Sulle carceri basta rinvii di Mario Chiavario Avvenire, 25 giugno 2024 Con il vertiginoso aumento del numero dei suicidi di persone detenute la questione carceraria è tornata prepotentemente all’attenzione generale, nella sua specificità e nel quadro del più complesso problema dei mali dell’intero sistema penale. Sembrava che della questione si dovesse occupare a fondo il Consiglio dei ministri di ieri, ma il tutto è stato rimandato. Staremo a vedere nelle prossime settimane se ci si finirà per limitare a qualche “svuota-carcere”, magari anche opportuno ma di corto respiro, o se si vorrà e potrà andare più a fondo, in particolare con il potenziamento concreto delle risorse umane ed economiche a disposizione degli uffici di esecuzione penale esterna per una gestione autenticamente responsabile di efficaci misure alternative: difficile, altrimenti, uscire dalla morsa tra l’uso spropositato di una detenzione sempre più pena-regina e smentita dalla proclamazione del suo essere extrema ratio riservata a delitti e soggetti di più spiccata pericolosità, e la rassegnazione a una sostanziale impunità anche per reati di delinquenza cosiddetta media o piccola ma generativi di non immaginari allarmi sociali tra gli appartenenti a strati “deboli” della popolazione. E ciò non è senza incidenza nello spingere molti, che magari si commuovono di fronte al caso singolo, a seguire poi i corifei dell’“in galera e buttando via la chiave” o quantomeno a rifugiarsi nell’indifferenza per le dimensioni collettive del problema. Certo, se ci si ferma sulla questione dei suicidi, nessuno può garantire di possedere la chiave magica di soluzione. Ognuno di essi, intanto, è legato a una situazione individuale con componenti psicofisiche particolari, il cui effetto letale non sempre riesce a essere scongiurato neppure dalle competenze e dall’impegno di bravissimi e coscienziosi professionisti ed altri operatori. Ma ai riflessi di carattere etico che sulla nostra sensibilità ciascuno di quei tragici eventi può avere nel farci percepire, più o meno a fondo, il dramma del singolo, non possono non aggiungersi interrogativi altrettanto stringenti quando il fenomeno raggiunge certi standard di diffusione: specialmente se, come ha messo in evidenza un recente rapporto di “Antigone’, risulta che in un determinato Paese (l’Italia) il rapporto tra suicidi dentro il carcere e fuori di esso è rovesciato rispetto a quello degli altri Paesi europei (da noi, a togliersi la vita sono in termini generali meno persone che altrove, ma è il contrario se il confronto viene fatto con riferimento esclusivo ai detenuti). Non siamo così di fronte a qualcosa di ulteriore e di diverso da ciò che di per sé provoca la reclusione? E il tutto è proprio senza legami con un fatto davvero preoccupante? Col fatto, cioè, che per volontà o incapacità di operatori e più frequentemente per difetti strutturali la detenzione non sempre viene vigilata, come vuole anche la Costituzione, con senso di umanità e tendendo, non all’annichilimento ma alla rieducazione del recluso, nel significato di una sua riconciliazione con sé stesso, con le sue vittime e con il tessuto sociale? Così pure, non può non far pensare un altro dato: in Italia, in misura elevata sono anche i suicidi di appartenenti al personale penitenziario. Ora, che sia un lavoro duro e non privo di pericoli, lo sanno certamente coloro che accettano di farlo; ma da questo a mettere nel conto situazioni che inducono a togliersi la vita, ne corre. Sono molte le voci autorevoli già levatesi a pronunciare accorati appelli a iniziative normative e a condotte operative perché la rotta si inverta: basti citare Papa Francesco e il Presidente Mattarella. Né è mancato un nuovo gesto di severa censura da parte di una decisione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che a seguito di una condanna dell’Italia ad opera della Corte europea dei diritti umani, ha constatato “con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio de12024”, esortando “ad adottare rapidamente ulteriori misure correttive e a garantire lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire i suicidi nelle carceri”. È noto poi che gli avvocati riuniti nell’Unione delle Camere penali hanno proclamato uno sciopero della categoria volto a sottolineare l’urgenza di rimedi (opinabile, a mio parere, lo strumento scelto, giusto il fine perseguito). Non priva di significato, poi, ancorché destinata ad avere meno risalto, la presa di posizione di tre associazioni di giuristi “accademici” (penalisti, processual-penalisti, costituzionalisti) con un lo - ro documento particolarmente ricco di analisi e - cosa non secondaria perché viene da categorie frequentemente accusate di fare soltanto teoria - tesa al rilancio di proposte concrete e di sperimentazioni sul terreno: dal “più ampio ricorso a percorsi alternativi al carcere che ... siano in grado di ridurre la recidiva” agli “investimenti in attività trattamentali che consentano di ridurre al minimo il regime delle “celle chiuse’,’ in modo da non comprimere oltre il necessario la libertà di movimento dei detenuti”. Appelli, analisi, proposte ci sono: si tratta ora di agire. Muro della Lega sul decreto svuota-carceri. E i deputati M5S bocciano gli sconti di pena di Francesco Grignetti La Stampa, 25 giugno 2024 Si torna finalmente a parlare delle carceri in Parlamento, per merito del deputato Roberto Giachetti, Italia viva, che testardamente ha voluto portare nell’Aula della Camera un suo disegno di legge che prevede un super-sconto di pena per i detenuti che hanno osservato la buona condotta. Passando da uno sconto di 45 giorni a 60 giorni (ogni sei mesi di detenzione con buona condotta), ci sarebbe un’immediata fuoriuscita di detenuti da celle sovraffollate. Ma la prima sorpresa è il silenzio assoluto della maggioranza e del governo in merito. Nessuno interviene. Rinuncia a parlare il viceministro Francesco Paolo Sisto. Parlano solo le opposizioni. E dimostrano una plateale divisione: sono a favore il Pd, Avs e +Europa, Azione; contrarissimo invece il M5S, che non tradisce la sua anima giustizialista. “In questa Aula aleggia un decreto fantasma, quello sul carcere annunciato a più riprese dal ministro Carlo Nordio, e mai presentato - dice con amara ironia Giachetti Approvate allora la mia legge che permetterebbe un veloce sfollamento delle celle”. Ma anche se diversi esponenti della maggioranza a parole si erano detti disponibili a parlarne, così non sarà perché anche a destra c’è stata una analoga spaccatura e forse anche più feroce. Forza Italia sarebbe stata a favore per spirito di garantismo. Dice l’onorevole Pietro Pittalis, Fi, vicepresidente della commissione Giustizia alla Camera: “Per quanto ci riguarda, il tema è all’attenzione e - con un’espressione che penso possa riassumere bene il senso anche della maggioranza - non gireremo la faccia dall’altra parte”. Non c’è solo un gravissimo problema di sovraffollamento: 61 mila detenuti in celle che potrebbero ospitarne solo 48 mila. Ma stanno aumentando drammaticamente i suicidi. E le due cose stanno insieme. Che qualcosa vada fatto, insomma, è chiarissimo a tutti, governo incluso. Solo che al solo sentire di uno svuota-carceri non è insorto solo il M5S, ma anche la Lega, mettendo così sotto schiaffo il partito della premier. Il sottosegretario leghista alla Giustizia, Andrea Ostellari, è stato chiarissimo, in un convegno qualche giorno fa organizzato da “Il Dubbio”, quotidiano del Consiglio nazionale forense: “Non saranno introdotti sconti di pena”. E siccome la Lega era già pronta all’assalto, anche Fratelli d’Italia si è adeguata. La scappatoia escogitata dal ministero della Giustizia consiste in un piano in tre punti: cambiare il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta, snellendo le procedure e togliendo un secondo grado alle decisioni del magistrato di sorveglianza “salvo i casi di ricorso dell’interessato”; organizzare, partendo dall’esistente, una rete di comunità accreditate che dovrebbero “ospitare “ i detenuti a fine pena (già oggi, su 61 mila ristretti, almeno 7mila ne avrebbero diritto), ma che non possono beneficiare degli arresti domiciliari semplicemente perché non hanno un domicilio, con l’avvertenza che chi ci andrà deve impegnarsi in un percorso di formazione e lavoro; infine l’ennesimo piano per la costruzione di nuove carceri e nuove assunzioni. Tutto questo è stato annunciato dal ministro Nordio con due interviste nell’ultima settimana. E invece nulla. Il decreto Nordio resta un “fantasma”, per dirla alla Giachetti. Giallo. Che cosa è successo? Da indiscrezioni si viene a sapere che palazzo Chigi è preoccupata dall’ingorgo di decreti in questo scorcio di estate. Ce ne sono già otto all’esame delle Camere, più un altro, quello sui Campi Flegrei, licenziato ieri: e siccome vanno convertiti tassativamente in legge nel giro di 60 giorni, il Parlamento non può umanamente farcela a trasformarne dieci in legge entro la pausa estiva. Ma al di là delle legittime preoccupazioni procedurali, c’è stata anche la valutazione politica che la maggioranza rischiava di entrare in una cattiva luce con il proprio elettorato a volersi preoccupare dei detenuti. E così l’estate passerà senza alcun tipo di provvedimento. Svuota-carceri, Nordio sconfessato da Chigi: la annuncia, ma non c’è di Ilaria Proietti e Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2024 Da settimane il decreto preparato dagli uffici di via Arenula non riesce ad approdare in Cdm: FdI è contraria. C’è chi dice che si tratti di una guerra di nervi per logorarlo, condito dalla cattiveria di fargli addirittura sapere che per il suo posto sarebbe già stato sondato un sostituto di lusso. Ma, per dirla tutta, c’è anche chi racconta un’altra storia: non c’è alcuna manina al lavoro per mandarlo a sbattere ma semmai “lui ci mette del suo”. È un fatto però che lo Svuotacarceri di Carlo Nordio rischia di diventare una barzelletta che non fa ridere: da settimane il decreto preparato dai suoi uffici di via Arenula non riesce ad approdare in consiglio dei ministri nonostante gli annunci a mezzo stampa: il piano carceri del Guardasigilli si è guadagnato fama di Sora Camilla, quella - secondo l’adagio alle latitudini della Capitale - che tutti vogliono ma nessuno si piglia. Chissà se ora la nuova data spifferata ai cronisti, metà luglio, sarà quella buona. Ma intanto restano agli atti le interviste e le forzature sulle bozze fatte circolare quando ancora non c’è un accordo in maggioranza. E non è la prima volta che le fughe in avanti di Nordio vanno a sbattere con le resistenze specie leghiste o peggio con le priorità indicate da Palazzo Chigi costretto a smentire i suoi annunci: pochi giorni fa, era il 20 giugno, in un colloquio con il Sole 24 ore aveva dato per certo l’approdo del suo piano carceri nel Consiglio dei ministri previsto di lì a poche ore. “L’indice di sovraffollamento delle nostre carceri… riflette una patologia sedimentatasi nel tempo, non rimediabile nell’arco di poche settimane con proclami salvifici. Ma alcuni rimedi sono già all’orizzonte, come il decreto legge portato al Cdm oggi: prevede risorse aggiuntive, incrementa la dotazione organica del personale penitenziario, accelera la costruzione di nuovi padiglioni, ma soprattutto semplifica la procedura della liberazione anticipata. Inoltre, per alleviare la tensione nelle carceri, si aumenta la possibilità di colloqui telefonici interfamiliari”. Invece del decreto in questione al cdm nemmeno la puzza. Boicottaggio da fuoco amico o una gaffe da manuale? Chi può dirlo… Il sottosegretario leghista alla Giustizia Andrea Ostellari aveva giustificato il ritardo parlando di aggiunte da fare per “arricchire il testo”, ma le sue parole più che altro sono state una implicita smentita al ministro che invece l’aveva dato per prontissimo. Ma di pronto, a quanto pare, c’è ben poco. Piuttosto c’è l’imbarazzo palpabile della maggioranza che si è ben percepito ieri durante il dibattito alla Camera sul ddl a prima firma Roberto Giachetti. “C’è un decreto fantasma che aleggia: Nordio ogni giorno fa un’intervista e poi arriva il Sottosegretario di turno e dice ‘rinviamo’”. Sarà per questo che il Guardasigilli ogni volta che arriva lo stop cerca di rassicurare: promette che è contro l’indulto, che l’emergenza si risolve usando le caserme, che gli stranieri devono scontare la pena a casa loro. Scontatezze che non hanno portato mai da nessuna parte, come ha notato lo stesso Giachetti: “Grazie sì, lo sappiamo, ma non si può fare: se mio nonno aveva le ruote era una carriola”. C ‘è che a parte il dileggio Nordio sembra ormai aver fatto il callo anche alle smentite dei suoi: prima del piano carceri gli era capitato sulla separazione delle carriere. Partecipando al congresso di Palermo dell’Anm si era lanciato in un’altra previsione poi rivelatasi strampalata: aveva lasciato intendere che, causa altra emergenza, (l’allarme legato alla diffusone del Fentalyn in Italia), della riforma costituzionale che riguarda le toghe se ne sarebbe riparlato più in là, magari dopo le Europee. Tac! Come nulla fosse Palazzo Chigi di lì a poco aveva scodellato subito la separazione delle carriere: insomma tra via Arenula e la Presidenza del Consiglio si gioca al telefono senza fili. Nordio annuncia, Palazzo Chigi preferisce rinviare. Sul sovraffollamento nei penitenziari un testo definitivo ancora non c’è: a pesare sarebbe la contrarietà del sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro che vuole evitare che si parli di “Svuotacarceri”, a cui il partito di Meloni si oppone da sempre. A questo ieri si è aggiunta la cautela del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano che tiene rapporti col Quirinale: il problema riguarderebbe l’ingolfamento di decreti - almeno 8 - che il Parlamento dovrà convertire prima della pausa estiva con un tour de force notevole. Ergo: se lo Svuotacarceri arriverà a metà luglio, si potrà ben aspettare anche settembre. Carceri, la proposta Giachetti in aula alla Camera senza relatore di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 giugno 2024 Il testo sulla “liberazione anticipata” incontra l’opposizione del M5S (insieme alla destra). È arrivata alla Camera la proposta di legge di Roberto Giachetti, sostenuta da Nessuno tocchi Caino e dalla diaspora radicale nei diversi schieramenti, per elevare la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata da 45 a 60 giorni per ogni semestre di pena scontata. Il testo arriva senza relatore: in Commissione giustizia si sono svolte le audizioni ma non si è arrivati all’esame degli emendamenti. La presidenza della Commissione aveva chiesto un rinvio del termine entro cui riferire in assemblea, ma Giachetti ha respinto la proposta. “Di fronte alle divisioni della maggioranza abbiamo accettato che il dibattito si svolgesse dopo le elezioni europee - ha sottolineato in aula il deputato - Adesso però bisogna essere seri. Non ci potete prendere in giro: chiedere un ulteriore rinvio avrebbe significato far saltare la legge senza neanche metterci la faccia. È della maggioranza la responsabilità dell’arrivo in aula senza relatore. Sappiamo che questo testo sarà mandato alle calende greche, a morire senza metterci la faccia e questa è la cosa più vergognosa che la maggioranza può fare a fronte dell’emergenza. Tutto quello che succederà nelle prossime settimane questa volta è in mano alla maggioranza e alla ipocrisia, superficialità e cattiveria di chi dovrebbe garantire la civiltà in questo paese”. Giachetti snocciola i dati: ci sono 61.547 detenuti su 189 istituti con una capienza formalmente regolarmentare di circa 51 mila posti ma effettiva di 47 mila perché i restanti inagibili: il sovraffollamento effettivo è del 130,77%. “Siamo di fronte a un’emergenza e voi state mandando in fumo l’unica proposta in grado di intervenire - attacca - C’è un decreto fantasma che aleggia, Nordio ogni giorno fa un’intervista, poi arriva il sottosegretario che rinvia. Se ci fosse questo decreto saremmo felicissimi. Quando Nordio parla della costruzione dei nuovi padiglioni osserviamo che ci vogliono anni oltre al fatto che questi padiglioni hanno bisogno di personale che già è ridotto. A Rebibbia su 1700 detenuti sarebbero necessari 700 agenti di custodia, sono invece 400. Siamo quasi alla metà del personale necessario”. Tra le opposizioni, il M5S si schiera con la destra: “Sarebbe l’ennesima misura svuota-carcere”, afferma Federico Cafiero De Raho. “La soluzione ai problemi sarebbero amnistia e indulto - conclude Giachetti - ma la mia legge non è un indulto, interviene su una legge già esistente”. “Vergognoso se fate morire la mia legge”, il j’accuse di Giachetti sulle carceri di Errico Novi Il Dubbio, 25 giugno 2024 Il punto, sulle carceri, continua a essere la comunicazione. La soluzione normativa ci sarebbe, ma la priorità, per l’alleanza di governo, pare l’impatto sull’opinione pubblica piuttosto che sulla tragica emergenza negli istituti di pena. Così ieri il centrodestra ha optato per un elusivo silenzio nell’aula della Camera, durante la discussione generale sulla proposta Giachetti. Il deputato di Italia viva, promotore della legge sugli “sconti di pena” insieme con la presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini (ora in sciopero della fame), non si è trattenuto dal dire che “arrivare in Aula senza il mandato al relatore per responsabilità della maggioranza”, come in effetti è avvenuto, “manderà questo provvedimento a morire, ed è la cosa più vergognosa che questa maggioranza potrebbe fare”. I numeri parlano chiaro: sovraffollamento schizzato a un assurdo 130%, con i suicidi ormai a quota 45. Il prevalere dei timori per i presunti rischi in termini di consenso (l’inerzia non ha evitato, al centrodestra, la sconfitta ai ballottaggi) affiora anche dalle parole del guardasigilli Carlo Nordio, che sabato ha puntualizzato come sul carcere non si possa pensare di ricorrere all’indulto, che è “una resa dello Stato”. Ora, di indulto non parla nessuno, neppure Giachetti e Bernardini. Forse il ministro intende riferirsi, con quell’espressione, al più generale concetto di “sconto di pena”. E qui però siamo in piena contraddizione semantico-politica, perché, come emerso anche all’evento promosso due settimane fa dal Dubbio, il ministero della Giustizia lavora a un decreto che assorbirebbe, seppur in parte, la proposta Giachetti, che si limita a regolare il trasferimento in comunità dei reclusi con pena residua sotto i due anni ma che contiene anche una procedura più snella per l’esame delle istanze relative alla liberazione anticipata già prevista dall’ordinamento. Si punta cioè a velocizzare la concessione di un beneficio, esistente, che è pur sempre un vituperato (dal governo) “sconto di pena”. Peccato che la misura dello sconto, 45 giorni ogni 6 mesi, sia ormai insufficiente, alla luce del sovraffollamento che in grandi istituti come San Vittore è al 230%, e dei 14.400 detenuti totali in più rispetto ai 47mila posti effettivi. Tanto che Giachetti e Bernardini speravano di veder accolta quanto meno la proposta di innalzare da 45 a 60 giorni la liberazione anticipata. Forza Italia, che sarebbe d’accordo, ha espresso, per voce di Pietro Pittalis, solidarietà a Rita Bernardini e alla sua protesta nonviolenta. D’altronde, che sulla di giustizia prevalga una certa ambivalenza comunicativa lo dimostra anche l’Anm quando attribuisce alla separazione delle carriere il potere di minare l’autonomia dei magistrati. Manipolazione smascherata dall’Organismo congressuale forense, che in una nota ieri ha ricordato come il ddl costituzionale di Nordio non determini “alcuna modifica negli equilibri tra il potere politico e quello giudiziario” e lasci “inalterata l’obbligatorietà dell’azione penale”. Il governo si rimangia la legge salva detenuti di Angela Stella L’Unità, 25 giugno 2024 Quarantacinque suicidi nelle carceri. Però Nordio, la scorsa settimana, annunciava sul “Sole 24 Ore” un provvedimento sulle carceri e veniva smentito lo stesso giorno dall’odg del Cdm di Palazzo Chigi. La figuraccia è fatta e a metterci la pezza ci pensa il sottosegretario Ostellari: ci siamo presi tempo per definire meglio l’Albo delle case di comunità. Il Ministro ha il controllo del Ministero? Poi ieri pomeriggio la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale a firma del deputato di “Italia Viva” Roberto Giachetti è approdata nell’Aula della Camera senza relatore, ma dopo una breve discussione è stato tutto rimandato e c’è il rischio del ritorno in Commissione giustizia. “Di fronte alle divisioni della maggioranza - ha sottolineato Giachetti - abbiamo accettato che il dibattito si svolgesse dopo le elezioni europee. Adesso però bisogna essere seri. Non ci potete prendere in giro: chiedere un ulteriore rinvio avrebbe significato far saltare la legge senza neanche metterci la faccia. È della maggioranza la responsabilità dell’arrivo in aula senza relatore. Sappiamo che questo testo sarà mandato alle calende greche, a morire senza metterci la faccia e questa è la cosa più vergognosa che la maggioranza può fare a fronte dell’emergenza”. Giachetti ha ricordato che in Italia ci sono 61.547 detenuti in 189 istituti con una capienza formalmente regolamentare di circa 51mila posti ma effettiva di 47mila perché i restanti inagibili. Ci sono 14.471 posti mancanti e un sovraffollamento effettivo del 130,77%. “Siamo di fronte a un’emergenza e voi state mandando in fumo l’unica proposta in grado di intervenire. Il decreto Nordio è il decreto fantasma, che è molto prossimo al titolare del decreto, che ormai è un ex-Nordio, per quanto mi riguarda. Io me lo ricordo com’era il Ministro Nordio quando non era Ministro, adesso che è Ministro non mi ricordo più chi è Nordio e come è Nordio, ma la realtà è quello che diceva anche a proposito di questi temi”. “Ma quando Nordio parla della costruzione dei nuovi padiglioni osserviamo che per costruirli ci vogliono anni oltre al fatto che questi padiglioni hanno bisogno di personale che già è ridotto”. “La soluzione ai problemi sarebbero amnistia e indulto” ma “la mia legge non è un indulto, interviene su una legge già esistente”. L’attacco di Giachetti al Guardasigilli non si è fermato qui: “Colleghi, quante volte abbiamo sentito: “I detenuti stranieri sono quasi la metà dei detenuti in Italia e una soluzione sarebbe fare in modo che i detenuti stranieri scontassero la loro pena nei loro Paesi di origine”. Bravi, avete scoperto l’acqua calda. Domandatevi: perché, da vent’anni, questa musica va avanti e non si riesce a fare nulla? “Allora, ci dice il Ministro Nordio - ha proseguito Giachetti - che i tossicodipendenti non dovrebbero stare in galera. Ma va’? Dovrebbero stare nelle comunità. E perché questa maggioranza - e, devo dire, anche tutte le altre precedenti -, perché non correggete la legge Fini-Giovanardi, che è quella che garantisce che le nostre galere siano piene di persone che, per reati legati alla tossicodipendenza, finiscono in galera, invece che nelle comunità. E stendo un velo pietoso sul tema della psichiatria. Ma a voi interessa risolvere un problema? No. A voi interessa fare le grandi dichiarazioni”. Da notare gli applausi al suo discorso da parte degli esponenti di Forza Italia, Pietro Pittalis e Tommaso Calderone, che a differenza delle altre due forze di maggioranza hanno appoggiato, seppur con qualche modifica, la proposta Giachetti. Intanto ieri la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, ha iniziato uno sciopero della fame e della sete. Dalle carceri ai campi. Quegli “invisibili” a intermittenza di Diego Motta Avvenire, 25 giugno 2024 Fino a quando faremo finta di non vedere? Drammi come quelli che riguardano detenuti e braccianti hanno tanti, troppi punti in comune e la cronaca di questi giorni ce lo ha ricordato. Mondi dimenticati tornano d’improvviso d’attualità, filtrano sentimenti d’indignazione, si invocano provvedimenti d’urgenza. La politica quasi sempre cavalca la notizia, non potendola cancellare, annuncia interventi roboanti e poi tutto torna in archivio. La verità è che gli invisibili ci sono sempre stati, solo che a volte preferiamo non guardare. Sono chiusi in cella, si sentono soffocare e si tolgono la vita: 45 persone si sono suicidate dall’inizio dell’anno, 57 sono decedute per altre cause. Possibile che nessuno si chieda perché, quando è lo Stato a dover garantire la loro sicurezza e la loro salute? Poi ci sono decine di migliaia di persone che lavorano sotto la luce del sole, in condizioni disumane e con paghe da fame. Se la loro resistenza si fiacca e vengono meno, possono morire come è accaduto la settimana scorsa a Satnam Singh nelle terre dell’Agro Pontino. In modo barbaro, criminale. Nove anni fa era successo a Paola Clemente, bracciante morta di fatica in Puglia, per pochi spiccioli di euro. Le tragedie non hanno colore e non hanno nazionalità, sono semmai il risultato di emergenze sociali mai affrontate e su cui il peso di decenni di promesse si è fatto col tempo insostenibile. Sappiamo bene dove tutto questo accade, ma sta a noi decidere se aprire gli occhi o tenerli chiusi, non solo metaforicamente. C’è una costante, implacabile quotidianità da considerare quando si raccontano fenomeni come il sovraffollamento carcerario e lo sfruttamento degli ultimi. Perché quel che tiene insieme queste situazioni è proprio la volontà di mantenere queste vicende ai margini, anzi, di sospingerle silenziosamente verso terre di nessuno, verso le periferie dell’oblio mediatico. Meglio non parlarne, se non in casi eccezionali. Accade anche con i senza dimora, abbandonati ai bordi delle strade e delle stazioni, a richiedenti asilo fatti trasferire in fretta e furia dai centri prefettizi perché costano troppo o perché non c’è più spazio. Spesso finiscono nelle fabbriche dismesse, nei vecchi hangar aeroportuali, come abbiamo documentato. Lontano dagli occhi, appunto. È certo all’attenzione di chi dovrebbe gestire questi fenomeni, che non spostano voti (anzi, probabilmente li fanno perdere) che vanno rivolti alcuni appunti per uscire da questa tragica inerzia. Le cose succedono perché non sono governate e trattare l’ordinario con politiche “una tantum” alla fine fa soltanto danni, quando invece basterebbe applicare buone leggi già esistenti (come la 199 sul caporalato) per dare un segnale concreto. Finora, invece, abbiamo assistito a due tipi di reazioni diverse: da un lato c’è sempre un’accelerazione a colpi di decreti, dall’altro si tende ad annunciare e a rinviare. In ogni caso, si assecondano istinti sbagliati. Si danno titoli in pasto a telegiornali che hanno fame di novità dal palazzo, senza indagare le cause profonde. Il senso di urgenza, in casi come questi, è diventato una regola di comunicazione politica, ma senza fatti la retorica sulle cose fatte o da fare rischia di trasformarsi in boomerang. Un esempio c’è già. Non è bastato chiamare “decreto Cutro” il giro di vite sui migranti per esorcizzare il naufragio sulle coste calabresi del febbraio 2023, il momento più difficile di questa legislatura nelle parole della presidente del Consiglio. Al contrario, ormai non c’è occasione in cui quel “titolo” non venga rinfacciato all’attuale esecutivo per l’inefficacia delle misure prese, quasi disonorasse le vittime di quell’odissea. Dovremmo farne tesoro e cercare di trovare risposte concrete che partano, come sempre, da ciò che rimanda l’umanità tradita e offesa di questi mondi dimenticati. Ci sono sempre più invisibili tra noi, ma è sbagliato pensare di poterli trattare sempre alla stregua di fantasmi. Lo scrittore Di Paolo: “Carceri senza dignità” di Ilaria Dioguardi vita.it, 25 giugno 2024 Paolo Di Paolo, finalista del premio Strega, ha lavorato negli istituti di pena, spiegando ai detenuti la letteratura. “Dietro le sbarre la società ti ha già cancellato, tu cancelli te stesso fino in fondo. Sono tutte cose su cui riflettiamo troppo poco. E lo dico con un senso di imbarazzo che, dalla dimensione individuale, dovrebbe tradursi in un senso di imbarazzo della collettività rispetto a questi temi”. Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane sono 45 i detenuti che hanno deciso di togliersi la vita, 43 uomini e due donne. L’ultimo tentato suicidio è avvenuto nell’istituto di pena sassarese di Bancali, dove un uomo si è dato fuoco ed è stato soccorso dal personale penitenziario. “La dicotomia dentro-fuori è subito chiamata in causa dal tema del carcere”, dice lo scrittore Paolo Di Paolo. Lo rintracciamo al telefono poco prima di uno degli incontri a cui sta partecipando, in tutta Italia, come finalista del premio Strega con il suo Romanzo senza umani (Feltrinelli Editore). Di Paolo, cosa può dirmi di questa dicotomia dentro-fuori? Chiunque sta fuori ha una colpa, che è quella di non immaginare molto frequentemente cos’è quel dentro. Sembra una frase astratta, ma credo che la responsabilità di base che ha un cittadino è di pensare che esista una sorta di “città nella città”, di “cittadinanza nella cittadinanza”: è quella di persone che per reati, che possono essere anche di estrema gravità, sono chiusi all’interno del carcere. La dignità che questa permanenza nel carcere dovrebbe comunque mantenere salda è una dignità che, invece, noi dimentichiamo e trascuriamo. E non è questione di essere né caritatevoli in modo penoso (come si diceva una volta) né ipocriti. Posso capire perfettamente che molta parte della cittadinanza a cui alludo (quella del fuori) ha delle ragioni perché sia garantita una pena o, in qualche misura, siano tenuti dei limiti che impediscano a certe persone di nuocere, se hanno nuociuto. Però c’è un passaggio ulteriore, che ha a che fare con l’etica. Qual è questo passaggio? Ha a che fare con la costruzione della immaginazione in senso più nobile in assoluto, immaginazione che presuppone se non un’empatia, che è forse una parola un po’ logora, una capacità di immedesimazione nella vita degli altri. Quella vita degli altri non può essere una vita che vale zero, nonostante (sottolineo “nonostante”, so che è una parola impegnativa) il danno che è stato fatto a qualcuno o a qualcosa. A tal proposito, nella prefazione al libro Parlami dentro. Oltre il carcere: lettere di (r)esistenza, a cura di Marilù Ardillo (edizioni La Meridiana), lei scrive: “C’è qualcosa che siamo poco disponibili a fare. Non ci viene istintivo: immaginare le vite degli altri. […] è molto raro che il “muscolo dell’immaginazione”, spesso così atrofico, reagisca al pensiero di esistenze difficili, in qualche modo indesiderabili. Tanto più è difficile immaginarle quando sono, nei fatti, poco visibili o addirittura invisibili”. In questo libro ci sono lettere scambiate da sconosciuti, in una sorta di “trattativa umana” in cui ci si riconosce o si tenta di riconoscersi. Nel volume mi colpiva soprattutto quel tipo di persona che, di fronte alla storia di un detenuto, diceva che, poiché non conosceva la sua storia, non la poteva giudicare. Ma riusciva a parlargli come a un essere umano innanzitutto: questo è un presupposto del riconoscimento etico, è la preliminare messa a fuoco dell’umanità di entrambi. Non è che, nel momento in cui si discute l’umanità, si fa un discorso che può presupporre un’etica. Da qualunque punto di vista, questa contemplazione dell’altro (con tutti i suoi difetti, i suoi limiti, le sue colpe) è l’unica cosa che può costruire un terreno dove immagino cosa vuol dire essere espropriati della libertà. Questo non eliminando il giudizio, ma sospendendolo per il tempo che mi consente di capire cosa vuol dire non vivere liberi. “Capire cosa vuol dire non vivere liberi” è il punto da cui partire? Capire cosa vuol dire non vivere liberi è una premessa inevitabile, inaggirabile, necessaria di qualunque discorso sul carcere. Tanto più quando si entra in carcere per reati che non giustificano il passaggio in carcere. Una civiltà intelligente è una civiltà che riesce a capire se ci sono occasioni alternative e se quello spazio lì (come dice da decenni Luigi Manconi) agisce in bene e non in male, che non solo umilia e mortifica ma che aiuta ad essere una persona diversa. Delle condizioni di vita nelle carceri parlano i numeri sul suicidio, le rivolte nelle carceri, il malessere manifestato da tantissimi detenuti, le celle sovraffollate (che ho visto). In questi giorni si superano anche i 35 gradi, non riusciamo a stare neanche nelle nostre case dotate di aria condizionata, bisognerebbe capire cosa significa stare in una cella minuscola con temperature così alte. Sembrano questioni pratiche, accessorie, in realtà sono la sostanza dei fatti. La vita deve mantenere una sua dignità qualunque sia lo spazio in cui questa vita è destinata. Le è capitato di incontrare i detenuti nelle carceri? Sì, mi è capitato, come a molti altri scrittori, di visitare in qualche circostanza le carceri, in ragione del fatto di incontrare detenuti e detenute per corsi di scrittura, di lettura. È evidente che, trovandomi lì, in situazioni piuttosto faticose da un punto di vista emotivo, mi sono reso conto (per quel poco che ci si può rendere conto) che non ci sono condizioni accettabili, di dignità minima. Nelle carceri non c’è il minimo sindacale della dignità. Il nostro è un Paese che non riesce a capire, di fronte a numeri così alti di suicidi nelle carceri, che c’è da garantire quella dignità in termini di spazi, in termini di vita, che è una vita deprivata della libertà. Forse il carcere ha un senso se non diventa un carcere a vita. Se la pena è riabilitativa, l’ergastolo nega la possibilità che sia riabilitativa. In quello spazio e in quel tempo le persone dovrebbero tentare di riflettere, di maturare, di cambiare. Non lo possono fare in uno spazio fisico che rende ancora più crudamente incattiviti, depressi, angosciati, forse addirittura mortificati e umiliati dal punto di vista delle condizioni di dignità umana. Come ha vissuto i momenti che ha passato con i detenuti nelle carceri? Li ho sempre vissuti con grande turbamento e imbarazzo. In tutti gli incontri fatti (anche in un istituto penale minorile, in un carcere femminile, in una sezione di massima sicurezza), ho vissuto un profondo imbarazzo. È un’esperienza vertiginosa che richiamo anche nella sua ingenuità perché, se non parto da quell’imbarazzo, non parto da ciò che mi ha messo in una condizione che non è quella più consueta. Se esiste nella vita una situazione in cui tu riconosci un imbarazzo, quella situazione merita di essere interrogata. Qual è stata la sensazione, l’emozione più forte che ha avuto in carcere? La cosa più forte che ho avuto in carcere, nel dover parlare di scrittura e di letteratura a persone di cui ignoravo la pena e le ragioni della pena, è stata il costringere me stesso a superare quell’afasia perché sentivo che, da parte di quelle persone, c’era una curiosità forte. Mi sentivo, in quel contesto, il portatore di qualcosa di assolutamente accessorio, superfluo. E sbagliavo. Perché sbagliava? Pur essendone in larga parte molto distanti, sia come esperienza di lettura sia come esperienza effettiva di scrittura, del mestiere dello scrittore li affascinava la possibilità di avere le parole per raccontare la propria storia. Chiunque abbia fatto un corso di scrittura in carcere ha sentito questa cosa potentissima che è la necessità di parole. In carcere le persone che hai davanti spesso non dispongono di un lessico molto articolato per ragioni culturali, socioculturali, a volte non dispongono della lingua italiana e fanno fatica. E senti che la cosa che più le accende, e letteralmente le accende, è il capire come si racconta la propria storia. Può spiegarci, secondo lei, perché? Loro avevano delle storie da raccontare, io disponevo delle parole: sembravano quasi volersi appoggiare al mio sapere, narrativo più che letterario. Questo perché raccontare la propria storia significa intanto marcare uno spazio di dignità. Se so raccontare la mia storia non devo necessariamente assolvere o cercare un alibi, se racconto la mia storia esisto. E se non racconto la mia storia? Non esisto per nessuno, non sono nessuno. E quel “non sono nessuno” è qualcosa che ti abbatte al punto da sentirti uno scarto. E lo scarto si autoespelle dalla società, e a volte si arriva all’estremo del suicidio. Al di là del fatto che nessun suicidio è fino in fondo razionalizzabile c’è comunque una negazione di sé che equivale a una cancellazione. In carcere la società ti ha già cancellato, tu cancelli te stesso fino in fondo. Sono tutte cose su cui riflettiamo troppo poco. E lo dico con un senso di imbarazzo che, dalla dimensione individuale dovrebbe tradursi in un senso di imbarazzo della collettività rispetto a questi temi. Suicidi in cella, l’89 per cento sono avvenuti in regime chiuso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2024 Dallo studio del Garante nazionale emerge che il regime aperto previene il fenomeno. I detenuti che si sono tolti la vita in sezioni a custodia chiusa sono 39, rispetto ai 5 nelle sezioni a custodia aperta. Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha pubblicato un rapporto drammatico sui suicidi nelle carceri italiane. Il documento, curato dal professore Giovanni Suriano, dell’unità organizzativa “Privazione della libertà in ambito penale” dell’ufficio del Garante, presieduto da Felice Maurizio D’Ettore, conferma l’incremento preoccupante del fenomeno. Dall’inizio dell’anno fino al 20 giugno 2024, 44 detenuti si sono tolti la vita, un dato superiore rispetto ai 34 casi registrati nello stesso periodo del 2023 e ai 33 del 2022. Ricordiamo che nel frattempo si è aggiunto un altro suicidio, e quindi attualmente siamo a quota 45. La maggior parte delle vittime sono uomini (42 su 44), con un’età media di circa 40 anni. Ventiquattro delle persone decedute erano italiane, mentre le altre venti provenivano da quattordici diverse nazioni. Le fasce d’età più colpite sono quelle tra i 26 e i 39 anni (23 casi) e tra i 40 e i 55 anni (10 casi). Il rapporto del Garante ha analizzato anche la posizione giuridica dei detenuti suicidi. Diciotto erano stati condannati in via definitiva, cinque avevano una posizione giuridica mista con almeno una condanna definitiva, mentre diciassette erano in attesa del primo giudizio. Altri casi riguardavano detenuti ricorrenti, appellanti e in internamento provvisorio. Per quanto riguarda i reati, la maggior parte delle vittime erano accusate o condannate per reati contro la persona (24 casi), seguiti da reati contro il patrimonio (14 casi) e per legge sulla droga (3 casi). Tra i reati contro la persona, prevalgono quelli per omicidio, maltrattamenti in famiglia e violenza sessuale. Più della metà dei suicidi (52,28%) sono avvenuti nei primi sei mesi di detenzione, con un picco nei primi tre mesi (20 casi) e nei primi 15 giorni (5 casi). Questo evidenzia una fase iniziale di estrema vulnerabilità per i nuovi detenuti. Il rapporto ha identificato significativi fattori di fragilità tra i detenuti suicidi. Ventuno di essi (49%) erano coinvolti in altri eventi critici, e undici avevano tentato il suicidio in precedenza. Inoltre, undici persone erano sotto la misura della “grande sorveglianza” e quattro erano sorvegliate anche al momento del suicidio. I suicidi avvengono in regime chiuso - I suicidi si sono verificati in 33 diversi istituti, che rappresentano il 17,37% delle strutture penitenziarie italiane. Tra gli istituti più colpiti, il carcere di Napoli “Poggioreale” ha registrato il maggior numero di casi (3 suicidi), seguito da diversi istituti con due suicidi ciascuno, tra cui Cagliari, Pavia, Roma “Regina Coeli”, Sassari, Teramo, Torino e Verona. Ma il dato che colpisce è che la maggioranza dei suicidi è avvenuta in sezioni a custodia chiusa (39 casi), rispetto alle sezioni a custodia aperta (5 casi). Ciò rende evidente l’importanza dell’effettiva presenza di un regime “aperto”. Ci viene in aiuto l’ultimo rapporto di Antigone dove si denuncia - anche a seguito di una circolare del Dap del 2022 a firma del precedente capo Carlo Renoldi- la generale tendenza alla chiusura che si sta verificando nel sistema penitenziario italiano. Nel rapporto si evince che l’analisi della serie storica dal 2019 al 2023 mostra un andamento crescente delle persone detenute assegnate alle sezioni a custodia chiusa, con un picco nell’anno 2022 e un aumento a giugno 2023 di oltre 5.500 persone (da 17.305 a 23.387) e una parallela diminuzione delle persone assegnate alle sezioni a custodia aperta che sono più che dimezzate, passando da un totale di 32.643 nel 2019 per scendere progressivamente a 28.109 persone nel 2022 e a più che dimezzare nei primi sei mesi del 2023 (con un totale di 13.813 persone). Per comprendere di cosa si sta parlando, partiamo dal fatto che il sistema penitenziario è organizzato in circuiti differenziati, regolati non da leggi dello Stato ma da circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ci sono i tre circuiti dell’Alta sicurezza, destinati alla detenzione di persone condannate o imputate per reati associativi e di terrorismo, e quelli della Media sicurezza, riservata ai cosiddetti detenuti comuni, che rappresentano la maggioranza della popolazione detenuta. Quest’ultimo è il circuito dove si riscontrano le condizioni più critiche e problematiche. Negli ultimi anni, tale circuito, ha subìto una ristrutturazione imposta dalla dialettica tra forze che esprimono diverse concezioni, diverse prospettive e interessi divergenti rispetto alla funzione e al funzionamento del carcere. Questa complessa, lenta e tutt’altro che uniforme riorganizzazione ha subito una forte accelerazione durante l’emergenza Covid, diretta da tre linee di tendenza, normate poi da due circolari del Dap alla fine del 2021 (con una bozza mai entrata in vigore) e nel luglio del 2022: il ripristino del regime a celle chiuse; la stabilizzazione del ricorso all’articolo 32 del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario; un utilizzo “informale” dei reparti di isolamento. Ci viene in aiuto uno studio pubblicato dal Garante nazionale precedente, che mette in luce la sperimentazione della circolare del Dap. Realizzata da luglio a dicembre 2022 nei Provveditorati di Campania, Lombardia, Sicilia e Triveneto, fotografa i diversi tipi di sezioni presenti (a custodia aperta, a custodia chiusa, a vigilanza dinamica) e mostra una “tendenza verso una riduzione delle sezioni a custodia aperta (passate dalle 434 con 12033 persone assegnate a luglio, alle 390 con 2283 persone assegnate a dicembre) a favore di un aumento delle sezioni ordinarie il cui regime è di fatto chiuso, al di là delle otto ore per le quotidiane incombenze (passate da 608 sezioni a luglio con 8080 persone assegnate a 687 con 15154 persone assegnate a dicembre)”. Una tendenza che, come osservato, rischia di non favorire il percorso di reinserimento del detenuto che la stessa circolare del 2022 dichiara essere il proprio principale obiettivo. Lo studio mostra, altresì, una preoccupante “riduzione delle sezioni a vigilanza dinamica (passate da 232 a 228) con una diminuzione delle persone detenute a esse assegnate (passate da 7026 a 6345)”. Infine, lo studio del precedente Garante ha confrontato i dati dell’andamento delle attività effettivamente svolte (e dei relativi spazi) nelle sezioni degli Istituti coinvolti restituendo “un quadro insoddisfacente, in cui appare evidente come - al di là di qualche Istituto che fa eccezione - l’offerta lavorativa, culturale, sportiva, ricreativa e anche scolastica non sia all’altezza delle esigenze della popolazione detenuta”. Lo spiega molto bene anche il recente rapporto di Antigone dove evidenzia che la circolare, nello specifico, pur prevedendo un minimo di otto ore di apertura nelle sezioni ordinarie e un minimo di dieci nelle sezioni a trattamento intensificato, nel definire il regime penitenziario delle sezioni ex art. 32, si limita a prevedere che sia “garantito quantomeno il tempo di permanenza all’aperto nei limiti ordinamentali previsti dall’art. 10 Ord. Pen.”, ovvero una permanenza “all’aria aperta per un tempo non inferiore alle quattro ore al giorno”. Secondo Rachele Stroppa di Antigone che ha curato l’approfondimento, sebbene non si stia parlando formalmente di isolamento, risulta evidente una tendenza alla chiusura che caratterizza oggi il sistema penitenziario italiano, in barba ai principi di sorveglianza dinamica che faticosamente si sono imposti a seguito della sentenza Torreggiani. “Alla luce delle nuove disposizioni introdotte, la possibilità di accedere al trattamento e, quindi, di partecipare alle attività (studio, lavoro, attività culturali, sportive e ricreative), sembra sempre più configurarsi come un meccanismo premiale e non già come base fondante dell’intero sistema di esecuzione penale”, conclude lo studio. Sanità penitenziaria. Zuccarelli (Anaao): “Con l’Autonomia differenziata al Sud sarà un disastro” quotidianosanita.it, 25 giugno 2024 “Se si va avanti, lo Stato dovrà accettare di avere le mani sporche del sangue dei detenuti”, dichiara il segretario Anaao Campania, che parla della grave carenza di personale sanitario nelle carceri. “In una situazione così compromessa le disparità legate alla diversa capacità delle Regioni di fornire servizi adeguati saranno catastrofiche. Regioni con risorse economiche maggiori miglioreranno i servizi sanitari, mentre quelle con meno risorse peggioreranno”. “In queste condizioni ai detenuti campani si nega il diritto costituzionale alla salute e, ancora una volta, si costringono i medici a lavorare in condizioni degradanti, oltre che pericolose”. Lo dice il segretario regionale dell’Anaao Assomed Bruno Zuccarelli, che - numeri alla mano - tratteggia i contorni di un’emergenza già conclamata, ma che “rischia di esplodere in tutta la sua drammaticità se l’autonomia differenziata dovesse diventare realtà”. “Stando al fabbisogno approvato dalla Regione - spiega in una nota - nelle carceri di Poggioreale, Secondigliano e Nisida dovrebbero essere in servizio almeno 53 medici, un numero che sarebbe già molto basso se si considera che parliamo di una popolazione carceraria di più di 3.400 unità. I medici effettivamente in servizio sono solo 28, quindi uno ogni 120 detenuti”. Per gli psichiatri e gli psicologi “il rapporto medico / detenuti è ancora più disastroso: ogni psichiatra deve occuparsi di 500 carcerati e ogni psicologo, in tutto ce ne sono 6, ha in carico circa 600 detenuti. Questo significa che in pratica ciascun detenuto è abbandonato al proprio dramma e nessuno può ricevere un reale supporto”. Enormi le carenze anche per gli infermieri che, spiega Zuccarelli, sono solo 140 (circa 1 ogni 24 detenuti) e gli operatori sociosanitari. Come tutto questo può aggravarsi con l’eventuale realizzazione dell’autonomia differenziata? Zuccarelli non ha alcun dubbio: “In una situazione così compromessa le disparità legate alla diversa capacità delle Regioni di fornire servizi adeguati saranno catastrofiche. Regioni con risorse economiche maggiori miglioreranno i servizi sanitari, anche nei propri istituti penitenziari, mentre quelle con meno risorse vedranno un peggioramento della situazione. Se questo avverrà, lo Stato dovrà accettare di avere le mani sporche del sangue dei detenuti che in quelle carceri si toglieranno la vita o non avranno le cure necessarie”. Altro aspetto caro a Zuccarelli è quello delle condizioni nelle quali i medici sono costretti a lavorare. “È inaccettabile che i colleghi debbano mettere a rischio la propria incolumità e la salute dei detenuti. La professione medica non richiede solo un alto livello di competenza, ma anche possibilità decisionale e di programmazione, qualità che possono essere gravemente compromesse dalle attuali condizioni, che sono insostenibili”. Per il leader regionale dell’Anaao Assomed costringere i medici a lavorare in queste condizioni solleva gravi questioni di etica. “È dovere delle istituzioni garantire che i professionisti della salute possano operare in un ambiente sicuro e di supporto. Non farlo significa ignorare la dignità e il benessere dei medici, oltre a compromettere gravemente la sicurezza dei detenuti. La responsabilità di fornire cure adeguate non dovrebbe ricadere solo sui singoli medici, ma su tutto il sistema che deve garantire le condizioni necessarie per operare al meglio. Noi ci batteremo perché questo avvenga”, conclude. Abuso d’ufficio vicino alla meta: Nordio sventa l’assalto dell’Anac di Valentina Stella Il Dubbio, 25 giugno 2024 Nella discussione generale sulla riforma, già votata in Senato, Calderone (Forza Italia) ricorda il sì alla soppressione del reato ottenuto dal ministro in Ue. Costa ribadisce l’ok dei centristi. Nel giorno in cui il ddl Nordio che, tra l’altro, abolisce il reato di abuso d’ufficio, approda alla Camera per la discussione generale, il presidente dell’Anticorruzione Giuseppe Busia prende di mira la riforma. In un’intervista pubblicata ieri dalla Stampa il vertice dell’Anac rilancia l’allarme per il “vuoto normativo” che, a suo giudizio, l’addio al reato spauracchio dei sindaci provocherebbe: “L’ordinamento non classificherebbe più come reato certi comportamenti che sono chiaramente non accettabili”. Busia aggiunge: “Le grandi imprese, per decidere dove investire, valutano attentamente che ci siano presidi adeguati contro la corruzione”. Sabato scorso il guardasigilli Carlo Nordio aveva proposto una chiave ben diversa. Aveva ribadito che il Paese con l’abolizione dell’abuso d’ufficio “cambierà radicalmente: sindaci e amministratori non saranno più paralizzati dalla paura della firma, la certezza del diritto sarà meglio assicurata”, ricordando come “la presidenza del Consiglio Ue ha accolto la nostra proposta di rendere facoltativo, e non più obbligatorio, il mantenimento di questo reato”, con la modifica della direttiva Anticorruzione, appena definita al vertice europeo di Lussemburgo. Tornando al dibattito parlamentare, il relatore del ddl Nordio, il forzista Pietro Pittalis, ha illustrato la riforma già approvata in prima lettura al Senato lo scorso 13 febbraio, che prevede anche il rafforzamento della tutela del “terzo estraneo” rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate, l’interrogatorio di garanzia prima dell’applicazione della custodia cautelare in carcere, l’introduzione di un “gip collegiale” a cui affidare l’esame delle richieste sempre in materia di “carcerazione preventiva” e l’inappellabilità delle assoluzioni (per i reati meno gravi). Pittalis ha ricordato che in commissione Giustizia “si è sviluppato un dibattito serrato tra le forze politiche, che non ha investito solo aspetti di natura tecnica ma anche una visione più complessiva del modello cui deve ispirarsi l’azione dello Stato nel settore penale e il suo rapporto con le tutele del cittadino che ne subisce la pretesa punitiva”. E la scelta, appunto, “è stata quella di confermare integralmente il testo approvato dal Senato”. Gli interventi successivi si sono concentrati soprattutto sull’abuso d’ufficio. Secondo la deputata del Pd Michela Di Biase, “con il ddl Nordio ci si aspettava una riforma organica, il titolo evocava grandi imprese, invece ci si trova davanti a una serie di norme e articoli che, in realtà, si concentrano, in maniera sbagliata e talvolta populista, su poche questioni. Rispetto ai proclami roboanti di grandi riforme, vi presentate”, ha detto la parlamentare dem rivolta agli avversari della maggioranza, “con una legge, a nostro avviso, mediocre, che però non per questo è meno pericolosa negli effetti che potrà produrre. Scegliere non di riformare ulteriormente ma di smantellare l’abuso d’ufficio significa obiettivamente dare un messaggio che va di pari passo con l’annuncio, fatto dallo stesso ministro Nordio, di voler mettere le mani sui reati della pubblica amministrazione”. Ma così, per Di Biase, si finirebbe per “incrinare il rapporto” tra cittadini e potere pubblico. Contrario ovviamente Federico Cafiero de Raho (M5S): “Si pensi al poliziotto che, abusando dell’uniforme, contesti un’infrazione stradale inesistente, e tanti, tanti altri sono ancora i casi in cui i pubblici ufficiali abusano del loro potere. L’abolitio criminis dell’abuso d’ufficio elimina la tutela nel caso in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale. E anche qui: quale rimedio ci sarà?”. Secondo l’azzurro Tommaso Calderone, invece, “ha detto bene il ministro Nordio in sede di Consiglio europeo quando ha precisato che il nostro Paese possiede un arsenale, ha usato questo termine che mi piace ripetere, per avversare la lotta alla corruzione. Quindi, ritenere, sostenere, urlare che l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio è un favore alla criminalità, come ho sentito in quest’aula, credo sia, e uso un termine ovviamente elegante, vista la sede, un fuor d’opera: non si fa una cortesia ad alcuna associazione criminale, si mettono in condizione migliaia di amministratori, funzionari e dirigenti di agire con tranquillità e non con lo spauracchio di essere incriminati e, magari, sospesi con un’altra legge veramente deprecabile come la legge Severino, dopo la condanna di primo grado. Noi li abbiamo messi in sicurezza, non in sicurezza nel senso che possono delinquere, ma nel senso che possono tranquillamente amministrare”. Il responsabile Giustizia e deputato di Azione Enrico Costa ha confermato il sì dei centristi al ddl penale di Nordio e ha detto: “Se tutti coloro che si dicono garantisti fossero coerenti, questo provvedimento sarebbe approvato all’unanimità. Invece, e mi rivolgo all’opposizione, sembra che esistano diritti di serie A e di serie B, e che tra questi ultimi vi sia il diritto di difesa. Abrogazione dell’abuso d’ufficio, interrogatorio prima della custodia cautelare, giudice collegiale, tutela dei terzi nelle intercettazioni, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, sono punti che proponiamo da ben prima del ddl Nordio, e per questo lo voteremo”. Intercettazioni, perché non sono uno strumento che garantisce l’affidabilità di Pieremilio Sammarco* Il Dubbio, 25 giugno 2024 Si attende dalla Camera dei Deputati il sì definitivo al disegno di legge (C. 1718) voluto dal ministro Nordio per la modifica del codice penale e segnatamente dei reati di abuso di ufficio e di traffico di influenze illecite; ma il testo prevede rilevanti disposizioni in materia di intercettazioni dirette ad assicurare una maggiore tutela al terzo estraneo al procedimento penale. Viene infatti introdotto il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni in tutti i casi in cui quest’ultimo non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento; per la tutela del soggetto che non è parte del processo, vi è il divieto di riportare nei verbali di trascrizione delle intercettazioni frasi che consentano la sua identificazione; è infine introdotto l’obbligo per il Pm di stralciare dai c. d. brogliacci espressioni lesive della reputazione o riguardanti dati sensibili di soggetti diversi dalle parti. Giustamente il ministro Nordio intende limitare l’uso delle intercettazioni come mezzo della ricerca della prova, considerato altamente invasivo e non sempre affidabile. Basti pensare alla recente vicenda che ha portato agli arresti domiciliari Toti: la frase intercettata “Toti chiedeva finanziamenti illeciti” attribuita a Spinelli in realtà, come si è scoperto, non è stata mai pronunciata e l’aggettivo vero era “leciti”. Nel 1996 quando il banchiere Pacini Battaglia fu arrestato uscirono delle intercettazioni che lo riguardavano: egli, a proposito di Antonio Di Pietro e del suo avvocato Lucibello, disse: “se li arrestano, per me è solo un piacere… perché a me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato”. Alle polemiche che subito divamparono, Pacini Battaglia disse che il termine “sbancato” era invece da intendersi “sbiancato”, poi diventato “stangato”, corretto successivamente in “stancato” e poi di nuovo “sbancato”, riferendosi però non alle pretese economiche di Di Pietro e Lucibello nei suoi confronti, quanto alla severità del primo e alla esosità delle parcelle del secondo. È evidente che, a seconda della trascrizione di quanto proferito dal soggetto intercettato, i significati sono estremamente diversi. A distanza di oltre un quarto di secolo, anche se i dispositivi tecnici sono più potenti, permangono le stesse oggettive difficoltà nella fedele traslitterazione dei file audio delle conversazioni registrate per conto dell’autorità giudiziaria; incidono dei rumori di fondo, parole mal pronunciate, malfunzionamenti tecnici e, non ultimo, errori umani da parte di chi materialmente trascrive i dialoghi, sulla cui involontarietà talvolta può sorgere qualche perplessità. Al fine di scongiurare dubbi sulla fedele trasposizione dei colloqui registrati, dovrebbe essere sempre consentito alle difese avere la disponibilità dei file audio così da poterli confrontare con le trascrizioni riportate negli atti giudiziari e verificarne la esatta corrispondenza. Ciò che sembra scontato per assicurare un processo privo di errori che possono inficiarne l’esito non viene invece sempre attuato. Nessuno sostiene che, in questi casi, vi sia da parte dei trascrittori l’intento di alterare le parole ascoltate perché ciò equivarrebbe ad una dolosa manipolazione. Escludendo quindi l’intenzionalità, subentra l’errore umano che le neuroscienze spiegano così: comprendere in modo sbagliato una parola ascoltata è un fenomeno legato alle nostre aspettative, cioè a ciò che pensiamo verrà detto, che produce una ridotta attività di un particolare circuito cerebrale che ha un ruolo critico nell’elaborazione dei suoni del discorso. Pertanto, l’ascoltatore, nell’accingersi alla trascrizione di quanto udito, sarebbe (inconsapevolmente) condizionato da ciò che egli si attende di sentire; in altri termini, la malizia risiederebbe nelle orecchie di chi ascolta. *Professore Ordinario di Diritto Comparato Fuori ruolo, Mirenda sbotta: “Uno scandalo le toghe al ministero” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 25 giugno 2024 Gravi le scoperture negli uffici del paese, ma continua “l’esodo” dei magistrati fuori ruolo. Il Consiglio superiore della magistratura colloca due toghe fuori ruolo per destinarle all’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e subito ripartono le polemiche, questa volta però amplificate dalla forte scopertura che caratterizza ultimamente molti dei tribunali italiani. Il corto circuito è andato in scena durante l’ultimo Plenum a Palazzo Bachelet. Dopo una intera mattinata dedicata alla discussione su come portare a compimento il Pnrr, applicando temporaneamente alcuni magistrati negli uffici più a rischio sui tempi, ecco spuntare la delibera che destinava due magistrati, entrambi in servizio a Roma, uno in procura e l’altro alla Corte d’appello, all’Ufficio legislativo di via Arenula. La pratica è arrivata in Plenum con la solita motivazione “stampone”, scaricando la responsabilità sul Guardasigilli Carlo Nordio che aveva scelto le due toghe ed a cui, nell’ottica della leale collaborazione, non si poteva dire di no. Una giustificazione che è stata duramente contestata dal togato indipendente Andrea Mirenda, che ha evidenziato la schizofrenia del Csm, il quale da un lato si lamenta della mancanza di magistrati e dall’altro autorizza il loro collocamento fuori ruolo per compiti che nulla hanno a che vedere con la giurisdizione. Le due toghe, come detto, sono state destinate non in un ufficio dove la loro presenza poteva essere considerata un elemento qualificante, ma all’ufficio legislativo dove, sempre secondo Mirenda, si realizza così uno stravolgimento del principio “della separazione dei poteri”. “Io auspico che ci si liberi dell’influenza dei magistrati al ministero”, ha aggiunto Mirenda, domandandosi poi quale sarà il loro impiego una volta terminato l’incarico ministeriale. Sul punto il togato ha lanciato, non citandolo, una frecciata all’attuale presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che, prima di essere eletto a capo dell’Associazione era stato fuori ruolo al ministero della Giustizia. “È come se uno che ha fatto parte della dirigenza Fiat diventasse il segretario della Cgil”, ha commentato in modo ironico Mirenda. Anche i togati Mimma Miele di Magistratura democratica e Antonino Laganà di Unicost, durante il dibattito, hanno espresso perplessità al riguardo. Il collocamento dei magistrati fuori ruolo continua dunque ad essere un nervo scoperto sotto tutti gli aspetti. Il magistrato che ricopre un incarico dirigenziale presso il ministero (non è comunque il caso delle due toghe in questione, ndr), oltre a percepire il normale stipendio, incassa anche un “trattamento accessorio”. I due emolumenti si cumulano e valgono ai fini pensionistici. La somma di questi due emolumenti, per una disposizione varata dal governo Renzi, non poteva inizialmente superare i 240 mila euro lordi l’anno, lo stipendio del capo dello Stato. La norma era stata modificata dal governo Draghi nel 2022 e vale solo per i magistrati. Nel 2013, uno dei primi provvedimenti del premier Enrico Letta era stato infatti quello di eliminare le indennità per i parlamentari che svolgevano incarichi di governo: il senatore che fa anche il ministro o il deputato che fa il sottosegretario percepisce solo lo stipendio da parlamentare. A via Arenula la quasi totalità delle direzioni generali è poi affidata un magistrato. E sono circa 50 i fuori ruolo incaricati di “funzioni amministrative”. Una circostanza che ha fatto storcere la bocca al costituzionalista Sabino Cassese, secondo cui “i magistrati sono scelti per giudicare, ma vengono assegnati a compiti amministrativi per cui non sono idonei perché non addestrati”. Il primo passo sarebbe quindi riattivare almeno le funzioni gestionali ai dirigenti civili, senza distogliere dalla giurisdizione un numero sempre maggiore di magistrati. Con il ruolo unico dirigenza amministrativa, non va dimenticato, c’è poco interesse a lavorare al ministero della Giustizia sapendo che difficilmente si potrà fare carriera essendo tutti i posti apicali destinati alle toghe. Fine vita, tutte le strade portano alla Consulta: nuovo rinvio a Milano di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 giugno 2024 Procedimento sospeso nei confronti di Marco Cappato, indagato per altri due casi di suicidio assistito: la gip segue la stessa strada di Firenze. Che ha sollevato la questione su cui ora dovrà pronunciarsi la Corte. Dopo Firenze, Milano. Con il nuovo rinvio alla Consulta, il rebus sul fine vita si complica. Oppure si risolve una volta per tutte. Molto dipenderà dal verdetto atteso dopo l’udienza che si è tenuta il 19 giugno in Corte Costituzionale, chiamata ancora una volta a pronunciarsi sull’accesso al suicidio assistito dopo la storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Antoniani/Cappato sul caso Dj Fabo. Il caso in esame riguarda Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto in una clinica in Svizzera nel 2022. Lo hanno accompagnato Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, che si sono autodenunciati al loro rientro in Italia e ora rischiano il processo per l’aiuto fornito: la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura per ora non può essere accolta, secondo la gip di Firenze. La quale ha chiesto il vaglio di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), così come modificato dalla sentenza 242, nella parte in cui subordina la non punibilità dei soggetti coinvolti al requisito del sostegno vitale: uno dei quattro paletti stabiliti dai giudici per l’accesso al suicidio assistito. Gli altri tre prevedono che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. Come Massimiliano, che però non era attaccato a un “macchinario”. La sua condizione era diversa da quella di Elena e Romano, la 69enne veneta e l’82enne di Peschiera Borromeo dalle cui vicende scaturisce l’altro procedimento a carico di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, indagato pure a Milano per averli aiutati a raggiungere la Svizzera. Ma il copione, per il resto, è lo stesso: anche in questo caso la gip ha rigettato la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura e trasmesso gli atti alla Consulta, ritenendo “non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale”. Per la giudice milanese Sara Cipolla, allo stato attuale la condotta di Cappato non può “rientrare nell’ambito di applicazione della giustificazione introdotta dalla Corte Costituzionale”, senza che sia la stessa Corte a risolvere il nodo relativo all’interpretazione del “sostegno vitale”: in senso restrittivo, come macchinario, o secondo una definizione “allargata”, al cui interno possa rientrare anche l’assistenza costante di cui hanno bisogno alcuni malati. In sintesi, ragiona la gip, la decisione non può ricadere sul singolo giudice. Ma, come si legge nell’ordinanza, “del tutto irragionevole - e dunque discriminatoria - appare invece l’esclusione dalle pratiche di suicidio assistito di chi pur affetto da una patologia irreversibile e destinato a morte certa, non abbia in corso un trattamento di sostegno vitale in quanto futile o inutile”. È il caso di Elena e Romano, entrambi morti in una clinica in Svizzera nel 2022. Il primo, affetto da una forma atipica di Parkinson, che aveva compromesso la sua mobilità e autonomia, aveva più volte manifestato la volontà di porre fine volontariamente alla sua vita, rifiutando l’ausilio di presidi quali a esempio la PEG per la nutrizione forzata. Mentre Elena, a seguito dell’evolvere del cancro che l’aveva colpita, non intendeva essere ricoverata o supportata nelle sue funzioni vitali da macchinari. I due procedimenti, a Milano e Firenze, restano dunque sospesi in attesa della Consulta. Dove ora si aprono nuovi scenari. Se la sentenza sul caso di Massimiliano si risolverà in senso positivo per i tre indagati a Firenze, che rischiano dai 5 ai 12 anni di carcere, anche a Milano il caso potrebbe tornare nelle mani del gip. I tribunali avrebbero una bussola: sarebbe la Consulta a definire nuovamente l’accesso al suicidio assistito in assenza di una legge che regoli la materia. Dopo quel monito rivolto cinque anni fa al Parlamento, con la sentenza 242, che resta tuttora inascoltato. Ma anche in caso di esito “negativo”, secondo l’interpretazione rappresentata dall’Avvocatura dello Stato (e quindi dal governo) alla Consulta, la nuova questione sottoposta alla Corte potrebbe rappresentare un’ulteriore chance “per affermare pienamente il diritto all’aiuto alla morte volontaria”, come sostiene Cappato. “Abbiamo evidenziato, nel corso dell’udienza del 19 giugno scorso in Corte Costituzionale, le questioni che oggi troviamo poste nella nuova questione di legittimità costituzionale in riferimento alla discriminazione tra malati nell’accesso all’aiuto al suicidio e sotto il profilo della ragionevolezza. L’ordinanza di rimessione conferma anche che tutte le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’avvocatura dello Stato - a nome del Governo - nell’udienza in Corte costituzionale sono destituite di ogni fondamento, dal momento che la rilevanza della questione risulta confermata proprio dalle storie della signora Elena e del signor Romano”, chiosa l’avvocata Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Coscioni e coordinatrice del collegio difensivo. Ora non resta che aspettare. Appello, il detenuto per altra causa elegge domicilio solo se il giudice non ne è edotto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2024 In caso di mancata conoscenza da parte del procedente che l’imputato impugnante sia ristretto per altra causa si applica il regime di ammissibilità dell’impugnazione previsto dalla Riforma Cartabia. In applicazione della Riforma Cartabia l’atto di impugnazione in appello deve essere accompagnato da nuova elezione di domicilio ai fini della notifica dell’atto di citazione, pena l’inammissibilità dell’atto di appello. Ma nel caso in cui l’appellante sia detenuto occorre differenziare le tre ipotesi che possono verificarsi al fine di stabilire se l’allegazione dell’elezione di domicilio all’atto impugnatorio sia o meno necessaria. Infatti, di regola il domicilio a cui notificare la vocatio in iudicium, in caso di detenuti, è quella del luogo di detenzione. Ciò in base all’articolo 156 del codice di procedura penale che impone per qualsiasi atto da notifcare all’imputato detenuto di procedere direttamente alla consegna alla persona nel luogo ove è ristretta. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 24902/2024 - ha dettato i principi in materia differenziando il caso in cui la detenzione sia relativa al procedimento per cui si presenta l’atto di appello o l’appellante sia invece detenuto per altra causa. In tale ultimo caso il discrimine perché si debba procedere o meno alla nuova elezione di domicilio è la conoscenza da parte del giudice dello stato di detenzione. Solo se il giudice è edotto dello stato detentivo in cui versa l’appellante non sarà necessario che questi abbia eletto domicilio ad hoc a pena di inammissibilità dell’atto di appello stesso. I casi possibili - Se l’impugnante è detenuto per il fatto-reato per cui si propone l’appello tale onere di eleggere o indicare domicilio, previsto dalla novella, non sussiste e il luogo di notificazione è ex lege quello dove egli è ristretto. Uguale regime che esclude l’obbligo si applica al detenuto ristretto per altra causa che sia però nota al giudice. Viceversa, nel caso dell’imputato impugnante, che sia detenuto per altra causa non nota al giudice, troverà piena applicazione il disposto della novella dell’articolo 581, comma 1 ter, del Cpp e non la regola generale della notificazione “alla persona” presso il luogo di detenzione, anche diverso dal penitenziario, dove l’appellante si trovi. La notifica alla persona detenuta - Sulla questione risolta dalla Cassazione va evidenziato che la conferma dell’inammissibilità dell’appello era dovuta al fatto che il ricorrente fosse detenuto per altra causa ma non nota al giudice. Tanto che nel procedimento, finito davanti ai giudici di legittimità, egli veniva indicato come “libero”. Sul punto va evidenziata l’affermazione delle sezioni Unite penali che con la sentenza n. 12778/2020 avevano dettato un preciso principio di diritto sulla prevalenza della notifica direttamente all’imputato detenuto anche in caso questi abbia provveduto a specifica elezione di domicilio in luogo diverso da quello di detenzione. Il chiarimento del massimo consesso nomofilattico indica che le notifiche all’imputato detenuto - anche qualora abbia dichiarato o eletto domicilio - vanno comunque eseguite presso il luogo di detenzione, in base al regime previsto dall’articolo 156, comma 1, del Codice di procedura penale, mediante consegna di copia alla persona. Al punto che l’eventuale notifica all’imputato-detenuto eseguita presso il domicilio dichiarato o eletto fa scattare una nullità a regime intermedio. Nullità sanabile eventualmente in base all’articolo 184 del Cpp con la comparizione personale e volontaria. Mentre quella coattiva non dispiegherebbe l’effetto sanante. Milano. Nei gironi infernali di San Vittore la parola d’ordine è “dimenticare” di don Roberto Mozzi* Avvenire, 25 giugno 2024 Negli ultimi 24 mesi, a San Vittore si sono tolte la vita 12 persone. In pochi saprebbero dire i loro nomi e ricordare i loro volti. La parola d’ordine è “dimenticare”. Con rapidità ed efficienza tutto deve tornare alla normalità in poche ore, come se nulla fosse avvenuto. La morte va rimossa in fretta, perché parla. La morte scandisce parole di dolore e incuria. Da dieci anni lavoro qui come cappellano e la morte è sempre stata affrontata così: “custodiamo corpi vivi, dei morti non sappiamo cosa farcene: non ce ne parlate neanche”. E invece oggi diamo parola alla morte: 31 maggio 2022, Giacomo Trimarco, 21 anni, muore a causa del gas inalato. Perché dopo due tentativi di suicidio con gravi conseguenze, l’ultimo dei quali poche settimane prima, Giacomo continua ad avere a disposizione la bombola del gas? Perché nessuno pensa di modificare la modalità del suo accesso al gas, dopo che, appena 6 giorni prima, il suo amico Abou El Maati Ahmed, con cui divide la cella, si è tolto la vita a pochi metri da lui? La notte tra l’11 e il 12 luglio 2022, Davide Paitoni, 40 anni, muore per impiccagione. Il giorno prima ha ricevuto la notizia del rigetto della richiesta di perizia psichiatrica nel processo in cui è imputato e per cui rischia l’ergastolo. Proprio in quella notte viene lasciato dormire in cella da solo. Come è possibile? Come è possibile prendere questa decisione proprio quella sera, dopo che Davide ha ricevuto una notizia così negativa per la sua vicenda giudiziaria? 11 settembre 2023, Davide Pessina, 34 anni. Dopo azioni violente verso altre persone detenute, viene collocato in cella di isolamento disciplinare, in una fase di disturbo psichiatrico acuto. Viene collocato in cella da solo e di notte gli viene chiuso il blindo. Quando riaprono il blindo, lo trovano impiccato. Come è possibile che una persona con disturbo psichiatrico in fase acuta sia collocato in isolamento disciplinare, da solo, con il blindo chiuso, di notte? 8 dicembre 2023, Ahmed Sadawi, 46 anni, muore per impiccagione nel bagno della cella, mentre nella rotonda di San Vittore viene trasmessa la prima della Scala. Si trova nelle celle ad Alto Rischio, ideate per la prevenzione di atti autolesivi o suicidari. Come è possibile che Ahmed Sadawi si tolga la vita proprio qui? Perché nessuno si accorge di nulla, nonostante le telecamere siano poste sia nella cella che nel bagno? Perché la lampadina del bagno è fulminata da giorni e nessuno l’ha sostituita? Ma soprattutto, come ha fatto a procurarsi la cintura con cui si è impiccato? Dei 12 suicidi a San Vittore, quattro sono stati causati dall’inalazione di gas. Oltre Giacomo Trimarco (21 anni), Othman Fathallah (32 anni), Reda Ben Mbarek (21 anni) e Hesham Zaki (23 anni). Da tempo molti operatori chiedono con insistenza che si trovino alternative all’uso del gas per cucinare, per i soggetti a rischio, che manifestano sintomi correlabili a questo tipo di abuso, proponendo soluzioni praticabili. Perché si preferisce lasciare tutto com’è? Qualcuno pensa che se venisse attivato un protocollo specifico, in caso di evento critico, ci sarebbero dei responsabili, mentre ora il gas è sotto la responsabilità di chi lo utilizza e a volte, come danno collaterale già previsto, ne muore. Queste sono le parole della morte e queste sono le sue domande, che finora nessuno ha mai ascoltato. Eppure dopo ogni morte in carcere viene aperta un’indagine giudiziaria. Possibile che, di fronte a violazioni così palesi dei regolamenti penitenziari e dei protocolli di prevenzione, nessuno abbia nulla da eccepire? Sappiamo tutti che se non c’è nessuno che fa rispettare le regole a chi le regole dovrebbe insegnarle, il risultato è l’anarchia. E allora aspettiamo che chi può e deve indagare, lo faccia al più presto, senza tralasciare nulla. Aspettiamo e speriamo. Perché la speranza è l’ultima a morire. Ma mentre noi speriamo, a San Vittore la morte continua a fare il suo lavoro. *Cappellano di San Vittore, intervento alla “Maratona oratoria” organizzata dalla Camera penale di Milano su “Fermare i suicidi in carcere” Brescia. I detenuti scrivono al Pontefice: “Ci aiuti almeno lei, Papa Francesco” di Mario Pari Brescia Oggi, 25 giugno 2024 Nella lettera inviata dai detenuti sono descritte situazioni insostenibili: la Casa circondariale di Brescia presenta condizioni che sono equiparabili, secondo quanto emerso in un recente incontro, a quelle di Guantanamo. La richiesta di chi è rinchiuso in cella non è quella della libertà, ma della dignità. Guantanamo. Succede anche lì. Si cucina e ci si libera fisiologicamente, dopo un’attesa di 15 turni, a poche decine di centimetri di distanza e contestualmente. I turni sono quelli dei compagni di cella, la stessa cella. È emerso recentemente in un incontro in cui si parlava di Canton Mombello. Che ora è “Nerio Fischione”, di nome. Ma di fatto è sempre “Cantone”, da tanto tempo, per i bresciani e non. Di nome e di fatto. Della situazione in cui vivono, sopravvivono e convivono i detenuti di Canton Mombello è stato reso partecipe anche Papa Francesco, attraverso una lettera dei detenuti che la loro garante, Luisa Ravagnani, ha inviato al Pontefice. In realtà ha scritto anche a tanti altri: si attendono risposte. Chiedono dignità e non libertà - Non è una richiesta di clemenza, ma di dignità rivolta a chi, come Francesco, ha dimostrato grande sensibilità verso detenuti e detenute. “Non è una protesta - spiega Luisa Ravagnani -: si vuol fare sapere che la situazione è esasperante”. Non è una novità far conoscere attraverso la stampa i problemi di Canton Mombello: “Quella lettera è arrivata, così com’è, dopo due mesi di lavoro per raggiungere la forma che ha. È stato tolto quello che poteva essere vissuto come lamentela inutile: è la descrizione di quello che accade quotidianamente. Chiunque ne resta colpito. Così, bisogna tenere presente che la lettera è stata letta davanti a parlamentari con un agente presente: nessuno ha obiettato, nulla è stato inventato. È stato un lavoro congiunto: italiani, stranieri, persone di diverse età. Non importa l’innocenza o meno, ma nessuno deve essere trattato così”. Allora, viene o meglio torna spontaneo pensare alle soluzioni possibili. La prima è quella di un nuovo istituto di pena a Brescia. “Se la questione è quella del nuovo carcere - risponde Luisa Ravagnani -, certamente è complessa. I detenuti hanno consegnato una proposta e propongono riflessioni. Innanzitutto è stata chiesta un’applicazione automatica della liberazione anticipata che oggi deve attendere 8-9 mesi. Se ci fosse un tempo reale potrebbero accedere a misure alternative, così come previsto dalla normativa”. Non soltanto: “C’è anche l’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario relativo allo sconto di pena in sovraffollamento”. Lo “sconto” è di un giorno ogni dieci, “ma se non avviene c’è il risarcimento che è di otto euro a giornata”. Con cucinino e annessi, secondo quanto sopra. Una condizione inumana - Quello che succede a Canton Mombello è noto a tutti da tempo. Le visite di politici e addetti ai lavori sono quasi “museali”: come nei giorni in cui ai musei l’ingresso è gratuito e tutti si fiondano. Poi tutto finisce. Restano le tragedie umane di chi deve attendere il 15esimo turno per avvalersi dei servizi con uso cucina, ma non necessariamente, complice l’anagrafe e tanto altro, riesce a gestirsi. “Se dovessi salvare qualcosa - commenta Luisa Ravagnani - salverei le persone: tutte. Dai detenuti alla polizia penitenziaria, separati apparentemente: li accomunano le sofferenze”. Dare a Canton Mombello un’altra funzione - Allora perché per Canton Mombello ci sono solo parole: forse darsi da fare per un nuovo istituto di pena non porta voti? “Lasciare aperto Canton Mombello - ribadisce Luisa Ravagnani - è per me un errore enorme. Non è al passo con un’idea rieducativa, non ci sono spazi. Se si costruisce una struttura da 200 posti non assorbe neanche tutto il Nerio Fischione, già sovraffollata. L’esigenza di Brescia è di 400 detenuti. Per questo è necessario prendere in considerazione un’altra funzione per Canton Mombello: quella dei detenuti in semilibertà, quella di persone che rientrano a dormire la sera”. Nel rapporto tra Luisa Ravagnani e i detenuti non c’è solo spazio per parlare delle prospettive penitenziarie, quantomeno in senso stretto. Così, quando le si chiede qual è la frase che l’ha più colpita in questi anni, non esita a rispondere: “Non chiediamo la libertà, ma cerchiamo dignità”. E questo per lei è “un pugno nello stomaco, non c’è nulla da ribattere. Mai nessuno ha chiesto un’amnistia. Si sentono come esseri umani senza risposte”. Lo stesso pugno nello stomaco quando vede un ex detenuto varcare i cancelli di Canton Mombello: “È una sensazione triste, una sconfitta per lui e per noi. Ed è alto il numero dei detenuti che ritornano”. A Francesco la richiesta d’aiuto affinché tutto ciò cambi. Reggio Emilia. Tortura in carcere, gli interrogatori: “Non ero d’accordo con le botte” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 25 giugno 2024 Entra nel vivo il processo per i fatti alla Pulce. Un agente si dissocia dal comportamento di alcuni colleghi. Un altro spiega perché mise il cappuccio al detenuto: “Si parlava di lamette e avevamo paura degli sputi”. Una parziale presa di distanza da un agente penitenziario imputato rispetto al comportamento di qualche collega verso un detenuto. Un altro poliziotto che ha invece spiegato e difeso l’uso della federa sulla testa del carcerato non solo nell’episodio del 3 aprile 2023, ma anche in uno avvenuto nel 2020. Davanti al giudice dell’udienza preliminare Silvia Guareschi, sono iniziati ieri gli interrogatori dei dieci agenti del carcere di Reggio accusati a vario titolo di tortura, lesioni verso un detenuto tunisino 44enne e falso nelle relazioni: i due uomini sentiti sono entrambi difesi dall’avvocato Federico De Belvis. Il detenuto era stato sanzionato con l’isolamento per aver violato il regolamento carcerario. Il primo poliziotto ha 29 anni: secondo l’accusa, aveva torto un braccio al tunisino, mentre altri colleghi gli salivano sulle gambe con le scarpe di ordinanza. “Dovevo andare in mensa, ma sentii urla. Il comandante della polizia penitenziaria facente funzioni chiamò alcuni colleghi, mentre altri andarono spontaneamente. Il detenuto fu convocato per una sanzione disciplinare comminata dal carcere di Bologna. Lui insultò la direttrice del carcere che lo aveva messo in isolamento. Poi sentii una voce femminile dire: ‘Attenzione alle lamette’. Quando il detenuto si rivolse agli agenti in modo aggressivo, si decise nell’immediatezza di bloccarlo”. Lui giustifica così la propria condotta: “Ho eseguito un ordine della direttrice del carcere di accompagnare il detenuto in isolamento. Gli tenni il braccio bloccato finché non fu portato in isolamento: l’ho solo trattenuto, ma non colpito”. Lui fa un’osservazione critica: “Ho visto che fu colpito da colleghi con un paio di pugni al volto, mentre era a terra: una condotta che non ho condiviso. Non segnalai perché era presente personale con un grado più alto del mio, che avrebbe potuto eventualmente farlo. E poi c’erano le telecamere che avrebbero immortalato eventuali responsabilità personali. Qualcora si fosse voluto sentirmi, avrei testimoniato subito: non mi aspettavo neppure di essere indagato”. Lui non assistette a ciò che accadde dopo. Parola poi a un agente 50enne: secondo l’accusa, “incappucciò il detenuto con una federa annodata e stretta al collo che gli impediva di vedere e gli tendeva difficoltosa la respirazione”. Lui ha ammesso l’uso della federa, giustificandolo però come unico strumento utile a contenere il pericolo che il detenuto potesse fare male ad altri. “Dopo aver saputo che lui poteva avere le lamette in bocca, e per evitare che sputasse saliva, ho trovato una federa con tessuto traspirante e gliel’ho messa in testa al detenuto”. E puntualizza: “Non l’ho mai percosso e non ho mai stretto la federa al collo. Ho invece verificato più volte che respirasse, mettendogli la mano sotto la federa come emerge anche dai filmati. Lui era lucido, ed è stato aggressivo fino all’arrivo alla cella di isolamento, quando gli ho tolto la federa”. Dice di non aver partecipato al denudamento, “che aveva comunque la funzione di perquisirlo per vedere se avesse lamette anche negli indumenti intimi”. Dice che fu usata la federa su un detenuto anche nella primavera 2020, in un altro episodio anticipato dal Carlino. Dagli atti depositati dal pm, l’agente risultava presente. “La federa fu usata per calmare il detenuto, a cui a Reggio fu trovata una forbicina”. A Piacenza risulta che portò la mano alla bocca ed estrasse una lametta, come scrissero i colleghi di quella città. “I poliziotti volevano cautelarsi dal pericolo di trovargli un’altra lametta in bocca. Io ero presente, ma non fui io a mettergli la federa e non ricordo chi fu”. Monza. Situazione carceraria e allarme suicidi: una “maratona oratoria” per sensibilizzare ilcittadinomb.it, 25 giugno 2024 Organizzata dall’Unione Camere Penali Italiane, è prevista a Monza il 3 luglio in piazza dell’Arengario a cura della Camera Penale di Monza. In sei mesi, nel 2024, sono già 45 i suicidi avvenuti nelle carceri italiane: “Morire di carcere. Non c’è davvero più tempo” dice la Camera Penale di Monza a fronte di un fenomeno che definisce “inaccettabile” e che deve essere affrontato “senza timidezze e con voce ferma”. Per questo invita alla “maratona oratoria”, organizzata dall’Unione Camere Penali Italiane, il 3 luglio dalle 11.30 fino alle 14.30/15.00, in piazza dell’Arengario a Monza, “per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni di degrado cui sono costretti i detenuti”. Un tema “che ci coinvolge tutti” scrive il direttivo monzese in una nota. Alla “maratona” chiunque potrà intervenire: “per portare il proprio contributo di esperienza professionale e umana e la propria sensibilità rispetto al tema delle carceri italiane, attraverso una riflessione di durata massima di circa 5 minuti”. Un momento al quale saranno invitati magistrati, operatori del diritto, professionisti ed esperti che quotidianamente vivono l’ambiente degli istituti penitenziari, “ma anche “ex detenuti” che potranno, attraverso la loro storia, raccontare il più profondo significato ed impatto dell’esperienza carceraria”. L’Avvocatura monzese e la Camera Penale la vedono come un’occasione: “di esprimere il valore sociale del nostro ruolo, di presentarci alla nostra Comunità non solo come tecnici ma come Persone che si spendono per proteggere i Diritti di tutti, anche e soprattutto di chi ha meno voce”. L’avvocatura penalista ha inoltre proclamato un’astensione giudiziaria dal 10 al 12 luglio “per denunciare, una volta di più, l’inumana situazione delle carceri italiane, immagine del fallimento di un sistema che rappresenta la negazione stessa della democrazia”. “La tutela dei diritti delle persone è un dovere di tutti a maggior ragione di chi, come l’avvocato penalista, assume il ruolo di controllore del rispetto delle regole e della salvaguardia delle garanzie; l’aula giudiziaria non può essere l’unico terreno nel quale misurarsi” si legge ancora nella nota della Camera Penale monzese. Evidenziata anche la distanza tra: “i principi costituzionali che dovrebbero garantire dignità, cura, rieducazione e la drammatica realtà dell’esecuzione della pena detentiva” in “strutture carcerarie sovraffollate, inadeguate e con ridotto numero di personale e mancanza di risorse” tanto che si tratta secondo gli avvocati penalisti monzesi di un “pianeta dimenticato che assume, in spregio alla finalità rieducativa della pena, una connotazione criminogena restituendo alla società cittadini privati della dignità”. “La vera sfida, quella più coraggiosa, più impopolare e per questo difficile da spiegare, consiste in un ripensamento delle regole che governano l’applicazione della custodia cautelare, spesso un’anticipazione di pena non giustificata da sufficienti esigenze di cautela” dice ancora il direttivo della Camera Penale monzese. “Il carcere dunque, davvero come extrema ratio, con riserva della massima misura custodiale a situazioni che la impongono in ragione di un effettivo, grave pericolo per la comunità”. Firenze. L’arcivescovo: il carcere una delle periferie che la Chiesa ha nel cuore di Roberta Barbi vaticannews.va, 25 giugno 2024 Monsignor Gherardo Gambelli fino alla sua nomina alla guida dell’arcidiocesi toscana, avvenuta l’aprile scorso, è stato cappellano della casa circondariale di Sollicciano. Prima ancora di questo incarico, ha trascorso sette anni in Ciad come missionario “fidei donum”. Le prime parole sono state per loro, i detenuti di Sollicciano in mezzo ai quali ha trascorso questo ultimo anno pastorale e ai quali ha promesso che andrà comunque a visitarli, ogni volta che potrà. Monsignor Gherardo Gambelli il 18 aprile scorso è stato nominato nuovo arcivescovo di Firenze e oggi prende possesso del territorio ecclesiale, succedendo al cardinale Giuseppe Betori, dal quale ha raccolto il testimone nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, quando ai cronisti ha parlato ancora una volta di carcere e di pastorale penitenziaria, una “priorità della Chiesa” perché consente davvero di “vivere la fedeltà al Vangelo”. Un concetto semplice che riprende anche nell’intervista con Radio Vaticana - Vatican News: “Anche Papa Francesco desidera attenzione verso le periferie e il carcere è una delle più importanti periferie esistenziali”. Avendo ricoperto entrambi i ruoli chiave della Pastorale penitenziaria, il neo presule riconosce l’importanza della collaborazione tra queste due figure: “È una vera e propria vicinanza, quella tra cappellano e vescovo, perché il cappellano ha il mandato del vescovo, ma attraverso di lui di tutta la Chiesa. E’ un ruolo - spiega - che coinvolge non solo lo stare accanto ai ristretti, ma anche alle loro famiglie”. “Il Papa afferma che i poveri con le loro sofferenze sono coloro che sono più vicini al Cristo sofferente e la Chiesa mettendo al centro i poveri mette al centro Gesù. Non dimentichiamoci che Gesù - sottolinea monsignor Gambelli - si identificava con i carcerati e non dimentichiamo che il Vangelo ci ricorda che saremo giudicati sulle opere di misericordia. È un cammino che ci rende sinodali: passando dalle periferie ritorniamo al centro, al cuore della Chiesa”. Il dialogo interreligioso? È fatto di opere - Da cappellano, l’arcivescovo di Firenze ha lavorato spesso accanto all’imam Hamdan Al Zeqri, guida spirituale islamica per i detenuti che a Sollicciano abbracciano questa fede: “La nostra collaborazione è un esempio del dialogo che si fa con le opere, un impegno comune a servizio dei bisognosi”. I due si sono conosciuti perché uno insegnava arabo all’altro, poi, quando si sono ritrovati in carcere è stato naturale condividere: “Lui veniva alla Messa di Natale così - ricorda monsignor Gambelli - io ho iniziato a partecipare ai loro momenti di preghiera e poi insieme abbiamo promosso una riflessione sul Documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana siglato da Papa Francesco e dal grande imam di al Azhar al Tayyib, mettendone in risalto il tema della costruzione della pace”. Il detenuto povero tra i poveri - Nella bolla di indizione del Giubileo 2025, Spes non confundit, il Papa ha annunciato che aprirà una Porta Santa all’interno di un carcere come invito per i ristretti a guardare al futuro, auspicando che si prendano iniziative volte a ridonare loro la speranza: “Papa Francesco - afferma il neo presule - ha detto una frase decisiva per la pastorale carceraria: ‘Non dimentichiamo i poveri che sono quasi sempre vittime e non colpevoli’. Il carcere è pieno di poveri ed esclusi, se impariamo a vederli così come sono, saremo finalmente illuminati”. In conclusione, don Gherardo, da nuovo vescovo, ha preso un impegno personale nei confronti dei ristretti che riecheggia nelle parole della Lettera agli Ebrei: “Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere”. Un impegno che può prendersi anche ognuno di noi come parte della Chiesa, ma in che modo? Risponde monsignor Gambelli: “Le parole sono due che s’incastrano una nell’altra: prevenzione e accoglienza”. Firenze. La guida islamica Al Zeqri: in carcere offriamo rieducazione e dignità di Roberta Barbi vaticannews.va, 25 giugno 2024 Di origini yemenita ma da vent’anni in Italia, la guida spirituale islamica dei detenuti della casa circondariale fiorentina di Sollicciano racconta la sua esperienza di servizio a chi è in cella e dice: col nuovo arcivescovo di Firenze ci siamo sempre aiutati come fratelli. È arrivato in Italia grazie a un accordo di cooperazione sanitaria internazionale. Già mentre si trova ricoverato in ospedale, a Firenze, tocca con mano la principale difficoltà che condividono le persone straniere come lui - non capire una parola - così decide immediatamente di studiare per diventare mediatore culturale e linguistico per la sua gente: “Non volevo che nessun altro vivesse quello che avevo vissuto io - racconta a Radio Vaticana Vatican News Hamdan Al Zeqri - la difficoltà di capire cosa mi veniva detto e di essere capito”. Stando ai dati, dei circa 60 mila detenuti rinchiusi negli istituti di pena d’Italia, circa un terzo è costituito da stranieri, e tra questi la metà si dichiara di fede musulmana: perciò nel 2015 un accordo tra il Dap - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - il Ministero dell’Interno e l’Unione delle Comunità islamiche d’Italia (Ucoii) ha introdotto la figura della guida spirituale islamica per i detenuti. Così Hamdan diventa la guida di quelli di Sollicciano: “Già prima - spiega - c’era una stretta collaborazione tra l’imam e il cappellano, almeno nel nostro contesto. Quello che facciamo non è solo curare l’aspetto spirituale per migliorare la vita al detenuto, ma ci occupiamo di lui anche da un punto di vista materiale, spesso, e comunitario: cerchiamo di essere ponte con la società, senza sostituirci allo Stato, naturalmente, ma aiutandone l’operato”. Il lavoro dell’Ucoii per il carcere - Questo perché la realtà dei detenuti stranieri in Italia è fatta sovente di disperazione e povertà: “Spesso sono senza documenti, oltre che senza famiglia e senza legami, uno scarto della società - racconta commosso - e quando non hanno un’identità è particolarmente difficile avviarli a un percorso di reinserimento”. Molto importante è anche l’attività di rieducazione che l’Ucoii attua in carcere: “Dobbiamo migliorare la loro vita, prevenire drammi come l’autolesionismo o il suicidio, ma anche pratiche come la radicalizzazione, soprattutto quella che viene dalla disperazione che è la più difficile da combattere”. Al Zeqri è stato nominato anche consigliere responsabile nazionale per l’Ucoii per l’assistenza alle persone detenute: “Le maggiori difficoltà che incontrano questi detenuti, sono quelle di tutti i detenuti, al di là della fede e cultura: i problemi ci sono per tutti, perché prima di ogni altra differenza sono persone”. Con il cappellano di Firenze: più che amicizia fratellanza - Oggi l’Ucoii è riuscita a inserire una guida spirituale islamica fissa in circa 22-23 istituti di pena italiani: “Cerchiamo di ampliare questo servizio, naturalmente, ma ci sono delle criticità: ad esempio il fatto che siamo tutti volontari e utilizziamo il nostro tempo, i nostri permessi dal lavoro, per aiutare queste persone”, spiega ancora Al Zeqri. Fondamentale, quindi, la collaborazione con altre figure analoghe come quella del cappellano, che fino a poco tempo fa a Sollicciano era don Gherardo Gambelli, prossimo arcivescovo di Firenze: “Con lui non c’è solo un’amicizia, è qualcosa di più, una fratellanza, è una collaborazione continua, concreta e proficua dal punto di vista sociale e pastorale oltre che umano: abbiamo fatto tesoro di quello che ci accomuna e lo abbiamo messo in pratica. È capitato a volte che, impossibilitato ad andare in carcere, don Gherardo mi ha sostituito per un colloquio con un detenuto: loro conoscono il rapporto di fiducia che c’è tra noi e questo trasmette tranquillità e benessere. Credo - conclude l’imam - che da un punto di vista umano, non teologico naturalmente, saprà davvero essere il vescovo di tutti i ristretti”. Verona. “Fratelli ergastolani”. I redenti di Frate Lupo di Fabio Finazzi Corriere della Sera, 25 giugno 2024 Quei “fine pena mai” convertiti in volontari dal religioso Beppe Prioli. Una vita nelle carceri accanto a condannati come Pietro Cavallero. Il risveglio dal coma e la richiesta: “Portatemi a trovarli di nuovo”. Ci sono quelli che “chiudeteli in prigione e buttate via la chiave”. Poi c’è fra Beppe Prioli, da Bonaldo di Zimella, Verona: da 6o anni batte meticolosamente gli anfratti di ogni galera italiana in cerca delle chiavi gettate. Per tutti è Fratello Lupo, dal titolo di un libro che racconta la sua missione di pioniere francescano nelle carceri, partita nel 1963 da un moto di ribellione a un articolo giornale: “Giovane di vent’anni condannato all’ergastolo. Fine pena mai”. “Fine pena mai? Ma come, quel ragazzo ha la mia età, potrei esserci io al suo posto”. Da questa scintilla, la stessa che indusse San Francesco ad affrontare e ammansire il lupo di Gubbio, inizia il suo incredibile viaggio attraverso la Cronaca Nera italiana in carne e ossa, negli abissi della coscienza dei crimini più indicibili. Un’attrazione più patologica che fatale, verrebbe da dire, se non fosse per le storie di riscatto e - a volte - di impensabili riconciliazioni, insieme certo a qualche fallimento e a tante fatiche, che costellano la sua originalissima biografia. E ci sarà pure un motivo se don Luigi Ciotti ha scritto di lui: “Per me è un amico la cui irruenta amicizia nei confronti dei detenuti, specie di coloro sul cui cuore pesano le colpe più gravi, contribuisce a farmi sentire più giovane e ottimista”. La lista degli ergastolani che si sono trovati a fronteggiare Fratello Lupo è molto lunga. Ma due storie sono più esemplari di altre. È il 1966, carcere di Porto Azzurro, all’epoca il peggior serraglio d’Italia. La riforma penitenziaria è di là da venire. Normale che ad Alfredo Bonazzi, rinchiuso nella cella di punizione sotto il livello del mare, quel ragazzo con il saio sia sembrato “un’allucinazione”. Gli riserva l’accoglienza che si merita: “Sei venuto a rompere i coglioni pure tu adesso? Non sai che mi chiamano la Belva di viale Zara?”. Risposta: “Per gli altri sarai una belva, per me sei un fratello”. Bonazzi è all’ergastolo per avere ucciso a colpi di cric il custode di una tabaccheria di viale Zara, a Milano. Nessuno lo aveva mai chiamato fratello. È un elettrochoc emotivo. Una crepa nella coscienza che diventa squassante rimorso e poi fiume in piena di creatività: un premio di poesia dopo l’altro, si trasforma in caso letterario e infine, graziato dal presidente Leone, in volontario della Fraternità (l’associazione fondata da fra Beppe) fino alla sua morte, nel 2015. Un percorso interiore lucidamente descritto da Pietro Cavallero: “Fu la carica di umanità di persone come lui a sbloccarmi: tu dai uno schiaffo, l’altro ti perdona. E allora capisci finalmente tutto il male fatto: ti senti sconfitto, veramente sconfitto. La repressione può piegarti, ma solo esternamente. Certi uomini, invece, ti disarmano davvero”. Cavallero, il pericolo pubblico numero uno a capo della banda che mise Milano a ferro e fuoco, disarmato da un saio. Anche per lui si apre una crepa, inizia un lungo percorso di riabilitazione senza sconti (non è il perdono “prét-à-porter” la specialità di fra Beppe e dei veri pentiti) che lo porterà a diventare volontario fino alla sua morte, nel1997, al Sermig di Ernesto Olivero. L’irriducibile Fratello Lupo oggi ha 81 anni, costretto in carrozzina in una casa di riposo dei frati francescani. Un grave malore, mesi di coma, il risveglio insperato. Il secondo, per la precisione. Già nel 1997 era stato tra la vita e la morte, dopo una caduta accidentale in casa. Riaperti gli occhi aveva chiesto a Emanuela Zuccalà, penna brillante e delicata, di scrivere un altro libro. Titolo: “Risvegliato dai lupi”. Perché, diceva, era stata l’onda di affetto delle lettere giunte a centinaia da tutte le carceri d’Italia a riportarlo in vita. Seguirà nel 2008 una nuova fatica letteraria: “Quarant’anni tra i lupi”, con i diari della “Fraternità”. Oltre a trovare la forza di declinare le sue tre parole d’ordine (“Ascolto, confronto, accoglienza”), ci confida che ora gli resta ancora un sogno. “Vorrei essere accompagnato, in carrozzina, tra le celle del carcere di Verona per salutare i detenuti uno a uno”. Vuoi mai che qualcuno abbia buttato via le chiavi. La Festa della Musica si celebra in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 giugno 2024 Negli istituti penitenziari si contano decine di laboratori musicali, cori, corsi, concerti e produzioni di cd. Non sorprendono, perciò, le tante performance organizzate nel mese di giugno nelle carceri in adesione alla Festa della Musica, evento internazionale che da 30 anni celebra il solstizio d’estate. “La prima orchestra siamo noi” è il tema scelto per il trentennale, ispirato ai valori della solidarietà e dell’inclusività. Spazio dunque alla musica leggera, al pop italiano, quello delle magiche alchimie di testi e musica, protagonista del cartellone degli eventi nelle carceri. Testi e musica saranno al centro dell’incontro di Giulio Rapetti in arte Mogol e del pianista Giuseppe Barbera con i detenuti della casa circondariale di Civitavecchia in programma per il 27 giugno. Nell’occasione sarà lanciato un concorso di poesia che vedrà, tra i giurati,oltre al grande paroliere, rappresentanti di settore e docenti dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. In anticipo di qualche giorno si è tenuto a Voghera un concerto - tributo a Mina della cantante Michela Borgia mentre nel carcere di Foggia il 4 giugno Carlo Baldassini, cantante e attore del Teatro della Polvere, Massimo Baldassini, chitarrista e Rossella Coccia, una delle migliori voci del panorama musicale foggiano, hanno intrattenuto la popolazione detenuta per oltre due ore, eseguendo una selezione dei più grandi successi Lucio Dalla, Riccardo Cocciante, Pino Daniele, Ligabue e Vasco Rossi. La casa circondariale di Brindisi il 21 giugno sceglie di rendere omaggio a un grande corregionale, autore e interprete, Domenico Modugno, con il musical “Modugno - L’uomo che fece volare il mondo”. Una performance che, nel rievocare la vita dell’artista, coinvolge detenuti del laboratorio insieme alla band dell’Associazione “Futuro Musica” di Brindisi. Anche nella casa di reclusione di Sulmona esibizioni di detenuti in interpretazioni canore o reading accompagnati da un gruppo esterno teramano, la Jeriatrika Rock, band che eseguirà anche brani italiani e stranieri. Ascolto di musica con cena cucinata dai detenuti è la formula scelta dalla casa circondariale di Lecco dove si terrà uno spazio musicale a cura dell’associazione concertando e una performance dell’artista Afran basata sull’unione tra arte pittorica e musica. Dalle carceri campane oltre all’esibizione della Perrotta and friends a Eboli, arriva un’iniziativa particolarmente in linea con il tema della a Festa della Musica: a Carinola presentazione della “sala della musica” realizzata grazie al contributo dei Rotary Club di Napoli e di Sessa Aurunca con gli strumenti musicali donati dall’Associazione “Nova Onlus”. Nella casa di reclusione di Roma Rebibbia l’associazione Dire, fare, cambiare concerto conclusivo del laboratorio di canto condotto da Assia Fiorillo e Giulia Morello. Nel corso di un’intera mattinata di festa anche esibizione della Caracca - tamburi itineranti e presentazione del libro “Metà giardino, metà galera, le parole del carcere nella musica italiana” di Alessia Villa e Leandro Vanni. Ha scelto, infine, il canto popolare l’istituto di Lodi per celebrare la Festa il 29 giugno quando andrà in scena lo spettacolo “Un’ora in - canto”. Spettacolo con un valore aggiunto: utilizzare le espressioni musicali di culture diverse per promuovere un messaggio di eguaglianza e pace. A interpretare un vasto repertorio il Coro Monte Alben Città di Lodi che ha già ottenuto numero di riconoscimenti anche in ambito internazionale. Che cosa è diventata la parola “fascista” di Dacia Maraini Corriere della Sera, 25 giugno 2024 Le parole, ricordiamolo, non sono solo suono, hanno una storia e un significato preciso che bisognerebbe conoscere. La scuola, a quanto mi risulta, non lo fa. Non che sia proibito studiare il fascismo, ma di solito non si arriva a raccontare le vicende del regime e dell’ultima guerra perché le classi troppo numerose rendono impossibile tenere testa ai tempi stabiliti. Strano destino quello della parola fascista che viene usata sia come un semplice aggettivo, sia come la memoria che racconta una epoca di gravi errori politici e storici. Stupisce quando proprio coloro che agiscono secondo i criteri autoritari e intolleranti del fascismo adoperano la parola per denigrare l’avversario. Peggio avviene con la parola nazista, da tutti considerata l’espressione del peggio che l’essere umano abbia inventato. Eppure nazista è diventato un insulto che si rimpallano capi di stato e generali che praticano intolleranza e autoritarismo, per screditare il nemico. Abbiamo sentito Trump, tanto per citare un caso, gridare che l’America è diventata fascista e nazista perché i giudici l’hanno condannato per le sue malefatte. Cosa pericolosissima, a prescindere dal caso personale, perché mette in discussione una istituzione fondamentale come la magistratura. Una democrazia senza una magistratura libera e autonoma non è più democrazia. Ma questi atteggiamenti fanno parte della politica trumpiana che tende dichiaratamente a sottomettere il parlamento, e dirigere con mano ferma le istituzioni. Le parole, ricordiamolo, non sono solo suono, hanno una storia e un significato preciso che bisognerebbe conoscere. La scuola, a quanto mi risulta, non lo fa. Non che sia proibito studiare il fascismo, ma di solito non si arriva a raccontare le vicende del regime e dell’ultima guerra perché le classi troppo numerose rendono impossibile tenere testa ai tempi stabiliti. Ma forse, aggiungerei, anche perché molti insegnanti non vogliono prendere apertamente posizione su qualcosa che ci riguarda ancora oggi. In questo modo però la parola fascista ha perso la sua valenza storica così importante per capire il presente, scadendo a termine che esprime un generico principio di negatività. Quanti giovani che usano la parola fascista come un insulto o al contrario come un valore da esaltare conoscono la storia dettagliata di quel periodo, di quel regime, dei danni che ha fatto al nostro paese umiliando il parlamento, soggiogando le istituzioni, accettando le orribili leggi antisemite, assassinando gli avversari, imbarcandosi in una guerra stupida e ingiusta? Per queste ragioni sarebbe bene fermare per un momento questo disordine linguistico e riflettere su quello che c’è all’interno delle parole: che cosa ricordano e come vivono dentro di noi in tempi diversi, senza trascurare i fatti e le azioni da cui sono nate. Non autosufficienti, un tema non più rinviabile di Sergio Harari Corriere della Sera, 25 giugno 2024 Una sentenza della Corte d’appello di Milano, rischia di far scoppiare tutti i programmi di assistenza ai milioni di malati cronici, anziani e non, del nostro Paese, sostenuti in gran parte dalle famiglie. Dove termina la cura e inizia l’assistenza? E le due cose sono scindibili? Ruota tutta su questo argomento la sentenza della Corte d’Appello di Milano relativa ai costi di degenza di una anziana signora affetta da Morbo di Alzheimer ricoverata in una Rsa e riportata dal Corriere nei giorni scorsi. I giudici d’Appello, accogliendo le motivazioni della Cassazione a cui si era rivolta la famiglia della signora, hanno chiarito che esiste un “rapporto di inscindibilità tra prestazioni sanitarie e prestazioni socio-assistenziali (...) che si configura quando l’assistito debba essere sottoposto ad un programma terapeutico necessario in relazione al relativo quadro clinico anche a supporto della patologia in funzione riabilitativa e/o conservativa”. In pratica la Corte d’Appello ha stabilito che vengano restituite le rette corrisposte dai familiari della donna ricoverata, non spettando nulla a loro carico. La sentenza rischia di far scoppiare tutti i programmi di assistenza ai milioni di malati cronici, anziani e non, del nostro Paese, i cui costi sono in parte significativa sostenuti da loro stessi e dalle famiglie. Affrontare il tema della cronicità e della non autosufficienza diventa sempre più indifferibile, sia per le ragioni epidemiologiche legate all’andamento demografico, sia per i costi e i finanziamenti indispensabili, che per le strutture e il personale necessari. Far finta di nulla rischia solo di peggiorare la bomba sociale che è già innescata. “Anche l’ospitalità deve essere a carico dello Stato, non solo i costi sanitari” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 25 giugno 2024 Malati di Alzheimer in Rsa. La Corte d’Appello di Milano ha condannato una struttura a restituire le rette corrisposte dalla figlia di una donna ricoverata: contributo illegittimo, Ats e Regione devono pagare totalmente e non solo partecipare con un rimborso. Una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano potrebbe cambiare l’esistenza di molte famiglie di anziani malati di Alzheimer e ricoverati in una Residenza sanitaria assistenziale. Dall’altra parte, potrebbe costringere lo Stato e soprattutto le Regioni a ridefinire i propri bilanci in relazione ai ricoveri e le cure per anziani con queste patologie. La sentenza riguarda una Rsa milanese e una famiglia che risiede nell’hinterland (assistita dall’avvocato Giovanni Franchi), con un’anziana madre malata di Alzheimer che viene ricoverata tra 2014 e 2015 (anno del decesso). Il costo per un paziente in Rsa si aggira tra i 90 e i 150 euro al giorno; le strutture private hanno una convenzione con Regione Lombardia che, per questi pazienti, rimborsa 29, 39, o 49 euro al giorno, a seconda della situazione. Il resto della quota (il contratto firmato dalla figlia della signora con la Rsa prevedeva un contributo di 58 euro al giorno) è a carico della famiglia. Le due voci sono distinte in base ai servizi: da una parte i costi sanitari (rimborsati), dall’altra i costi per l’ospitalità (in carico alle famiglie, che se hanno un reddito molto basso possono chiedere un contributo ai Comuni). La Cassazione ha stabilito che, se si tratta di ricoveri che prevedono una prestazione sanitaria, tutti i costi vanno imputati al sistema sanitario. Commenta l’avvocato Franchi: “C’è un orientamento giurisprudenziale che ormai si sta delineando in molti Tribunali italiani. Oggi questo problema si affronta a livello giudiziario, ma il tema andrebbe affrontato a livello complessivo, con una scelta politica”. I giudici d’Appello (a cui la vicenda è stata rinviata dalla Cassazione dopo due decisioni sfavorevoli per la famiglia) non hanno potuto far altro che adeguarsi al pronunciamento della Suprema corte, condannando la Rsa a restituire le rette pagate dalla figlia della donna, condannando al pagamento delle spese legali anche l’Ats e la Regione. In Italia esistono circa 300mila posti letto per anziani in Rsa, 60mila dei quali sono in Lombardia. L’ipotesi che possano essere coperti completamente dal servizio sanitario sarebbe un terremoto per le casse dello Stato. Questo non toglie che si tratti di un’urgenza inderogabile, che scivola però in fondo alle priorità dei governi perché non porta voti. Spiega Luca Degani, presidente di Uneba, che riunisce 455 fondazioni no profit con prestazioni socio sanitarie, di fatto il 70 per cento dell’offerta socio-sanitaria lombarda per anziani: “Altre sentenze della Cassazione e del Consiglio di Stato hanno ritenuto pienamente legittimo il modello della compartecipazione. In generale, esiste un tema di anziani non autosufficienti in numero sempre crescente. Non si può pensare di avere un fondo sanitario più alto di oggi, dato che i contribuenti diminuiscono per questioni demografiche. Bisogna costruire una nuova programmazione. Non è assurdo il principio secondo il quale la popolazione con capacità di reddito maggiore dei giovani contribuisca alle prestazioni, la redistribuzione si fa anche in questo modo”. I migranti irregolari sono un affare. Per questo preferiamo non vederli di Nadia Urbinati* Il Domani, 25 giugno 2024 Non è vero che gli immigrati sono invisibili. Sono molto visibili a tutti. E le norme e la mentalità servono a schermarli. Non vogliamo vederli come lavoratori; vogliamo vederli come irregolari, esposti all’interesse di chi irregolare non è. Dalla loro dignità dipende anche la nostra. Vi è un momento nella vita di un immigrato in cui tutto sembra perduto. L’iniziale timore per il nuovo si fa paura di non riuscire a emergere dalla precarietà radicale - avere un lavoro non occasionale, una casa non provvisoria, una vita di relazioni umane. Quel momento di interregno è il termometro che misura il grado di decenza della società ospitante. Quanto lungo, paludoso e arbitrario è il percorso che porta all’immigrazione certificata e, in prospettiva, alla cittadinanza? Nessuna norma che definisce la porosità delle frontiere, che seleziona chi respingere e chi accettare, può esimersi dal rispettare alcuni diritti fondamentali, non importa quale sia la maggioranza al governo. Ma i paesi democratici non sono tutti uguali. Tutti prevedono corridoi verso la cittadinanza per coloro che sono ammessi come immigrati residenti. Ed è proprio qui che le strade divergono. Governare l’interregno - L’Italia ha affrontato il problema con l’obiettivo di bloccare o rendere terribilmente difficile il passaggio da migranti a immigrati regolari (permesso di soggiorno) e poi cittadini. La normativa è stata studiata in modo che alcuni umani mai possano arrivare (perfino in violazione alle norme del soccorso in mare) e altri restino in un limbo normativo per un tempo indefinito. In questo limbo, gli immigrati attraversano l’inferno, del quale noi cittadini ci rendiamo conto solo quando la loro vicenda diventa un caso di cronaca. Alcuni paesi riescono a governare con normative funzionali questo interregno, altri no. Il nostro è tra questi ultimi. Le norme che si impongono all’immigrato in cerca di regolarizzare il proprio stato sembra siano tate pensate per lasciare spazi aperti al potere arbitrario. Gli ostacoli per giungere a uno sportello, per produrre un documento, per fare una richiesta sono tali e tanti da mettere chi subisce questa ordalia in uno stato di fatalismo o di rabbia. Meglio restare irregolari. E vittima di altri soprusi. La Bossi-Fini - Anche da questo punto di vista, la legislazione italiana nota come Bossi-Fini è una vergogna giuridica ed etica perché rende quel periodo di interregno lunghissimo, per alcuni eterno, e soprattutto lasciato all’arbitrio con implicazioni tragiche per la vita delle persone. Nel rapporto annuale del 2006, Amnesty International aveva evidenziato le criticità di questa normativa, benché l’Italia aderisca alla Convenzione delle Nazioni unite sui rifugiati. La legge ha emendato l’esistente legislazione sul diritto di asilo e ha creato un limbo, un interregno nel quale si consumano molte delle tragedie che lamentiamo, l’ultima in ordine di tempo la morte del bracciante Satnam Singh, scaricato dai padroni sul ciglio della strada, come un rifiuto. La legge Bossi-Fini ha istituito centri di identificazione per la “determinazione” dei richiedenti asilo e quella che doveva essere una procedura veloce si è rivelata un inferno di arbitri. L’accesso alle procedure di asilo che la legge stabilisce viola gli standard previsti dalla normativa internazionale e il principio di non respingimento, un principio che vieta di rimpatriare o espellere forzatamente i richiedenti asilo verso paesi in cui potrebbero essere a rischio di gravi abusi dei diritti umani. Destra e sinistra - Sulla stessa falsariga le successive integrazioni, come quella a firma del ministro Minniti che prevede la possibilità che molte delle migliaia di migranti e richiedenti asilo giunti in Italia via mare, principalmente dalla Libia, siano respinti indietro. Destra e sinistra hanno collaborato in questa politica, ciascuno proseguendo l’opera lasciata dall’altro. Qui non ci sono stati avversari politici. A coronamento di questa vergogna normativa vi è il fatto che l’immigrazione irregolare è un affare per tanti italiani, e per i partiti che aspirano al loro voto. L’immigrato irregolare è una condizione normativa che lascia spazio allo sfruttamento dei lavoratori e all’arricchimento veloce dei padroni (abituandoli alla pratica dell’evasione, dell’illegalità, della disonestà). L’immigrazione irregolare sta insieme alla criminalità, non solo quella degli scafisti. Rende l’intero paese responsabile. La legge Bossi-Fini deve essere superata anche per togliere di mezzo questa vergognosa logica dell’illegalità. Ma non ci si illuda che questo basterà a cambiare la mentalità diffusa che ha contribuito a creare, e per la quale l’immigrato è un irregolare comunque, con l’implicito assunto che il suo lavoro non può che essere servo. Irregolari e cittadini sono due umanità in relazione gerarchica. Non è vero che gli immigrati sono invisibili. Sono molto visibili a tutti. E le norme e la mentalità servono a schermarli. Non vogliamo vederli come lavoratori; vogliamo vederli come irregolari, esposti all’interesse di chi irregolare non è. Dalla loro dignità dipende anche la nostra. *Politologa Decenni di promesse tradite nella lotta al caporalato in agricoltura di Antonio Maria Mira Avvenire, 25 giugno 2024 Dai fondi Pnrr rimasti inutilizzati al nodo delle strutture che mancano per i braccianti: dal 2007 a oggi numerosi i tavoli di confronto e i commissari per l’emergenza ghetti. Con scarsi risultati. Tavoli tecnici, commissioni, protocolli, linee guida, commissari, decreti, circolari. È infinito l’elenco dei provvedimenti per contrastare caporalato e sfruttamento dei lavoratori. Ma con scarsi risultati, spesso lettera morta. “Non servono nuove norme, non serve inasprire le pene. Basterebbe applicare quelle che ci sono e soprattutto fare prevenzione, partendo dall’eliminazione dei ghetti” riflette amaramente il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, tra i magistrati più impegnati nella lotta allo sfruttamento. L’ultimo provvedimento del governo riguarda proprio i ghetti, anzi i cosiddetti “insediamenti informali”. Ed è la nomina del prefetto di Latina, Maurizio Falco a commissario per il loro “superamento”. Lo prevedeva il decreto legge 19 del 2 marzo 2024, e doveva essere nominato entro 30 giorni ma è arrivato con più di un mese di ritardo. “Sono necessari maggiori controlli da parte di ispettorato del lavoro, Inps, Inail e forze dell’ordine, ma per imprimere un’efficacia diversa è necessario un coordinamento delle forze in campo. E questa sarà una mia priorità” ha detto ieri in un’intervista al Messaggero. Il suo compito è soprattutto di riuscire a spendere i 200 milioni che il Pnrr ha destinato ai Comuni dove esistono questi insediamenti, e che ancora non sono stati spesi. Neanche un euro. Ma non è il primo commissario. Col “decreto Sud” 91 del 20 giugno 2017 vennero nominati ben tre commissari, per le aree di Manfredonia, San Ferdinando e Castel Volturno, quelle con alcuni dei ghetti più grandi e indegni. Come ricorda uno di loro, Iolanda Rolli, poi prefetto di Macerata e Reggio Emilia, “dovevamo individuare le possibili soluzioni per superare situazioni di vulnerabilità in zone caratterizzate dalla massiva concentrazione di cittadini stranieri. In particolare realizzare un piano di interventi per il risanamento delle aree interessate, curando il raccordo tra gli uffici periferici delle amministrazioni statali, in collaborazione con le regioni e i comuni”. Tutto questo, ricorda, “senza nulla. Non avevamo personale, non avevamo stanze, non avevamo fondi. Ma abbiamo fatto un lavoro che è stato riconosciuto”. Ma sono durati solo un anno. Con l’arrivo del governo gialloverde sono stati eliminati e commissari sono diventati i prefetti di Caserta, Foggia e Reggio Calabria. Da sei anni ogni prefetto di questi tre territori è anche commissario ma risultati non se ne vedono. Ma facciamo un passo indietro. Nel 2014 col decreto legge 91, viene prevista la Rete del lavoro agricolo di qualità, istituita presso l’Inps. Si volevano selezionare le imprese agricole più virtuose. Di questa “cabina di regia” non faceva parte il Viminale. Due anni dopo, con la “legge anticaporalato”, la 199 del 29 ottobre 2016, viene ampliata la composizione e vi entra il ministero dell’Interno e vengono create le sezioni territoriali/provinciali. Attualmente sono 48 su 107 tra province e città metropolitane, in tutte le regioni tranne Veneto, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Umbria, Abruzzo e Molise, mentre le aziende agricole iscritte alla Rete sono al 19 giugno 6.521su oltre 120mila, decisamente poche. Ma prima della legge 199, il 27 maggio sempre del 2016, i ministri dell’Interno, Lavoro e Agricoltura, firmano un “Protocollo contro il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura”. Firmano anche i sindacati, le organizzazioni degli imprenditori, le regioni più coinvolte, Croce rossa, Caritas e Libera. Prevede la stipula di convenzioni per i trasporti dei braccianti, l’istituzione di presidi sanitari mobili, la destinazione di immobili confiscati per centri di servizio e assistenza, progetti pilota per l’utilizzo di beni demaniali per l’accoglienza degli stagionali, attivazione di sportelli informativi, corsi di italiano, e tante altre iniziative, rimaste purtroppo sulla carta. Per questo poi arrivano i tre commissari, ma per troppo poco tempo. “Troviamo un vuoto - ricorda ancora Rolli -. Giro tra ministero e Inps. Facciamo riunioni. Vado nei ghetti. Le sezioni non erano state fatte. A marzo apro a Foggia la prima e ora in Puglia esistono in tutte le province. Avevamo individuato delle strutture di accoglienza sia per stanziali che per stagionali”. Poi più nulla o quasi. Ma fioccano ancora protocolli. Il 14 luglio 2021 se ne firma un altro, sempre tra gli stessi ministeri di cinque anni prima, oltre a sindacati e Anci. Stesse finalità, ma per la sua attuazione viene costituita una commissione. A presiederla è chiamato l’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che muore dopo poco più di un anno. Cambia il governo, non viene nominato un nuovo presidente e la commissione non si riunisce mai. Analogo destino delle “Linee-Guida nazionali in materia di identificazione, protezione e assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura”, approvate dalla Conferenza unificata Stato/Regioni il 7 ottobre 2021. Prevede, tra l’altro, che entro sei mesi ogni regione predisponga un proprio piano. Nessuna lo ha fatto. Eppure il tema delle vittime è ben noto da tempo. Il 4 ottobre 2007 l’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato invia ai questori una circolare invitandoli “a valutare la possibilità di concedere un permesso di soggiorno per protezione sociale, anche nei confronti di quegli immigrati verso i quali saranno accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento sul luogo di lavoro”. Proprio quello di cui si sta parlando in questi giorni, dopo la tragica morte di Satnam Singh: 17 anni dopo. Julian Assange è libero: il fondatore di WikiLeaks ha patteggiato con gli Usa e ha lasciato il Regno Unito di Laura Zangarini Corriere della Sera, 25 giugno 2024 Il fondatore di WikiLeaks ha concordato un patteggiamento con il dipartimento di Giustizia Usa: è libero e ha già lasciato il Regno Unito. Il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, ha accettato di dichiararsi colpevole di un reato relativo al suo ruolo in una delle più grandi violazioni di materiale classificato americano, come parte di un accordo con il Dipartimento di giustizia Usa che gli consentirà di evitare la reclusione negli Stati Uniti e di tornare in Australia. Lo riferisce la Cnn, citando documenti recentemente depositati presso la corte federale. Il patteggiamento deve ancora essere approvato da un giudice federale. “Assange è libero” ha annunciato Wikileaks, che riporta che l’australiano, 52 anni, ha lasciato la prigione di Belmarsh lunedì mattina, è stato rilasciato dalla giustizia britannica nel pomeriggio all’aeroporto di Stansted a Londra, da dove si è imbarcato su un aereo e ha lasciato il Regno Unito. Secondo i termini del nuovo accordo, i pubblici ministeri del dipartimento di giustizia chiederanno una condanna a 62 mesi, che equivale agli oltre cinque anni che Assange ha scontato in un carcere di massima sicurezza a Londra mentre combatteva contro l’estradizione negli Stati Uniti. Il patteggiamento riconoscerebbe il tempo già trascorso dietro le sbarre, consentendo ad Assange di tornare immediatamente in Australia, il suo Paese natale. Il fondatore di Wikileaks è accusato di 18 capi di imputazione in una incriminazione del 2019 per il suo presunto ruolo nella diffusione di carte top secret, reato che comporta un massimo di 175 anni di prigione, anche se è altamente improbabile che possa essere condannato a una simile pena. Assange era perseguito dalle autorità statunitensi per aver pubblicato documenti militari riservati forniti dall’ex analista dell’intelligence dell’esercito Chelsea Manning nel 2010 e nel 2011. Funzionari statunitensi hanno affermato che Assange ha spinto Manning a ottenere migliaia di pagine di dispacci diplomatici statunitensi non filtrati che potenzialmente mettevano in pericolo fonti riservate, rapporti di attività significative legate alla guerra in Iraq e informazioni relative ai detenuti di Guantanamo Bay. Il presidente Joe Biden negli ultimi mesi ha alluso a un possibile accordo promosso dai dirigenti del governo australiano per riportare Assange in Australia. Funzionari dell’Fbi e del dipartimento di giustizia si sono opposti a qualsiasi agreement che non includesse una dichiarazione di colpevolezza da parte di Assange, hanno riferito alla Cnn persone informate sulla questione. Il mese scorso, un tribunale del Regno Unito ha stabilito che Assange aveva il diritto di fare ancora appello contro l’estradizione negli Usa, regalandogli una vittoria nella sua lotta durata anni per evitare il processo negli Stati Uniti per i suoi presunti crimini.