Nordio: “Prestissimo il dl carcere”. E Sisto punta sulle pene alternative di Giacomo Puletti Il Dubbio, 26 giugno 2024 Il decreto sulle carceri era atteso “non ieri (lunedì, ndr) ma la scorsa settimana, va integrato con misure ancora più incisive per la deflazione” della popolazione nelle carceri ed arriverà “prestissimo”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a margine di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, riguardo all’atteso decreto sulle carceri, tema del quale si è parlato anche ieri durante il convegno “Esg e carcere - Impatto sociale, recidiva e bene comune”, organizzato dalla senatrice di Azione Mariastella Gelmini in Senato. Tema principale dell’incontro la rieducazione e le pene alternative, questione affrontata, tra gli altri, dal vice di Nordio, Francesco Paolo Sisto. Il quale ha posto l’accento sull’articolo 27 della Costituzione dove si parla di “tendere alla rieducazione”, che, ha spiegato, “dà l’idea di tendere a qualcosa, verificare che i percorsi rieducativi ci siano sempre. Inoltre significa che la rieducazione si accompagna inevitabilmente con il principio retributivo. Infine è indispensabile che anche il principio retributivo sia illuminato dal percorso rieducativo. Bisogna passare da una dimensione carcerocentrica a una visione umanocentrica della pena. Oggi non si può non pensare in modo deciso che nell’idea del giudice il carcere debba essere solo una delle possibilità di espiazione della pena”. Da qui la necessità di lavorare sulle pene alternative, anche per cercare di affrontare il problema ormai annoso del sovraffollamento carcerario, sul quale hanno posto l’accento diversi relatori. “Il carcere certamente non migliora il soggetto che vi entra: quando esce non è un soggetto migliore - ha aggiunto Sisto - Mediante i percorsi rieducativi invece il soggetto può avere un miglioramento ed essere degno di rientrare nella società. E su questo dobbiamo chiederci se come legislatori facciamo abbastanza in questo senso. E la risposta è no: l’impegno c’è, ma dobbiamo fare di più”, ha aggiunto Sisto. L’obiettivo comune deve essere, è stato spiegato, quello di evitare la recidiva, e l’unico modo per farlo, ha concluso, “è quello delle attività fuori dal carcere. Io dico sempre che il futuro del carcere, anche se sembra un paradosso, è fuori dal carcere. La necessità è garantire questi percorsi soprattutto ai soggetti più meritevoli”. Il decreto carceri non esiste. Ecco cosa c’è dietro il “mistero Nordio” di Ermes Antonucci Il Foglio, 26 giugno 2024 Il ministro della Giustizia ha annunciato un provvedimento per combattere l’emergenza carceraria, poi mai presentato in Consiglio dei ministri. Il motivo è che il testo non esiste: le forze di maggioranza ancora non hanno raggiunto un accordo. Intanto i detenuti continuano a suicidarsi. “C’è qualche idea, ma la verità è che il decreto legge sulle carceri ancora non esiste”. È con parole molto semplici, ma secche, che un’autorevole fonte del ministero della Giustizia svela al Foglio cosa si cela dietro il “mistero” del decreto annunciato dal ministro Carlo Nordio per combattere l’emergenza carceraria (45 detenuti si sono tolti la vita da inizio anno), ma mai arrivato al Consiglio dei ministri. Il caso è esploso giovedì scorso, quando in un’intervista sul Sole 24 Ore il ministro della Giustizia ha annunciato un decreto legge contro l’emergenza carceri “al Cdm di oggi”. Poche ore dopo, il Consiglio dei ministri veniva convocato ma del provvedimento non c’era traccia. Una figuraccia per il Guardasigilli, frutto soprattutto di una cattiva comunicazione tra Palazzo Chigi e Via Arenula, in particolare la responsabile di gabinetto di Nordio, Giusy Bartolozzi. La vera questione è che, al di là della figuraccia, la misura annunciata da Nordio in realtà non esiste. Il decreto, aveva dichiarato il ministro della Giustizia nell’intervista, “prevede risorse aggiuntive, incrementa la dotazione organica del personale penitenziario, accelera la costruzione di nuovi padiglioni, ma soprattutto semplifica la procedura della liberazione anticipata. Inoltre, per alleviare la tensione nelle carceri, si aumenta la possibilità di colloqui telefonici interfamiliari”. Si tratta soltanto di princìpi molto vaghi. Ma nel dettaglio le forze di maggioranza ancora non hanno raggiunto un accordo. Lega e Fratelli d’Italia temono che il provvedimento possa apparire come uno “svuota-carceri”. Per questa ragione i leghisti, con il sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri, Andrea Ostellari, spingono per introdurre nel decreto l’istituzione di un albo nazionale delle comunità per lavoranti: “Il progetto consentirà ai reclusi, con un fine pena inferiore ai due anni e in mancanza di condizioni ostative, di scontare l’ultima parte della condanna lavorando e formandosi presso una struttura dotata di tutte le garanzie di sicurezza e inviolabilità, che sarà individuata fra quelle iscritte al costituendo albo”, ha spiegato Ostellari. Uno dei nodi più complicati da sciogliere, però, è legato all’istituto della liberazione anticipata. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, è il primo firmatario di una proposta di legge che prevede di aumentare la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. Il testo è approdato all’Aula della Camera lunedì senza relatore. “Sappiamo che questo testo sarà mandato alle calende greche, a morire senza metterci la faccia e questa è la cosa più vergognosa che la maggioranza può fare a fronte dell’emergenza”, ha attaccato Giachetti in Aula, ricordando che in Italia ci sono attualmente 61.547 detenuti a fronte di 47 mila posti effettivi disponibili, per un sovraffollamento del 130 per cento. La proposta Giachetti non lascia indifferente Forza Italia, che rispetto ai suoi alleati abbraccia una visione meno carcero-centrica della pena. “All’interno del governo ci sono sensibilità diverse e cercheremo una soluzione per intervenire efficacemente sul tema del sovraffollamento carcerario. Proveremo a trovare una soluzione unitaria, cercheremo mediazioni e la proposta di Roberto Giachetti può essere un punto di partenza”, ha detto ieri il viceministro azzurro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, confermando indirettamente che il testo del decreto ancora resta da definire e che Forza Italia non ritiene la proposta Giachetti irricevibile, a differenza degli alleati di governo. Se all’assenza di accordo nella maggioranza si aggiunge il problema dell’ingorgo che il Parlamento si troverà ad affrontare nei prossimi giorni (la conversione in legge di ben otto decreti), si comprende come il tema delle carceri non sarà oggetto di intervento del governo prima di metà luglio. Con buona pace dell’emergenza suicidi fra i detenuti. “Legge Giachetti: ora la maggioranza si assuma le sue responsabilità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2024 Dopo 30 ore di sciopero della sete, Rita Bernardini lo sospende per riprenderlo il 17 luglio, giorno in cui il Parlamento voterà la proposta di legge a firma del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, sostenuta da Nessuno tocchi Caino. La proposta mira a elevare la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. Non era scontato che si calendarizzasse il voto. Il dibattito alla Camera avvenuto lunedì dava la percezione che la pdl Giachetti finisse su un binario morto. Un dato significativo è che ci sono stati interventi esclusivamente da parte degli esponenti dell’opposizione. “È stata una seduta deprimente e deludente”, ha esordito Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino, durante la conferenza stampa tenutasi ieri alla sala stampa di Montecitorio, con la partecipazione di Rita Bernardini, Roberto Giachetti, Elisabetta Zamparutti e Maria Brucale, le ultime due rispettivamente Tesoriere e membro del direttivo di Nessuno tocchi Caino. D’Elia ha espresso il suo rammarico sul fatto che non ci sia stato nessun intervento degli esponenti dei gruppi di maggioranza. “È raro vedere che durante l’esame dei provvedimenti presentati, seppur nelle sue linee generali, ci sia stata la mancanza di interventi da parte dei rappresentanti di maggioranza”. Elisabetta Zamparutti ha invece sottolineato che l’iniziativa di Nessuno Tocchi Caino, cristallizzata dalla proposta di legge, è legata “alla necessità di un intervento volto a interrompere una vera e propria condizione di flagranza da parte dello Stato rispetto alle violazioni dei diritti umani che si consumano negli istituti di pena”. L’avvocata Maria Brucale ha ricordato che la proposta di legge fu depositata per la prima volta da Roberto Giachetti quando si parlò di ciò che era accaduto alla popolazione detenuta con il Covid. “L’origine della proposta”, ha sottolineato Brucale, “era anche un desiderio risarcitorio di persone che erano state chiuse nel sovraffollamento e nella contiguità di spazi sporchi e indecenti dove era impossibile mantenere le distanze per evitare il contagio”. C’è un’emergenza, ma come ha spiegato Roberto Giachetti durante la conferenza stampa, il ministro della Giustizia vorrebbe proporre misure che potrebbero avere effetto tra anni. Il problema c’è ora, con l’estate che aggraverà ancora di più la situazione e ci sarà un’altra inevitabile escalation di suicidi. Ritornando al dibattito in Parlamento, è da osservare che il M5S, per voce del deputato Cafiero De Raho, ha contestato la proposta di Giachetti, dando così un assist alla maggioranza. Fortunatamente, è stata una voce isolata, visto che si sono espressi a favore il Partito Democratico, Alleanza Verdi e Sinistra, + Europa, Azione, oltre che ovviamente Italia Viva che ne è promotrice. Questo potrebbe essere un interessante campo largo. Sembrava che tutto fosse perduto visto il silenzio della maggioranza. E invece, come ha spiegato Rita Bernardini, con il fatto che si voti il 17 luglio, la maggioranza si assumerà una responsabilità di fronte a tutto il Parlamento. Ovvero per dire sì oppure no a una proposta che potrebbe contribuire ad arrestare il chiaro trattamento disumano e degradante nei confronti non solo dei detenuti, ma dell’intera comunità penitenziaria. Non è un caso che sindacati come quello della Uilpa, per voce di Gennarino De Fazio, si siano espressi a favore della liberazione anticipata speciale. “Carceri illegali, denunce in Europa e alle Procure” di Angela Stella Il Dubbio, 26 giugno 2024 Il governo annuncia misure imminenti, ma sull’emergenza è stallo, mentre i suicidi aumentano. Il 17 luglio in aula la legge Giachetti, che commenta: “io mi affido a Mattarella”. “Anche a causa del sovraffollamento delle carceri, purtroppo sale il numero dei suicidi, e noi abbiamo avviato accertamenti per capire se sia un fenomeno endemico o se si tratti di fenomeni isolati. Ma voglio rassicurare tutti che ne siamo perfettamente consapevoli. All’interno del governo ci sono sensibilità diverse e cercheremo una soluzione per intervenire efficacemente sul tema del sovraffollamento carcerario”. Così ieri il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto nel corso dell’incontro “Esg e carcere - Impatto sociale, recidiva e bene comune”, organizzato dalla senatrice di Azione Mariastella Gelmini. Il numero due di Via Arenula ha proseguito: “Proveremo a trovare una soluzione unitaria, cercheremo mediazioni e la proposta di Roberto Giachetti può essere un punto di partenza. Non credo nell’ampliamento dell’offerta edilizia, si può anche fare ma ha bisogno di troppo tempo. È utile invece parlare della risistemazione degli ambienti esistenti”. Nel mentre il Ministro della Giustizia Nordio affermava che il decreto carceri arriverà “prestissimo”, “con misure più incisive per la deflazione”. Proprio per questo stallo, ieri Nessuno Tocchi Caino e il parlamentare di Italia Viva Giachetti hanno organizzato alla Camera una conferenza stampa per fare il punto sulla situazione. La Presidente Rita Bernardini ha annunciato la sospensione dello sciopero della sete e della fame a seguito della decisione della conferenza dei capigruppo di calendarizzare per il 17 luglio il voto in aula a Montecitorio della proposta di legge sulla liberazione anticipata. Tuttavia durante l’incontro con la stampa è stata scattata per l’ennesima volta una fotografia impietosa dell’emergenza carceraria rispetto alla immobilità del Governo e sicuramente di due alleati della maggioranza, Lega in primis e Fratelli d’Italia, anche se questi ultimi sarebbero d’accordo, come ha detto Giachetti riferendo di un colloquio con il sottosegretario Delmastro, al passaggio dai 45 ai 60 giorni di sconto di pena ogni sei mesi. Forza Italia invece appoggia l’iniziativa. Sergio D’Elia, Segretario di Ntc, ha sottolineato come “la situazione di emergenza va governata nei tempi in cui si governa un’emergenza, non con soluzioni irrealizzabili come la costruzione di nuovi carceri o con i trasferimenti all’estero di detenuti. Stiamo arrivando a quel livello per cui nel 2013 l’Italia fu condannata dalla Corte Europea non per rapina, non per omicidio, ma per il reato più grave che può esistere in un ordinamento statale penitenziario, cioè il reato di tortura, il reato di trattamento inumano, di trattamenti e punizioni inumane e degradanti”. Sono state poi comunicate le cifre legate ai cosiddetti rimedi risarcitori che sono stati introdotti in Italia dopo la Torregiani: c’è un aumento crescente dei casi riconosciuti come trattamenti e punizioni inumani e degradanti, che se nel 2018 erano 3.115, l’anno scorso, nel 2023, sono saliti a 4.700. Elisabetta Zamparutti, Segretario di Ntc, e l’avvocato e membro del direttivo di Ntc Maria Brucale hanno annunciato iniziative di denuncia rivolte agli organismi del Consiglio d’Europa e alle procure del nostro Paese sulle gravi violazioni dei diritti umani che connotano lo stato di detenzione in Italia dove si è raggiunto il triste record di 45 suicidi tra i detenuti e 5 tra gli agenti penitenziari. Ha preso poi la parola Giachetti: “in questa situazione, l’unico strumento che interviene sull’emergenza è la proposta di legge che non abbiamo presentato. Proposta di legge che per quanto ci riguarda è un parziale palliativo a una situazione d’emergenza, perché per noi la situazione risolutiva si chiamano amnistia e indulto. Quella per noi è la soluzione strutturale. Ho sentito dire, ancora nelle ore scorse, che noi vogliamo l’indulto (anche Nordio lo disse, ndr) e che questa proposta di legge è un indulto, a me mi si drizzano i capelli, perché significa che non la si è neanche eletta e con tutto il rispetto che io nutro nei confronti di Cafiero de Raho. Ci sarà bisogno un compromesso? Ovviamente noi siamo disponibili a un compromesso. A cosa non siamo disponibili? A far finta di niente, non siamo disponibili ad essere conniventi con chi non intende agire per paura. In tutto questo voglio rivolgere un appello al Presidente della Repubblica. Ovviamente non lo voglio tirare per la giacchetta, so perfettamente qual è la capacità del Presidente della Repubblica di avere una moral suasion quando si rende conto che ci sono situazioni drammatiche e so, perché il Presidente della Repubblica ha chiesto al DAP di avere notizie quando sono arrivati i primi dati sui suicidi che erano in modo esponenziale maggiori rispetto agli altri, io mi affido alla coscienza e alla straordinaria portata del Presidente della Repubblica perché spero che trovi anch’esso le forme e modi per cercare di sensibilizzare tutti coloro che possono assumere una decisione in questo periodo”. Una legge contro il sovraffollamento delle carceri, nel nome dei Radicali di Marika Ikonomu Il Domani, 26 giugno 2024 Lo sciopero della fame di Rita Bernardini (Nessuno tocchi Caino) perché il governo intervenga sulla situazione di sovraffollamento delle carceri. Ad oggi nel 2024 i suicidi in carcere sono stati 45. Lunedì in aula la proposta di legge di Roberto Giachetti (Italia Viva). Sulla scia delle lotte non violente del leader dei radicali Marco Pannella, la presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini lunedì ha iniziato lo sciopero della fame e della sete. “Uno sciopero non violento, radicale, non ricattatorio, volto a rischiare la vita nel senso di affermare la vita. E non rischiare la morte”, ha spiegato ieri in conferenza stampa alla Camera Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino. Uno strumento per chiedere al governo e al parlamento di affrontare il problema sistemico del sovraffollamento delle carceri, per cui l’Italia è stata condannata nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani. Per la Cedu lo stato italiano aveva violato l’articolo 3 della Convenzione che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, per le condizioni in cui erano costretti a vivere sette detenuti, in meno di quattro metri quadrati a testa. “Stiamo raggiungendo quasi il 131 per cento di sovraffollamento, con delle punte del 230 per cento a San Vittore”, ha spiegato D’Elia, “non lontani dal livello che ha portato alla condanna dell’Italia nel 2013 per il reato più grave che possa esistere in un ordinamento, quello di tortura”. Alla vigilia della giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura, il 26 giugno, D’Elia ha sottolineato un altro “dato drammatico, che riguarda i suicidi”. Ad oggi nel 2024 i suicidi in carcere sono stati 45. Per questo Nessuno tocchi Caino ha promosso la proposta di legge di cui è primo firmatario Roberto Giachetti (Italia Viva), che aumenta i giorni di detrazione della pena, da 45 a 60 giorni, ai fini della liberazione anticipata, per ogni singolo semestre di pena scontata. La proposta - Lunedì in aula è iniziata la discussione della proposta, ma la mancanza di interventi di rappresentanti della maggioranza è stata, per D’Elia, “deprimente e deludente”. Il 17 luglio il testo dovrebbe essere votato. Se sarà così, Rita Bernardini riprenderà lo sciopero della fame e della sete, ha fatto sapere, dopo aver accolto le diverse richieste di sospenderlo temporaneamente. La radicale, nel progetto del ministro della Giustizia Carlo Nordio, avrebbe dovuto assumere il ruolo di garante dei detenuti, prima che gli fosse imposta la scelta di Felice D’Ettore, ex deputato di Forza Italia, passato a Fratelli d’Italia, senza alcuna esperienza pregressa nel settore. Gli interventi - Gli interventi che hanno portato a ridurre la popolazione carceraria, dopo la condanna del 2013, sono stati quello della liberazione anticipata speciale, i rimedi risarcitori, “ma soprattutto”, evidenzia Bernardini, “la sentenza della Consulta che aveva dichiarato incostituzionale la legge Fini-Giovanardi, che eliminava la distinzione tra droghe leggere e pesanti, grazie alla quale uscirono dal carcere circa 8mila detenuti”. Ed è di pochi giorni fa il rapporto dell’Associazione Coscioni da cui emerge che il 34 per cento dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe, quasi il doppio della media europea, al 18 per cento. Le modalità con cui il governo sta rispondendo all’emergenza, sottolineano durante la conferenza stampa, sono di tipo militare. Il ddl Sicurezza a cui la maggioranza sta dando nuovo impulso prevede un nuovo reato di rivolta carceraria, che equiparerà le proteste violente con quelle non violente. “Il governo pensa di risolvere le violazioni di diritti umani introducendo un reato per chi non accetta di vivere in quelle condizioni?”, conclude D’Elia. Né questo decreto, né tantomeno quello annunciato da Nordio, per i promotori della proposta di legge, possono risolvere l’emergenza in corso. “Nel diritto penale non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”, sottolinea Maria Brucale, membro del direttivo di Nessuno tocchi Caino. C’è quindi bisogno, proseguono i membri dell’associazione, di riaprire la procedura a Strasburgo, per riportare la questione all’attenzione delle istituzioni sovranazionali. La legge contro la tortura - La Cedu ha più volte condannato l’Italia per l’assenza del reato di tortura, entrato nel nostro ordinamento nel 2017 in una versione più blanda, dopo un travagliato iter parlamentare. Su quella legge, che il governo ha annunciato di voler modificare più volte, oggi si reggono diversi procedimenti, come quello di Reggio Emilia, in cui sono imputati dieci agenti di polizia penitenziaria accusati a vario titolo di tortura e lesioni ai danni di un detenuto. Lunedì sono iniziati gli interrogatori degli agenti. Uno degli imputati ha preso le distanze dal comportamento dei colleghi che hanno incappucciato il detenuto con una federa e lo hanno colpito. Perché non ha denunciato? A questa domanda l’agente ha risposto che c’erano i superiori e le telecamere. Pensava fosse solo testimone e che non dovesse fare alcuna denuncia. È emerso anche un possibile precedente. Si è fatto cenno a un procedimento penale per un possibile caso analogo accaduto tra il 2020 e il 2021, ai danni di un detenuto che, però, non avrebbe riconosciuto alcun responsabile. Mauro Palma: “Il reato di tortura non si tocca. Nordio visiti le carceri e parli coi detenuti” di Liana Milella La Repubblica, 26 giugno 2024 L’ex Garante dei detenuti nella giornata mondiale contro la tortura: “Condizioni detentive degradanti, contrarie alla Costituzione”. Servono “provvedimenti urgenti, sia per rispetto delle persone, sia per evitare nuove sanzioni internazionali”. “Tutte le norme che vietano la tortura vietano anche i trattamenti inumani e degradanti”. E nella giornata mondiale sulla tortura, che si celebra domani, Mauro Palma, l’ex Garante dei detenuti che oggi, all’università RomaTre, presiede l’European Penological Center che si occupa di esecuzione penale, inevitabilmente non può che partire subito, parlando con Repubblica, dalle carceri italiane. Perché è fuor di dubbio che “le attuali condizioni detentive siano degradanti per come ti costringono a vivere nella promiscuità stretta e accaldata, e sono contrarie a quel senso di umanità che la stessa Costituzione richiama”. Proprio per questo “richiedono provvedimenti urgenti, sia per rispetto delle persone, sia per evitare nuove sanzioni internazionali”. Dal governo nuovi reati, come la rivolta - Misure “urgenti” dunque. Attese ormai sin da quando si è insediato il governo Meloni. Promesse infinite volte, mentre continua a salire l’asticella dei suicidi, a oggi già 45. Ma sempre rinviate. Ancora adesso. Mentre la presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, da ieri, è in sciopero della fame e della sete . E mentre proprio la Camera discute l’ultimo decreto sicurezza del governo che aumenta i reati e di conseguenza, inevitabilmente, anche le future detenzioni. “Proprio sotto l’ombrello della ‘sicurezzà - dice Palma - si prevede addirittura che il non obbedire a un ordine anche con resistenza passiva sia qualificato come ‘rivoltà e così sanzionato con una pena fino a otto anni anche ostativa. Al di là dell’enormità della previsione, che spero non passerà, e anche al di là del suo valore letteralmente antidemocratico, questa previsione è indicativa di come si voglia rendere ineffettiva la previsione del reato di tortura: alle botte per essersi rifiutato di fare qualcosa corrisponderà l’accusa di rivolta per quel rifiuto”. Il delitto di tortura non dev’essere toccato - Ecco come, in un terribile binomio, si legano carcere e tortura. Ed è inevitabile affrontare con Palma, che è stato presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, i fatti e le conseguenze. “La ricorrenza di questa giornata ci trova meno disarmati del passato, quando nel nostro codice penale non compariva un reato che fosse chiaramente indicato come “tortura”, nonostante gli impegni internazionali ratificati e i richiami internazionali, inclusa la Corte di Strasburgo. Dal 2017 la previsione nel codice c’è e le procure possono procedere dando il nome giusto a ciò che si verifica e che spesso è documentato anche da videoregistrazioni. Situazioni che spetta alla magistratura indagare e qualificare e che se certamente non costituiscono una situazione generalizzata, sono però indicative di alcune sacche culturali su cui occorre intervenire”. Le violenze nel carcere Beccaria - Inevitabile riandare subito alle immagini del carcere minorile Beccaria di Milano e ai ragazzi picchiati violentemente. Tortura? Palma è sempre stato rispettoso dei passi compiuti dalla magistratura che indaga. “Non generalizzo - dice subito - ma non mi convince la connotazione di “mele marce” con cui spesso si qualificano i responsabili. Credo sia invece qualcosa più grave che si incista in alcune sbagliate culture che si nutrono di supremazia rispetto alle persone che, anche se scontano una pena, sono affidate alla responsabilità dello Stato. Si deve assicurare sicurezza, ma anche tutela dei loro diritti”. Ma purtroppo proprio Fratelli d’Italia, alla Camera, sin dall’inizio della legislatura ha proposto la sostanziale cancellazione del reato di tortura. E non ha mai ritirato la proposta. Un’ipotesi che Palma considera “grave” perché “se questo è il messaggio che arriva dalla politica, i singoli agenti percepiscono una sostanziale sottovalutazione della gravità di quanto hanno commesso, se non addirittura un’accondiscendenza”. E qui il suo messaggio è chiaro e estremamente fermo: “Il reato di tortura non si tocca e far prevedere questa ipotesi di revisione è un messaggio strutturalmente ambiguo”. Inevitabile ricordare qui come proprio Nordio abbia detto che il reato di tortura non va bene… “Non commento perché non siamo in un dotto cenacolo di fine diritto - chiosa adesso Palma - ma la norma ha sempre un elemento di emancipazione nei confronti della collettività e di chi agisce. Sta svolgendo questo ruolo: la collettività è più consapevole, chi agisce ha un’allerta maggiore”. La squadretta antisommossa - Eppure suona singolare che, mentre non si vede ancora arrivare da via Arenula un ampio programma di politica carceraria, sia il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove di Fratelli d’Italia, a organizzare e presentare il Gio, il Gruppo di intervento operativo anti sommossa. Che Palma non boccia, ma critica proprio nella sua ispirazione: “Penso che rispetto alla grave situazione in cui versa il sistema detentivo questa previsione, peraltro in assenza di altri interventi che migliorino le condizioni interne di chi è detenuto e di chi in carcere lavora, significa puntare l’attenzione solo sul tema del reprimere. Certo, in caso di necessità, è meglio avere gruppi strutturati che non quelli abborracciati, come quelli intervenuti a Santa Maria Capua Vetere, con le conseguenze che abbiamo visto, ma il carcere non deve diventare il luogo del conflitto, e di ben altre figure c’è oggi bisogno”. Gli annunci di Nordio sul carcere - E nella giornata della tortura eccoci infine proprio a Nordio e ai suoi annunci reiterati sulle carceri. Il Guardasigilli parla molto, ma le carceri scoppiano…e non arriva nulla di suo in un Parlamento che blocca la liberazione anticipata speciale, 75 giorni giorni di sconto ogni sei mesi invece di 45. Palma, sempre garbato, stavolta è netto: “Nulla non direi, arrivano diverse cose in negativo. Sono aumentati in meno di due anni i reati, a cominciare dall’esordio del reato di rave. Aumentano le previsioni di pena per i reati in carcere e se ne introducono di nuovi. Non è vero, come ha detto il ministro giorni fa che metà dei detenuti sono stranieri, perché sono solo un terzo e in proporzione sono diminuiti negli ultimi due anni. E non è vero che l’aumento della popolazione detenuta è dovuta alla custodia cautelare, come lui ha sostenuto, perché invece non aumentano gli ingressi, ma diminuiscono le uscite. E questi sono dati del suo dicastero. Quindi, per ragionare, forse bisogna prima partire dai dati di realtà. Sentir parlare, per esempio, di rinviare a scontare la pena nel proprio paese, sembra risentire un ritornello un po’ stantio”. Un errore non fare la liberazione anticipata speciale - E siamo proprio alla liberazione anticipata speciale per cui sciopera Bernardini. La maggioranza di governo l’ha bloccata. Non si farà. Palma, invece, insiste. “Questa soluzione era, e potrebbe ancora essere, un modo per dare un po’ di respiro e progettare così anche soluzioni di medio periodo. Sento parlare di altre misure molto meno impattanti sui numeri, qualcosa che può sveltire, ma ancora vedo proporre, come fosse una grande cosa, di passare da 4 a 6 telefonate al mese. Non si ha una percezione del dramma interno”. E qui Palma dà un consiglio a Nordio: “Per questo è necessario andare a vedere, ma non una visita per salutare direttore e operatori e fare due chiacchiere. Visitare in funzione preventiva, e lo dicono tutte le indicazioni degli organi di garanzia, vuol dire stare in un luogo più giorni, parlare in modo riservato con le persone detenute, esaminare registri. Solo così è possibile fare raccomandazioni e assolvere a un compito di prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti. Cioè l’obiettivo della giornata mondiale sulla tortura”. La disperazione dietro le sbarre di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 26 giugno 2024 Sono 44 suicidi in carcere in meno di sei mesi. Barbaresi, Cgil: “La politica securitaria del governo aggrava i nodi irrisolti nel sistema penitenziario. Dall’inizio dell’anno 44 detenuti si sono suicidati nelle carceri italiane e quattro di loro in un solo fine settimana di giugno. Un dato in crescita rispetto allo scorso anno, quando se ne erano registrati 28 nello stesso periodo, e destinato a crescere, ben sapendo che l’estate inasprisce ulteriormente il disagio carcerario e quindi il numero di persone che si tolgono la vita. “La cosa che colpisce è che quando una persona arriva al suicidio vuole dire che il livello di disperazione è tale e tanto da non avere più neanche quel minimo di speranza di poter vedere una prospettiva e questa è una sconfitta per tutti”, ci dice Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil per le Politiche della sanità e socio-assistenziali. In cima alle cause del disagio carcerario viene posto il sovraffollamento e i dati dell’amministrazione penitenziaria del Dap registravano a maggio la presenza di 61.500 detenuti a fronte di 51.241 posti regolamentari, con un tasso di sovraffollamento del 120%, anche se in realtà, sottolinea Barbaresi, “i posti disponibili sono ancora meno”. Inasprire le pene non serve - La segretaria della Cgil ci ricorda poi che la nostra Costituzione “ci dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. La domanda che dovremmo porci è quale sia la reale condizione di vita nelle carceri, quali siano le reali possibilità di rieducazione e di recupero sociale in un sistema alle prese con criticità croniche come il sovraffollamento, il degrado delle strutture, condizioni igienico-sanitarie che definire precarie è un eufemismo, con la mancanza di attività trattamentali e di opportunità di lavoro e di formazione. A tutto questo si aggiungono le carenze di risorse e quindi di personale, di spazi vivibili e che ci fanno parlare di condizioni al limite della disumanità e dell’abbandono”. “Sin dal suo insediamento il governo Meloni ha praticato la strada dell’inasprimento delle pene - prosegue - con una politica securitaria che è espressione di un populismo penale destinato solo ad aggravare i nodi irrisolti nel sistema penitenziario, oltre ad accrescere i problemi e la disperazione dei detenuti. Le soluzioni ai problemi carcerari non sono a portata di mano, ma serve la volontà politica e quella di questo governo va nella direzione esattamente opposta rispetto a quelle che sono le necessità reali”. In carcere gli ultimi - Occorre poi interrogarsi anche su chi sono i detenuti, perché troppo spesso non si considera che nelle carceri troviamo persone fragili e in stato di disagio e marginalità. “Spesso si danno risposte di carattere penale a problemi che sono prevalentemente o spesso di carattere sociale - commenta Barbaresi -, perché le carceri sono piene di poveri, di immigrati, di tossicodipendenti, di persone con problemi di salute mentale che dovrebbero trovare altre risposte nelle istituzioni, al di fuori del carcere, in termini di reddito e lavoro dignitoso, di percorsi di inclusione e di presa in carico di carattere sociale. Invece la risposta che trovano è di tipo penale”. La sindacalista solleva poi un’altra annosa questione: “Un quarto dei detenuti è in attesa di giudizio o della condanna definitiva e anche questo contribuisce al sovraffollamento. Quindici anni fa la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per violazione dei diritti umani, ma da allora il livello di sovraffollamento non è cambiato. Inoltre l’assenza di attività trattamentali, lavorative, dell’istruzione ed educative è dovuta anche alla mancanza di personale. Senza contare poi le cattive condizioni nelle quali si trova a lavorare il personale carcerario stesso, la polizia penitenziaria come gli operatori, che non sono messi in grado di svolgere con serenità il proprio lavoro. Quindi è il sistema complessivo che è in crisi e che non consente in qualche modo il rispetto dei principi costituzionali”. Stop al populismo penale - Ad aprile la Cgil ha organizzato un’iniziativa per affrontare i nodi del tema carcerario e ha posto, “oltre alla necessità di garantire un lavoro dignitoso adeguatamente retribuito e percorsi di istruzione e formazione, anche quella di ridurre la presenza nelle carceri a partire dal ricorso a misure alternative alla detenzione, ma anche a indulto e amnistia”. Sull’indulto, però, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha già apposto il suo secco no, perché sostiene rappresenterebbe “una resa dello Stato”. Barbaresi conclude ribadendo che è disumano tenere persone nelle condizioni in cui spesso si trovano i detenuti nelle carceri, perché la pena deve consistere nella privazione della libertà e non nella negazione della dignità personale, che è invece quello che sta accadendo. Noi chiediamo che vengano archiviati immediatamente la politica securitaria e il populismo penale che sta portando avanti questo governo perché quello che serve sono le condizioni che un Paese civile dovrebbe garantire. L’orrore del carcere, il cinismo della politica di Riccardo De Vito volerelaluna.it, 26 giugno 2024 Siamo di fronte a uno dei momenti più bui della storia del carcere repubblicano. L’impressione è che le parole per raccontarlo non bastino più: ‘sovraffollamento’ è un’espressione grave e importante nel gergo tecnico, ma anche asettica ed edulcorata. Un locale o una spiaggia sovraffollata sono un conto, un carcere sovraffollato è ben altra cosa, dentro c’è l’orrore. Significa che in alcune celle i detenuti non possono scendere dal letto contemporaneamente. Una banale influenza, all’interno di un camerone nel quale si fanno i conti con una promiscuità indicibile e con l’assenza della minima riservatezza, diventa un incubo capace di annientare fisico e mente. Nel carcere stipato di persone ristrette e povero di personale educativo o affine (mediatori, personale sanitario), le regole si dissolvono e la sopraffazione dei detenuti forti su quelli vulnerabili diventa più facile, se non prassi. La polizia penitenziaria non è messa in grado di formarsi, né di sperimentare culture professionali diverse da quelle deleterie dello spirito di corpo, delle logiche paramilitari, del nemico sul quale tutto è permesso. Lo psicofarmaco diventa l’unico amico della persona ristretta, l’unico sostegno di esseri umani ritorti su sé stessi come la bevitrice di assenzio di Picasso. La via di uscita è spesso tragica: 44 suicidi tra i detenuti dall’inizio dell’anno; uno ogni quattro giorni nella descrizione statistica. Fuori dal carcere le cose vanno diversamente: nel 2020, in Europa, il tasso di suicidi registrava una diminuzione del 13% rispetto a dieci anni prima; l’Italia si collocava tra i Paesi di zona UE a più basso rischio suicidario (dati Eurostat). Ma il carcere, si sa, è un’altra terra, un mondo capovolto: è di giugno 2024 il monito del Consiglio d’Europa che evidenzia un allarmante incremento dei suicidi nelle strutture penitenziarie italiane nel giro di pochi anni (2016-2024) e invoca l’intervento urgente del governo. Nelle nostre carceri (come nei centri di detenzione amministrativa) stiamo mettendo a punto una crudeltà pericolosa, tanto più grave perché utilizzata in chiave di consenso: abituare alla disumanizzazione dei non meritevoli come premessa di una società migliore per gli inclusi, per i meritevoli. È una assuefazione pericolosa: improntata alla logica della guerra, impedisce di attivare gli antidoti emotivi e culturali contro la violenza e la pratica dei rapporti diseguali. Ma è anche illusoria: le carceri, in questo momento, sono laboratori da cui potrà fuoriuscire soltanto il virus dell’odio, della vendetta. Parliamo di questo quadro raccapricciante quando citiamo i freddi numeri: 61.547 al 31 maggio 2024, con un tasso di sovraffollamento complessivo pari al 120,1% sulla capienza regolamentare (51.241 posti) e addirittura al 129,3% su quella effettiva (circa 47.000 posti disponibili). A dispetto dell’ammonimento del Consiglio di Europa (e del Presidente della Repubblica, 18 marzo 2024), la maggioranza politica non mostra di voler dare risposte: nessuno spazio per la liberazione anticipata speciale, ossia l’aumento dello sconto di pena che i detenuti meritevoli conseguono ogni semestre, per velocizzare l’uscita di chi ha residui di pena brevi; nessuno spazio a un serio programma di estensione delle misure alternative su base volontaria. Le uniche risposte sembrano muoversi sul terreno della stretta repressiva. Gli eventi critici del carcere non si fronteggeranno con la prevenzione, il trattamento, l’ingresso della società dall’esterno, ma con il neocostituito Gruppo di Intervento Operativo della Polizia Penitenziaria, una sorta di squadra mobile che andrà a “risolvere problemi” - non stona il lessico truce di Pulp Fiction - negli istituti dove insorgono proteste (nota bene: l’istituzione è recente, ma l’idea è stata covata e plasmata dalla precedente maggioranza politica). È a buon punto, inoltre, il progetto legislativo di incriminare, sotto le insegne del reato di rivolta, gli atti di resistenza passiva di più detenuti di fronte agli ordini, anche illegittimi, dell’amministrazione e del personale di custodia. È una delle nuove fattispecie incriminatrici contenute nel disegno di legge 1600, sul quale l’Osce ha espresso il seguente giudizio: “The majority of the provisions carry the potential to undermine the fundamental tenets of criminal justice and the rule of law” (Opinion 27 maggio 2024). Chiaro l’obiettivo in riferimento al carcere: di fronte all’umiliazione della dignità, il detenuto deve rimanere a testa bassa. In questa situazione, anche il solo scrivere di carcere, senza poter agire per miglioralo, risulta un problema per la coscienza. È necessario creare una forte mobilitazione che induca al cambiamento prima che sia troppo tardi. Se non riporteremo i numeri delle presenze a una soglia fisiologica, la colpa di aver accettato l’orrore ricadrà su governanti e governati, maggioranze e opposizioni, laici e addetti ai lavori. È possibile, ad esempio, che i magistrati accettino passivamente la possibilità di precipitare un condannato in una prigione che torna a essere la caverna di Beccaria? Di alcune azioni possibile ci siamo già occupati su queste pagine. Tra queste, il numero chiuso negli istituti di pena (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/01/10/il-carcere-scoppia-ce-una-risposta-possibile-e-razionale-il-numero-chiuso/), che possiamo così riassumere: stabilire un limite di capienza massimo per ogni istituto; non far entrare nessun detenuto oltre tale soglia; stabilire percorsi di detenzione domiciliare e controllo per chi resta fuori, con un ordine di priorità a valle che garantisca il posto ai pochi responsabili di reati davvero allarmanti. Sul tema è tornato di recente Giuliano Amato, ex Presidente della Corte costituzionale, che nel corso di un intervento nel carcere milanese di San Vittore ha descritto il meccanismo con parole chiare: “Non si entra in carcere se non c’è un posto dove andare, questo succede già in altri Paesi dove, finché non si libera un posto, non si entra”. Lasciare fuori il detenuto in esubero - con le modalità di controllo cui si è accennato - non è un vantaggio indebito nei confronti di chi meriterebbe di stare dentro, ma l’unico strumento per fare in modo che il carcere non azzeri la dignità delle persone ristrette e risponda alla sua missione di risocializzazione, proprio come le altre istituzioni del welfare - in tempi di scarsità delle risorse economiche - hanno fatto del numero chiuso una precondizione per assolvere alla cura (l’ospedale) o all’istruzione (l’università). Accanto a questa soluzione, l’ex Presidente della Corte costituzionale ha sdoganato istituti tabù a destra e a sinistra: amnistia e indulto, ritenendoli possibili nei confronti dei tanti incarcerati per reati “minuscoli”. Siamo sempre stati d’accordo (https://volerelaluna.it/commenti/2020/03/09/le-nostre-prigioni-lindulto-necessario/): è arrivato il momento di tornare a mettere amnistia e indulto in cima all’agenda politica e di ridare agli istituti di clemenza agibilità parlamentare (ad esempio, consentendone di nuovo - con riforma costituzionale - l’approvazione a maggioranza assoluta). L’argomento nobile contro l’amnistia, da sempre, è stato uno: è una misura che ‘premià tutti, senza distinguere i buoni dai cattivi; proprio per questo motivo, sfoltisce la popolazione ristretta solo in via provvisoria, favorendo un’ondata di riflusso di ingressi a distanza di poco tempo. Abbiamo constatato, tuttavia, che questo discorso vale anche per i rimedi deflattivi mirati, individualizzati e gestiti dall’autorità giudiziaria: nel corso degli undici anni che ci separano dalla sentenza della Corte EDU in materia di sovraffollamento - la celebre ‘Torreggiani’ - i magistrati di sorveglianza hanno chinato il capo su migliaia di misure alternative, che hanno favorito una effettiva decongestione del carcere, ma siamo tornati quasi al punto di partenza. La colpa non è delle valutazioni errate dei giudici, come non lo era della logica premiale indifferenziata dell’amnistia. La causa ultima del sovraffollamento, come è stato più volte rimarcato, è nell’uso politico spregiudicato e simbolico della risorsa penale, nella scelta di non rinunciare alla repressione nella guerra alla droga, nella sostituzione della sicurezza esistenziale attraverso la rete dei diritti con l’inganno della sicurezza pubblica mediante le chiavi da buttare. Ecco perché l’amnistia deve e può tornare in agenda politica, insieme al numero chiuso. Lo ha detto il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia: l’adozione di un provvedimento di amnistia - nei confronti, ad esempio, degli oltre 16.000 condannati a cui al 31 dicembre 2023 mancavano meno di due anni alla scarcerazione definitiva - si dovrebbe sposare con l’adozione del numero chiuso, affinché non si ricominci da capo, non si precipiti più nell’orrore. Sarebbe l’occasione per fare del numero chiuso un’occasione per un’amnistia definitivamente utile - nessun riflusso sarebbe possibile con il numero chiuso - e per ridare al carcere la possibilità di essere un luogo umano. È noto che il clima politico/culturale egemone è ostile a queste traiettorie, ma occorre accendere i riflettori su di esse: come detto, gli effetti del degrado umano della galera ricadranno su tutti e l’inerzia, questa volta, determinerà una colpa di portata storica. La dialettica tra gli ‘ideali’ e ‘la rozza materia’ - il profetico dualismo di Bobbio - attraversa il carcere di questo tempo. Spetta agli uomini di questo tempo, dunque, fare in modo che la seconda si arresti davanti ai primi, ridando fiato a una democrazia nella sostanza sempre più esangue. Troppi i malati nelle carceri italiane di Ilaria Marciano ultimabozza.it, 26 giugno 2024 Rimandata la sentenza sui permessi di Vallanzasca. Una vicenda che accende l’allarme sullo stato di salute dei nostri detenuti, sempre più ammalati. Il 70% dei carcerati soffre di almeno una patologia, con incidenze di epatite C e HIV, che superano di gran lunga quelle della popolazione esterna. Renato Vallanzasca, il “Bel René” della mala milanese degli anni 70, è tornato il 19 giugno in aula al Tribunale di Milano per chiedere la revoca del provvedimento che gli vieta i permessi premio. Permessi premio che gli consentirebbero di recarsi presso una comunità terapeutica per curare il decadimento cognitivo-degenerativo di cui è affetto ormai da diverso tempo. Ma la Procura si riserverà di prendere una decisione soltanto nei prossimi giorni. Una vicenda, questa, che riapre l’annoso dibattito sui diritti dei detenuti, e in particolare per quel che riguarda i condannati per reati gravi. E i dati in merito parlano chiaro: secondo l’ultimo studio generale sulla salute in carcere - risalente al 2014 e condotto in 57 istituti e 16.000 ospiti - il 70% dei carcerati soffre di almeno una patologia, con incidenze di epatite C e HIV che superano di gran lunga quelle della popolazione esterna. A confermare lo scenario ci sono anche dati più recenti elaborati da Antigone: secondo il rapporto del 2023 dell’associazione, il 40% dei condannati assume sedativi e ipnotici (e con il 9% delle diagnosi che sono psichiatriche gravi). E le condizioni di sovraffollamento e fatiscenza nelle strutture detentive non fanno che aggravare la situazione: celle senza acqua calda, docce e riscaldamento non funzionanti sono la norma in oltre metà degli istituti. Il che, crea ambienti fertili per la diffusione di malattie. Le cause di questo disastro annunciato sono molteplici. Sempre secondo i dati Antigone, nella maggior parte dei casi negli istituti detentivi è presente un solo medico, e non tutte le strutture garantiscono la presenza di un medico durante le 24 ore della giornata. Ancora, gli operatori sanitari faticano a gestire le emergenze e a garantire le cure adeguate a causa del sovraccarico di lavoro, e non può passare in secondo piano la burocratizzazione che ostacola l’accesso alle cure e rende i percorsi sanitari complessi e inefficienti. Ma l’inadeguatezza del sistema sanitario carcerario non è solo una questione di diritti negati, ma rappresenta anche un problema di sicurezza pubblica e salute collettiva. Una questione, questa, che richiede insomma un intervento urgente da parte delle autorità competenti, ma che richiede anche un intervento nella sua narrazione. Perché è un tema su cui è facile essere divisivi, su cui è facile cucire etichette e sentimenti di odio: “sono in carcere perché se lo sono voluto, marciscano pure”. È semplice pensarlo. E l’opinione pubblica, soprattutto di questi tempi, è facile da trascinare nelle zone d’ombra, quelle più oscure, dove non esiste luce, dove non esistono vie di mezzo, dove il bene e il male sono polarizzati senza riserve. Ma il nostro sistema carcerario è un sistema rieducativo, non repressivo, e in quanto tale dovrebbe garantire ai detenuti il rispetto dei diritti fondamentali. Compresa la salute. Istituti penitenziari a rischio paralisi: manca il 35% di personale contabile di Associazione Nazionale Funzionari Contabili del Dap Il Dubbio, 26 giugno 2024 Cinquecento quattordici dovevano essere a oggi i nuovi funzionari contabili che avrebbero dovuto sopperire ai pensionamenti dopo oltre un decennio di assenza totale di concorsi banditi dal Dap. Eppure negli ultimi 5 anni, nonostante l’Amministrazione penitenziaria abbia avviato ben tre concorsi per questa figura, fondamentale per il funzionamento degli Istituti di pena, soltanto poco più di 200 risorse è riuscita a prendere servizio. Le cause di questi risultati sono molteplici e hanno a che fare con diversi fattori. Ma intanto occorre vedere il dato fattuale dei numeri. Nel 2018 parte il primo dei concorsi Dap per reclutare 35 funzionari contabili. La carenza di tale figura era già conclamata così i posti vengono elevati a 204. Tuttavia a superare la selezione furono soltanto in 196 di cui 16 interni, di questi, in 20 non scelsero la sede di assegnazione di fatto rinunciando all’assunzione. Il secondo concorso da 140 posti fu superato da 116 concorrenti di cui 6 interni, 15 non hanno scelto la sede, altri 30 non si sono presentati al corso di formazione, così alla fine sono rimasti in 76. La terza selezione del dicembre 2023, sempre per la figura del Funzionario contabile, è stata fatta per 107 posti, poi subito portati a 170, in quanto il flusso continuo di pensionamenti e le carenze strutturali di assunzioni dei due decenni precedenti fanno sentire ancora oggi i loro effetti. Il dato è che questa selezione che deve essere portata a termine entro l’estate è stata superata da soli 93 concorrenti. Indagare le cause del “fallimento” di questa strategia di reclutamento è complesso, tuttavia vi sono degli elementi tangibili che spiegano l’accaduto. Con i fondi del Pnrr tutte le Pubbliche amministrazioni hanno finalmente richiesto nuovo personale dando la possibilità ai giovani laureati di avere diverse opzioni di scelta partecipando a più concorsi contemporaneamente. È evidente che arrivati in fondo molti, potendo scegliere, hanno optato per altre amministrazioni più attrattive in termini di stipendio e di ambiente lavorativo. Ancora i numeri ci aiutano ad interpretare i fatti: se all’ultimo concorso dell’Agenzia delle Entrate hanno fatto domanda in 180.000 con una partecipazione effettiva alla preselezione di circa 80- 90.000 concorrenti, per il ruolo di funzionario contabile Dap della selezione 2023, hanno fatto domanda in appena 4000, e soltanto 1200 si sono presentati alla selezione. Dunque a conti fatti i funzionari contabili Dap, oggi in servizio negli istituti penitenziari, presso i Provveditorati e presso il Dipartimento centrale, sono circa 550 su una pianta organica che ne prevede circa 740. Il che significa avere una carenza di personale della figura del funzionario contabile del 35%, manca all’appello più di un funzionario su tre. Con questi numeri è facile prevedere una situazione che viaggia verso il collasso amministrativo contabile soprattutto negli Istituti di pena, dove le gestioni contabili relative agli acquisti di beni e servizi, alla gestione del fondo dei detenuti ed alla gestione del patrimonio, devono essere portate avanti senza ritardi secondo le norme e le scadenze previste dalla contabilità di Stato e carceraria. Se ciò non avviene il risultato, di cui è responsabile il funzionario Dap, è il disordine contabile, il giudizio della Corte dei Conti ed il possibile danno erariale. Le informazioni sulle enormi responsabilità assunte dai funzionari contabili, sulle difficili condizioni di lavoro all’interno delle carceri e sugli stipendi assolutamente inadeguati al ruolo ed ai carichi di lavoro ricoperti, devono aver cominciato a circolare tra i possibili nuovi candidati, che potendo, come detto, hanno scelto Amministrazioni in cui stipendi, premialità e condizioni di lavoro più tranquille hanno rappresentato la scelta giusta. In questa condizione di carenza di funzionari i pochi nuovi assunti spesso non hanno la possibilità di svolgere un idoneo periodo di affiancamento e non è raro vederli ricoprire sin da subito ruoli di responsabilità che richiederebbero almeno 3 anni di servizio per essere svolti. Si pensi che anche dal punto di vista del reclutamento della dirigenza, al netto dei concorsi banditi dall’amministrazione penitenziaria per la figura dei direttori di istituto che hanno contratto di diritto pubblico quindi i concorsi a loro riservati vengono gestiti direttamente dal Dap, per le altre figure dirigenziali, come per esempio quella del dirigente contabile, che dovrebbero provenire dal percorso della Sna, nessuno dei nuovi dirigenti ha mai optato, come amministrazione di impiego, per l’Amministrazione penitenziaria. Se dati e fatti concreti ci raccontano di una situazione per cui all’esterno tutti ormai hanno ben capito quali siano le difficoltà e le criticità di lavorare per l’Amministrazione penitenziaria, a tal punto da non considerarla una opzione possibile, ci si chiede come mai l’Amministrazione stessa, dall’interno, non abbia contezza di questo stato di cose. Dal carcere alla sicurezza, destra indecisa di Mario Di Vito Il Manifesto, 26 giugno 2024 Nordio prende tempo, e anche il ddl sicurezza si ferma. Intanto la maggioranza studia manovre sull’obbligatorietà dell’azione penale. Arriverà “prestissimo” il decreto sulle carceri. O almeno così ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio ieri mattina ai cronisti, a margine della conferenza di presentazione della relazione annuale al parlamento sulle tossicodipendenze. “Prestissimo”, va da sé, è un’affermazione piena di understatement: già doveva arrivare la settimana scorsa. Anzi, in via Arenula le bozze girano da quasi un anno. Eppure, per un motivo o per un altro, alla fine le attesissime misure per cercare di alleviare il sovraffollamento delle carceri non si vede mai. Le contrarietà, tutte politiche, sono un po’ dentro FdI e un po’ dentro la Lega: il timore - molto comprensibile per chi da sempre campa di populismo penale - è che ogni misura volta a migliorare le condizioni di vita dei detenuti venga letta come una passata di spugna: “svuota-carceri” è una parola che non si può pronunciare. Nemmeno in una situazione che vede ogni tre giorni un suicidio in cella. Sempre in materia di giustizia, la vera preoccupazione della maggioranza riguarda il tentativo di far rientrare dalla finestra quanto Mattarella aveva fatto uscire dalla porta della riforma sulla separazione delle carriere, cioè l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Visto che un passo del genere non si può fare attraverso una legge ordinaria, l’idea è di sfruttare un buco della vecchia riforma Cartabia (là dove si parla di indicazioni parlamentari sui “criteri generali” di priorità che ogni procura dovrebbe seguire nelle sue inchieste) e stabilire una scala d’importanza dei reati. In testa bisognerebbe “tener conto” delle specificità dei vari territori e delle esigenze della cittadinanza. Basta leggere le cronache locali per capire di cosa si parla: furti, rapine, violenze di strada, crimine organizzato. A seguire si dovrebbe prestare attenzione alle situazioni di violenza domestica. Infine andrebbe valutata la concreta pericolosità dei reati. Questo almeno si capisce a leggere il ddl presentato dai senatori Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Erika Stefani (Lega), in giro ormai dallo scorso dicembre. Èevidente che, in questo contesto, a sparire sono i reati dei colletti bianchi, dalla corruzione in giù. La strada è comunque lunga e tortuosa, considerando anche la ferma contrarietà del Colle a ogni iniziativa di questo tipo. Ancora a proposito di iniziative della maggioranza che vanno arenandosi proprio alla vigilia delle vacanze estive, da segnalare che il ddl Sicurezza si è praticamente fermato. Nella giornata di ieri, alla Camera, le due commissioni interessate all’argomento hanno rinviato le votazioni sugli emendamenti. Forse il passaggio verrà recuperato nella giornata di oggi, o forse, vista la gran mole di lavoro da smaltire prima dello stop ai lavori, non è da escludere che il discorso verrà ripreso soltanto a settembre. Spazio minimo in carcere: la Cassazione stabilisce i criteri di Rosa Colucci servicematica.com, 26 giugno 2024 La Corte di Cassazione, con una serie di recenti sentenze (fra cui la n. 24997 del 25 giugno 2024), ha fatto chiarezza sui criteri da utilizzare per la valutazione dello spazio minimo vitale da garantire ad ogni detenuto, stabilendo importanti principi per il rispetto dei diritti umani in carcere. Spazio calpestabile e arredi - La Suprema Corte ha stabilito che ai fini del calcolo dello spazio minimo di tre metri quadrati per detenuto, si deve considerare esclusivamente la superficie calpestabile, ovvero quella che permette il normale movimento all’interno della cella. In altre parole, non devono essere computati gli arredi fissi al suolo, come letti a castello o mobili pensili, a condizione che questi siano posizionati in modo da non ostacolare la libertà di movimento del detenuto. Fattori compensativi - La giurisprudenza ha inoltre chiarito che la presunzione di violazione dell’articolo 3 della CEDU (Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo) derivante da uno spazio individuale inferiore a tre metri quadrati può essere superata se sussistono congiuntamente dei fattori compensativi. Tali fattori possono includere: la breve durata della detenzione; le dignitose condizioni carcerarie in generale; la possibilità per il detenuto di svolgere attività al di fuori della cella. Inoltre, quando lo spazio individuale si trova tra i tre e i quattro metri quadrati, i fattori compensativi, unitamente ad altri elementi negativi, concorrono alla valutazione complessiva delle condizioni di detenzione. Letto singolo - Un punto importante riguarda il letto singolo: il suo spazio non deve essere computato nel calcolo dello spazio minimo vitale. Anche se non fissato al suolo, il letto singolo è considerato un arredo tendenzialmente fisso, ingombrante e difficile da spostare, che può compromettere la libertà di movimento del detenuto nella cella. Casi particolari - La Cassazione ha precisato che i principi sopraelencati si applicano anche alle celle destinate a ospitare due detenuti: in questo caso, lo spazio minimo complessivo da garantire ai due detenuti deve essere di almeno sei metri quadrati. Nei casi in cui la cella sia dotata di soppalco, lo spazio utile ai fini del calcolo dello spazio minimo vitale è quello ricavabile al piano terra, non potendo il soppalco essere considerato come superficie immediatamente fruibile dal detenuto. Veneto. Le carceri della morte: il 20% di tutti i suicidi avvengono in quelle regionali vicenzatoday.it, 26 giugno 2024 Le carceri di Padova, Verona e Vicenza sono tra le più colpite, con tassi di sovraffollamento che superano il 130%. La denuncia della senatrice Barbara Guidolin. Il Veneto, con una popolazione carceraria di oltre 2.500 detenuti, supera di gran lunga la capienza regolamentare delle strutture penitenziarie, contribuendo a creare un ambiente insostenibile sia per i detenuti che per il personale penitenziario. Le carceri di Padova, Verona e Vicenza sono tra le più colpite, con tassi di sovraffollamento che superano il 130%. I dati più recenti indicano che solo nel 2023 si sono verificati 8 suicidi nelle carceri venete su 40 suicidi totali in Italia pari al 20% a livello nazionale. “Un numero allarmante che riflette le condizioni critiche in cui versano i detenuti - dichiara la sen. Barbara Guidolin del M5S - una situazione drammatica nelle carceri della regione, segnata da un crescente numero di suicidi e da un grave problema di sovraffollamento che unito alla carenza di risorse e personale, ha un impatto devastante sulla salute mentale dei detenuti. La mancanza di adeguate misure di supporto psicologico e di programmi di reintegrazione aggrava ulteriormente la situazione, portando a tragici epiloghi”. Il M5S Veneto chiede un immediato potenziamento del personale penitenziario e formazione specifica per gestire situazioni di stress ed emergenze psicologiche. “Inoltre - propone Guidolin - è necessario investire in infrastrutture per garantire condizioni di vita dignitose, inclusi spazi adeguati, accesso a cure mediche e programmi di supporto psicologico. Non è più rinviabile la riduzione del sovraffollamento che può essere ridotto anche con misure alternative alla detenzione per reati minori e la revisione delle pene. Ribadiamo a gran voce una azione rapida e concreta per prevenire ulteriori tragedie e per garantire il rispetto dei diritti umani all’interno delle carceri. La situazione attuale è insostenibile - conclude la senatrice - e richiede un impegno deciso da parte delle istituzioni”. Piemonte. Carceri dei suicidi, in 6 mesi lo stesso numero di detenuti che si è tolto la vita nel 2023 di Giuseppe Legato La Stampa, 26 giugno 2024 In Piemonte 5 suicidi e 400 atti di autolesionismo. Il garante e le Camere Penali: “Situazione drammatica, indignarsi non basta più: subito amnistia o indulto”. Due suicidi a Torino, uno a Biella, uno a Cuneo e uno a Novara. Si chiamavano Alì (19 anni), Fabrizio Alvaro (31 anni), Alam (40 anni), Maria Assunta (64 anni) e Alin Vasili 46 anni. In sei mesi il sistema carcerario piemontese ha raggiunto la soglia dei gesti anticonservativi del 2022 e del 2023. In quaranta (dato in linea con le semestrali precedenti) hanno provato togliersi la vita salvati, spesso in extremis, dagli agenti di polizia penitenziaria. Mancano altri 180 giorni “e ciò che più mi preoccupa - spiega il garante regionale dei detenuti bruno Mellano - è che manca ancora l’estate e il periodo delle festività natalizie, momenti notoriamente popolati da suicidi”. L’analisi dei dati - L’emergenza dietro le sbarre è stata ieri al centro di una lunga disamina della Camera penale Vittorio Chiusano e dei garanti dei detenuti delle province piemontesi. Vengono auspicati immediati interventi contro il sovraffollamento: amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale possono consentire di appianare una situazione disastrosa “ma solo come base per affrontare il problema alla radice”. Il fatto è che la nostra regione ha numeri sempre più drammatici che restituiscono una qualità della permanenza dei detenuti nei penitenziari preoccupante. Basta pensare agli atti di autolesionismo spesso spia di possibili comportamenti ancora più pericolosi contro la propria vita. Sono stati 403 (+50% circa rispetto al primo semestre 2023). Il carcere che ne conta di più è il Lorusso e Cutugno di Torino. E non pare soltanto una questione legata al numero di “ospiti” che si riflette su probabilità e statistiche. Perché il carcere di Torino ha registrato 90 casi di autolesionismo in sei mesi e se il dato venisse proiettato a fine dicembre si arriverebbe ben oltre i 143 episodi totali del 2023. Sul punto in esame la situazione è disastrosa anche a Ivrea dove in sei mesi si sono raggiunti i livelli dell’intera scorsa annualità: 107 casi da gennaio a giugno contro i 102 dei 12 mesi precedenti. Gli interventi - Il sovraffollamento fa il resto. Il garante regionale Bruno Mellano ha puntato il dito contro “l’assenza di provvedimenti urgenti che consentano l’esecuzione penale esterna per chi si trovi a fine pena: una platea - ha detto - davvero consistente di detenuti con pene brevi o brevissime o in procinto di riacquistare la libertà”. L’avvocato Roberto Capra, che presiede il sindacato dei penalisti, è chiaro: “I suicidi sono il sintomo, l’evento drammatico ma anche lo specchio di un disagio clamoroso e grave con radici lontane: abbiamo modalità e strumenti di detenzione antichi. Sono altri i modelli di carcere che possono incidere sul rispetto dei profili costituzionali della detenzione. Ogni detenuto che si toglie la vita tradisce la perdita di speranza e di orizzonte e di fronte a questo non possiamo rassegnarci”. Davide Mosso, legale torinese che fa parte dell’Osservatorio dell’Unione camere penali, ha invece ricordato come si sia in attesa da tempo di risposte sul tema dell’affettività e della sessualità richiamando, in tema di condizioni di detenzione l’intervento dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e della Corte Costituzionale nel 2013. Undici anni dopo poco è cambiato rispetto ad allora. La maratona oratoria in piazza Arbarello - Per questo il 3 luglio, dalle 11 alle 16, in piazza Arbarello “abbiamo organizzato una lunga maratona oratoria. Chiediamo alla città, a chiunque avverta questo problema nella sua reale gravità, una grande partecipazione anche attiva. Bisogna far sì che quando un magistrato manda in carcere una persona non lo faccia soltanto in nome di una legittima legge ma anche pensando in che carcere lo sta mettendo”. Ergo: “Vanno individuate scelte alternative alla detenzione nell’istituto”. Sicilia. Nelle carceri si soffre per caldo e abbandono, malcontento e rabbia fra i detenuti di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 26 giugno 2024 Sovraffollamento, afa, difficoltà ad accedere all’assistenza sanitaria e, come ogni estate, anche penuria d’acqua. I detenuti soffrono nelle carceri siciliane. E soffrono pure gli agenti della polizia penitenziaria, impegnati a prevenire i suicidi e ad evitare che esploda la rabbia. Si è smarrita la finalità rieducativa costituzionalmente prevista. Gli istituti penitenziari diventano solo luoghi di punizione. Le parole di Santi Consolo, in passato alla guida del Dap e oggi garante siciliano dei detenuti, tradiscono amarezza e disagio. Il suo ruolo può servire da stimolo, ma si scontra con la triste realtà. “Appena arrivato ho fatto delle proposte migliorative per molti istituti, anche per l’Ucciardone di Palermo: volevo riattivare i progetti fermi - spiega -. Penso, tra gli altri, all’area agricola, di circa un ettaro, o al settore tessile. Quasi nulla è stato fatto, pur avendo offerto una parte delle somme a mia disposizione. È stata migliorata solo l’area adibita a teatro”. Il disagio cresce, in Sicilia come nelle altre regioni d’Italia. “Credo che sia abbia in genere scarsa considerazione per il ruolo dei garanti. Non abbiamo alcun potere, possiamo soltanto evidenziare quelle che sono le carenze e suggerire correttivi”, aggiunge Consolo. Così non va. Dal carcere non si esce uomini e donne migliori. “Questo è il profilo più drammatico - racconta Consolo -. Le aspirazioni dei detenuti vengono quasi sempre disattese. In tanti vogliono svolgere attività lavorative, anche a titolo gratuito e su base volontaria, nei lavori di pubblica utilità per la collettività”. Il dato è impietoso. In Sicilia ci sono oltre 6.600 detenuti, un migliaio in più della capienza massima. Gli stranieri sono il 14%, circa la metà della media nazionale. Più di 1000 hanno fatto richiesta per partecipare ad attività di formazione. Poche decine le domande accolte. Non si impara un mestiere, non ci si mette al servizio della collettività. I lavori di pubblica utilità sono a titolo gratuito. Secondo il garante, andrebbe comunque riconosciuta una minima gratificazione. Da un censimento è emerso che quasi tutti i detenuti vorrebbero lavorare. Consolo ha stanziano più 50 di mila euro dei pochi fondi a disposizione per un rimborso di cinque euro all’ora: “Non riesco a spenderli, in Sicilia ci sono appena 35 detenuti che svolgono lavoro di pubblica utilità”, dice. Colpa di una burocrazia troppo lenta. A Roma, ad esempio, in passato i detenuti hanno contribuito alla cura del verde. I lavori più frequenti ormai rimangono quelli che si svolgono all’interno del carcere: cuoco, spesino, vivandiere o addetto alle pulizie. Lazio. Il Garante regionale dei detenuti “Dal 2020 raddoppiato il numero di minori reclusi” La Repubblica, 26 giugno 2024 L’incremento è del 10% negli ultimi sei mesi, un dato mai registrato prima dovuto alla trasformazione in legge del “decreto Caivano” che prevede l’estensione dell’applicazione della misura cautelare in carcere anche per fatti di lieve entità. Sempre più minori o ragazzi appena maggiorenni finiscono negli istituti di giustizia: un aumento vertiginoso che ha subito una forte accelerazione negli ultimi anni. A lanciare l’allarme è il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia che dati alla mano fa un quadro a della situazione regionale e nazionale. A preoccupare è il numero di minori e giovanissimi reclusi negli istituti penitenziari minorili che a livello nazionale dal 2020 è quasi raddoppiato passando in 3 anni e mezzo dai 305 di fine 2020 agli attuali 555 (180%). Ancora più estremo l’incremento nel Lazio dove al 15 giugno di quest’anno i detenuti erano 63 mentre a dicembre 2020 erano appena 26. Sul lungo periodo quindi la crescita è stata costante, ma è negli ultimi mesi che si è registrato il picco di ingressi con un aumento senza precedenti. “Nel primo semestre del 2024, in tutta Italia il numero complessivo dei minori e giovani adulti presenti nelle strutture residenziali della giustizia minorile sono cresciuti dai 1.444 di fine 2023 agli attuali 1.589. Sono quindi 145 in più - si legge sul sito del Garante - Si tratta di un incremento superiore al 10%, mai verificatosi in passato e decisamente abnorme rispetto a quanto si verificava negli anni scorsi”. La causa di questa impennata sarebbe da ricercare nella trasformazione in legge del decreto “Caivano” emanato all’indomani dello stupro di gruppo ad opera di sette minorenni su due sorelle di 10 e 12 anni. La legge che prevede quindi l’inasprimento delle pene e facilita l’ingresso dei minori negli istituti di giustizia è stata fortemente criticata da associazioni e penalisti tanto che a marzo 2024 il tribunale per i minorenni di Trento ha sollevato anche questioni di legittimità costituzionale poiché “qualsiasi trattamento punitivo nei confronti di un minore è ammesso solo se è sorretto, animato e orientato da fini educativi “ mentre alcuni articoli contenuti nella legge celano “di fronte a un reato asseritamente commesso da un minorenne, una meccanica trattamentale fortemente improntata sul paradigma punitivo, scandita dal principio di proporzionalità, anziché assicurare un approccio trattamentale fondato su dinamiche educative e riabilitative, definite dal principio personalistico e assicurate dalla multidisciplinarietà dell’Organo giudicante minorile”. Genova. Detenuto trovato morto: ha inalato gas di Alessandra Boero primocanale.it, 26 giugno 2024 Ancora non è chiaro se si sia trattato di un suicidio o, più verosimilmente, trattandosi di un tossicodipendente, di un tentativo di procurarsi effetti allucinogeni finito male. Ancora un morto nel carcere di Marassi dove ieri pomeriggio, in una cella, è stato rinvenuto il cadavere di un detenuto. Si tratta di un uomo italiano, 30 anni non ancora compiuti, morto dopo aver inalato gas dal fornello da campeggio. Ancora non è chiaro se si sia trattato di un suicidio o, più verosimilmente, trattandosi di un tossicodipendente, di un tentativo di procurarsi effetti allucinogeni finito male. La notizia ha scosso i sindacati dei poliziotti penitenziari: “Sono dunque 101 i morti nei penitenziari dall’inizio dell’anno, di cui ben 45 per suicidio, in quella che è una vera e propria carneficina. A questo tragico bollettino vanno peraltro sommati anche i 4 appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita” dice Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Quest’ulteriore decesso, per di più, ripropone pesantemente il tema dei detenuti tossicodipendenti. “Dovrebbero seguire percorsi alternativi e di effettivo recupero, trovando anche le cure necessarie e che, nella situazione attuale delle carceri, sono invece molto prossime a una chimera - continua De Fazio -. Se si vuole almeno tentare di limitare il massacro abbattendo ogni record nella conta dei morti in carcere, il Governo Meloni prenda atto dell’emergenza senza precedenti e vari, per davvero e immediatamente, un decreto-legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva, sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto alla capienza utile, assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità, e il potenziamento della sanità inframuraria, specie di natura psichiatrica, in crisi profondissima. Parallelamente, l’esecutivo e il Parlamento avviino riforme strutturali e riorganizzative. Siamo dentro un’ecatombe”. Ivrea (To). I detenuti scrivono la cruda realtà: “Carcere affollato e fatiscente” di Lorenzo Zaccagnini La Sentinella del Canavese, 26 giugno 2024 Il 45° suicidio in carcere in Italia da inizio anno, poi, racconta una storia che tocca anche Ivrea. Il 19enne Ali Soufiane si è suicidato in carcere a Novara. Fino a poco tempo fa, era a Ivrea, carcere da cui era stato trasferito dopo essersi arrampicato sul tetto. Sarebbe dovuto uscire ad agosto. Una lettera per raccontare la cruda realtà del carcere. “La cruda realtà” che è anche il titolo del testo pubblicato circa un mese fa sulle pagine della Fenice, il giornale online redatto dai carcerati della casa circondariale eporediese, scritto a 4 mani da due detenuti che si firmano uno come L’istituzionalizzato e l’altro come D.G.O. Un testo dove si espongono senza giri di parole i tanti problemi che il carcere di Ivrea continua a presentare: celle che non soddisfano gli standard, strutture fatiscenti, gravi episodi di sovraffollamento, celle prive di acqua calda, umide e piene di muffa, infissi dai quali entrano pioggia e vento, griglie esterne alle finestre composte da fori di un centimetro quadro. E ancora ventilazione inadeguata d’estate, riscaldamenti al minimo d’inverno, mancanza di sanitari. Per non parlare della mancanza di psicologi, psichiatri ed educatori, perennemente sotto organico, e la conseguente mancanza di supporto per tutte le persone con situazioni a rischio. Così si moltiplicano gli atti di autolesionismo, quando non di suicidio, che nella mente di alcuni rappresenta l’unica via d’uscita. Il 45° suicidio in carcere in Italia da inizio anno, poi, racconta una storia che tocca anche Ivrea. Il 19enne Ali Soufiane si è suicidato in carcere a Novara. Fino a poco tempo fa, era a Ivrea, carcere da cui era stato trasferito dopo essersi arrampicato sul tetto. Sarebbe dovuto uscire ad agosto. “Mi aveva detto che era sulla strada da quando aveva 10 anni e che fuori non aveva nessuno che lo aspettava - racconta il Garante dei detenuti di Ivrea Raffaele Orso Giacone -. Io continuo con le mie visite in carcere, circa una volta alla settimana. Vi sono diversi grossi problemi: ovviamente il sovraffollamento, a oggi il carcere eporediese conta 270 detenuti, rapportato alla carenza di personale educativo, che quindi spesso impedisce l’attuazione di programmi di rieducazione e colloqui. Gli episodi di crisi da parte dei detenuti sono stati molto presenti nelle settimane scorse. Sono episodi che mobilitano molte risorse del personale intorno a chi li compie, impedendo quindi il normale svolgimento delle attività. Vi sono poi gravi problemi di dipendenza così come di abuso di psicofarmaci. La sanità ha grossi problemi in carcere, dove vi sono molte persone malate, ma è una situazione che rispecchia i problemi della sanità al di fuori, seppur in peggio. Negli ultimi tempi abbiamo visto fortunatamente dei miglioramenti in questo senso. In carcere ora entrano cardiologi e personale di radiologia e dentistico, che prima non c’erano. Altre buone notizie riguardano l’attività dello sportello multiservizi messo in funzione dalla cooperativa Mary Poppins, che sta fornendo risposte precise e puntuali ai problemi burocratici e relativi ai documenti. Dovrebbero essere in fase di realizzazione vari progetti, come il gattile all’interno del carcere, anche di reinserimento lavorativo: a oggi almeno 3 persone lavorano in Comune, mentre altri hanno trovato un lavoro fisso fuori dal penitenziario. Anche lo sportello lavoro finanziato dalla regione Piemonte, rimasto in sospeso fino a ora forse per incapacità o inattività della cooperativa di Torino che ha vinto l’appalto, dovrebbe entrare in funzione a breve”. Il grande assente della questione carceraria, secondo il Garante, sarebbe però un altro: “Crea molta ansia l’incapacità della politica di occuparsi dei problemi. Sui suicidi non vi è stata una sola risposta da parte del ministro Nordio. Questa emergenza balza agli onori della cronaca solo quando viene denunciata dai sindacati di Polizia penitenziaria”. Brescia. Carcere, sempre peggio: i detenuti attendono una risposta di Manuel Colosio Corriere della Sera, 26 giugno 2024 In 370 per 182 posti, la lettera ai parlamentari e al Papa. Ravagnani: “Questa struttura va chiusa”. 370 detenuti per 182 posti. Tasso di sovraffollamento del 204%. È il dato che rende Canton Mombello tra le carceri più invivibili d’Italia, al quale va aggiunta una struttura talmente fatiscente che definirla inospitale risulta un eufemismo. Le sue croniche criticità vedono tutti d’accordo, dagli agenti agli operatori, dai politici che entrano a visitarlo fino a coloro ovviamente che pagano il conto più salato: i detenuti, autori nei giorni scorsi di un documento consegnato a diversi parlamentari in visita nel carcere e spedito anche al Papa per tentare di smuovere le acque stagnanti della loro condizione detentiva. Più che un appello quella diffusa è una testimonianza della drammatica quotidianità alla quale sono costretti, lontana anni luce dal senso che anche la Costituzione prescrive e per la quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A Canton Mombello non c’è nulla di tutto questo e i detenuti lo segnalano: tensioni continue generate dal sovraffollamento, croniche carenze igieniche e sanitarie e una forzata convivenza con detenuti affetti da patologie psichiatriche o tossicodipendenza. “I detenuti sono soddisfatti che la loro lettera abbia avuto riscontro e ci sia stata una riflessione, giunta anche al Ministro della Giustizia, ma vorrebbero una ricaduta immediata. Se dovessero servire anni non sarebbero tutelati i loro diritti, già oggi disattesi” commenta la Garante per i diritti delle persone private di libertà del Comune di Brescia Luisa Ravagnani, alla quale chiedendo se l’annunciata ristrutturazione possa o meno risolvere la situazione risponde perentoria: “No, andrebbe chiuso, perché non è strutturalmente adeguato ad un processo di reinserimento, visti gli spazi e la struttura obsoleta. Anche se non fosse sovraffollato non è adatto ad una moderna idea di reinserimento: sarebbero impossibili le attività lavorative e mancano spazi verdi”. Niente ristrutturazione, piuttosto ridurre da subito le presenze, come suggeriscono tra l’altro gli stessi detenuti chiedendo di aumentare i giorni di liberazione anticipata. “Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia, desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta di migliorarci come persone” precisano e concludono “con la concessione di questi giorni non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma s’incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza ai meritevoli”. Brescia. Camera penale: “Contro il sovraffollamento subito libertà anticipata, indulto e amnistia” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 26 giugno 2024 Le Camere penali di Brescia sono appena rientrate da un fine settimana di studio in Austria durante il quale una delegazione di avvocati ha visitato anche l’istituto di pena di Leoben, carcere conosciuto a livello mondiale per essere un “modello progettuale” per ospitare 205 detenuti. Un esempio di condizione detentiva “che ha una distanza siderale rispetto a quella che si registra in Italia, per non parlare di Brescia e Canton Mombello” afferma la presidente Veronica Zanotti. Presidente, quali sono le caratteristiche che lo rendono così sorprendente e lontano da quelli che si trovano in Italia e Brescia? “Sono molte: dalla luminosità grazie ai muri in vetro, ai pavimenti di parquet, gli ampi e puliti passaggi per arrivare alle sale colloqui dove si trovano molti tavoli e giocattoli per i figli dei detenuti ed anche la stanza dedicata all’affettività, dove possono trascorrere fino a tre ore in intimità”. Come si vive nelle celle e all’esterno? “Le celle sono pulite, con bagno separato con doccia, cucina e televisione: 11mq la singola, 13 la doppia e 17 quella per quattro detenuti, una sola per piano. Poi ci sono cortili per il “passeggio”, palestre per gli agenti e per i detenuti, la biblioteca, campi per lo sport e laboratori di lavoro artigianale. Non possiamo che invidiare questa eccellenza che credo non vedremo mai nel nostro Paese”. Recentemente siete entrati nelle celle anche a Canton Mombello, com’è la situazione? “Disastrosa, fatta di muri scrostati, gente malata con sacchetti di drenaggio che convive con altri detenuti, presenza di scarafaggi ed una sporcizia incredibile. A questo va aggiunto il sovraffollamento... “Esatto, ma oltre al sovraffollamento l’altro grande tema è quello sanitario: l’80% dei detenuti è tossicodipendente, spesso con malattie psichiatriche. La carenza di organico genera difficoltà trattamentali ed apre anche alla piaga dei suicidi, già 45 tra gennaio e giugno. Eppure l’Italia ha avuto intuizioni innovative, come quelle espresse dalla riforma del 1975... “Già, grandi intuizioni, disattese però dalla mancanza di finanziamenti e di lavoro sulle carceri. Per evitare tensioni oggi i detenuti sono spesso sotto terapia farmacologica, di fatto sedati, e costretti in celle chiuse di giorno. Una situazione di “blindo” dove, in uno spazio unico, si trovano la turca, doccia, fornelli. Inquietante, visto anche il sovraffollamento”. Adesso però arrivano i fondi per ammodernarlo... “Le previsioni di ammodernamento in una situazione del genere servono a poco e non risolvono i problemi nelle celle, dato che i lavori pare riguarderanno soprattutto le parti comuni”. Allora la soluzione è allargare Verziano? “Nemmeno quello, perché il rischio è la distruzione delle poche cose buone che ci sono, come i campi esterni dove si praticano sport ed attività. Se allargarlo significa sopprimere gli spazi verdi non si fanno passi avanti, ma indietro”. Quali dunque le soluzioni? “Prima di tutto diminuire il sovraffollamento: si accolga la richiesta fatta da più parti sulle liberazioni anticipate, aumentando i giorni portandoli dagli attuali 45 a 75 per semestre. Poi prendere in considerazione la richiesta di amnistia e indulto che, dati i numeri, sono provvedimenti ineludibili. Ma purtroppo la politica su questo rimane sorda, anche se nel 2022 l’Europa ci ha ammonito per le condizioni disumane nelle nostre carceri. Qualcosa però va fatto e bisogna intervenire in tempi brevi”. Livorno. 254 detenuti in appena 181 posti e alle Sughere di mancano più di 50 poliziotti di Stefano Taglione Il Tirreno, 26 giugno 2024 Nel frattempo in via delle Macchie sospese le attività esterne nell’alta sicurezza dopo l’evasione di Umberto Reazione. Ben 254 detenuti su 181 posti disponibili, anche se il dato è in continuo aggiornamento. Si spiega così, dai numeri forniti dal ministero della Giustizia e aggiornati al 17 giugno scorso, il caos sovraffollamento delle Sughere. Le cifre sono quelle ufficiali e raccontano di una capienza totale (teorica) di 391 persone, ma ci sono 210 posti non disponibili a causa dei lavori ai padiglioni. “Spesso non ci sono gli spazi nemmeno per i transiti di chi viene arrestato”, racconta una fonte anonima. Nel frattempo nell’alta sicurezza, sono state provvisoriamente sospese tutte le attività esterne. Le proteste dei sindacalisti, del resto, vanno avanti da tempo. Non solo su questo aspetto, anche sulle aggressioni: carenza di agenti penitenziari, locali che cadono a pezzi e aggressioni di reclusi con problemi psichiatrici. Non solo verso i poliziotti, anche nei confronti dei sanitari (medici e infermieri). E anche il direttore del penitenziario, Giuseppe Renna, ha più volte sollecitato l’emergenza a Roma. L’istituto è stato costruito nel 1984, ha una superficie coperta di 37.000 metri quadrati, mentre quella scoperta è di 31.000. Le stanze di detenzione totali sono 296, ma 178 sono chiuse per lavori, quindi ne restano 118. Settantotto sono le docce, 83 i bidet, 230 complessivamente i bagni. Sempre secondo i numeri ministeriali gli agenti penitenziari, che dovrebbero essere 279, sono 227. “Ma chi fa ad esempio le scorte ai detenuti - prosegue sempre una fonte anonima - non fa vigilanza, quindi è fuori da questo conteggio. Ci sono enormi problemi di sicurezza: come il sistema anti-scavalcamento che non funziona. Nel punto dove è scappato Reazione, inoltre, non si riescono a elaborare i turni di guardia, a volte scoperti come in quell’occasione”. Pochi anche gli amministrativi: sono 24 gli effettivi su un fabbisogno di 35. Mentre gli educatori sono nove, il numero previsto. Milano. Riapre il bar della Camera del Lavoro gestito dai detenuti milanotoday.it, 26 giugno 2024 Dentro il locale è possibile assaggiare i prodotti realizzati dai detenuti del carcere di Opera. Un locale all’insegna dell’inclusione sociale. Al lavoro i detenuti del carcere di Bollate. Riapre il bar della Camera del Lavoro di Milano, chiuso da tempo e ora dato in gestione per sei anni alla cooperativa ‘La fabbrica dei segni’ che impiega persone in condizioni di fragilità. “L’obiettivo che ci siamo dati è stato quello di provare a favorire e a promuovere l’inserimento lavorativo di persone che arrivano dal carcere di Bollate. Reinserimento sociale vuol dire per noi innanzitutto percorsi di inserimento e di inclusione lavorativa, strumenti per rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione delle persone”, spiega durante l’inaugurazione Ivan Lembo, responsabile dell’ufficio politiche sociali della Cgil Milano. Sbagliare e rimediare. Questo il proposito. “È bello avere un’opportunità, una possibilità di rimettersi in gioco e di recuperare un pezzo di vita talvolta, un pezzo di dignità che è stata perduta. Grazie alla Camera del Lavoro che dà questa opportunità”, afferma Valter Moro, presidente della cooperativa. Così, oltre a due che hanno già iniziato il servizio, al bar si potranno mangiare i prodotti preparati dai detenuti del carcere di Opera. “Sono assunti con contratti regolari, applicando il contratto nazionale di lavoro. Prima hanno fatto un corso di formazione per imparare il mestiere. Due persone che hanno scontato la pena e sono usciti dal carcere oggi lavorano in forneria e hanno ritrovato la pienezza della vita, insieme alle loro famiglie”, ha detto Augusto Rocchi della Coop ‘L’albero del panè. Nel bar di corso di Porta Vittoria 2 si forniscono opportunità di lavoro, si permette a chi ha commesso degli errori nella vita di reinserirsi nella società attraverso l’impiego e la disciplina che esso comporta. Si danno nuove speranze evitando di tornare sulla vecchia strada, a ciò che si faceva prima del carcere e che nel carcere ha portato questi ragazzi. Firenze. Affettività in carcere, il convegno a palazzo del Pegaso gonews.it, 26 giugno 2024 Il Garante dei detenuti: “Diritto fondamentale”. “L’affettività in carcere alla luce della sentenza della Corte Costituzionale 10/2024” è stato il tema del convegno che si è tenuto oggi (martedì 25 giugno) nell’Auditorium Spadolini di palazzo del Pegaso, organizzato dal Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, da AIGA (Associazione giovani avvocati) e ONAC (Osservatorio nazionale di AIGA). L’evento ha coinvolto operatori della giustizia, avvocati, garanti, associazioni ed esperti, che si sono confrontati sul tema a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari, affermando il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Al convegno ha portato il saluto, a nome di tutto il Consiglio regionale, il presidente Antonio Mazzeo. “Ogni Regione - ha detto - misura la qualità della propria democrazia con il livello di civiltà delle nostre carceri, con il livello con cui i detenuti riescono ad essere reinseriti nella società e con il livello con il quale ogni detenuto riesce a vivere la propria affettività in carcere. Ognuno di noi deve dare un contributo affinché questi principi si rafforzino e si consolidino e penso che iniziative come queste possano aiutare ad indirizzare il percorso nella direzione giusta”. “Il convegno ha voluto mettere in luce l’importanza della sentenza e diffondere la conoscenza dell’importante svolta impressa dalla Corte Costituzionale - ha dichiarato il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana Giuseppe Fanfani - In sostanza, il diritto alla affettività in tutte le sue forme è fondamentale e incomprimibile, quale che sia la condizione in cui si trova la persona. Ora è necessario agire per la sua attuazione concreta, sperimentando soluzioni idonee a garantirlo negli istituti penitenziari”. “Preoccupa però l’assenza al convegno del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria - ha aggiunto Fanfani - più volte sollecitato a intervenire. Ciò può apparire un segno della mancanza di volontà di confronto e di azione”. La grande sfida diventa infatti quella della concreta attuazione del diritto all’affettività negli istituti di detenzione, con la realizzazione di spazi idonei a trascorrere del tempo con il partner in condizioni di riservatezza. Sfida che fa tornare d’attualità la ricerca “La dimensione affettiva delle persone in detenzione”, illustrata nuovamente nel corso del convegno, realizzata nel 2021 proprio dal Garante dei detenuti della Regione Toscana, tramite la Fondazione Giuseppe Michelucci con la collaborazione del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana e dell’Umbria e delle Direzioni degli istituti penitenziari toscani. Un lavoro che ricostruisce le caratteristiche delle sedici strutture carcerarie per adulti attive sul territorio regionale, le modalità con cui vengono assicurate le relazioni tra detenuti e familiari, gli spazi ove queste hanno luogo, le eventuali potenzialità degli istituti penitenziari come luoghi dove promuovere una concreta progettualità. Esso riporta inoltre concrete soluzioni organizzative e architettoniche che potrebbero costituire un modello di riferimento. Nel corso del convegno sono state anche citate le esperienze di altri Paesi europei (Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera) come esempi significativi a cui ispirarsi per costruire strutture adeguate e dignitose nelle carceri italiane, a partire da quelle della Toscana. Nell’occasione è stato inoltre ricordato come la Regione Toscana avesse presentato nel 2020 una proposta di legge regionale per regolamentare l’esercizio del diritto all’affettività in carcere che, insieme ad una analoga partita dalla Regione Lazio, aveva investito la precedente legislatura nazionale, senza che ne venisse dato alcun seguito. Nell’ottobre 2023 il Garante regionale ha trasmesso nuovamente l’atto normativo al Consiglio regionale perché possa di nuovo essere votato come proposta di legge di iniziativa regionale. Sono intervenuti al convegno Tommaso Bendinelli, consigliere presso l’Ordine degli avvocati di Firenze; Carlo Foglieni, presidente nazionale di Aiga (associazione giovani avvocati); Valentina Brecevich, coordinatrice di Aiga Toscana; Marcello Bortolato, presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze; Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto; Saverio Migliori, della fondazione Michelucci; Grazia Zuffa, psicologa e presidente della Società della ragione; la Garante dei diritti dei detenuti; Alessandro Betti, componente dell’Onac (Osservatorio nazionale Aiga sulle Carceri); Francesca Bonagura, referente di Onac Toscana. Imperia. Un traguardo di inclusione: due detenuti si diplomano all’Istituto alberghiero orizzontescuola.it, 26 giugno 2024 Il percorso formativo, avviato dalla dirigenza scolastica in collaborazione con la direzione del carcere, ha permesso ai detenuti di immaginare un futuro nel settore della ristorazione. All’interno della struttura di detenzione sono stati allestiti un’aula dedicata alle attività didattiche e un laboratorio di enogastronomia, che da cinque anni consentono il funzionamento di una pluriclasse. A La Stampa, la referente dei rapporti tra l’istituto alberghiero e l’istituto penitenziario sottolinea l’importanza della scuola in carcere come attività per il recupero dei detenuti, in quanto consente l’interiorizzazione dei valori della convivenza civile e svolge un’importantissima funzione sociale. Nonostante la complessità delle procedure che governano il contesto degli istituti penitenziari, grazie alla stretta collaborazione con gli educatori della struttura, il Centro provinciale istruzione adulti e l’Ufficio scolastico regionale, è stato possibile realizzare questo progetto di inclusione autentica. Un’educatrice della struttura ha riferito le emozioni dei candidati durante le prove e l’orgoglio per l’importante traguardo raggiunto. Uno dei due detenuti ha espresso particolare soddisfazione per la traccia della prima prova scritta, che gli ha consentito di trattare un tema significativo declinandolo nella particolare realtà del carcere. Come gli alunni che lavorano mentre frequentano la scuola, anche i detenuti che hanno seguito il corso alberghiero svolgono nel carcere una mansione di rilievo: la gestione della cucina. Firenze. Teatro senza barriere tra carcere e città di Francesca Tofanari Corriere Fiorentino, 26 giugno 2024 Incontri, workshop, spettacoli: dal 28 giugno gli appuntamenti di “Spiragli”. È un ponte tra il carcere e la città “Spiragli. Teatri dietro le quinte”, un festival piccolo ma qualitativamente grande, che ha il suo cuore in un percorso che il direttore artistico Claudio Suzzi con la Compagnia Interazioni Elementari porta avanti dal 2017 con i detenuti dell’Istituto penitenziario minorile G. Meucci. Il viaggio dell’eroe sarà la restituzione del laboratorio di teatro “La Piccola Accademia degli Stupori”, che proprio lì andrà in scena il 12 luglio. “Mi è rimasta impressa la necessità che questi ragazzi hanno di qualcuno che creda in loro - ha detto Suzzi - Ognuno di noi ha le sue debolezze, anche il più grande attore Hollywoodiano, e quindi è lì che il teatro deve agire se è veramente teatro”. “Siamo convinti che il progetto sia un’occasione preziosa per i ragazzi - ha spiegato la direttrice dell’IPM Antonia Bianco - perché è uno strumento di crescita personale emotiva ed espressiva e, allo stesso tempo, rafforza lo spirito di gruppo, oltre a creare opportunità di lavoro”. Un progetto non accessibile al pubblico per questioni di sicurezza che diventerà un cortometraggio, mentre gli altri appuntamenti che coinvolgono vari luoghi saranno ad ingresso gratuito. Il festival aprirà il 28 giugno con il dj set Radio Oblivion al centro Gav (via Gran Bretagna 48); proseguirà con Michele Sinisi, attore e regista teatrale, e il suo workshop Il tartufo di Moliere al Lavoratorio il 1° e 2 luglio, e con lo spettacolo La simpatia di tutte le cose il 3 luglio alla sala delle ex Leopoldine. Ci sarà poi l’attrice, pedagoga e regista cubano-colombiana Mérida Urquia che il 2 luglio alle 10.30 alla Casa delle Donne (via delle Vecchie Carceri, 8) nella conferenza Teatro e violenza in Colombia, con Claudia Stella Rodriguez, rappresentante del Fondo colombiano di solidarietà per le vittime di giustizia e i loro familiari, in collegamento video. Sempre Mérida Urquia il 2 e 3 luglio terrà il workshop Il mio corpo, il mio sangue, l’altro da sé, alle Ex Leopoldine, e il 4 saranno gli spazi di Mad Murate Art District ad ospitare il suo spettacolo Flor de marmol, storia d’amore e testimonianza di memoria storica sulla sparizione forzata degli esseri umani in Colombia. In chiusura, il 13 luglio, una festa con dj set finale al Giardino della Catena al parco delle Cascine. Taranto. “Progetto fuorigioco”, vincono i magistrati e trionfa il fair-play Ristretti Orizzonti, 26 giugno 2024 Conclusa con grande successo la settima edizione del progetto trattamentale “Fuori…gioco!” per la rieducazione dei detenuti attraverso lo sport adottato nel carcere di Taranto. Dopo la visita alla Casa Circondariale di Roberto Donadoni, Renato Olive, Massimo Giove e di Eziolino Capuano, sabato scorso si è disputato sul manto erboso dello Stadio Iacovone l’attesissimo quadrangolare di calcio. A vincerlo sono stati i magistrati capitanati dal Pubblico Ministero Francesco Ciardo che dapprima hanno avuto la meglio sui detenuti in una semifinale combattutissima giocata all’insegna del Fair-Play e poi nella finalissima hanno superato la promettente compagine degli Agenti di Polizia Penitenziaria. Nella finale per il terzo e quarto posto i detenuti hanno superato gli avvocati ai calci di rigore. Tutte le gare si sono giocate nell’assoluta correttezza e rari sono stati i fischi dei direttori di gara. Nutrita partecipazione in tribuna, con una folta rappresentanza dei familiari dei ragazzi che stanno espiando le pene. A bordo campo massiccia la presenza dei rappresentanti delle più importanti Istituzioni statali (Regione Puglia, Comune e Provincia di Taranto), giudiziarie (Associazione Nazionale Magistrati, Ordine degli Avvocati, Unione Sportiva Forense Italiana) e sportive (Coni, Sport&Salute, AIC) che hanno patrocinato l’iniziativa. In concomitanza con gli incontri di calcio, per la prima volta nel campo B dello stadio si è svolto il servizio di animazione per bambini a cura della Cooperativa Sociale I.S.O.L.A. Plauso ai ragazzi rifugiati beneficiari del “Progetto Lgnet3” che hanno implementato con efficacia il servizio d’ordine ed alla Croce Rossa di Taranto presente con personale e mezzi di pronto soccorso. Nel corso della premiazione finale, l’ideatore e coordinatore del progetto Avv. Giulio Destratis ha inteso ringraziare ed omaggiare con targhe ricordo l’Amministrazione Penitenziaria ed in particolare l’Ispettore Capo Domenico Madeo del Corpo di Polizia Penitenziaria e la dott.ssa Doriana De Gaetani dell’Area Trattamentale dell’Istituto. Sono seguiti gli interventi della dott.ssa Nicoletta Siliberti Vice-Direttrice della Casa Circondariale di Taranto che ha premiato i Magistrati vincitori consegnando il trofeo nelle mani del dott. Maurizio Carbone, dell’On. Giovanni Maiorano componente della Commissione Parlamentare Antimafia che ha premiato la squadra della Polizia Penitenziaria e del vice-sindaco Gianni Azzaro che ha premiato l’avv. Manolo Gennari per gli avvocati. Il momento della consegna della coppa ai ragazzi detenuti è stato particolarmente significativo, giacché preceduto dalla lettura da parte del Giudice Rita Alessandra Romano, Segretario Sezionale dell’Associazione Nazionale Magistrati, di una lettera contenente i pensieri di un ragazzo recluso che ha messo in luce l’utilità del progetto nell’ottica di una efficace rieducazione del condannato. Racconti dal carcere: i giorni da reclusi in un podcast di Laura Badaracchi retisolidali.it, 26 giugno 2024 Racconti dal carcere è il podcast dell’associazione Antigone che raccoglie le voci dei detenuti a Rebibbia Nuovo Complesso. I suoni inquietanti di dentro e quelli persi lì fuori, gli odori che mancano, il tempo che non passa mai, la speranza. Si chiama “Racconti dal carcere” il podcast dell’associazione Antigone curato da Stefano Bocconetti e Federica Delogu. Raccoglie le voci delle persone detenute nel penitenziario romano di Rebibbia Nuovo Complesso che fanno parte della redazione di Jailhouse Rock, trasmissione radiofonica curata da Antigone e condotta (nonché ideata nel 2010) da Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, in onda ogni sabato dalle 16.30 alle 17.30 su Radio Popolare e altre radio italiane. Al programma collaborano i detenuti di Rebibbia e Bollate (Milano) che fanno il Giornale Radio dal Carcere (Grc), mentre la redazione di Rebibbia è protagonista del podcast. Racconti dal carcere: frammenti di una quotidianità reclusa - Ogni lunedì esce una nuova puntata, della durata di circa 5-7 minuti, con le voci dei reclusi che raccontano la quotidianità e aspetti specifici della loro esistenza dietro le sbarre. La prima puntata parte dalla domanda “Che cos’è il carcere?”; la seconda s’intitola “Il carcere e gli affetti (fuori)”, perché “per le persone recluse la tutela dell’affettività è come tendere un filo verso l’esterno. I legami affettivi si mantengono attraverso telefonate di 10 minuti, lettere, email e poche ore al mese di colloquio in presenza” e Fabio, con una lunghissima detenzione alle spalle, sintetizza: “Il carcere è un rovina-famiglia, sostanzialmente “. Il terzo episodio, Le parole del carcere, spiega come il penitenziario abbia “un suo linguaggio. È un vocabolario rimpicciolito, infantilizzante, o che comprende parole arcaiche o che esistono solo là dentro”. Qualche esempio? “La domandina, scopino, spesino, cancellino: tutti nomi che finiscono con -ino, nomi piccoli”, spiegano Stefano, Fabio, Mauro e Giuseppe. Nella quarta puntata il tema scelto riguarda “Il tempo recluso”, che dietro le sbarre “non passa mai. Poi, però, ci sono dei momenti in cui diventa velocissimo. Senza orologio in carcere è quasi impossibile stare”. Il racconto di suoni prima sconosciuti - Online da lunedì 3 giugno, la quinta puntata parla de “I suoni e gli odori del carcere”: “Quando si entra in carcere si entra una dimensione sensoriale diversa dall’esterno. Ci sono suoni che esistono solo in quel luogo, il rumore delle porte e dei blindi, le chiavi di ferro che tintinnano. E i suoni di fuori, in molti casi non ci sono più. Anche gli odori sono diversi”. Un detenuto racconta: “Quando ti hanno portato per la prima volta in carcere, la chiusura del cancello alle spalle è il rumore più brutto che una persona può assaporare, se si può dire assaporare”. E ancora, “la mattina alle 7 microfono: Giardinieri! Fabbri! Cucina! Scrivano! Portavitto! Un microfono in sezione che è assordante, ti fa svegliare e buttare giù dal letto”. I suoi del carcere “ti ricordano sempre dove ti trovi: l’udito si adatta a riconoscere i nuovi suoni”, dice la narratrice. “Quel suono della porta che si chiude Fabio l’ha sentito 15 anni fa: da allora non è ancora mai uscito in permesso e ha imparato a riconoscere ogni rumore dentro”. Rumori mai conosciuti prima, come la battitura alle sbarre della finestra “per vedere se è stata segata o meno. Il blindo che si chiude è un tintinnio di chiavi e di passi. La notte conosci i rumori degli agenti che vengono a visionarti”. Tutte le puntate del podcast Racconti dal carcere sono su Spotify e sul sito del rapporto Antigone - Entrato da pochi mesi in cella, Stefano svela i rumori dei pensieri che rimbombano costantemente nella sua testa e lo spaventano durante le ore notturne, quando la mente va a “cosa accade fuori, cosa ti stai perdendo, se qualcuno sta soffrendo la tua lontananza, i mancati gesti di affettività che ricevi solamente quelle poche volte al mese quando vedi i familiari o fai la chiamata o ricevi la posta all’indomani. Quelle poche ore di sonno vengono disturbate da questi rumori costanti”. Ci sono anche suoni che si portano “sempre nel cuore, come le feste con i tuoi familiari - riprende Fabio -, quello che è un suono che non riesci a togliertelo via: i tuoi figli che ti chiamano, tua moglie che ti chiama”. A Stefano manca anzitutto sentire il rumore “della macchinetta del caffè e la mia ragazza che mi portava il caffè a letto la mattina. Subito dopo mi manca il rumore del carrello della spesa che facevamo insieme decidendo cosa mangiare a pranzo e cena, prendere la macchina per portare al parco il nostro cagnolino, l’autobus e la metropolitana presi la domenica per andare a pranzo dai miei genitori, parlare con mio padre al telefono e l’avviso che mi ha sempre fatto: “Studia, studia, studia, è importante”… l’unico rumore che mi sono portato qui dentro, perché me lo continua a dire anche tramite e-mail. Mi manca il rumore della quotidianità, che qui dentro si è trasformato in altri rumori”. Per quanto riguarda gli odori in carcere, “costano 4.50 euro e sono due carote, una cipolla e un po’ di prezzemolo. Ci sono due appuntamenti quotidiani: uno alle 10.30 e uno alle 18.30, quando passa il vitto del carcere”, dice Stefano. E Fabio: “La fobia, quando passa quel carrello del mangiare, è un trauma. Ti manca il profumo di un figlio, di una moglie, l’odore di zagare, del fiore di mandarino, del mare, della salsedine. Al primo permesso premio, quando sarà, mi auguro di vedere il mare”. A Stefano manca “l’odore delle distese di grano, dei cereali che vengono raccolti, il ricordo della campagna e di mio nonno”. Sanità. Potrà farsi curare anche chi non ha una casa di Andrea Capocci Il Manifesto, 26 giugno 2024 La Camera ha approvato ieri all’unanimità la legge che allarga l’accesso ai servizi sanitari anche a chi è privo della residenza. La legge a prima firma di Marco Furfaro (Pd) colma così una delle lacune più gravi della nostra sanità. Sebbene la Costituzione tuteli la salute “come fondamentale diritto dell’individuo”, di fatto l’iscrizione al servizio sanitario nazionale è subordinata alla residenza anagrafica. Senza, è impossibile rivolgersi a un medico di base e o prenotare una visita medica. Questi diritti minimi verranno d’ora in poi garantiti anche a chi è privo di certificato di residenza. “La legge non solo restituisce il pieno diritto alle cure a decine di migliaia di persone - festeggia il deputato dem - ma finalmente sapranno che lo Stato non le ha abbandonate. E che uscire da una condizione di fragilità è possibile”. Per l’entrata in vigore sarà necessario il passaggio in Senato. L’unanimità è una sorpresa fino a un certo punto. Delle sei regioni che già oggi prevedono l’iscrizione alla Asl di chi non ha dimora, due (Emilia-Romagna e Puglia) sono governate dal centrosinistra e ben quattro (Abruzzo, Marche, Liguria e Piemonte) dalla destra. Fuori dagli slogan, pure la destra asociale sa che l’accesso alla salute è interesse collettivo. L’inedita convergenza ha richiesto però qualche compromesso. Nel testo originale il disegno di legge allargava direttamente alle nuove precarietà il perimetro della legge 833 del 1978 che istituiva il Servizio sanitario nazionale. Invece la versione approvata introduce il nuovo diritto con una formula più moderata: un “programma sperimentale” finanziato con un milione di euro all’anno fino al 2026 e mirato a “assicurare progressivamente” il diritto all’assistenza sanitaria alle persone senza dimora. Il fondo sarà destinato solo alle quattordici città metropolitane, le principali aree urbane che comprendono il 16% dei comuni e il 36% della popolazione. Se l’accordo reggerà al Senato, il diritto alle cure primarie raggiungerà dunque il 60% della platea potenzialmente interessata, che secondo le stime arriva a 50-60 mila persone prive persino di una residenza fittizia. L’indagine “L’anello debole” del 2022 stilata dalla Caritas su circa 24 mila persone senza dimora descrive una popolazione al 73% maschile e per due terzi straniera, che si concentra nelle grandi città o in aree come il foggiano e il pontino raccontate anche dalle cronache di questi giorni. Non si tratta solo di homeless: l’iscrizione all’anagrafe dei residenti è preclusa anche a chi vive in condizioni di precarietà abitativa oggi piuttosto diffuse. L’odioso decreto Renzi-Lupi del 2014 ha infatti negato la residenza agli occupanti organizzati nei movimenti per il diritto all’abitare ma anche a migliaia di inquilini costretti all’affitto in nero a prescindere dall’età, senza risparmiare bambini e anziani. La legge Furfaro consentirà di aggirarlo almeno per quanto riguarda la sanità. Droghe. Tutti i danni delle politiche restrittive di Denise Amerini collettiva.it, 26 giugno 2024 “Il gioco si fa duro” è il titolo del libro bianco sulle droghe, quindicesima edizione, un volume che come ogni anno fa un focus sul tema delle pene e della detenzione ed evidenzia come il sovraffollamento delle carceri sia provocato dalle normative sulle droghe, in particolare dall’articolo 73 del testo unico che punisce anche il solo possesso. Presentato ieri (24 giugno), è promosso da un cartello di associazioni che vede la Cgil insieme a Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cnca, Arci, Associazione Luca Coscioni, Lila. Minori in aumento - A fine 2023 su 60.166 detenuti ben 12.946 sono ristretti per quell’articolo, solo 994 per associazione finalizzata al traffico: il doppio in valori percentuali rispetto alla media europea. Se poi guardiamo i dati sui giovani, ci troviamo di fronte a una situazione ancora più preoccupante: sono in costante aumento i minori segnalati, il 97 per cento per il solo possesso di cannabinoidi, che entrano così in un percorso stigmatizzante, oltre che sanzionatorio. Anche la presenza in carcere di detenuti definiti “tossicodipendenti” resta estremamente elevata: al 31 dicembre il 28,9 per cento dei ristretti è certificato come dipendente da sostanze. In questo quadro, le misure alternative non forniscono risposte adeguate, anche in termini deflattivi, perché non sostituiscono la restrizione in carcere, ma si aggiungono a questa. Finte alternative - Per questo riveste particolare importanza l’attenzione che il libro bianco riserva, con diversi contributi, al tema delle alternative alla detenzione proposte dal governo, che si sostanziano non in una vera alternativa, ma in un luogo diverso di contenimento, con l’utilizzo delle comunità terapeutiche come luoghi dove inviare le persone, trasformandole in una sorta di carcere “privato”. Su questo abbiamo già espresso la nostra netta contrarietà. Le comunità non sono e non devono essere istituzioni totali separate: c’è bisogno di percorsi alternativi veri, di inclusione. Già oggi, come ben evidenzia il libro bianco, sono in campo proposte che potrebbero avere una sicura efficacia, in termini di deflazione delle presenze, e di risposte adeguate alle persone che fanno uso di sostanze. Ed è evidente come sarebbe finalmente necessario procedere con la modifica, da tempo richiesta, della legge 309/90, in particolare degli articoli 73, 74 e 75, con la regolamentazione legale della cannabis. Proibizionismo intransigente - Il quadro politico che abbiamo di fronte, invece, va in tutt’altra direzione. Basti pensare alle recenti dichiarazioni sulla messa fuori legge della cannabis light, che non ha nessun effetto stupefacente, fino a quelle di un ministro che vuole punire con la detenzione anche l’utilizzo di immagini della foglia di cannabis. Un governo che si dimostra autoritario in tutte le scelte: non tiene conto neanche dell’ultima conferenza nazionale, quella di Genova, non le dà nessun seguito e ne cancella i risultati, non mette nulla nei propri programmi ma, anzi, sostituisce tutto con dichiarazioni assolutamente ideologiche, che non tengono in alcun conto il contributo di esperti, studiosi, operatori. Campagne e piani inutili - Le uniche cose che il governo fa, insieme a dichiarazioni fondate sul più intransigente proibizionismo e a misure che aumentano le pene e le fattispecie di reato, sono l’inutile campagna “Fermati, pensaci un minuto”, e il piano contro il Fentanyl, che solleva un esagerato allarme su un’emergenza non verificata, senza nessuna strategia di intervento, per quanto riguarda il rafforzamento dei servizi e i necessari investimenti in termini di risorse e personale. Contesto internazionale - Il libro presenta poi un approfondimento sul contesto internazionale, a partire dalle recenti prese di posizione dell’Onu in tema di droghe e diritti umani, anche queste in controtendenza rispetto alle scelte del nostro governo. “A Vienna si rompe il consensus in nome della riduzione del danno, la questione dei diritti umani diventa finalmente centrale, in Europa si allarga il fonte della regolamentazione legale della cannabis, negli Stati Uniti Biden riclassifica la canapa rimuovendola dalla tabella delle sostanze più pericolose”. In Italia, invece, si prosegue nella guerra alla droga, i cui effetti sono evidenti, in termini di criminalizzazione e patologizzazione delle persone che usano sostanze. Dati e riflessioni - Da anni il libro bianco rappresenta uno strumento importante per la conoscenza e la diffusione dei dati, per la riflessione sullo stato delle politiche sulle droghe e degli interventi nel nostro Paese. Oggi ancora più utile, visto il contesto politico in cui ci troviamo: può e deve essere uno strumento per rafforzare le alleanze nel mondo delle associazioni e delle organizzazioni che chiedono un cambiamento radicale nelle politiche. Questo ha a che fare anche con i servizi: servono interventi di riduzione del danno, di limitazione dei rischi, servono investimenti nei servizi pubblici, risorse destinate alla promozione e stabilizzazione dei servizi di prossimità, con un diverso ruolo e protagonismo degli operatori, delle città. Il governo: “Epidemia di droga”. L’Onu: “Basta proibizionismo” di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 giugno 2024 Presentata ieri la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze. Aumentano i consumi tra i giovani. Ma secondo i dati Oms è l’alcol la sostanza più letale. In Italia è in corso una “diffusione pandemica di sostanze stupefacenti”. Lo sostiene il governo Meloni che ha presentato ieri, alla vigilia della giornata mondiale contro la droga, la Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze. Ad aprire le danze il plenipotenziario Alfredo Mantovano, sottosegretario di Stato, che ha evidenziato tre fattori: l’aumento dei consumi e delle sostanze, l’abbassamento dell’età del primo utilizzo, l’incremento del principio attivo. E poi, soprattutto, la scarsa consapevolezza di quanto fa male “qualsiasi tipo di droga”. Una generalizzazione utile a promuovere l’equiparazione tra cannabis e altre sostanze. Del resto, ha sostenuto, la classificazione di fumo ed erba come “droghe leggere” è antiscientifica. Tra i presenti anche il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara secondo il quale bisogna promuovere “la passione per il lavoro e la cultura della regola” come antidoto ai consumi. “La scuola deve ridare entusiasmo ai giovani”, ha detto. Il guardasigilli Carlo Nordio ha puntato il dito contro il rischio del Fentanyl, potente oppiaceo in arrivo dal mercato Usa, e del suo ingresso nelle carceri. Mentre il ministro della Salute Orazio Schillaci ha citato l’aumento del 5% tra il 2022 e il 2023 degli accessi ai pronto soccorso per uso di droga (i dati della relazione si riferiscono allo scorso anno). Molta evidenza è stata data ai numeri relativi ai più giovani, che registrano aumenti dei consumi. Quasi 960mila studenti, tra 15 e 19 anni, hanno provato una sostanza illegale almeno una volta nella vita e oltre 680mila nei dodici mesi esaminati. Nella maggior parte dei casi si tratta di cannabis, sebbene contrariamente alle altre sostanze questa registri un calo nella diffusione. Negli altri: cocaina (intorno al 2%), stimolanti (2/3%), allucinogeni (circa 2%) e Nuove sostanze psicoattive (intorno al 6%). Nei servizi pubblici e privati (Serd) per prevenzione, trattamento e riabilitazione delle dipendenze sono state trattate complessivamente 132mila persone: la metà per crack. Diminuiscono i morti: 227. L’anno precedente erano stati 298, ma il trend di lenta decrescita è decennale: nel 2013 furono 349. Altro capitolo è quello della popolazione carceraria: un terzo dei detenuti sono tossicodipendenti, mentre aumentano del 10% i minori denunciati per reati droga-correlati. E qui si vede l’altra faccia dei numeri, che sono sempre il prodotto di scelte politiche come il decreto Caivano che ha inasprito le pene per i minorenni che utilizzano sostanze, anche nei casi di lieve entità. In senso generale questa dinamica è mostrata bene dai dati del quindicesimo Libro bianco sulle droghe, rapporto indipendente curato da una coalizione di associazioni. “Nel 2023, 10.697 dei 40.661 ingressi in carcere, il 26,3%, sono stati causati dall’art. 73 del Testo unico sugli stupefacenti, ovvero detenzione a fini di spaccio”, dice lo studio. I detenuti per reati di droga sono il 34% del totale, ma su 12.946 solo 994 si trovano dietro le sbarre per il più grave articolo 74, che punisce l’associazione finalizzata al traffico di sostanze. “I dati che Mantovano e il governo hanno presentato sono l’ammissione che la guerra alla droga ha fallito”, ha dichiarato il segretario di +Europa Riccardo Magi. Secondo il deputato si delinea una “fisionomia criminale dello Stato italiano” che attraverso il testo unico sugli stupefacenti, norma con più di 30 anni, promuove la criminalizzazione e lo stigma dei consumatori, senza voler affrontare realmente i fenomeni sociali e i loro rischi reali. Lo dimostra anche l’emendamento al ddl sicurezza per colpire la cannabis light, quella con un basso contenuto psicoattivo, senza effetto drogante. Ieri l’Organizzazione mondiale della sanità ha reso noto che “2,6 milioni di morti ogni anno sono dovuti all’abuso di sostanze alcoliche, circa il 4.7% del numero complessivo di morti all’anno, mentre il restante 0.6% di milioni di morti deriva dall’abuso di stupefacenti psicoattive”. Per l’esperta indipendente dell’Onu Tlaleng Mofokeng, medica e relatrice speciale sul diritto alla salute fisica e mentale, “è arrivato il momento di smettere di fare la guerra alla droga per promuovere la depenalizzazione e favorire politiche di riduzione del danno”. Lo ha dichiarato davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Chissà se il governo italiano ha sentito. Droghe. La guerra di Alfredo, ultimo giapponese di Franco Corleone Il Manifesto, 26 giugno 2024 Ho conosciuto Alfredo Mantovano, giovane deputato della destra, preparato e non arrogante, nella XIII legislatura dal 1996 al 2001 in cui ero sottosegretario alla giustizia preparato e non arrogante; suo compagno di partito era l’onorevole Simeone che con Luigi Saraceni firmò una importante legge contro discriminazioni classiste ed evitare inutili carcerazioni in attesa di misure alternative alla detenzione. Altri tempi davvero. Oggi Mantovano è l’esponente più agguerrito del governo Meloni e le incombenze della gestione del potere non gli impediscono di coltivare l’ossessione sulla droga e di sostenere le tesi del proibizionismo ideologico più manipolatorie e infondate. Mantovano è stato il vero ispiratore della legge Fini-Giovanardi che costituì un aggravamento incredibile della legge già pesante, la Iervolino- Vassalli voluta da Bettino Craxi, fondata su un assunto integralista per cui “la droga è droga”, senza differenza tra le sostanze, eliminando la distinzione tra droghe leggere e pesanti e prevedendo per la detenzione, la cessione gratuita e lo spaccio una pena da otto a venti anni di carcere. Si dovette aspettare la decisione della Corte costituzionale nel 2014 per vedere cancellato questo obbrobrio giuridico. Oggi come responsabile del Dipartimento antidroga cavalca nuovamente la crociata salvifica che ha come nemico assoluto la canapa e come vittime i consumatori colpevoli di ricercare un piacere dissoluto e inaccettabile. Giovani da incarcerare per costringerli a pentirsi e a salvare l’anima accettando una chiusura in una comunità chiusa. Dalle sbarre alle catene. Ieri è stato presentato il XV Libro Bianco elaborato dalla Società della Ragione, da Antigone, da Forum Droghe, dal Cnca e molte altre associazioni impegnate per la riforma, sugli effetti della legge antidroga sulla giustizia e sul carcere, ma Mantovano si è guardato bene dal rispondere ai dati inoppugnabili che testimoniano la causa del sovraffollamento carcerario: 20.515 detenuti, il 34,1%, sono in carcere per violazione dell’articolo 73 della legge antidroga e 17.406 detenuti, il 28,9%, sono classificati come tossicodipendenti. Numeri che dovrebbero fare rabbrividire e che spiegano la realtà di un carcere ridotto a discarica sociale. Invece si balocca nel riproporre miti rancidi come la droga di passaggio e il terrorismo sul livello di Thc nei cannabinoidi per cui la cannabis sarebbe non più lo spinello di una volta (quando Mantovano faceva il magistrato) con il principio attivo dell’1% ma ora sarebbe attestato al 29%. Lasciamo stare l’aneddotica personale, ma è davvero truffaldina la mistificazione del dato della resina (hashish) con le infiorescenze, il classico fumo, che mantengono da anni il livello al 12-13%. Va detto che la cannabis terapeutica prodotta dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze ha un livello di Thc vicino al 20%. Se le conseguenze non fossero tragiche - infatti il governo ha aumento le pene, fino a cinque anni di carcere per i fatti di lieve entità e si appresta a penalizzare anche la cannabis light senza potere drogante - si potrebbe provare compassione per lo spirito da soldato giapponese di Mantovano. Non si rassegna alla sconfitta nel mondo, a cominciare proprio dagli Stati uniti che iniziarono la war on drugs, con la svolta in atto della legalizzazione della cannabis. Lo stigma morale si è concretizzato dal 1990 ad oggi in una persecuzione di massa contro i giovani, con un 1.400.000 segnalazioni ai prefetti per mero consumo e più di un milione per una canna subendo sanzioni amministrative gravi, come il ritiro della patente e del passaporto. Ricordo che Alfredo Mantovano il 2 dicembre del 2003 scrisse una lettera al Corriere della Sera in cui tra l’altro sosteneva che “la libertà della droga è già stata sperimentata e ha fallito”. Paolo Mieli replicava seccamente: “Tenderei ad escludere che in Italia sia mai stata sperimentata, come lei dice, non dico la libertà ma anche solo la legalità della droga. Sono anni che lo Stato insiste a proibire anche le sostanze leggere e i risultati sono quelli da lei descritti. Infine fa sorridere, mi creda, il tentativo di riversare la colpa di ogni calamità in questo campo su quel (peraltro disatteso) referendum del 1993”. Siamo sempre qui, sul terreno simbolico e sul confronto tra una concezione del diritto laico e la deriva “morale” della legge. Mantovano dovrebbe accettare la sfida nel Paese. Le associazioni sono pronte al referendum per dire “basta al carcere” e chiedono al governo di rendere utilizzabile la piattaforma per la raccolta digitale delle firme che da due anni è bloccata. Se Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, fa cessare il boicottaggio della democrazia, avremo un’estate calda e l’anno prossimo una prova tra repressione e libertà. In Italia il 26% dei detenuti in carcere per violazione delle leggi sulle droghe, la media europea è del 18% di Stefano Baudino L’Indipendente, 26 giugno 2024 Nel nostro Paese sono tornati a salire gli ingressi in carcere per reati di droga: ben 10.697 delle 40.661 entrate nelle case circondariali italiane del 2023 sono infatti state causate dall’art. 73 del Testo Unico, ovvero “detenzione a fini di spaccio”. Si tratta del 26,3% del totale (nel 2022 era il 26,1%). È quanto emerge dai dati pubblicati nella nuova edizione del Libro Bianco, un rapporto indipendente redatto da associazioni e sindacati sul modo in cui il Testo Unico sugli stupefacenti impatta sul sistema penale, sui servizi e sulla società. Il report rivela che, degli oltre 60 mila detenuti presenti in carcere nel periodo di riferimento, 12.946 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo Unico, mentre altri 6.575 lo erano per il combinato disposto tra art. 73 e l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 994 erano in galera esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente, si trova dietro le sbarre per la legge sulle droghe oltre il 34% dei detenuti, quasi il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella globale (22%). Nel rapporto si legge che “la simulazione di un carcere senza i prigionieri frutto della legge proibizionista sulle droghe rende evidente che non ci sarebbe sovraffollamento e il carcere potrebbe essere l’extrema ratio”, così come “scomparirebbe anche l’intasamento dei tribunali”. Il Libro Bianco spiega inoltre che un’ampia fetta delle persone che entrano in galera fa uso di droghe. Restano infatti elevatissimi i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti che vengono definiti “tossicodipendenti”, che dopo la fase pandemica sono tornati ad aumentare: nello specifico, lo sono il 38,1% di coloro che sono entrati nei centri di detenzione, mentre all’ultimo giorno del 2023, dietro le sbarre, se ne contavano ben 17.405 “certificati”, circa il 29% del totale. “D’altro canto, continuano ad aumentare le misure alternative, ma senza svuotare le galere, che subiscono un costante aumento di ristretti, e continuiamo a registrare una distonia tra il generico affidamento in prova ai servizi sociali, cui si accede prevalentemente dalla libertà, e quello specifico per tossicodipendenti, che nella gran parte dei casi passa per un ‘assaggio’ di carcere”, scrivono ancora gli autori del documento. Esaminando i numeri si nota infatti che, oltre ai 60mila detenuti, al 31 dicembre del 2023 erano in carico per misure alternative e sanzioni di comunità (Messa alla Prova) “ulteriori 83.703 soggetti”. Il rapporto fa notare che le misure alternative hanno fatto registrare negli ultimi anni un enorme incremento, pari addirittura al +1.037,7% sul 2006. All’interno di un paragrafo, il Libro Bianco si focalizza sul tema delle segnalazioni e delle sanzioni amministrative per il consumo di droghe illegali. Nel report si attesta come, dal 2020 in poi, il numero di persone segnalate rimarrebbe pressoché stabile, aggirandosi intorno alle 40mila unità. “Il 38% delle segnalazioni finisce con una sanzione amministrativa, le più comuni la sospensione della patente (o il divieto di conseguirla) e del passaporto - si legge nel documento -. Questo anche in assenza di un qualsiasi comportamento pericoloso messo in atto dalla persona sanzionata”. Dal 1990, più di un milione di persone sono state segnalate per possesso di derivati della cannabis. Il rapporto dà inoltre atto di come la repressione per il consumo di droghe si stia abbattendo sui minori, che “entrano così in un percorso sanzionatorio stigmatizzante e alla fine dei conti desocializzante e controproducente”. Tra coloro che sono oggetto di segnalazione, il 97% lo è per cannabinoidi. La Corte Europea dei diritti umani chiede al nostro Paese di mettere mano al dramma del sovraffollamento carcerario dall’estate del 2009, quando partorì la prima condanna ai danni dell’Italia a causa della violazione dell’art. 3, che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. Eppure, il governo Meloni ha fin da subito cercato di mostrare mediaticamente il suo “pugno di ferro” attraverso la costante creazione di nuove fattispecie di reato, come testimoniano le norme contenute nel “decreto Rave”, nei decreti immigrazione e nel “decreto Caivano”. Lo scorso novembre è stato poi varato dall’esecutivo il pacchetto sicurezza, in cui è stata prevista l’introduzione di nuovi reati nel codice penale e forti inasprimenti di pena. Fratelli d’Italia punta inoltre all’inasprimento delle pene per spaccio e detenzione di droga, anche nei casi di lieve entità: nell’aprile del 2023, la deputata Augusta Montaruli, condannata per peculato nel caso rimborsopoli, ha presentato una proposta di legge in cui si alza a 5 anni la pena massima per chi produce, traffica e detiene sostanze stupefacenti o psicotrope quando il fatto è “di lieve entità”. La costruzione del nemico migrante di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 26 giugno 2024 Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse la prima grande manifestazione contro il razzismo. Quella data segna la nascita di un movimento antirazzista per i diritti delle persone di origine straniera e contro ogni forma di discriminazione. A distanza di 35 anni, la condizione del mondo dell’immigrazione è peggiorata e, nonostante il numero di migranti sia cresciuto (da poche centinaia di migliaia del 1989 a più di 5 milioni oggi), abbiamo visto diminuire la visibilità e il protagonismo di migranti e rifugiati, in parallelo a un aumento della politicità dell’argomento e di un uso sempre più strumentale a fini elettorali. La scarsa presenza nel dibattito pubblico sull’immigrazione dei protagonisti, insieme all’uso aggressivo di argomenti razzisti, ha portato a una progressiva disumanizzazione delle persone, permettendo a politici e giornalisti spregiudicati di usare argomenti esplicitamente razzisti senza alcuna vergogna. Questa condizione ha autorizzato chiunque a considerare stranieri, migranti, rifugiati, lavoratori e lavoratrici come numeri, la cui vita evidentemente non vale nulla. Le affermazioni di Renzo Lovato, datore di lavoro di Satnam Singh, sulla responsabilità del lavoratore morto “per mancanza di attenzione”, cancellano le circostanze che ne hanno determinato la morte, nonché l’elemento essenziale di quella che è una nuova forma di schiavitù, con condizioni note a tutti come il lavoro nero, lo sfruttamento e il ricatto legato al permesso di soggiorno. Questo ricorda chiaramente quanto disse il ministro Piantedosi all’indomani della strage di Cutro: ““L’unica cosa che va detta e affermata è che i migranti non devono partire”. E subito dopo: “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Insomma, la colpa è delle vittime che scelgono di morire perché sono irresponsabili, mettendo a rischio le loro vite e quelle dei figli. Se lo dice un ministro della Repubblica, perché non dovrebbe dirlo un datore di lavoro che non si vergogna di un atto crudele e criminale? Le parole allucinanti di Piantedosi all’epoca di quella strage furono seguite da una scelta coerente di tutto il governo, che si riunì subito dopo, proprio nel luogo della strage, per approvare una legge contro l’immigrazione legale e a sostegno dei trafficanti, senza peraltro stringere la mano e portare il cordoglio dell’Italia ai superstiti e ai familiari delle vittime. Un governo che ha impostato tutta la sua azione in questo ambito proprio sulla costruzione del nemico, da dare in pasto all’opinione pubblica con profluvio di leggi e accordi in sfregio della Costituzione e del diritto internazionale. Una forma esplicita di razzismo di stato che va contrastata con forza, mettendo in campo un’alternativa dal basso, dai territori. Oggi, come nel 1989, un fatto tragico legato allo sfruttamento lavorativo, non un incidente ma un vero omicidio, può rappresentare l’elemento che fa scattare la reazione dell’Italia antirazzista. Un movimento che non è minoranza in Italia, ma che prende raramente la parola, come di rado la prendono le persone di origine straniera sulle questioni che le riguardano direttamente. È necessario che il prossimo autunno, proprio in prossimità di quella data che ha visto l’avvio di una mobilitazione importante per la lotta contro il razzismo nel nostro Paese, si faccia tutto il possibile per portare in piazza quella parte d’Italia che non vuole arrendersi alla disumanizzazione delle persone, all’attacco alla civiltà giuridica italiana ed europea e all’avanzata delle destre xenofobe in tutta l’Ue, per gli interessi dei partiti che sul razzismo hanno costruito la loro fortuna, il loro business e non certo nell’interesse del Paese. Una mobilitazione che va preparata con assemblee territoriali, in tutti i luoghi nei quali le persone, soprattutto migranti e rifugiati, si incontrano per discutere e organizzare la partecipazione, ridando finalmente la parola ai protagonisti. C’è il tempo per farlo, per far crescere dai territori una grande mobilitazione. Per ribaltare l’idea che il razzismo paga elettoralmente, che parlare di diritti e uguaglianza è impopolare e affermare con forza che ciò che serve per rimotivare le persone a partecipare è un’idea giusta e praticabile di società accogliente e aperta. Se non ora, quando? *Arci Julian Assange e il contropotere dell’opinione pubblica di Vincenzo Vita Il Manifesto, 26 giugno 2024 Dall’associazionismo globale (e italiano) al lavoro di ricerca del team legale, la liberazione del fondatore di WikiLeaks passa anche per la spinta dal basso. Un respiro di sollievo nelle prime ore della notte tra lunedì e martedì scorsi: all’1.44 ecco la notizia sognata. Assange è libero. A breve - il 9 e 10 luglio - l’Alta Corte del Regno unito avrebbe preso una decisione definitiva. Ma qualche giorno prima, finalmente, le porte del carcere speciale di Belmarsh (chiamato la Guantanamo inglese) si sono aperte. Il collegio di difesa ha strappato al dipartimento di giustizia statunitense la possibilità di patteggiare il primo capo di imputazione previsto dall’Espionage Act del 1917 (la cospirazione per ottenere notizie riservate). L’eventuale pena non sarà superiore, comunque, a quella già scontata. Ricordiamo che il giornalista australiano è nell’occhio del ciclone dal 2010 e segregato in un vero e proprio luogo di tortura dal 2009. Bene ha fatto il gruppo forense che ha tutelato il nemico pubblico dei servizi segreti d’oltre oceano supportati dai buoni servigi della Svezia, dell’Ecuador da un certo punto in poi, della Gran Bretagna costola di Washington a patteggiare. Del resto, il rito accusatorio laggiù è portato alle estreme conseguenze: o si patteggia o si soccombe. Tertium non datur. I processi non sono quelli che Hollywood ci regala nei legal thriller alla moda, magari con Harrison Fard o Al Pacino. O sei ricchissimo e ti puoi permettere cauzioni milionarie, o patteggi. Le ulteriori possibilità riguardano i disperati della terra, cui è riservata una cella invivibile le cui chiavi sono gettate nella spazzatura. Insomma, Stella Moris, la moglie avvocata di Assange e lo stuolo di giuristi tra cui il notissimo Balthasar Garzon (quello delle mani pulite spagnole) che seguono un caso che farà storia sono riusciti a ridimensionare a uno i diciotto capi di accusa rovesciati sul fondatore di WikiLeaks. Un risultato forse insperato è stato raggiunto, certamente da un eccellente stuolo di legali. Tuttavia, non si sarebbe arrivati a un simile risultato senza una tenacissima azione di associazioni, comitati FreeAssange, movimenti, nonché organizzazioni sindacali e lo stesso Ordine nazionale dei giornalisti. Quest’ultimo, anzi, ha aperto la strada a molteplici riconoscimenti del e sul valore professionale di una persona che una malvagia vulgata voleva relegare alla vituperata categoria dei “pirati”. No. Assange è un giornalista meritevole di un premio, non di una ossessiva persecuzione. Se non si considera giornalismo la pubblicazione di notizie di interesse pubblico come i racconti delle guerre e dei crimini connessi, allora ci si crogioli nel gossip. L’attacco a WikiLeaks è stato la prova generale dell’offensiva contro la sfera di autonomia e indipendenza del diritto di cronaca. Le dichiarazioni ostili all’accordo urlate dall’ex vice di Donald Trump, Mike Pence, ci spiegano bene di cosa stiamo parlando. Naturalmente, guai ai rischiosi trionfalismi. Domani è un altro giorno, e capiremo meglio. Si è detto dell’iniziativa di associazioni come Articolo21, ReteNoBavaglio, Amnesty International, i diversi Comitati FreeAssange o dei tantissimi video di artiste e artisti coordinati da “La mia voce per Assange”; nonché di personalità della cultura come Laura Morante e Davide Dormino con la sua scultura itinerante Anything to say?. La spinta è venuta dall’indefesso lavoro di ricerca e approfondimento della giornalista e scrittrice Stefania Maurizi e dal primo appello lanciato dal premio Nobel per la pace del 1980, l’argentino perseguitato dalla giunta militare Pérez Esquivel, in cui si evocava - appunto - il grande contropotere costituito dall’opinione pubblica. Assange è libero, Navalny è morto: ecco la differenza tra democrazia e dittatura di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 26 giugno 2024 Dopo la morte del dissidente russo, i soliti noti hanno accusato l’occidente di “ipocrisia” e “doppiopesismo”. Ma in Occidente è ancora lecito manifestare, evidentemente anche con successo.Nei giorni successivi alla morte di Alexei Navalny avvenuta in circostanze misteriose in una colonia penale della Siberia, i soliti noti si sono prodigati nel paragonare il caso del dissidente russo a quello di Julian Assange, accusando l’opinione pubblica occidentale di “ipocrisia”, perché in fondo l’oppositore di Vladimir Putin e il fondatore di Wikileaks sarebbero due facce della stessa medaglia, entrambi vittime di un potere che non tollera e che punisce il dissenso, a Mosca come a Washington. Lo ha fatto il leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte, lo ha fatto Michele Santoro, oggi frontman di Pace terra e dignità e, naturalmente, lo ha fatto in bello stile l’intellettuale d’area Marco Travaglio condannando il “doppiopesismo” e l’idea che alla Casa Bianca ci siano i buoni, mentre al Cremlino alberghino i cattivi. Onestamente non sappiamo quanta personale cattiveria muova le scelte di Joe Biden o quanta animi quelle di Vladimir Putin e in fondo neanche ci interessa. Di sicuro quando i governi entrano in guerra, quando approvano leggi che non ci piacciono, in Occidente si può ancora manifestare, nelle piazze, nei media, sul web. E si possono organizzare, evidentemente con successo, campagne internazionali contro l’ingiusta detenzione di un giornalista che ha rivelato segreti (e crimini) di Stato. In Russia, al contrario, quando alzi la voce per contestare qualsiasi scelta del regime, finisci dritto in galera. Ne sanno qualcosa le migliaia di pacifisti arrestati dopo l’invasione militare dell’Ucraina nel febbraio del 2022. È la differenza tra la democrazia e la dittatura, tra lo Stato di diritto e quello di arbitrio, tanto che Alexei Navalny è morto, mentre Julian Assange, per fortuna, è tornato a essere un uomo libero. Ma l’intimidazione della stampa è andata a segno di Marina Castellaneta Il Manifesto, 26 giugno 2024 Una saga legale che sembra chiusa, ma destinata ad avere effetti di lunga durata sulla libertà di stampa e sul diritto ad informare e a essere informati. Una detenzione durata 5 anni nel carcere di Belmarsh, ma molto più lunga se si considera la sostanziale reclusione nell’ambasciata ecuadoregna di Londra. La scarcerazione, anche se l’iter giudiziario non è concluso, è avvenuta ieri dopo il raggiungimento di un accordo tra il Dipartimento della giustizia statunitense e Assange. Un accordo a cui ha dato certamente un impulso decisivo il provvedimento dell’High Court di Londra che aveva concesso ad Assange la possibilità di presentare un nuovo appello contro il provvedimento di estradizione negli Usa deciso dalle autorità inglesi. Questo avrebbe significato per l’amministrazione americana un nuovo round nelle aule di giustizia inglesi con l’opinione pubblica sempre più mobilitata a favore di Assange. Non solo. Proprio nell’ultimo anno anche alcuni governi e organismi internazionali si sono attivati. Prima la Relatrice speciale Onu contro la tortura, Alice Jill Edwards, aveva chiesto, nei mesi scorsi, alle autorità inglesi di fermare l’estradizione di Assange e poi il governo australiano, dopo anni di silenzio rispetto a ciò che stava subendo Assange, si è risvegliato e grazie al premier Anthony Albanese ha iniziato a fare pressioni su Usa e Uk per il rilascio del proprio cittadino. Alle 18.36 del 24 giugno, quindi, Assange ha lasciato il carcere di massima sicurezza. Dal punto di vista giuridico, però, il cammino non è concluso anche se vicino alla fine. Queste le nuove tappe fissate dall’High Court of Justice che con l’ordinanza depositata il 25 giugno ha concesso la libertà condizionata ad Assange per consentirgli di recarsi presso il Tribunale distrettuale Usa di Saipan in base all’accordo di patteggiamento concluso il 19 giugno. La prima tappa di Assange, quindi, saranno le isole Marianne: in tribunale il fondatore di WikiLeaks dovrà dichiararsi colpevole di aver cospirato per ottenere e diffondere informazioni classificate (capo di accusa numero uno) con una proposta di pena da scontare (che, in pratica, coinciderà con il periodo di carcere già subito in attesa dell’estradizione) e una rinuncia degli Usa alla richiesta di estradizione. Poi, forse con qualche altra restrizione, Assange tornerà in Australia. L’accordo di patteggiamento dovrà essere definito entro il 26 ed entro il 28 giugno dovrà essere trasmesso ai giudici inglesi. Poi il caso, anche per Londra, sarà chiuso. Una conclusione che certo non segna il trionfo della libertà di stampa, ma che almeno porta alla libertà di Julian Assange, gravemente provato dalla lunga detenzione e che allontana per sempre lo spettro di una condanna che sarebbe potuta arrivare fino a 175 anni di carcere. Ma in ogni caso, il cosiddetto chilling effect sulla libertà di stampa è stato realizzato e continuerà a produrre i suoi effetti. Difficile che un giornalista si avventuri nella divulgazione di notizie sui crimini presumibilmente commessi durante i conflitti dalle grandi potenze perché le gravi pene e il trattamento disumano e degradante subito dal fondatore di WikiLeaks in ragione di non chiarite esigenze di sicurezza nazionale potranno sempre essere chiamate in ballo per bloccare la libertà di stampa. È così necessario un intervento ad ampio raggio degli organismi internazionali a tutela dei diritti umani tenendo conto che i tanti anni di privazione della libertà personale hanno mostrato che anche i Paesi vincolati a convenzioni internazionali a tutela della libertà di espressione non esitano a calpestarla per nascondere alla collettività fatti di sicuro interesse pubblico. Stati Uniti. La grande crisi del sistema carcerario di cui nessuno vuole parlare di Alessio Marchionna Internazionale, 26 giugno 2024 Tra tutte le grandi crisi degli Stati Uniti ce n’è una che viene sistematicamente rimossa dal dibattito pubblico, soprattutto quando ci sono le elezioni. È quella che riguarda il sistema carcerario e penale. Succede per un motivo abbastanza ovvio: per mettere mano a un problema così grande - gli Stati Uniti sono il paese occidentale con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione - servirebbe una riforma radicale che implicherebbe necessariamente un approccio meno punitivo, ma nel paese non c’è un consenso politico abbastanza ampio per andare in questa direzione. Anche se la criminalità a livello nazionale è in calo da anni, tanti elettori sono convinti che la situazione sia fuori controllo, soprattutto nelle grandi città. E mentre i repubblicani continuano a proporre l’approccio della tolleranza zero, i democratici, che storicamente si sono battuti per la riforma della giustizia penale, rimangono sulla difensiva. Questa dinamica spiega anche l’inazione dell’amministrazione Biden. L’attuale presidente aveva preso impegni importanti su questo tema durante la campagna elettorale del 2020: riformare il sistema delle cauzioni, che crea disparità tra gli imputati, perché chi ha i mezzi per pagare può uscire di prigione in attesa del processo, chi non ne ha resta dentro o si indebita per pagare la cauzione; modificare la leggi che impongono condanne minime obbligatorie per determinati reati, che negli anni hanno fatto lievitare il numero dei detenuti; abolire la pena di morte a livello federale. Biden aveva anche detto che la popolazione carceraria degli Stati Uniti andrebbe ridotta di più della metà (attualmente nelle prigioni ci sono più di due milioni di persone). Il Marshall Project, un’organizzazione che si occupa di carceri e sistema penale, aveva definito le proposte di Biden “le più progressiste di un candidato alle presidenziali da generazioni”. Questo spiega perché i detenuti cercano di trovare ogni modo possibile per esprimersi: per sensibilizzare la società sulla loro situazione, per comunicare con altre persone nella loro condizione o semplicemente per avere uno spiraglio verso un futuro dignitoso. Di recente hanno avuto molto successo podcast come Ear hustle, che racconta in modo straordinario la vita in una prigione della California; il New York Times pubblica da anni gli articoli di John J. Lennon, un uomo che sta scontando una pena di 28 anni in una prigione dello stato di New York; in alcune prigioni i detenuti hanno realizzato nel tempo decine di opere d’arte che sono diventate un patrimonio culturale di tutta la società; il Marshall Project fa un gran lavoro nel riportare storie e notizie dalle carceri di tutto il paese. Le nuove tecnologie e la crescita della consapevolezza nelle redazioni su questo tema hanno moltiplicato le possibilità, ma i detenuti sperimentano da sempre strumenti per esprimersi e comunicare. L’Mpr News, una radio che trasmette storie e notizie dal Minnesota, ha dedicato un articolo al Prison Mirror, una pubblicazione mensile realizzata da e per i detenuti della prigione di Stillwater, stampata per la prima volta nel 1887. “Pubblicazioni come questa non sono comuni negli Stati Uniti, ma in un’epoca in cui molte testate giornalistiche nel mondo libero chiudono o licenziano dipendenti, il giornalismo dietro le sbarre sta crescendo. Secondo le stime, trent’anni fa nelle carceri di tutto il paese c’erano solo sei giornali. Oggi sono quasi trenta, e il dato non tiene conto delle centinaia di scrittori detenuti che mandano articoli a pubblicazioni esterne, come la serie Life Inside del Marshall Project”. I detenuti di Stillwater scrivono per la rivista recensioni di libri, articoli in cui spiegano questioni legali, riassunti di eventi locali, nazionali e internazionali. “Un detenuto ha recentemente proposto ai redattori un saggio sulla nostalgia di casa. Un altro ha scritto un editoriale che critica le chiusure delle celle. Tre persone mandano avanti tutto il lavoro: Richard Adams, Paul Gordon e Patrick Bonga”. È interessante sentirli spiegare come si sono avvicinati al giornalismo. Gordon, che sta scontando una condanna all’ergastolo per omicidio da quasi 20 anni, lavora al Prison Mirror da pochi mesi. “Credo che il mio compito sia esporre le posizioni e lasciare che le persone arrivino alle loro conclusioni. Spero di scrivere qualcosa di importante e, attraverso la scrittura, di lasciare un’impronta molto diversa da quella che ho già lasciato finora nel mondo”. Bonga, il redattore con più esperienza, dice che lo sforzo di includere tutti i punti di vista di una storia ha cambiato il suo modo di pensare al mondo. È entrato e uscito di prigione più volte. Ora è dentro per aggressione e racconta che il giornale lo sta aiutando a rompere il ciclo. “Per i primi quarant’anni della mia vita qualsiasi altra opinione diversa dalla mia non aveva importanza. Ma ora, dovendo essere obiettivo e dovendo mettere insieme storie che non siano unilaterali, sto iniziando a lottare contro i pregiudizi. E questa è una cosa importante”. Adams dice di voler raccontare storie positive: “Non voglio portare la negatività sul giornale perché sappiamo tutti che ci sono tante cose sbagliate”. Nella sua cella ha messo una cassetta dove gli altri detenuti possono lasciare dei foglietti con suggerimenti o richieste su ciò che vogliono leggere. Vuole anche aprire una rubrica di consigli. È un padre e pensa che altri uomini abbiano domande su come essere un buon genitore, anche se il loro rapporto con i figli si riduce alle telefonate. Fare il giornalista in una prigione è difficile per via dell’accesso alle fonti - i detenuti non possono collegarsi a internet e per sapere cosa succede nel mondo si affidano soprattutto agli articoli di giornale stampati dal personale della prigione - e a causa del controllo che viene fatto sui loro pezzi prima della stampa. “Le autorità carcerarie devono approvare tutto ciò che il giornale pubblica. Questo, spiegano i redattori, può limitare ciò che scrivono, soprattutto se vogliono raccontare gli aspetti più duri della loro vita. ‘Sono limitato nel senso che non mi permetteranno di pubblicare aspetti assurdi che riguardano l’acqua, le chiusure, le condizioni di detenzionè”, dice Gordon. Lo scorso autunno circa cento prigionieri di Stillwater si sono rifiutati di tornare nelle loro celle, per protestare contro il caldo estremo, la scarsa qualità dell’acqua e la carenza di personale. Gordon ha intenzione di scriverne, ma dice che in passato ha subìto ritorsioni per aver inviato i resoconti a pubblicazioni esterne. “All’epoca scrivevo in modo molto più aggressivo, e questa è stata un’esperienza formativa”, dice. “Se si viene puniti si possono perdere i crediti che permettono di avere una riduzione della pena per buona condotta. Possono mandarci in isolamento o revocare i nostri privilegi”. Un tema centrale, quando si parla di detenuti e rappresentanza politica, è quello del diritto di voto. Storicamente gli Stati Uniti hanno impedito di votare alle persone condannate per un reato, in alcuni casi in modo permanente, cioè anche dopo che avevano finito di scontare la pena. Le cose hanno cominciato a cambiare negli ultimi decenni, e ora c’è la tendenza a ripristinare il diritto di voto a un certo punto del percorso. Si tratta comunque di una scelta politica che spetta ai singoli stati, quindi le regole variano molto tra le varie zone del paese. Qui un utile riassunto stato per stato. Quattro anni fa, prima delle elezioni presidenziali, Slate e Marshall Project pubblicarono i risultati di un sondaggio condotto tra più di ottomila detenuti, il primo di questo tipo nella storia statunitense. I risultati restano interessanti, non tanto per la preferenza tra Biden e Trump ma per i temi sollevati dalle persone dietro le sbarre. Turchia. Öcalan sempre più isolato. Appello al Comitato europeo per la prevenzione della tortura di Stefano Galieni Left, 26 giugno 2024 Da tre anni il leader curdo non comunica direttamente con nessuno. È dal 1999 che si trova nella prigione-isola di Imrali. Dopo l’ennesimo divieto di visita indirizzato ai suoi avvocati, dall’Italia è stato inviato un appello a Alan Mitchell, presidente dell’organismo del Consiglio d’Europa, del quale fa parte anche la Turchia. La sorte del presidente Abdullah (Apo) Öcalan riguarda molto da vicino le responsabilità del nostro Paese, dove giunse in fuga dalla Turchia in quanto accusato, da leader del Partito dei lavoratori curdi (Pkk), di attività separatista. Il reato, considerato terrorismo non solo in Turchia, era allora punito con la pena di morte; per tale ragione dopo essere arrivato nel novembre 1998 a Roma, il governo italiano non poteva estradarlo ma, sia per i tempi allora necessari alla magistratura che per le pressioni ricevute, non poteva concedergli asilo politico. La storia poi è nota: Öcalan venne mandato in Kenia, dove, all’aeroporto di Nairobi venne preso in consegna da ufficiali dei servizi turchi che lo riportarono al Paese di provenienza. Era il 15 febbraio 1999. Da allora è rinchiuso nell’isola carcere di Imrali. Öcalan ha passato gran parte degli anni in isolamento, ha evitato la pena capitale ma è sepolto vivo in una cella. Tutto quanto gli è accaduto finora, viola la totalità delle norme del diritto internazionale che la Turchia, in quanto Stato membro dal 1949 del Consiglio d’Europa, l’organizzazione per i diritti umani, dovrebbe rispettare. E non è bastato nemmeno il fatto che sin da prima della sua cattura, il presidente kurdo abbia lanciato proposte per una soluzione pacifica del conflitto nell’area che non si è mai interrotto, ideando la proposta di un “confederalismo democratico”, in grado di superare ogni forma di nazionalismo e di separazione etnica. Venticinque anni dopo la sua cattura, il 3 maggio scorso, gli avvocati di Öcalan hanno ricevuto un ulteriore divieto di accesso al loro cliente, che si trova da 38 mesi in condizioni di isolamento assoluto, in violazione del diritto umanitario internazionale. I ripetuti divieti imposti dall’amministrazione carceraria turca sono considerati arbitrari, gli appelli vengono sistematicamente respinti. Non si hanno più notizie di Öcalan da quando ha potuto avere una breve conversazione telefonica con il fratello, avvenuta il 25 marzo 2022. Nonostante le continue preoccupazioni per la sua salute, a Öcalan e ad altri tre prigionieri, Ömer Hayri Konar, Veysi Akta? e Hamili Y?ld?r?m, è stato imposto un ulteriore divieto di visita da parte degli avvocati per sei mesi. Gli avvocati dello studio Asrin, che seguono da anni la vicenda, avevano presentato una ulteriore richiesta per incontrare i loro assistiti. “Il 3 maggio siamo stati informati di un nuovo divieto di visite di sei mesi per i nostri clienti. La decisione non è stata motivata”. Questa la secca risposta. Un nuovo tentativo li ha portati a rivolgersi alla Corte costituzionale turca, ma le speranze di una risposta diversa sono esigue. Si tratta della tredicesima volta, negli ultimi 8 anni, che per Abdullah Öcalan giunge la stessa risposta. Dal febbraio 2018, tali divieti vengono rinnovati ogni sei mesi e riguardano anche i familiari. Nell’ottobre del 2023 è stata lanciata, a livello internazionale, una campagna per la sua liberazione evidenziando come questa sia fondamentale anche per avviare un generale processo di pace nell’area, che comprende anche Siria, Iraq e Iran, in cui sono forti le presenze curde. In passato ci sono state numerose visite in Turchia, in particolare ad Imrali, da parte del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt). In un rapporto pubblicato nel 2018 ma relativo al 2016, emergevano miglioramenti nella detenzione nel carcere dell’isola ma non per quanto riguardava la progionia del presidente curdo. Ancora non si hanno i risultati della visita effettuata nel 2023. Intanto anche ricordare o riprodurre l’immagine di Öcalan e delle bandiere curde o del Pkk è vietato, in tutto il mondo. Nel 2002 il Consiglio d’Europa aveva inserito tale partito e il suo leader, nella black list delle organizzazioni terroristiche, nel 2018, a seguito di esposti, la Corte di Giustizia europea aveva ritenuto di non avere motivazioni valide per tale provvedimento eppure il PKK è ancora nella black list. Le principali piattaforme social, se si inseriscono nei propri post, o profili, foto del presidente, testi in cui se ne parla, video in solidarietà con lui, portano a veder bannati temporaneamente i propri spazi. Nelle settimane scorse, un gruppo italiano di attivisti, esponenti politici e rappresentanti di movimenti sociali, artisti ed intellettuali, ha inviato una missiva al presidente del Comitato per la prevenzione della tortura, Alan Mitchell. L’iniziativa è partita dal Comitato “Il tempo è arrivato, Libertà per Öcalan”, di cui è presidente Giovanni Russo Spena. Riportiamo a seguire il testo della lettera che ha ricevuto numerose e importanti adesioni. --- Egregio Dr. Mitchell, a nome del comitato “Il tempo è arrivato, Libertà per Öcalan”, Le scriviamo con un appello urgente che richiede la Sua immediata considerazione. Il nostro comitato coordina le attività che si svolgono in Italia sul tema della liberazione di Abdullah Öcalan, sulla base di una raccolta di firme che ha ricevuto adesione da parte di migliaia di associazioni, movimenti, politici, organizzazioni sindacali, sindaci, intellettuali e artisti. Il nostro impegno istituzionale si è concretizzato nella presentazione di diverse mozioni e interrogazioni presso la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica italiana. Nonché nel conferimento della cittadinanza onoraria ad Abdullah Öcalan da parte di 17 comuni italiani, iniziativa da noi promossa. Sul piano legale, giuristi e avvocati parte del comitato sostengono l’applicazione della sentenza emanata dalla seconda sezione civile del Tribunale di Roma, in cui è stato riconosciuto il diritto di Öcalan all’asilo politico in Italia in base all’articolo 10 della Costituzione. Negli ultimi 38 mesi, il leader curdo Abdullah Öcalan, considerato da milioni di curdi come il loro legittimo rappresentante politico, è stato detenuto in una forma estrema di incommunicado dallo Stato turco sull’isola-prigione di Imrali. Durante questo isolamento illegale e disumano, Öcalan è stato fatto “sparire” e gettato nel vuoto della “non esistenza”, mentre gli è stato negato ogni contatto con il mondo esterno, compresi i suoi avvocati e la sua famiglia. In questo periodo, la Turchia ha cercato di trasformare l’isola di Imrali in una “bara galleggiante”. Öcalan, che oggi ha 75 anni, è stato sottoposto a crudeli torture attraverso l’isolamento per 25 anni e negli ultimi tre anni non sono state fornite informazioni sulla sua salute, rendendo a questo punto impossibile verificare la sua posizione e le sue condizioni fisiche, il che rappresenta una questione molto delicata per molti curdi che vedono in lui l’incarnazione della loro voce nazionale. Per questo motivo chiediamo gentilmente a voi, il Cpt, di agire. In qualità di Cpt, avete il diritto di visitare tutti i luoghi di detenzione degli Stati che aderiscono alla Convenzione, compresa la Turchia. Questo vi consente di inviare il vostro team di esperti a Imrali, dove il governo turco deve garantirvi un accesso illimitato per visitare il luogo in cui Öcalan è tenuto prigioniero e permettervi di intervistarlo in privato in modo che possa comunicare liberamente con voi. Vorremmo che il Cpt agisse in conformità con l’articolo 3 dello Statuto del CdE, che afferma che: “Ogni membro del Consiglio d’Europa deve accettare i principi dello stato di diritto e il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali da parte di tutte le persone che rientrano nella sua giurisdizione”. Öcalan è cittadino di uno Stato membro del CdE che da due decenni e mezzo gli nega i diritti umani e da tre anni lo priva del diritto di incontrare i suoi avvocati e di parlare con la sua famiglia. Vi chiediamo solo, con assoluta sincerità, di inviare immediatamente una delegazione a visitare l’isola di Imrali per parlare con il signor Öcalan e verificare il suo stato di salute. In seguito, le saremmo molto grati se potesse incoraggiare la Turchia a permettergli di ricevere la visita della sua famiglia e dei suoi avvocati, in modo da rispettare gli obblighi del CdE e del Cpt. Ciò contribuirebbe a risolvere un problema urgente di diritti umani e di preoccupazione per milioni di curdi e potrebbe anche rinnovare lo spirito di riconciliazione, necessario per trovare una soluzione pacifica alla questione curda in Turchia. Con gratitudine per il vostro tempo e con la speranza che riceviate questo come un accorato appello, Comitato “Il tempo è arrivato, Libertà per Öcalan”