Per una pena umana ed utile di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 22 giugno 2024 Ci è parso utile e per certi versi inevitabile dedicare la riflessione di PQM, questa settimana, al tema - in verità secolare - della pena. Ce lo impone la macabra e quasi petulante contabilità dei suicidi nelle nostre carceri, uno scandalo che non esiterei a definire mondiale, ma che continua a non interessare né chi ci governa, né la gran parte - io temo - della pubblica opinione. Perché quei suicidi, è ovvio, denunciano la insopportabilità della pena che quei detenuti erano chiamati ad espiare. Una intollerabilità che va misurata certamente rispetto alle concrete condizioni di espiazione, cioè le nostre vergognose, scandalose carceri; ma anche e forse innanzitutto rispetto al senso della espiazione in atto, ed alle prospettive che quella pena così espiata costruisce per la futura, riacquistata libertà. Lo Stato che infligge la pena a chi si è accertato l’abbia meritata viene meno - questo è il punto - al suo dovere primario, che è quello di fare in modo che quella pena abbia un senso per chi deve espiarla. La disperazione di chi giunge a suicidarsi è solo la punta dell’iceberg di una ben più largamente diffusa rassegnazione al vuoto tragico dell’espiazione, ridotto alla pura e semplice funzione di esclusione del reo dal contesto sociale. Un parcheggio all’inferno, che ha un perché nella causa che l’ha determinato, ma non ne ha alcuno nella prospettiva, nel dopo. Perché se la pena non è altro che ritorsiva esclusione dal contesto sociale, ti prepara a null’altro che alla definitiva e certamente più dolorosa esclusione da libero. Perciò quando la pena sarà espiata, ed il reo restituito alla propria libertà, la società si vedrà restituire, necessariamente, un candidato naturale alla reiterazione del crimine, un escluso dalla vita sociale che non avrà altro modo ed altra ragione di vivere la propria riacquistata libertà se non la recidiva, ove non voglia vivere, come è del tutto naturale ed umano che sia, come uno scarto in un angolo buio. L’ottusa cecità dei fanatici del buttare la chiave non riesce a leggere questa banale verità: che la pena umana è, innanzitutto, una pena utile per la collettività. Una pena umana, cioè espiata in condizioni rispettose della dignità personale, ma soprattutto pensata ed organizzata per creare le basi di una speranza che la futura libertà possa essere vissuta in modo diverso dalla reiterazione del crimine, è una pena utile per la società. Dunque istruire, addestrare all’apprendimento di una professione, occuparsi delle ragioni piscologiche e sociali che hanno indotto il detenuto a delinquere, affrancarlo insomma dal suo destino, o dal destino che egli si è costruito, è certamente una condizione di umanità della pena, dunque un valore in sé; ma è prima ancora una ovvia, scontata, banalissima esigenza di autoprotezione della società. Naturalmente, questa riflessione non può riguardare la “carcerazione preventiva”, come sarebbe giusto tornare a chiamare la custodia cautelare, perché qui si sconta la pena prima ancora del processo e del giudizio di responsabilità. Una violenza inaudita, che è possibile giustificare solo in casi di conclamata, manifesta pericolosità del soggetto accusato ma non ancora condannato. Ed invece, grazie al micidiale abuso della nozione di “pericolo di reiterazione del reato”, questa violenza continua a riguardare quasi un terzo delle persone detenute nelle nostre carceri: c’è altro da aggiungere? Tanta carne al fuoco, anche questa settimana, su PQM. Buona lettura. Un principio disabitato: l’umanità delle pene di Vittorio Manes* Il Riformista, 22 giugno 2024 La situazione delle carceri, il tasso di sovraffollamento e il numero dei suicidi sono lì a ricordarci, dolenti, la distanza siderale da ogni canone di umanità. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, recita la prima parte dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, a cui fa eco l’art. 3 della CEDU, vietando perentoriamente, oltre la tortura, tutte le pene o i “trattamenti inumani e degradanti”. Ma questo basilare canone di civiltà è molto più risalente, ed è parte dei presupposti stessi - i minima moralia - del legittimo esercizio della potestà punitiva: regola di esclusione ed al contempo condizione di legittimazione dello ius puniendi, ad alta densità assiologica. Ci ricorda che la pena non può mai essere barbarie, che lo Stato non deve mai abbassarsi al livello del crimine, anche dell’autore del reato più efferato, spregevole ed odioso: ed anzi, ammonisce che, in una democrazia matura, il potere deve sempre avere il coraggio di combattere anche la criminalità più spietata - come scrisse in seno alla Corte suprema israeliana il giudice Aharon Barak - con una mano legata dietro la schiena. Anche e soprattutto durante la fase esecutiva della pena, quando il reo è consegnato nelle mani dello Stato, ed è privato delle sue garanzie più intime e primordiali: ma non per ciò può essere privato di quel valore che non si acquista per meriti né può perdersi per demeriti, la dignità umana, appunto. È questa soglia insuperabile, che vieta di rispondere alla brutalità con la brutalità, alla violenza con la violenza, alla crudeltà con crudeltà, che separa, del resto, “pena” e “vendetta”. E che incarna l’essenza stessa dello stato di diritto, dove il potere assoggetta se stesso alla preminenza del diritto. Ora, a noi pare che questo principio sia rimasto in ombra, e per molti aspetti sia stato dimenticato: peggio, forse, che sia dato quasi per scontato. Anche dalla Corte costituzionale, e dalla sua giurisprudenza, dove la finalità rieducativa pur compare con notevole frequenza, ed ha guadagnato sempre maggior spazio, mentre il principio di umanità della pena - fondamento e limite della pena pubblica - fatica a trovare una compiuta valorizzazione. Ne è prova la stessa, coraggiosa sentenza sulla c.d. affettività in carcere, la sentenza n. 10 del 2024, che non ha nemmeno considerato questo parametro (pur evocato dal giudice rimettente). Olimpica indifferenza ovvero ossequio formale nei confronti di una livrea che si ritiene troppo altisonante per essere scomodata? Difficile dirlo. Eppure dovremmo chiederci se questo principio, così carico di possibili eccedenze assiologiche e di potenziali ricadute ermeneutiche, sia oggi davvero rispettato. L’attuale situazione delle carceri ed un tasso di sovraffollamento tornato ai livelli “pre-Torreggiani”, con il crescente ed assillante numero dei suicidi, sono lì a ricordarci, dolenti, la distanza siderale da ogni canone di umanità. E le condizioni nei centri di permanenza temporanea sono testimonianze non meno dolorose. Una analoga distanza, del resto, è segnata dalla tolleranza ormai diffusa per le misure perennemente emergenziali che accompagnano il c.d. carcere duro, spesso al prezzo di una “desertificazione affettiva” che considera, di fatto, il detenuto come un “microbo sociale”; o dalla triste assuefazione collettiva per pene infamanti, afflittive non solo dell’immagine ma della stessa dignità della persona, come la spettacolarizzazione mediatica della condanna prima del processo. Dobbiamo prendere atto, in realtà, di una distanza non solo dai principi, ma dalla cultura che li cementa: il lessico della politica, del resto, evoca ormai quotidianamente il carcere come luogo di marcescenza, piuttosto che come luogo di recupero del reo, e ciclicamente invoca - di fronte alle più crude vicende di violenza di genere - trattamenti contrari al senso di umanità, come la sterilizzazione farmacologica di funzioni biologiche essenziali o la “castrazione chimica”. Appare quindi urgente promuovere una diversa angolatura prospettica, giuridica e prima ancora culturale, proprio partendo dal lessico delle garanzie e dei diritti: dove il principio di umanità ambisca ad essere concepito e riconosciuto come diritto fondamentale ad una pena umana. Non dovrebbe trattarsi, è chiaro, di una palingenesi puramente estetica o didascalica. A questo diritto dovrebbe infatti corrispondere un obbligo positivo di tutela da parte dello Stato: obbligo giuridicamente vincolante per il suo primo e principale garante ed immediatamente giustiziabile davanti alle corti, di fronte alle sue conclamate violazioni. Con gli avvocati che dovranno essere lì, pronti a sorvegliarlo e a denunciarne le ferite. *Professore ordinario di diritto penale Il diritto penale: se, come e perché punire di Giovanni Flora* Il Riformista, 22 giugno 2024 In attesa di “qualcosa di meglio del carcere” e di “qualcosa di meglio della pena”, in carcere si continua a morire. Se, come e perché punire è da secoli uno dei fondamentali interrogativi del diritto penale. La concreta incidenza negativa della pena sui diritti fondamentali della persona, la sua “afflittività”, ne paiono caratteri identificativi sostanziali. Del resto, anche l’art. 25 comma 2 Cost. (“Nessuno può essere punito (..)”) evoca la categoria della “punizione” quale conseguenza della commissione di un fatto di reato, nell’implicito presupposto che ne ricorrano ovviamente tutte le condizioni (non ultima la capacità di intendere e di volere dell’autore). Spostando l’attenzione dalla pena come categoria dogmatica (che già reca con sé l’idea di un “male” che il reo deve patire) alla pena come categoria storica, non si può non rifl ettere su cosa sia oggi, nell’attuale momento storico, la “pena” e se il sistema sanzionatorio complessivamente considerato sia conforme ai canoni imposti dalla Costituzione, se sia degno di un paese civile e di uno “Stato dei diritti” (per dirla con Marcello Gallo). A leggere i principi della “Costituzione più bella del mondo” il nostro sistema sanzionatorio si presenta di uno splendore abbagliante. La pena può punire solo l’autore del fatto e non altri e deve ricadere su un soggetto condannato in via definitiva. Non può consistere nella “morte”, né in un trattamento contrario al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato, con il minor sacrificio possibile del bene supremo della libertà personale. Ma la realtà ci consegna un quadro non solo sconfortante, ma tragicamente drammatico. L’abuso della custodia cautelare in carcere anticipa la punizione a soggetti presunti innocenti. Non solo il processo, infinito, è già una pena, ma, ancor prima, le indagini preliminari i cui contenuti vengono sistematicamente diffusi inchiodano il presunto innocente ad una croce mediatica dalla quale mai riuscirà a liberarsi. Il ricorso a piene mani al sequestro preventivo a fine di confisca, soprattutto nella forma “per sproporzione”, colpisce certo il bene “patrimonio”, ma ha riflessi così devastanti sulla vita personale e professionale delle persone (art. 2 Cost.) che ci si chiede come possa prescindere dai gravi indizi di colpevolezza in fase cautelare e da una condanna definitiva in fase di giudizio. Ma ciò che clamorosamente contraddice il “volto costituzionale della pena” è la attuale persistenza della centralità della pena carceraria, soprattutto in considerazione delle condizioni disumane in cui viene attualmente scontata. Le lodevoli, ma timide, “aperture” della “legge Cartabia” alle sanzioni sostitutive della pena detentiva, si sono nella pratica dimostrate del tutto insufficienti, contraddette dalla indecorosa produzione legislativa degli ultimi tempi e frustrate dai rigorismi della giurisprudenza. Così, il sovraffollamento carcerario è ancora inaccettabile realtà e non consente quel minimo di attenzione alla persona del detenuto come tale che costituisce il precipitato etico del trattamento conforme al principio di umanità. Pertanto, solo un immediato provvedimento di amnistia e indulto, da attuarsi auspicabilmente con decreto-legge, ricorrendo certamente i presupposti di necessità e urgenza, potrebbe creare le condizioni minime affinché in carcere il detenuto possa essere trattato come un essere umano e favorirne il processo di rieducazione. Non si tratterebbe affatto di “provvedimenti di clemenza”; ma di provvedimenti costituenti premesse assolutamente indispensabili per creare le condizioni di adempimento di precetti costituzionali attualmente impossibili da attuare e cercare di frenare quella inarrestabile, drammatica sequenza di suicidi di persone “nelle mani dello Stato”. Ma la vera soluzione strutturale sta nell’abbandono della centralità del carcere, nella sua radicale sostituzione con misure “alternative” alla detenzione ormai sperimentate con successo in diversi paesi. Forse converrebbe riprendere in mano non solo gli esiti degli” stati generali” sull’esecuzione della pena, ma anche le idee del Progetto di Riforma del Codice penale della “Commissione (Giuliano n.d.r.) Pisapia” (27 luglio 2006) che faceva ampio ricorso a sanzioni alternative a quelle carcerarie. Certo da sempre si va alla ricerca di una pena diversa dal carcere e diversa dalla “inflizione di un male”. La giustizia riparativa, radicalmente ristrutturata rispetto a quella “cartabianca”, potrebbe offrire spunti di riflessione. Intanto, in attesa di “qualcosa di meglio del carcere” e di “qualcosa di meglio della pena”, in carcere si continua a morire. *Professore ordinario di diritto penale Il processo come pena di Daniele Negri* Il Riformista, 22 giugno 2024 Punire prima. Punire subito. Punire, dunque, attraverso il processo penale. Profittando, cioè, degli atti di cui il processo si compone e dei suoi strumenti coercitivi pronti all’uso, per piegare gli uni e gli altri - sono diagnosi risalenti - a finalità di immediato controllo sociale. Più che “passione contemporanea”, secondo una felice immagine sociologica, pulsione “eterna” del potere e sentimento collettivo giunto al parossismo. La tortura ne ha rappresentato storicamente l’emblema. Esempio massimo della sofferenza corporale inferta agli inquisiti prima della sentenza, “straziati da tormenti certissimi” quantunque ne fosse dubbia la reità; finché la battaglia illuminista non ha fondato i moderni sistemi penali sulla presunzione d’innocenza e così stabilito che la legittimazione a punire possa discendere soltanto dal rimprovero di colpevolezza formulabile al termine dell’accertamento processuale. La concezione atavica, tuttavia, è rimasta ben piantata nell’animo dei legislatori d’ogni epoca e, più ancora, essa pervade la pratica giudiziaria quotidiana, prendendo forme diverse e aggiornate, fi glie però della stessa matrice. Ne distinguiamo almeno tre. La prima e più banale: l’avvio e la prolungata pendenza del processo recano in sé pregiudizio alla reputazione, ai progetti di vita, alle relazioni affettive e sociali della persona imputata, tutte prerogative individuali mandate in cenere dall’accusa che qualche pubblico ministero sia disposto a coltivare o si accanisca a promuovere. Tutti sappiamo che, a questa primaria afflizione cui soggiace l’imputato, si aggiunge spesso la risonanza, quando non la spettacolarizzazione mediatica del processo, versione ammodernata e, per l’appunto, anticipata dello “splendore dei supplizi” che l’ancien régime riservava all’esecuzione del condannato. Sarebbe allora sbagliato scartare la soluzione dell’improcedibilità per superamento di determinati limiti temporali, la quale proviene dall’imperativo costituzionale che incarica la legge di assicurare, del giusto processo, la “ragionevole durata” (art. 111). Obbligazione di risultato, volta a salvaguardare l’imputato presunto innocente dalla menomazione alla propria sfera esistenziale causata dal corso protratto del processo penale in quanto tale. Del resto, l’imputato non rimane mai indenne dalle conseguenze del processo istaurato a suo carico, dato che il nostro sistema non conosce il verdetto finale incentrato sull’alternativa perentoria tra “colpevole” e “non colpevole”, senza sfumature intermedie o zone grigie, ma gradua le decisioni di proscioglimento secondo una scala di favore decrescente, dove alcune delle formule liberatorie lasciano sussistere lo stigma sociale, propiziano la confisca di beni e patrimoni a prescindere dalla condanna, o fungono da base di sospetto per scatenare comunque l’armamentario delle misure di prevenzione. Non ci si capacita, insomma, che l’azione del pubblico ministero, organo superiore di giustizia, possa rinunciare ai segni tangibili del proprio passaggio. La seconda manifestazione del processo come pena è costituita dal patimento supplementare inflitto all’imputato con i provvedimenti cautelari, custodia carceraria in testa. Dal 1992 siamo infatti tornati alla cattura obbligatoria, in virtù della quale la condizione normale dell’imputato, per una serie via via crescente di reati, è lo stato di cattività. Qui operano le presunzioni legali di pericolosità basate sul titolo dell’accusa, malgrado le (ancora timide) affermazioni della Corte costituzionale, secondo cui le misure cautelari non possono rispondere a finalità assimilabili a quelle della pena, mirare a scopi di rassicurazione sociale. Dalla detenzione anticipata derivano, poi, altri congegni sanzionatori in corso di processo: l’isolamento dell’imputato per volontà dell’amministrazione, mediante il “carcere duro” a norma dell’all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario; la relegazione del medesimo dietro lo schermo audiovisivo tramite il collegamento a distanza dal luogo di restrizione, menomando dignità e difesa della persona proprio là dove questa rischia le pene finali più alte. Sembra inutile che gli studiosi del diritto penale seguitino nella ricerca delle ragioni del punire, poiché, qualunque esse siano, finiscono per collassare dentro la realtà del processo, divenuto un enorme dispositivo di segregazione e neutralizzazione di determinati tipi d’autore, dei quali è il pubblico ministero, con la qualificazione degli addebiti, a scolpire il profilo. Infine, la terza e più recente tendenza, inaugurata con l’istituto della messa alla prova a processo sospeso e perfezionata, ora, grazie alle lusinghe della giustizia riparativa. L’esecuzione della pena, questa volta letteralmente, entra nel processo mutandone la natura. La finalità scoperta consiste qui nel rieducare l’imputato senza averne prima acclarato la colpevolezza: costui viene indotto alla scelta di un “trattamento” che soltanto una forte dose di ipocrisia esime dal definire col nome veritiero di pena. L’imputato accetta prematuramente il ruolo di autore del reato e prende su di sé la colpa dell’illecito, a lato del processo, mentre ancora incombe l’accertamento penale a suo carico. L’intimidazione esercitata dal processo a suo carico, insomma, serve a piegare l’individuo a salutari regole di condotta, in definitiva a redimersi. Il sistema è approdato, per tale via, ad una concezione religiosa, penitenziale del processo, volta a suscitare rimorso e pentimento. Il cerchio così si chiude, con il definitivo congedo dalle premesse laiche del processo e della pena che dobbiamo alla dimenticata lezione illuminista. *Professore ordinario di procedura penale La pena senza processo di Eriberto Rosso* Il Riformista, 22 giugno 2024 Nei contesti politico sociali nei quali a prevalere sono la cultura liberale e la forza dei diritti, è continua la discussione sulla natura e qualità della pena, che nel nostro ordinamento - nella forma della reclusione - è chiamata a definire la fattispecie penale, al fine quantomeno di individuare forme alternative di espiazione, benefici, interventi per rendere concreto il divieto di trattenere le persone in condizioni inumane o degradanti, per dare alla sanzione il ruolo che la Costituzione le assegna. Nel nostro Paese la realtà è il sovraffollamento e un numero impressionante di suicidi in carcere. Accanto alla pena del carcere vi è un fenomeno ben più corrosivo dei principi dello stato liberale, che desta inquietudine già nella sua definizione: carcerazione preventiva. Più di un quarto delle sessantamila persone che oggi si trovano in carcere lo sono in regime di custodia cautelare, locuzione meno caustica, che però sempre indica la reclusione senza processo. Tanti poi vivono questa condizione rinchiusi nel loro domicilio o sottoposti comunque a misure limitative della libertà personale. Il carcere prima della condanna risulta incompatibile, sul piano logico, con il principio di presunzione di innocenza, il cui corollario è il divieto di esecuzione di una qualsiasi pena prima che sia emessa una sentenza di condanna e che questa sia divenuta definitiva. La carcerazione preventiva è una caratteristica dei sistemi processuali di tipo inquisitorio che, nella loro ispirazione autoritaria, rovesciano il principio, e dunque la limitazione della libertà personale nella fase istruttoria è la regola, al punto da definire l’inquisito libero “in libertà provvisoria”. Nel sistema accusatorio la provvisorietà dovrebbe caratterizzare la cautela, che dovrebbe essere condizione eccezionale a fronte di stringenti presupposti, all’incrinarsi dei quali la libertà personale dovrebbe essere immediatamente garantita. Purtroppo la nostra storia, anche recente, vede l’intervento della custodia cautelare nelle situazioni nelle quali il reato contestato definisca in sé una certa gravità; a volte alla custodia viene attribuita la funzione impropria di sollecitare una condotta collaborativa da parte dell’accusato, non tanto nella forma volgare del “se parli, esci” ma nella versione più raffinata secondo la quale la ammissione di responsabilità è elemento sufficiente a neutralizzare rischi di inquinamento probatorio e rasserena sul piano della prognosi di recidiva. Ancor più la custodia preventiva viene spesso piegata a strumento di contrasto alla criminalità e a una funzione di difesa sociale rispetto al crimine che, come tale, prescinde dall’effettivo giudizio del rischio di reiterazione dei reati da parte della persona sottoposta a procedimento. Ovviamente, la soluzione non può che essere quella di indagini rapide, prove che si formano nel processo, tempi ragionevoli, la concreta eccezionalità della misura cautelare, da assumere solo in presenza di straordinarie esigenze, altrimenti incontenibili. Ma il nostro sistema, oramai senz’anima, non è in grado di garantire questo meccanismo, con il risultato che tanta parte della popolazione detenuta in carcere lo è senza che sia stato celebrato un processo, anche solo di primo grado. E non è un caso che proprio tra i detenuti in misura cautelare, con il carico di incertezza sulla sua durata e la anticipazione del giudizio sociale di responsabilità che la caratterizza, si verifichi un drammatico numero di sucidi. Il nostro codice riserva un intero Libro, il Quarto, al sottosistema delle misure cautelari, individuandone diverse per natura e specie a seconda della gravità e intensità dei presupposti cautelari e prevedendo il carcere come extrema ratio. Da sempre però, in ogni Legislatura, il dibattito politico - istituzionale gioca sul piano delle misure cautelari una partita tra ispirazioni securitarie e garantismo. Proprio in queste ore è in corso il dibattito per la riforma che prevede di affidare la decisione della custodia in carcere a un collegio di giudici. Ma le scelte del Legislatore debbono poi trovare gambe nei casi concreti, nelle prassi e nelle decisioni dei giudici, e non tira buona aria, se si hanno presenti attualissimi casi giudiziari e l’esito del recente referendum, che chiedeva una limitazione delle misure cautelari: solo il 20% dei cittadini aventi diritto ha inteso votare e, nonostante l’area militante, il 40% ha detto no. *Avvocato penalista Ridurre la pena carceraria, per rendere giustizia alla pena di Giuseppe Losappio* Il Riformista, 22 giugno 2024 “Da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si domandano perché lo facciano”. La soluzione è meno sanzioni e più cultura, meno carcere e più alternative alla reclusione. Nonostante secoli e secoli di speculazione, il grande enigma di fondo della materia penale ancora non è stato dipanato. “Da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si domandano perché lo facciano”. La domanda di Eugene Wiesnet non ha ancora trovato una risposta risolutiva ed anche autori - come dire - (decisamente) meno agnostici (come Hassemer) parlano di un tema “ingombrante, luccicante, affascinante e minaccioso allo stesso tempo”; “una seduzione oscura”. Un aspetto fondamentale della fascinazione del diritto penale è il rapporto con il male, compreso quello intrinseco allo stesso sistema delle punizioni. Il “diritto penale non è solo uno strumento a vantaggio delle persone: esso può divenire anche un’arma che si ritorce contro le persone, e può infliggere ferite anche gravi”, come nel caso - il più eclatante - della reclusione. Da una lettura “attenta e profondamente disincantata sugli strumenti repressivi più radicali” (qual è appunto il carcere) - ha scritto assai bene Roberto Bartoli - emerge che una cifra della penalità è la “sua capacità escludente, la sua dinamica eliminatoria ed espulsiva che fa di chi subisce la pena una sorta di capro espiatorio. Anzi a ben vedere, la cifra più profonda della sanzione afflittiva è proprio questo tratto. Ogni volta che la penalità presenta una meccanica eliminatoria, se da un lato la violenza viene distolta dalla società, dall’altro lato tale violenza viene scaricata sul singolo che diviene una sorta di vittima sacrificale”. Per questo sarà sempre valido il monito di Claus Roxin: la “giustizia penale è un male necessario”; se “supera i limiti della necessità resta soltanto il male”. Solo l’assoluta necessità di punire può compensare la stridente contraddizione tra la certezza del male che implica la punizione e l’incertezza, anzi l’assenza di una chiara giustificazione del punire, al di là del postulato “punire è necessario”, che ancora non siamo in grado di superare. La speranza in un mondo non punitivo, cioè in un mondo, così generoso, che non commini sanzioni, rischia di essere affrettata, se non irresponsabile, cinica (Hassemer) e, in definitiva, controproducente. Dobbiamo essere realisti, ma non rinunciare alla speranza come insegna Noam Chomsky: “Se rinunciamo e ci rassegniamo alla passività, faremo in modo che accada il peggio; se invece conserviamo la speranza e ci diamo da fare perché le sue promesse divengano realtà, allora le cose potranno migliorare”. Per questo “il superamento del diritto penale e l’attenuazione del suo carattere afflittivo costituiscono comunque obiettivi meritevoli di essere perseguiti” (così il principio n. 6 del Manifesto del diritto penale liberale). Spes contra spem, quindi, non dobbiamo rinunciare a ribadire tre obiettivi fondamentali della politica-punitiva: meno sanzioni, più cultura/educazione; meno carcere/più alternative (tutte le alternative possibili) alla reclusione; un carcere più umano, qui ed ora, perché la tragedia dei suicidi tra i detenuti - 44 ad oggi dall’inizio dell’anno, un numero enorme, scandaloso! - e (in misura minore, ma non per questo non rilevante) tra le fila della polizia penitenziaria è un’assoluta emergenza del nostro paese. *Professore ordinario di diritto penale Rieducazione? Una vetrina delle buone intenzioni di Stefano Anastasia* Il Riformista, 22 giugno 2024 Che senso ha la pena oggi? Che senso ha una pena che si riproduce apparentemente senza scopo, come esito finale di una macchina che si muove per inerzia e che inerzialmente assorbe e sputa corpi e vite che le sono capitate negli ingranaggi? La Costituzione pone un limite e fissa uno scopo. Il limite, condiviso da ogni ordinamento giuridico degno di questo nome, tanto da essere universalmente riconosciuto nella Dichiarazione dei diritti umani nelle Nazioni unite, è quello del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (difficile capire come esso sia compatibile con la previsione normativa della pena di morte, ancora diffusa fuori dall’Europa, ma tant’è…). Lo scopo è quello della “rieducazione”, e dunque - fuori da antiquate concezioni moralistiche o autoritarie - quantomeno della prospettiva del reinserimento sociale del condannato in condizioni di autonomia e legalità. È questo, tutt’ora, l’approdo normativamente più avanzato delle concezioni utilitaristiche della pena, di una pena utile allo stesso tempo per la società e per il condannato, ispirate al principio della prevenzione speciale positiva. Peccato però che la finalità rieducativa della pena nel nostro ordinamento resti più una linea di resistenza che una prospettiva perseguita dal sistema penitenziario nei confronti della generalità dei detenuti. Si fa ricorso alla rieducazione più negli argomenti per evitare trattamenti contrari al senso di umanità (come nel caso della contestazione dell’ergastolo ostativo) che nelle pratiche quotidiane e nell’organizzazione del sistema penitenziario. Il risultato è che gran parte dei condannati che passano per le nostre carceri non hanno alcuna “offerta rieducativa”: talvolta perché condannati a pene troppo brevi per avere una risposta dal sistema, talaltra perché manca il personale educativo in grado di programmare l’offerta di qualcosa o perché il territorio non offre alcuna collaborazione al mondo chiuso del carcere. Quella esigua minoranza di condannati che riescono a seguire in carcere un percorso come quello delineato da leggi e costituzione è composta da coloro a cui le stelle si sono allineate nel cielo, certo, anche per merito loro, di una loro intelligenza, resilienza e disponibilità, ma poi perché erano in quel carcere e non in quell’altro, perché hanno avuto quel direttore e non quell’altro, quell’educatore e non quell’altro, quel magistrato e non quell’altro, quell’avvocato e non quell’altro, perché avevano una casa, una famiglia, una comunità disposta ad ospitarli. Troppe variabili per escludere che la rieducazione non sia una cabala, con tutta l’aleatorietà della cabala. La verità è che lo scopo della pena come rieducazione finalizzata al reinserimento sociale del reo in condizioni di autonomia e legalità è legato indissolubilmente all’ideale universalista e solidarista dell’articolo 3 della nostra Costituzione e, in generale, del costituzionalismo democratico: se e quando vengono meno quei presupposti, se i servizi educativi, per l’impiego, socio-sanitari vengono progressivamente meno per la generalità della popolazione, come si può pensare che sopravvivano solo per chi ha commesso dei reati? La rieducazione resta così una vetrina delle buone intenzioni cui accedono i fortunati cui si sono allineate le stelle nel cielo. Non è un caso, appunto, che la rieducazione venga sempre più spesso evocata per confinare pratiche degradanti e non si riconosca come tale la giurisprudenza umanitaria che si è andata affermando negli ultimi decenni, in Italia e altrove, da quando - appunto - la labilità dell’ideale rieducativo ha lasciato spazio a una pena senza scopo, rispondente solo alla funzione di esclusione simbolica e di incapacitazione dei nemici del popolo o dei fantasmi dell’insicurezza sociale: i tossicodipendenti, i migranti, i senza fissa dimora, ora o tra poco i malati di mente che i servizi di salute mentale non riescono più a gestire, ma anche i mafiosi, i corrotti, i potenti finalmente caduti. Questo è il coté entro cui matura il sovraffollamento strutturale e la disperazione che porta al suicidio decine di detenuti e non pochi agenti di polizia penitenziaria stremati dalla fatica o disorientati dalla perdita di senso della loro professione. Molto si chiede e molto si spera, oggi, nella giustizia riparativa, come alternativa a una giustizia tradizionale scissa tra presupposti di legittimazione e realtà concreta, tra scopo teorico e funzione effettiva del suo esercizio. Certamente molto può dare l’idea riparativa a una pena non più o non solo degradante, ma è improbabile che essa possa affermarsi come ancella della giustizia tradizionale, con il rischio di trasformare la ricerca dell’incontro in una pena accessoria. La verità è che un’altra idea di giustizia, come un’altra idea di pena, hanno a che fare con un’altra idea di società: il sistema penale e quello penitenziario non si salvano da soli, per invenzione illuminata della dottrina, dei giuristi o del legislatore, ma se nella società matura un’altra idea di convivenza, di garanzia dei diritti e, quindi, di composizione dei conflitti, perché, come scrive Luigi Ferrajoli nel suo ultimo libro (Giustizia e politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Laterza 2024), “il diritto penale è l’ultima e la più infelice delle tecniche di garanzia che i sistemi politici hanno il compito di assicurare ai diritti e alla sicurezza pubblica. Ben prima che con politiche penali, la criminalità si previene con politiche economiche e sociali e con adeguate riforme istituzionali. Ben più che con le pene, i diritti fondamentali, compresa l’immunità da ingiuste offese e da ingiuste punizioni, si garantiscono con potenti sistemi di garanzie sociali”. Quel che oggi ci manca e che anima gli abusi populisti del diritto e della giustizia penale. *Professore di Filosofia del diritto, Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Nordio ci prova: “Decreto-carceri in arrivo”. Ma Lega e Fratelli d’Italia lo bloccano di Claudia Fusani Quotidiano del Sud, 22 giugno 2024 Sembra che per il governo 46 suicidi in cella e altri 56 morti in carcere per cause “altre” non siano un’emergenza: il pacchetto carceri, annunciato dal ministro Nordio, è stato rinviato a luglio. Le emergenze invece sono i “pro vita” nei consultori per mortificare chi ha già deciso di abortire, sono i cambi di destinazione d’uso per gli immobili che il Piano salva-casa di Salvini ha liberalizzato (per cui vedremo garage diventare B&B in base al silenzio assenso). E lo sono, un’emergenza, tutte le materie tra le più svariate normate a suon di decreti - ben 66 - in 18 mesi di governo. Ma non sono un’emergenza quelle 46 persone che affidate al carcere per espiare una pena - spesso solo in carcerazione preventiva - hanno costruito in qualche modo un cappio per metterselo al collo e suicidarsi. Il pacchetto carceri era atteso in Consiglio dei ministri. Lo stesso ministro Nordio ne aveva parlato ieri mattina, intervistato sul Sole 24 Ore. “Il decreto legge che andrà oggi in Cdm prevede risorse aggiuntive, incrementa la dotazione organica del personale penitenziario, accelera la costruzione di nuovi padiglioni, ma soprattutto semplifica la procedura della liberazione anticipata e aumenterà la possibilità di colloqui telefonici”. La parola magica, in questa dichiarazione, sebbene mescolata ad altre per ovvi motivi, era “liberazione anticipata”. Ovvero la scarcerazione immediata per qualche migliaio di detenuti (circa tra i 4.000 e i 7000) che per residuo di pena (sei mesi) e tipologia di reato (quelli meno gravi, non ostativi) avrebbero lasciato subito le rispettive celle per terminare la pena ai domiciliari o affidati ad alcune cooperative. Da mesi, sotto banco, con qualche imbarazzo politico, visti i compagni di strada nella maggioranza, si parla di pacchetto di misure “svuota carceri”. Il bollettino dei suicidi aveva costretto gli uffici di via Arenula a fare gli straordinari per garantire una boccata d’aria ai 189 istituti di pena italiani che ospitano 60mila reclusi, diecimila in più del tollerabile. Le parole del ministro, ieri mattina, avevano illuso molti. Fino all’ora di pranzo, quando, terminato il preconsiglio e diffuso l’ordine del giorno, di giustizia e carceri e sovraffollamento si sono perse le tracce. Ci sono invece provvedimenti urgenti su “materie prime critiche”, economia dello spazio, un po’ di riforma tributaria, l’albo nazionale delle botteghe storiche. Sacrosanto. Ma lo sono certamente di più 44 suicidi. Nulla, invece. “Ci vorrà ancora qualche settimana, se ne riparla a luglio…” liquidano la faccenda a palazzo Chigi. Qualche imbarazzo in più in via Arenula, dove hanno ben chiaro che rinviare gli interventi vuol dire mettere in conto altri morti, altri suicidi. Che non sono effetti collaterali. Lo stop è arrivato ieri mattina in preconsiglio. Ed è inutile qui ricordare che Lega e Fratelli d’Italia, piuttosto che vedere oggi un titolo sui giornali che possa in qualche modo evocare un indulto o il concetto di svuota-carcere, farebbero carte false. I sottosegretari Ostellari (Lega) e Del Mastro (FdI) le hanno fatte. “Migliorare il sistema dell’esecuzione penale è una delle nostre priorità e per questo, in accordo con il ministro Nordio - ha detto Ostellari - abbiamo scelto di arricchire il testo del decreto legge sulle carceri, inserendo anche disposizioni specifiche in materia di strutture residenziali per il reinserimento dei detenuti e quindi di rimandarne la presentazione in Cdm”. Il rinvio provocato quindi da un “arricchimento”, le Comunità per lavoranti dove potranno essere assegnati i detenuti con fine pena inferiore ai due anni e in mancanza di condizioni ostative. In queste strutture, sicure e protette, potranno lavorare e fare corsi di formazione. Una sorta di carcere light. Il progetto è certamente illuminato. Ma l’emergenza è adesso, in estate, con quaranta gradi e un sovraffollamento che ha raggiunto l’indice del 119% con regioni, per esempio la Puglia, che toccano il 152%. È lecito dubitare che le suddette Comunità possano essere operative nel giro di poche settimane. L’unica via d’uscita oggi è la cosiddetta “corsia veloce”, liberare cioè chi ha un residuo pena di sei mesi, tra i 4 e i 7mila detenuti. La pressione sarebbe subito alleggerita. Ma equivale a un piccolo indulto, uno sconto di pena: un concetto inaccettabile per la Lega e Fratelli d’Italia. Nulla da fare, quindi. Proprio ieri mattina, nell’intervista poi smentita dai fatti, il ministro Nordio aveva parlato di risorse aggiuntive, di aumento della dotazione organica del personale penitenziario, della costruzione di nuovi padiglioni (se ne parla invano da almeno quindici anni), di aumentare la possibilità di colloqui telefonici con i famigliari (anche questi tagliati per mancanza di uomini e risorse). Nordio è al lavoro anche per abbassare il numero dei detenuti in attesa di giudizio di primo grado: si tratta di diecimila persone, molte delle quali saranno assolte e la cui detenzione si rivelerà ingiustificata (un altro costo per lo Stato). Il progetto è di attribuire la competenza sulla custodia cautelare ad un collegio che dovrà interrogare prima l’indagato. Nordio è sicuro che in questo modo il numero delle custodie cautelari diminuirà, e non di poco. Il ministro è al lavoro anche per far scontare nei Paesi di origine le pene definitive dei detenuti stranieri. Un’altra strada giusta, ma lunga e tortuosa perché Marocco (3.600 detenuti nelle carceri italiane), Tunisia (1.818 detenuti) e a seguire Nigeria ed Egitto, non hanno alcune intenzione di farsi carico dei loro detenuti. Ciascuno di loro ha un costo vivo. In Italia almeno 150 euro al giorno. “I bisogni del carcere sono una mia priorità” conclude il ministro nell’intervista. Non è così per il resto della squadra di governo. Il Parlamento ha provato ad agire per conto proprio, ma il ddl Giachetti è fermo da mesi nelle pastoie delle varie commissioni. Intanto il contatore delle morti si aggiorna. Carceri, un morto ogni giorno e mezzo. I numeri della tragedia di Thomas Usan La Stampa, 22 giugno 2024 Quest’anno nelle carceri italiane ci sono stati 102 decessi, di cui 46 suicidi. Più di 100 decessi in 170 giorni. Per essere precisi 102. Nelle carceri italiane, nel 2024, muore una persona quasi ogni giorno e mezzo. Per entrare nei dettagli, 46 sono i suicidi (conteggiando anche il caso del giovane nel Cpr di Roma), a cui sono si aggiungono 56 morti per altre cause. L’ultimo caso risale allo scorso giovedì (20 giugno), quando nella casa circondariale di Novara un 20enne si è tolto la vita. “Mai abbiamo raggiunto un numero così elevato - commenta Aldo Di Giacomo, segretario nazionale di S.PP (Sindacato di Polizia penitenziaria). Siamo a giugno e il rischio, purtroppo sempre più concreto, è quello di superare l’anno più nero, il 2022, con un totale di 84 suicidi più 87 morti per altre cause”. Continua: “Per noi l’applicazione di pene alternative alla carcerazione, tra le quali gli arresti domiciliari, è sicuramente un importante deterrente alla questione, oltre che un modo concreto ed efficace per avviare a soluzione il problema del sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari”. I numeri delle carceri nel 2024 - Al 31 marzo 2024 nelle carceri italiane erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Le donne sono 2.619, il 4,3% dei presenti, e gli stranieri 19.108, il 31,3%. Il sovraffollamento, quindi, è ancora una problematica centrale. Ma la situazione è in peggioramento secondo i dati Antigone. Dalla fine del 2019 al termine del 2020, a causa delle misure adottate durante la pandemia, le presenze in carcere erano calate di 7.405 unità. Ma sono subito tornate a crescere. Prima lentamente, con un aumento delle presenze di 770 unità nel 2021, a cui però è seguita una crescita di 2.062 nel 2022 e addirittura di 3.970 nel 2023. Nell’ultimo anno l’aumento delle presenze è stato in media di 331 unità al mese. E quindi il sovraffollamento a livello nazionale cresce, attestandosi al 119,3%. “Un tasso di crescita allarmante, che se dovesse venire confermato anche nel 2024 ci porterebbe oltre le 65 mila presenze entro la fine dell’anno” denuncia nel proprio report annuale Antigone. Ma anche i servizi nei penitenziari preoccupano. In sei istituti visitati dall’associazione, in 99 non c’erano spazi esclusivamente dedicati alla scuola e in ben 30 non c’erano luoghi per le lavorazioni. Quasi in tutte le carceri era presente una biblioteca, ma solo in 54 era utilizzabile anche come sala di lettura. In 29 istituti mancava un’area verde per colloqui nei mesi estivi. Gonnella: “Ritirare il ddl sicurezza” - E a lanciare l’allarme dei morti in carcere si aggiunge anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Se il numero continuasse a crescere a questo ritmo porterebbe il 2024 a superare il tragico dato del 2022 quando i suicidi in prigione furono 85. Questa è un’emergenza nazionale. Se in una città di 60 mila abitanti si suicidassero 44 persone in pochi mesi non parleremmo di altro”. E si appella direttamente all’esecutivo Meloni: “Per questo (motivo ndr) il governo e il parlamento se ne devono occupare in via prioritaria, anche a fronte di una situazione di sovraffollamento sempre più grave, con oltre 14 mila persone detenute senza un posto regolamentare, condizioni di vita sempre più difficili per i reclusi e di lavoro faticosissime per gli operatori penitenziari”. Ma le richieste sono anche altre: “Serve intervenire con provvedimenti che portino a una riduzione del peso sulle carceri attraverso la concessione di misure alternative; serve liberalizzare le telefonate dotando le celle di telefoni laddove non sussistano problemi di sicurezza rispetto ai contatti con l’esterno; serve assumere personale; serve ridurre il peso dell’isolamento; serve che si modernizzi la pena; serve che la vita in istituto sia piena di iniziative, senza ostacoli o burocrazie; serve che non vi sia mai violenza”. E, inoltre, Gonnella si riferisce a un particolare provvedimento: “Invitiamo dunque il governo a ritirare il ddl sicurezza che va verso una strada che è l’opposto di quanto servirebbe e, soprattutto, con l’introduzione del reato di rivolta penitenziaria, nella quale si punisce con una pena fino a 8 anni anche la resistenza passiva e la protesta non violenta, lascerà alle persone detenute come unico strumento per far emergere le difficoltà e le problematiche il proprio corpo, con un prevedibile aumento di atti di autolesionismo e suicidi”. Di fronte all’inferno lo Stato che fa? “S’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…” di Emilia Rossi Il Dubbio, 22 giugno 2024 Il 15 gennaio di quest’anno, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, il Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà ha avvertito la responsabilità, propria della sua funzione di organismo di prevenzione, di segnalare la situazione drammatica delle carceri italiane che si stava profilando (sovraffollamento al 127,54% con crescita costante di 400 presenze al mese, 4 suicidi nei primi 9 giorni dell’anno) e che confermava i segnali di allarme già rilevati nel corso del 2023, presentati al Parlamento con la relazione annuale. Lo ha fatto con un comunicato diretto a tutte le autorità responsabili, cioè quelle investite del potere- dovere di agire, nel quale raccomandava, innanzitutto, l’adozione di provvedimenti urgenti di deflazione della popolazione detenuta come la liberazione anticipata speciale e, poi, l’avvio rapido di previsioni normative che consentissero una modalità di esecuzione penale diversa dalla detenzione in carcere per persone condannate a pene brevi, inferiori ai due anni di reclusione. Richiamo, segnalazione e raccomandazioni caduti nel vuoto dell’indifferenza e dell’inazione di quelli cui erano diretti, governo e ministero della Giustizia in prima fila. I risultati di questa indifferenza non si sono fatti attendere e la situazione di oggi presenta il quadro drammatico di quella facile profezia di Cassandra di inizio d’anno: 61.547 persone in carcere, 14.480 in più rispetto ai 47.067 posti concretamente disponibili, sovraffollamento cresciuto al 130,59% con l’aumento di 1.219 presenze dal mese di gennaio. E ancora: 45 morti per suicidio dall’inizio dell’anno a oggi, 5 nei quattro giorni tra l’11 e il 15 giugno, di cui due in quest’ultima sola giornata. Un numero impressionante per se stesso ma allarmante se confrontato non solo con quello dei 30 suicidi dello scorso anno alla stessa data, ma soprattutto con quello del 2022, l’annus horribilis che si concluse con 85 suicidi: erano 30, al 15 giugno, anche quell’anno. Davanti a questo disastro, umano, civile, sociale, politico, lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran (insomma) dignità, per dirla con le parole di Faber. Sì, perché i progetti edilizi del ministro Nordio, tra costruzione di nuove carceri e recupero di vecchie caserme, con buona pace della mancanza del personale che vi dovrebbe operare, e i più recenti annunci del sottosegretario Ostellari di misure dichiaratamente dirette a deflazionare più il carico di lavoro dei magistrati di sorveglianza che il sovraffollamento delle carceri, non hanno chiaramente a che fare con le possibili soluzioni del problema, anche per il tempo di realizzazione che richiedono. L’emergenza non scende mai a patti con il tempo e quella delle carceri italiane è un’emergenza che richiede misure urgenti e immediate: la liberazione anticipata speciale della proposta di legge Giachetti dovrebbe essere solo il primo passo, un atto urgente, appunto. Perché il passo successivo, che richiede più tempo di quello oggi permesso, deve essere l’adozione di un provvedimento di amnistia e di indulto che sollevi le nostre prigioni dalla presenza inutile di persone condannate a pene così brevi da non riuscire nemmeno ad avviare un percorso di riabilitazione o che sono arrivate alla fine della loro pena: 1.526 persone condannate a meno di un anno di reclusione, più di 16.000 quelle che devono scontare una pena non superiore ai due anni. Insomma, esattamente le misure che governo, ministero della Giustizia e maggioranza parlamentare non vogliono adottare: no sconti di pena, hanno in più occasioni dichiarato. Ci penserà l’Europa. È già successo, succederà ancora. Anzi, sta già succedendo: il richiamo espresso il 14 giugno dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con riguardo specifico al numero dei suicidi nelle carceri italiane, suona come preludio delle possibili iniziative degli organi sovranazionali e delle conseguenti sanzioni. Sanzioni che graverebbero sulle casse dello Stato, cioè sulle tasche dei cittadini. E allora chissà che più della sensibilità politica e sociale e dell’immagine indecorosa con cui il nostro Paese si presenta con le sue carceri sullo scenario europeo, possa il denaro. Il problema è che tutto questo richiederà del tempo e se le cose andranno avanti come stanno andando sarà un tempo in cui si continuerà la tragica conta dei morti in carcere: una conta durante la quale non vorrei essere nelle coscienze di quanti oggi hanno il potere- dovere di agire o quello di vigilare e prevenire e non lo esercitano. “Il caldo, il puzzo di orina e la voglia di farla finita”. Lettera dall’inferno a cura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2024 La lettera dei detenuti del carcere di Brescia-Canton Mombello restituisce in tutta la sua drammaticità le condizioni ai limiti dell’umano in cui si vive nella maggior parte dei penitenziari italiani. I numeri sono spietati: a metà 2024 siamo già a 45 suicidi. Un macabro record assoluto, se confrontato con lo stesso periodo degli anni precedenti. Il sovraffollamento comincia ad avvicinarsi ai livelli della sentenza Torreggiani della Cedu. In Italia, secondo il Dap, al 31 maggio ci sono 61.547 reclusi, 1.381 in più rispetto a inizio anno (+ 2,3%). Lunedì prossimo a Montecitorio è calendarizzata la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale di Roberto Giachetti (Italia Viva) e Nessuno Tocchi Caino. Una soluzione che può ridurre il sovraffollamento, allentare la tensione, dare respiro agli stessi agenti, ormai allo stremo. Proprio da lunedì Rita Bernardini ha annunciato lo sciopero totale della fame e della sete. Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso, anch’essi di sudore come i miei panni e le nostre membra. Si boccheggia, in cella, e l’acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata doccia, evaporando riempie d’umidità l’angusto luogo. L’aria satura d’umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli. Devo andare in bagno, ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni ha il mio stesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo in gomma piuma. In un attimo, lenzuola e materasso s’impregnano di liquame e urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato, impietrito, attonito. Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire. La sua colpa è quella d’aver commesso un grave reato: bancarotta fraudolenta. I suoi carnefici sono fuori, si sono approfittati di lui, di un vecchio che a stento sa leggere e scrivere. L’hanno circuito, e lui, e qui, in questo piccolo inferno, devastato nel corpo nella mente e nell’anima, ma in fondo questo non è un nostro problema. II nostro problema sono gli odori. Il problema è suo, infatti, uno della cella si sta alzando irritato, gridando qualcosa d’incomprensibile nella sua lingua. Probabilmente vuole mettergli le mani addosso, non lo fa per mera cattiveria, e lo stress, il caldo, gli odori insopportabili, il fatto che non parla la nostra stessa lingua e che non riesce a sentire la sua famiglia se non per dieci minuti a settimana. È stanco arrabbiato, sofferente, lo siamo tutti. Qualcuno si alza per ragionarci, per calmarlo, ma subito Faria s’infiamma, cominciano a volare parole grosse e i primi spintoni, per fortuna altri intervengono e si riesce a placare gli animi. Questa volta è andata bene, ma la situazione è sempre questa, e purtroppo, non tutte le volte termina cosi. 15 e un solo bagno, un vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri, per loro e la condizione migliore, una festa, per noi, forse un po’ meno. Questa combinazione è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di brutto può conseguirne. Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente, e d’inverno, e maledettamente fredda. A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti, e se è vero che quando tiri lo sciacquone, le feci nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni? In fondo pero, è notevolmente migliore della sbobba che ci servono dal carrello. In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno. Nei turni con noi, si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila. Ben pensandoci pero, più che mancanza d’intimità, non stiamo forse parlando di una vera e propria violenza? Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente, proprio in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Di persone non auto sufficienti in questo Istituto ce ne sono parecchie, si può spaziare dalle malattie psichiatriche più accentuate sino alla tossicodipendenza, e come visto sopra, a malattie senili. Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo, o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro. E cosi, come soffriamo noi allo stesso modo, soffrono gli operatori che ci devono assistere, dagli Agenti per la sicurezza al personale sanitario, e che dire di quelle migliaia che in carcere sono finite, ma nulla avevano fatto per meritarlo? Tutte persone incrinate, inevitabilmente, irreparabilmente, una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non. Elevati sono i suicidi in carcere, 45 in soli cinque mesi e mezzo dall’inizio dell’anno, un gesto troppo estremo? Forse, ma e quello che viviamo qui che porta queste persone a compiere certi gesti, e qui di persone ce ne sono sicuramente troppe. I gesti estremi accadono sempre vicino a noi, ti svegli una mattina e forse mestamente ti accorgi che nel bagno un tuo cancellino ha reso l’anima, oppure accade al vicino o al dirimpettaio. È aberrante. Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la disumanità, definite di tortura dall’Unione Europea, sopra, lo abbiamo ben spiegato. La domanda giusta da porsi è: come può funzionare il reinserimento? La così chiamata rieducazione? Come si possono svolgere i corsi organizzati? Non solo manca personale, sono concretamente assenti gli spazi. Sappiamo che alcuni di voi sono già venuti a vedere le nostre celle, ma viverci è molto diverso. Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né impietosire né mendicare, né invocare clemenza, ma solo riportare quanto è vero è ahinoi terribile. Sì certo, alcuni di noi meritano di stare in carcere, hanno commesso reati, e altresì verosimile che, questa mancanza pressoché totale, di umanità nei confronti dei carcerati non è forse pari a commettere dei reati? È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, giorno dopo giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento. La violenza fatta a quell’anziano prima citato, non è simile a compiere un reato, è uno dei tanti, è vero, ma quanti ce ne sono come lui, non sono dei veri e propri reati, trattare le persone in questo modo, e non è forse vero che le condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al suicidio? Pensiamo sia non edificante, ma umanamente avvilente per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è messo al collo ponendo fine alla propria esistenza. Tutti possono sbagliare, ma il carcere deve essere impostato per rieducare, non per toglierci di mezzo, non pensiamo che lo Stato attuale sia uno Stato non improntato al dialogo, anzi! Proprio per questo possono nascere dal dialogo vere e proprie soluzioni. Signorie Vostre, voi ci rappresentate, indifferentemente dall’appartenenza politica, voi ci rappresentate come persone, come abitanti di questo Bel Paese, l’Italia. Il problema carceri in Italia è grande, non è di sicuro il nostro fiore all’occhiello. In Europa ci rimproverano (2006- 2013) per il nostro sistema carcerario: perché quindi, non provare ad ascoltare chi in carcere ci vive per immaginare possibili soluzioni? Questo non vuol dire scendere a patti con nessuno, ma semplicemente sarebbe un atto di democrazia, un modo per riuscire a sistemare questo problema carceri, o perlomeno un punto da cui cominciare. Da questo punto potrebbero nascere idee, e qui a Canton Mombello, il problema del sovraffollamento è eclatante, quindi perché non cominciare da qui? Sarebbe bello che compiendo un atto di umanità il nostro Paese venisse visto in maniera diversa, in maniera positiva anche per il sistema carcerario, oltre a tutto quello che di bello in Italia già c’è. Leggendo i giornali abbiamo letto che alcuni, considererebbero la concessione dei giorni in più di liberazione anticipata come un fallimento dello Stato. Noi ci chiediamo: perché concedere dei giorni in più di liberazione anticipata a persone “meritevoli” sarebbe un fallimento? Abbiamo visto che non è facile essere meritevoli, sappiamo che solo chi ha fornito prova di partecipazione a un percorso rieducativo e riabilitativo può beneficiare di detti giorni, abbiamo osservato come non sia semplice rientrare nelle maglie di questa rete. Quindi, davvero sarebbe un fallimento? Personalmente crediamo che non si tratti per nulla di un fallimento, al contrario sarebbe la concreta dimostrazione che lo Stato c’è, e ha vera volontà di cambiare le cose, di migliorare la vita a tutti i suoi cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato, ma che comunque non sono esclusi. Ad oggi, causa il sovraffollamento, il carcere non mette in condizioni nessuno di essere rieducato, e fa vivere pesanti condizioni anche ai suoi operatori. Come può un sistema che mette in avaria il suo stesso personale, passando da quello sanitario, dell’area educativa sino agli Agenti che con un giuramento si prodigano tutti i giorni in questo lavoro, funzionare? Così come i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento, gli stessi operatori sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa. Tutti quanti sono messi a dura prova ogni giorno, e alla nostra sofferenza si somma la loro. Chi vuole, cerca e si prodiga per la rieducazione, conscio dei propri errori, si ritrova a lottare per frequentare corsi, che non possono esserci per tutti, poiché siamo davvero tanti. Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia, desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta di migliorarci come persone. E a cosa servirebbero i giorni aggiunti di liberazione anticipata, se non a migliorare questo sistema? Con la concessione di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma s’incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza ai meritevoli. I detenuti della Casa Circondariale “Nerio Fischione” Di Canton Mombello, Brescia Il carcere di domani, che vorremmo già oggi di Antonio Gelardi* vocididentro.it, 22 giugno 2024 Il dramma dei suicidi e la ennesima generale situazione di disagio che attraversa il mondo delle carceri richiede una riflessione sui possibili, necessari, interventi di contrasto rispetto alle criticità che attraversano la quotidianità penitenziaria, anche cercando di immaginare scenari del tutto diversi da quelli attuali. È in proposito di estremo interesse, quindi da riprendere, la riflessione espressa dall’ex Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il Presidente Carlo Renoldi a conclusione del suo mandato con una nota pubblicata nella rivista Sistema penale e che qui riporto: “Il carcere di domani, accanto all’area, numericamente minoritaria, delle persone di più elevato spessore criminale, rispetto a cui è irrinunciabile la presenza negli spazi detentivi del personale di polizia, non potrà che evolversi nella direzione, comune al resto d’Europa, di una polizia che “sta fuori dal carcere”, la quale, accanto al controllo dei soggetti in misura alternativa, dovrà svolgere compiti di tutela della sicurezza perimetrale, di controllo dell’ingresso di oggetti pericolosi e di intervento in caso di violenze all’interno degli spazi detentivi; spazi ove dovrà essere invece chiamato a operare personale non di polizia, altamente qualificato e addestrato non tanto, come oggi, sul piano delle competenze giuridiche, quanto della relazione con le persone. Perché il carcere è, soprattutto, il luogo della relazione umana”. Verrebbe da dire che la distanza dall’attuale realtà è tale da fare pensare ad un mero wishful thinking, e tuttavia, l’autorevolezza della fonte ed il richiamo a ciò che avviene nel “resto d’Europa” induce ad approfondire l’ipotesi, riprendendo fra l’altro i temi connessi della sorveglianza dinamica e del regime aperto a lungo esplorati nel periodo immediatamente successivo alla sentenza pilota della CEDU e solo parzialmente sperimentati. Altro documento da considerare in premessa è quello formulato di recente dalla conferenza territoriale dei garanti -organismo che sta assumendo una funzione molto dinamica- che con riferimento ai suicidi sottolinea che sono soprattutto le fasce più deboli ad essere sopraffatte e “schiacciate”; i suicidi e gli atti di autolesionismo in carcere coinvolgono persone vulnerabili, detenuti che hanno commesso reati di bassa o media gravità, alla prima esperienza di detenzione ovvero in procinto di essere dimessi, ma senza reti familiari o sociali che possano favorirne il reinserimento. Lo dicono i numeri, come sottolinea il documento: “il 64% delle persone che si sono tolte la vita negli ultimi due anni aveva commesso reati contro il patrimonio; il 60% dei suicidi si è verificato nei primi sei mesi di detenzione; il 40 % di suicidi si è consumato oltre i primi sei mesi, con una percentuale elevata nell’ultimo periodo di detenzione e l’interessamento di molti detenuti senza fissa dimora. Il circuito più interessato dai suicidi è, non a caso, quello di “media sicurezza”. Le persone con patologie psichiatriche che si sono tolte la vita sono meno del 10%”. Allora va detto che sembra sbagliato parlare di emergenza rispetto ad una situazione che va avanti da decenni, aggravandosi, e che la questione carceraria, trascurata in modo ahimè bipartisan, richiede lo sforzo di pensare in grande, cercando di immaginare un modello realmente diverso. --- Alcuni punti di riflessione sembrano allora essere i seguenti: La composizione del personale È certamente vero che vi sono grosse carenze numeriche che riguardano la polizia penitenziaria, dovute da un lato a vuoti nell’organico previsto, dall’altro a riduzioni nell’organico stesso. Va tuttavia considerato che il rapporto fra numero di detenuti e numero di unità di polizia penitenziaria è più favorevole in Italia (1,8) che rispetto alla media europea (2,6). Va detto che paragonare sistemi diversi è una operazione non semplice e da fare con estrema cautela, e tuttavia lo scarto viene colto in modo significativo quando si osserva un altro dato, la percentuale di poliziotti rispetto al resto del personale, è in Italia del 83,6%, nel resto d’Europa del 69,3 %. Per uscire dalla freddezza ed astrattezza dei dati percentuali basti comunque ricordare che, nelle carceri non operano psicologi di ruolo, che la presenza degli psichiatri varia da Asl ad Asl e comunque la presenza ed il numero degli accessi risente della generale crisi del sistema sanitario pubblico, che il numero degli educatori (funzionari giuridico pedagogici) è largamente sottodimensionato. Secondo i dati riportati dal Dap, il rapporto, a conclusione dell’immissione in servizio di 220 funzionari giuridico pedagogici sarebbe stato di un funzionario ogni 65 detenuti. Dato tuttavia stimato con la presenza di 55.682 detenuti rispetto ai 61,297 presenti al 30 aprile 2024, già di per sé largamente insufficiente, ma che lo diventa ancor di più se si richiede come indicato dalle direttive Dap, la presenza costante in tutti gli ambienti dell’istituto e lungo tutta la giornata. È quindi evidente che non vi sono forze sufficienti per compiere tutti gli interventi necessari e per arginare le situazioni di disagio, che spesso sono alla base degli atti di intemperanza e dei comportamenti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza negli istituti o che comunque richiedono l’intervento del personale dell’area sicurezza. Non si vuole qui dire che non va incrementato il numero di unità di polizia penitenziaria, ma piuttosto riflettere sul fatto che lo squilibrio prima indicato con i dati percentuali, che oggi penalizza fortemente il personale non di polizia, va ridotto e che nel bilanciamento di interessi che sta alla base dell’utilizzo delle risorse, occorre tener conto adeguatamente di questo. E si badi bene che queste considerazioni non vanno ad intaccare la funzione ed il valore dell’attività della polizia penitenziaria, che in mancanza di personale addetto al sostegno ed al trattamento, spesso finisce per svolgere, impropriamente una funzione di supplenza (nel mio piccolo da direttore usavo dire, datemi trenta agenti in meno, e dieci educatori in più, e garantirò sicurezza e trattamento meglio. Mi accontentarono a metà, levando trenta e via via più agenti fino ad arrivare ad una diminuzione di quasi cento unità). Meno celere e meno consistente fu l’assegnazione di educatori. I passi indietro nel regime Come già accennato in premessa e come già detto in altri interventi pubblicati su questa rivista, a seguito della condanna CEDU del 2013 venne avviato e portato a termine un intervento volto a realizzare in quasi tutti gli istituti un regime tendenzialmente aperto, fissando tempi e percentuali da raggiungere. Ciò consentì unitamente ad altre misure, di chiudere il contenzioso con la CEDU. Tale regime è stato sottoposto da parte degli attori più retrivi del mondo penitenziario a un tiro ad alzo zero durato anni, attribuendo ad esso ed alla sorveglianza dinamica la responsabilità di ogni evento critico ed al fatto che le persone detenute fossero libere di stare nei corridoi delle sezioni, poco importa se gli eventi critici si verificavano in realtà fuori dalle sezioni, ad esempio nei cortili passeggio, in infermeria o altrove. Venuta meno la spinta legata alla sentenza pilota della CEDU la sperimentazione ha subito un freno e si è arrivati infine, verosimilmente anche in conseguenza di quelle critiche indistinte, alla circolare del 2022 che in sostanza ha contribuito a portare ad una sensibile riduzione del numero delle persone ammesse al regime più avanzato, ossia più aperto. Si badi che la premessa da cui partiva la circolare era sostanzialmente corretta, perché un regime aperto deve consistere nella permanenza fuori dalle camere e dalle sezioni per lo svolgimento di attività e non lo stazionamento nei corridoi. Tuttavia ciò richiede un ventaglio di attività molto ampio, una diversa architettura delle carceri, e, non da ultimo, una funzione di progettazione, programmazione e di stimolo da parte degli operatori, che devono essere, anche per questo, presenti in numero adeguato. ---- Secondo l’analisi puntale e dettagliata del 18 luglio 2022 del Garante nazionale pro tempore Professor Palma, il numero di persone presenti nelle sezioni “aperte” è passato dalle 32.643 nel 2019 a 12.757 nel 2023 (con una diminuzione di circa il 42%). Nello stesso periodo, hanno di converso avuto, un considerevole aumento le persone detenute assegnate nelle sezioni cosiddette a custodia chiusa che sono passate dalle 17.715 del 2019 alle 23.387 del 2023. Vi è stato quindi, ancora secondo il documento dei garanti territoriali, il ritorno sostanzialmente al regime della custodia chiusa per la maggior parte dei detenuti che si trova a trascorrere la maggior parte del tempo in celle chiuse. E ciò contribuisce ad acuire il clima di tensione all’interno degli spazi detentivi, sempre più affollati. Situazione ulteriormente aggravata dal fatto che l’allocazione presso una sezione a trattamento intensificato, più rispettosa del modello costituzionale di esecuzione della pena (art. 27 Cost) e delle raccomandazioni contenute nelle regole penitenziarie europee, e che, quindi, “dovrebbe essere la regola”, sembra invece oggi assumere un carattere premiale ed eccezionale. In conclusione, il regime aperto diversamente da ciò che riguarda la composizione del personale, non richiede una rivoluzione di sistema; basterebbe riprendere l’azione svolta negli anni 2013-2014 e seguenti compiendo ragionevolmente un esame critico, ma senza pregiudizio, dell’esperienza del regime aperto e delle più generali aperture che caratterizzarono la vita detentiva; tenendo comunque conto della struttura degli istituti, della tipologia delle persone detenute, prevedendo la permanenza di sezioni chiuse per persone non idonee o che non gradiscano un regime aperto, agendo col sistema del try and see ispirato ad un principio di cautela e di progressività, ma tenendo presente l’obiettivo finale di fare del sistema aperto la regola tendenziale e non un sistema applicato in misura minoritaria, come appare oggi, stante l’analisi del garante nazionale. In questo quadro le “celle” comunque aperte, sistema certo non nuovo, dovrebbe costituire una modalità della vita detentiva non ideale, ma migliore comunque della permanenza in cella per buona parte della giornata. Gli interventi sul regime, o la prefigurazione di questi, sono comunque necessari perché una minore necessità di presenza e di intervento della polizia penitenziaria è ipotizzabile solo realizzando delle aperture ed un sistema dinamico. Per semplificare, un carcere pieno di cancelli non necessari, un sistema di accompagnamenti generalizzato, una sorveglianza a uomo anziché a zona, sarà e resterà un carcere nel quale il personale di polizia sarà sempre insufficiente ed adibito a compiti prevalentemente routinari e sarà difficile sfruttare gli spazi per le attività ove vi siano. È da vedersi se, la crisi di sistema che attraversa il mondo del carcere sarà affrontata avendo presenti le regole europee (sorveglianza dinamica) ed i sistemi europei (composizione del personale di cui si è detto), o con ritorni al passato. *Già dirigente penitenziario Lo psichiatra: “In queste carceri il rischio suicidio è 20 volte più alto che fuori” di Ilaria Dioguardi vita.it, 22 giugno 2024 Dopo i quattro suicidi dello scorso weekend nelle carceri italiane, ieri a Novara si è tolto la vita un ventenne. Giuseppe Nese, vice presidente dell’Osservatorio permanente regionale per la sanità penitenziaria della Campania, spiega che da sette anni ci sono “Piani nazionali per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti e per minori”. Ma a volte vengono dimenticati. Media italiana più alta di quella europea. “Da 30 anni in Italia l’essere presente in carcere piuttosto che essere libero determina un aumento del rischio suicidario che varia da 15 a 20 volte, è un dato costante”, dice Giuseppe Nese, psichiatra, vice presidente dell’Osservatorio permanente regionale per la sanità penitenziaria della Campania. Lo scorso weekend ci sono stati quattro suicidi in 24 ore nelle carceri, in totale sono già 46 i detenuti che nel 2024 hanno deciso di togliersi la vita. Ieri, a Novara, si è tolto la vita Alì che non aveva neppure 20 anni e che ad agosto avrebbe finito di scontare la pena. Nese, cosa vuole dirci dell’emergenza suicidi nelle carceri? La questione dei suicidi non è trattabile separando Servizio sanitario e amministrazione penitenziaria, né in modo prevalente dal punto di vista sanitario. Non dobbiamo commettere l’errore di considerare il suicidio come il sintomo di una malattia. Il sovraffollamento in carcere può causare delle situazioni esplosive e di sofferenza tali da contribuire all’aumento dei suicidi? Non c’è dubbio che una persona che arriva a fare una scelta quale quella di togliersi la vita vive una condizione di disagio talmente grave da ritenerla incompatibile con la vita stessa: su questo non c’è discussione. Il punto è quali sono le condizioni che, in ambito penitenziario, possono più frequentemente portare le persone a queste scelte. I dati negli ultimi 30 anni relativi ai suicidi in carcere non sono mai cambiati significativamente: è un fenomeno in Italia costantemente grave. Il punto non è in percentuale quante persone si suicidano, ma è capire qual è il rapporto tra quanti si suicidano in carcere e quanti fuori. Consideriamo la media dei suicidi. Se si mette in relazione l’ultimo dato disponibile relativo alla popolazione detenuta (tasso di suicidi pari a 12 ogni 10mila persone nel 2023) con quello della popolazione libera (tasso di suicidi pari a 0,67 ogni 10mila persone nel 2019, dati Organizzazione Mondiale della Sanità, Oms) presentati nel “Dossier sui suicidi in carcere nel 2023 e nei primi mesi del 2024” del Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, vediamo la grande differenza tra i due fenomeni: in carcere ci si leva la vita 18 volte in più rispetto alla società esterna. Questo è il dato clamoroso italiano. Bisogna considerare quante persone si suicidano in carcere e quante fuori. Da 30 anni in Italia l’essere presente in carcere piuttosto che essere libero determina un aumento del rischio suicidario che varia da 15 a 20 volte, è un dato costante. Negli altri Paesi europei questa crescita del rischio di suicidio, quando si passa dalla libertà al carcere, non è di questa dimensione. (Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca al di sopra della media europea per quanto riguarda i suicidi in carcere. Nel 2021 in Italia il tasso di suicidi in carcere era pari a 10,6 casi ogni 10mila persone detenute, mentre la media europea si attestava a 9,4, ndr). Cosa vuole dirci per quanto riguarda il problema del sovraffollamento? Sovraffollamento non è uguale a più suicidi. Il sovraffollamento è indiscutibilmente una questione di grave criticità che richiede interventi urgenti, ma è indipendente dalla questione dei suicidi. Quando si vanno a confrontare le condizioni di sovraffollamento e i tassi di suicidio, si vede che alla riduzione del sovraffollamento non c’è una riduzione significativa dei tassi di suicidio. Un dato emblematico è quello dell’indulto del 2006 che, pur avendo ridotto in modo rilevante la popolazione detenuta, non ha determinato nessun sostanziale cambiamento del tasso dei suicidi. È il contesto penitenziario che aggrega condizioni che determinano un aumento rilevante del rischio di suicidio. Se uno pensasse di intervenire con un indulto, avremmo la dimostrazione che non ci sarebbe una soluzione per questo problema. Sembra quasi che, a fronte della criticità dei suicidi in carcere, non si sia fatto niente. Invece… Invece? Dal 2017 sono stati approvati dalla Conferenza Unificata e vigono un “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti” (adottato il 27 luglio 2017, ndr) e un “Piano nazionale per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario nei servizi residenziali minorili del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità” (adottato il 26 ottobre 2017, ndr). A volte sfugge che esistono questi Piani nazionali, ci si dimentica, in Italia, che è già scritto da sette anni cosa fare. Questo è grave, porta erroneamente a pensare che nessuno se ne sia mai occupato e che bisognerebbe scrivere nero su bianco. È tutto già scritto. Sulla questione dell’erronea riconduzione alle problematiche psichiatriche, nelle premesse di quel Piano ci sono scritte alcune cose importanti. Ad esempio? Che il fenomeno suicidario in carcere è da ricondurre alle ordinarie condizioni di vita e non a problematiche sanitarie. Ribadendo, però, che il servizio sanitario non può escludersi dagli interventi che devono essere fatti. Inoltre, che le attività devono essere sempre svolte congiuntamente dal servizio sanitario e dall’amministrazione penitenziaria. Per me due cose sono molto allarmanti: che ci si dimentica che è già scritto cosa bisogna fare e che, a volte, si ripropongono dei percorsi tecnicamente e scientificamente erronei, inappropriati ed inefficaci, che non determinerebbero nessun buon risultato. A cosa si riferisce, quando parla di “percorsi tecnicamente e scientificamente erronei, inappropriati ed inefficaci”? A percorsi non coerenti con le azioni dettagliate nel Piano nazionale. Ad esempio, il ricorso alla psichiatria o ad attività prevalentemente sanitarie o anche non svolte congiuntamente dalle amministrazioni (penitenziarie e sanitarie). O anche, in termini più generali, non idonee a intervenire organicamente per potenziare i fattori di protezione e ridurre quelli di rischio. Il ministro Nordio ha stanziato cinque milioni di euro in più per le ore di sostegno psicologico nelle carceri. Può essere un aiuto importante? Sicuramente l’intervento psicologico in carcere è appropriato: stiamo parlando di una situazione di disagio e lo psicologo ha le competenze e le operatività proprie. Nel “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti” è evidente che c’è la necessità di prestare una sistematica e costante attenzione alle persone che sono rilevate a rischio suicidario. Ogni persona che entra in carcere è interessata da uno specifico screening per rilevare i fattori di rischio e di prevenzione. Quando si va a ragionare in termini di fattori di rischio per quanto riguarda il suicidio, e si considera che le persone hanno a che fare con questioni sanitarie solo limitatamente, e prevalentemente con questioni personali, penitenziarie e giudiziarie, si capisce bene che non è solo lo psicologo che deve intervenire. Chi deve intervenire? Si tratta di offrire al detenuto un percorso di trattamento penitenziario adeguato ai suoi bisogni, bisogna potenziare gli operatori dell’area educativo-trattamentale e, ancora, inserire nel contesto di quel Piano la Polizia penitenziaria. Anche in questa prospettiva le carenze di agenti incidono, non determinando la possibilità di avere un’attenzione costante alle vicende molto particolari e specifiche che interessano la vita del detenuto nell’istituto penitenziario. Andrebbe inserito tutto in un contesto molto complesso ma, ripeto, chiaramente definito. Potenziare l’assistenza psicologica, insieme al potenziamento dell’attenzione della Polizia penitenziaria e alla capacità degli istituti di fare attività educativo-trattamentale, che afferiscono a professionalità diverse, ha senso nella misura in cui è inserito nel contesto di quel Piano. Altrimenti non ha molto senso: significa ridurre un fenomeno come la scelta suicidaria di una persona ad una problematica, slegandola da un contesto di vita in carcere che è ciò che determina i problemi. Quanto è rischioso prestare troppa attenzione alla psichiatrizzazione sistematica del disagio in carcere? Le rispondo con un esempio. Recentemente ho dovuto gestire una richiesta di trasferimento di un detenuto in una struttura penitenziaria psichiatrica per accertare una condizione di disabilità psichica. Questa persona è stata registrata come extracomunitaria, senza fissa dimora e con un bisogno di accertamento psichiatrico. Questa persona era nata in un altro Paese, residente in Italia, aveva una famiglia in Italia, non aveva una patologia psichiatrica accertata ma era seguita per una depressione reattiva per una insoddisfatta e reiterata richiesta di essere avvicinata in un istituto penitenziario più prossimo alla sua residenza. In questo caso è stato rilevante avere un assistente sociale. Quindi c’è bisogno di psicologi, ma anche di altre figure: di agenti, di educatori, di assistenti sociali… Questa storia come è andata a finire? In questo caso chi ha salvato questa persona è stato un assistente sociale che, dal sabato al lunedì, ha inviato ai comuni di una regione lontana rispetto all’istituto penitenziario in cui si trovava questa persona, due richieste: una di certificato di residenza storico e una di stato famiglia. Dopo 15 giorni questo detenuto ha avuto la detenzione domiciliare. Se un detenuto viene mandato in un carcere a 800 chilometri di distanza dalla sua famiglia e si rende conto che alla sua richiesta viene trattato come un senza fissa dimora e con problemi psichiatrici, comincia a chiedersi: “Dove sono? Che diritti ho?”. Questo non vuol dire che bisogna fare tutto ciò che il detenuto vuole, ma che non si dovrebbe andare al di sotto di alcuni limiti. Non si possono rimuovere le condizioni di rischi ma si può intervenire sui fattori di protezione. Lei in più occasioni ha affermato che bisogna prestare un’attenzione alla chiara definizione di “caso”. E che ciò è legato anche a una sottostima dei dati dei suicidi... Abitualmente in carcere non c’è una modalità di registrazione del caso standardizzata. Quando si definisce un caso, c’è una registrazione del tutto libera. Di fronte ad un comportamento autolesivo, un operatore può dire che si tratta di un tentato suicidio o di un gesto autolesivo. In realtà, anche il tentato suicidio è un gesto autolesivo. Se una persona compie un atto in carcere e la morte si realizza dopo ore o giorni in conseguenza di quell’atto (entra in coma e poi muore, ad esempio), non viene constatata la morte in carcere, ma in ospedale. Quindi dal carcere viene registrato come tentato suicidio, tecnicamente è un suicidio. Poi c’è anche un’altra questione da considerare, nella sottostima dei dati. Quale? Non stiamo considerando quelle “morti per causa da accertarsi”. Già i dati che abbiamo sono catastrofici, con queste considerazioni c’è da presupporre che i dati reali dei suicidi in carcere siano anche maggiori. Nese, in che modo si può prevenire un suicidio? L’obiettivo non può essere prevenire il suicidio. Ma è intervenire sui fattori di rischio per ridurli e sui fattori di protezione per aumentarli, a partire dalla garanzia dei diritti e dei bisogni delle persone che sono in carcere. Cosa si potrebbe fare? Forse bisognerebbe investire impegnando delle risorse per il servizio sanitario, per l’amministrazione penitenziaria ma devono essere vincolate (e sottolineo “vincolate”) a quelle specifiche azioni che riguardano la riduzione del rischio suicidario. Se penso all’ultimo suicidio che è avvenuto in Campania, aveste dovuto vedere in che condizioni si trovavano a lavorare gli operatori che hanno assistito, non riuscendo ad evitarlo, all’evento. Il Piano nazionale prevede anche un’azione di supporto. Ripeto, i Piani ce li abbiamo, utilizziamoli. Non ci sono posti nelle Rems, ma il 50% non ha malattie mentali e può essere curato in carcere di Donatella Zorzetto La Repubblica, 22 giugno 2024 Ad Alghero il primo congresso nazionale della Società Italiana di Psichiatria e Psicopatologia Forense (Sippf). “Possibile liberare 400 posti per chi ha davvero bisogno di cure e aiuto”. A distanza di 10 anni dalla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Legge 81 del 2014) non si è ancora trovata la formula funzionale per la presa in carico degli autori di reati definiti “non imputabili per la presenza di una patologia mentale e riconosciuti socialmente pericolosi”. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) sarebbero dovute essere la soluzione. Non lo è stata, almeno finora. Questo perché l’Italia è l’unico Paese al mondo che riconosce l’infermità o la semiinfermità mentale a chi compie reati ed è affetto da disturbi della personalità, in particolare quello antisociale, che non sono malattie mentali ma che rappresenta il 30-40% degli ospiti delle Rems. Questo non solo significa che oltre un ospite delle REMS su due non ha necessità sanitarie e non ha dunque bisogno di queste strutture, ma dovrebbe essere assistito in carcere. Le liste d’attesa - E soprattutto questo crea lunghe liste d’attesa che escludono dalle Rems coloro che ne avrebbero davvero bisogno e si trovano per strada, esclusi dai trattamenti e dall’aiuto che le Rems possono garantire. A puntare i riflettori sul problema, ad affrontare il rapporto con la magistratura e con i media - in particolare per quanto riguarda la narrazione corretta di gravi episodi di cronaca - sono stati gli specialisti della neonata Società Italiana di Psichiatria e Psicopatologia Forense (Sippf), affiliata alla SIP, riuniti in occasione del suo primo congresso nazionale che si apre oggi ad Alghero. Tra gli ospiti la presidente della Suprema Corte di Cassazione, Margherita Cassano, e l’ex ministro della Giustizia e ora presidente dell’Università Luiss, Paola Severino. “I temi affrontati al nostro primo congresso, con il contributo di studiosi italiani esperti riconosciuti nel settore psichiatrico forense, rappresentano alcune delle attuali sfide con cui ci si deve confrontare in relazione ai mutamenti sia normativi che di tipo clinico assistenziale, ma anche sociali e culturali, che riguardano non solo i pazienti autori di reato, ma anche chi considera un disturbo sociale come una malattia, e chi utilizza la salute mentale come ‘leva’ per ottenere benefici e sconti di pena”, dichiarano i neo presidenti Sipff, Liliana Lorettu ed Eugenio Aguglia. La strategia - Una delle sfide emerse nel corso dell’evento è proprio quella di ‘liberare’ le Rems da chi potrebbe essere curato in carcere, con la dovuta assistenza psichiatrica intramuraria laddove necessario. “Pazienti per i quali una delle ipotesi di intervento potrebbe essere rappresentata da adeguate soluzioni di tipo socioriabilitativo - spiega la prof. Lorettu, per molti anni docente all’università di Sassari -. In queste situazioni, come in tutti i Paesi del mondo, è prevalente l’esigenza di sicurezza rispetto a quella di cura, per cui le Rems o le comunità terapeutiche non rappresentano soluzioni adeguate, proprio per la loro caratteristica prettamente sanitaria. Questo consentirebbe di superare il processo di psichiatrizzazione del comportamento violento, evitando il permanere dello stigma della malattia mentale”. Il personale - Senza le persone ‘antisociali’ nelle strutture sanitarie, il personale non avrebbe più timore di andare a lavorare, mentre ora si assiste a una vera e propria fuga da queste strutture, intimoriti dalle continue aggressioni di questi utenti e dalla mancanza di adeguata protezione. “Inoltre, serve rafforzare i Dipartimenti di Salute Mentale per consentire la presa in carico dei pazienti che è possibile dimettere, e che sono all’incirca il 30%, ma che non trovano posto nelle comunità terapeutiche o non vi è personale sufficiente nei servizi territoriali per la loro gestione - aggiunge il profesor Aguglia, che è anche docente di psichiatria a Catania -. Insomma, serve un grande lavoro di confronto con la magistratura e le forze dell’ordine al fine di avviare una proficua e duratura collaborazione che porti ad un’analisi più aggiornata delle scelte giuridiche nel rispetto dei progressi scientifici della psichiatria clinica anche attraverso la promozione in tutte le regioni di un PUR (Punto Unico Regionale) per la gestione dei pazienti autori di reato”. La riforma - “La chiusura degli OPG è stata una riforma molto importante e condivisa dalla stragrande maggioranza degli psichiatri - conclude Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP) -. Resta però una riforma parziale, in cui sono mancate reali formule applicative e una necessaria differenziazione tra coloro che hanno diritto alla cura nelle REMS e coloro che non sono malati e devono scontare la loro pena in carcere con il dovuto supporto. La SIP ha promosso con favore la nascita al proprio interno di questa sezione speciale dedicata al tema della psichiatria e psicopatologia forense, che sarà di grande aiuto di fronte ai problemi che la psichiatria oggi si trova ad affrontare sul territorio e nei dipartimenti di salute mentale”. Severino: “Serve una riforma del sistema di assistenza psichiatrica” dire.it, 22 giugno 2024 L’ex ministro della Giustizia al congresso della Società Italiana di Psichiatria e Psicopatologia forense: “Il paziente psichiatrico autore di reato da un lato non deve trovarsi nelle condizioni di mettere a rischio la visione della sicurezza condivisa socialmente, dall’altro gli va garantita la salute con una corretta gestione sanitaria. Questo alla luce della crescita - 10% all’anno - dell’emergenza di salute mentale nelle carceri”. “Serve una prospettiva più ampia per risolvere il problema durante la detenzione e dopo l’uscita dal carcere. Il paziente psichiatrico autore di reato da un lato non deve trovarsi nelle condizioni di mettere a rischio la visione della sicurezza condivisa socialmente, dall’altro gli va garantita la salute con una corretta gestione sanitaria, in particolare quella relativa alla salute mentale. Questo proprio alla luce della crescita - 10% all’anno - dell’emergenza di salute mentale nelle carceri italiane”. Così Paola Severino, ex ministro della Giustizia, ospite al primo congresso della neonata Società Italiana di Psichiatria e Psicopatologia forense, i cui lavori sono iniziati oggi ad Alghero, e presieduta da Liliana Lorettu ed Eugenio Aguglia. “Va prima di tutto considerato il fatto che si è di fronte ad una platea estremamente eterogenea dal punto di vista sociale, economico e culturale- ha continuato la prof. Severino-. E che l’ingresso in carcere, seppure sancito da una sentenza, resta un evento fortemente traumatizzante. Basti considerare il numero di suicidi in carcere: 82 suicidi nel 2022, 70 nel 2023 e 30 casi solo al maggio 2024. Esiste anche una importante questione di genere: delle donne detenute, l’80% ha problemi psichiatrici, in genere i più gravi. Donne sofferenti che non trovano nel carcere soluzione ai problemi”. Va dunque recuperato il corretto percorso previsto per l’accesso alle REMS, seguendo esattamente quello che prevede la normativa, così come devono essere colmati i vuoti normativi, più volte segnalati sia dalla Corte Costituzionale, sia a livello internazionale, per chi ha una malattia mentale ‘sopravvenuta’ in carcere. “Da un lato, cioè, la legge non prevede alcuna alternativa, dall’altro le carceri non hanno né presidi, né risorse né personale in grado di intercettare chi ha bisogno reale di assistenza e supporto e per comprendere se esiste compatibilità tra trattamento psichico e ambiente detentivo- ha spiegato Severino- Inoltre, va assolutamente considerato il fatto che molti disturbi mentali latenti si manifestano proprio con l’ingresso in carcere. Disturbi borderline o altri disturbi di personalità o altro, possono portare poi a forme depressive maggiori e poi al suicidio”. Con la chiusura degli OPG, in sostanza, non si è pensato a coloro che non avrebbero avuto diritto d’accesso alle REMS (poche e mal diffuse sul territorio), con la magistratura che colma il vuoto normativo o ordinandone la custodia comunque, aggirando la legge, o prevedendo tramite il giudice di sorveglianza, la detenzione domiciliare. “Una situazione non risolutiva, in molti casi peggiorativa: è noto che la detenzione domiciliare di un reo malato di mente non è possibile in molte situazioni. Già si gravano le famiglie affidando loro persone con malattie psichiatriche gravi che non hanno possibilità di gestire, figuriamoci affidare loro una persona che ha anche necessità di custodia”, ha aggiunto la prof. Severino. “Quello che serve ora- ha concluso- è una complessiva riforma organizzativa che preveda, oltre al rafforzamento del sistema di valutazione e di assistenza psichiatrica in carcere con risorse e personale medico e sanitario, una revisione del modello REMS con alternative per i numerosissimi casi che non possono rientrare nei parametri della legge”. Libri, melanzane e farina: i detenuti al 41 bis, tra regole e vessazioni di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 22 giugno 2024 L’ultimo caso ha riguardato il lievito e la farina vietati al boss stragista Pietro Rampulla detenuto al 41 bis. Non tutte le regole sono uguali. Ci sono delle variazioni sul tema delle restrizioni previste dal protocollo del carcere duro. Alcune lasciano perplessi, hanno il sapore amaro della vessazione. Va detto, anche a prezzo di essere tacciati di parteggiare per il diavolo. L’obiettivo è impedire i contatti fra i boss detenuti e il mondo esterno, recidere la catena di comando per i capimafia più pericolosi e carismatici. Obiettivo sacrosanto, oltre che auspicabile. Scorri l’elenco dei ricorsi e ci si scontra con l’illogicità di regole che variano di carcere in carcere. Niente lievito e farina, vietato leggere nuove edizioni di libri sulla mafia, vietato friggere melanzane, sì alle patate al forno dall’esterno ma niente pollo, limite di tre assorbenti al giorno per le donne. Francamente risulta difficile capire cosa c’entri tutto ciò con la necessità di isolare i potenti padrini. Secondo i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria aggiornati al 4 aprile 2024, i detenuti al 41 bis sono 721, di cui 12 donne. A contribuire alla statistica ci sono 235 siciliani. L’applicazione dura 4 anni, poi prorogati di biennio in biennio. Ogni tanto qualcuno fa ricorso, ma senza troppe speranze. La risposta si ripete: non si sono dissociati e possono sempre riallacciare i rapporti. La cronaca, d’altra parte, conferma che la rieducazione resta un miraggio. I boss finiscono di scontare la pena e tornano ad occupare i posti di comando. Fino a pochi mesi fa c’era un detenuto in più al carcere duro. Matteo Messina Denaro era detenuto a L’Aquila, nel penitenziario “Le Costarelle”. Un enorme blocco di cemento in mezzo al nulla, costruito negli anni Ottanta, quando in Italia governava il pentapartito, ed entrato in funzione nel 1993. Regole ferree, gestione rigida. L’ora d’aria si trascorre in spazio di 4 metri per 5, muri alti e una rete metallica. All’inizio degli anni duemila furono gli stessi agenti penitenziari a scioperare per le difficili condizioni di vita. A L’Aquila sono detenuti Filippo Graviano di Brancaccio, Gianni Nicchi, il picciuttedu cresciuto sotto l’ala protettiva del boss Nino Rotolo, Sandro Lo Piccolo, ergastolano della potente famiglia palermitana di San Lorenzo, l’agrigentino Gerlandino Messina e il gelese Crocifisso Rinzivillo. Altre sezione per il carcere duro ci sono nel carcere di Opera che prende il nome dal Comune ad una manciata di chilometri da Milano. Il penitenziario, costruito negli anni ottanta, con i suoi mille e quattrocento detenuti, è uno dei più grandi d’Europa. Nella struttura milanese prima c’era Totò Riina, ora ci sono il boss dell’Uditore Nino Rotolo, Ignazio Ribisi di Palma di Montechiaro, il catanese Nitto Santapaola, Vito Vitale di Partinico, il trapanese Vincenzo Virga, i palermitani Calogero Lo Piccolo, ultimo componente della famiglia a finire in carcere, Giuseppe Graviano di Brancaccio e l’anziano Pippo Calò. Molti sono condannati al fine pena mai e ci resteranno fino all’ultimo respiro. A loro è destinata un’area riservata, laddove c’era la sezione femminile. Una palazzina di due piani. Nel penitenziario c’è un’infermeria collegata telematicamente con l’ospedale San Raffaele di Milano. Se si sconta anche la pena accessoria dell’isolamento in cella si sta da soli, si può guardare la tv e leggere i giornali (non quelli siciliani), e da soli si passeggia all’ora d’aria in un cortile poco più grande di una cella, con il tetto sbarrato dalle inferriate. Avanti e indietro all’interno di una gabbia. Più lungo è, invece, il tragitto che conduce fino alla sala colloqui. È qui che incontrano parenti e avvocati. All’ingresso della struttura c’è una guardiola, a vigilare gli agenti del Gom, il gruppo operativo mobile che vigila sui detenuti al 41 bis. Si deve lasciare tutto all’ingresso - chiavi, telefoni, borse, documenti - prima di superare il metal detector. Poi, si percorre un corridoio esterno fino alla palazzina di due piani, che si erge alle spalle dello spaccio. Il secondo metal detector segna l’arrivo nella sala colloqui. La stanza è senza finestre. Gelida e illuminata da un neon. Ci sono due sgabelli in cemento armato. Un bancone di marmo. E il muro di vetro, al centro del quale c’è un piccolo sportello di vetri che si are solo durante i colloqui con l’avvocato. Resta chiuso quando dall’altra parte ci sono i familiari. I colloqui degli avvocati possono avere cadenza settimanale. Una o due volte al mese per i familiari. Mai più di un’ora. Il quadro delle limitazioni è ancora lungo: è ammessa una telefonata al mese solo con familiari stretti. Per ricevere la chiamata mogli e figli dei detenuti devono recarsi al carcere della propria città. Tutta la corrispondenza del detenuto viene controllata: buste e pacchi in entrata vengono aperti ad eccezione di quelli provenienti dai parlamentari o da altre autorità che hanno competenza in materia di giustizia. Le lettere in uscita devono essere consegnate aperte alle autorità carcerarie. Alcune missive possono anche non essere consegnate. È successo a Giuseppe Graviano. Alcune frasi sono stati ritenute “ambigue e prive di attinenza rispetto alla restante parte del testo”. Altre in entrata avevano “riferimenti a terze persone” e “la documentazione allegata appariva di dubbia finalità”. Ed ancora: la lista dei prodotti alimentari che il detenuto può chiedere di acquistare è molto ristretta e non c’è la possibilità di cucinare all’interno della cella. Unica deroga, in alcuni casi, è la disponibilità di un fornellino per scaldare i cibi. In cella niente libri con copertina rigida e bottiglie. Si può ricevere dall’esterno solo un pacco al mese per un massimo di dieci chili. E niente lievito e farina, vietati al boss stragista Rampulla. Carceri sovraffollate e caldo. La Cei regala 2.000 ventilatori a 30 istituti di Paolo Fruncillo La Discussione, 22 giugno 2024 Il cardinale Zuppi: è un piccolo gesto, ma di grande attenzione. Fa caldo per tutti, ma nelle carceri è ancora più caldo perché le densità per cella sono alte: quasi diecimila persone in più rispetto ai posti disponibili. In alcuni istituti si ritrovano anche oltre 400 detenuti in eccesso rispetto a quelli previsti. Un piccolo gesto di solidarietà arriva dalla Cei per “rinnovare la forte vicinanza della Chiesa in Italia ai detenuti, specialmente quelli più fragili”: nel mese di giugno saranno distribuiti 2.000 ventilatori a 30 Istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale, nell’ambito del progetto “Semi di tarassaco volano nell’aria”, coordinato dal Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica e dall’Ispettorato Generale dei cappellani delle carceri, con il supporto della Presidenza della Cei. Zuppi: per un po’ di sollievo - È stato il cardinale Matteo Zuppi a dare il via all’iniziativa lo scorso 12 giugno, consegnando 80 ventilatori alla Direzione della Casa Circondariale femminile di Rebibbia a Roma. “È la carezza di una madre che vi sta vicino”, ha affermato rivolgendosi alle detenute. Si tratta, ha aggiunto, di “un piccolo gesto, ma l’amore è nelle cose semplici. Le attenzioni le ritroviamo nelle buone parole, nell’ascolto paziente; altre volte in gesti grandi o piccoli, come questo”. Facendo riferimento al titolo del progetto, ha sottolineato il cardinale Zuppi che “come i fiori del tarassaco, i soffioni, volano dappertutto, così l’affetto della Chiesa arriva in carcere, portando un po’ di sollievo. Talvolta, infatti, un semplice e lieve soffio d’aria può aiutare a vivere meglio il periodo di detenzione”. Un dono simbolico - “Un dono simbolico che dice l’attenzione per questa nostra comunità, dove si tocca con mano la povertà”, ha detto Nadia Fontana, direttrice della Casa Circondariale, che ha espresso “gratitudine alla Conferenza Episcopale Italiana, ai cappellani, ai volontari che sempre, con spirito di carità, ci sostengono, senza pretendere nulla in cambio, facendoci sperimentare un conforto materiale e spirituale costanti”. Con “Semi di tarassaco volano nell’aria”, la Chiesa in Italia, con i cappellani e gli operatori pastorali che svolgono la loro delicata missione all’interno delle carceri, vuole a sua volta dire “grazie” a chi lavora nel sistema penitenziario e la sua prossimità a tutte le persone che stanno scontando la pena all’interno degli Istituti. Le carceri più affollate - Una delle questioni più importanti nelle carceri italiane è il sovraffollamento che nel periodo estivo si fa anche più insopportabile. La situazione a fine gennaio 2024, tra le più preoccupanti, è nella Casa Circondariale “Regina Coeli” di Roma, dove i detenuti erano 1.099 per 611 posti disponibili. Quella di Roma purtroppo si associa anche al “San Vittore” di Milano al carcere di Lecce e quello di Taranto, dove i detenuti in eccesso rispetto ai posti disponibili sono sempre più di 400. E poi le carceri di Napoli, Foggia e Bologna. “Con il ddl sicurezza donne incinte in cella e reato di dissenso: questo è fascismo” di Angela Stella L’Unità, 22 giugno 2024 “Si criminalizzano le lotte sociali e civili, il testo abolisce lo Stato di diritto”, tuonano in conferenza stampa Asgi, Antigone e Amnesty. Nelle carceri vietato protestare, e c’è anche la norma anti-zingari. Neanche Alfredo Rocco, ministro di Grazia e Giustizia di Mussolini, era arrivato a “pensare” norme come quelle contenute nel ddl sicurezza, varato dal governo Meloni, e attualmente all’esame del Parlamento. Il provvedimento è improntato ad una logica “repressiva, securitaria e disumanizzante”, si strumentalizzano le “paure delle persone” e si punta alla “criminalizzazione delle lotte sociali e civili” verso una “rottura dello Stato di diritto”. A lanciare un allarme “preoccupatissimo, enorme” sono state Antigone, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi) e Amnesty, in una conferenza stampa di ieri alla Camera durante la quale hanno condiviso un documento con tutte le criticità del provvedimento. All’incontro hanno preso parte deputati di Pd e Avs. “Le norme del disegno di legge governativo si ispirano a un modello di diritto penale di matrice autoritaria e non liberale che risponde ad una ben chiara matrice culturale e politica, di dubbia consistenza democratica”, vi leggiamo. Un “grande pacchetto sicurezza” che “baratta” i diritti con disposizioni “scritte male” e “pericolosissime” che avvicinano l’Italia alle “cosiddette ‘democraziè illiberali come quella ungherese di Victor Orban” hanno sottolineato i promotori dell’iniziativa. L’invito alle opposizioni è stato quello di condurre una battaglia dura contro il ddl (sono in corso le votazioni nelle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia) e di assumere un impegno per una “mobilitazione” nelle piazze che “deve andare di pari passo” con il contrasto a “premierato e autonomia differenziata”. “Siamo pronti a dare battaglia a oltranza in Parlamento - ha assicurato la dem Michela Di Biase - ma c’è anche bisogno che parta un movimento della società civile”. “Da premierato, autonomia differenziata e ddl sicurezza deriva un Paese completamente diverso da quello che è stato il nostro dal dopoguerra in poi. Non abbiamo intenzione di fare un nuovo Aventino - ha detto Filiberto Zaratti di Avs - e vogliamo combattere con i cittadini per la libertà del Paese”. Le associazioni hanno annunciato che divulgheranno un testo “in inglese, francese, spagnolo alla stampa internazionale” con una “sintesi di un ddl paradigmatico che sta rompendo il patto sociale. Lo invieremo anche ai gruppi del nuovo parlamento europeo perché è pendente il documento sullo Stato di diritto in Italia” che è “molto critico”, ha annunciato Patrizio Gonnella di Antigone. Il ddl sicurezza “rappresenta una frattura con il nostro sistema di diritto andando oltre ciò che già era presente nella legislazione degli anni 30. Rocco nelle sue intenzioni non era arrivato a pensare cose che troviamo qui dentro”, ha aggiunto riportando il giudizio dell’Osce (“la maggior parte delle disposizioni ha il potenziale di minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello Stato di diritto”, ndr). Antonello Cervo di Asgi ha parlato di una “giustizia classista” che introduce “18 nuovi reati che criminalizzano la marginalità sociale e il disagio sociale, mentre questo governo porta avanti proposte di riforma finalizzate ad abolire l’abuso d’ufficio”. Con una “qualità della legislazione pessima e una serie di locuzioni non tassative che possono portare ad applicazioni abnormi. Una deriva autoritaria - ha proseguito -; la morsa si sta stringendo piano piano, noi cominciamo a percepirlo per primi perché siamo in prima linea sui diritti”. Ilaria Masinara ha illustrato i dati di una “mappatura” elaborata da Amnesty da cui emerge una situazione drammatica sulla possibilità di spazio di espressione del dissenso. Tra i punti più stigmatizzati del documento quello relativo alla “Detenzione per donna madre o in stato di gravidanza”: “Il nuovo articolo, se approvato, eliminerebbe il rinvio obbligatorio della pena creando così un vulnus intollerabile dal sistema giuridico, socio-sanitario e pedagogico per il minore. La nuova disposizione è pensata, nonché pubblicamente raccontata, come norma anti-rom, partendo dal pregiudizio che le donne rom sono tutte dedite al furto e che scelgono la maternità per sottrarsi alla carcerazione. In realtà i numeri delle donne rom in carcere sono così bassi, poche decine, da scardinare ogni pregiudizio”. Poi c’è “il nuovo delitto di rivolta penitenziaria che cambia per sempre il volto del sistema penitenziario facendolo tornare a periodi bui nei quali i detenuti erano costretti a obbedire con la testa bassa. È un delitto che colpisce fatti e comportamenti già sanzionati dalla legge come la violenza. Nel prevedere tra le modalità della rivolta anche la resistenza passiva a un ordine, senza neanche specificare se legittimo, si stravolge il buon senso, si punisce anche una disobbedienza non attiva, si fa un passo verso lo Stato di Polizia”. Infine si introduce il nuovo reato di rivolta nei Cpr: “l’amministrazione, invece di ridurre e prevenire le cause delle rivolte, limitando i casi e i termini di trattenimento, rendendo più umane le condizioni detentive, garantendo efficacemente l’accesso ai trattamenti sanitari e la comunicazione telefonica e via internet con l’esterno, e aprendo tali strutture al controllo della società civile (giornalisti, associazioni di tutela, operatori legali), opta inesorabilmente e unicamente per la minaccia della sanzione penale quale illusoria panacea di tutti i problemi che la detenzione senza reato ha determinato”. Le violenze sessuali tra minori aumentano, ma la risposta non può essere solo giudiziaria di Giuseppe Spadaro* Il Domani, 22 giugno 2024 Le segnalazioni di minori denunciati e/o arrestati per violenza sessuale, tra il 2022 ed il 2023, registrano un incremento dell’8,25% sul totale. Dall’approccio alla sessualità che manifestano in particolare i maschi minori d’età, emerge a volte la totale inconsapevolezza con la quale è considerato l’atto sessuale, del tutto estraneo alla sfera estremamente intima dell’individuo che viene nell’atto stesso coinvolta. Il Servizio Analisi Criminale, della Direzione Centrale della Polizia Criminale, ha pubblicato in aprile 2024 il Rapporto Criminalità minorile e gang giovanili che esamina le segnalazioni di minori della fascia d’età 14-17 anni, denunciati e/o arrestati sul territorio nazionale, estrapolate dalla Banca Dati delle Forze di Polizia, con riferimento al periodo 2010-2023. Secondo un’analisi delle categorie di reato che si manifestano più frequentemente, in particolare in ambito urbano, a fronte del numero complessivo di segnalazioni di minori denunciati e/o arrestati diminuito del -4,15% nel 2023 rispetto all’anno 2022, le segnalazioni di minori denunciati e/o arrestati per violenza sessuale, tra il 2022 ed il 2023, registrano invece ancora un incremento dell’8,25% sul totale. L’analisi dei dati condotta in base alla nazionalità dei minori denunciati e/o arrestati mostra che, nei valori annuali, il dato riferibile agli italiani è sempre superiore nell’intera serie storica, e negli ultimi due anni del periodo in esame l’incidenza delle segnalazioni di minori stranieri per violenza sessuale registra un lieve aumento (54,64% nel 2022 e 56,19% nel 2023). In alcuni episodi recenti che hanno richiamato un’alta attenzione mediatica sono ricorrenti reati di violenza sessuale di gruppo, associati a rapina e lesioni (Milano, 2022); produzione, detenzione e divulgazione di materiale di pornografia minorile (Firenze, 2023); violenza sessuale di gruppo, ignoranza della persona offesa, corruzione di minorenne e pornografia minorile (Caivano, 2023). Non vi è dubbio, che costituisce una costante la presenza di vittime minorenni o addirittura infraquattordicenni. Ancora più che in altri ambiti, il panorama informativo e il dibattito pubblico su questi dati e, più in generale, sul disagio giovanile, si caratterizza per un’elevata infodemia. A mio parere, poche definizioni potrebbero descrivere meglio lo stato attuale della discussione su questi temi tema. Sui media, dai giornali alla televisione, così come sui social, abbondano pareri, servizi, interviste, numeri ancorché parziali e non strutturati. Eppure, è difficile arrivare a una sintesi, o perlomeno a un quadro chiaro su cosa stiano vivendo giovani e giovanissimi, su cosa stia davvero accadendo nel paese, in particolare, in tema di violenza sessuale, anche da parte degli stessi decisori, Legislatore compreso. I giovani e lo smartphone - Nell’ultimo libro di Jonathan Haidt, Anxious Generation, è svolta un’analisi complessa di dati relativi anche agli anni prepandemici, nei quali si era già verificato un aumento crescente di minorenni con gravi fragilità psicologiche, con un aumento esponenziale di stati depressivi e stati di ansia diffusi che, con l’emergenza sanitaria, hanno subito un effetto ulteriore di accelerazione che ne ha determinato una vera e propria esplosione. Ritengo che questo costituisca il quadro di sfondo all’interno del quale collocare l’aumento dei reati di violenza sessuale e, anche dal mio osservatorio, si può rilevare una correlazione crescente e costante con il dato della diffusione degli smartphone che hanno letteralmente rivoluzionato la vita e i comportamenti individuali e di gruppo degli adolescenti. Com’è noto, i giovani della generazione Z sono stati i primi ad affrontare l’adolescenza con uno smartphone sempre in tasca, e questo li ha fatti entrare in una dimensione per loro di fatto irrinunciabile ma molto pericolosa; in particolare, per lo stato di alterazione delle relazioni e della personalità dei ragazzi, in una fase del ciclo di vita nella quale sappiamo bene quali siano i cambiamenti strutturali a livello neurologico, non ultimo dal punto di vista emotivo. La diffusione degli smartphone in Italia è stata immediata. Secondo dati Ipsos fra i ragazzi dagli 11 ai 13 anni già nel 2019 il 78% ne era in possesso e, di questi, il 50% passava più di cinque ore chattando oppure guardando e mettendo in rete foto o video. In proposito, ricordo che fin dalla Convenzione di Lanzarote, adottata il 25 ottobre 2007, la comunità internazionale avvertiva la necessità di approntare strumenti preventivi, normativi ed operativi più incisivi per la tutela dei minori vittime e minori autori di reati a sfondo sessuale (obiettivi cardine individuati all’art. 1 nella prevention of sexual violence, protection of child and promotion of international co-operation) cercando di contestualizzare il dato normativo all’interno di un tessuto sociale profondamente cambiato. Resta di assoluta attualità la duplice esigenza di conoscere il fenomeno della violenza sessuale commessa dai minori ed in danno dei minori stessi e di comprendere come si è evoluto e si sta evolvendo il fenomeno per mettere a fuoco modalità di intervento sempre più appropriate, sia nel trattamento diretto degli utenti sia nel campo della prevenzione dello stesso. Infatti, solo una sufficiente conoscenza dei fattori di rischio e dei fattori di protezione presenti nella vita del minore può assicurare una prognosi ragionevolmente attendibile sulla positività e sulla costruttività degli interventi, anche in sede penale, per prevenire la ripetitività di tali comportamenti, contemplando uno spettro di azione che guardi sia al minore vittima, sia al minore abusante. All’interno del quadro di sfondo prima descritto, vorrei aggiungere tra i fattori di rischio significativi, le situazioni di solitudine e vulnerabilità del minore in un contesto relazionale e familiare sempre più esposto ad agenti disgreganti (non ultimi di tipo economico, come quelli connessi all’aumento delle diseguaglianze sociali), nonché alle condizioni di una crescita psico - fisica sempre più veloce rispetto all’età biologica di fronte ai numerosi input che i minori ricevono quotidianamente. Dall’approccio alla sessualità che manifestano, in particolare i maschi minori d’età, emerge a volte la totale inconsapevolezza con la quale è considerato l’atto sessuale, del tutto estraneo alla sfera estremamente intima dell’individuo che viene nell’atto stesso coinvolta. Troppo spesso, l’atto sessuale è inteso come azione di sopraffazione e possesso in assenza di qualsiasi capacità di riconoscere l’altro da sé, associando alle pratiche sessuali l’uso della forza, di minacce o costrizione. Per tali ragioni, la crescita del disagio dei minorenni che commettono reati a sfondo sessuale rappresenta una delle espressioni più allarmanti che oggi abbiamo di fronte, riconducibili alla sempre più complessa condizione giovanile e tra i generi. Gli strumenti di segnalazione - Dal mio punto di vista, più che evocare “bollettini di guerra”, nonostante l’aumento che abbiamo visto di violenze e reati come stalking, violenze sessuali e maltrattamenti in famiglia anche tra i giovanissimi, limitandosi ad invocare risposte sul piano giudiziario, vorrei associarmi alla proposta fatta a Governo e Parlamento dell’Autorità Garante dell’infanzia e dell’adolescenza, in occasione dell’ultima Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, di attivare nel nostro paese centri antiviolenza specifici per i minorenni. Ritengo che il tema principale dovrebbe essere l’introduzione di nuovi strumenti per promuovere e agevolare il meccanismo di segnalazione: innovazioni che dovrebbero confluire in una normativa organica, per superare la frammentazione legislativa in materia, con una definizione univoca di violenza. A questo si aggiunga, come anticipavo, la necessità evidente di investire nell’educazione alla legalità e all’affettività, nonché sulla prevenzione. Se non sono avvertiti e registrati tempestivamente i primi segnali di disagio, a partire dalle aule scolastiche, e non si interviene prima che si trasformino in condotte violente o in fatti penalmente rilevanti, continueremo con sconcerto a constatare quanto, in particolare rispetto alla violenza di genere, i più giovani agiscono come se fossero cresciuti in una cultura “neopatriarcale”, considerato l’impatto sui giovani dei messaggi provenienti dai comportamenti degli adulti. *Presidente del Tribunale per i minorenni di Trento “Carcere fino a 10 anni”. Il giro di vite della Lega contro la maternità surrogata di Lorenzo Grossi Il Giornale, 22 giugno 2024 L’emendamento prevede, rispetto al ddl voluto da FdI, la quintuplicazione della reclusione e il raddoppio della multa: verrebbe punito anche il pubblico ufficiale che registra il nascituro. Contro la maternità surrogata è in arrivo una stretta ulteriore: la Lega ha infatti un emendamento al disegno di legge proposto da Fratelli d’Italia, che vieta la pratica anche se commessa all’estero e che è all’esame della commissione Giustizia del Senato. Il partito guidato da Matteo Salvini intenderebbe combattere la pratica dell’utero in affitto con la reclusione da 4 a 10 anni e una multa da 600 mila euro a 2 milioni, oltre a punire il pubblico ufficiale che registra i figli nati da quella pratica. Il gruppo leghista di Palazzo Madama ha depositato così due emendamenti - per entrambi il primo firmatario è il capogruppo Massimiliano Romeo - che ricalcano il testo del disegno di legge sullo stesso tema nel 2023 da parte del presidente dei senatori leghisti. Utero in affitto reato, primo sì Ue - In particolare, nel testo della modifica introdotta dal Carroccio si legge che chiunque, “in qualsiasi forma, commissiona, realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità” verrà punito “con la reclusione da 4 a 10 anni e con la multa da 600 mila euro a 2 milioni di euro”. Si rafforzerebbero, dunque, le sanzioni rispetto al testo di FdI che richiama la legge 40 del 2004, secondo la quale contro la surrogazione di maternità scattano il carcere da 3 mesi a 2 anni e una multa da 600 mila euro fino a un milione. Il disegno di legge è in questo momento al vaglio del Senato, con la firma della deputata Carolina Varchi (appartenente al partito di Giorgia Meloni) e che nella precedente legislatura è stato tema di una proposta dell’attuale presidente del Consiglio. Lo scorso 26 luglio 2023 la pdl era stata approvata alla Camera. La legge si limita a un solo articolo che persegue la surrogazione anche se “i fatti sono commessi all’estero”. “Maternità surrogata delitto universale” - Al secondo comma, l’emendamento leghista precisa inoltre che il reato è perseguito anche se il fatto è commesso, “in tutto o in parte, all’estero” e introduce la punibilità del pubblico ufficiale che annota nei registri dello stato civile i bambini nati da maternità surrogata “ai sensi dell’articolo 567, secondo comma, del codice penale”. Nell’altro correzione proposta dalla Lega viene chiarita e specificata la definizione di “surrogata”, intesa come “pratica riproduttiva mediante la quale gli adulti ottengono prole delegando la gravidanza e il parto a una donna esterna alla coppia, che si impegna a consegnare loro il nascituro” e poi con un lungo richiamo e citazioni di principi costituzionali e di leggi sull’argomento. La Commissione Giustizia del Senato ha adottato martedì 11 giugno come testo base il ddl votato a Montecitorio e ora esaminerà anche queste nuove proposte. Separazione carriere, da pm “atto” di rottura con gli avvocati ansa.it, 22 giugno 2024 “Non parteciperò come relatore ai convegni di formazione”. Il magistrato Nicola Scalabrini, sostituto procuratore a Bologna e componente della giunta distrettuale dell’Anm, ha comunicato ai rappresentanti locali degli organi associativi degli avvocati (consiglio dell’ordine, fondazione forense e camere penali) che non parteciperà più come relatore a convegni di formazione organizzati dagli stessi avvocati, anche quelli dove la sua presenza era già programmata. Il suo è un gesto di rottura e dal valore anche simbolico, che arriva dopo una presa di posizione di alcuni consigli dell’ordine (Bologna, Brescia, Lecce, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Venezia) in favore della riforma sulla separazione delle carriere in magistratura. “Mi sento davvero sulla ‘irrinunciabile linea del Piavè”, scrive Scalabrini citando il famoso appello alla resistenza di Francesco Saverio Borrelli nel 2002, a Milano. “Quest’ultima presa di posizione del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Bologna - continua il magistrato - amplia e approfondisce un solco e impone alla mia coscienza di considerare che i tanti momenti comuni e la singola testimonianza da me portata sono stati del tutto inutili. Non basta più la stima personale che nutro per ciascuno di voi singoli avvocati nella altissima funzione da voi svolta a farmi credere che le iniziative di formazione siano state, o possano davvero essere, occasione rispettosa di arricchimento reciproco”. Con la presa di posizione in favore della separazione delle carriere verrebbe meno in sostanza, secondo Scalabrini, una visione comune sull’idea di giustizia. “Questa improvvida riforma - dice ancora - non risolve alcuno dei mali che affliggono la giustizia, ma scardina nel profondo i rapporti tra i poteri dello Stato e indebolisce le esigenze di garanzia dei cittadini”. Ordine avvocati, ‘dal pm Scalabrini richiami impropri’ - “A fronte di un impegno laico ed equilibrato che propone il metodo dialettico come luogo della formazione delle convinzioni, spiace leggere la presa di posizione immediata e pubblica del dottor Scalabrini sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna”. Così il consiglio dell’ordine degli avvocati di Bologna, dopo la lettera del pm che ha comunicato la propria indisponibilità a partecipare come relatore ad iniziative di formazione organizzate dagli avvocati, come gesto di protesta per la posizione presa in favore del dibattito in corso sul tema della separazione delle carriere in magistratura. “Nella sua lunga missiva - prosegue l’ordine - la tesi sulla separazione delle carriere viene attribuita a Licio Gelli e non già a una parte significativa dei padri costituenti, e si vagheggia una resistenza sulla linea del Piave. È un peccato che tali impropri richiami finiscano per avere come conseguenza solo il piccato rifiuto a quei momenti di conoscenza, confronto e valutazione democratica che l’avvocatura istituzionale si è impegnata a garantire e che evidentemente sono vissuti da alcuni come un elemento di preoccupazione nei confronti dei quali esprimere ostilità e rigetto. Non può invece esservi pericolo nel conoscere, né nel deliberare conoscendo e l’avvocatura Bolognese sarà sempre lieta di discutere e di creare occasione di discussione con chiunque voglia ritenere che la dialettica sia la modalità corretta per assumere scelte democratiche”. L’ordine aveva ricordato di aver espresso soddisfazione, insieme ad altri sette ordini distrettuali “per l’avvio del dibattito pubblico” sul tema e di aver affermato di volersi impegnare “perché il piano del confronto sia informato, professionale ed equilibrato, avendo a riguardo i valori costituzionali e ordinamentali, anche allo scopo di poter orientare il pensiero dei cittadini in una logica di consapevolezza democratica”. “I magistrati hanno il diritto di scioperare. Ma dico sì all’Alta Corte” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 giugno 2024 Riforma costituzionale della giustizia: ne parliamo con il deputato del Pd, ed ex guardasigilli, Andrea Orlando. “I magistrati sono cittadini come gli altri e devono poter far parte dei comitati che ritengono e l’Anm ha come funzione la tutela della magistratura. Quando ero Ministro, l’Anm ha anche aspramente criticato delle mie iniziative ma io non ho mai messo in discussione la titolarità dei magistrati a svolgere anche una contestazione politica”. Il governo punta a depotenziare le correnti, con il sorteggio dei togati, e scongiurare, con il doppio Csm, quel rischio di subordinazione politica dei giudicanti ai requirenti che a volte sembra tradursi anche in una soggezione del singolo giudice al singolo pm. Cosa non la convince di questo progetto? In primo luogo l’idea che si possa costituire un corpo separato di pubblici ministeri, con due rischi: che quel corpo separato sia attratto nell’area dell’Esecutivo o che si avvicini a una dimensione prevalentemente poliziesca. In entrambi i casi si indebolisce il sistema delle garanzie. Riguardo al rischio di sottoposizione all’Esecutivo, le riporto l’obiezione avanzata dal consigliere giuridico del ministro Nordio, Bartolomeo Romano: “Ogni governo non è, per fortuna, eterno, quindi si rischierebbe di mettere il pm sotto il controllo del governo che verrà, magari di diverso colore politico: non converrebbe a nessuno”. Mi sembra un argomento abbastanza stravagante. Il problema non è se oggi il governo è di destra e domani di sinistra, il problema è che oggi c’è un governo di destra e può avere la tentazione di utilizzare in questa fase i pubblici ministeri. Non mi consola il fatto che in futuro lo possa fare un governo di sinistra. La cultura delle garanzie, a partire dall’habeas corpus, si sviluppa per tutelare il cittadino da qualsiasi governo. Vari segnali colti anche nel corso dell’attuale consiliatura indicano che c’è ancora un certo peso delle correnti, nel Csm. Considerato che non le si può certo sciogliere, trattandosi di libere associazioni, come se ne viene a capo? Io credo che la questione delle correnti sia un falso problema. Tutti sanno che ci sono filiere trasversali nelle correnti, e che le guerre più furenti in questi anni sono avvenute spesso all’interno delle stesse correnti e non tra le correnti. Le correnti sono il minore dei mali: almeno rendono visibile e politicizzano la dimensione di un conflitto, ma bisognerebbe preoccuparsi più di quello che c’è dietro le correnti. Si spieghi meglio... Abbiamo visto che questa dimensione occulta è quella che spesso ha guidato i processi di questi anni. Dopodiché lì il meccanismo è abbastanza semplice: è sufficiente rendere non rituali le valutazioni legate alla carriera, magari agganciandole alla valutazione delle performance degli uffici che si sono diretti, e magari introdurre dei criteri più stringenti rispetto all’attribuzione degli incarichi direttivi, vigilare sulla eventualità delle nomine a pacchetto e lavorare in modo tale che ci sia un solo organo disciplinare, e su questo siamo d’accordo con la proposta del governo, non sottoposto alla dimensione delle trattative. Però il Pd aveva altre proposte per l’Alta Corte, penso sia quella di Violante che all’ipotesi di Rossomando... Personalmente non sono contrario all’idea dell’Alta corte disciplinare. Il problema è che questa Corte non realizza l’unità delle giurisdizioni. Si occuperà solo della magistratura ordinaria, mentre il tema si dovrebbe porre negli stessi termini anche per la magistratura contabile e per quella amministrativa, che sono un vero potere in qualche modo esentato dal controllo di un soggetto terzo. Ho poi perplessità sulle modalità di formazione della Corte contenute nella proposta del governo. Il viceministro Sisto sostiene che la separazione delle carriere è necessaria innanzitutto per creare un’equidistanza dal giudice del pm e del difensore. Lei rileva che ci sia uno squilibrio all’interno del processo oppure no? Bisognerebbe rafforzare il ruolo del giudice, ma questo obiettivo non si raggiunge separando le carriere o incidendo sulle eventuali dinamiche con cui i pm inciderebbero negli avanzamenti di carriera dei giudici. Quindi come si fa? La questione ha a che vedere anche con il rito. È del tutto evidente che ci sono passaggi nei quali il giudice ha una funzione poco più che notarile, abbastanza limitata, anche se c’è una controtendenza in questi ultimi anni. Semmai il tema vero è come si mette il giudice nelle condizioni di guidare effettivamente il processo, ma io non ricordo un caso concreto di collusione tra pubblico ministero e giudice, anche perché ce lo dicono i dati, ossia il 50 per cento circa di assoluzioni in primo grado. Lei insomma pensa che sia paradossale, alla luce di questi numeri, pretendere la separazione... Infatti siamo al ridicolo nell’utilizzo degli argomenti: da un lato si dice che c’è un appiattimento del giudice sul pubblico ministero e dall’altro si contesta il fatto che ci sono assoluzioni dopo il rinvio al giudizio oppure di riforma del verdetto in secondo grado e in Cassazione. È evidente che c’è la terzietà del giudice e questo è segno di salute del nostro sistema giuridico. Se durante l’esame del ddl in Parlamento arrivasse la proposta di inserire l’avvocato in Costituzione, sareste favorevoli? Assolutamente sì. Esponenti della maggioranza hanno definito le iniziative dell’Anm contro la riforma come atti di guerra, tentativi di sottomettere il Parlamento, immobilismo culturale, difesa corporativa... L’Anm ha protestato contro Esecutivi di destra come contro quelli di sinistra, di cui facevo parte anche io. Ciò fa parte della fisiologia di un sistema democratico. Quello che ritengo sbagliato e grave è pensare che si possano fare delle riforme senza che si determini in alcun modo una dialettica o un’interlocuzione. Quello che avverto e trovo contraddittorio è che sedicenti liberali nutrano un fastidio enorme a qualunque tipo di critica alle proprie iniziative. Dunque non ravvisa anomalie sia rispetto agli annunciati scioperi dell’Anm sia riguardo alla presenza delle toghe nei comitati referendari? I magistrati sono cittadini come gli altri e devono poter far parte dei comitati che ritengono, e l’Anm ha come funzione la tutela della magistratura, quindi anche la difesa degli istituti che ritiene funzionali a tale tutela. Ripeto, quando ero Ministro, l’Anm ha anche aspramente criticato delle mie iniziative, ma io non ho mai messo in discussione la titolarità dei magistrati a svolgere anche una contestazione politica. Io ho avuto giudizi del Csm assolutamente, a mio avviso, sproporzionati rispetto alle misure che si portavano avanti sulle intercettazioni, sulla riforma della responsabilità civile dei magistrati, sulle modifiche di carattere ordinamentale e sulla carriera dei magistrati, ma non ho mai pensato di mettere in discussione il diritto ad esprimere quelle critiche, perché penso che questo faccia parte della cultura delle democrazie liberali. Che giudizio dà dell’operato di questo governo in materia di giustizia fino a questo momento? Per il momento si è occupato prevalentemente di costruire dei provvedimenti di impunità e di implementare quello che Ferrajoli definisce il “populismo giudiziario”: si è proceduto con una pletora di nuove figure di reato e di inasprimenti delle pene. Esattamente il contrario del programma con cui si era in qualche modo presentato Nordio all’insediamento di questo governo. Ultimissima domanda. Premierato, autonomia, riforma costituzionale della giustizia: sono davvero indizi che c’è un pericolo per la democrazia, nel nostro Paese? No, ma penso che ci sia un conflitto tra questa maggioranza di governo e l’impianto costituzionale all’interno del quale si è sviluppata la democrazia nel nostro Paese. Questo non delinea un regime, ma sicuramente crea un’alta tensione, perché la verità è che una larga parte della cultura politica delle forze di governo nasce in contrapposizione alla cultura costituzionale. Non basta l’articolo 24 a scolpire in Costituzione la figura dell’avvocato: il riconoscimento serve, se si vuole la vera parità di Antonella Trentini* I Dubbio, 22 giugno 2024 Il Ministro Nordio sta lavorando incessantemente per riformare una delle più riformate e irriformabili realtà: la giustizia. Unaep segue con estrema attenzione questo lavoro, dato che da anni ritiene che la vera, reale, efficace riforma della giustizia troverà concretezza quando tutti coloro che devono attuarla si troveranno sullo stesso piano costituzionale. Essendo stato Nordio un magistrato, “ne sa di latino”, parafrasando il Manzoni. Non che ciò abbia un peso per forza, se è vero che il presidente emerito Luciano Violante ha avuto modo di affermare che “i due migliori ministri della giustizia sono stati Martelli e Fassino, nessuno dei due laureati in giurisprudenza”, ma “entrambi affiancati da ottimi consiglieri”. Ecco, se i consiglieri del Ministro avranno pazienza di leggere queste poche righe, non potranno rimanere insensibili rispetto ad un punto essenziale, dato che diversamente la riforma della giustizia scadrebbe fra le bandierine che ogni Governo tenta di accaparrarsi. Nessuno, infatti, affronta mai il problema innovativamente e in termini di civiltà giuridica: se non si parte ponendo sullo stesso piano costituzionale - e dunque di garanzia - le parti del processo, qualsiasi riforma sarà sempre destinata a non produrre gli effetti voluti. Taluni ritengono che già l’articolo 24 della Costituzione contempli implicitamente la figura dell’avvocato, prevedendo il diritto di difesa. Ma chi si ferma al concetto generale dimentica (o non sa) che ci si può difendere anche in proprio in moltissimi tipi di controversie ed anche per due gradi di giudizio. È una norma soggettivamente generalista (“ Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”), oggettivamente funzionalista (“La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”), e sussidiariamente economica (“ Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”). L’articolo 24 della Costituzione italiana, dunque, benché pregevolissimo, è silente totalmente sulla professione dell’avvocato, mentre per la magistratura è ben precisato che costituisce un ordine autonomo e indipendente (articolo 104). Non v’è chi non veda la differenza fra la norma che prevede che “tutti possono agire in giudizio” e che “la difesa (che tutti possono svolgere) costituisce un diritto inviolabile”, e quella che prevede “la magistratura è un ordine autonomo e indipendente”: da un lato si codifica la funzione e non chi la svolge, dall’altro chi la svolge. In ciò l’Italia - benché culla del diritto - sconta un ritardo notevolissimo sulla protezione dei tutori della legalità e della difesa, sia con riguardo agli altri Paesi europei, sia con riguardo a Paesi extraeuropei (si pensi alla Tunisia, paese non propriamente democratico, la cui Costituzione prevede all’art. 105 della propria Carta fondamentale: “La professione di avvocato è libera e indipendente. Essa contribuisce alla realizzazione della giustizia e alla difesa dei diritti e delle libertà” (art. 105, comma 1) e che “L’avvocato beneficia delle garanzie di legge che ne assicurano la protezione e gli consentono di esercitare le sue funzioni”). È nostra opinione che fin quando si traccheggia sull’equiparazione costituzionale fra chi indossando la medesima toga difende e chi decide quale difesa prevalga, prevedendo accanto a “la magistratura è un ordine autonomo e indipendente”, anche “la professione di avvocato è libera e indipendente”, ponendo costituzionalmente l’accento sulla specificazione delle modalità d’esercizio della professione, che deve essere necessariamente svolta “ in posizione di libertà e di indipendenza, nel rispetto delle norme di deontologia forense”, mancherà sempre una tessera del mosaico “giustizia” che renda “effettiva la tutela dei diritti” e “inviolabile il diritto di difesa”. Tutelare l’avvocato vuol dire tutelare l’interesse generale a che la giustizia funzioni: è un valore di civiltà giuridica. È un valore per l’intera collettività. Sulla riforma della giustizia vorrei consigliare a Carlo Nordio: only the brave! *Presidente di Unaep (Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici) Milano. La morte inutilmente annunciata di Giuseppe nella sua cella di Opera di Maria Brucale* L’Unità, 22 giugno 2024 Era il gennaio 2022. Giuseppe, detenuto nel carcere di Milano Opera, cade nella propria cella e viene ricoverato di urgenza in stato di incoscienza. L’esito è un “trauma cranico con ecchimosi periorbitale destra e contusione periorbitale sinistra e una frattura delle ossa nasali”. Non è la prima volta che succede. Giuseppe è affetto dal morbo di Parkinson, oltre a tante altre patologie che rendono la sua vita detentiva una costante sofferenza e comportano la necessità dell’affidamento completo alla pietà e al buon cuore del suo compagno di cella, Giovanni, che ne ha cura, lo lava, lo veste, si occupa di lui in tutte le necessità del quotidiano, anche nei bisogni fisiologici, come un infante. Giuseppe partecipa ai laboratori di Nessuno Tocchi Caino. Arriva in sedia a rotelle spinto dal suo compagno e sta in prima fila, alla destra del palco del teatro intitolato a Marco Pannella. Parla con molta fatica e risulta pressoché inintelligibile quel che dice. Ma è lì, ascolta, finché ne ha la forza. Poi il suo compagno lo riaccompagna in cella. È detenuto dal 1990, Giuseppe, ininterrottamente, con una condanna all’ergastolo per gravissimi fatti di reato e un carattere ruvido e ombroso. Le relazioni di sintesi, poche e prodotte a distanza di molti anni le une dalle altre, parlano di un comportamento a volte oppositivo e discontinuo. Certo non è facile la vita di relazione per chi soffre la prigione del proprio corpo malato oltre a quella della reclusione. Eppure un giorno, ormai di molti anni fa, Giuseppe è stato protagonista insieme ad Antonio Aparo, anche lui ristretto a Opera, che lo ha raccontato, di un luminoso miracolo di riconciliazione. Antonio e Giuseppe erano contrapposti in una faida di morte ormai trentacinque anni fa. Antonio aveva vissuto lunghi anni al 41 bis e aveva saputo superare l’orrore della sua storia passata ma nel suo cuore batteva ancora un sentimento di vendetta per quell’ uomo, Giuseppe, che aveva tolto la vita a suo fratello. Fuori dal baratro del 41 bis, però, se lo era visto davanti nel carcere di Voghera, malato e tremante, sconfitto, come lui, dai propri terribili sbagli e si erano ritrovati fratelli, figli della stessa caduta e ormai non più nemici, ad abbracciarsi. Un gesto meraviglioso di riparazione, di riconoscimento nell’ altro di sé stessi. “Antonio, Antonio, sei tu?”. Aveva detto Giuseppe nel vederlo. Una invocazione di amore e di reciproco perdono di due uomini compagni nella atroce condizione del delitto e ora del dolore della pena e nel superamento del male del lontano passato. Ormai però la detenzione per Giuseppe era solo afflizione, sconforto, mutilazione di dignità. Non poteva aspirare a recuperare una dimensione di vita libera e produttiva, a riabilitare, a reinserire. Serviva solo a resistere alla malattia, confidando nell’ aiuto degli altri ristretti per l’igiene, il controllo, l’alimentazione, la vita stessa, senza il conforto dei propri cari, temendo l’esito della successiva rovinosa perdita di equilibrio che per un uomo malato, non deambulante, sovrappeso e assai spesso non padrone del proprio corpo poteva risultare letale. Inutile l’istanza del difensore rivolta al tribunale di sorveglianza per permettergli di tornare a casa, in detenzione domiciliare. È ancora pericoloso, si legge nel provvedimento di rigetto, e le sue condizioni di salute sono adeguatamente curate in carcere anche col ricorso ai presidi esterni. Giuseppe resta così recluso, a espiare una pena inutile e ormai solo punitiva e afflittiva finché arriva la notizia di quell’ultima quanto prevedibile caduta che ha spento i suoi giorni e consumato le sue ultime ore di solitudine, nella assenza del calore e delle carezze dei propri affetti, nel silenzio di una cella. Una pena nella pena. *Avvocato, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino Sassari. Detenuto si dà fuoco nell’infermeria del carcere di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 22 giugno 2024 Un detenuto si è dato fuoco nell’infermeria della Casa circondariale di Bancali nella sera del 21 giugno. In passato l’uomo si sarebbe già reso protagonista di eventi critici durante la detenzione. Lo rende noto il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Sappe, che annuncia una manifestazione di protesta venerdì 28 giugno sotto gli uffici del Provveditorato penitenziario regionale di Cagliari. Secondo la denuncia del Sappe un uomo, di origine marocchina, si è cosparso il corpo di di alcool e si è dato fuoco a fine serata. Oltre a lui sono rimasti ustionati e contusi anche alcuni agenti di polizia penitenziaria intervenuti per salvare l’uomo, ora ricoverato nel centro ustionati dell’ospedale di Sassari. Antonio Cannas, delegato per la Sardegna del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Parliamo di un soggetto assai complicato, che due settimane fa si era reso responsabile di aggressione al personale scagliando loro addosso un estintore, rapportato più volte per comportamenti aggressivi e autolesionismo. Ora speriamo che i colleghi ustionati e contusi si riprendano quanto prima. A loro va la nostra solidarietà”. Il sindacalista annuncia che venerdì 28 giugno il Sappe, insieme ad altre organizzazioni sindacali di Bancali, organizzerà un sit-in di protesta a Cagliari, davanti alla sede del Prap. “Torneremo a sollecitare l’intervento del ministero della Giustizia e degli organi nazionali dell’Amministrazione penitenziaria sulle criticità di Bancali, note a tutti in termini di lavoro, delle relazioni sindacali e della sicurezza interna. Qui ci vogliono provvedimenti concreti, in grado di ripristinare legalità e sicurezza per i poliziotti penitenziari, lasciati allo sbando ed alla deriva”. Pieno sostegno alla protesta della Polizia Penitenziaria di Bancali, a Sassari, arriva da Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Come Segreteria Generale del Sappe ci attiveremo presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché le giuste proteste delle colleghe e dei colleghi di Sassari e di tutta la Regione trovino attenzione e conseguenti provvedimenti. Auspichiamo che i vertici del DAP e del Provveditorato regionale penitenziario di Cagliari intervengano con celerità e si adottino con urgenza provvedimenti necessari per salvaguardare la sicurezza del carcere. Ogni giorno giungono notizie di aggressioni a donne e uomini del Corpo in servizio negli Istituti penitenziari del Paese, sempre più contusi, feriti, umiliati e vittime di violenze da parte di una parte di popolazione detenuta che non ha alcuna remora a scagliarsi contro chi in carcere rappresenta lo Stato”. Bari. “Tortura di Stato” nel carcere: agenti condannati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2024 Il 27 aprile 2022 avevano “brutalmente aggredito” un detenuto di 43 anni con problemi psichici: una nuova sentenza scuote il sistema penitenziario. L’ennesima sentenza ha scosso il sistema carcerario italiano, mettendo in luce la “tortura di Stato” avvenuta nel penitenziario di Bari. Nove agenti della polizia penitenziaria sono stati condannati per aver “brutalmente aggredito” un detenuto di 43 anni con problemi psichici, in una vicenda che solleva interrogativi inquietanti sulle condizioni all’interno delle carceri italiane. I fatti risalgono alla notte del 27 aprile 2022, quando il detenuto, dopo aver appiccato un incendio nella sua cella, è stato oggetto di un’aggressione che, secondo i giudici, si è consumata in soli cinque minuti. Gli agenti hanno immobilizzato l’uomo a terra, premendo con gli scarponi sulla sua testa e sull’addome, un’azione che il tribunale ha definito come una chiara violazione dei diritti umani e delle norme dell’ordinamento penitenziario. Le condanne, emesse il 20 marzo scorso dal collegio presieduto dal giudice Antonio Diella, vanno da un massimo di 5 anni a un minimo di 6 mesi di reclusione. Cinque agenti sono stati accusati di tortura, mentre gli altri quattro rispondono di reati quali abuso d’ufficio, rifiuto di atti d’ufficio, violenza privata e falso ideologico. Le motivazioni della sentenza da poco depositata sottolineano con forza che “in carcere è vietato l’uso della forza per punire” e che la coercizione può essere impiegata solo per prevenire danni a persone o cose. I giudici hanno respinto le argomentazioni della difesa riguardo a un presunto comportamento violento del detenuto, evidenziando invece come l’aggressione sia avvenuta in assenza di reali situazioni di pericolo. Particolarmente grave è il fatto che gli agenti abbiano agito contro il detenuto “prima che gli altri detenuti venissero spostati” in seguito all’incendio, dimostrando una mancanza di priorità nella gestione dell’emergenza e un accanimento ingiustificato verso l’individuo. D’altronde, come viene evidenziato nella sentenza, anche le violenze perpetrate da uno degli agenti “paiono del tutto estranee ad un eventuale pericolo della presenza di una lametta: a tal riguardo è di inequivoco significato l’ultimo violento calcio sferrato al detenuto, che è a terra e gli dà le spalle, con uno scarto nel percorso che lo stesso agente stava facendo verso il fondo del corridoio, un calcio che si spiega solo ed esclusivamente con la decisione di fare male e non con il voler prevenire alcunché da parte di quest’ultimo”. Dalle riprese video emerge chiaramente che un gruppo di agenti scende dal primo piano insieme. Si evince che uno degli agenti in questione è presente sin dall’inizio dell’aggressione, caratterizzata da schiaffi, pugni e calci, che si svolge al piano terra. Questo individuo risulta parte integrante del gruppo che si chiude attorno al detenuto a terra per continuare il pestaggio. In un momento specifico, l’agente in questione allunga il piede verso il detenuto con l’evidente intento di colpirlo. Questo tentativo fallisce poiché un altro membro del gruppo si frappone tra il calcio sferrato e il corpo a terra della vittima. Questo dettaglio, catturato chiaramente dalle immagini, è decisivo e non lascia dubbi sul comportamento dell’agente, sulla sua consapevolezza di ciò che stava accadendo ai danni del detenuto, e sul fatto che il suo piede allungato verso la persona a terra non avesse affatto lo scopo di fermare un collega. Il ragionamento espresso nelle motivazioni è chiaro. Se l’intenzione dell’agente fosse stata quella di impedire le violenze dirette contro il detenuto, il suo comportamento avrebbe dovuto essere ben diverso. Lo scorrere delle immagini, ancora una volta determinante, non lascia spazio a interpretazioni alternative riguardo alle azioni e alle intenzioni dell’agente durante l’incidente. Interessante l’aspetto del degrado del carcere, che rispecchia quello del Paese. Nelle motivazioni stesse, il giudice, sottolineando che ciò non giustifica la tortura, evidenzia come quel carcere fosse gravemente sovraffollato, con carenza di organico e una percentuale significativa di detenuti affetti da problematiche psichiche, accompagnata dalla mancanza di formazione specifica per tutti gli operatori di Polizia penitenziaria interessati a trattare questa tipologia di detenuti. Il giudice però è stato chiaro: “Che se le circostanze di cui si è detto possono essere valutate al fine di comprendere quali possano essere state le ragioni dello scatenarsi della violenza nei confronti del detenuto, in alcun modo può affermarsi che tale violenza fosse in qualche modo “dovuta”, “giustificata” e quindi “legittima”. Milano. Mezz’ora d’aria, il disco (con videoclip) dei detenuti di Bollate di Marianna Gulli milanotoday.it, 22 giugno 2024 I ricavati del disco saranno devoluti a Cooperativa Articolo 3 per permettere ai detenuti di continuare a fare musica. Un disco ideato e realizzato all’interno delle mura del carcere. Si chiama ‘Mezz’ora d’aria’ ed è stato registrato all’interno dell’istituto di reclusione di Bollate. Il progetto è nato dalla collaborazione tra Rude Records, casa discografica milanese con sede ad Assago, e Cooperativa Articolo 3 che dentro al carcere lavora da anni. L’idea è arrivata dopo una giornata organizzata dall’etichetta dentro l’istituto, un momento di volontariato che si è trasformanto in un’iniziativa durata circa un anno. I ragazzi di Rude Records hanno incontrato i detenuti di Bollate e hanno insegnato loro tutto quello che c’è dietro la creazione di un album musicale. A partire dall’allestimento di una sala di registrazione. Nasce così ‘Mezz’ora d’aria’, disco rap al quale hanno partecipato una dozzina di detenuti del Quarto reparto. Un’attività che li hai visti coinvolti nel concreto, ha insegnato loro non solo un mestiere ma anche la disciplina e i sacrifici che esso richiede. Il disco racconta le esperienze e i sogni di chi ha partecipato, le diversità di ognuno di loro, la multiculturalità e, al contempo, le cose che hanno in comune. Tra i brani quello che sta più a cuore a tutti, come hanno spiegato nella puntata di Milano Racconta, è la ‘Possè canzone corale con l’intervento di tutti, proprio tutti i partecipanti. La supervisione e la direzione artistica sono a cura di Stefano Aschieri, di Rude Records, che ha descritto il progetto come “il più intenso e complesso” mai seguito. Ma anche soddisfacente. Proprio per la “Posse” è stato realizzato anche un videoclip, disponibile su YouTube, a cura di PandaHouse Production e registrato all’interno del carcere di Bollate. I ricavi del disco saranno devoluti a Cooperativa Articolo 3 per sostenere le attività dello studio di registrazione in favore dei detenuti che avranno la possibilità di fare musica anche a percorso concluso. “Tutto iniziò scrivendo a un condannato a morte” di Floriana Rullo Corriere di Torino, 22 giugno 2024 Era il 1998 e Daria Bignardi lavorava a Tempi Moderni su Italia 1. È in quel periodo, quasi trent’anni fa, che ha iniziato a occuparsi di carceri. “Credo di aver cominciato per caso - racconta - ma è una realtà che mi ha sempre incuriosita. A venticinque anni, mi scrivevo con un mio coetaneo condannato a morte negli Stati Uniti. Quando poi ho cominciato a fare l’autrice, è venuto naturale coinvolgere le carceri nel mio lavoro”. Oggi alle 11.30 è ospite di “Talk” a Novara, una due giorni di incontri dal vivo organizzati da Il Post con il patrocinio e il sostegno della Città di Novara e la Fondazione Circolo dei lettori presso gli spazi Nova. In dialogo con lei c’è Luca Misculin. Bignardi presenta anche il suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori, “Ogni prigione è un’isola”, in cui riporta diverse storie tra quelle che ha incrociato in questi anni in cui di carceri ne ha viste non poche. “San Vittore è quello che conosco meglio. Ma i femminili, come quelli di Pozzuoli e Tirana, sono i più strazianti. Molte delle storie che ho conosciuto, che sono tantissime, stanno nel libro”. Bignardi dice che, in realtà, già da tempo aveva iniziato a scrivere di prigioni, “un po’ di qua, un po’ di là, nei romanzi, sui giornali… era arrivato il momento di farci un libro con tutti quegli incontri”. Così, ha deciso di isolarsi a Linosa - che definisce la sua “nuova” isola, tra le Pelagie, dopo una vita trascorsa a frequentare, amare, abbandonare e ricercarne diverse - e di intrecciare, tra le pagine, le cose che le sono accadute mentre stava scrivendo. E proprio l’isola, pare anche essere un tema importante della scrittrice: “Credo di soffrire di claustrofilia, ovvero l’attrazione per i luoghi piccoli e remoti. Le isole, apparentemente, sono rassicuranti e identitarie. In realtà, possono diventare delle prigioni. Ma anche nelle prigioni, come nel resto della società, non ci sono buoni o cattivi assoluti, è tutto più sfumato e complesso di come ci piace raccontarci”. Li ha conosciuti bene i detenuti, Bignardi, ci sono stati tempi in cui esistevano anche i laboratori: per esempio scrive di quando sulla rivista Donna, che ha diretto per soli 24 numeri tanto era ardita (e bella, chi se la ricorda sa), con un certo Tino avevano lavorato a una rubrica televisiva che si chiamava “Al Fresco”. Tino era il “socio” di Renato Vallanzasca. Oggi, pare fantascienza. Anche alla luce dei recenti terribili fatti di cronaca, viene da domandarsi se le carceri possano recuperare o siano, purtroppo, solo delle isole tossiche: “La forza della disperazione e il caso a volte fanno miracoli. Qualcuno, pochi, si salvano, cambiano. Ma il sistema carcerario è tossico, come si vede dai suicidi che continuano a crescere. Urge ridurre il sovraffollamento. Minorenni e donne, che sono pochissimi, potrebbero stare in comunità. E poi bisogna mettere risorse nella formazione e nel lavoro per dare l’opportunità a chi entra di non tornare”. Nella comunità dei rapper di don Claudio Burgio: “La musica ti fa uscire i serpenti dalla pancia” di Marta Blumi Tripodi Corriere della Sera, 22 giugno 2024 Regola numero uno: mai chiedere per quale reato sei “dentro”. Regola numero due: costruirsi un futuro dopo la povertà e l’emarginazione. Ecco Kayros, dove la trap serve a salvare i ragazzi “maledetti” delle banlieue italiane. Ultimo ospite illustre, Baby Gang, ora ai domiciliari. Don Claudio Burgio: “Ha fatto un pezzo sulle botte prese al carcere minorile Beccaria e nessuno l’ha ascoltato. Però era tutto vero”. Nel cortile di Kayros, abbandonato in un angolo, c’è un armadio scassato. Qualcuno ci ha disegnato sopra un cuore spezzato. Nella metà di sinistra, poche parole in stampatello: felice, contento, buoni propositi, amore. In quella di destra: rabbia, delusione, odio, povertà. Sintetizzata in uno scarabocchio, la rappresentazione perfetta degli abitanti di questa comunità per minori alle porte di Milano, fondata da don Claudio Burgio, attuale cappellano del carcere Beccaria. Si tratta di una delle più articolate e innovative nel suo genere: una serie di appartamenti organizzati come famiglie allargate, in cui oltre 50 ospiti si impegnano in esperienze formative, borse lavoro, sport, attività ricreative. Non ci sono sbarre, ma tante biciclette, perché quasi tutti sono liberi di andare e venire, e scelgono ogni giorno di restare. Il motto ufficiale di Kayros è “non esistono ragazzi cattivi”: molti di loro provengono da un percorso di giustizia penale, altri sono stati segnalati dai servizi sociali o dal tribunale. Alcuni sono ormai piuttosto famosi, come il turbolento rapper Baby Gang, al secolo Zaccaria Mouhib, ventitreenne lecchese di origine marocchina, che ha vissuto qui per un lungo periodo e qui ha cominciato a fare musica, prima di raggiungere i vertici della classifica e tornare in carcere per una presunta violazione dei termini degli arresti domiciliari (ovvero per aver promosso il suo nuovo album su Instagram; ma i social sono parte integrante della sua attività lavorativa, obbietta il suo avvocato). Baby Gang non è l’unico rapper di casa Kayros. Dopo di lui c’è stato Sacky, nato a Milano da genitori nordafricani, e molti altri. Talmente tanti che negli anni è sorta l’idea di trasformare la trap - un discusso sottogenere dell’hip hop, che nelle periferie americane come nelle banlieue francesi è ormai la vera voce degli emarginati - in uno strumento educativo per aiutare i ragazzi a elaborare il loro vissuto e a cambiare direzione, al pari dello sport e della scuola. “Un reato è sempre la punta dell’iceberg, il nostro compito è capire perché viene commesso. La musica li aiuta a tirare fuori le loro emozioni” spiega don Claudio, perennemente di corsa tra un impegno e l’altro: le giornate qui possono essere molto frenetiche. Quello che nasceva come un semplice laboratorio musicale di introspezione e di analisi, si è trasformato in una vera e propria etichetta discografica, Kayros Music. “L’idea è arrivata quando abbiamo visto che per alcuni dei nostri ragazzi la trap è diventata un mestiere” continua don Claudio. “Non pensiamo solo agli artisti: ci piacerebbe formare videomaker, grafici, manager, organizzatori di eventi”. Naturalmente, però, dentro di sé ogni adolescente vorrebbe essere un frontman, e gli abitanti di Kayros non fanno eccezione. Soprattutto considerando che la posta in gioco ora è più alta: la multinazionale della discografia Universal Music, infatti, ha siglato una collaborazione con la comunità, impegnandosi ad aiutare a lanciare sul mercato gli ospiti più talentuosi. I giovani discografici di Universal che hanno affiancato i ragazzi di Kayros, inizialmente su base volontaria, dicono che li hanno trovati più motivati, sgobboni e originali di tanti artisti emergenti con cui hanno lavorato. Qualche mese fa, inoltre, il gruppo Sugar ha donato un piccolo studio di registrazione, che è senz’altro lo spazio più ambito e affollato di Kayros: da mattina a sera è un via vai di ragazzi che si alternano al microfono, scrivono i loro testi, ascoltano quelli degli altri, scambiano beate strofe come figurine. A seguirli, un gruppo di professionisti del settore attenti anche al lato umano: “La loro fiducia te la devi guadagnare, dopo tutto quello che hanno passato sono sempre sul chi vive” dice Dimax, direttore artistico della neonata etichetta. Il sistema è molto meritocratico: più un ragazzo è ritenuto pronto (musicalmente e mentalmente), più ore in studio ha a disposizione. “Per noi è fondamentale che siano ben avviati nel loro percorso educativo, perché quando si firma un contratto discografico bisogna essere precisi e professionali” sottolinea Matteo Gorelli, 32 anni, educatore che cura il laboratorio di scrittura rap. Matteo, come molti altri operatori di Kayros, ha parecchio in comune con gli utenti della comunità: si è laureato in scienze dell’educazione in carcere e sta finendo di scontare la sua condanna prestando servizio qui. È lui a spiegarci il perché, quando chiediamo a queste aspiranti star della trap di raccontare qualcosa di sé, si presentano con il loro nome d’arte e i trascorsi musicali, ma quasi nessuno menziona i motivi per cui si trova lì. “Tra i detenuti c’è una regola che impari subito: non chiedere perché sei dentro, o com’è stare dentro” spiega. “E poi, nella loro narrazione di artisti, percepiscono un arresto come un fattore secondario”. Tra i pochissimi che si sbottonano c’è Simo, 18 anni, di origine marocchina ma nato e cresciuto in zona San Siro. “Mia madre è detenuta, sono sei anni che giro da una comunità all’altra” ricorda. “Ma fin da bambino, la musica mi ha sempre fatto sentire a mio agio”. Il rap è il suo sogno, dice, ma si è trovato coinvolto in una rissa e lo hanno arrestato un mese dopo la pubblicazione del suo primo brano. “Purtroppo a volte gli amici fanno solo danni. Anche se vuoi tenerti fuori da certe situazioni, ci finisci in mezzo”. Fare canzoni è anche un incentivo a non andare in cerca di guai: “Prima ero sempre in giro in centro a Milano” racconta Commando, diciottenne bresciano con genitori senegalesi, a Kayros da un anno. “Ora sono molto più concentrato, ho uno scopo”. Molti dei ragazzi di Kayros hanno famiglie italianissime alle spalle. È il caso di Real Esse, neo diciottenne del quartiere di Baggio, arrivato in comunità due anni fa. “Ho iniziato a rappare per non tenermi tutto dentro: voglio che la gente mi ascolti” afferma. “Sono una persona molto chiusa, ho imparato a conoscermi leggendomi sul foglio in cui scrivevo i miei testi. Ho capito che i miei punti deboli potevano diventare la mia forza”. Altri, invece, vedono nel rap soprattutto un mezzo per ottenere un tenore di vita migliore. “So che sarà dura, mi dico sempre che dovrei cercare un piano B, ma non ce l’ho e non lo voglio” ammette il veneto Like, con tutto il candore dei suoi 16 anni. “Non voglio rincorrere lo stipendio a fine mese, farmi un culo così per un lavoro che non mi piace”. Il fatto che i diretti interessati non abbiano un piano B, però, non significa che non sia contemplato. “Cerchiamo di non svilire mai i loro sogni, anche quando sognano molto in grande” commenta Daniele Serriconi, 45 anni, uno degli educatori con più anzianità a Kayros. “Mettercela tutta fa parte del percorso di crescita, così come rialzarsi dopo un fallimento. E quando saranno pronti ad accogliere altre opportunità oltre alle luci della ribalta, ho già in mente cos’altro potrebbero fare: gli educatori qui da noi”. Anche lo sguardo di Davide Mesfun, 48 anni e una montagna di muscoli rivestiti da un grembiule, si accende quando parla dei “suoi” ragazzi. Entrato in carcere minorile a 15 anni, ha cominciato a lavorare a Kayros da detenuto: ora è libero da due mesi e si occupa di gestire la cucina e i corsi correlati. La sua realizzazione personale è arrivata attraverso il teatro, e vede nell’arte un veicolo di riscatto. “Il palcoscenico è l’unica cosa che permette a noi cresciuti in strada di destrutturare la spacconeria, di rompere il codice criminale e mostrarci fragili” osserva. E poi puntualizza ridendo: “Sia chiaro, per l’età e i gusti che ho, musicalmente la trap mi fa schifo. Ma per fortuna esiste. Aiuta i ragazzi a tirare fuori i serpenti che hanno nella pancia”. Sentimenti, disagi e traumi che strisciano verso la luce, e che spesso gli adulti si rifiutano di considerare in quanto troppo sgradevoli, a volte addirittura inconcepibili. “Da sempre il rap crea dibattito e pensiero critico, e fa emergere realtà che prima erano invisibili” concorda don Claudio Burgio. “Nei suoi primi testi, ad esempio, Baby Gang denunciava le botte prese quando era al Beccaria. Nessuno ha immaginato che le sue parole potessero essere vere: l’hanno demonizzato”. Nel marzo scorso un’inchiesta ha portato all’arresto di 13 agenti della polizia penitenziaria, con l’accusa di maltrattamenti e torture ai danni dei detenuti minorenni del carcere Beccaria. “Se solo le avessimo ascoltate davvero, quelle canzoni” sospira don Claudio. La grande truffa, perché verità e libertà sono beni negati in Italia a cura di Mario Lavìa Il Riformista, 22 giugno 2024 Paolo Guzzanti torna in libreria con una critica radicale al racconto tradizionale della storia di questo Paese. La magistratura, le inchieste, la politica: pagina dopo pagina sbriciola le nostre certezze. Più che di “controstoria”, termine un pochino ambiguo e tronfio, questa di Paolo Guzzanti è una critica radicale al racconto tradizionale della storia di questo Paese, persino certe volte demolitoria di cose che tutti consideriamo acquisite. Guzzanti è un giornalista - un grande giornalista - non è uno storico. Pertanto la consapevole sua “partigianeria” va tenuta presente: questo è un libro politico il cui senso è nello schierarsi contro la verità ufficiale. Argomentare “al contrario”, confutare, obiettare, polemizzare. Senza limiti diplomatici e senza infingimenti, fin dal titolo: “La grande truffa” (Piemme editori): “Questo è un libro sulle grandi truffe nel campo della giustizia e quindi è un libro pessimista, anche se non do la colpa ai magistrati e ad alcuni di loro farebbe bene una cura dimagrante dell’ego. I magistrati discendono da un concorso pubblico molto difficile e poi intraprendono una carriera protettissima, non perché ci sia lo scopo di difendere loro, che maneggiano un servizio delicatissimo e fondamentale come la giustizia, ma per difendere i cittadini, anzi le singole persone, esseri umani di tutte le taglie, che hanno bisogno di giustizia. Ed è un servizio che non funziona, non ha mai funzionato, non è solo questione di personale e di spesa pubblica che è carente per definizione”. Il “baco”, per Guzzanti, è lì: “Ancora si discute se la magistratura sia o non sia un potere. No, che non è un potere. Ma si comporta come se lo fosse perché intorno c’è il vuoto delle leggi che deriva dalla politica”. Se le cannonate al sistema giudiziario sono il cuore del libro, è tutta la vicenda italiana però ad essere marcia. Nel racconto ufficiale che se ne fa. Guzzanti in questa storia italiana c’è stato da protagonista, come tutti sanno. Repubblica, Stampa, Giornale, Rai, fino a questo Riformista di oggi, lui c’è sempre stato, col taccuino e la biro. Insomma, certe cose si può permettere di scriverle. Finanche su ciò che consideriamo inattaccabile, certi principi della Costituzione: “La Carta fondamentale è certamente antifascista ma non è liberale, perché non dichiara la libertà come il primo valore, o almeno fra i primi valori assoluti, e questa è una, non la sola, delle ragioni profonde per cui Montesquieu sarebbe inorridito. L’Italia non è mai stata la patria della giustizia protettrice della libertà degli innocenti e anzi in momenti diversi ha protetto e protegge associazioni politiche dei magistrati con tutte le conseguenze della ragion politica prevalente sulla difesa del singolo cittadino presunto innocente”. Anche per questo in Italia, sostiene Guzzanti, esiste la tortura. L’inchiesta di Mani pulite ne fu esempio forte. E allora se leggiamo la recente storia d’Italia con questa lente si arriva alla conclusione che il pool di Milano operò un colpo di Stato, che demolì prima Bettino Craxi e poco dopo diede un colpo durissimo a Silvio Berlusconi, che sono, in quanto vittime della malagiustizia meneghina, gli “eroi” guzzantiani, e le “vittime”, le note stonate del grande spartito musicale costruito sul patto tra Democrazia cristiana e Partito comunista (compresa la pratica corruttiva di entrambi): “Il filosovietismo italiano era molto forte e diffuso anche nella Democrazia Cristiana, nelle aree ostili alla presenza americana e anche alla cultura americana improntata al liberismo e all’individualismo. Quella parte dell’opinione pubblica, più larga, di quella del solo Partito comunista, costituiva e da allora ha sempre costituito quel “partito russo” che è emerso in molte occasioni: dall’ostilità alla commissione bicamerale d’inchiesta sugli elenchi degli agenti sovietici attivi in Italia rivelati dall’ex archivista del Kgb Vasilij Mitrokhin, fino a quella contro la politica di aiuti economici e militari all’Ucraina dopo l’invasione russa del febbraio 2022”. L’immortale “A Frà, che serve?”, o la incauta affermazione proprio di “Fra”, cioè il potente braccio destro di Andreotti Franco Evangelisti detta proprio a Guzzanti - “ahò, qua avemo rubato tutti” - immortalano un tratto essenziale della Prima Repubblica nella quale certo c’era anche tanto altro. Ma a Guzzanti questo “altro” non interessa, egli procede impietoso con la vicenda Moro, una truffa anche quella nel senso che il presidente della Dc, sostiene una testimonianza che Guzzanti fa propria, era già morto quando Francesco Cossiga si reca a via Caetani dove nella famosa Renault rossa c’è il cadavere dello statista con il sangue ancora fresco, segno che era stato ucciso proprio lì. Un mistero oggetto del lavoro della commissione Mitrokhin di cui Guzzanti, divenuto senatore di Forza Italia, fu il presidente di una commissione parlamentare il cui lavoro, lamenta il giornalista, verrà pressoché ignorato anche da parallele commissioni come quelle sul caso Moro: “Posso dire che è stata certamente un’operazione speciale di Kgb con Stasi e con la partecipazione dei migliori tiratori venezuelani o di altri Paesi, specialisti in interrogatori. Noi abbiamo fatto copie di queste carte su cui bisogna lavorare un po’ ma la cosa è certa: i brigatisti erano qui durante il rapimento di Moro e Carlos (terrorista ricercato in mezzo mondo-ndr) dirigeva tutto e poi si riuniva con gli uomini del Kgb e della Stasi”. Nel racconto non c’è un tono particolarmente indignato, ma piuttosto rassegnato: e tuttavia Paolo Guzzanti prova ancora a proporre le sue verità, ed è tipico per uno non arrendevole come lui. Riflettere su libertà e responsabilità oggi: la lezione di Antonio Rosmini di Markus Krienke L’Osservatore, 22 giugno 2024 “La persona è il diritto umano sussistente”: è una delle definizioni più note e sempre attuali di Antonio Rosmini che è risuonata varie volte anche durante il convegno “Diritto, libertà e pubblica felicità. Antonio Rosmini e la responsabilità civile oggi”, tenutosi dal 13 al 14 giugno, al Consolato italiano a Lugano e presso l’Università della Svizzera italiana. Dopo i saluti iniziali del Console Gabriele Meucci, dell’Amministratore apostolico Mons. Alain De Raemy, del Consigliere di Stato Gabriele De Rosa (in videoregistrazione), dei rappresentanti del Municipio Luigi Di Corato e della Facoltà di Teologia Gabriela Eisenring (in sostituzione del Rettore Prof. René Roux), nonché dei Direttori dei due Centri di Studi rosminiani a Stresa e Trento, Don Eduino Menestrina e Michele Nicoletti (in sostituzione di Paolo Marangon), e davanti ad un pubblico numeroso, 17 relatori hanno approfondito e attualizzato vari aspetti del pensiero di Rosmini, interrogandosi sulle varie dimensioni del suo pensiero personalistico e in riferimento ad altre istanze della cultura moderna da Locke a Kant ed Hegel, dal gesuita Taparelli d’Azeglio al politico Aldo Moro. Ricchi e lunghi dibattiti hanno accompagnato ogni sessione dei lavori. Un primo tema dibattuto è stato quello intorno al tema diritto e desiderio: Rosmini sottolinea l’importanza sia del primo che del secondo per la realizzazione della persona. Mentre il primo si assicura attraverso il rispetto reciproco dei cittadini nella società moderna, il soddisfacimento del secondo esige l’impegno e la responsabilità di ciascuno nella propria ricerca della felicità. Entrambi si richiamano però anche a vicenda: mentre il primo limita il secondo (non ogni desiderio è anche “lecito”), il secondo diventa la spinta alla realizzazione del primo. La persona, infatti, per Rosmini è il diritto e si qualifica come tale proprio in quanto desidera, e ciò significa che egli “considera l’individuo come amore”, come ha detto il giurista Giuseppe Capograssi: “il diritto diventa interiorità massimo rapporto positivo di vita, vera coesistenza, cioè godimento in comune degli stessi beni supremi dello spirito”. Certamente con questa visione spirituale e poetica dell’uomo nella società Rosmini non sorvola sulla realtà, che spesso non ci assomiglia per niente e in cui il diritto si realizza come coercizione e dura limitazione della libertà. Ciò che gli sta a cuore è senz’altro una visione della società che non riduca l’essere umano a semplice individuo, ma di pensarla come luogo di piena realizzazione della persona. A tale fine, egli contrasta tutti i modelli che vedeva diffusi nelle teorie moderne della società e che riducono la società a “massa” o “sciame”, e in questo modo negano l’invalicabile valore di ogni singolo. Si può pertanto senz’altro affermare che Rosmini è stato uno dei battaglieri più intransigenti per la libertà e il diritto di ogni singolo, come è stato sottolineato come secondo grande tema durante il convegno. Come terzo argomento, sul quale si sono concentrate molte relazioni, va rilevata la società civile e la logica della rappresentanza in essa. Rosmini analizza infatti il “legame sociale” che connette le persone e che rende necessaria un’amministrazione politica dalla quale la garanzia della giustizia e dei diritti di ogni singolo devono rimanere distinti. In questo modo, egli è uno dei primi pensatori moderni a reclamare una garanzia della giustizia che sia indipendente dalle forze maggioritarie di rappresentazione politica in una società. Per tale “Tribunale politico” tutti gli esseri umani dovrebbero avere uguale diritto di voto, e non solo quelli che hanno il diritto di eleggere il parlamento (per il quale Rosmini concepiva un diritto di voto censitario). Rosmini diventa così uno dei primi a proporre e formulare l’idea di “giustizia sociale” come criterio indispensabile per giudicare le società moderne. Un quarto elemento è costituito dal tema del mercato e della concorrenza. Rosmini valuta la concorrenza come un presupposto importante per la realizzazione della libertà ed un elemento che garantisce massimamente il progresso della società moderna: “d’una sì libera concorrenza di tutti a tutti i beni disoccupati, secondo l’attività loro propria ed il merito, vien anco la miglior condizione possibile economicomorale del massimo numero, per non dire di tutti i cittadini”. In tal modo Rosmini valorizza l’economia moderna come contributo positivo alla realizzazione di libertà e benessere per tutti e come indispensabile fattore per la realizzazione della “felicità pubblica”. Certamente, l’economia non va astratta dalla sua collocazione reale nella società, che è innanzitutto portatrice di tradizioni e valori, per cui Rosmini è stato oltremodo attento all’esigenza di garantire l’educazione e l’insegnamento ai giovani. Sta in questo il suo “capitale per il futuro” e certamente uno dei temi di massima attualità del suo pensiero. Così non è un caso se l’ordine fondato da lui - l’”Istituto della Carità” o “Rosminiani” - si è sempre impegnato nell’ambito educativo, anche sul territorio ticinese. “Solo dè grandi uomini possono formare degli altri grandi uomini” è stato infatti uno dei suoi moniti centrali per la società moderna che cercava sempre di salvare dalle tendenze dissolutrici. Intimamente connesso con il tema dell’educazione è per Rosmini la dimensione della religione che non a caso è stato il sesto tema delle discussioni durante il convegno: senza un riferimento assoluto dell’essere umano, egli era preoccupato che si perdesse l’equilibrio di tutte le dimensioni finora articolate. Non è il nostro destino odierno affrontare la sempre crescente mancanza di equilibrio tra diritto e concorrenza, libertà ed educazione, giustizia e felicità pubblica, senza poterci ancora richiamare ad una “forza religiosa” che garantisca in qualche modo tali equilibri? Quale “forza spirituale” Rosmini può trasmetterci oggi per affrontare questa sfida? Nella convinzione che “colui, che ama la libertà e l’uguaglianza, odia altrettanto l’uguaglianza falsa e la falsa libertà: vede con dolore e con raccapriccio che di questi beni si vogliono ritenere soltanto i nomi, distruggendone la cosa”, Rosmini parla infatti ancora a noi oggi e ci trasmette gli strumenti per impedire la perdita di libertà, uguaglianza e giustizia. Sta a noi la responsabilità di farne buon uso. La sfida per la libertà di Julian Assange, a fumetti di Virginia Tonfoni Il Manifesto, 22 giugno 2024 Quando il fumetto Julian Assange. WikiLeaks e la sfida per la libertà di informazione di Gianluca Costantini e Dario Morgante (in libreria per Altraeconomia) fu pubblicato in Italia per la prima nel 2011, Assange era ancora un uomo libero, ma come spiega l’illustratore e attivista nella prefazione “un anno dopo la sua storia cambiò radicalmente e si trovò costretto a cercare rifugio nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove chiese asilo politico nel giugno 2012 per sfuggire alle autorità britanniche che intendevano estradarlo in Svezia, dove era accusato di presunti reati sessuali”. Dal 2019 il giornalista è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh in attesa dell’esito del processo di estradizione verso gli Stati Uniti dove rischia una condanna fino a 175 anni di carcere; il 20 maggio scorso gli è stato riconosciuto dall’Alta Corte Britannica il diritto di ricorrere in appello contro l’ordine di estradizione. Ne abbiamo parlato con l’illustratore Costantini: “La ripubblicazione di questo libro è molto importante. Esiste un movimento di difesa per Assange in tutto il mondo grazie al quale sappiamo molte più cose e comprendiamo meglio l’incredibile portata delle rivelazioni di Wikileaks. Dopo una pandemia e con due grandi guerre alle porte, quella palestinese e quella ucraina, è il momento che i cittadini diventino più attivi, inclusi gli artisti. Il giornalismo continua ad affrontare attacchi molto forti da parte dei governi autoritari e non solo, la censura e la persecuzione sono fenomeni quotidiani, anche in Italia. Julian Assange è il capro espiatorio dei giornalisti scomodi che- svolgendo il proprio lavoro- rischiano la vita. La sua vicenda serve da monito verso tutti coloro che cercano la verità su cosa fanno le democrazie impegnate in processi bellici. Come contribuisce il danno arrecato da Wikileaks all’immagine degli Stati Uniti alla notorietà del caso? Nel 2010, il portale WikiLeaks, cofondato da Julian Assange, rende di pubblico dominio centinaia di migliaia di documenti diplomatici statunitensi etichettati come “confidenziali” o “segreti”. Emergono notizie su possibili crimini di guerra perpetrati dagli Stati Uniti durante le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Nel video Collateral Murder, le immagini sono inequivocabili: torture e uccisioni di civili, tra cui bambini e giornalisti. Julian Assange è un giornalista che ha ricevuto informazioni da una fonte, e per questo non dovrebbe essere perseguito. L’attacco nei suoi confronti mira a dare un esempio: una condanna pesante, un’estradizione, o anche solo i cinque anni trascorsi in un carcere di massima sicurezza, sono un forte deterrente per altri giornalisti che vogliano rivelare la verità, anche nel modo più corretto. Dire la verità sembra ormai vietato. Nel fumetto ci sono molte nuvole/visioni e mani che si muovono come a mimare la lingua dei segni, o ombre cinesi. Perché queste suggestioni grafiche? Il fumetto è punteggiato da molte scene di nuvole e paesaggi, rappresentanti i momenti in cui Julian pensa e riflette. Le ombre cinesi fungono da metafora per la coscienza di Assange; egli era consapevole di ciò che stava per fare. Questi rappresentano i suoi dubbi e le sue difficoltà. Spesso vediamo mani sui computer, mani che compiono azioni… tutto ciò che raccontiamo si è realizzato grazie alle mani. Il fumetto è un grande dispositivo intermediale: i riferimenti diretto ai frame di “Collateral murder”, e anche a quelli de “I giorni del Condor” sono un grande valore aggiunto che non funzionerebbe in un’illustrazione... Sono tutti riferimenti che hanno una successione temporale sono film e riprese, difficilmente potrebbero essere riprodotte con una illustrazione. Ridisegnare Collateral murder aiuta anche a capire meglio quello che succede in quel video. Ma anche I giorni del Condor e Wargames. Soprattutto si può far interagire queste sequenze con altre sequenze del fumetto, questo è proprio la bellezza di questa arte. C’è un legame tra fumetto underground e attività degli hacker, che sottolinea l’importanza di un’alternativa espressiva al pensiero dominante per la salute delle democrazie. Esiste ancora la controcultura? Ci unisce una data, il 1971, l’anno in cui Julian Assange nasceva in Australia, è lo stesso in cui siamo nati io e Dario. Potrebbe sembrare solo un gioco di numeri, ma non è così. Chi è nato in quegli anni ha vissuto il passaggio dal mondo analogico a quello digitale. Io e Dario siamo cresciuti nel panorama del fumetto underground italiano degli anni Novanta, dove la controcultura americana esercitava ancora un grande fascino e il fumetto si intrecciava con il cyberpunk e gli hacker erano personaggi quasi mitologici. Quando nel 2010 WikiLeaks iniziò a pubblicare i cablogrammi e il video Collateral Murder, sembrava che quel mondo romanzato stesse diventando realtà. Qualcuno della nostra stessa età aveva applicato l’esperienza underground al giornalismo. Ipnotizzato da ciò che stava facendo WikiLeaks e dal suo portavoce Assange, contattai Dario per chiedergli se volesse realizzare un libro su Assange e il mondo degli hacker. Accettò. La controcultura come la ricordiamo non esiste più; confinata ad un eterno stato di vintage, non riesce a rinnovarsi. Non esiste più un vero e proprio fumetto underground italiano; tutto viene assorbito dal sistema e trasformato in un prodotto commerciale e ciò che rimane è spesso naif e poco innovativo. Sono molto pessimista, forse anche io sono stato assimilato dal sistema. L’atteggiamento del giornalismo internazionale è ambiguo: c’è chi da un lato come Stefania Maurizi, da anni si batte per dimostrare l’innocenza di Assange; dall’altro c’è chi, dopo aver sfruttato i leaks mantiene pubblicamente posizioni neutre o tiepide sull’intera vicenda. Anche il cinema mainstream non aiuta. Fortunatamente esiste Amnesty International: come credi che arrivi all’opinione pubblica la figura di Assange oggi? Hai ragione, Assange è stato abbandonato dal giornalismo internazionale, incluso dai gruppi editoriali che avevano originariamente pubblicato i leak. Sono stati realizzati dei film di scarsa qualità che continuano a diffondere falsità sulla sua figura. Ma l’obiettivo di questi governi è proprio quello di screditare Assange e spaventare il mondo del giornalismo, e sembra che stiano riuscendo perfettamente. Come si posiziona un artivista come te nei contesti delle fragili democrazie contemporanee? Il mio lavoro può fungere da scudo o come un’altra forma di comunicazione; ho sempre difeso e protetto le persone che perdono la loro libertà in tutto il mondo. Ma ora la situazione si sta complicando: anche in Italia, questi diritti vengono erosi quotidianamente. La mia posizione nelle azioni artistiche deve rimanere ferma e decisa, perché vedo scenari drammatici per la libertà di espressione, compresa quella artistica. Soldatini oltre il buio, storie di bambini e bambine in armi di Giorgio Vincenzi Il Manifesto, 22 giugno 2024 Antonella Napoli, giornalista e autrice del libro “La luce oltre il buio”, Edizioni All Around, che racconta le storie di 34 bambini-soldato. L’infanzia rubata. Questa è la realtà dei bambini-soldato. “Soldatini che ascoltano ordini e non favole, che non sognano perché dormono poco e combattono tanto. Non possiamo restare indifferenti al destino di questi bambini. Quel “fato” al quale spesso si sottraggono fuggendo, magari provando a raggiungere l’Europa dove vita, salute, libertà, educazione, benessere, scuola, sicurezza ambiente, svago, famiglia e gioco sono diritti acquisti che riempiono l’infanzia di gioia e colori”, afferma Antonella Napoli, giornalista e scrittrice, esperta di questioni internazionali e africanista, insignita della Medaglia di rappresentanza della Presidenza della Repubblica per l’alto valore culturale delle sue opere e autrice del libro “La luce oltre il buio” (Edizioni All Around - euro 15) che racconta le storie di 34 bambini - soldato. Napoli, ci sono delle statistiche che ci dicono quanti sono i bambini-soldato e in quali stati è maggiormente diffuso questo fenomeno? Dal 2016 a oggi sono diciotto i Paesi nei quali, è stato documentato l’impiego di bambini-soldato in conflitti armati: Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen. Attualmente secondo le stime delle Nazioni Unite sarebbero almeno 350 mila i bambini-soldato nel mondo. Solo nel 2022, più di 7.740 bambini, alcuni di appena sei anni, sono stati reclutati e usati come soldati in tutto il mondo. Nel 2023, l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, segnala quasi 8.600 casi verificati di reclutamento di bambini ma sottolinea anche come questo fenomeno sia fortemente sottostimato. L’età di questi bambini e bambine va dagli 8-9 anni in su, ma in alcuni casi sono stati reclutati, come dicevo prima, anche quelli di soli sei anni. Nel libro racconta le storie di bambini africani strappati alle famiglie e costretti a impugnare le armi contro la loro volontà. Come avviene questo sfregio all’innocenza dei più piccoli? Esistono due vie per il coinvolgimento dei minori nei conflitti, l’arruolamento e il reclutamento. Con il primo si presuppone ci sia un’adesione volontaria, il secondo indica la forma di incorporamento obbligatorio, ovvero la chiamata, la selezione e l’avviamento forzato alle azioni militari. A prescindere dalle ragioni che spingono un minore all’arruolamento, in sostanza i due concetti coincidono e rappresentano una violazione dei diritti e uno sfregio all’innocenza dei bambini in egual misura. Alcuni vanno a morire e a uccidere ogni giorno, altri a immolarsi come kamikaze. Nessuno si innamorerà di una ballerina come nella favola del soldatino di piombo, ma alcuni si ritroveranno con una gamba sola pur essendo nati con entrambi gli arti. Questo succede anche alle bambine? Quasi la metà dei bambini-soldato censiti sono femmine. E sono vittime due volte perché oltre a essere costrette a combattere, uccidere, fare le spie vengono utilizzate anche come schiave sessuali. Nel libro lei si chiede “Ma perché si preferisce reclutare un minore, anche molto piccolo, rispetto a un adulto?”. Che risposta si è data, vista anche la sua esperienza in zone di guerra, specie dell’Africa? Coinvolgere i minori nei conflitti conviene. Un bambino ha meno esigenze e pretese di un adulto che pretende di essere pagato. Un bambino è più condizionabile ed è malleabile e suggestionabile. Insomma, reclutando ragazzini i gruppi armati risparmiano tanti soldi che possono utilizzare per comprare nuove armi. Le storie da lei raccontate sono 34. Una su tutte? Ognuna delle storie che ho raccontato, ponendola in prima persona, dal punto di vista del bambino, ha per me un valore speciale. Forse tra tutte, mi ha colpito particolarmente la storia di Grace, 15 anni, che per fortuna è stata salvata grazie a un programma di disarmo nell’area del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo. Grace mi ha raccontato di come le avessero imposto con la violenza e le droghe di uccidere chi aveva di fronte senza scrupoli, a tutti i costi, anche con metodi disumani. A un certo punto era diventata una macchina da guerra. Ha combattuto a lungo poi non ce l’ha fatta più. Un giorno ha incrociato un gruppo di militari dell’esercito e ha deciso di consegnarsi a loro. In generale come finiscono le storie di questi bambini e bambine? Il percorso di recupero, per chi riesce a fuggire dai gruppi armati, non sempre riesce a reintegrarli nella società. I bambini reclutati forzatamente subiscono la separazione dalle loro famiglie, violenza fisica e psicologica, compreso lo sfruttamento sessuale, nonché l’interruzione della loro istruzione, della loro infanzia. Che si siano uniti a un gruppo armato con la forza o per scelta, come combattente o svolgendo una funzione diversa, ogni storia è unica, ma le sofferenze affrontate dai bambini sono uguali per tutti. Le testimonianze che ho raccolto riflettono le esperienze dei bambini, le difficoltà che hanno affrontato e le loro speranze per una nuova vita che intraprendono grazie a chi li aiuta a ricominciare. Ma molti, forse la maggioranza, non ce la fa. Il libro è rivolto, come scrive, prima di tutto ai nostri ragazzi. Fino ad oggi che riscontro ha avuto da loro? I ragazzi che finora hanno partecipato alle presentazioni sono sempre stati molto attenti e hanno posto molte domande. Alcune insegnanti mi hanno chiesto di tenere incontri nelle scuole, presto lo farò, ne sono entusiasta, i ragazzi sono estremamente ricettivi e rappresentano la speranza per la diffusione di una consapevolezza maggiore nella società della gravità di questo fenomeno. Qual è la luce oltre il buio che lei vede? La scelta di raccontare in prima persona le storie di questi “soldatini” in carne e ossa, anche quelle più crude, scaturisce dalla convinzione che nulla più delle loro parole possa esprimere l’orrore che hanno vissuto ma anche le loro speranze. Le testimonianze di chi ce la fa sono “la luce oltre il buio”. Sono la dimostrazione che uscire da quell’inferno è possibile. Per questo l’impegno della comunità internazionale deve essere più ampio che mai.