Sovraffollamento delle carceri, domani alla Camera la liberazione anticipata speciale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2024 La proposta di legge di Roberto Giachetti di Italia Viva e Nessuno Tocchi Caino, se approvata, potrebbe dare sollievo ai penitenziari che hanno una popolazione detenuta media del 130,59% e raggiunge il suo apice del 230% al San Vittore. Ma le intenzioni della maggioranza sembrano essere diverse. Nonostante il governo abbia dato chiari segnali su un categorico no a sconti di pena, con il ministro Nordio ribadisce che si tratterebbe di resa da parte dello Stato, lunedì prossimo a Montecitorio è calendarizzata la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale avanzata dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva e Nessuno Tocchi Caino. Non tutto, quindi, è perduto e la maggioranza, con un atto di umanità e nel contempo di azione preventiva del disastro che potrebbe farci conoscere - in negativo - all’Europa intera, potrebbe votare a favore. A fondere speranza con sacrificio è Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, che ha annunciato lo sciopero totale della fame e della sete a partire da lunedì 24 giugno, il giorno della calendarizzazione. È Spes contra Spem, il testo paolino (Lettera ai Romani, 4,18) utilizzato da Marco Pannella per farsi carnalmente - attraverso il corpo resistente opposto al potere - Speranza viva, Soggetto, contro ogni “cosa” meramente “sperata” e oggettivizzata nel sogno e nella rassegnazione. A Rita Bernardini ha espresso la sua solidarietà Pietro Pittalis, deputato di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Giustizia, che in una nota scrive: “Solidarietà e pieno sostegno a Rita Bernardini, che ha deciso di intraprendere un coraggioso sciopero della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione delle carceri. Sosteniamo questa battaglia, consapevoli dell’importanza di tutelare i diritti fondamentali e la dignità di tutti i detenuti. Pur essendo convinti infatti che chi ha commesso reati, soprattutto gravi, debba espiare la propria pena, crediamo fermamente che tale espiazione debba avvenire in condizioni che rispettino i diritti umani”. Pittalis sottolinea come “il sovraffollamento delle carceri e le condizioni igienico-sanitarie spesso inadeguate rappresentano una ferita aperta per il nostro sistema giudiziario e per la nostra società. Noi faremo la nostra parte, assumendo tutte le iniziative necessarie per raggiungere l’obiettivo di un sistema carcerario più umano e giusto, affinché le carceri siano luoghi di vera rieducazione e non di mera punizione. Un sistema giuridico equo non può prescindere da un trattamento rispettoso e umano dei detenuti”. E i detenuti e gli agenti stessi della polizia penitenziaria hanno bisogno di speranza e si solidarietà da parte di tutti. I numeri sono spietati. A metà anno, siamo già giunti a 45 suicidi dietro le sbarre. Un numero, se confrontato con lo stesso periodo degli scorsi anni, è un macabro record assoluto. Il sovraffollamento comincia ad avvicinarsi al livello che fece scattare la sentenza pilota Torreggiani della Corte Europea dei diritti umani. In tutta Italia, secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) diffusi dal ministero della Giustizia, il numero di detenuti presenti alla data del 31 maggio 2024 risulta pari a 61.547: sono cresciuti di 1.381 unità dall’inizio dell’anno (+2,3%). Lo stesso Garante nazionale per le persone private della libertà personale ha diffuso i dati sulla popolazione penitenziaria e uno studio, aggiornato al 20 giugno 2024, dei suicidi negli istituti penitenziari, con il sovraffollamento che, a livello nazionale, è del 130,59% e che raggiunge il suo apice del 230% al San Vittore. Un trend confermato anche dallo studio Istat “Noi Italia - 100 statistiche per capire il Paese”, secondo il quale alla fine del 2023 i detenuti presenti nelle strutture penitenziarie per adulti erano oltre 60mila, aumentati del 7,1% rispetto all’anno precedente. A “Coffee Break” su La7 il viceministro della Giustizia e senatore di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto ha ribadito la posizione del governo: “Quello sulle carceri è un provvedimento delicato. Dobbiamo intervenire per cercare di risolvere una situazione drammatica e serve una riflessione approfondita. L’obiettivo è quello della responsabile umanizzazione del sistema carcerario. Pur tenendo nel debito conto la funzione retributiva della pena, dobbiamo evitare che il carcere peggiori la situazione psicofisica di chi ci entra. L’articolo 27 della Costituzione puntualizza che le pene devono tendere alla rieducazione, sancendo l’obbligo da parte dello Stato di creare un sistema che costantemente abbia questo obiettivo. Dall’altra parte, c’è la necessità, parimenti decisiva, che il detenuto aderisca al percorso di rieducazione tracciato. Affinché questo si realizzi, il carcere non deve essere più il centro esclusivo dell’esecuzione della pena. Anche il giudice deve abituarsi a non considerare più le sbarre come unico punto di riferimento, valorizzando le pene sostitutive e le misure alternative, la giustizia riparativa e l’esecuzione penale esterna”. Il viceministro Sisto ha aggiunto che “il provvedimento si occuperà anche di semplificare le procedure per la liberazione anticipata, un punto su cui stiamo ancora discutendo. C’è una proposta di incremento dei giorni per la liberazione anticipata, e su questo è in corso un confronto interno alla maggioranza. Si ragiona poi sull’aumento dei contatti, soprattutto telefonici, con i familiari e sulla ulteriore semplificazione delle procedure: il giudice di sorveglianza potrà decidere su talune misure anche senza il collegio. In generale, io ritengo che il futuro del carcere, con paradosso solo apparente, è fuori dal carcere e passa per la formazione e il reinserimento lavorativo”. Le problematiche sono chiare. La proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale può incidere sul sovraffollamento, allentare la tensione ed è un supporto anche per gli agenti stessi che, e lo si vede dai vari comunicati dei sindacati di polizia, sono allo stremo. Ribadiamo che non è un indulto come alcuni organi della stampa e taluni magistrati hanno detto. L’indulto è una misura di clemenza rivolta a tutti, a prescindere dal comportamento tenuto dal detenuto. La liberazione anticipata (sia normale che speciale) è uno strumento collegato alla verifica delle modalità con le quali il detenuto si è comportato durante il periodo di detenzione e nel caso in cui abbia effettivamente dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione. La proposta di legge presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva è innanzitutto una sorta di imperativo morale, in considerazione delle condizioni irrispettose della dignità umana nelle quali il sovraffollamento costringe migliaia di detenuti nei nostri istituti penitenziari, dove abbiamo raggiunto un numero esorbitante di suicidi in pochissimi mesi. Tale proposta è anche un obbligo costituzionale: gli articoli 2 e 27 della Costituzione impongono la tutela inderogabile della dignità dell’uomo, anche quando privato della libertà personale. Per finire, si tratta di un atto politicamente necessario per la condizione che altrimenti il nostro Paese verrebbe ad assumere sul piano internazionale; ed è un atto quanto mai opportuno anche dal punto di vista economico, in considerazione dei costi che altrimenti si dovrebbero affrontare. Rita Bernardini in sciopero della fame e della sete: “Governo inadempiente sulle carceri” di Liana Milella La Repubblica, 23 giugno 2024 La leader di Nessuno tocchi Caino incalza il governo sul disegno di legge per la “liberazione anticipata speciale”, che rischia l’affossamento in aula alla Camera. Cita Pannella che disse: “Io rischio la vita, ma per quanto possibile non la morte”. Rita Bernardini, da presidente di Nessuno tocchi Caino, ha davvero deciso di cominciare da lunedì un nuovo sciopero della fame? “Sì, certo, non solo della fame ma anche della sete. Cioè non assumerò alcunché fino alla fine dello sciopero”. Anche della sete? Con questa temperatura? Sta scherzando? “No, affatto. L’unica cosa che prenderò saranno i farmaci che già uso tutti i giorni per la mia salute e che non posso smettere perché alcuni riguardano problemi cardiaci”. E con questi problemi lei non mangia e non beve? Così rischia davvero... “So bene che la totale assenza di liquidi porta il sangue a coagularsi nel giro di poco… Può sembrare un sacrificio, ma è un gesto di “nonviolenza”, perché voglio dialogare con le istituzioni e in particolare con la maggioranza di governo. Cerco di ottenere risposte su domande cruciali che riguardano la democrazia e lo stato di diritto”. Ma lei ha 71 anni…. “Certo, lo so bene. In passato, per almeno tre o quattro volte, mi sono cimentata nello sciopero totale della fame e della sete. Sono andata avanti per tre giorni al massimo e ho sempre detto “mai più”, ma evidentemente questo “mai più” non si può mai dirlo”. Vuole deliberatamente rischiare la vita? Guardi che questi qui la lasciano morire come fanno con i detenuti… “Come diceva Marco Pannella ‘io rischio la vita, ma per quanto possibile non la morte’. Che aggiungeva ‘chi usa lo strumento della nonviolenza non lo fa per ricattare le istituzioni, ma per ottenere la verità sul problema posto’. Se il governo riconoscesse che c’è una violazione dei diritti umani fondamentali e si assumesse la responsabilità di un comportamento che continua a reiterare, per me sarebbe già una risposta sufficiente almeno per interrompere lo sciopero della sete. Temo che, ricorrendo a giri di parole, non vogliano ammettere la situazione reale che si vive nelle carceri”. Giuliano Amato, il 12 giugno a San Vittore, mentre presentava il libro suo e di Donatella Stasio, “Storie di diritti e di democrazia”, ha definito “preoccupante che istituti come indulto e amnistia siano stati di fatto cancellati…” e ha lanciato l’idea del “numero chiuso” nelle carceri... “Ovviamente il provvedimento più serio per rientrare nella legalità è un’amnistia unita all’indulto, come chiese Napolitano nel suo messaggio alle Camere nel 2013, dopo la condanna Cedu. Quanto al numero chiuso, che esiste in Germania, sono d’accordo a patto che prima siano svuotate le patrie galere, perché altrimenti assisteremmo solo a deportazioni in Sardegna o in altre prigioni lontane dove c’è ancora qualche posto disponibile”. Intanto la maggioranza ha già chiuso la porta alla “liberazione anticipata speciale”... “Intanto non farei questo sciopero se fossi convinta che le possibilità sono uguali a zero perché voglio riconoscere sempre la buona fede di chi ha il compito di rappresentare le istituzioni”. Il testo va in aula lunedì senza il relatore e verrà rimandato in commissione. È già morto... “Vediamo prima che succederà. La totale sfiducia è sbagliata. Ci saranno degli interventi. Né io né Roberto Giachetti vogliamo mettere la bandierina su questa proposta. Se il governo dovesse decidere di fare di sua iniziativa un decreto che entri subito in vigore e che affronti effettivamente il sovraffollamento, allora ne prenderei atto e considererei l’obiettivo raggiunto. Ma a patto che non si dicano sciocchezze con misure che richiedono tempi assai lunghi per essere messe in atto”. Guardi che il no ai 75 giorni di bonus invece dei 45 attuali è netto. Giachetti di Iv, che ha presentato la proposta, sciopera con lei anche stavolta? “No, sciopero da sola, avendo messo al corrente Roberto della mia decisione”. Ma ha visto cosa porta a palazzo Chigi Nordio? Annuncia più agenti, qualche telefonata in più, padiglioni migliorati, e poi una liberazione, dice lui, “semplificata”... “Del suo testo finora sono circolate solo chiacchiere. Ma se la proposta è quella di mantenere i 45 giorni di sconto ogni sei mesi vuol dire che non intende affrontare il problema del sovraffollamento. Proprio per questo ho deciso di fare lo sciopero della fame e della sete”. E di rischiare la vita… “Lo Stato è in flagranza di reato perché migliaia di detenuti ricevono dal magistrato di sorveglianza il riconoscimento che stanno vivendo in una situazione disumana e degradante che viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tant’è che ricevono il risarcimento dovuto, cioè un giorno di sconto di pena ogni dieci giorni vissuti in quelle condizioni”. Sta dicendo che un giudice certifica la violazione? “Sì, certo. Proprio così. La certifica, ma al contempo non viene fatto nulla per rimuovere le cause che determinano la situazione stessa. Siamo di fronte all’attestazione che lo Stato ha violato le norme, ma non fa nulla per ripristinare la legalità”. Perché i giudici non accusano proprio il governo? “Le dico solo che di fronte a un’amministrazione penitenziaria inadempiente potrebbero costringerla a intervenire pena il rischio di un commissario ad acta. Ma per farlo ci vuole coraggio”. E lei pensa che il suo rischioso sciopero li convinca? “Io sto ai numeri che fornisce ufficialmente lo stesso ministero. Al 31 maggio in carcere ci sono 61.547 persone detenute. A fronte di 47.066 posti disponibili visto che 4.175 sono inagibili. Ben 95 carceri hanno un sovraffollamento medio del 158%, cioè in cento posti ci finiscono ben 158 persone. Alcune situazioni sono pazzesche. A San Vittore a Milano in cento posti ci sono incredibilmente 229 detenuti. A Foggia quasi 700 sono ristretti in 345 posti. A Taranto 935 accalcati in 484 posti. A Regina Coeli 1.147 detenuti in 627 posti”. Se è per questo, a fronte di 45 suicidi nel 2024, il governo non fa nulla... “Con questi numeri, a fine 2024, finiremo per battere tutti i più lugubri record, nonostante la dura ammonizione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Questo governo non dovrebbe mai dimenticare la frase lapidaria di Mattarella nel giorno del suo secondo insediamento, e più volte ribadita: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Nordio: “Gli stranieri in cella nei loro Paesi, così si risolve il sovraffollamento” di Pier Francesco Borgia Il Giornale, 23 giugno 2024 Carceri sovraffollate, celle piccole e un numero di suicidi in aumento rispetto allo scorso anno. I dati sulla popolazione carceraria diffusi dal Garante dei detenuti segnalano un’emergenza difficile da gestire. A partire dal sovraffollamento: che al momento è del 130,59% e che raggiunge il suo apice del 230% nel penitenziario milanese di San Vittore. Con effetti devastanti come la conta dei suicidi (già 44 dall’inizio del 2024). Questo sovraffollamento, però “non giustifica il ricorso all’indulto”, parola di ministro. Dalla Sicilia, dove è ospite del Taormina book festival, il Guardasigilli Carlo Nordio boccia l’idea di risolvere il problema del sovraffollamento dei penitenziari con il colpo di spugna dell’indulto. “Il sovraffollamento - spiega il ministro - è il risultato di una sedimentazione pluridecennale. Escludo l’indulto, che è una resa dello Stato. Piuttosto penso a pene alternative e a forme di esecuzione diverse”. Una soluzione potrebbe venire dall’analisi di un fattore importante dei dati diffusi. Quasi metà delle persone che affollano le carceri italiane è infatti composto da stranieri. “Se riuscissimo - spiega Nordio - a far scontare agli stranieri la loro pena nei Paesi di origine, già avremmo risolto una buona parte, anzi totalmente questo problema. Questo si può fare, però, soltanto attraverso gli accordi con questi Paesi”. Sulla riforma della giustizia Nordio conferma che il testo “non è blindato ma aperto al dialogo. E comunque non accetto che si sospetti un’intenzione punitiva. Il testo è chiarissimo e questa litania petulante di dire che in realtà sottintende un intento di sottoporre il pm al potere esecutivo non ha fondamento”. Il ministro ricorda come per la separazione delle carriere “il testo di revisione costituzionale si fonda sul principio che la magistratura, nella sua duplice funzione requirente e giudicante, resta indipendente e autonoma”. Un principio che non è in discussione, assicura il ministro, visto che è incardinato nella Costituzione. “Più larga è la maggioranza che approva una riforma costituzionale e più noi siamo lieti - commenta -. Molti potrebbero essere favorevoli alla separazione delle carriere ma per ragioni di partito potrebbero votare contro. Questo potrebbe pure non farci raggiungere il quorum per evitare il referendum. Ma dare la parola ai cittadini su temi così importanti è una buona scelta e fa vedere finalmente da che parte stanno”. Al Guardasigilli risponde dai microfoni del Giornale Radio 1 il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Le parole di Nordio non sembrano rassicurare il rappresentante dell’Anm che avverte: “Se saranno necessarie altre forme di mobilitazione per rafforzare la comunicazione delle ragioni di contrarietà alla riforma Nordio, le faremo - commenta Santalucia -. La riforma non migliora l’efficienza della giustizia. Si muove infatti su un piano costituzionale e non tocca nessuno degli equilibri necessari per migliorare la qualità del servizio. Il cittadino avrà solo ricadute negative”. In questo dialogo a distanza Nordio annuncia poi che entro il 2026 “l’organico di 10.500 magistrati, carente del 15%, sarà colmato per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana attraverso quattro concorsi in essere e altri due che a breve verranno banditi”. Sull’abuso d’ufficio, testo in questi giorni licenziato dalla Commissione giustizia della Camera e che arriverà in Aula la prossima settimana, Nordio ricorda che “ogni anno su oltre cinquemila procedimenti, solo due o tre si concludono con condanne e magari connesse ad altri reati”. Al Consiglio della giustizia della Ue (Gai), che si è tenuto il 14 giugno scorso a Lussemburgo, i ministri della Giustizia degli Stati membri hanno votato a favore della proposta italiana di modificare l’obbligo di mantenere il reato di abuso nella “facoltà di introdurlo o eliminarlo”, come appunto sta facendo l’Italia. Di Giacomo: “Rinvio del Decreto carceri rafforza il clima di tensione tra i detenuti” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 23 giugno 2024 L’intervento del segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria. L’unico fatto certo è che in questi primi sei mesi dell’anno l’emergenza carcere ha raggiunto il livello storico più allarmante di sempre. “Il rinvio in Consiglio dei ministri del Decreto carceri dopo l’annuncio fatto dal ministro della giustizia, Carlo Nordio, che l’aveva dato per “cosa fatta”, non è solo l’ennesima brutta figura rimediata dal ministro in una situazione di gravissima emergenza ma introduce nuovi dubbi su chi all’interno del Ministero rema contro”. Così Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato polizia penitenziaria, per il quale: “è evidente dalle dichiarazioni diffuse da tempo che ci sono visioni diverse e contrapposte tra due sottosegretari - Ostellari e Del Mastro - e che il clima di confusione è sempre più diffuso. Del resto, non è casuale che sia lo stesso sottosegretario Ostellari a tentare di giustificare il rinvio anche se è difficile nascondere lo scontro in atto in particolare tra i partiti della maggioranza che sostiene il Governo Meloni in particolare su cosa fare per svuotare le carceri senza però far ricorso a sconti di pena. Risulta dunque davvero complicato semplicemente ipotizzare cosa si sta pensando al Ministero per accontentare tutte le anime di centrodestra. L’unico fatto certo è che in questi primi sei mesi dell’anno l’”emergenza carcere” ha raggiunto il livello storico più allarmante di sempre. I numeri non sono smentibili: 45 i suicidi in carcere nel 2024 contro i 28 dello stesso periodo dello scorso anno, ma ci sono altre 56 vittime per le quali sono ancora numerosi i casi di cause da accertare e per le quali non si può escludere nulla; i tentati suicidi sono stati 877 contro 821, per diverse centinaia è stato l’immediato intervento del personale a scongiurare altre vittime; le evasioni e i tentativi di fuga più 700%, con la pronta risposta del personale e comunque la cattura degli evasi; le aggressioni al personale di Polizia penitenziaria (881 contro 688) con le carceri campane al primo posto, seguite da quelle lombarde e laziali; le manifestazioni di protesta collettive (599 contro 440), i ferimenti (286 contro 264) e le colluttazioni (2.203 contro 2.055). Ancora: i detenuti sono aumentati di 14mila unità con una media di circa 300 al mese - sono complessivamente 61.468, a fronte di 47.067 posti regolarmente disponibili, per un indice di sovraffollamento pari al 130,59% - e di contro il personale è diminuito (per effetto dei pensionamenti) di 18mila unità, solo in piccolissima parte compensato da nuove assunzioni; il ritrovamento di stupefacenti e di telefonini segnano rispettivamente più 400% e più 600%. Questi numeri - dice Di Giacomo - fanno diventare, inequivocabilmente, le carceri italiane le peggiori in Europa e le avvicinano a quelle sudamericane, come del resto confermano le continue sentenze di condanna per lo Stato Italiano da parte degli organismi dell’Ue in materia giustizia e sistema penale. A pesare sul clima di forte tensione e incertezza che si è creato negli istituti avviati a vivere un’estate “caldissima” di rivolte, fughe ed aggressioni, adesso - conclude Di Giacomo - si inserisce il “giallo” del rinvio del decreto carcere”. Il Garante nazionale dei detenuti: “44 suicidi nel 2024”. Nordio: “No a indulto e amnistia” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 23 giugno 2024 I dati evidenziano l’aumento delle morti e il sovraffollamento. Il ministro chiede pene alternative, ma col governo fa tutt’altro. Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane ci sono stati 44 suicidi, che hanno coinvolto 42 uomini e due donne: in tutto, secondo i dati diffusi dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, le persone detenute che hanno scelto di togliersi la vita sono dieci in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. L’ultimo tentato suicidio è avvenuto nell’istituto di pena sassarese di Brancali, dove un uomo si è dato fuoco ed è stato soccorso dal personale penitenziario. Soltanto pochi giorni fa, nello stesso carcere e soltanto a poche celle di distanza, un detenuto era riuscito a farla finita. Delle 44 vittime del 2024 venti erano cittadini stranieri. In diciotto “erano stati giudicati in via definitiva e condannati, mentre cinque avevano una posizione cosiddetta mista con definitivo, cioè avevano almeno una condanna definitiva e altri procedimenti penali in corso; diciassette (il 39,5%) erano in attesa di primo giudizio, due i ricorrenti, un appellante e uno in internamento provvisorio”. La maggior parte di quelli che si sono tolti la vita in carcere era accusata o era stata condannata per reati contro la persona (24, il 55%). A dieci di loro era contestato l’omicidio (tentato o consumato), a sei il maltrattamento in famiglia e quattro la violenza sessuale. L’emergenza suicidi si sovrappone a quella del sovraffollamento. Secondo gli ultimi dati, aggiornati al 12 giugno scorso, attualmente i detenuti nelle carceri italiane sono 61.468, circa quindicimila in più rispetto alle possibilità reali. “I posti regolarmente disponibili ammontano a 47067 rispetto alla capienza regolamentare di 51221 - spiega sempre il garante - Da un ulteriore approfondimento è sorto che tale criticità è dovuta all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento e in alcuni casi di intere sezioni detentive (come per esempio la casa circondariale di Milano San Vittore, ove l’indice di sovraffollamento si attesta al 230,79% ed è l’istituto che sui 190 detiene il primato). A livello nazionale la criticità sovraesposta determina un indice di sovraffollamento del 130,59%”. Sul tema è intervenuto Carlo Nordio, ieri ospite di un festival letterario a Taormina. Il ministro della giustizia afferma che “il sovraffollamento è il risultato di una sedimentazione pluridecennale”, dunque il problema “non è di soluzione immediata”. Nordio esclude che l’indulto sia una soluzione possibile visto che, a suo dire, rappresenterebbe “una resa dello Stato”. Dunque, che fare? Il ministro a questo punto si è prodotto in una delle sue dissertazioni un po’ psichedeliche, totalmente divergenti dai fatti concreti e dalle scelte avvenute da quando siede a largo Arenula: ha sostenuto che bisogna investire sulle pene alternative. La stessa promessa, peraltro, l’aveva fatta a ottobre del 2022, intercettato dai cronisti mentre andava a giurare da guardasigilli. All’epoca accadde che pochi giorni dopo, Meloni lo smentì clamorosamente e annunciò in pompa magna il giro di vite contro i rave party e nuovo lavoro per i questurini, alla faccia della “depenalizzazione”. Anche questa volta la scelta dei tempi rende le dichiarazioni di Nordio particolarmente grottesche: parla di pene alternative nei giorni in cui la sua maggioranza sta per approvare l’ennesimo inasprimento delle pene e l’ennesima aggiunta al codice di nuove fattispecie di reato negli articoli del ddl sicurezza che martedì prossimo tornerà in commissione giustizia a Montecitorio. “C’è bisogno di forme di espiazione della pena in comunità - afferma Nordio - I tossicodipendenti sono degli ammalati più che dei criminali” (quest’altra esternazione arriva mentre la destra sta per rendere illegale persino la cannabis light). “Inoltre - ha proseguito Nordio snocciolando i suoi propositi a volo cieco - visto che gli stranieri rappresentano la metà dei detenuti sarebbe opportuno far scontare la pena nei loro paesi di origine, già avremmo risolto gran parte di questo problema”. L’analisi del Garante. “Carceri, sovraffollamento al 130% e record di suicidi” di Fulvio Fulvi Avvenire, 23 giugno 2024 Si aggrava la situazione: mancano oltre 4mila posti nelle celle, dovuti a lavori in corso, e cresce il disagio delle persone ristrette. A Sassari un detenuto si da fuoco. Un’evasione a Livorno. Emergenza sovraffollamento sempre più grave nelle carceri italiane. E con l’arrivo dell’estate si prevede un peggioramento delle condizioni di vita dietro le sbarre. È destinato così a crescere il disagio dei detenuti, con il rischio di un ulteriore aumento dei suicidi, degli atti di autolesionismo, di aggressioni e rivolte. Dai dati diffusi dall’Ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale presieduto da Felice Maurizio D’Ettorre, risulta infatti che la differenza tra i 61.460 detenuti presenti nei 189 istituti di pena al 12 giugno 2014 e i posti effettivamente disponibili (47.067) è di 14.401 unità, con un “surplus” pari al 130,59%. Il divario tra i posti “regolarmente disponibili”, dunque, e quelli previsti nella “capienza regolamentare” (che sono 51.221) è di 4.154, un numero che corrisponde ai posti mancati a causa di ristrutturazioni in atto o a una riorganizzazione degli spazi. “Dallo studio è emerso che tale criticità è dovuta all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento - spiega il Garante - e in alcuni casi di intere sezioni detentive, come per esempio per la Casa circondariale di San Vittore, a Milano, dove l’indice di sovraffollamento si attesta al 230,79% ed è il carcere che detiene il primato tra tutti”. L’età mediana dei detenuti presenti, si sottolinea nella relazione, è di 42 anni, mentre il 70% è sposato o ha un partner. Va considerato che al 31 gennaio 2024 i reclusi presenti erano 60.637, il che significa che in quattro mesi e mezzo c’è stato un incremento di 831 unità. Altro dato allarmante: le persone detenute che dall’inizio dell’anno si sono suicidate in carcere sono 44 (in realtà 45 se consideriamo il 22enne originario della Guinea che si è tolto la vita nel Cpr di Roma Ponte Galeria il 4 febbraio). “Si tratta di un numero elevato rispetto allo stesso mese di giugno del 2023, quando furono 34 (più 10), mentre a fine giugno del 2022 risultavano 33” rileva il collegio. Dallo studio emerge anche che delle 44 persone morte per mano propria 42 erano uomini e 2 donne e l’età media è di circa 40 anni. Riguardo alla nazionalità, 24 erano italiane e 20 straniere, provenienti da 14 diversi Paesi. Le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (23 persone) e tra i 40 e i 55 anni (10 persone); le restanti si distribuiscono nelle categorie 18 - 25 anni (3 persone), 56-69 anni (7) e ultrasettantenni (1). Con riferimento ai reati ascritti alle persone che si sono suicidate, dall’analisi dell’Ufficio del garante risulta che la maggior parte era accusata o era stata condannata per delitti contro la persona (24, pari al 55 %, ovvero 10 per omicidio tentato o consumato, 6 per maltrattamenti in famiglia e 4 per violenza sessuale). A seguire, i reati contro il patrimonio (14) e quelli legati allo spaccio di droga (3). Il maggior numero di suicidi, cioè 3, in questi sei mesi del 2024, è avvenuto nella Casa circondariale di Napoli Poggioreale. Dall’analisi delle cifre si deduce inoltre come i fattori di fragilità o vulnerabilità che hanno portato le persone ristrette a togliersi la vita, siano riconducibili a un disagio manifestato in precedenza: 21 di loro erano stati coinvolti in altri eventi critici, come atti di autolesionismo, risse, aggressioni o rivolte, mentre 11 avevano già tentato di uccidersi. Intanto, mentre si attende dal governo l’approvazione di un provvedimento che possa risolvere nel più breve tempo possibile e in maniera organica la crisi del sistema carcerario, l’altra notte nell’istituto penale di Bancali, a Sassari, un detenuto di origine marocchina si è cosparso il corpo di alcool e si è dato fuoco. Ustionati e contusi anche gli agenti di polizia penitenziaria intervenuti per salvare l’uomo, ora ricoverato in gravissime condizioni nel centro ustionati dell’ospedale Santissima Annunziata della città sarda. Il Sappe, insieme con altre sigle sindacali che riuniscono gli addetti alla sorveglianza e alla sicurezza dietro le sbarre, ha annunciato che il 28 giugno organizzerà un sit-in di protesta a Cagliari, davanti alla sede del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap): “Torneremo a sollecitare l’intervento del Ministero della Giustizia sulle criticità di Bancali, note a tutti in termini di lavoro, delle relazioni sindacali e della sicurezza interna. Qui ci vogliono provvedimenti concreti, in grado di ripristinare legalità e sicurezza per i poliziotti penitenziari, lasciati allo sbando ed alla deriva”, conclude il segretario territoriale dell’organizzazione, Antonio Cannas. E, sabato pomeriggio, un italiano di 36 anni originario di Pozzuoli, recluso nel reparto di alta sicurezza della Casa circondariale di Livorno è evaso. Si trovava nel cortile dei passeggi quando, all’improvviso, ha scavalcato il muro di cinta e, una volta all’esterno, si è dileguato correndo a piedi. Pare che la zona all’interno del penitenziario, a causa della mancanza di personale, non fosse stabilmente presidiata. Scattate subito le ricerche da parte delle forze dell’ordine, fino alla tarda serata non è stato possibile trovare l’evaso. Riforma della giustizia, Nordio: “Disponibili al dialogo, ma resta la separazione delle carriere” di Davide Vari Il Dubbio, 23 giugno 2024 Il ministro, intervenendo al festival “Taobuk” di Taormina, ha parlato della riforma, dell’abuso d’ufficio, ma anche di carceri: “Escludo l’indulto, che è una resa dello Stato: penso invece a pene alternative, a forme di esecuzione penale diverse”. Contro il sovraffollamento carcerario “escludo l’indulto, che è una resa dello Stato: penso invece a pene alternative, a forme di esecuzione penale diverse”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in video collegamento con il festival “Taobuk” di Taormina. Il ministro ha anche ricordato il “lavoro” portato avanti per siglare accordi affinché i detenuti stranieri possano scontare la pena nei loro Paesi d’origine: “I detenuti stranieri sono quasi la metà” della popolazione carceraria, “se riuscissimo a far scontare loro la pena nei Paesi d’origine - ha sottolineato il Guardasigilli - avremmo risolto il problema” del sovraffollamento. Il ministro Nordio ha parlato della riforma e, in particolare, della separazione delle carriere: “Sono un po’ stanco di questo processo alle intenzioni. Se si fa così, accadrà questo. No, il testo è chiarissimo. È un testo di revisione costituzionale che dice che la magistratura, nella sua duplice funzione requirente e giudicante, è indipendente e autonoma. Una volta approvato con la legge costituzionale questo principio, se un domani uno lo volesse cambiare - certo non vorrei cambiarlo io e non lo farei mai - dovrebbe fare un’altra legge di revisione costituzionale. Il testo che c’è è chiarissimo e questa litania petulante di dire che in realtà sottintende un intento di sottoporre il pubblico ministero al potere esecutivo non ha nessun fondamento razionale. È un puro ritornello petulante sul quale mi vorrei confortare con il testo davanti. Non accetto che si sospetti un’intenzione punitiva. Non vedo razionalità in un’affermazione del genere”, sottolineando che “in tutti i Paesi anglosassoni le carriere sono separate e non per questo la magistratura si sente umiliata”. Sull’approvazione della riforma il guardasigilli chiarisce: “Più larga è la maggioranza che approva una riforma costituzionale e più noi siamo lieti. Poi i numeri parleranno da soli. Molti potrebbero essere favorevoli alla separazione delle carriere, ma per ragioni di partito potrebbero votare contro. Questo potrebbe anche non farci raggiungere il quorum per evitare il referendum. Posso dire però che, tutto sommato, sarei lieto se si andasse al referendum, perché finalmente vedremmo da che parte sta il popolo italiano. Dare la parola ai cittadini su questioni così importanti che poi li toccano da vicino per me è una buona scelta. Se riuscissimo ad avere la maggioranza qualificata in Parlamento ben venga, perché sarebbe accelerata al referendum”, ma in caso di referendum “per certi aspetti sarei ancora più tranquillo, perché sono certo che la grande maggioranza dei cittadini sarebbe favorevole alla nostra scelta”. Nordio ricorda la posizione di Giovanni Falcone: “Lui è stato il primo a dire che con l’introduzione del processo accusatorio le carriere andavano separate, perché le due funzioni sono completamente diverso. Ricordo però che qualcuno disse fu ucciso dalla stessa magistratura. Fu la magistratura a isolarlo e a punirlo quando manifestò queste sue idee. E qui mi fermo. Non voglio essere polemico più di tanto, però andatevi a rileggere gli atti dell’epoca quando Falcone fu bocciato in tutta una serie di sue aspirazioni, chi votò contro e chi votò a favore e chi poi lo isolò dandogli del venduto, perché andò a lavorare al ministero sotto la direzione dell’onorevole Martelli, all’epoca ministro della Giustizia. Andiamo a rileggere gli atti e le registrazioni e allora vedremo chi ha ragione”, ha ribadito. Il ministro della Giustizia ha aggiunto: “Aspettiamo di vedere i risultati che però, secondo me, saranno importanti soprattutto per quanto riguarda la modifica della composizione della elezione del Consiglio superiore della magistratura. Perché la vera riforma in realtà sta lì ed è quello che in effetti preoccupa alcuni membri dell’Associazione nazionale magistrati. Parliamoci chiaro: tutti sanno che il Csm sta alle correnti dei magistrati come il Parlamento sta ai partiti e queste correnti sono determinanti nella elezione della gran parte dei membri del Csm e, poiché riflettono le volontà degli elettori, vi è poi un rapporto tra elettori ed eletti che poi si traduce che gli stessi magistrati hanno chiamato degenerazione correntizia”. Il Guardasigilli ha affermato che “siamo aperti al dialogo. Le modifiche possono intervenire in senso migliorativo, ma sempre nell’ambito del parametro che ci è stato affidato dagli elettori. Gli elettori ci hanno affidato il compito di riformare il Consiglio superiore della magistratura, di separare le carriere ed è quello che noi facciamo, perché in democrazia la parola spetta agli elettori attraverso il Parlamento che ne è l’espressione. Se questa riforma fosse veramente inutile, non vedo allora perché si dovrebbe accendere una discussione così animata. In realtà, è una riforma che tocca alcuni punti fondamentali: non solo il principio della divisione delle carriere, che peraltro esiste già in gran parte”. E a proposito di magistrati ha chiarito: “L’organico dei magistrati in Italia è di 10.500, già direi insufficiente. Però la situazione grave consiste nel fatto che questo organico è carente del 15%. Che fare? Se mancano 1.500 magistrati, bisogna tener conto che l’assunzione è devoluta a due organismi, uno è il ministro e l’altro è il Csm. Ebbene, noi - per la prima volta dalla costituzione della Repubblica - entro il 2026 riempiremo l’organico, facendo i concorsi per la magistratura. Ce ne sono quattro già in piedi, altri due sono in via di promulgazione. Noi abbiamo detto al Csm che occorre accelerare questa procedura, però abbiamo ricevuto tutta una serie di obiezioni. Allora mi devono dire come vogliono fare per riempire questo organico. Anche perché i soldi li abbiamo. Quando abbiamo provato solo a ipotizzare un concorso straordinario che accelerasse ancora di più i tempi e desse una corsia privilegiata ai giudici onorari, che tengono in piedi quasi metà della nostra giurisdizione, si è scatenata anche lì la bufera”. Con l’Anm, ha aggiunto ancora Nordio, “il dialogo è iniziato e auspico che continui con il rispetto e la considerazione reciproca”. Ma Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, intervenendo ai microfoni di radio Giornale Radio, avverte: “Se saranno necessarie altre forme di mobilitazione per rafforzare la comunicazione delle ragioni di contrarietà alla riforma Nordio, le faremo. La riforma Nordio non migliora l’efficienza della giustizia e con i problemi della giustizia non c’entra nulla. Questo è evidente perché si muove su un piano costituzionale e non tocca nessuno degli equilibri necessari per migliorare la qualità del servizio. Il cittadino avrà solo ricadute negative”. Il ministro Nordio ha parlato anche dell’abuso d’ufficio: “siamo in dirittura d’arrivo. Posso dire che in una riforma estremamente incisiva come quella del reato di abuso d’ufficio che sarà eliminato fra pochi giorni, quando in seconda lettura arriverà alla Camera, vi è stata una certa convergenza anche da una parte dell’opposizione. Però da un’altra parte dell’opposizione vi è stata una netta chiusura anche se però sottobanco tutti venivano in processione a dirci “Fate bene, fate bene, perché non ne possiamo più della paura della firma”, a cominciare da molti sindaci del Pd”. L’affondo di Pinelli: stop al correntismo negli uffici del Csm di Simona Musco* Il Dubbio, 23 giugno 2024 La lettera al segretario generale: “L’attività dei magistrati segretari non sia spesa e associata ad iniziative promosse da singole correnti dell’Anm. Stop al correntismo negli uffici del Csm. È questo il senso della lettera inviata dal vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, al segretario generale di Palazzo Bachelet, Roberto Mucci, al quale ha fatto presente che è essenziale “che la qualità di magistrato della Segreteria e dell’Ufficio Studi non sia spesa e non possa essere comunque associata ad iniziative promosse da singole correnti dell’Associazione nazionale magistrati, onde evitare che l’attività istituzionale di tali magistrati - da esercitarsi con rigore professionale e riserbo, al pari di quella dei magistrati impegnati nella giurisdizione - possa essere percepita, in qualunque modo, come ad esse riferita”. La lettera, datata 20 giugno, arriva dopo settimane di botte e risposta tra la magistratura associata e la politica, dopo l’approvazione della riforma della separazione delle carriere in Consiglio dei ministri. Una circostanza che ha spinto l’Anm a riunire i propri membri, per studiare una strategia da contrapporre alla volontà politica, fino all’astensione dalle udienza come forma di protesta nei confronti di quello che viene definito un tentativo di sottomettere la magistratura inquirente alla politica. Riunioni precedute da incontri in seno alle singole correnti, anche all’interno del Csm, dove i magistrati segretari partecipano incontri ristretti della corrente di riferimento. Da qui la decisione di Pinelli di richiamare tutti all’ordine, dato il ruolo di servizio di tali magistrati nell’interesse di tutti i consiglieri, indipendentemente dall’appartenenza correntistica. “Nella mia qualità di vice presidente di questo Consiglio superiore sento il dovere di evidenziare alla sua attenzione - si legge nella lettera a Mucci - che l’attività dei magistrati addetti alla Segreteria e all’Ufficio Studi e Documentazione è strettamente funzionale al buon andamento dei lavori dell’Organo di governo autonomo della Magistratura, nell’esclusivo interesse dell’Istituzione tutta. L’attività dei detti magistrati comprende infatti delicati compiti - di studio, di istruttoria, di collaborazione e assistenza ai consiglieri, alle Commissioni e ai loro presidenti, nonché, infine, alla massima espressione della collegialità consiliare nell’Assemblea plenaria - che, per la loro complessità e per l’alto contenuto professionale, contribuiscono in modo essenziale non solo al perseguimento della funzione costituzionale del Consiglio superiore, ma anche alla sua immagine di Istituzione garante e custode dell’autonomia e indipendenza di tutti i magistrati”. Un’attività resa in favore non solo dei consiglieri eletti dai magistrati, ma anche di quelli eletti dal Parlamento e che, secondo Pinelli, “dev’essere prestata esclusivamente in favore dell’Istituzione consiliare, scevra pertanto da ogni pur legittima libera appartenenza associativa”. Da qui l’invito a separare l’aspetto amministrativo dalle iniziative dell’Anm. “Le sarei grato, pertanto, se potesse valutare l’opportunità di promuovere una riflessione con i magistrati in servizio presso il Consiglio superiore sul tema qui rappresentato”, conclude la lettera. Una nota che ha lasciato in silenzio i consiglieri, ad eccezione dell’indipendente Andrea Mirenda, che ha espresso pubblico plauso alla moral suasion di Pinelli. Destinata a far discutere. Caso Stefano Binda, tre anni di ingiusta detenzione. Scontro in Appello sul risarcimento di Gabriele Moroni Il Giorno, 23 giugno 2024 “Se Ionesco fosse vivo, avrebbe scritto un pezzo di teatro su questo processo”. L’avvocato Patrizia Esposito (difensore di Stefano Binda con il collega Sergio Martelli) evoca la figura di uno dei padri del “teatro dell’assurdo”. La quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano è chiamata a pronunciarsi nuovamente sul risarcimento a Binda, detenuto da innocente, pienamente e definitivamente assolto per non avere commesso il fatto per l’omicidio di Lidia Macchi. Nel mese di ottobre del 2022 la stessa sezione dell’Appello aveva accolto l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Binda, riconoscendogli un indennizzo di 303.277,38 euro per i 1.286 giorni di carcere, gravato dall’accusa terribile (poi risultata infondata) di essere il predatore assassino della studentessa di Varese, trucidata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987, nella zona di Cittiglio. Ma nel giugno del 2023 la quarta sezione della Cassazione aveva ritenuto fondato il ricorso presentato dal sostituto procuratore generale di Milano Laura Gay e disposto l’annullamento con rinvio alla stessa sezione della Corte d’appello della metropoli lombarda. Secondo la Suprema Corte i giudici milanesi sarebbero incorsi in un errore quando avevano accolto la richiesta risarcitoria di Binda in quanto non avrebbero risposto in modo adeguato a un quesito considerato basilare in casi come questo: c’erano o meno i presupposti perché il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Varese, Anna Giorgetti, emettesse l’ordinanza di custodia cautelare che portò Stefano Binda in carcere? Non si trattava di entrare nel merito del giudizio di assoluzione, ormai cristallizzato dopo il terzo grado, ma di riconsiderare se l’atteggiamento di Binda (che in alcune occasioni si era avvalso della facoltà di non rispondere, peraltro un diritto garantito dalla norma) poteva essere un elemento su cui fondare (e poi mantenere) la misura di custodia cautelare. Nell’udienza di ieri il legale del 56enne di Brebbia ha sostenuto come non vi fosse alcun elemento “attuale” su cui fondare l’ordinanza di custodia cautelare, niente che sostenesse i presupposti dell’inquinamento probatorio, del pericolo di fuga, della reiterazione del reato. Il sostituto pg Gay si è rifatta al suo ricorso in Cassazione. Il collegio, presieduto da Roberto Arnaldi, si è riservato la decisione. Campania. “Autonomia, a rischio anche le carceri” di Michele Chiodi Il Roma, 23 giugno 2024 L’allarme dei medici: “Per la sanità penitenziaria sarà un disastro”. L’emergenza sanitaria nelle carceri in Campania, già drammatica oggi, “rischia di esplodere in tutta la sua drammaticità se l’autonomia differenziata dovesse diventare realtà”. L’allarme lo lancia il segretario regionale dell’Anaao Assomed Bruno Zuccarelli, che - numeri alla mano - offre una fotografia della situazione che è già adesso quella di una gravissima emergenza. “Lo Stato dovrà accettare di avere le mani sporche di sangue”. Il punto, però, è che se la legge sull’autonomia differenziata, approvata appena pochi giorni fa dal Parlamento, dovesse provocare quello che tanti tempo, e cioè una riduzione dei trasferimenti al Sud, è chiaro che con meno risorse regione come la Campania “vedranno un peggioramento della situazione. Se questo avverrà, lo Stato dovrà accettare di avere le mani sporche del sangue dei detenuti”, è l’immagine forte usata da Zuccarelli per descrivere tutta la drammaticità del rischio che si corre. “Ai detenuti negato il diritto alla salute”. La premessa è che già in questo momento, alle condizioni date, “ai detenuti campani si nega il diritto costituzionale alla salute e, ancora una volta, si costringono i medici a lavorare in condizioni degradanti, oltre che pericolose”, spiega il segretario regionale dell’Anaao Assomed. Cosa dicono i numeri dell’emergenza. Partiamo dai numeri. Solo nelle carceri napoletane tra Poggioreale, Secondigliano e Nisida dovrebbero essere in servizio almeno 53 medici. La popolazione carceraria conta più di 3.400 unità. I medici in servizio sono solo 28: uno ogni 120 detenuti. Gli infermieri sono solo 140, circa 1 ogni 24 detenuti. Appena uno psichiatra ogni 500 carcerati. Zuccarelli, candidato anche alla presidenza dell’Ordine dei Medici Chirurghi di Napoli e provincia nella lista Etica, denuncia poi la gravissima carenza di psichiatri e psicologi nelle strutture carcerarie che sempre più spesso sono teatro di suicidi. “In questo caso - prosegue - il rapporto medico/detenuti è ancora più disastroso: ogni psichiatra deve occuparsi di 500 carcerati e ogni psicologo, in tutto ce ne sono 6, ha in carico circa 600 detenuti. Questo significa che in pratica ciascun detenuto è abbandonato al proprio dramma e nessuno può ricevere un reale supporto”. La situazione degli infermieri. Se ci si sposta sul fronte degli infermieri le carenze sono enormi: queste figure professionali, infatti, ammontano appena a 140 (circa 1 ogni 24 detenuti), e non va certo meglio per gli operatori sociosanitari. “Con l’autonomia nel le carceri andremo alla catastrofe”. Su come tutto questo possa aggravarsi con l’eventuale realizzazione dell’autonomia differenziata, Zuccarelli non ha dubbi: “In una situazione così compromessa le disparità legate alla diversa capacità delle Regioni di fornire servizi adeguati saranno catastrofiche. Regioni con risorse economiche maggiori - ragiona il segretario campano dell’Anaao Assomed - miglioreranno i servizi sanitari, anche nei propri istituti penitenziari, mentre quelle con meno risorse vedranno un peggioramento della situazione. Se questo avverrà, lo Stato dovrà accettare di avere le mani sporche del sangue dei detenuti che in quelle carceri si toglieranno la vita o non avranno le cure necessarie”. “L’incolumità dei medici è rischio”. Altro aspetto caro a Zuccarelli è quello delle condizioni nelle quali i medici sono costretti a lavorare. “È inaccettabile - le sue parole - che i colleghi debbano mettere a rischio la propria incolumità e la salute dei detenuti. La professione medica non richiede solo un alto livello di competenza, ma anche possibilità decisionale e di programmazione, qualità che possono essere gravemente compromesse dalle attuali condizioni, che sono insostenibili”. “In queste condizioni lavorare è pericoloso”. Per il leader regionale dell’Anaao Assomed costringere i medici a lavorare in queste condizioni solleva gravi questioni di etica: “È dovere delle istituzioni garantire che i professionisti della salute possano operare in un ambiente sicuro e di supporto. Non farlo significa ignorare la dignità e il benessere dei medici, oltre a compromettere gravemente la sicurezza dei detenuti”, incalza Zuccarelli. Che poi ricorda come la responsabilità di fornire cure adeguate non dovrebbe ricadere solo sui singoli medici, “ma su tutto il sistema che deve garantire le condizioni necessarie per operare al meglio. Noi ci batteremo perché questo avvenga”. Se tutti i medici previsti fossero in servizio non basterebbe. Zuccarelli torna poi sui numeri, che in tutta questa vicenda sono la cosa più importante di tutte. Dopo aver ricordato che “stando al fabbisogno approvato dalla Regione, nelle carceri napoletane di Poggioreale, Secondigliano e Nisida dovrebbero essere in servizio almeno 53 medici”, Zuccarelli aggiunge che anche se così fosse, si tratterebbe di un numero “già molto basso se si considera che parliamo di una popolazione carceraria di più di 3.400 unità”. Novara. “Perdonaci Alì, nessuno ti ha mostrato una vita alternativa” di Barbara Cottavoz La Stampa, 23 giugno 2024 La rabbia di Giuseppe Passalacqua, insegnante e a lungo volontario: “Abbiamo bisogno di idee, progetti e fondi per invertire la rotta”. È stato volontario per quattro anni tra le mura del carcere, prima con un’associazione poi proponendo laboratori teatrali. La morte di Alì, suicida in una cella di via Sforzesca, gli fa montare una rabbia che Giuseppe Passalacqua, insegnante e operatore al centro di aggregazione giovanile “Nòva”, non riesce a mascherare e monta a ogni parola, ogni ricordo legato alla casa circondariale: “Novara si dimentica sempre del suo carcere e il grado di civiltà della città si vede da questo”. La sua attività è cominciata nel 2015 con l’associazione “Cristiana Casagrande” e poi è continuata fino al 2019 con progetti del Cpia, il centro per l’istruzione degli adulti, e del Circolo dei lettori: “Anche se in carcere non c’erano e non ci sono una biblioteca funzionante e un bibliotecario che faccia conoscere i libri ai propri detenuti. È uno scandalo che per prenotare un romanzo di Marquez, un detenuto sia costretto a fare la domandina per riceverlo dopo due mesi. Una biblioteca c’è, ad esempio, a Saluzzo, a Fossano, a Biella e a Torino”. Passalacqua riporta i dati dei suicidi in cella: tra il 2000 e il 2024 sono stati 1.300. “Del resto noi paghiamo 182 euro al giorno per la sorveglianza di ogni detenuto e solo 0,55 euro per il trattamento di rieducazione e inclusione sociale. Cioè: paghiamo meno di un euro il lavoro degli educatori sociali, degli psicologi, degli assistenti sociali. Cioè la colonna portante di ogni luogo di “reinserimento sociale”, così come ci dice e obbliga la Costituzione. Ma questa disumanizzazione è intenzionale, è volontaria è politica e non è più accettabile. A Novara ci sono 164 detenuti e il massimo che riusciamo a pensare sono le borse lavoro per il giardinaggio all’Assa oppure l’imbiancatura delle scuole in caso di emergenza, come è successo per l’istituto Omar” continua Passalacqua. Della casa circondariale ha parlato anche Lorenzo, il protagonista de “Io ero il milanese” dello scrittore novarese Mauro Pescio: “Tra tutti le carceri, quello di Novara è il più brutto di cui ho fatto esperienza” diceva nel podcast. Secondo Passalacqua servono progetti e soldi: “Ma abbiamo soprattutto bisogno di idee, a Novara non si è mai investito in piani a lunga scadenza che vadano al di là dell’attività, encomiabile, dei volontari. Eppure alcuni esempi ci sono: le attività del carcere di Bollate, che infatti ha una bassa recidiva, e della rivista “Ristretti Orizzonti” - continua il professore di italiano del Bellini. Servono gli spiriti che chiama Prospero nella “Tempesta” di Shakespeare, gli assistenti sociali, i volontari, gli educatori e la magia che funziona. Quella insieme ai libri. Perché solo la cultura ti toglie il veleno. Ma Alì non c’è più e Prospero ha fallito. Il carcere è un fallimento non necessario”. Al giovane suicida si rivolge direttamente: “Perdonaci Alì. Devi sapere che sarebbe potuta andare diversamente, non ti abbiamo mostrato la porta da aprire”. Palermo. Contro il dramma dei suicidi in carcere gli avvocati si alternano in una maratona oratoria di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 23 giugno 2024 L’iniziativa dell’Unione delle Camere penali italiane si è già svolta in diverse città del Paese. Lo scopo è di sensibilizzare l’opinione pubblica e di spingere il Governo ad adottare provvedimenti che riducano il sovraffollamento e migliorino le condizioni di vita dei detenuti. Dopo aver coinvolto numerose città d’Italia, si è svolta ieri mattina, sabato 22 giugno, anche a Bagheria la “Maratona oratoria” organizzata dalla Camera penale di Termini Imerese contro il dramma dei suicidi in carcere. Diversi avvocati hanno preso la parola e si sono alternati per denunciare pubblicamente le condizioni in cui si trovano i detenuti, troppo spesso stipati in carceri sovraffollate. “Abbiamo aderito all’iniziativa nel più ampio progetto dell’Unione delle Camere penali italiane - dice il presidente della Camera penale di Termini, l’avvocato Vincenzo Pilliteri - per denunciare i suicidi nelle carceri italiane che solo dall’inizio di quest’anno sono stati 45. In Italia si muore ancora oggi di pena”. A Bagheria hanno preso la parola diversi avvocati ed era presente anche il componente della Giunta nazionale dell’Ucpi, Luigi Miceli, oltra ai genitori di un detenuto che si è tolto la vita in una cella del carcere Pagliarelli. Un tema, quello dei suicidi in carcere sul quale l’Italia è stata bacchettata anche dall’Europa. L’Ucpi stigmatizza “l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento ed alla tragedia dei fenomeni suicidari, che si concretizza nel perdurante rifiuto di porre in essere con immediatezza e urgenza qualsivoglia strumento deflattivo, da quello dell’adozione di possibili provvedimenti di clemenza generalizzata a quelli oggetto di proposta di legge già pendente in Parlamento”. L’idea della “Maratona oratoria” ha lo scopo di informare la società civile e di provare a sconfiggere “l’inerzia dei decisori politici in capo ai quali incombe il preciso dovere di mettere fine alle condizioni inumane di detenzione”. Sassari. Lai (Pd): detenuto si dà fuoco, Nordio nei festival mentre le carceri sono fuori controllo algherolive.it, 23 giugno 2024 “A pochi giorni dall’ultimo suicidio nel carcere di Bancali ieri un detenuto dell’istituto di pena sassarese si è dato fuoco ed ora è ricoverato al Santissima Annunziata. Sulla situazione del carcere sassarese ho presentato numerose interrogazioni alle quali il Ministro Nordio ha risposto promettendo interventi che non ci sono mai stati”. Così il parlamentare dem Silvio Lai sull’ennesimo gravissimo fatto avvenuto ieri nel carcere sassarese. L’episodio è avvenuto nell’infermeria e sono rimasti feriti anche gli agenti della polizia penitenziaria che hanno immediatamente soccorso il detenuto. “Questo fatto - prosegue Lai - conferma una volta di più quanto la situazione del carcere di Bancali sia diventata insostenibile. La mancanza di personale, soprattutto il numero insufficiente di figure intermedie, sta determinando condizioni di pericolo gravissime per gli agenti e per gli stessi detenuti. Avevo denunciato, nel corso dell’ultima visita al Penitenziario solo poche settimane fa, l’assenza di quasi il 90% di personale rispetto alle unità necessarie per una corretta gestione. E senza dimenticare che manca anche da tempo un direttore in pianta stabile mentre finalmente è stato nominato il capo delle guardie con una procedura che va applicata anche alle direzioni sulle quali troppo spesso gli incarichi vengono rifiutati.” Prosegue il deputato dem. “Tra le altre cose, sempre al termine di quella visita, avevamo evidenziato proprio la situazione di grande difficoltà nel reparto speciale che accoglie detenuti difficili tra cui quello che si è suicidato qualche giorno fa e probabilmente dal detenuto che ieri si è dato fuoco.” Nel mentre il ministro Nordio, anziché occuparsi del suo ministero lo troviamo in tour per i festival che tenta di difendere la sua “riforma”. Insomma, non è più accettabile che chi ha diretta responsabilità non intervenga davanti all’evidenza di una situazione gravissima che sta portando a continui episodi come quello di ieri. A questo punto, oltre alle interrogazioni già presentate, porteremo la questione delle carceri sarde nell’aula di Montecitorio e in quella sede non accetteremo più promesse che non siano seguite da atti concreti”, conclude il Senatore del Pd. Milano. Celle strapiene, San Vittore il più sovraffollato di Nicola Palma Il Giorno, 23 giugno 2024 La casa circondariale di San Vittore si conferma in testa alla poco lusinghiera classifica delle carceri più sovraffollate d’Italia. Secondo i dati aggiornati al 12 giugno e resi noti ieri dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, i detenuti oggi presenti nei 190 istituti di pena sono 61.468 (con un’età media di 42 anni), a fronte di una disponibilità di posti di 47.067 rispetto alla capienza regolamentare di 51.221 (divario di -4.154 posti). Quindi, a livello nazionale, il sovrannumero determina un indice di sovraffollamento pari al 130,59%. Dallo studio emerge anche “che tale criticità è dovuta all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento e in alcuni casi di intere sezioni detentive”. E arriviamo al caso di piazza Filangieri, che, statistiche alla mano, fa segnare un surplus di reclusi pari al 230,79%. Numeri pesantissimi, ma in lieve calo rispetto a gennaio, quando a San Vittore erano stati contati 1.068 detenuti su 458 posti, con un indice di sovraffollamento pari al 233,19%. Il confronto con il report pubblicato cinque mesi fa evidenzia una diminuzione dei reclusi complessivi, a segnare un’inversione di tendenza rispetto alle cifre in crescita costante delle rilevazioni di fine 2020 (52.273), fine 2021 (54.157), fine 2022 (56.167), fine 2023 (60.152) e inizio 2024 (60.304). “Ciò malgrado i diversi provvedimenti normativi varati nel periodo pandemico al fine di ridurre la popolazione carceraria con l’obiettivo del contenimento dei contagi”, aveva sottolineato a gennaio il Garante sulla base dei dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un cambiamento di trend che però non si era registrato in Lombardia, dove pure il numero aggiornato al 17 gennaio 2024 dava conto di un incremento di 27 detenuti rispetto a due settimane prima. Allargando l’analisi al quadriennio 2020-2024, il dossier metteva in luce un aumento di 1.184 reclusi nelle carceri regionali, passati dai 7.554 del 30 dicembre 2020 agli 8.738 di inizio 2024. Tradotto: l’indice di affollamento è salito in quattro anni dal 131,49% al 149,85%, secondo solo agli istituti di pena di Basilicata e Puglia (163,5%). “Occorre evidenziare - concludeva la relazione - che alla data della pubblicazione del presente studio e ormai da diverso tempo l’istituto maschile di Milano San Vittore, che evidenzia il più alto indice di sovraffollamento, è anche quello in cui si registra la presenza di persone detenute allocate in camere di pernottamento che risultano essere al di sotto dei 3 metri quadri consentiti per ciascun individuo, secondo il parametro stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. In cinque mesi, il quadro non sembra migliorato. Torino. All’Ipm Ferrante Aporti organico dimezzato e il 30% di detenuti in più di Giuseppe Legato La Stampa, 23 giugno 2024 Nell’istituto minorile non solo sovraffollamento, ma anche buchi di personale. Il sindacato torna alla carica: “Molti poliziotti distaccati altrove, li rimandino”. Pochi giorni fa l’allarme era stato lanciato dal sindacato della polizia penitenziaria con una certa perentorietà: “I minori detenuti al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino dormono per terra oppure su delle brandine da spiaggia in mezzo a una stanza dove sono già presenti 4 o 5 detenuti”. Ma il sovraffollamento rischia di non essere l’unico problema che attanaglia una struttura modello di colpo penalizzata dalle nuove regole del cosiddetto decreto Caivano che ha modificato alcuni presupposti per l’arresto dei minori allungando al contempo, la durata di alcune delle custodie cautelari (con ampliamento del periodo di detenzione). Bene: domenica scorsa la struttura contava su 56 ospiti e già il raggiungimento di questa soglia aveva allarmato e non poco personale e sindacati di categoria. L’altro ieri il numero complessivo - si apprende ai rappresentanti dei lavoratori - è salito a 60. La capienza massima è di 46 detenuti. L’eccesso di presenze adesso tocca all’incirca il 30%. Il dato viaggia in parallelo con una vistosa carenza di personale di polizia penitenziaria. “La pianta organica del Ferrante Aporti - racconta un sottoufficiale di lunga esperienza - è di 57 agenti. Attualmente ce ne sono 29: quindi meno 50% punto più/punto meno. Sono numeri drammatici di fronte ai quali non si può far finta che il problema non esista e bisogna agire”. Leo Beneduci, segretario nazionale del sindacato Osapp racconta: “La situazione è ulteriormente accentuata dal fatto che sono distaccati da anni circa 20 unità di personale di polizia penitenziaria in ogni dove (non si sa dove) di sedi della Repubblica (non si capisce che fine abbiano fatto). L’esiguo personale presente - aggiunge - svolge mensilmente dalle 40 alle 50 ore di straordinario, sottoposto ad uno stress psicofisico mai registrato prima d’ora nel silenzio più assordante del Dipartimento della giustizia minorile che, pur essendo stato informato della grave situazione di Torino sembrerebbe non interessi. Al personale viene tolto quasi sistematicamente il riposo”. Perché gli agenti distaccati in tempi di gestione più “semplice” della struttura del Ferrante Aporti, non vengono riassegnati alla sede naturale? Beneduci auspica “l’intervento del sottosegretario Ostellari affinché verifichi la situazione di questi distacchi perché siamo di fronte a un impoverimento di una delle strutture al momento maggiormente a rischio. L’esiguo personale presente - prosegue il sindacalista - è davvero stanco e stressato per gli eccessivi rischi e i massicci carichi di lavoro. Vogliamo augurarci che all’istituto penale per minorenni di Torino non accadano eventi gravi e irreparabili. È seriamente a rischio la sicurezza di tutti”. L’altro appello è rivolto ai garanti dei detenuti, quello cittadino e quello regionale “affinché facciano sentire la loro voce al più presto”. Danilo Dolci, dentro la pedagogia della nonviolenza di Goffredo Fofi Il Manifesto, 23 giugno 2024 A cento anni dalla nascita, un ritratto del maestro, teorico e attivista. Politico e profeta, alle sue intuizioni si aggiunse una nuova consapevolezza con l’amicizia di Aldo Capitini. Le esperienze sue e del suo gruppo sono tra le poche davvero innovative in Occidente nel modo di intendere il “lavoro sociale” e il “lavoro politico” e c’è ancora tanto da imparare. Nel metodo delle “conversazioni”, da lui animate con proletari e giovani su temi sociali e filosofici fondamentali, tornava a dare un valore primario alla poesia. Non mi è facile scrivere o parlare di Danilo Dolci, tanto è stata una figura centrale per la mia formazione. A 18 anni, nel 1956, diplomato maestro elementare a Gubbio, gli scrissi indirizzando presso la rivista Cinema nuovo che aveva pubblicato un “documentario fotografico” di Enzo Sellerio sulla sua attività a Partinico (provincia di Palermo), e un ottimo redattore, il documentarista Michele Gandin, trasmise la mia lettera a Danilo che mi convocò a Roma in un giorno di fine anno, subito prima del Capodanno. Mi accompagnò mio padre - meccanico, militante socialista - perché voleva capire se poteva lasciarmi nelle sue mani. Sulla vecchia giardinetta che degli amici ricchi gli avevano donato, scendemmo da Roma al porto di Napoli in compagnia di tre persone che diventarono anche loro importanti nella mia vita, Rocco Mazzarone - quasi un secondo padre, tricaricese, tra i fondatori della medicina sociale in Italia; Maria Sacchetti Fermi - insegnante, sorella di Enrico Fermi e madre di una insegnante, Ida, che già lavorava con Danilo - e Mimma Trucco, nata in Francia da emigrati antifascisti, un’assistente sociale che era stata l’ultima fidanzata di Rocco Scotellaro, morto trentenne due o tre anni prima. E c’erano cinque o sei bambini nel retro della giardinetta, figli della vedova di Trappeto che Danilo aveva sposato, la bravissima Vincenzina (il marito, contadino e pescatore, era stato fermato una sera nei campi, tornando al villaggio, da mafiosi che gli chiesero del denaro altrimenti lo avrebbero ucciso, e lui, poverissimo, si era messo a letto ed era morto d’angoscia). I bambini chiamavano quello spazio “il canile” e questo faceva molto arrabbiare Danilo. A Napoli ci separammo, Maria e Rocco e Mimma ci lasciarono e i rimasti salimmo con la giardinetta sulla nave della Tirrenia che collegava ogni notte Napoli a Palermo. Dormivamo sul ponte, ma Danilo mi svegliò perché vedessi le eruzioni dello Stromboli, restandone incantato quanto all’alba dalle coste della Sicilia, che mi fecero tornare alla lettura scolastica dell’Odissea. Cominciò così la mia vita pubblica o semi-pubblica; dopo lo sciopero a rovescia organizzato a Partinico da Danilo con l’aiuto del sindacato, del Pci e del Psi, e finito con l’arresto di decine e decine di disoccupati e, per me minorenne, di un foglio di via, tornai a Partinico da clandestino e mi occupai dei bambini del nostro quartiere, Spine Sante, e delle “storie di vita” che Danilo andava raccogliendo e trascrivendo, in giro per la provincia con me al seguito, che le battevo poi a macchina con vera passione… (ho imparato in questo modo il lavoro di redattore editoriale di cui più tardi ho campato). Ho un ricordo vivissimo degli incontri con braccianti disoccupati o occupati solo a periodi, con contadini, pescatori, pastori e straordinarie “magare” (guaritrici) personaggi d’altri tempi e forse eterni. Un mondo con il quale, dalla mia Umbria contadina e artigiana e ancora un po’ medievale, non avrei mai immaginato di dovermi confrontare e, in qualche modo, finire per farne parte. Se mi sono dilungato su questi inizi è per dire quanto vi fosse di inedito e inatteso nel lavoro di Danilo Dolci, insieme poeta e maestro, politico e profeta, alle cui intuizioni aggiunse una nuova consapevolezza l’amicizia di Aldo Capitini, teorico della nonviolenza e studioso di Gandhi. Il processo per l’occupazione della “trazzera vecchia”, Danilo lo aveva voluto far precedere da un giorno di digiuno collettivo sulla spiaggia di Trappeto, per insistere sul nostro rifiuto della violenza pochi giorni dopo che la polizia aveva ucciso a Venosa, durante una manifestazione, il giovane bracciante Rocco Girasole. Danilo aveva già pubblicato un libretto, Fare presto e bene perché si muore, presso De Silva, una piccola casa editrice animata da Franco Antonicelli, la stessa che aveva appena pubblicato Se questo è un uomo di Primo Levi, Gli intellettuali e la guerra di Spagna di Aldo Garosci e Non siamo d’accordo di don Zeno Saltini, che era stato il primo maestro di Dolci. E aveva dato a Laterza i suoi Banditi a Partinico. Dei libri che seguirono fu editore Einaudi (Inchiesta a Palermo, Spreco, la bellissima raccolta dei Racconti siciliani e altri), anche di quelli a carattere pedagogico (soprattutto il più esemplare Chissà se i pesci piangono, e le Conversazioni siciliane, singolare esperimento di assemblee con contadini e operai sui temi fondamentali dell’esistenza) mentre le poesie le raccolse per Feltrinelli. Era partito da lì, anche in contatto amicale col giovane Pasolini, e già se ne trovavano in una antologia di poesia religiosa di Valerio Volpini per Vallecchi). Un giorno Danilo mi impose di bruciare tutta la sua vecchia corrispondenza, ma io vi sbirciai dentro alla ricerca di una lettera che era in realtà indirizzata a me dal mitico Giuseppe Di Vittorio (gli avevo scritto, come ad altri, per conto di Danilo per invitarlo a un convegno palermitano sulla piena occupazione e si doleva di non poter venire), e vi trovai una lettera di Pasolini che rispondeva di no al suo invito a seguirlo in Sicilia perché, in quanto omosessuale, gli avrebbe certamente creato dei problemi. Il poco che ho imparato viene dal lavoro che feci, propostomi da Dolci, con i bambini e con gli adulti del Cortile Cascino di Palermo andando a vivere in una delle baracche, dai digiuni fatti al suo fianco, dalle inchieste (e anche, perché ne fossi testimone, dagli incontri coi suoi eccellenti visitatori e anche con certi uomini politici al potere, dopo carcere e processo, perché loro e la polizia smettessero di perseguitarci) e da tutta una quotidianità di confronti dentro gli anni più importanti della mia gioventù (insieme a quelli torinesi nei Quaderni rossi e al Centro Gobetti). Danilo diventò un teorico e pratico della nonviolenza al seguito di Capitini, e ricordo ancora le reazioni al “metodo” di Dolci da parte di due grandi scrittori siciliani: Sciascia che le considerava inadatte all’epoca e all’ambiente e Vittorini che invece le trovava più che adeguate alla Sicilia contadina e proletaria del tempo. Le esperienze di Dolci e del suo gruppo sono in realtà tra le poche davvero innovative in Occidente nel modo di intendere il “lavoro sociale” e il “lavoro politico” e c’è ancora tanto da impararne ancora oggi, e appena ieri tra la fine di un secolo e l’affermazione di un altro in cui le più negative previsione della “fantascienza sociale” si facevano vere. Gli anni difficili di Dolci furono quelli - difficili per tanti intellettuali del tempo - di una società che cambiava fin troppo rapidamente, di un “miracolo” che imponeva analisi nuove dentro un “sottosviluppo” che si faceva “sviluppo”, gli anni dell’abbandono delle campagne e della progressiva cetomedizzazione degli italiani. I sogni dello sviluppo perdevano forza nel momento in cui era “il sistema” a farsene attore e divulgatore, e le dighe per cui si lottava era “il sistema” a farsene carico, e con esso per certi versi la stessa mafia attratta da nuove ricchezze, e sì, anche Danilo fece fatica a trovare una nuova strada. La cercò nella pedagogia sociale con esperienze e risultati ancora da analizzare quanto meritano, pieni di stimolanti provocazioni anche per il metodo delle “conversazioni” da lui animate con ampi gruppi di proletari e di giovani, su temi sociali e filosofici fondamentali, ma tornando contemporaneamente a dare un valore primario, come forse aveva fatto in gioventù, alla poesia. Già, “chissà se i pesci piangono”… L’ultima volta che l’ho visto, malatissimo, a Trappeto stava attaccato al telefono per organizzare, a distanza e con le poche forze che aveva, una “marcia della pace” che, in Sardegna, doveva concludersi davanti a una sede militare di impronta americana. La pedagogia della nonviolenza è qualcosa, continuava a dire e a pensare, di estremamente attuale, è qualcosa di molto concreto e di molto politico. Perché è inaccettabile il silenzio sul fine vita di Filomena Gallo La Stampa, 23 giugno 2024 Il 19 giugno scorso sul tema del fine vita si è tenuta un’udienza della Corte costituzionale su una questione delicata: il requisito del sostegno vitale, stabilito dalla sentenza 242 del 2019, è necessario? La sentenza del 2019 della stessa Corte con la sentenza Cappato, aveva dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo 580 del codice penale, che penalizzava l’aiuto e l’istigazione al suicidio, giudicandolo in contrasto con l’autodeterminazione e i diritti fondamentali. Dal 2019, aiutare qualcuno a morire non è reato in determinate condizioni: quando il Servizio sanitario nazionale, con il parere del comitato etico, verifica che la decisione è autonoma e libera, la malattia è irreversibile e causa sofferenze intollerabili, e la persona è tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale. Tuttavia, l’interpretazione di “sostegno vitale” è stata complessa e ingiusta se considerata in senso restrittivo. Durante la mia discussione in Corte in difesa di Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli e della libertà di scelta di Massimiliano e di tante persone malate come lui, ho evidenziato la discriminazione legata al sostegno vitale come criterio necessario, elemento interpretato diversamente a seconda dei casi: il respiratore, la chemioterapia, la nutrizione artificiale, l’assistenza alla persona, i farmaci. Tutti elementi legati poi alla tipologia di patologia evolutiva incurabile o con prognosi infausta breve, quindi diverse dalla condizione di Fabiano. Questo criterio ambiguo rischia di produrre risposte diverse alla stessa domanda. È giusto che la mia scelta di vita dipenda dalla presenza di un presidio meccanico? Nessuna legge al mondo prevede questa condizione come necessaria per limitare la nostra libertà. Ora la Corte può valutare situazioni diverse da quella di Fabiano Antoniani, tetraplegico a seguito di un incidente e totalmente dipendente dai macchinari e intervenire per riscrivere l’articolo 580, rendendolo conforme alla Costituzione. L’aiuto al suicidio deve essere possibile quando la persona è capace di decidere autonomamente se porre fine a sofferenze intollerabili nel rispetto del proprio concetto di dignità. La medicina prolunga la vita, a volte indefinitamente, comprimendo la nostra idea di vita dignitosa. La Corte ha già rilevato il vuoto di tutela nel 2018 ed è intervenuta nel 2019 con una sentenza di incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale. La possibilità di scegliere non è un obbligo, ma una libertà da esercitare, che può tranquillizzare chi è imprigionato in una malattia incurabile. La Corte ha il compito di chiarire che il diritto alla vita non deve diventare un dovere, calpestando la nostra libertà. Intervenire sull’articolo 580 alla luce della sentenza 242 non sarebbe contraddittorio. La Corte a esempio è intervenuta più volte sulla legge 40 sulle tecniche riproduttive, cancellando parti di articoli illegittimi nel 2009, 2014 e 2015. Questi precedenti sono rilevanti e sono solo alcuni: chiedere un nuovo intervento sull’articolo 580 permette alla Corte di considerare nuove situazioni e patologie non contemplate nel caso di Fabiano Antoniani. Nel giudizio in Corte sono state ammesse Martina Oppelli e Laura Santi, affette da patologie degenerative, non dipendono ancora da un trattamento di sostegno vitale, ma soddisfano gli altri requisiti previsti dalla sentenza 242. Come Massimiliano, il cui caso è in esame, chiedono di poter esercitare il diritto alla morte assistita. Se la Corte interverrà a seguito del nuovo dubbio di legittimità costituzionale sul requisito del sostegno vitale, non smentirà sé stessa, ma proseguirà il lavoro iniziato con la sentenza 242, affrontando l’inerzia del legislatore e affermando il diritto all’autodeterminazione per tutti i malati che, a causa di sofferenze intollerabili, scelgono la morte volontaria assistita. Una nuova sentenza di incostituzionalità non indebolirebbe la protezione dei più fragili, ma garantirebbe loro la possibilità di esercitare un diritto fondamentale. Caporalato, nei campi italiani almeno 230 mila braccianti sfruttati di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 23 giugno 2024 Braccianti sfruttati, contratti fantasma, vita nei ghetti e paga minima che arriva a 2 euro per un’ora di lavoro. Pesano anche le piccole dimensioni di tante aziende. Sono le schiene piegate sulle nostre terre, dai campi nel Mantovano a quelli di Latina e Foggia, le mani che raccolgono e portano sulle nostre tavole pomodori, olive, uva e fragole. Cassone dopo cassone. Sono i braccianti d’Italia e tra loro in 230 mila, secondo i dati Istat, soffrono sfruttamento e abusi: contratti fantasma e una paga che va dai 15 ai 35 euro al giorno, in alcuni casi appena due euro l’ora. Lavoratori, tra cui 55 mila donne, impiegati in modo irregolare in agricoltura ma che pesano per un quarto del totale degli occupati del settore. Arrivano da Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia, Mali ma anche da Bulgaria e Romania oltre che da Pakistan, Bangladesh e India. Qui era nato Satnam Singh, il 31enne morto nell’area dell’agro pontino mentre lavorava nei campi, per 4 euro l’ora. Un caso che ha sollevato proteste e indignazione e che ha portato i sindacati a proclamare lo sciopero per oggi (Flai Cgil) e per il 25 giugno (Uila-Uil e Fai-Cisl). Un sistema radicato - “Il caporalato in Italia è un sistema radicato - spiega Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto che con Flai Cgil monitora il fenomeno da più di dieci anni - non interessa solo il Sud del Paese, è strutturale. Nonostante la legge 199 introdotta nel 2016 sia avanzata e riconosciuta anche a livello europeo come eccellente, gli abusi permangono. Sul fronte della prevenzione i passi avanti sono stati insufficienti”. E secondo Bilongo nel post pandemia la situazione è peggiorata. La geografia dei ghetti La geografia dei ghetti - I territori con criticità secondo l’ultimo report del centro studi sono 405, di cui 194 nel Mezzogiorno. Qui si trovano alcuni “ghetti”, le baraccopoli in cui vivono almeno 10 mila lavoratori secondo le stime e i dati incompleti a disposizione dei sindacati. Si va dal territorio di Vittoria in Sicilia fino a Borgo Mezzanone e Contrada Torretta Antonacci, il cosiddetto “Ghetto di Rignano”, in Puglia. Meno note le criticità denunciate in Piemonte nel territorio saluzzese o nel Mantovano in Lombardia così come in Veneto e Friuli-Venezia Giulia. “Ad oggi - aggiunge Bilongo - manca una mappatura completa di questi centri e questo nonostante il Pnrr preveda 200 milioni di euro per il superamento dei ghetti”. Controlli e inchieste - Le difficoltà nel contrastare il caporalato si legano anche alla delicata questione dei controlli, in calo tra 2022 e 2023. Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro (Inl) sul settore agricolo, su 4.263 accessi ispettivi effettuati nel 2023 in 2.090 casi è stato riscontrato un illecito. Con oltre 2.100 lavoratori coinvolti dal fenomeno del caporalato. In parallelo, l’Osservatorio Placido Rizzotto registra denunce e inchieste in aumento con numeri quasi raddoppiati sull’anno: da 220 a 432. Al Nord la Lombardia conta la maggior concentrazione dei casi (29), per due terzi nelle province di Mantova e di Brescia; seguono il Veneto e il Piemonte, con 24 e 21 segnalazioni. Nel Centro Italia, il Lazio è la regione in cui lo sfruttamento del lavoro agricolo è più persistente con 30 casi, la metà dei quali riguarda la provincia di Latina (17). La Toscana ne conta invece 20 e l’Emilia-Romagna 18. Al Sud maglia nera per la regione Puglia, con 99 casi denunciati di caporalato, 67 solo in provincia di Foggia. Seguono Sicilia (62) e Calabria (33). Le aziende agricole - Come ricordato da Inl a incidere sul fenomeno caporalato è anche la taglia delle aziende. Per Paolo Pennesi, direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro: “Il nanismo delle nostre imprese, come spesso viene definito, non aiuta perché questi fenomeni di lavoro nero sono più tipici di imprese piccole, poco strutturate”. Con l’intento di prevenire gli abusi e in parallelo sensibilizzare la filiera agricola era nata la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, istituita presso l’Inps quasi dieci anni fa e pensata per certificare le imprese etiche. Un bollino di qualità per quei datori che volontariamente sceglievano di sottoporsi a controlli regolari. Un’arma che si è rivelata spuntata come denunciato anche dal presidente nazionale di Cia-Agricoltori Italiani, Cristiano Fini. Che sintetizza l’impasse nel contrasto al caporalato in un dato: alla Rete ad oggi si sono iscritte soltanto 6.600 aziende agricole sulle oltre 400 mila attese. Caporalato e ipocrisia di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 23 giugno 2024 Gli schiavi contemporanei lavorano nei campi, in bella vista. Parliamo di 200mila persone. Se l’autorità non le vede è perché non le vuol vedere. Dopo tanti anni di mestiere, uno dovrebbe smettere d’arrabbiarsi. Invece ci sono vicende che ancora provocano un’irritazione profonda. Per esempio: il governo di turno, dopo una tragedia nei campi, dichiara: “Guerra al caporalato in agricoltura!”. È accaduto anche stavolta. Un giovane indiano, Satman Singh, è morto dopo due giorni d’agonia. Nell’incidente, avvenuto in una serra per la coltivazione dei meloni nell’agro pontino (Latina), ha perso un braccio. È stato ritrovato. L’avevano gettato nell’immondizia. Ci sono scandali difficili da contrastare. La diffamazione e le minacce digitali, per esempio. Le scatole cinesi dei subappalti, per cui tanti lavori pubblici restano nel limbo. L’evasione fiscale sistematica di alcune categorie (chissà che qualcuno voglia occuparsene, viste le voragini nei conti pubblici). Ma il caporalato in campagna? Gli schiavi contemporanei - come vogliamo chiamare chi fatica in nero per 4 euro l’ora? - lavorano nei campi, in bella vista. Parliamo di 200mila persone. Se l’autorità non le vede è perché non le vuol vedere. “Dobbiamo accelerare gli strumenti normativi per il contrasto al fenomeno del caporalato anche attraverso il decreto agricoltura”, ha dichiarato Francesco Lollobrigida. Non so quanto il ministro conoscesse il lavoro nei campi, prima di assumere l’incarico. Io ci sto in mezzo: la nostra è una famiglia agricola da sempre, e sento parlare di stalle, vacche, mangimi, irrigazione e colture da quando sono nato. In cascina dai nonni, da mio zio, da mio padre, da mio figlio, da tanti amici agricoltori. Nel Cremasco, dove sono nato e vivo, un tempo esisteva la figura del “collocatore”: se un agricoltore aveva bisogno di dieci persone per lo spurgo di una roggia, si rivolgeva a lui. Ma i lavoratori agricoli a giornata, dalle nostre parti, vengono messi “a libro”. Non da oggi, da un secolo. Lo stesso avviene con gli indiani, in maggioranza Sikh, che lavorano nelle stalle. Senza di loro, la zootecnia e l’industria agroalimentare lombarda si fermano. Non facciamo gli ipocriti: il caporalato agricolo, in alcune parti d’Italia, è tollerato. Governi, sindacati e organizzazioni agricole possono fermarlo domani, se vogliono. Mai spesi i 200 milioni del Pnrr per sostituire i “ghetti dei migranti” di Paolo Baroni La Stampa, 23 giugno 2024 Ci sono 200 milioni di euro stanziati dal Pnrr per superare gli insediamenti abusivi dove vivono migliaia di lavoratori agricoli, per lo più stranieri e spesso sfruttati, bloccati da mesi. Le aree sono state individuate da due anni ma è ancora tutto fermo. Secondo il Rapporto su “Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare” pubblicato a giugno del 2022 dal ministero del Lavoro e dall’Associazione nazionale dei Comuni italiani, sarebbero 150 gli insediamenti non autorizzati che stando alle stime ospiterebbero circa 10 mila immigrati tra casolari e palazzi occupati, baracche, tende e roulotte. Veri e propri ghetti, invivibili, indecenti e pericolosi, che sulla carta andrebbero sostituiti realizzando aree attrezzate con moduli abitabili e la predisposizione di tutti i servizi necessari. Per recuperare tutto il ritardo il governo Meloni lo scorso marzo ha deciso di nominare un commissario ad hoc. Nomina che è sì arrivata, ma solo a inizio giugno, ovvero - segnalano ora i capigruppo dell’M5s nelle Commissioni lavoro e agricoltura della Camera, Valentina Barzotti e Alessandro Caramiello, “60 giorni dopo quanto previsto dal decreto che istituiva questa nuova figura”. Insomma al ritardo del piano si aggiunge il ritardo di chi dovrebbe portarlo a compimento. L’incarico in questione è toccato al prefetto di Latina Maurizio Falco, che avrà competenze su tutto il territorio nazionale facendo venir meno i poteri dei tre commissari che sino a ieri si occupavano delle aree degradate di Caserta, Foggia e Reggio Calabria. In base al decreto 19/2024 la designazione doveva toccare al ministero del Lavoro ma poi, trattandosi di un prefetto, la scelta è stata fatta dal Viminale. Secondo la Flai-Cgil si è tratterebbe di una palese “violazione della prerogativa di nomina, avocata a sé dal ministro dell’Interno”. Il timore del sindacato, che da settimane premeva per sbloccare la situazione, è che “si tratti di uno stratagemma per cambiare la destinazione d’uso dei 200 milioni del Pnrr”. La mappatura disposta dall’allora ministro del Lavoro Andrea Orlando doveva servire da base di partenza per individuare le situazioni più critiche su cui intervenire e concentrare le risorse. “Il governo finora ha fatto finta di nulla davanti al fenomeno del caporalato e del lavoro sommerso - ha scritto venerdì l’ex ministro Pd su Facebook -. Eppure, chi oggi promette nuovi interventi aveva qualche strumento già a disposizione e risorse con cui intervenire. Ma hanno preferito dilazionare o ritardare impegni assunti dal precedente governo nella direzione di un contrasto netto al caporalato e di una maggiore dignità per decine di migliaia di lavoratori”. Orlando, in questa chiave, cita proprio il piano per il superamento degli insediamenti abusivi, che definisce “storici luoghi di reclutamento e sfruttamento da parte del caporalato, che avevamo inserito tra i punti qualificanti del Pnrr”. Ebbene, spiega Orlano, “dopo l’insediamento del governo Meloni solo inerzia e da ultimo un provvedimento di commissariamento per estromettere la ministra Calderone, ritenuta evidentemente un rallentamento, ma comunque non si è vista quella necessaria continuità con le azioni che avevamo messo in campo. Questo progetto è a fortissimo rischio di non vedere la realizzazione - conclude Orlando - se il governo non inizia a lavorarci seriamente”. In tutto, secondo l’indagine dell’Anci, su 608 comuni dove è stata rilevata la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agroalimentare, sono 38 i comuni dove si registra la presenza di insediamenti informali o spontanei e strutture non autorizzate. Di questi ben 36 richiedono interventi “prioritari” e “super prioritari”. Nella maggior parte dei casi sono ubicati al Sud (21) e nelle Isole (8), 4 sono poi al Centro, 3 nel Nord Ovest e 2 nel Nord est. In tutto sono 11 le regioni interessate: la Puglia con 12 unità (di cui ben 8 nella provincia di Foggia) è quella dove il fenomeno è più rilevante, seguono Sicilia (8), Calabria (5) e Campania (3). La lista, tra le altre località, comprende Alba e Saluzzo in Piemonte, Albenga in Liguria, Rovigo in Veneto, Porto Recanati nelle Marche e Pescara in Abruzzo, ovviamente Latina nel Lazio e Castel Volturno in Campania, Rosarno in Calabria e Castelvetrano in Sicilia. La maggior parte di questi insediamenti - è scritto ancora nell’indagine dell’Anci - è presente sul territorio da parecchi anni: ben 11 esistono da più di 20 anni e 7 da oltre 10. Di fronte al montare delle proteste il governo come risponde? La questione, venerdì scorso, durante l’incontro coi ministri del Lavoro e dell’Agricoltura, Calderone e Lollobrigida, convocata dopo la tragedia di Latina, è stata sollevata tra gli altri da Davide Fiatti della segreteria nazionale della Flai-Cgil che ha puntato il dito contro “quella autentica vergogna che sono gli “insediamenti informali”, veri e propri ghetti dove migliaia e migliaia di migranti sopravvivono in condizioni miserevoli, indegne di un paese civile”. Risultato: nessuna risposta. Immigrazione, va superata la Bossi-Fini: è una questione di civiltà di Pierfrancesco Majorino Il Domani, 23 giugno 2024 L’Italia oggi dovrebbe mostrare un sussulto e la razionalità e il coraggio che non ha saputo mettere in campo sin qui, realizzando un discorso di verità sulle politiche migratorie. La legislazione attuale è fallimentare e permette la crescita di sfruttamento e violazione dei diritti umani. Mettersi alle spalle in modo netto e inequivocabile la legge Bossi-Fini. Questo imperativo non può più attendere. È una questione di civiltà. In Italia si è affermata un’idea secondo la quale il quadro legislativo in materia di immigrazione non debba essere realmente e poderosamente modificato. Ciò si sostiene (più o meno esplicitamente a seconda delle stagioni) favorirebbe gli “arrivi” alimentando il rischio dell’”invasione”. In realtà questa, che è la narrazione della destra, è tutta una pura e semplice menzogna perché l’unica cosa vera - come testimoniato da numeri e voci provenienti da giuristi, organizzazioni dei diritti umani e organizzazioni di categoria - è semmai un’altra. La presenza di una legislazione tanto arretrata e inadatta sul piano dei veri processi di inclusione e gestione del fenomeno migratorio ottiene infatti un unico risultato: si favoriscono arrivi nell’illegalità, non si compie reale programmazione e gestione dei flussi, si alimenta la grande zona d’ombra dell’immigrazione non governata. In fondo è, tutto ciò, pure una delle questioni drammaticamente chiamate in causa dalla terrificante vicenda di Satnam Singh. Il lavoratore morto di cinismo, di sfruttamento, di schiavismo in un contesto nel quale vanno spesso di pari passo varie forme di irregolarità. Quella dello status delle persone, quella contrattuale, quella delle condizioni di lavoro. Una legislazione fallimentare - L’Italia oggi dovrebbe mostrare un sussulto e la razionalità e il coraggio che non ha saputo mettere in campo sin qui (anche, detto per inciso, quando ha governato il centrosinistra). E una classe dirigente politica ambiziosa e adeguata dovrebbe, per una volta, proprio in materia di politiche migratorie realizzare un discorso di verità. La legislazione attuale infatti è fallimentare e permette di far crescere sfruttamento e violazione permanente dei diritti umani. Le persone non sono trattate come tali - e anzi la “disumanizzazione del migrante” diventa un ingrediente essenziale per la sua ricattabilità - e sono sottoposte ad un processo di regolarizzazione ostico e a un iter burocratico pazzesco, che peraltro grava pesantemente su prefetture, questure, enti territoriali. Avremmo allora bisogno di tutt’altro, di una moderna legislazione - accompagnata da importanti innovazioni anche sul piano dell’irrobustimento di organismi ed enti improntati a gestire il fenomeno - che scommetta sul principio dell’emersione del fenomeno e della programmazione dei flussi. In pratica sulla risorsa che può rappresentare proprio l’immigrazione “legale”. Le proposte dimenticate - Su questo terreno da tempo in parlamento giacciono proposte, in particolare quelle connesse alla campagna di anni fa “Ero Straniero” (che nell’indifferenza colpevole dell’opinione pubblica vide la mobilitazione di centinaia di migliaia di persone) e il Partito democratico è prontissimo a far valere le proprie ragioni sulle quali ha lavorato con grande attenzione innanzitutto il senatore Graziano Delrio, presidente del Comitato Schengen. Il ragionamento in fondo è semplice: se si agevolano le opportunità di ingresso legale, se si irrobustiscono i canali d’accesso all’Italia e all’Europa, se si forniscono strumenti per l’ottenimento di permessi connessi alla ricerca del lavoro (quindi anche permessi di soggiorno temporanei in mano a chi il lavoro non lo ha), se si agevola lo strumento dello “sponsor”, le persone che arrivano saranno più capaci di far valere i propri diritti e non saranno l’oggetto delle forme di sfruttamento. Viceversa proseguirà il modello che si è alimentato in tutti questi anni che, peraltro, impedisce qualsiasi forma di gestione programmata e quindi è un avversario del reperimento, nella legalità, di mano d’opera qualificata, tema che una parte della politica ha sempre paura di maneggiare ma che non può più essere rimosso. Per favorire crescita e produzione noi abbiamo bisogno di reperire anche (ovviamente non solo!) lavoratrici e lavoratori d’origine straniera. Sin qui, nei fatti, abbiamo scommesso sulla loro dimensione di irregolarità permanente. Il che aiuta il caporalato e lo sfruttamento e di certo non la formazione e la qualificazione. Bisognerebbe avere la forza di lasciarsi alle spalle tutto ciò. Dare motovedette alla Tunisia vuol dire violare la legge di Anna Berlingieri L’Unità, 23 giugno 2024 A marzo Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet, hanno impugnato gli accordi anti-migranti tra Meloni e Saied, sostenendone l’illegittimità. Decisione sul merito il 4 luglio. “Da inizio anno le autorità tunisine hanno impedito la partenza di oltre 30 mila migranti che volevano imbarcarsi per raggiungere le coste dell’Europa. Dato che testimonia il costante impegno portato avanti da quel Paese, anche grazie al supporto fornito dall’Italia, per contrastare l’immigrazione irregolare e combattere i trafficanti di esseri umani”, proclama il Ministero dell’Interno dal suo account “X”. La cooperazione con la Tunisia è il fiore all’occhiello della politica migratoria italiana: è stato fondamentale il ruolo di Meloni nel “team Europe” per concludere il Memorandum UE-Tunisia dello scorso luglio. I rapporti con il paese sono solidi e duraturi e l’Italia finanzia ampiamente le politiche di controllo della mobilità in Tunisia. Questa cooperazione, mirata a bloccare i flussi migratori, si è intensificata con l’aumento degli arrivi via mare dal paese, aggravato dalla crisi socio-economica tunisina e dall’ondata di razzismo e repressione che ha colpito le persone di origine subsahariana nell’ultimo anno. A dicembre 2023, il Ministero dell’Interno Italiano ha stanziato 4,8 milioni di euro per la rimessa in efficienza e il trasferimento di 6 motovedette di proprietà della Guardia di Finanza alla Garde Nationale (G.N.) tunisina. L’accordo prevede che le autorità italiane forniscano formazione sull’uso delle navi e coprano i costi di manutenzione e, più in generale, la necessaria assistenza tecnica alle autorità tunisine. La finalità è chiara: rafforzare la capacità delle autorità tunisine di operare intercettazioni in mare e impedire l’attraversamento del Mediterraneo verso l’Italia. ASGI, ARCI, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet, con il supporto del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES), nel marzo del 2024 hanno impugnato tali accordi, sostenendone l’illegittimità. Lo stato di diritto tunisino è in rapido deterioramento: a partire dalla svolta autoritaria impressa al governo dal Presidente Saïed nel luglio di tre anni fa, si è osservata una inesorabile erosione dei diritti dell3 cittadin3 tunisin3 e stranier3. Rispetto a quest3 ultim3, a febbraio 2023 Saïed ha scatenato una vera e propria campagna di odio, che è culminata in rastrellamenti, deportazioni illegali, maltrattamenti e torture nei confronti delle persone straniere, a prescindere dal loro status legale. Le Nazioni Unite, così come diverse organizzazioni di tutela dei diritti umani, hanno espresso profonda preoccupazione per quanto accade nel paese ai danni delle persone migranti. Il Comitato per i diritti umani e il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite hanno accolto diversi ricorsi individuali, accogliendo le richieste di misure cautelari da parte di cittadin3 stranier3 soggett3 a deportazioni verso i confini con Algeria e Libia o a trasferimenti forzati all’interno del paese. I Relatori Speciali delle Nazioni Unite hanno esplicitato che “il rafforzamento di attività e progetti che aumenterebbero l’intercettazione dei migranti in mare e il loro rimpatrio illegale in Tunisia e in Paesi terzi pericolosi, dove rischiano persecuzioni e violazioni del diritto alla vita, torture e altri maltrattamenti, traffico di esseri umani e sparizioni forzate, costituisc[e] una violazione del principio di non respingimento”. La donazione delle motovedette andrebbe esattamente in questa direzione. Per tale motivo, fra gli altri, le associazioni ritengono che l’intesa sia illegittima. Sostengono infatti che il finanziamento della G.N. tunisina viola la normativa italiana sul trasferimento di armamenti a Paesi terzi, aumentando il rischio di violazione dei diritti fondamentali. La legge n. 185/1990, richiamata dalla stessa amministrazione nell’atto impugnato, è esplicita nel vietare “l’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento verso Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa”. Inoltre, il finanziamento è stato stabilito senza alcun coinvolgimento del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero della Difesa e degli organi consultivi (CISD, Comitato consultivo, UAMA, Ufficio di coordinamento) che per legge dovrebbero avere un ruolo chiave nella pianificazione, valutazione, verifica e autorizzazione di qualsiasi movimento di materiali di armamento verso un Paese terzo. Inoltre, sebbene il supporto alla Garde Nationale sia finalizzato al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare, la G.N. tunisina è responsabile della commissione di documentate violazioni dei diritti umani durante le violente intercettazioni in mare e dopo lo sbarco in Tunisia, che non può essere considerato un “luogo di sbarco sicuro” per i parametri stabiliti dalle norme internazionali. Le violazioni sono state ampiamente documentate nel Rapporto “Interrupted Sea”, pubblicato proprio ieri dall’organizzazione Alarm Phone in collaborazione con diverse organizzazioni della società civile tunisina. Le associazioni ricorrenti sostengono inoltre che l’amministrazione non abbia adempiuto al dovere di svolgere un’attenta istruttoria, anche in relazione al rispetto dei diritti umani, prima di concludere l’accordo. A fine maggio tuttavia il TAR ha rigettato il ricorso nel merito legittimando l’azione del governo. Secondo il tribunale l’accordo contestato sarebbe in linea con le decisioni prese sia a livello comunitario, con il Memorandum UE-Tunisia del luglio 2023, sia a livello nazionale, con il rinnovato inserimento della Tunisia nella lista dei Paesi di origine sicuri del maggio 2023. Secondo il giudice di primo grado, la cooperazione di lungo corso tra i due governi sarebbe sufficiente per soddisfare l’obbligo istruttorio del governo. La cooperazione tra le autorità è espressamente mirata a rafforzare il controllo delle frontiere, bloccando i flussi migratori dalla Tunisia - principale motivo di vanto delle politiche migratorie italiane. Eppure, secondo il giudice, tali iniziative, insieme all’assistenza meramente tecnica fornita alla polizia di frontiera tunisina, sarebbero idonee a garantire il rispetto dei diritti umani. Il 15 giugno - data in cui era previsto il trasferimento delle prime tre motovedette - le associazioni hanno presentato appello cautelare al Consiglio di Stato. La suprema corte amministrativa, ritenendo “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate da parte appellante”, ha sospeso gli atti impugnati e il trasferimento delle motovedette in attesa di prendere una decisione sul merito, fissando udienza cautelare il 4 luglio. Si tratta di un primo risultato importante, per quanto temporaneo, perché consente di neutralizzare la potenzialità lesiva degli atti contestati finché il giudice non ne avrà vagliato in maniera approfondita la legittimità. Ci si augura che la decisione del Consiglio di Stato rappresenti un segnale della volontà di condurre un’istruttoria adeguata per accertare se il supporto materiale e logistico alla Garde Nationale comporti una violazione dei diritti umani e della normativa di riferimento. Infatti, il rafforzamento delle autorità di frontiera tunisine, insieme alla recente dichiarazione della zona di ricerca e soccorso di competenza del paese, rischiano di comportare un grave aumento dei respingimenti illegittimi delle persone in movimento e delle violazioni dei diritti umani in Tunisia, paese da cui, come già avvenuto per la Libia, diviene sempre più difficile fuggire. L’accertamento dell’illegittimità del finanziamento contestato consentirebbe di far luce sulle responsabilità degli Stati europei per le violazioni derivanti dalle politiche repressive di controllo della mobilità e dagli accordi di esternalizzazione che le sorreggono. Luigi Giacomo Passeri, detenuto in Egitto da 10 mesi per due spinelli di Bruno D’Alfonso Il Messaggero, 23 giugno 2024 Il fratello: “Nessuna notizia e nessun contatto”. Ingaggiato un avvocato egiziano, che ha chiesto già 30 mila dollari, ma che non è mai andato in cella a trovare il suo assistito. “Non vorrei che si trattasse di un altro caso Giulio Regeni. Temo per la vita di mio fratello, Luigi Giacomo Passeri, maltrattato in carcere dalla polizia egiziana da un anno”. Sono le parole di Andrea Passeri, pescarese, ma nato in Sierra Leone come i suoi quattro fratelli, tra cui il più piccolo Luigi Giacomo di 31 anni, che lo scorso anno è stato arrestato al Cairo per il solo possesso di uso personale, sembrerebbe, di due spinelli. Da quel 28 agosto 2023, giorno precedente il ritorno dalla vacanza egiziana di Luigi Giacomo a Londra, la città in cui lavora (imprenditore di spettacoli) e vive con la sorella Anna Maria, nessuno della famiglia ha potuto avere ancora contatti diretti con lui e notizie certe sul suo destino. Andrea e gli altri fratelli, distanti tra loro per motivi di lavoro, ce la stanno mettendo tutta per aiutarlo, ma quello che hanno ottenuto in quasi un anno di detenzione è una sola visita concessa a un responsabile dell’unità di crisi dell’Ambasciata italiana, con continui rinvii di un’udienza o processo la cui data non è ancora stata fissata. I contatti con un avvocato del posto risultano difficili e dai pochi documenti e verbali scritti in arabo da lui inviati, le accuse della polizia sembrano esageratamente alterate rispetto alla versione raccontata da Luigi Giacomo, che a suo dire era stato sorpreso con solo due dosi di sostanza stupefacente leggera per uso personale. “Noi tutti siamo sorpresi di quello che sta succedendo - dice il fratello Andrea - ci è caduto il mondo addosso perché quello che ci raccontano i verbali è un mondo che non ci appartiene”. Ciò di cui i familiari di Luigi Giacomo sono certi, però, è che il loro congiunto sta soffrendo uno stato di oppressione fisica e psicologica, come documentano le lettere pervenute da Badr 2, il carcere del Cairo: “Voglio tornare in Europa anche da prigioniero - scrive Luigi Giacomo in una delle poche lettere che gli è stato permesso di inviare - non ci riesco più a stare qua come un topo di fogna. Madonna che incubo che sto vivendo fratello mio, voglio tornare in Europa! Aiutatemi in ogni modo possibile”. La preoccupazione di chi ha ricevuto i messaggi cresce ancor più quando, tra le righe, emerge il disagio psicologico che fa temere l’autolesionismo: “C’ho una paura, ho alti e bassi mentre ti scrivo la lettera! Sto fregato in testa, sto negativo. È che qua non ci si può fidare di nessuno, poliziotti ecc.” si legge nello stampatello usato da Luigi Giacomo Passeri. Tutti in famiglia, però, sembra abbiano fatto il possibile, avendo incaricato un avvocato egiziano, che ha chiesto già 30 mila dollari, ma che trova sempre ostacoli senza neanche mai andare a trovare in cella il suo assistito. Ancora più disarmante, a loro dire, la poca attenzione al caso prestata dalle autorità italiane, che non ancora forniscono rassicurazioni sul destino del loro congiunto né risultano migliorate le sue condizioni nella detenzione nel carcere egiziano. Una famiglia, quella dei Passeri, già provata in passato da sofferenze e ingiustizie. Il capostipite, il pescarese Alfonso Nino, era emigrato per motivi di lavoro a Freetown, in Sierra Leone, quale direttore della Rivoira Italia. Dall’unione con la moglie Marie, sierraleonese, sono nati cinque figli, l’ultimo dei quali Luigi Giacomo. Ma per effetto del golpe che la Sierra Leone ha subito nel 1997, i componenti della famiglia Passeri, con lo status di rifugiati, si sono trasferiti a Pescara. Ora tutti insieme, tranne Alfonso Nino che non c’è più, stanno nuovamente vivendo un dramma che sperano si risolva al più presto, lanciando il loro grido d’allarme alle autorità competenti, per una situazione che si è fatta oltremodo preoccupante.