libro Bianco quest’anno contiene una serie di riflessioni e proposte alternative rispetto all’ipotesi introdotta nel dibattito pubblico dal sottosegretario Delmastro di esternalizzazione della custodia dei tossicodipendenti e dei marginali in “comunità educanti”, ma rigorosamente “chiuse”. Nella seconda parte del Libro Bianco si trovano approfondimenti sullo scenario internazionale, a partire dalle riflessioni degli organismi di tutela dei diritti umani delle Nazioni Unite in tema di politiche sulle droghe. Viene poi ricostruito lo stato dell’arte del percorso di riforma delle politiche nazionali sulla cannabis, che con la Germania ha cominciato a coinvolgere anche il centro dell’Europa. Infine, si fa il punto sulle terapie psichedeliche, alle soglie dell’approvazione dell’uso negli Stati Uniti dell’MDMA per la sindrome da stress post traumatico (PTSD). Questi quindici anni sembrano quindi essere passati invano. Come ricordano Stefano Anastasia e Franco Corleone, sin dal titolo della loro introduzione, si tratta di un “eterno ritorno dell’identico”. Proibire e punire sembrano essere l’unica chiave di lettura delle politiche sulle droghe italiane. Il Governo Meloni in questo si è distinto: prima con il decreto anti-rave, poi con l’aumento delle pene per fatti di lieve entità nel decreto Caivano, infine con la crociata sulla cannabis light nell’ultimo Ddl Sicurezza, ancora in discussione in Parlamento. Senza dimenticare la ritrita propaganda proibizionista trasformata negli spot del Dipartimento Antidroga e la continua strumentalizzazione di fatti tragici. Possono essere gli incidenti stradali causati da persone in stato alterato, anche se solo l’1,5% degli incidenti ha visto coinvolto un conducente sanzionato per droghe. Oppure l’omicidio del ragazzo a Pescara per questioni di droghe: una tragedia che in un regime di legalizzazione non sarebbe mai avvenuta. Attenzione però: anche quando ve ne fu la possibilità, fra il 2006 e il 2008 con il secondo Governo Prodi o nel 2014 quando la Corte costituzionale offrì sul piatto d’argento la testa della Fini-Giovanardi al Governo Renzi, nessuno colse l’urgenza di intervenire per riformare le politiche. Anzi: nel 2014 la Ministra Lorenzin provò addirittura a riproporre tale e quale la Fini-Giovanardi, ripristinando quindi l’uguaglianza penale di tutte le sostanze. Solo la moral suasion degli alleati e della società civile riuscì ad evitare il peggio. Anche durante il Governo giallorosso del Conte II si era aperto un varco, non sfruttato. Tanto che la legge sulle 4 piantine Magi-Licatini, che avrebbe potuto anticipare la regolamentazione tedesca, morì poi tristemente alla Camera nell’estate del 2022 insieme alla caduta del Governo Draghi. Oggi che “il gioco si fa duro”, che la sfera del controllo aumenta e la repressione torna a colpire forte e con bersagli precisi, a partire dai giovani, come ricorda Patrizio Gonnella nelle sue conclusioni “va riproposta… la cultura nobile e nonviolenta della disobbedienza” per costruire “un nuovo movimento capace di mettere al centro la libertà e la dignità delle persone”. *Segretario Forum Droghe