Slitta il Decreto carceri, Ostellari: “Ci sarà anche l’albo delle Comunità” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 giugno 2024 “Oggi (ieri, ndr) il Decreto legge sulla liberazione anticipata arriverà in Consiglio dei ministri”: il guardasigilli Carlo Nordio ne aveva parlato ieri in un’intervista al Sole 24 Ore. Alle 13 però arriva l’Ordine del giorno e non c’è traccia del provvedimento. All’ultimo momento sono cambiati i piani. Fonti ministeriali hanno spiegato che il problema è stato di natura strettamente tecnica: mancava il completamento di una parte dell’articolato. È per questo, dunque, che il decreto è stato espunto all’ultimo momento dal “programma” della seduta a Palazzo Chigi, comunicato alla stampa con un certo ritardo rispetto al solito. Nel primo pomeriggio, a precisare ulteriormente la questione ha pensato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che proprio all’evento organizzato la scorsa settimana dal Dubbio sul carcere aveva effettivamente anticipato che il provvedimento sarebbe arrivato ma che non si era certi della tempistica: “Migliorare il sistema dell’esecuzione penale è una delle nostre priorità - ha detto ieri l’esponente della Lega - per questo, in accordo con il ministro Carlo Nordio, abbiamo scelto di arricchire il testo del decreto legge sulle carceri, inserendo anche delle disposizioni specifiche in materia di strutture residenziali per il reinserimento dei detenuti e quindi di rimandarne la presentazione in Consiglio dei ministri. Questa operazione tuttavia permetterà di anticipare di 60 giorni la predisposizione degli atti necessari all’istituzione dell’albo nazionale delle Comunità per lavoranti”. Quest’ultimo punto è dunque quello che ha comportato il rinvio: si vuole arrivare al prossimo Cdm con l’elenco della Comunità disponibili. Il progetto, si è letto ancora nella nota diffusa da Ostellari, “consentirà ai reclusi, con un fine pena inferiore ai due anni e in mancanza di condizioni ostative, di scontare l’ultima parte della condanna lavorando e formandosi presso una struttura dotata di tutte le garanzie di sicurezza e inviolabilità, che sarà individuata fra quelle iscritte al costituendo albo. L’obiettivo è ridurre la pressione sugli istituti penitenziari, garantire dignità agli utenti e favorire la loro rieducazione. Il testo, in via di definizione, sarà presentato al Consiglio dei ministri in tempi brevissimi”. Il Decreto che non c'è. Lo scivolone di Nordio, mentre arrivano allarmi da tutte le carceri di Federica Olivo huffingtonpost.it, 21 giugno 2024 Il Guardasigilli annuncia il decreto Carceri nel Consiglio dei ministri di ieri, ma la norma slitta. Perplesso chi segue il dossier: “Mancano almeno due settimane prima che sia pronto”. Poi la pezza: “Rinvio per arricchire il testo”. L'annuncio fatto dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sulle colonne del Sole 24 Ore, aveva quasi scosso la rassegnazione degli addetti ai lavori. “Pensavamo di sognare”, commenta, con ironia, Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Polizia penitenziaria. Peccato che l'annuncio di Nordio fosse infondato: come ci confermano più fonti, nessun decreto sulla giustizia, tantomeno sulle carceri, sarà sul tavolo dei ministri. Né oggi né, a quanto apprendiamo, la prossima settimana. Un provvedimento è certamente all'orizzonte. Ci sta lavorando in particolare il sottosegretario Andrea Ostellari, che ha la delega ai detenuti, e prevede delle misure per rendere. Ma, ci spiegano fonti ben informate, “non arriverà prima di due settimane”. Alla base di questo ritardo non ci sarebbe un problema di merito: a patto che non ci siano sconti di pena, le pur diverse anime della maggioranza concordano sul fatto che per arginare il sovraffollamento qualcosa bisognerà inventarsi. Semplicemente, però, il decreto - annunciato da quasi un anno ormai - non è ancora pronto. “Abbiamo deciso con il ministro di rinviarlo - sostiene Ostellari - per arricchire il testo, inserendo anche delle disposizioni specifiche in materia di strutture residenziali per il reinserimento dei detenuti. Il progetto consentirà ai reclusi, con un fine pena inferiore ai due anni e in mancanza di condizioni ostative, di scontare l'ultima parte della condanna lavorando e formandosi presso una struttura dotata di tutte le garanzie di sicurezza e inviolabilità, che sarà individuata fra quelle iscritte al costituendo albo”. Eppure Nordio l'annuncio lo aveva fatto poche ore fa, in un'intervista concordata, non in una dichiarazione estemporanea. Non è ancora chiarissimo cosa abbia causato questo cortocircuito che ha portato il ministro ad annunciare una norma che non c'è. Quel che è certo è che quell'intervista era stata letta con perplessità e stupore anche da chi, nel ministero, sta effettivamente lavorando a questo dossier. E che sapeva benissimo che quel decreto in Consiglio dei ministri oggi non sarebbe potuto arrivare. Nordio non sa quello che succede nel suo ministero? Qualcuno lo insinua, non risparmiando battute velenose, la nota di Ostellari sembra invece voler fugare questa testi. Quello che sembra evidente, però, è che in una via Arenula fatta di tanti compartimenti stagni le comunicazioni tra una stanza e l’altra non sono esattamente fluide. Il pasticcio ormai si è consumato. E fa sorridere: “Evidentemente il Guardasigilli è stato frainteso: ha detto ‘piano’ (riferendosi alle carceri, ndr), ma voleva dire 'lento'! O, forse, gli addormentati non eravamo noi”, commenta ancora De Fazio. I fatti, però, sono seri. Perché mentre non viene presa nessuna decisione concreta, un giorno sì e l'altro pure nei penitenziari si acutizza qualche problema. L'ultima notizia arriva dal carcere minorile di Torino: a fronte di una capienza di 46 posti, denunciano i sindacati, sono presenti 60 giovani detenuti. Sembrano numeri piccoli, sono numeri grandi se si considera che negli istituti per minori da anni entravano solo dei casi limite. Le norme del governo Meloni hanno sovvertito questa tendenza. Nelle carceri per adulti la situazione, da anni ormai, non accenna a migliorare. I suicidi in cella quest’anno sono stati più di quaranta. Sono gli stessi numeri del 2022, quando a fine anno la conta restituiva 85 detenuti che si erano tolti la vita dietro le sbarre. Per arginare questo dramma è stato finanziato un fondo per gli psicologi. Poco altro è all'orizzonte, se non un aumento irrisorio di telefonate - da 6 a 4 al mese - per i detenuti. Modifica, questa, che sarà contenuta nell'annunciato decreto. L'elenco dei problemi segnalati dai penitenziari è lungo, ma bastano gli ultimi episodi in ordine cronologico a rendere l’idea. Ieri la garante dei detenuti della Sardegna, Irene Testa, ha lanciato l'allarme sul numero, sempre più alto, di detenuti che avrebbero bisogno di assistenza psichiatrica. Un fenomeno, questo, che riguarda anche il resto d'Italia. Il sovraffollamento è un problema che riguarda tutti gli istituti, da Nord a Sud: a livello nazionale, nelle nostre prigioni sono recluse 61500 persone. Esattamente diecimila in più rispetto alla capienza regolamentare. La situazione peggiore è a Poggio Reale, a Napoli, il carcere più affollato d'Europa, ma non mancano altri casi: nel carcere romano di Regina Coeli, ad esempio, pochi giorni fa c’erano il doppio dei detenuti rispetto ai posti previsti. Il sovraffollamento, come ha ammesso rispondendo ad HuffPost anche il sottosegretario Andrea Delmastro, è tra le prime cause di malessere che generano rivolte. Le ultime, in ordine di tempo, si sono registrate nel carcere di Benevento, a Civitavecchia e nel penitenziario minorile di Milano, il Beccaria. Il sovraffollamento causa proteste, ma anche problemi sanitari. A Bolzano, ad esempio, pochi mesi fa, il personale competente ha fatto molta fatica a contenere un'epidemia di scabbia. I sindacati di Polizia penitenziaria, inoltre, denunciano problemi alla sicurezza degli agenti: a Paola, in Calabria, tanto per citare l'ultimo episodio, un agente è stato aggredito da un detenuto ed è stato soccorso da un altro recluso. Episodi, questi, all'ordine del giorno. Mentre il personale si arrabatta come può. E il governo cincischia. Arrivando a fare una figuraccia come quella di oggi. Un altro suicidio: un ventenne si è impiccato a Novara di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2024 Aspettando il decreto carcere non si ferma la strage nei penitenziari italiani. Ieri il numero dei suicidi in cella è arrivato a 45 (46 se si comprende il migrante che si è impiccato al Cpr di Ponte Galeria). Questa volta è accaduto a Novara dove ieri mattina, intorno alle 11.30, gli agenti della penitenziaria hanno trovato un detenuto, di appena 20 anni, morto impiccato nella sua cella. Subito è scattato l’allarme, ma per il giovane non c’era più nulla da fare. Era in carcere per reati di droga e contro il patrimonio. Non è nemmeno certo che fosse algerino. Il garante del Piemonte Bruno Mellano ha spiegato all’Agi che al momento la sua nazionalità è dubbia “perché non sono stati trovati suoi familiari o conoscenti” in grado di confermare le sue origini. Ancora non siamo a metà del 2004, la cifra dei suicidi è impressionante e di superare, entro la fine dell’anno, quella record del 2022 con 85 persone che si sono tolte la vita in carcere e di 70 del 2023. Va inoltre sottolineata anche la forte relazione tra tassi di sovraffollamento e numero di eventi critici: infatti, dei dieci penitenziari con il maggior numero di suicidi, ben nove presentano tassi di affollamento effettivo superiori al 130%. In tutta Italia, secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) diffusi dal ministero della Giustizia, il numero di detenuti presenti alla data del 31 maggio 2024 risulta pari a 61.547: sono cresciuti di 1.381 unità dall'inizio dell'anno (+ 2,3%). Un trend confermato anche dallo studio Istat “Noi Italia- 100 statistiche per capire il Paese”, secondo il quale alla fine del 2023, i detenuti presenti nelle strutture penitenziarie per adulti erano oltre 60mila, aumentati del 7,1% rispetto all'anno precedente. La quasi totalità dei detenuti è di sesso maschile (95,8%) mentre gli stranieri sono il 31,4% del totale dei detenuti. A fronte di una capienza degli istituti penitenziari immutata (- 0,3%), tra il 2022 e il 2023, l'aumento del numero dei detenuti presenti ha comportato un aumento dell'indice di affollamento delle carceri, che è passato da 109,5 detenuti per cento posti regolamentari nel 2022, a 117,6 nel 2023. Alla fine del 2023 il 69,3% degli istituti penitenziari (131 su 189) è risultato in condizioni di sovraffollamento. Negli istituti sovraffollati è ospitato l'80,2% delle persone detenute in Italia. A livello regionale, il sovraffollamento maggiore si riscontra in Puglia e in Lombardia (rispettivamente 151,8 e 141,8 detenuti per 100 posti letto regolamentari. Tre mesi fa sul tema, il Presidente della Repubblica aveva invitato la classe politica italiana ad adottare con urgenza misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiane, causato principalmente dal sovraffollamento, dalla carenza del personale e dall'inefficienza dell'assistenza sanitaria intramuraria. Ma il governo, per ora, non ha intrapreso nessuna iniziativa. È anche saltato il decreto legge contro l'emergenza carceri che ieri doveva avere il via libera dal Consiglio dei ministri. Non avrebbe attenuato l'emergenza carceri, ma avrebbe almeno puntato sull'aumento dei colloqui telefonici, aspetto fondamentale per garantire l'effettività. Ma le misure che risolvono l'emergenza ricordata dal Presidente Mattarella sono ben altre, e dove ancora non è chiaro cosa intenda fare il Governo Meloni. Le proposte, come ha ricordato due giorni fa in aula il deputato Riccardo Magi di +Europa, ci sono: c'è la proposta a prima firma del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti (assieme a Nessuno Tocchi Caino) sulla liberazione anticipata speciale e la proposta sulle case di reinserimento sociale presentata da + Europa. Sono proposte entrambe sottoscritte anche dal Partito Democratico e Alleanza Verdi e Sinistra. Quello che finora sappiamo è che per lunedì prossimo, 24 giugno, la proposta Giachetti è stata calendarizzata all'Assemblea di Montecitorio. Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino ha deciso di riprendere quel giorno la sua azione nonviolenta: “Sarò in sciopero totale della fame e della sete a Montecitorio per affermare verità e giustizia contro chi umilia la comunità penitenziaria, il Presidente della Repubblica, i Garanti dei detenuti, le Camere penali, le associazioni che si occupano di detenuti. Spes contra Spem”. Chissà se la maggioranza riuscirà a dare uno smacco ai tanti suoi stessi detrattori che, per contrastare la proposta sulla liberazione anticipata speciale, parlano di indulto. Quando, in realtà, non ha nulla a che fare con esso ed è una chiara mistificazione. Le azioni di buon senso, come quella di contrastare per davvero il sovraffollamento, a lungo termine vengono sempre premiate. I suicidi in carcere e i disturbi psichici di Mario Iannucci, Gemma Brandi* e Angelo Parolari** L'Adige, 21 giugno 2024 Ieri, da diversi quotidiani nazionali, abbiamo appreso che, nelle carceri italiane, si sono suicidati quattro detenuti in poco più di 24 ore. L’ultimo è riuscito ad impiccarsi nel “reparto di assistenza intensificata” del carcere di Bancali a Sassari. Gli altri tre si sono tolti la vita ad Ariano Irpino, a Biella e a Teramo. Qualsiasi operatore sanitario che intendesse sorvolare sul carattere drammatico di tali notizie, dimostrerebbe un livello preoccupante di inciviltà e di cinismo. 44 nei primi 168 giorni dell’anno vuol dire che, se continuerà questo trend, avremo 95 suicidi in carcere in fondo all’anno: sarebbe un ulteriore record rispetto a quello precedente del 2022, quando si registrarono 85 suicidi. Cosa significa 95 suicidi su un numero di detenuti che è all’incirca di 61.000 soggetti? Significa che il numero di suicidi per 100.000 detenuti (cosiddetto tasso grezzo di suicidi) sarebbe di circa 155. Questo numero di suicidi sarebbe di circa 15 volte (quindici volte!) superiori al numero delle persone che nel 2022 si sono suicidate in Italia ogni 100.000 abitanti (9,9 persone). Nelle carceri italiane, cioè, le persone si suicidano 15 volte più che all’esterno. Negli anni passati si è data la colpa al sovraffollamento carcerario (14.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare). Si è inoltre segnalata la carenza del personale addetto alla sorveglianza (18.000 agenti in meno rispetto alla prevista dotazione). Tuttavia è ormai ineludibile la constatazione che l’elevatissimo numero dei suicidi in carcere non può che dipendere da alcuni fattori strettamente connessi: intanto l’esorbitante numero di detenuti che presentano disturbi psichici gravi o gravissimi, detenuti che soffrono spesso di una “doppia diagnosi” (dipendenza da sostanze e disturbi psichici insieme, con la dipendenza da sostanze che è di per sé un grave disturbo mentale); la percentuale elevatissima di detenuti stranieri; la totale inadeguatezza della organizzazione socio-sanitaria nell’affrontare un carico così pesante ed esteso di disturbi mentali; la crescente indifferenza della società civile alla risposta concentrazionaria che la società sta dando al disagio psico-sociale, che fa il pari con la quasi totale indifferenza agli attuali problemi penitenziari. Il fatto (poiché di un fatto si tratta, documentato da tutte le ricerche epidemiologiche serie) che i disturbi mentali, tossicodipendenze comprese, rappresentino ormai da diversi anni il principale problema all’interno dei luoghi di pena, non può e non deve più essere ignorato. Desta vergogna e preoccupazione la circostanza che ai disturbi psichici gravi, specie quelli che affliggono pazienti not compliant, l’organizzazione pubblica della salute mentale e delle dipendenze non riesca che a dare una risposta detentiva. Con il carcere che, per dirla con le parole recentemente usate da una brava poliziotta penitenziaria, “si sta trasformando in un grande OPG”. E se gli OPG erano, per dirla col Presidente Napolitano, “orrori indegni di un Paese appena civile”, le carceri si sono incamminate da diversi anni nella stessa direzione. Le carceri che si trovano spesso a detenere folli-rei per i quali i Giudici hanno già ordinato, con sentenza/ordinanza, il “ricovero” nelle REMS, dove però non c’è posto. Come se nel carcere si potessero garantire cure adeguate per i moltissimi che presentano disturbi psichici seri o serissimi. Eppure un gran numero di psichiatri -specie fra quelli che in carcere non hanno mai lavorato- continuano a proporre l’abrogazione delle norme di legge che riconoscono la non imputabilità (e la non punibilità attraverso il carcere) di coloro che hanno commesso un reato per “vizio totale o parziale di mente”: si tratta degli psichiatri dei comitati che un tempo si chiamavano “Stop OPG” e che ora si chiamano “Stop REMS”. Ma sì: le REMS italiane attuali, che ospitano solo 700 malati psichici autori di reato mentre altri 700 non possono entrarvi perché i posti sono insufficienti, andrebbero abolite e anche i gravi malati di mente, come tutti gli altri cittadini, dovrebbero essere condannati e, se colpevoli, dovrebbero andare in carcere! In un carcere già stracolmo di sofferenza psichica grave, una sofferenza tanto più difficile da curare perché riguarda spesso persone di un’altra lingua e di altra cultura. La psichiatria, ormai moribonda, si dimentica delle sue lontane ma vitalissime origini, quando Chiarugi, Esquirol, Pinel e Tuke andarono nelle galere e affermarono con forza che i tanti rei-folli detenuti dovevano essere curati e non semplicemente puniti. Agli psichiatri dei comitati “Stop REMS” fanno da controcanto gli psichiatri che sostengono che il suicidio non è prevedibile. Niente di più falso. Le pulsioni autodistruttive sono parte integrante di molti disturbi psichici gravi, specie di quelli nei quali è in gioco anche l’abuso o la dipendenza da sostanze; specie di quei disturbi che colpiscono pazienti che non hanno una condiscendenza alle cure. Ma la ‘Salute Mentalè del nostro Paese rifugge in genere dal prendersi cura di questi difficili pazienti, abbandonandoli a sé stessi o al carcere. Fateci caso: è questa Salute Mentale moribonda che continua a reclamare maggiori risorse. Per ottenere maggiori risorse, però, occorre anche dimostrare di essere in grado di spenderle bene, queste risorse. Una Salute Mentale che si sottrae alla responsabilità della cura dei pazienti più difficili, lasciandoli in balia di un sistema penitenziario assolutamente inadatto alla cura di tali persone, è davvero molto difficile che dimostri di essere in grado di utilizzare adeguatamente le risorse economiche che reclama. *Psichiatri psicoanalisti **Presidente Comunità Terapeutica “Voce Amica” Le Rems devono restare nell’ambito dei Dsm e legate ai territori di Pietro Pellegrini* quotidianosanita.it, 21 giugno 2024 Da notizie di stampa si apprende che il governo sarebbe in procinto di adottare un provvedimento sulle REMS. Qualche tempo fa nella prima bozza del provvedimento sulle liste di attesa vi era lo stanziamento di 40 milioni di Euro per la realizzazione di nuove REMS o la manutenzione di quelle esistenti. Disposizione poi scomparsa nelle versioni approvate. Una decisione opportuna visto che ogni proposta dovrebbe essere sostenuta da un’analisi e da un piano complessivo relativo al tema delle persone autrici di reato, prosciolte o condannate. Per questo è fondamentale anche un accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Quello siglato il 30 novembre 2022 è ancora in attesa di attuazione: Punti unici regionali (PUR), gestione liste di attesa con nuovi criteri dando priorità ai detenuti “titulo” e ai reati gravi, protocolli e sostegno dei DSM sono essenziali per migliorare la funzionalità dell'intero sistema. È indispensabile un'analisi delle situazioni regionali per comprendere lo stato di attuazione della legge 81/2014 ed intervenire selettivamente. Infatti, come noto, la lista di attesa è per oltre l'80% concentrata in cinque regioni. Aprire nuove REMS implica tempi di realizzazione e costi elevati stimabili in 8-10 milioni di Euro per ogni REMS, oltre a quelli di gestione intorno ai 3 milioni di Euro/anno. Quindi, in una situazione di carenza di risorse, si tratta di fare scelte con molta ponderazione e se non cambia il modello di funzionamento, il solo aumento dei posti letto porta alla loro rapida occupazione e il problema permane. Non credo sarebbe una soluzione aumentare le REMS “nazionali” come Calice al Cornoviglio (SP) venendo meno ai principi di territorialità e rendendo così ancora più difficile la cura presso i DSM e quindi le dimissioni e il turnover. Le “ristrutturazioni” non devono portare a superare il numero di 20 ospiti per REMS, né a “forzare” il numero chiuso. Anche la creazione di alcune REMS ad “alta sicurezza” o “specializzate” rischia di creare un vallo con i Dipartimenti di Salute Mentale con conseguenti difficoltà nelle prese in cura, nelle dimissioni in una spirale custodiale fino ai c.d. “ergastoli bianchi” come in OPG. In passato è stato spesso posto il tema dell'appropriatezza degli accessi in REMS in particolare di soggetti con psicopatia, disturbi gravi della personalità, uso di sostanze. Il fenomeno si è ampliato con la sentenza 9163/2005 (Raso) della Corte di Cassazione. La proposta di legge 950/2023 a firma dell'on. Antoniozzi intende limitare alle sole persone con psicosi la possibilità di riconoscere l'infermità mentale. Non è questa la sede per un'approfondita analisi della proposta ma porsi il tema dell'imputabilità è importante specie se ciò fosse associato a misure volte al superamento del doppio binario (pdl 1.119 /2023 Magi). Stando alle poche notizie di stampa non è dato a sapersi se e come si tradurrà operativamente la proposta Angelozzi ma è auspicabile che venga previsto l'intero percorso per le persone con disturbi gravi della personalità e psicopatia che, inappropriate nelle REMS, non possono essere lasciate al solo sistema detentivo, alle Articolazioni Tutela Salute Mentale e alla sanità negli Istituti di Pena già in grave difficoltà. Un ambito nel quale potrebbero essere attuate azioni di miglioramento e avviate sperimentazioni e sviluppati modelli alternativi. Sempre in tema di appropriatezza potrebbe essere affrontato il problema delle misure di sicurezza detentive provvisorie, abolendole o limitandole fortemente, in quanto rappresentano buona parte dei pazienti in lista di attesa e il 35% dei pazienti in REMS. A questo si aggiunge la possibilità di superare le misure di sicurezza detentive ex art. 219 c.p. che nel nuovo sistema non hanno ragione di essere. La priorità è sostenere i DSM in quanto la maggior parte di pazienti con misure giudiziarie è nel territorio e circa il 70% ospite di Residenze. Le REMS devono restare nell'ambito dei DSM e legate ai territori e per migliorare le dimissioni e il turnover devono essere affrontati i temi delle risorse economiche e di personale dei DSM, compresa la “posizione di garanzia”. Al contempo, mediante una presa in carico multi istituzionale, vanno risolti i problemi sociali, come l’assenza di documenti, lavoro, reddito e casa, essendo crescente la quota di persone sole senza diritti, povere e abbandonate. Il tema è delicato ed andrebbe discusso pubblicamente. *Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma Governo doubleface: piange il bracciante agricolo, ignora i suicidi in carcere di Claudia Fusani notizie.tiscali.it, 21 giugno 2024 Nordio aveva annunciato ieri mattina il pacchetto scuota carceri per alleggerire la pressione sui penitenziari dove sono ormai 46 i suicidi e 56 le “altre” morti. Ma il pacchetto non è mai arrivato in Consiglio dei ministri. Stop di Lega e Fratelli d’Italia. Sulla tragedia del bracciante agricolo indiano lasciato morire a Latina, scoppia anche un caso Rai. Pietà per i morti di cui tutti possono conoscere la storia. Rinvii e indifferenza per i morituri ristretti in celle bollenti, affollate, senza più speranza, ridotti a statistiche e percentuali. Sono le due facce dello stesso governo. Ieri pomeriggio Giorgia Meloni ha iniziato il Consiglio dei ministri denunciando l’orrore per la morte di Satnam Singh, il bracciante agricolo di 31 anni che, impiegato a nero in un’azienda agricola nella campagna di Latina, si è tagliato un braccio e ferito le gambe con un macchinario. Il datore di lavoro ha pensato di cavarsela abbandonandolo nel retro del capanno dove abitava. Senza chiedere soccorsi. Lo hanno trovato due ragazzi che hanno chiamato l’ambulanza. Un giorno di agonia al San Camillo di Roma e poi la morte. Sitnam era entrato in Italia con un permesso di soggiorno/lavoro di nove mesi. Alla scadenza non è più stato rinnovato in modo definito. Sembra una storia delle piantagioni del sud America ai tempi della schiavitù. È accaduto invece lunedì, a cento km da Roma. Il datore di lavoro, di cui si conosce nome e cognome, si è lamentato dicendo che “l’indiano ha voluto fare di testa sua”. Ecco perché ha ordinato ad altri braccianti di portarlo a casa così com’era: era un lavoratore a nero e non poteva essere assistito sul posto di lavoro. Sdegno sconforto promesse, la solita trafila. Ma nulla cambia. Come non cambia nulla per il sovraffollamento carcerario. Ieri doveva essere la volta buona. Dopo settimane di annunci, con il bollettino dei suicidi che si aggiorna in continuazione (siamo a 46 suicidi in cella dall’inizio dell’anno e altri 56 morti nelle carceri con cause da accertare, numeri spaventosi), il ministro Nordio ha spiegato che sarebbe arrivato il decreto nel Cdm del pomeriggio. Ma nel pomeriggio, nella riunione dei ministri, di quel piano svuota carceri non s’è vista traccia. Il governo ha smentito il suo ministro. Grave perché accade ad un tecnico circondato da forze politiche che piuttosto che leggere oggi un titolo con “arriva lo svuota carceri” e magari “assomiglia ad un indulto”, hanno preferito fare finita di nulla. Peggio: hanno accampato scuse. Una pietas a senso alternato. La pietà e l’indifferenza - La premier ha fatto finita di nulla sui suicidi in carcere. Si è sdegnata, invece, per il trentenne indiano. “Sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano, e mi auguro che questa barbarie venga duramente punita” ha detto passando la parola al ministro Calderone che ha spiegato cosa è stato fatto in questi 20 mesi (un paio di nuovi reati giusto per aumentare la popolazione carceraria).Il ministro Lollobrigida ha detto che sono aumentati i controlli e che confida molto sui flussi di immigrazione regolare. Il 21 giugno si vedranno tutti insieme al ministero per una sacrosanta riunione operativa. Intanto Renzo Lovato, datore di lavoro di Sitnam, è indagato (anche con il figlio che ha fisicamente trasportato il corpo di Sitnam verso casa senza chiamare i soccorsi) per lesioni, omicidio colposo, caporalato. Da capire se abbandonare una persona con un braccio tranciato da una macchina avvolgiplastica e anche le gambe non erano messe bene, senza sensi e in piena emorragia, possa essere rubricato come omicidio colposo. Intanto però il signor Lovato ha fatto una “bella” intervista al Tg1 in cui ha spiegato che si è trattato di una “leggerezza”. Ha chiosato “purtroppo”. “Ci dispiace perché è morto un ragazzo ma noi lo avevano avvisato di non avvicinarsi al macchinario e lui ha fatto di testa sua”. Non una parola, neppure dall’intervistatore, sul fatto che Sitnam fosse un bracciante agricolo a nero, senza tutele nè formazione, e che proprio per questo è stato abbandonato senza soccorsi. Se fosse stato portato subito all’ospedale sarebbe stato salvato. Con possibilità di recupero dell’arto. Il fronte di denuncia per le opposizioni è doppio: il lavoro a nero; l’informazione Rai. Sabato la grande manifestazione cui prenderà parte la segretaria del Pd Elly Schlein. L’emergenza carceri - “Atti disumani non degni del popolo italiano” ha detto la premier. Come si vuol definire, allora, tollerare un sovraffollamento carcerario con punte del 152% e una media di 120%? Una condizione che ha già provocato 46 suicidi nelle celle dall’inizio dell’anno e altri 56 morti in carcere per altre cause. Di questo, pur essendo da mesi un’emergenza che conosce la sua massima criticità nei mesi estivi e caldi, non è invece fatto cenno nel Consiglio dei ministri dove invece era atteso il pacchetto carceri. Lo stesso ministro Nordio ne aveva parlato ieri mattina intervistato sul Sole 24 ore. “Il decreto legge che andrà oggi in Cdm prevede risorse aggiuntive, incrementa la dotazione organica del personale penitenziario, accelera la costruzione di nuovi padiglioni, ma soprattutto semplifica la procedura della liberazione anticipata e aumenterà la possibilità di colloqui telefonici”. La parola magica, in questa dichiarazione, sebbene mescolata ad altre per ovvi motivi mediatici, era “liberazione anticipata”. Ovvero la scarcerazione immediata per qualche migliaio di detenuti (tra i 4 e i 7000) che per residuo di pena (sei mesi) e tipologia di reato (quelli meno gravi, non ostativi) avrebbero lasciato subito le rispettive celle per terminare la pena ai domiciliari o affidati ad alcune cooperative. Il pacchetto svuota-carceri - Da mesi, sotto banco, con qualche imbarazzo politico visto i compagni di strada nella maggioranza, si parla di pacchetto di misure “svuota carceri”. Il bollettino dei suicidi aveva costretto gli uffici di via Arenula a fare gli straordinari per garantire una boccata d’aria ai 189 istituti di pena italiani che ospitano 60 mila reclusi, diecimila in più del tollerabile. Le parole del ministro ieri mattina avevano illuso molti. Fino all’ora di pranzo quando, terminato il preconsiglio e diffuso l’ordine del giorno, di giustizia e carceri e sovraffollamento si sono perse le tracce. Il decreto non c’era improvvisamente più. Sparito. Sono stati votati invece provvedimenti urgenti su “materie prime critiche”, economia dello spazio, un po’ di riforma tributaria, l’albo nazionale delle botteghe storiche. Sacrosanto. Ma lo sono certamente di più 46 suicidi in cella, persona affidate al sistema penitenziario per scontare la pena e che invece di trovare “rieducazione” e tentare il reinserimento sociale, trovano il modo di fare un cappio, metterlo al collo e impiccarsi. Se questo resta il trend, il 2024 sarà l’anno record per i suicidi in carcere: erano stati 82 nel 2022; 85 nel 2023. “Ci vorrà ancora qualche settimana per definire quelle norme, se ne riparla a luglio…” liquidano la faccenda a palazzo Chigi. Qualche imbarazzo in più in via Arenula dove hanno ben chiaro che rinviare gli interventi vuol dire mettere in conto altri morti, altri suicidi. Che non sono effetti collaterali. Lo stop di Lega e Fdi - Lo stop è arrivato ieri mattina in preconsiglio. Lega e Fratelli d’Italia farebbero carte calse piuttosto che vedere oggi un titolo sui giornali che possa in qualche modo evocare un indulto o il concetto di svuota-carcere. I sottosegretari Ostellari (Lega) e Del Mastro (Fratelli d’Italia) condividono le deleghe sul carcere e sul Dap. Ieri ha parlato Ostellari: “Migliorare il sistema dell’esecuzione penale è una delle nostre priorità e per questo, in accordo con il ministro Carlo Nordio abbiamo scelto di arricchire il testo del decreto legge sulle carceri, inserendo anche delle disposizioni specifiche in materia di strutture residenziali per il reinserimento dei detenuti e quindi di rimandarne la presentazione in Cdm”. Il rinvio provocato quindi da un “arricchimento”, le Comunità per lavoranti dove potranno essere assegnati i detenuti con fine pena inferiore ai due anni e in mancanza di condizioni ostative. In queste strutture, sicure e protette, potranno lavorare e fare corsi di formazione. Ma l’emergenza è adesso - Una sorta di carcere light. Il progetto è certamente illuminato. Ma l’emergenza è adesso, in estate, con quaranta gradi e un sovraffollamento che ha raggiunto l’indice del 119% con regioni, ad esempio la Puglia, che toccano il 152%. È lecito dubitare che le suddette Comunità possano essere operative nel giro di poche settimane. L’unica via d’uscita oggi è la cosiddetta “corsia veloce”, liberare cioè chi ha un residuo pena di sei mesi, tra i 4 e i 7 mila detenuti. La pressione sarebbe subito alleggerita. Ma equivale ad un piccolo indulto, uno sconto di pena, concetto inaccettabile per Lega e Fratelli d’Italia. Nulla da fare quindi. Proprio ieri mattina nell’intervista poi smentita dai fatti, il ministro Nordio aveva parlato di risorse aggiuntive, di aumento della dotazione organica del personale penitenziario, della costruzione di nuovi padiglioni (se ne parla invano da almeno quindici anni), di aumentare la possibilità di colloqui telefonici con i famigliari (anche questi tagliati per mancanza di uomini e risorse). Nordio è al lavoro anche per abbassare il numero dei detenuti in attesa di giudizio di primo grado: si tratta di diecimila persone molte delle quali saranno assolte e la cui detenzione si rivelerà ingiustificata (un altro costo per lo Stato). Il progetto è di attribuire la competenza sulla custodia cautelare ad un collegio che dovrà interrogare prima l’indagato. Eppure Nordio aveva un piano - Nordio è sicuro che in questo modo il numero delle custodie cautelari diminuirà e non di poco. Il ministro è al lavoro anche per far scontare nei paesi di origine le pene definitive dei detenuti stranieri. Un’altra strada giusta ma lunga e tortuosa perché Marocco (3600 detenuti nelle carceri italiane), Tunisia (1818 detenuti) e a seguire Nigeria ed Egitto, non hanno alcuna intenzione di farsi carico dei loro detenuti. Ciascuno di loro ha un costo vivo. In Italia almeno 150 euro al giorno. “I bisogni del carcere sono una mia priorità” conclude il ministro nell’intervista. Non è così per il resto della squadra di governo. Il Parlamento ha provato ad agire per conto proprio ma il ddl Giachetti è fermo da mesi nelle pastoie delle varie commissioni. Intanto il contatore delle morti si aggiorna. “Il dl Caivano non aiuta i minori: ora ascoltiamoli”. L’allarme di Garlatti, Garante per l’infanzia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2024 Boom di ingressi negli IPM: + 61,4 per cento. ma i reati tra i ragazzi calano del 4,15. “Non c’è stato alcun effetto deterrente con il decreto Caivano” in relazione alla criminalità minorile, “anzi in molte realtà”, negli istituti di pena per i minorenni, “si registra sovraffollamento e sovraccarico di lavoro per gli educatori”. A lanciare l’allarme è l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti, che ieri ha presentato la sua relazione annuale al Parlamento, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del presidente della Camera Lorenzo Fontana. Per ottenere risultati concreti bisogna muoversi prima di tutto sul piano culturale, ragiona Garlatti. Che ha innanzitutto denunciato la “narrazione negativa” che prevale a proposito dei minorenni, dei quali “si parla solo come autori di gesti violenti, contestatori aggressivi e membri di baby gang”. Mentre la realtà, dati alla mano, è un’altra: “ad esempio - ha spiegato la Garante - i reati a carico dei 14- 17enni sono calati del 4,15% tra il 2022 e il 2023”. E ancora dai numeri bisogna partire per valutare gli effetti del decreto Caivano: un provvedimento pensato dal governo in risposta a gravi eventi di cronaca che hanno avuto come protagonisti dei minori, ma che ora rischia di sgretolare un modello - quello della giustizia minorile - un tempo considerato un fiore all’occhiello. “In un anno, da maggio 2023 a maggio 2024, il numero dei minorenni negli Ipm è passato da 210 a 339: 129 in più, pari al 61,4%”, ha rilevato Garlatti. A segnare la differenza sono stati gli ingressi dei ragazzi tra i 16 e i 17 anni aumentati del 74,4 per cento. Un boom facilmente riscontrabile, insomma, che mette in discussione una risposta di tipo sanzionatorio orientata alla punizione più che all’aiuto. “C’è anche un altro racconto che si può fare dei minorenni ed è quello dei gesti per i quali vengono premiati gli Alfieri della Repubblica. Non pensiamo che si tratti di casi isolati: non li vediamo perché non se ne parla a sufficienza”. Secondo la Garante, “occorre un cambio di rotta, culturale, sociale e politico, che permetta di abbattere il diaframma che separa la dimensione adulta da quella minorile. Bambini e ragazzi devono essere considerati tra i destinatari diretti delle decisioni e delle scelte politiche. Oggi purtroppo - ha chiosato Garlatti - non appaiono nemmeno sullo sfondo: lo dimostra il fatto che i ragazzi fanno di tutto per far sentire la loro voce, senza essere nei fatti ascoltati”. La Garante ha quindi lanciato quindi iniziative destinate ai minorenni in condizione di fragilità, progetti che nascono come possibili risposte alla povertà educativa. “La prima iniziativa - spiega - da attuare con la collaborazione di organizzazioni no- profit e imprese sociali, mira a realizzare, con un fondo di 600 mila euro, attività nelle scuole secondarie di primo e secondo grado. Si tratterà di iniziative per coinvolgere e motivare gli studenti, in particolare quelli con maggiori difficoltà e a più alto rischio. Si interverrà anche per affrontare temi cruciali nella prevenzione dell’abbandono scolastico: gestione dei conflitti, autostima, parità di genere, inclusione e partecipazione”. Il secondo bando, invece, dal valore complessivo di un milione e 500 mila euro “mira a coinvolgere i piccoli comuni nella promozione di attività sportive per i minorenni tra i 6 e i 17 anni”. Dalle case occupate alla cannabis light, accelera la stretta sulla sicurezza di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2024 Proseguito il voto nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia di Montecitorio. Nodo emendamenti leghisti, si riprende martedì. Le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera sono andate veloci da martedì a giovedì nelle votazioni sugli oltre 300 emendamenti presentati al disegno di legge sulla sicurezza: 29 articoli che spaziano dalla tutela delle forze di polizia e delle forze armate alla liberalizzazione, per gli agenti, della detenzione di armi private senza licenza, dal terrorismo alle rivolte nelle carceri e nei centri per i migranti, dalla stretta contro borseggi e accattonaggio ai tutor per le vittime di usura. Sette mesi dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri, il testo è atteso in Aula per la discussione generale giovedì 27, anche se non si esclude che l’approdo slitti ancora alla settimana successiva. Va superato, infatti, il nodo dei 35 emendamenti della Lega che avevano surriscaldato gli animi e che per ora restano accantonati. Le commissioni riprenderanno a votare martedì alle 11. Rafforzata la tutela delle forze di polizia - Il Ddl, targato Viminale, Giustizia e Difesa, è molto atteso da forze dell’ordine e militari: al comparto, più volte finito sotto attacco nei mesi scorsi, il Governo ha voluto tendere la mano, avviando nel contempo le trattative per i rinnovi contrattuali. Da qui le norme: pene inasprite di un terzo, rispetto a tutti i pubblici ufficiali, per chi commette violenza o resistenza nei confronti degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria (da due a cinque anni di carcere per chi cagiona loro lesioni personali, reclusione fino a 16 anni in caso di lesioni gravissime), protezione rafforzata per i beni in dotazione alla polizia e per le attività in mare della Guardia di finanza, sanzioni potenziate per chi non rispetta le prescrizioni della polizia stradale e non si ferma all’alt. E libertà per gli agenti di detenere fuori dal servizio armi private senza licenza. L’ondata di nuovi reati, dal terrorismo di parola all’occupazione di immobili - È peraltro elevato a delitto l’attuale illecito amministrativo di blocco stradale. Le proteste in carcere diventano reato punibile fino a otto anni per chi organizza una rivolta, fino a 5 per chi partecipa, mentre sono stati bocciati gli emendamenti M5S che proponevano l’abolizione del reato di rave party, introdotto con il primo decreto sicurezza del Governo Meloni, e il divieto di saluto romano. Il giro di vite riguarda anche il terrorismo, con il nuovo reato di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo e contro l’incolumità pubblica”, che punisce chi si procura istruzioni per preparare o usare “congegni bellici micidiali”, armi o sostanze pericolose. L’altro reato introdotto riguarda l’”occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, “arricchito” dall’emendamento M5S, su cui il Governo aveva dato parere favorevole e che è stato approvato, che propone di procedere d’ufficio quando il fatto è commesso contro persona incapace, per età o per infermità. L’estensione del Daspo urbano - L’articolo 10 del disegno di legge estende inoltre il Daspo urbano prevedendo, tra l’altro, la possibilità per il Questore, nei casi di reiterazione delle condotte sanzionate, di disporre il divieto di accesso alle aree di infrastrutture e pertinenze del trasporto pubblico, come le stazioni, anche a soggetti denunciati o condannati, nel corso dei 5 anni precedenti, e anche con sentenza non definitiva. Sono stati respinti tutti gli emendamenti delle opposizioni che puntavano, tra l’altro, a limitare l’alt ai soli condannati in via definitiva. Di “febbre securitaria della destra” che “produce mostri” ha parlato il capogruppo Avs in commissione Giustizia, Devis Dori. “Sul Daspo - sottolinea la pentastellata Valentina D’Orso - la maggioranza svela il suo garantismo di comodo e selettivo: con la norma che propongono, un cittadino comune colpito da una qualsiasi denuncia, magari anche da parte di un vicino di casa che ce l’ha in antipatia, può subire una limitazione al diritto costituzionalmente garantito della libertà di circolazione”. La norma è stata difesa dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni: si tratta, ha spiegato, di misure che non prevedono il carcere e che possono essere decise dal Questore “in maniera ponderata e legate alla possibile pericolosità sociale del soggetto”, in linea con il “Daspo Willy” nato durante il Governo Conte 2. Cannabis light, il divieto controverso - Al Ddl sicurezza il Governo ha proposto l’emendamento che, modificando la legge a sostegno della filiera della canapa ad uso industriale, con quantità di Thc inferiore allo 0,2%, vieta la coltivazione e la vendita delle infiorescenze, anche di cannabis a basso contenuto di Thc, per usi diversi da quelli espressamente indicati nella legge stessa, e quindi quelli industriali consentiti. Il commercio o la cessione di infiorescenze viene punito con le norme del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti, parificando la cannabis light a quella non light. La proposta non è ancora stata messa ai voti, ma è tra quelle contro cui le opposizioni (e lo stesso settore produttivo) levano gli scudi. Il Ddl cybersicurezza è legge. Via libera anche dal Senato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2024 Modificati il codice penale e il codice di procedura penale. Tra le misure introdotte c’è anche l’inasprimento delle pene per i reati informatici e l’obbligo per le amministrazioni di segnalare, entro 24 ore, gli attacchi e di avere un responsabile della cybersicurezza. Con 80 voti favorevoli, 3 contrari e 57 astensioni l’aula del Senato ha approvato ieri il disegno di legge di iniziativa governativa per il rafforzamento della cybersicurezza nazionale. Dopo l’ok della Camera di un mese fa, il testo diventa ora legge. Come annunciato in aula poco prima, i gruppi di M5s, Pd, Italia viva e Azione si sono astenuti mentre Avs ha votato contro il provvedimento. Tra le misure introdotte c’è anche l’inasprimento delle pene per i reati informatici e l’obbligo per le amministrazioni di segnalare, entro 24 ore, gli attacchi e di avere un responsabile della cybersicurezza. Più in generale la norma mira ad aumentate la sicurezza informatica per difendersi dagli attacchi cibernetici e introduce sanzioni più pesanti per i reati che corrono on line, in particolate le truffe. Il provvedimento conta 24 articoli e introduce anche l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di segnalare, entro 24 ore, all’Agenzia per la cybersicurezza gli attacchi informatici e di nominare un referente per la sicurezza. Non passa la proposta di Iv di istituire un’Agenzia contro la disinformazione. Accolto, invece, un ordine del giorno che impegna il governo a specificare che le pubbliche amministrazioni centrali, sul piano della cybersicurezza, coinvolgano il responsabile per la transizione digitale e il responsabile della protezione dei dati. Su iniziativa di Fratelli d’Italia poi si aggiunge il reato di truffa online con aggravanti per chi commette reati usando siti e piattaforme e la confisca obbligatoria degli strumenti informatici, da cui trarre soldi per risarcire le vittime. Soddisfatto il sottosegretario di Stato, Alfredo Mantovano che ha la delega alla sicurezza della Repubblica: “Da oggi l’intero sistema della sicurezza nazionale, e in particolare quello cyber che è diventato il fronte principale di attacchi da parte di soggetti statuali ostili, viene finalmente dotato di strumenti operativi più adeguati a respingerli”. Cambia pure la composizione del Comitato interministeriale per la sicurezza e comprenderà il ministro dell’Agricoltura, quello delle Infrastrutture e quello dell’Università. Più stringenti le norme su ex direttori, vice e capireparto di Dis, Aisi e Aise, i principali organi di intelligence in Italia: salvo autorizzazione della presidenza del Consiglio, nei tre anni successivi alla fine dell’incarico non potranno lavorare per soggetti esteri o privati italiani nei settori della difesa, sicurezza nazionale, energia, trasporti e comunicazioni. Per il resto, le opposizioni denunciano in coro che ci sono “zero investimenti” per le novità. Modifiche anche al codice penale e di procedura. L’articolo 16, modificato nel corso dell’esame presso la Camera dei deputati, interviene sul Cp in materia di prevenzione e contrasto dei reati informatici. Mentre l’articolo 17 reca modifiche al codice di procedura penale finalizzate a recepire gli interventi in materia di prevenzione e contrasto dei reati informatici introdotte dal precedente articolo 16. Per questi reati si prevedono: l’attribuzione della competenza sulle indagini alla procura distrettuale; la deroga al regime ordinario per la proroga delle indagini preliminari; termini di durata massima delle indagini preliminari pari a 2 anni. L’articolo 17 w composto di un unico comma, ripartito in 3 lettere. “Dobbiamo liberare il processo dal condizionamento dei media” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 21 giugno 2024 Al Senato il dibattito sulla presunzione d’innocenza organizzato dal presidente della Commissione Affari costituzionali Balboni, con Sisto, Violante, Alpa e Gagliano. Contemperare il diritto di cronaca con la presunzione di non colpevolezza, ma soprattutto tutelare il diritto alla reputazione in un contesto in cui, a dispetto dei richiami reiterati lanciati su questo tema dall’Ue all’Italia, il nostro Paese continua a zoppicare. Un problema, però, che non si limita al processo mediatico, ma investe anche quello del dibattimento vero e proprio. Se ne è parlato diffusamente a Roma, alla Sala Capitolare di piazza della Minerva, in un convegno dal titolo “La presunzione d’innocenza è un diritto costituzionale”, organizzato su impulso del presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Alberto Balboni, al quale hanno partecipato numerosi relatori di prestigio, tra giuristi, legislatori, avvocati, magistrati e giornalisti. “Siamo in una situazione - ha osservato Balboni nel suo saluto ai presenti - in cui i processi si fanno dappertutto tranne che nelle aule di tribunale. Il processo accusatorio si sta facendo spazio su una cultura plurisecolare inquisitoria, che va contro la Costituzione”. “Sembra assurdo”, ha replicato il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto a chi gli chiedeva se i continui richiami europei all’Italia siano il sintomo di una cultura giuridica più arretrata rispetto alla media dell’Unione, “che ci sia stato bisogno di una direttiva europea per affermare delle cose ovvie. Oggi in Italia non c’è processo senza misura cautelare. La misura cautelare è diventata una sorta di griffe per dare rilevanza al processo. Questo è un sintomo di grave arretratezza ed è anche per questo che bisogna liberare il processo dalla necessità della misura cautelare e del condizionamento dell’accusa sui media”. Inevitabile, in quest’ottica, un riferimento al ddl Nordio sulla riforma dell’ordinamento giudiziario: “La separazione delle carriere - ha sottolineato Sisto - fa parte di questo tema: intervenire sulla terzietà del giudice è una garanzia del rispetto del principio della presunzione d’innocenza. Governo garantista”, ha concluso il viceministro, “significa governo rispettoso della Costituzione”. Su questo punto, le opinioni dell’ex-magistrato ed ex presidente della Camera Luciano Violante (che ha preso la parola dopo di lui) divergono: “Di fatto - ha osservato - le carriere sono già separate e io francamente avrei paura di un sistema con 1.200 pm autogestiti, separati da tutti. Questo non è un sistema che a mio avviso garantisce i cittadini. Francamente - ha proseguito - sono più contento di un organismo unitario che tenga un po’ sotto controllo la giurisdizione, piuttosto che un organismo separato”. Tornando al processo mediatico, il problema, per Guido Alpa, professore emerito di Diritto civile e presidente emerito del Consiglio nazionale forense, è che “sostanzialmente la giurisprudenza esclude la responsabilità del giornalista e in sostanza ogni cittadino è esposto alle azioni del giornalista. C’è dunque un problema - ha proseguito - di deontologia professionale, ma sappiano che l’Ordine dei giornalisti, in questo campo, non è particolarmente solerte. Per questo un’attenzione al bilanciamento degli interessi sarebbe opportuna”. Quanto al tema più vasto della presunzione d’innocenza, Alpa ha osservato che “la nostra Costituzione su questo punto è un po’ recessiva rispetto a molte altre. A livello civilistico il danno è irreparabile: una volta che la reputazione e la dignità di una persona è stata lesa, diventa difficile recuperare integralmente la posizione e non è facile dare la prova del danno”. A riportare il focus sulla presunzione di non colpevolezza all’interno del processo è stato Antonio Gagliano, consigliere del Cnf: “Il tema dell’aggressione alla reputazione è gravissimo ha affermato -, ma non dobbiamo far passare in secondo piano lo scarso impatto della presunzione di non colpevolezza nelle regole processuali. Possiamo dire - ha proseguito - che anche in assenza di processo mediatico questo principio venga rispettato? Ci sono le regole probatorie e le regole del giudizio: la regola del giudizio è quella secondo cui non si può condannare quando c’è un ragionevole dubbio, ma questo principio si lega alla cultura della prova, che in questi anni ha preso un crinale di scivolosa discesa”. Oltre ai danni derivanti dall’attacco alla reputazione, per Gagliano non bisogna dimenticare quelli delle aggressioni al patrimonio. “Oggi i diritti del patrimonio sono anche diritti della persona, in molti casi. Abbiamo un abuso dell’istituto del sequestro preventivo, e in questi casi non è nemmeno necessaria la condizione di gravità giudiziaria ma basta il fumus. Il principio di innocenza - ha concluso Gagliano - non dovrebbe mai trovare eccezioni al difetto di motivazione”. “Ma io dico che il pm separato dal giudice finirà agli ordini all’Esecutivo” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 giugno 2024 Ultimo confronto della settimana sul ddl costituzionale di riforma della giustizia. Oggi intervistiamo Giuseppe Tango, presidente della giunta dell’Anm di Palermo ed esponente di Mi. Esponenti della maggioranza hanno definito le iniziative dell’Anm contro la riforma atti di guerra, tentativi di sottomettere il Parlamento, immobilismo culturale, difesa corporativa... Niente di più lontano dalla realtà. Se è difesa corporativa quella della Costituzione, dei valori ivi consacrati e delle libertà di tutti i cittadini, il magistrato allora è “corporativista” per definizione. Andrebbe, invece, ricordato, nell’ovvio rispetto della potestà legislativa del Parlamento, che la Costituzione sancisce all’articolo 21 che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” ed è proprio questo che l’Anm si è limitata a fare. Attualmente i passaggi da una funzione ad un’altra sono intorno all’ 1 per cento: perché tanta opposizione da parte vostra? Potrei ribaltare il ragionamento. Se nei fatti i passaggi sono ormai statisticamente irrilevanti, perché imbastire una riforma, addirittura costituzionale, impiegando enormi risorse (di tempo, parlamentari, economiche)? Probabilmente il reale obiettivo non è tanto la separazione delle funzioni ma quello, appunto, delle “carriere”, il che disvela la volontà di allontanare il pm dalla cultura della giurisdizione e prepararlo molto probabilmente alla sua sottomissione all’Esecutivo. Ma il consigliere giuridico del ministro Nordio, Romano, ha detto: “Ogni governo non è, per fortuna, eterno e quindi si rischierebbe di mettere il pm sotto il controllo del governo che verrà, magari di diversa coloritura politica: non converrebbe a nessuno”... Anche qualora dovesse essere così, il rischio è quello di creare un corpo autoreferenziale di “superpoliziotti”, scevro da qualsiasi potere ed imbevuto di cultura poliziesca: anche questo potrebbe essere un problema per la tenuta democratica del Paese. Basti pensare al caso “Costa”, avvenuto l’anno scorso in Portogallo, proprio uno dei pochissimi Paesi in Europa ad aver adottato un siffatto modello. Il vice ministro Sisto invoca spesso il triangolo isoscele per giustificare un giusto processo... Si tratta di un’argomentazione, che - se letta in buona fede - non tiene conto del diverso ruolo che l’avvocato ed il pm esercitano: il primo è chiamato a difendere gli interessi del suo cliente (a prescindere dalla colpevolezza o meno), mentre il secondo deve in ogni caso ricercare la verità dei fatti. Se quest’ultimo, nel corso delle indagini o a processo avviato, si rende conto che non ci sono elementi per sostenere validamente l’accusa, dovrà chiedere l’archiviazione o l’assoluzione. Se invece è letta in mala fede, si sarebbe indotti a pensare che l’autore della riforma sospetti che un giudice possa farsi condizionare nel suo libero convincimento dal rapporto di colleganza che ha con il pm: il che, oltre ad essere estremamente offensivo nei confronti di chi ha giurato sulla Costituzione, è all’evidenza smentito dai numerosi procedimenti conclusisi con una assoluzione. Luca Palamara in una intervista al Dubbio ha dichiarato: “Il sorteggio è la fine della correntocrazia e permetterà di far nascere una nuova classe dirigente di magistrati”... Oggi accade che i magistrati scelgono i propri rappresentanti in modo trasparente, garantendo anche il pluralismo, che è sempre un valore. Con la riforma verranno estratti a sorte magistrati di cui non si conoscerà la sensibilità; per di più non si potrà in astratto escludere che saranno selezionati magistrati aventi lo stesso orientamento. Trasparenza e pluralismo contro opacità e possibile pensiero unico: in che modo - da magistrato, anche non appartenente ad una corrente- mi dovrei sentire più tutelato? Lo scopo è invece chiaro: indebolire la componente togata a favore di quella laica, quella maggiormente legata alla politica. Con un evidente paradosso: si ritiene che un magistrato possa incidere sulla vita, gli interessi e la libertà delle persone, ma non che sia in grado di scegliersi i propri rappresentanti. Si vuole far passare come una riforma contro le correnti quella che in realtà è una riforma contro i cittadini e la magistratura. Il presidente Santalucia ha detto: abbiamo argomenti giuridici per contrastare la riforma. Non scomodiamo Falcone, Borsellino e Gelli... Di argomenti per far comprendere gli effetti nefasti della riforma ve ne sono effettivamente a iosa. Si tratta semmai di riuscire a comunicarli al cittadino. Ma visto che comunque le suddette figure sono già state scomodate da altri, tanto vale fare chiarezza: Gelli era a favore della separazione; Borsellino si espresse in modo univocamente contrario in un’intervista pubblicata l’ 11 dicembre 1987; Falcone, al di là del noto tentativo di mistificazione delle sue parole, ha dimostrato con i fatti il suo pensiero al riguardo, passando da una funzione ad un’altra per ben quattro volte. La riforma prevede inoltre l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare... Non si comprende il motivo che porta ad istituire un ulteriore organo costituzionale che svolge funzioni già oggi assegnate al Csm, unico organo di autogoverno che garantisce l’autonomia della magistratura. L’effetto sarà un indebolimento del Csm stesso ed un aumento di costi dovuti al funzionamento di questo nuovo organo che andranno a gravare sulla collettività. La sua istituzione si giustificherebbe solo se si riuscisse a dimostrare che la funzione disciplinare è stata sino ad ora svolta malamente dal Csm, ma i dati parlano di un numero di procedimenti e sanzioni disciplinari che non ha eguali in proporzione rispetto a quelli di tutte le altre categorie di lavoratori pubblici. Reati a querela, l’aggravante contestata a cavallo della riforma Cartabia radica la procedibilità d’ufficio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2024 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 24370 depositata oggi, affermando che, per via della assenza di attività processuale, la pubblica accusa non aveva possibilità di assumere l’iniziativa necessaria per adeguare l’imputazione alle nuove regole. La stretta della riforma Cartabia sui reati a procedibilità d’ufficio, con il conseguente proscioglimento in assenza di querela, non può applicarsi al caso in cui la contestazione dell’aggravante da parte del Pm (che rende il reato ancora procedibile d’ufficio) sia avvenuta a cavallo dell’entrata in vigore della riforma ed in particolare in un periodo di stasi giurisdizionale a cause dei diversi rinvii disposti dal giudice. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 24370 depositata oggi, accogliendo il ricorso del Pg presso la Corte di appello di Catania contro la sentenza del Tribunale di Siracusa che aveva dichiarato non doversi procedere per difetto di querela nei confronti di un uomo imputato per il reato di furto di energia elettrica. Per l’accusa il Tribunale avrebbe illegittimamente ritenuto tardiva, in quanto effettuata successivamente alla scadenza del termine fissato dall’art. 85 Dlgs n. 150 del 2022 senza che la persona offesa avesse presentato querela, la contestazione supplettiva svolta dal PM all’udienza del 29 novembre 2023 (ai sensi dell’art. 517 c.p.p.) relativa all’aggravante (art. 625 n. 7 c.p.) della destinazione al pubblico servizio dell’energia elettrica sottratta dall’imputato, circostanza dalla cui contestazione discendeva la procedibilità d’ufficio del reato. E la Quinta Sezione penale gli ha dato ragione. Infatti, si legge nella sentenza, il processo a carico dell’imputato era stato fissato, con decreto del 10 ottobre 2022, per l’udienza del 29 novembre 2023, nel corso della quale il Pm ha proceduto alla contestazione dell’aggravante idonea a determinare la procedibilità di ufficio. È dunque da escludere che il titolare dell’azione penale abbia avuto modo di procedere alla contestazione tempestiva nella pendenza del termine assegnato dall’art. 85 Dlgs n. 150 del 2022 per proporre la querela in conseguenza del mutato regime di procedibilità del reato. “Negare dunque, come ha fatto il Tribunale ritenendo ‘tardiva’ la contestazione supplettiva, gli effetti di tale legittimo atto propulsivo del pubblico ministero, in ragione dell’operatività della causa di improcedibilità ‘ora per allora’, anche in casi, come quello in esame, nei quali - in ragione della assenza assoluta di attività processuale da un momento antecedente alla entrata in vigore della riforma Cartabia (30 dicembre 2022) ad un momento successivo a quello di maturazione effettiva della nuova causa di improcedibilità (30 marzo 2023), per rinvii disposti dal giudice - la pubblica accusa non aveva possibilità alcuna di assumere l’iniziativa necessaria per adeguare l’imputazione alle nuove regole, è frutto di una interpretazione irragionevolmente discriminatoria e in conflitto col dovere, costituzionalmente imposto, del titolare dell’azione penale di esercizio e proseguimento della stessa azione”. Va dunque ribadito, prosegue la decisione, il principio per cui è affetta da nullità assoluta, la sentenza di proscioglimento per carenza della condizione di procedibilità del reato, nel caso in cui il giudice abbia consentito l’interlocuzione delle parti solo sulla questione della procedibilità, ritenendo irrilevante, poiché tardiva, la modifica dell’imputazione da parte del pubblico ministero, dovendo il giudice tenere conto della contestazione suppletiva di un’aggravante che renda il reato procedibile di ufficio, nonché valutare le sopravvenienze istruttorie acquisite nel corso del giudizio (n. 14710/2024). Conseguentemente la sentenza impugnata è stata essere annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Siracusa, considerato che, a seguito della validità della contestazione suppletiva, il giudice doveva disporre la notifica del verbale dell’udienza all’imputato non presente, notifica la cui omissione ha determinato una nullità che avrebbe comportato, in sede d’appello, l’annullamento della sentenza. Novara. Alì, suicida in carcere a due mesi dalla libertà. “In Italia troppe morti, ora basta” di Marco Benvenuti La Stampa, 21 giugno 2024 Avrebbe compiuto 20 anni a fine mese e finito di scontare la pena in agosto. Da inizio anno 44 detenuti si sono tolti la vita. Alì non aveva ancora vent’anni. Li avrebbe compiuti fra pochi giorni, il 30 giugno. Non ce l’ha fatta a festeggiare. Nemmeno la prospettiva di uscire e rifarsi una vita - avrebbe finito di scontare la sua pena il 17 agosto - ha fatto da contrappeso allo sconforto, al disagio, alle incertezze legate al futuro, al suo nuovo futuro. Ieri mattina Alì ha deciso di togliersi la vita nel carcere di via Sforzesca a Novara. È il suicidio numero 44 dall’inizio dell’anno negli istituti di pena del nostro Paese. Il giovane, pare di origine algerina (ma non vi è la certezza) si è impiccato nella sua cella. Non appena le guardie l’hanno visto agonizzante, hanno cercato di soccorrerlo e di rianimarlo ma ormai era troppo tardi. A Novara il giovane era arrivato pochi giorni fa, l’11 giugno, proveniente da Torino. Era detenuto da un paio di anni per scontare una condanna definitiva. Una storia travagliata la sua, perché già da minorenne era finito varie volte nelle maglie della giustizia. Non si sa come e quando sia arrivato in Italia. Nei brevi colloqui che ha avuto col personale, avrebbe detto di essere in giro nel nostro Paese da quando aveva 10 anni. Qui, però, nessun contatto, nessun parente. Nemmeno un lavoro. Forse proprio la paura del “dopo”, quel dopo senza una certezza, ha accresciuto il suo disagio, la sua ansia. “Un vero e proprio dramma umano - dice il garante novarese dei detenuti, Nathalie Pisano, che appresa la notizia ieri è subito andata in via Sforzesca - quello di una persona sola che, di fronte alla libertà e a un ritorno alla normalità tanto attesi da molti detenuti, non ha saputo reagire, se non con quel gesto disperato. Un dramma che deve far riflettere tutti, che dimostra ancora una volta come la realtà carceraria sia pesante, non debba essere dimenticata”. Alì non aveva mostrato segnali che destassero preoccupazione. Al suo arrivo nel carcere di Novara era stato visitato da psicologi, educatori, personale medico. Tutto normale. Solo un ragazzo introverso, taciturno, forse un po’ demoralizzato per la sua situazione, ma come tanti altri compagni. Nessuno poteva pensare che dentro di sé stesse montando quella disperazione che l’ha spinto alla drammatica decisione di farla finita. Il caso di ieri è l’ultimo di una lunga lista. La settimana scorsa è accaduto a Biella. A Novara da tempo la Camera penale, organismo degli avvocati, sta sollevando il problema con varie iniziative per “dire basta” alla strage. In tribunale è stato posizionato un contatore col numero dei suicidi dall’inizio dell’anno, perché sia da monito. Dice il presidente, l’avvocato Alessandro Brustia: “Si tratta di una silenziosa strage di persone affidate alla custodia dello Stato; lo stillicidio di morti si protrae senza soluzione di continuità nel vergognoso disinteresse di istituzioni e politica. Ci è voluto il Consiglio d’Europa per richiamare lo Stato italiano e chiedergli con forza di assumere le iniziative del caso perché sia posto un argine a questa ecatombe”. Il segretario generale dell’Osapp (l’organizzazione sindacale della polizia penitenziaria), Leo Beneduci, parla di “dato tragico e significativo. Dato inaccettabile, come è inaccettabile la situazione che stanno vivendo i detenuti e i poliziotti nelle carceri italiane. Il Governo prenda finalmente atto dell’incapacità degli attuali vertici della amministrazione a gestire questo tipo di emergenza. E prenda atto che ci vogliono misure speciali e straordinarie per far sì che le carceri tornino a essere quello che la Costituzione dice: presidi di legalità e sicurezza”. Conclude: “Per l’amministrazione penitenziaria servono manager in grado di organizzare, non magistrati a fine carriera”. Milano. La gioventù spezzata, a 21 anni suicida in cella di Lorenzo Sivilli ansa.it, 21 giugno 2024 La storia di Giacomo, tra comunità e istituti penitenziari. In carcere a 21 anni, l'unico posto in cui non sarebbe mai dovuto stare. Giacomo era rinchiuso tra le mura di San Vittore, a Milano, quando si è tolto la vita. Soffriva di un disturbo borderline di personalità, una condizione psichica ritenuta incompatibile con il carcere. Nonostante questo, Giacomo è morto in un istituto penitenziario il 31 maggio 2022, dove si trovava dopo l'arresto per un piccolo furto. Su proposta dell'avvocato, con l'appoggio dei genitori, il 21enne aveva ottenuto la disposizione per essere trasferito in una Rems, una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza che, dal 2014, sostituiscono gli ospedali psichiatrici giudiziari. Anche dopo il via libera, però, Giacomo era ancora a San Vittore, in cui è rimasto per nove mesi. A causa della mancanza di posti disponibili in questo tipo di strutture, Giacomo avrebbe dovuto essere curato in un luogo alternativo esterno, ma ciò non è successo. A due anni dalla sua morte, per sua madre Stefania riavvolgere il nastro è doloroso ma allo stesso tempo necessario. “L'aspetto più drammatico - ha raccontato - è la scarsità di personale qualificato e la totale mancanza di ascolto, sia dentro che fuori dal carcere, che trasforma queste strutture in 'discariche sociali'. La storia di Giacomo, in verità, comincia con l'intervento dei servizi sociali. Ancora minorenne, viene allontanato da casa a causa di una serie di disturbi comportamentali e inserito all'interno di alcune comunità. Per Stefania, questo ha portato all'apertura di una “voragine”. “Quando i servizi sociali gestivano le cose era un problema - ha spiegato -, perché si affidavano a 'protocolli standard' che non erano indicati in casi come quello di Giacomo”. È proprio per la presunta scarsa esperienza e preparazione su come affrontare tali disturbi che, uscendo dall'ambiente comunitario, Giacomo viene risucchiato in un vortice di dipendenze tra alcol, droga e piccoli furti. L'esperienza in carcere comincia nell'istituto penale per minori Beccaria di Milano che, secondo sua madre, si rivela 'positiva', portando il figlio a dimostrarsi propenso ad affrontare percorsi di cura. Gli arresti, però, non si sono fermati, portando Giacomo a precipitare nuovamente in una spirale di istituti penitenziari e comunità non idonee per curare il suo disturbo. Con il tempo la detenzione si è trasformata in un'esperienza di sofferenza. “Giacomo aveva iniziato a farsi del male con gesti di autolesionismo, in qualche modo per alleviare il suo dolore, anche a causa delle pesanti dose di benzodiazepine che gli venivano somministrate - racconta Stefania. In più, nelle carceri vige questo meccanismo perverso per cui le famiglie vengono estromesse”. Parlare con Giacomo a San Vittore, infatti, era diventato sempre più difficile, soprattutto per i pochi minuti che gli vengono concessi. La lontananza, l'isolamento, l'assuefazione dai farmaci e la mancanza di supporto lo hanno portato a compiere quel gesto, qualche giorno dopo che, in una cella vicino alla sua, un suo coetaneo si era tolto la vita. “Noi abbiamo vissuto l'assenza delle istituzioni per 10 anni - ha detto Stefania in occasione della maratona oratoria davanti al palazzo di giustizia di Milano, la scorsa settimana. Davanti a questo sistema mi continuo a chiedere perché le famiglie, che potrebbero fornire un minimo di risorse, ancora non vengono ascoltate”. Bari. “Nel carcere tortura di Stato” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 21 giugno 2024 La sentenza che condanna 9 agenti di Polizia penitenziaria per le botte a un detenuto con problemi psichici. Depositate le motivazioni della condanna. Per cinque poliziotti il reato di tortura. “L’aggressione non avvenne in un contesto di allarme”. Le pene variano da cinque anni a sei mesi. Ci fu tortura nel carcere di Bari, la notte del 27 aprile 2022, quando un detenuto 43enne con problemi psichici fu “brutalmente aggredito da alcuni agenti mentre era del tutto inerme”. Di più. Fu “tortura di Stato”, perché commessa da pubblici ufficiali con abuso dei loro poteri. Mette molti punti fermi la sentenza con cui il 20 marzo cinque poliziotti penitenziari in servizio nel capoluogo sono stati condannati per il reato di tortura e altri quattro, a vario titolo, per abuso d’ufficio, rifiuto di atti d’ufficio, violenza privata, falso ideologico. E rappresenta un importante punto di riferimento per i processi che verranno in relazione a violenze sui detenuti, a partire da quelle subite dai minori nel carcere Beccaria di Milano. Condannati a 80 euro per omessa denuncia anche due infermieri, che hanno assistito al pestaggio senza intervenire o denunciare. Nella sentenza, il collegio presieduto da Antonio Diella mette nero su bianco un principio fondamentale: “In carcere è vietato usare la forza per punire” ovvero “la coercizione a fini disciplinari può essere usata solo per evitare danni a persone o cose”. E, a quanto pare a Bari, quella notte, nessuno era in pericolo. Nelle 188 pagine di motivazioni vengono ripercorsi gli eventi, con una specie di fermo-immagine su carta dei drammatici minuti tra le 5,10 e le 5,14, quando il detenuto è stato colpito a calci e immobilizzato a terra, con gli scarponi premuti sulla testa e sull’addome. I filmati, prodotti dalla pm Carla Spagnolo e dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa, vengono definiti “inequivocabili” non solo per ricostruire le responsabilità degli agenti ma anche per smentire le tesi difensive relative all’azione di “contenimento”, che sarebbe stata posta in essere per arginare il comportamento violento e minaccioso del 43enne. È vero che quest’ultimo aveva appiccato il fuoco alla sua cella e così determinato l’evacuazione del primo piano del penitenziario - spiegano i giudici - ma è altrettanto chiaro che l’aggressione da parte degli agenti è iniziata appena lo hanno portato al piano terra, “prima che gli altri detenuti venissero spostati”. “L’aggressione non è avvenuta in un contesto di allarme” si chiarisce, pur evidenziando le difficoltà strutturali di cui la Polizia penitenziaria soffre nel carcere di Bari, in cui l’organico è ridotto e il sovraffollamento perenne (quella notte erano presenti 430 ospiti a fronte di una capienza di 230 e 17 erano gli agenti in servizio). Ma nessuna stanchezza e nessuno stress possono giustificare quanto accaduto, né motivare quei calci sferrati a un uomo buttato a terra, che gridava aiuto e si raggomitolava per attutire ulteriori colpi. E non è un caso che anche la comandante della penitenziaria, Francesca De Musso, di fronte a quelle immagini si sia detta “sgomenta”. “Dagli agenti ci si attendeva capacità di autocontrollo e rispetto delle norme dell’ordinamento penitenziario - dice la sentenza, che ora gli imputati potranno appellare - nonché la consapevolezza di dover operare per la cura delle persone che lo Stato ha dato loro in custodia”. Milano. A Renato Vallanzasca il permesso per la Comunità di cura di Silvia Renda huffingtonpost.it, 21 giugno 2024 La sua storia interroga sulla salute dei detenuti. L'ex capo della banda della Comasina è affetto da demenza senile. Antigone: “La popolazione nelle carceri è sempre più anziana e cresce quindi la domanda di salute, ma il sistema penitenziario è incapace di assolverla”. La prima volta che Renato Vallanzasca entrò in carcere, si trattava di un carcere minorile. Aveva 8 anni e insieme al fratello e a un’amica, sua futura moglie, provò a liberare gli animali di un circo. Rimase per due giorni nell’istituto Cesare Beccaria di Milano. L’ultima volta che Renato Vallanzasca commise un reato aveva 64 anni, era il 2014. Una rapina all’Esselunga, con un bottino del valore di settanta euro: due paia di boxer da uomo, cesoie e fertilizzante. Si trovava in permesso premio per tre giorni dal carcere di Bollate e venne processato per direttissima: dieci mesi, da cumulare con i quattro ergastoli e i 295 anni di reclusione. Sono crimini di ben altro tenore rispetto a quelli che hanno spostato il suo orizzonte sul “fine pena mai”. Sequestri, rapine, omicidi lo hanno reso uno dei criminali italiani più famosi e raccontati, feroce e spietato. Oggi ha 74 anni, di cui 52 trascorsi in carcere (con tre evasioni nel mezzo), e una forma di demenza che lo rende rappresentante di una popolazione di detenuti sempre più anziana, con problemi fisici e psichici conseguentemente in crescita. Un ulteriore peso sul sistema penitenziario italiano, nell’incapacità di assolvere il diritto alla salute di cittadini reclusi. Di Vallanzasca si è tornato a parlare in questi giorni perché il Tribunale della Sorveglianza di Milano ha accolto il reclamo dei suoi legali, concedendogli il permesso di trascorrere del tempo in una comunità di cura. Secondo i consulenti della difesa, il quadro cognitivo di Vallanzasca è ormai affetto da un “processo neurodegenerativo primario” ed è “deficitario” sotto il profilo della “memoria” e delle “capacità verbali”. Per gli avvocati, l’aggravarsi della forma di demenza da cui è affetto, lo rende incompatibile col carcere. Vorrebbero per lui i domiciliari nella comunità di cura, ma al momento devono accontentarsi di aver ribaltato il precedente “no” all'ultimo permesso. Frequentare la struttura terapeutica è ritenuto utile alla risocializzazione e a rallentare il decorso del declino cognitivo. In passato nella comunità terapeutica andava almeno una volta a settimana. I permessi vennero revocati visto il decadimento cognitivo di cui soffre: secondo il giudice, non sarebbe più stato nelle condizioni di rispettare le prescrizioni, quindi gli orari e le modalità dell'uscita in permesso. Un paradosso, per i legali: avrebbe bisogno degli incontri perché è malato, ma non può frequentarli perché è malato. “Quello che accomuna Vallanzasca a una fetta crescente di detenuti nelle nostre carceri è l’età. Una popolazione più anziana ha una domanda di salute più alta e questo grava sul sistema penitenziario italiano”, commenta ad HuffPost Alessio Scandurra, coordinatore dell'osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione. I detenuti italiani stanno diventando sempre più anziani, le pene sono più lunghe, limiti di legge e altre difficoltà rendono difficile l’accesso alle misure alternative. Quindi i detenuti prolungano la loro permanenza negli istituti. Dati nazionali sulla loro salute praticamente non ne esistono. Dovrebbero raccoglierli le Asl, ma non lo fanno, dice Scandurra. Per riuscire a mettere insieme qualche numero bisogna andare indietro fino al 2015 e sfogliare la prima (e unica) indagine epidemiologica sullo stato di salute di un campione di detenuti delle strutture detentive di Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria e dell’Azienda sanitaria di Salerno. L'indagine è stata finanziata dal Ministero della salute e ha coinvolto oltre 15mila detenuti presenti in 57 strutture, per indagare sui trattamenti farmacologici loro prescritti. Il 70% risultava affetto da almeno una patologia: soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e disturbi dell’apparato digerente. La prima patologia, che coinvolgeva il 24% dei detenuti dell’indagine, era la dipendenza da sostanze e la cocaina è la sostanza più utilizzata. Oltre il 40% era affetto da almeno una patologia psichiatrica. Poi ci sono le malattie infettive. Il carcere costituisce una comunità chiusa, sovraffollata, promiscua: un concentratore di patologie. “Una delle questioni più lamentata dagli operatori è la difficoltà di rispondere alla domanda di salute degli istituti. Una domanda ineludibile”, commenta Scandurra di Antigone, “Le Asl dovrebbero farsene carico, ma i detenuti sono considerati cittadini di serie B, persone a cui concedere diritti e servizi più scarsi, perché hanno commesso reati”. Di reati, Vallanzasca ne ha commesso di efferatissimi. Alcuni anche nel carcere stesso. Nel 1981, mentre era detenuto nella prigione di Novara, contribuì a fomentare una rivolta nella quale vennero uccisi dei collaboratori di giustizia. Tra loro, anche Massimo Loi, poco più che 20enne, un tempo suo amico fraterno. Loi voleva cambiare vita e aveva deciso di pentirsi. Durante la rivolta, approfittando del caos, Vallanzasca lo colpì ripetutamente al petto con un coltello. Il corpo del ragazzo non venne lasciato in pace neanche esanime: decapitato, i detenuti giocarono a pallone con la sua testa. Vallanzasca ad ogni modo negò per anni il coinvolgimento nell’omicidio. Di rivolte, risse e pestaggi ne fomentò diversi negli istituti dove veniva recluso e che proprio per questi motivi continuava a cambiare in continuazione. In tre occasioni riuscì a evadere. Nel 1976 lo fece dopo aver contratto volontariamente l'epatite, iniettandosi urine per via endovenosa, ingerendo uova marce e inalando gas propano, con l'intento di essere conseguentemente ricoverato in ospedale. Una vigilanza meno stretta e l'aiuto di un poliziotto compiacente gli permisero la fuga. Vallanzasca si è presentato ieri in tribunale con una coppola in testa e le scarpe da ginnastica. È solo l’ombra dell’uomo che conquistò un ruolo da protagonista nella mala milanese degli anni 70, a capo della banda della Comasina, uno dei più potenti e feroci gruppi criminali all’epoca nella città, in una spartizione di potere con la banda di Francis Turatello, rivale prima ed ex nemico poi, con un’alleanza suggellata nel 1979 durante il matrimonio in carcere a Rebibbia: Turatello fu il suo compare di anello nelle nozze con Giuliana Brusa, una sua ammiratrice. Turatello e Vallanzasca: Faccia d’angelo e il bel René, come li chiamavano, per via di un aspetto pulito e attraente. Vallanzasca quel soprannome non l’ha mai sopportato. Eppure ancora adesso gli è rimasto appiccicato addosso, ora che gli stessi giudici lo riconoscono, mettendolo per iscritto, come “un uomo provato”, “segnato ovviamente da circa cinquant'anni di carcere”. Ma le varie richieste di grazia sono state respinte, il regime di semilibertà è stato revocato e le richieste di libertà condizionale negate, perché “non si è ravveduto e non ha risarcito le vittime”, né ha prodotto “comportamenti positivi da cui poter desumere l'abbandono delle scelte criminali”. Così Renato Vallanzasca rimane in cella e si aggiunge alla lista dei numerosi reclusi affetti da patologie. L’Associazione Antigone - dalle visite effettuate in 81 istituti penitenziari negli ultimi 12 mesi - ha rilevato che su centro detenuti 8,81 sono affetti da diagnosi psichiatriche gravi. L’assenza del supporto psichiatrico e psicologico è cronico: la media si attesta intorno alle 8 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. “I muri delle celle grondano muffa, quelli degli ospedali no”, dice Scandurra, “Non si riesce a invertire questo schema secondo cui i detenuti devono vivere in condizioni inadeguate, ragione di recidiva, quindi di sovraffollamento e dunque di medici che bastano sempre meno. Sono cittadini che non votano, che hanno commesso reati, ma c’è una cultura profonda che ritiene abbiamo meno diritti degli altri per questo motivo. È una violazione della legge. Un paradosso: loro stessi sono in carcere per aver violato la legge”. Firenze. Tanto affetto e la bibbia regalata ai detenuti. Don Gambelli saluta il carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 giugno 2024 Don Gherardo Gambelli saluta i detenuti di Sollicciano prima di essere ordinato arcivescovo di Firenze nella cattedrale di Santa Maria del Fiore nel giorno di San Giovanni. Un saluto commosso e partecipato, quello che ieri pomeriggio si è tenuto nel penitenziario fiorentino, che ha segnato la fine del servizio tenuto da Gambelli come cappellano del carcere. Un saluto, una preghiera e la consegna ai reclusi della Bibbia. “La consegna della Bibbia - ha detto Gambelli - è un momento significativo perché la parola di Dio viene offerta come qualcosa che nutre il cammino di fede delle persone, che nella parola di Dio trovano una luce e una forza che permette loro di sostenere la prova difficile della detenzione”. Circa una cinquantina i detenuti presenti, oltre alla direttrice Antonella Tuoni e alcuni agenti: “Quando c’è un cuore riempito dall’amore di Dio, questo diventa motivo per sperare perché, come ha detto Papa Francesco, se si chiude la speranza in carcere non c’è futuro per la società”. I detenuti, oltre ad ascoltare, hanno incoraggiato Gambelli nel suo nuovo ruolo di arcivescovo: “Incoraggiamento per me importante”. Poi Gambelli ha promesso maggiore attenzione della diocesi verso il mondo del carcere: “Come da tradizione sarò presente a Sollicciano per la messa di Natale e nel giorno di giovedì santo, ma vorrei potenziare la presenza dei volontari della diocesi, quelli del cammino neocatecumenale, di Sant’Egidio e della Caritas”. Parole particolarmente importanti, quelle di don Gambelli, viste anche le condizioni del penitenziario fiorentino, che rimangono precarie soprattutto dal punto di vista strutturale e architettonico, con celle umide piene di infiltrazioni nonostante alcuni lavori partiti. E ambienti molto caldi d’estate e molto freddi d’inverno. “In questo periodo fa caldo e la detenzione diventa ancora più difficile”. Gambelli ha parlato anche della questione del sovraffollamento e della “mancanza di agenti”, oltre a sottolineare il problema della rieducazione in carcere su cui “serve una grande attenzione da parte di tutti”. I lavori che dovrebbero garantire un futuro più dignitoso a Sollicciano, però, nella grande maggioranza dei progetti previsti, non sono mai partiti nonostante l’annuncio da parte del Governo, ormai qualche anno fa, e dello stanziamento di circa 7 milioni per la ristrutturazione. Una situazione che, nei mesi scorsi, aveva denunciato pubblicamente anche la direttrice del carcere e su cui ancora c’è profonda incertezza, oltre alle poche parole da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Condizioni difficili che si traducono anche nei tanti atti di autolesionismo tra i reclusi, oltre che i vari suicidi che si sono verificati negli ultimi anni, che fanno di Sollicciano una delle carceri con più casi. Al posto di Gambelli arriverà adesso un altro cappellano, ma ancora non c’è il nome, che sarà comunicato nei prossimi giorni. Pozzuoli (Na). Le “Lazzarelle” e il teatro dietro le sbarre di Enrico Fiore Corriere del Mezzogiorno, 21 giugno 2024 Il 22 maggio scorso Roberto Russo pubblicò in questo giornale un bell’articolo sulle centoquaranta detenute del carcere femminile di Pozzuoli trasferite dopo le scosse di terremoto. Un articolo bello non solo per la precisione con cui venivano esposti i dati di cronaca, ma anche e soprattutto per la partecipazione umana. La stessa partecipazione manifestava il 4 giugno Elisabetta Soglio, pubblicando nel “Corriere della Sera” la lettera ad un tempo dolente e indomita della cooperativa “Lazzarelle”, intesa ad affermare la volontà di non far morire il progetto che aveva portato avanti producendo appunto nel carcere di Pozzuoli, con quindici delle detenute regolarmente retribuite, caffè e cioccolateria di qualità. A me son tornati subito in mente gli incontri - lo dico senza esitazioni, fra i più intensi e significativi della mia vita - che ebbi con alcune di quelle detenute. Naturalmente, c’entra sempre il teatro. Poiché si trattò d’incontri che si verificarono mentre seguivo gli spettacoli (anche questo dico senza esitazioni, fra i più coinvolgenti che abbia mai visto) compresi nel progetto “Il carcere possibile”, curato per la Camera Penale di Napoli, e con rigore d’intenti e passione civile, dal compianto avvocato Riccardo Polidoro. L’ho già scritto. Il teatro è l’arte sociale per eccellenza. Presuppone che un certo numero di persone si riuniscano in un giorno, in un’ora e in un luogo determinati per partecipare a un autentico rituale collettivo che finge la vita e - proprio per questo può ammaestrare circa la vita reale. Nei casi migliori la finzione e la realtà si fondono (e si confondono) continuamente, non sai più dove finisca il teatro e cominci la vita. E dunque non poteva non sfociare nel teatro “Il carcere possibile”, volto giusto ad aprire alla società la dimensione asfittica dei detenuti. Al centro del progetto, che aveva come scopo la denuncia delle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari e la rieducazione e il reinserimento dei detenuti, c’era una rassegna teatrale, la sola del genere in Italia, che vide recitare reclusi e recluse dei carceri di Secondigliano, Lauro, Nisida, Poggioreale, Pozzuoli e Benevento in spettacoli quali - ne cito solo alcuni, tanto per accennare all’alta qualità della manifestazione - “Serra S4” (da “La serra” di Pinter), “Quelli che” (da “Tutti quelli che cadono” di Beckett), “... Tutti i segni delle stelle...” (dall’”Agamennone” di Eschilo) e “Addereto ‘nce sta’ ‘na storia” (da “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo). S’intende che, per molti ed ovvi motivi, spiccò la rivisitazione di “Filumena Marturano”, operata proprio dalle detenute di Pozzuoli. E già il titolo era degno della massima attenzione: perché quell’”Addereto ‘nce sta’ ‘na storia” chiamava in causa il fatto che, in tutta evidenza, la storia di Filumena Marturano e dei suoi tre figli è la storia di Luisa De Filippo e dei suoi tre figli Eduardo, Titina e Peppino. Di conseguenza, subito chiesi all’avvocato Polidoro di parlare con quella delle detenute di Pozzuoli che interpretava Filumena. Era un’impresa pressoché impossibile. Le detenute arrivavano dal carcere a bordo di un cellulare e, debitamente scortate dalle agenti di custodia, venivano portate direttamente nei camerini del teatro. Ma riuscimmo a organizzare una deviazione da tale percorso obbligato e a combinare, con l’”attrice” in questione, un incontro clandestino che si svolse, una mezz’ora prima dello spettacolo, nel corridoio del primo ordine di palchi del Mercadante. Maria Rosaria Misiano aveva una cinquantina d’anni ed occhi duri e franchi. Si presentò accompagnata da un’agente di custodia adeguatamente robusta. E immediatamente dissi a quest’ultima che doveva lasciarmi da solo con Maria Rosaria. “Non è possibile”, rispose lei, “la detenuta è affidata a me e non devo lasciarla nemmeno per un secondo”. Replicai: “Va bene, allora sorvegliatela da lontano. Mettetevi in fondo al corridoio e la guardate da lì”. Riuscii a convincerla. E appena si allontanò, non persi tempo. Con altrettanta durezza e franchezza, domandai a Maria Rosaria Misiano: “Chi è Filumena Marturano?”. Rispose di botto: “È ‘na femmena”. E quando subito dopo le domandai: “Chi è Domenico Soriano?”, con veemenza non minore rispose: “È ‘nu strunzo”. Ecco, in quella sera del 2006 una detenuta del carcere femminile di Pozzuoli sintetizzò, con la verità e la brutalità che le aveva insegnato la vita, non solo quanto dei due celeberrimi personaggi Eduardo dice nella didascalia iniziale del proprio testo (ci presenta un Domenico Soriano “pallido e convulso di fronte a Filumena, a quella donna “da niente” che, per tanti anni, è stata trattata da lui come una schiava e che ora lo tiene in pugno, per schiacciarlo come un pulcino”), ma anche ciò che ne discende. Infatti, così spiegò Maria Rosaria le sue lapidarie definizioni: “Filumena è ‘na femmena pecché tene ‘ncuorpo ‘na cosa sola: ‘o desiderio ‘e se venneca’ ‘e Soriano. E Dummineco è ‘nu strunzo pecché praticamente se l’ha accattata. ‘A situazione sta tutta dint’ ‘o disprezzo ca Filumena sputa ‘nfaccia a Dummineco quanno lle dice: “Me sierve... Tu, me sierve!”“. Così, in quattro parole, quella semplice detenuta colse quanto la gran parte della critica si ostina ancora oggi ad ignorare: in “Filumena Marturano” c’è assai poco amore e, invece, molto di qualcosa ch’è addirittura peggio dell’odio, il rancore. In breve, volendo fare dei paragoni estremi, navighiamo dalle parti della “Danza macabra” di Strindberg più che da quelle del “Mese mariano” di Salvatore Di Giacomo. Ma un altro dei miei incontri con le detenute di Pozzuoli merita d’essere ricordato. Ero entrato nel carcere, sempre per vedere uno dei loro spettacoli, con il permesso rilasciatomi dal ministero di Grazia e Giustizia, e al termine, dopo essermi trattenuto per qualche minuto con le “attrici”, attendevo che venissero a prelevarmi gli addetti al disbrigo delle pratiche di uscita. E passò, mentre veniva ricondotta in cella, una delle detenute. Giovanissima, non più di vent’anni. La teneva stretta per un braccio la solita agente di custodia adeguatamente robusta. Arrivata alla mia altezza, la ragazza si bloccò e mi fissò. E l’agente di custodia, intuendo che stava di fronte a un momento importante, le lasciò il braccio. Io non so che cosa ci fosse in quello sguardo, che non ho più dimenticato. Che cosa ci fosse di particolare, voglio dire. Perché so benissimo che c’erano, dentro, un mondo e il mondo. La ragazza non fece un gesto e non disse una parola. Ma non ce n’era bisogno, e, di più, doveva essere così. Pensai a Carmelo Bene. Una volta, nel cominciare un’intervista con lui, manifestai la mia sorpresa, poiché aveva dichiarato che non avrebbe più rilasciato interviste. E il gran Demiurgo dell’Assenza replicò: “Il fatto è che quelle fra me e te non sono interviste: ognuno parla per conto suo”. Io e Carmelo eravamo due mondi inconciliabili, così come eravamo io e la ragazza detenuta nel carcere di Pozzuoli. E perciò potevamo stabilire fra noi una comunicazione fortissima. “Si può solo dire nulla”, infatti, s’intitola il volume pubblicato dal Saggiatore a vent’anni dalla morte di Bene e che raccoglie tutte le interviste con lui, ben sette delle quali mie. Ma chiudo rievocando quello che succedeva di solito alla fine degli spettacoli de “Il carcere possibile”. Esplodeva una gioia pura, la calca sotto il palcoscenico di mamme, mogli e sorelle, con i bambini - trofeo d’amore e pegno di libertà - mostrati al di sopra della barriera formata dalle guardie carcerarie. “C’ha visto, c’ha visto, ja’!”. La frase rimbalzava da un punto all’altro della calca. E appaciate dalla constatazione, ora potevano andarsene. Ma per giorni, forse per settimane, ancora se lo saranno raccontato, intorno al tavolo della cucina, lo sguardo di desiderio dei figli, dei mariti e dei fratelli colto al di là dei secondini. E così, almeno per una volta, si realizzava l’eterno sogno del teatro: quello di durare oltre sé stesso, oltre la solitudine della recita. Belluno. I detenuti futuri maestri di scacchi al carcere di Baldenich sportesalute.eu, 21 giugno 2024 È stata presentata ieri nella sala polifunzionale della Casa circondariale di Baldenich, a Belluno, il progetto “Sport di tutti - Carceri”, che vedrà i detenuti bellunesi protagonisti di un programma di avvicinamento alla pratica degli scacchi, disciplina che, così come la vita, ha delle regole. Ad illustrare “Sport di tutti - Carceri”, iniziativa promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani e sviluppata da Sport e Salute, in collaborazione con il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, è stato il referente di Sport e Salute Veneto, Stefano Camporese, assieme alla direttrice della Casa circondariale di Belluno, Lara Rampin, oltre agli assessori comunali di Belluno, Raffaele Addamiano e Marco Dal Pont, alla garante per i detenuti del comune di Belluno, Maria Losito. Assieme a loro anche i referenti dell'Asd Scacchistica Pordenonese, vincitori del bando che mira a portare lo sport all'interno del carcere. Nel corso della presentazione, su quattro tavolate, alcuni dei detenuti erano intenti a giocare a scacchi su apposite scacchiere, a testimonianza concreta dell'attività. “Questa progettualità - ha detto l'Assessore alla Cultura del comune di Belluno, Raffaele Addamiano - è l’incarnazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione, con l’obiettivo della rieducazione del detenuto per il tramite del veicolo dello sport, non solo finalizzata all’apprendimento delle regole della disciplina sportiva degli scacchi, ma con la prospettiva più profonda del reinserimento attivo e consapevole della persona nella società alla scadenza della pena”. A fargli eco l'Assessore al Sociale, Marco Dal Pont. “Socializzazione, inclusione, integrazione, educazione sono valori basilari nello sport che trovano la loro naturale applicazione nel contesto carcerario: i detenuti che accolgono la proposta degli scacchi, o altre che potranno presentarsi in futuro, avranno la possibilità di mettersi alla prova, ora, con il gioco e chissà, un giorno a fine pena, con il reinserimento nella vita quotidiana”. Il plauso all'iniziativa è arrivato anche dalla Garante per i detenuti, Maria Losito che ha rivolto un appello “a tutte le associazioni sportive e culturali di Belluno affinché si propongano con progettualità coinvolgenti e motivanti: i detenuti hanno estremo bisogno di sentire attenzione nei loro confronti e di ritrovare la spinta per mettersi alla prova”. Ad approfondire il valore della pratica scacchistica anche in chiave di riabilitazione sociale, è stato il referente ed istruttore dell'Asd Scacchistica Pordenonese, Vanni Tissino. “Per giocare a scacchi sono fondamentali diversi aspetti: conoscere le regole, saperle applicare, usare il tempo a disposizione per effettuare la mossa realizzando cosa potrebbe fare l’avversario. Una disciplina non semplice ma che abitua ad agire con consapevolezza e razionalità. Il nostro obiettivo è quello di formare un team competitivo, 4 persone, che potrà competere con squadre di altre case circondariali che hanno all’interno progettualità analoghe”. “Sottolineo il vero gioco di squadra che sta portando alla riuscita ottimale di quest’iniziativa -ha sottolineato il Direttore della Casa circondariale bellunese, Lara Rampin -. Sport e Salute ed il Governo che l’ha finanziata, l’Associazione sportiva che la sta proponendo con molta attenzione e dedizione, la struttura carceraria intesa come educatrice e guardie che supervisionano alla realizzazione, i detenuti che l’hanno accolta e che continuano a praticarla. Bravi tutti!”. Infine, Stefano Camporese, referente del progetto “Sport di tutti Carceri” di Sport e Salute Veneto ha evidenziato come “qualsiasi competizione sportiva dev’essere affrontata con spirito di confronto: non sto giocando contro, ma assieme a qualcuno; potrò vincere come potrò perdere; ma non dovrò mai considerarmi un campione come nemmeno uno sconfitto; dovrò sempre avere l’obiettività di riflettere sulla mia prestazione per analizzare le aree di miglioramento. Lo sport, come la vita. Aiutiamo chi è più in difficoltà a provare a migliorarsi”. Roma. Festa della Musica. Rebibbia, metà giardino metà galera di Antonia Fama collettiva.it, 21 giugno 2024 Grazie all’Associazione Dire Fare Cambiare l’iniziativa arriva anche nel carcere romano. Due concerti, l’esibizione dei detenuti cantanti e la presentazione di un libro. La Festa delle Musica arriva ogni 21 giugno, con il solstizio d’estate e festeggia quest’anno la sua trentesima edizione. Con tante novità, tra cui una particolarmente bella. Grazie all’Associazione Dire Fare Cambiare la musica risuonerà anche tra le pareti dell’Istituto Penitenziario di Rebibbia Reclusione. Si festeggerà anche qui. “Abbiamo pensato importante di promuovere una serie di attività in grado di favorire la conoscenza tra il “dentro” e il “fuori” il carcere - spiega Giulia Morello, Presidente dell’Associazione - tema sul quale come lavoriamo da diversi anni”. Per l’occasione si esibiranno, accompagnati da una band, i detenuti che da novembre seguono un laboratorio di canto promosso grazie al supporto dello stesso Istituto Penitenziario e del Nuovo Imaie. Dal mondo “fuori” sono previsti gli interventi e le esibizioni di tanti artisti: La Caracca - Tamburi itineranti; la cantautrice Asia Fiorillo, che è stata anche docente del laboratorio di canto nell’Istituto penitenziario. A Roma il lavoro teatrale che ha visto in scena 14 detenuti di Rebibbia con un testo collettivo e diretti da Emilia Martinelli e Tiziana Scrocca Alla musica suonata si alternerà quella raccontata, con la presentazione del primo saggio dedicato al rapporto tra musica e reclusione, Metà giardino, metà galera. Le parole del carcere nella musica italiana. Gli autori, Alessia La Villa e Leandro Vanni raccontano il sistema penitenziario e i suoi protagonisti attraverso i brani musicali che dal secondo dopoguerra ad oggi artisti e artiste italiani hanno dedicato a questo tema spesso considerato scomodo. I due autori, educatrice e ispettore superiore di polizia penitenziaria, fanno un lungo viaggio nella musica a partire dall’esperienza personale che vivono, ogni giorno, entrambi, dietro i cancelli, ma da prospettive diverse. Dal Don Raffaè di De Andrè, al Renato Curcio di Francesco Baccini e il Vallanzasca di Enrico Ruggeri. Una lettura diversa della detenzione di Silvia Baraldini vista attraverso gli occhi di Francesco Guccini e della tragica morte di Stefano Cucchi cantata dagli Impatto zero. “Solo la musica sembra avere in effetti il potere di varcare i confini - si legge nel comunicato di Dire Fare Cambiare - In questo caso oltre i muri, oltre le sbarre. E di raccontare ciò che vede”. La Festa della Musica di Rebibbia sarà trasmessa da Radio Underground Italia il 24 giugno dalle ore 21.00. Don Claudio Burgio: “Nessun ragazzo nasce cattivo” di Gabriella Cantafio vita.it, 21 giugno 2024 In un libro e in un podcast la storia del cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano che ha realizzato la comunità Kayros. Alle porte di Milano, nel comune di Vimodrone, c’è un luogo magico in cui gli errori vengono trasformati in opportunità. A decretare il livello di difficoltà per recuperare la propria libertà sono i colori delle quattro case: arancione, giallo, azzurro e verde. Come la speranza che, oltre 20 anni fa, ha guidato Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, verso la realizzazione della comunità Kayros, dove attualmente accoglie circa 50 ragazzi, tra i 14 e i 25 anni. Soprattutto in quest’epoca in cui la criminalità giovanile inonda le pagine di cronaca, tutti li considerano ragazzi difficili che finiscono dietro le sbarre per crimini più o meno gravi, ma, come ribadisce la scritta all’ingresso: Non esistono ragazzi cattivi. Ci tiene a ribadirlo Don Claudio Burgio: “Nessun ragazzo nasce cattivo, talvolta la cattiveria è una maschera che indossano per reagire a una fragilità causata dall’assenza di una figura genitoriale, dal disagio tipico dell’adolescenza, aggravato da una quotidianità vissuta in strada senza modelli di riferimento, tra malessere e sfiducia”. Don Claudio Burgio “Nessun ragazzo nasce cattivo” - Fiducia è, infatti, la parola chiave attraverso cui il prete tende la mano ai ragazzi. “Il nostro tentativo è quello di puntare più sulla libertà che sulle regole”: così si legge nel sito di presentazione della comunità Kayròs. E Don Claudio lo mette in pratica ogni giorno, senza minacce e sanzioni, stimolando la responsabilità di ogni ragazzo. “Lasciamo i cancelli aperti, giorno e notte, mettiamo in atto la sfida della libertà per far capire loro che non sono in carcere, ma devono saper scegliere il loro bene. La nostra iniezione di fiducia favorisce grandi cambiamenti” spiega Burgio che di recente ha pubblicato il libro Non vi guardo perché rischio di fidarmi (Edizioni San Paolo), in cui racchiude storie di cadute e resurrezione dei “suoi” ragazzi. Calcio, cucina, teatro, ma soprattutto musica: sono tante le attività che scandiscono le giornate dei ragazzi all’interno della comunità, permettendo loro di riscoprire passioni e sviluppare competenze con cui costruire il proprio futuro. Di recente, negli spazi di Kayros, è stato inaugurato uno studio di registrazione musicale, donato dal gruppo Sugar, ed è stata fondata l’etichetta musicale Kayros Music. “Il periodo adolescenziale è caratterizzato un po’ per tutti da una scarsa verbalizzazione, ancor di più in casi di disagio. Attraverso la musica rap, i nostri ragazzi riescono ad esprimere le proprie emozioni, il proprio vissuto. E, a volte, con i loro brani scalano le classifiche, come nel caso di Baby Gang” commenta Don Claudio. Le voci di alcuni di questi ragazzi - come per esempio Bryan e Andrew, grandi amici che la notte di Natale del 2022 hanno preso una decisione fondamentale per il loro futuro: il primo è evaso dal Beccaria, l’altro è rimasto, per poi ritrovarsi insieme in comunità, mesi dopo; Adam e Cuba, che riempivano le proprie notti con risse, furti e rapine, prima di trovare la propria strada - sono protagoniste anche del podcast della giornalista Gabriella Simoni, Quei cattivi ragazzi, prodotto da Chora Media, disponibile dal 13 giugno in sei episodi. Da trent’anni inviata di guerra del TG5 nonché assidua frequentatrice di Kayros, dove ha instaurato un rapporto di fiducia e amicizia con i ragazzi, gli educatori e le educatrici, Simoni è pienamente d’accordo con Burgio nel sottolineare l’importanza del dialogo, inteso come capacità di ascolto, che, senza giudizi e pregiudizi, libera l’adolescente dalla paura della propria fallibilità e lo introduce a una vera conoscenza di sé stesso. “Così riusciamo a superare la diffidenza che questi ragazzi, istintivamente, nutrono nei confronti di tutti gli adulti”, afferma Burgio, “dimostrando che non è con l’inasprimento delle pene che si aiuta un adolescente a fuoriuscire dal circuito penale. Non è una legge più severa che può fare da deterrente per combattere la criminalità giovanile, come non è la paura dell’arresto, il terrore del carcere che può scoraggiare un ragazzo dal commettere reati. Un giovane cambia se si sente investito di fiducia, se incontra qualcuno che crede in lui e offre opportunità reali di rinascita”. Proprio ciò che avviene all’interno della comunità, dove, attuando la pedagogia del perdono, si cerca di coinvolgere le agenzie educative per scrivere insieme nuove pagine di vita, cogliendo il momento opportuno, il Kayros appunto. “Il racconto di un muro”, l’autobiografia di un palestinese da 30 anni nelle carceri israeliane di Elena Rosselli Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2024 “L’odio? Soltanto uno spreco di energia”. Un memoir carcerario, una riflessione politica su cosa significhi definirsi palestinese, un racconto d’amore. È tutto questo e molto altro Il racconto di un muro di Nasser Abu Srour. Pieno di riferimenti alla filosofia occidentale - Kierkegaard, Freud, Derrida solo per citarne alcuni - e al cristianesimo, è un testo denso, stratificato, estremamente coerente nella sua struttura complessiva, nonostante sia impossibile sapere come abbia fatto l’autore a scrivere e far arrivare fuori dal carcere il manoscritto, pubblicato per la prima volta nel 2022 da Dar Al Adab, un’editrice di Beirut, dopo due anni di vicende rocambolesche. Nato nel 1969 in un campo profughi vicino a Betlemme, lo scrittore infatti è stato accusato di aver partecipato all’uccisione di un ufficiale dell’intelligence israeliana e condannato all’ergastolo. “Quest’uomo che aveva preso di mira un cugino di Abu Srour per farlo diventare un informatore, viene trovato morto, ma non si sa altro della sua storia”, mi spiega l’arabista Elisabetta Bartuli, che ha tradotto l’edizione italiana per Feltrinelli. Quello che, invece, è evidente è che il libro mostra da parte dell’autore “un bagaglio culturale di grande spessore - continua Bartuli - Ci regala una voce che rompe lo stereotipo secondo cui, per alcuni, la Palestina non sarebbe in grado di produrre intellettuali di un certo spessore”. Perché “racconto di un muro”? Perché, scrive Abu Srour all’inizio rivolgendosi ai lettori, “questa non è la mia storia, è il racconto di un muro che mi ha scelto come testimone”. È sempre stato il muro, infatti, “a consegnarmi ognuno degli aggettivi con cui mi definisco”. Nel campo profughi, in prigione, nel cuore di una donna - Nanna, un’avvocata per i diritti umani di cui si innamora durante la detenzione, protagonista della seconda parte del libro - e infine di nuovo in prigione. Perché il muro è punto di partenza e di arrivo. È l’unica certezza, l’elemento in cui si congiunge il cerchio. Lo scrittore racconta della sua adolescenza, quando già sente come sia asfittica una linea temporale che faccia cominciare tutto dall’espulsione della Nakba, “senza niente prima e niente dopo” e percepisce di appartenere a una generazione che ha dovuto comporre da sé il proprio mito: dopo 20 anni si è scrollata di dosso “il pesante e opprimente lascito di disfatte non sue, ma nel 1987 ha annunciato la sua rivoluzione scrivendone le prime pagine con le pietre”. La prima Intifada per Abu Srour è il momento in cui i giovani profughi come lui, spogliati della loro marginalità, diventano primi attori, persino dèi che, “voltate le spalle ai discorsi nati e proliferati in una geografia senza patria e alla chimera di una grande nazionale musulmana in cui la religione era morta nel preciso istante in cui tutti loro erano stati uccisi o cacciati”, parlano tutte le lingue del dolore. “Avevamo bisogno di una generazione che si sollevasse, la Generazione delle pietre”, scrive prima di spiegare come quel momento storico fosse fondamentale anche perché faceva a pezzi “l’immagine stereotipata che ci vede come un Oriente barbaro, bisognoso di una guida che metta un freno alla sua brutalità e alla sua atavica arretratezza”. E ancora: “Noi si proclamava la nostra estraneità ai lunghi e monotoni panegirici in lode a re e sultani che ormai, a furia di opprimerci, ci avevano esasperato”. Il riferimento a re e sultani non è casuale perché Il racconto di un muro è anche un dito puntato. Non solo contro gli occupanti, come è ovvio, ma anche contro la ‘umma’, la comunità dei musulmani che “ha espulso i profughi palestinesi, corpi estranei che turbavano i loro confini coloniali”. Nel gennaio 1993 il 24enne Abu Srour è a casa di un amico, fuori dal campo profughi. Si addormenta mentre fantastica su Natalie, un’assistente universitaria con cui ha preso un gelato due mesi prima. Lo sveglia “la gelida canna di un fucile”, che lo colpisce in fronte, una raffica di domande dal “signore e padrone dell’acciaio”, “una muta di bestie in agguato che solo il guinzaglio tratteneva dall’azzannare qualunque cosa puzzasse anche solo da lontano di ostilità”. Lo caricano su una camionetta che puzza di ferro e polvere da sparo, lo martellano con un’altra selva di domande sul giorno precedente. Nasser risponde, riportato alla realtà dalla violenza che gli scaricano addosso. Poi mani che afferrano le catene ai polsi e alle caviglie per buttarlo dentro la celletta numero 24 all’interno del centro interrogatori della prigione di al Khalil/Hebron (l’autore userà sempre il nome arabo per riferirsi alle città della Cisgiordania), dove “tu sei l’odore del tuo sudore, il sapore della tua disfatta e la preda dei tuoi pensieri. Nel centro interrogatori tu sei tutto e niente è te”. Che cosa esattamente confessi Nasser non viene detto esplicitamente, forse perché non è chiaro nemmeno a lui: “Il tuo interrogatorio è finito quando ti sei messo a scrivere cose che, adesso, non ti importa più se sono vere o false, la tua preoccupazione maggiore, adesso, è come interpretare e definire questo nuovo te stesso”. È qui che riprende, dopo l’esperienza delle mura del campo profughi, il rapporto con il muro. Solo rinunciando a ciò che stava dietro e incollandosi a esso, Abu Srour avrebbe mantenuto l’equilibrio e la sanità mentale. Dopo la confessione, arriva l’isolamento nella prigione di Ramla, cittadina occupata al centro della Palestina. Dentro la ‘busta’, il furgone per il trasporto, Abu Srour è in dialogo solo con se stesso: “Nessuno mi avrebbe imposto i suoi credo, quella era la mia nascita (…) Non avrei odiato il mio carceriere perché l’odio è soltanto uno spreco di energia, un altro catenaccio ancora e per me non ci sarebbero state porte, eccetto quella che avrei chiuso su me stesso”. Ancora non lo sa, ma scoprirà a breve che l’isolamento prevede di sopravvivere in un buco di cemento a tre metri sotto il livello del suolo. Tuttavia l’autore non si dispera, anzi: “Avevo bisogno di quella breve pausa da vivere con la triade che mi avrebbe fatto compagnia lungo tutto il mio periplo: io, il mio dio e uno spazio angusto”. Una triade che, quando si innamora di Nanna, cambia e diventa “io, il mio cuore, il mio spazio angusto”. Da quel momento cambierà spesso prigione, dal deserto del Negev alla costa di Ashkelon e questi passaggi saranno sempre utilizzati come punti di partenza per riflessioni sulla storia, la geografia, la letteratura e la religione della Palestina. La posizione di Abu Srour, distante dalla società in cui è cresciuto, conferisce ai suoi resoconti del conflitto israelo-palestinese una particolare obiettività. Non è più un attore del dramma della Palestina, ma segue gli sviluppi a distanza. Gli accordi di Oslo sono una delusione. Yasser Arafat, definito “il Grande narratore”, firmò “accordi e mappe che nemmeno lui era in grado di interpretare” con lo “Stato occupante” (Abu Srour usa la parola “Israele” solo 5 volte in 323 pagine). L’11 settembre complica ulteriormente le cose per la Palestina, affossata “da una pletora di discorsi che gridavano vendetta” e dalla “reiterata assenza dalle scene delle nostre élite”. La Primavera araba lo coglie di sorpresa e gli infonde ottimismo: “Mi ha dato gioia che una generazione ponesse fine a lunghi decenni di indifferenza, di sottomissione e di fatalisti ‘rimettiamoci a Dio’”, scrive l’autore, ancora più ottimista dopo che la rivoluzione investe l’Egitto e fa cadere il trentennale regime di Hosni Mubarak, “un vecchio faraone”. Anche qui però il disincanto arriva presto, dopo che un accordo di scambio di prigionieri fa uscire solo poche centinaia di detenuti, per lo più legati ad Hamas, perché non importa da quanto sei dentro, ma solo la tua affiliazione: “I paesi arabi non sono cambiati, sono rimasti com’erano, solo con più sangue e più morti - scrive - Una primavera balbettante e malferma, rivoluzioni scippate a chi le aveva accese, divise militari ripulite dalle loro sconfitte e acquartierate sui seggi governativi”, riflette con amarezza l’autore, che intanto in carcere consegue una laurea e un master in Scienze politiche. Prima del 7 ottobre 2023, Abu Srour era uno degli oltre 5.000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Dal 7 ottobre, l’ong Addameer stima che siano stati arrestati oltre 9mila palestinesi della Cisgiordania e 640 bambini oltre ai 250 provenienti da Gaza. A maggio il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, ha dichiarato, per l’ennesima volta, che la pena di morte per i prigionieri è “la giusta soluzione al problema della carcerazione”. Sempre a maggio un’inchiesta di Haaretz, Cnn e New York Times ha mostrato le inumane condizioni in cui vivono - e muoiono - i detenuti a Sde Teiman, una base militare israeliana nel deserto del Negev, convertita a prigione per i palestinesi catturati dopo l’invasione di Gaza. Dopo la denuncia di questi fatti che ricordano, per atrocità, lo scandalo di Abu Ghraib, 700 detenuti sono stati trasferiti, ma 200 rimangono ancora nella base. Come racconta il Guardian, durante le trattative degli scorsi mesi sullo scambio di ostaggi israeliani presi da Hamas il 7 ottobre con palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, per Abu Srour è arrivata la prospettiva della libertà, ma è stata disattesa come tutte le altre volte, anche quando il suo rilascio era parte di un impegno del processo di pace del 2013 mediato dall’amministrazione Obama. Così, alla fine, terminata anche la parentesi d’amore con Nanna (“Tu non mi basti”, è la frase che gli rimane conficcata nella testa), Abu Srour, nella cella 33 del carcere di Hadarim, torna al suo unico riferimento: “In questa mia prigione, io sono il signore di questo muro, dei muri che lo hanno preceduto e di quelli che lo seguiranno. (…) Io sono il padrone di quest’angolo, il padrone di questa cella, il padrone del mio ergastolo. (…) Io sono gli anni di queste catene, sono la mia prigione e sono il prigioniero. Io sono il testimone della mia causa persa e sono il martire, sono colui che ha perso la libertà e sono la mia libertà”. Fine vita. Tutti gridano al “fascismo” e nessuno cambia il codice penale fascista di Chiara Lalli Il Dubbio, 21 giugno 2024 Passano ormai inosservate cose come il reato di aiuto al suicidio, vero lascito del ventennio: Alfredo rocco, 1930. È tutto fascismo. Niente lo è. Ci ho pensato tutta la mattina, mercoledì, durante l’udienza della Corte costituzionale sull’articolo 580 del codice penale (o meglio su uno dei requisiti decisi dalla sentenza 242 della Corte nel 2019; tra poco ci torno). Codice Rocco, una delle cose per cui sarebbe lecito e giusto usare quella parola lì. È un articolo che ha quasi cento anni e che punisce l’aiuto e l’istigazione al suicidio, e che mi riguarda perché rischio di essere condannata per aver accompagnato Massimiliano in Svizzera - insieme a Marco Cappato e a Felicetta Maltese. Ma non è questo il punto, ora. Non che mi faccia piacere rischiare da 5 a 12 anni di carcere, ma ho scelto di accompagnare Massimiliano, ho scelto di fare quel poco che potevo fare per esaudire il suo desiderio semplice e difficilissimo (“voglio morire a casa mia senza soffrire”) e sapevo quali erano le conseguenze. Il punto è: possibile che quando inciampiamo in qualcosa di fascista manco ce ne accorgiamo? Siamo così distratti? Siamo così ipnotizzati da non capirlo? E com’è possibile che quell’articolo sia rimasto lì per tutti questi anni? Cioè fino al 2019 e alla sentenza 242 della Corte costituzionale che lo ha in parte dichiarato incostituzionale, stabilendo dei requisiti di non punibilità tra cui il cosiddetto trattamento di sostegno vitale, che è un criterio non chiaro e che rischia di essere discriminatorio? E perché nessuno lo ha riformato prima? Se ricordo bene Carlo Nordio aveva promesso di riformare il codice fascista - e questo articolo è fascista e sarebbe facile da riformare. E sarebbe anche doveroso, perché lì dentro c’è ancora una idea della nostra vita come un bene indisponibile, e una visione della nostra libertà molto angusta. Non basterebbe, ovviamente, perché non è il solo residuo fascista e perché la giustizia, il carcere, le intercettazioni, la procedura penale, la separazione delle carriere sono tutte cose complicate e importanti. Però magari si potrebbe cominciare dalle cose semplici. E ci si potrebbe ricordare che non solo la procedura ma pure il codice penale avrebbe bisogno di qualche aggiustamento. Poi c’è la convinzione che urlare dal divano “fascista!” o “vergogna!” serva a qualcosa. E certamente serve a non sudare e a sembrare buoni, ma dubito che possa avere altri effetti. Ma sul 580 non ho nemmeno sentito tanto strepitare, e nemmeno qualcuno strillare da un loggione “viva la Costituzione, abbasso il codice Rocco”. Oppure forse ero distratta io. E c’è la dissoluzione delle gerarchie (non fasciste): se il saluto romano è grave quanto il bracciante morto, qualcosa non va. Quando “fascista” ha lo stesso significato della sciarpa della Roma, qualcosa non va. Quando si accusa qualcuno di avere il padre fascista, qualcosa non va. Poi c’è forse un’altra questione: non abbiamo altre parole per condannare qualcosa? Perché evocare il fascismo sembra essere rimasta l’unica accusa possibile, pigra e sciatta. E, per carità, non voglio mica dire che sia una bella cosa il fascismo (dobbiamo davvero dirlo?), ma che si rischia l’effetto assuefazione e distrazione. Se tutto è fascismo niente lo è. Giornata mondiale del rifugiato: la morte o il lager, il destino dell’umanità in eccesso di Gianfranco Schiavone L'Unità, 21 giugno 2024 Nella prefazione a Chiusi dentro. I campi di confinamento dell’Europa del XXI secolo, Livio Pepino scrive: “Il concetto chiave per definire le politiche migratorie è racchiuso in un termine, solo all’apparenza opposto a quello che dà il titolo a questo volume: “fuori”. È questo il non luogo dove devono stare i migranti”. “C’è un mantra che percorre l’Unione europea, un accordo ferreo che unisce, senza eccezioni, gli Stati che la compongono. Divisi su (quasi) tutto, essi si ritrovano su un punto: limitare al massimo gli ingressi di migranti nel territorio dell’Unione, chiudere e presidiare le frontiere. Alcune eccezioni, come quella dell’accoglienza degli ucraini in fuga dalla guerra, non fanno, con la loro unicità, che confermare la regola. Variano le modalità operative (più o meno stringenti e vessatorie) ma l’assunto non viene messo in dubbio: possono, e ancor più potranno, circolare le merci (salvo qualche balzello imposto dai nazionalisti più impenitenti), ma quel che vale per loro non vale per le persone. Le conseguenze sono drammatiche, come descritto nelle pagine che seguono. A tale descrizione può essere utile far precedere, come inquadramento generale, alcune considerazioni. Il concetto chiave per definire le politiche migratorie è racchiuso in un termine, solo all’apparenza opposto a quello che dà il titolo a questo volume: “fuori”. È questo il non luogo dove devono stare i migranti, ridotti a non persone: un territorio privo (in linea di principio) di riferimenti spaziali, non importa dove collocato, purché lontano e invisibile ai nostri occhi. Ed è un non luogo presidiato da divieti, muri, respingimenti, riammissioni e, a rinforzo, da luoghi -questi sì definiti- di contenimento, collocati oltre i confini (“fuori” appunto) o, comunque, funzionali all’allontanamento. Siamo di fronte al disprezzo, all’annientamento dei corpi dei migranti, da rendere invisibili. Come nelle politiche di colonizzazione, in cui i corpi dei colonizzati erano ridotti a cose, in patria o in un “fuori” dove erano deportati come schiavi. Lo strumento di questo annientamento è, oggi, il confine, fatto per disegnare la differenza tra noi e loro, di cui non ci importa né ci interessa nulla” (introduzione, pag.11) Con queste riflessioni Livio Pepino, già magistrato, presidente di Magistratura Democratica e ora presidente dell’associazione “Volere la Luna” introduce il saggio Chiusi Dentro. I campi di confinamento dell’Europa del XXI secolo, a cura di Rivolti ai Balcani, 2024, ed. Altreconomia. Frutto di un lavoro interdisciplinare di 21 autori italiani e stranieri il libro è forse la più ampia analisi delle politiche europee di respingimento ed esternalizzazione delle frontiere finora pubblicata in Italia aggiornato a maggio 2024. Dove finiscono le “vite di scarto” (per riprendere la definizione di Zygmunt Bauman) che vengono respinte alle frontiere o che rimangono bloccate nei Paesi terzi, si chiedono gli autori del libro? È un interrogativo che nella letteratura scientifica, nonostante i molti campi coinvolti (politica, antropologia, sociologia, diritto) ha suscitato poco interesse probabilmente perché non è stata ancora compreso l’enorme impatto delle politiche di esternalizzazione attuato dall’Europa e dai suoi Stati membri. Una parte di questa umanità in eccesso semplicemente muore; si tratta di dati paragonabili in dimensione ai morti di una guerra di ampie proporzioni. Piuttosto esiguo, se non irrilevante, è invece il numero di coloro che dai cosiddetti paesi terzi dove sono bloccati intraprendono la via del ritorno nonostante gli enormi sforzi finanziari dell’Unione Europea nel cercare di realizzare programmi di rientro “volontario” su larga scala attraverso l’operato dalle agenzie internazionali (IOM in particolare). Della reale natura volontaria di molti ritorni v’è da dubitare in quanto “per essere tale deve poter maturare e avvenire in condizioni di libertà di scelta; in assenza di tali condizioni il rientro volontario si trasforma in una forma di deportazione mascherata in quanto la “scelta” viene effettuata a seguito della esposizione a condizioni di vita insopportabili che non hanno lasciato alla persona alcun margine di reale libera scelta” (cap. 2 pag. 38). Sono molte le ragioni per cui il rientro è spesso una scelta impossibile: lo è innanzitutto, sempre, per i rifugiati e per coloro che fuggono da un conflitto armato o rischiano torture e trattamenti inumani e degradanti; lo è però spesso anche per coloro che si sono spostati per ragioni diverse dalla ricerca di protezione a causa delle mutate condizioni nel Paese di origine lasciato magari molti anni prima, dello stigma sociale del migrante che ha fallito o delle condizioni economiche che si sono determinate a causa dei debiti accumulati dal migrante e dalla sua rete famigliare, spesso allargata al proprio clan e gruppo di riferimento. Oltre coloro che perdono la vita nelle migrazioni o che rientrano nel Paese di origine la condizione di gran lunga maggioritaria è tuttavia rappresentata da coloro che rimangono intrappolati e sospesi per tempi indefiniti in Paesi terzi i quali non possono o non vogliono, per i grandi numeri che si trovano a gestire, o per scelte politiche, assicurare ai migranti né una effettiva protezione giuridica né un percorso di reale integrazione sociale. Anche il Rapporto “Global Trends 2023” dell’UNHCR sul diritto d’asilo presentato come di consueto ogni 20 giugno, giornata mondiale che l’ONU dedica ai rifugiati, oltre a ricordare l’aumento vertiginoso di rifugiati nel mondo nell’ultimo decennio, torna a sottolineare ancora una volta come sono i paesi a basso e medio reddito che ospitano il 75% dei rifugiati del mondo. L’Europa si ostina ad ignorare che in molti Paesi terzi non è possibile assicurare un’effettiva protezione ai rifugiati anche in ragione di un’eccessiva pressione su questi Paesi. E cerca, all’opposto, ogni strada possibile per ammassare in questi Paesi sempre più vite di scarto. È alla condizione umana di milioni di persone che non possono tornare indietro, non possono andare avanti ma neppure possono ricostruirsi una vita dove si trovano, che il saggio Chiusi Dentro rivolge una particolare attenzione scandagliando la nozione di “campo di confinamento” per migranti la cui finalità appare appunto quella di confinare masse consistenti di esseri umani di cui ci si deve occupare al solo fine di impedire, almeno in parte, che essi raggiungano il territorio di quegli Stati che non intendono, sia in termini giuridici che materiali, farsene carico. Il saggio evita con rigore ogni indebito paragone con altre tipologie di campi che hanno tragicamente segnato la storia del ‘900 senza però sottovalutare la gravità dei fatti che connotano l’attuale contesto storico e ricordando che “nella misura in cui il campo di confinamento ha come primaria finalità la gestione autoritaria di masse umane considerate in eccesso, può dunque anch’esso, con le sue peculiarità, essere considerato un’istituzione concentrazionaria” (cap. 2 pag.43) Il lettore non dovrà infine stupirsi di vedere trattato nel saggio anche il ruolo di Paesi che non sono affatto terzi bensì membri dell’Unione Europa (come Grecia, Polonia, Italia). Ciò in quanto l’avanzare sempre più veloce del processo di erosione del diritto d’asilo ha reso possibile in una certa misura l’estensione del modello del campo di confinamento anche all’interno della stessa Unione europea, pur con limiti e particolarità conseguenti a un quadro di garanzie giuridiche ancora esistenti (ma per quanto?). Acutamente Livio Pepino nella sua introduzione scrive che “lo stesso termine “campo”, che definisce genericamente i centri di detenzione per migranti, si ricollega alle pratiche coloniali di confinamento e di isolamento, per imprigionare disciplinare i corpi dei colonizzati ed escluderli dall’ordine dei colonizzatori. L’umiliazione e l’inferiorizzazione si affiancano-allora addirittura prevalendo- allo scopo di tenere materialmente “fuori” dai confini chi cerca di attraversarli. Lo si vede anche nelle caratteristiche dei “centri-campi” gemelli previsti, nel nostro Paese, per il rimpatrio, in cui il limite temporale di permanenza, dilatato fino a 18 mesi, è funzionale a trattenere ancor più che a respingere, posto che la quota di respinti, all’esito del trattenimento, è inferiore al 50% degli ospiti. (….) Anche il trattenimento generalizzato dei migranti, come le politiche di stop, serve a ridisegnare il sistema sociale e politico delle democrazie occidentali in crisi. Non solo si introduce il doppio livello di cittadinanza ma, attraverso la reclusione senza reato (categoria comprensiva del trattenimento coatto e della detenzione amministrativa), si negano le conquiste fondamentali della modernità, a cominciare dall’habeas corpus”. (pag.16) Migranti. I braccianti pontini scioperano per Singh: “No allo schiavismo” di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 21 giugno 2024 Sabato in piazza con la Flai Cgil. Elly Schlein: ci sarà anche il Pd. Il titolare dell’azienda al Tg1 rovescia le colpe sul migrante morto. La tragica morte di Satnam Singh, il giovane indiano a cui lunedì mattina un macchinario ha tranciato un braccio e schiacciato le gambe, e il mancato soccorso da parte dei suoi datori di lavoro, hanno sconvolto la comunità indiana dell’agro pontino, che conta almeno 12 mila persone. “Già nel passato ci siamo trovati a subire situazioni di particolare gravità, ma mai avremmo pensato di trovarci di fronte a un atto di questa ferocia”, ha detto ieri il presidente della comunità indiana di Latina Gurmukh Singh. I braccianti sabato sciopereranno per due ore a fine turno e scenderanno in piazza insieme alla Flai Cgil. Elly Schlein ha annunciato che alla manifestazione parteciperà anche il Pd, mentre il segretario della Cgil Maurizio Landini. Di fronte alle polemiche che montavano, anche sul silenzio del governo, nel pomeriggio Giorgia Meloni ha aperto il consiglio dei ministri dicendo di augurarsi che “questa barbarie venga duramente punita”, mentre il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e la ministra del Lavoro Maria Grazia Calderone hanno convocato questa mattina i sindacati per discutere di sfruttamento del lavoro. A scatenare ulteriori polemiche ieri mattina sono state le parole al Tg1 di Renzo Lovato, il titolare dell’azienda agricola di Latina dove lavorava Satnam Singh. “Lo avevo avvisato di non avvicinarsi al mezzo, ma ha fatto di testa sua, una leggerezza che è costata cara a tutti”, ha detto, senza menzionare il fatto che non siano stati chiamati i soccorsi e che il migrante sia stato caricato su un pullmino e abbandonato davanti a casa sua agonizzante. Nessun accenno neppure al fatto che il migrante, secondo l’ispettorato del lavoro, era impiegato al nero, come anche sua moglie. I componenti del Pd in commissione di vigilanza della Rai hanno presentato un’interrogazione al presidente della tv pubblica Roberto Sergio per chiedere se vi siano stati “interventi che abbiano condizionato la predisposizione del servizio minimizzando l’accaduto. “Stiamo parlando di un lavoratore che è morto e che lavorava in nero e sentir parlare così sembra quasi normale che uno che fa impresa lo debba fare con degli schiavi, questa è follia. Siamo di fronte a un atto di vero e proprio schiavismo, una situazione di una gravità senza precedenti. In un caso del genere, aziende come queste vanno chiuse e va impedito che continuino a lavorare”, ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini. Intanto cominciano a emergere sempre maggiori particolari sull’incidente. Antonello Lovato, co-titolare dell’azienda con suo padre Renzo, è indagato dalla procura di Latina per omesso soccorso e omicidio colposo. Sarebbe stato lui a mettere Satnam e la moglie, che lavora nella stessa azienda, sul furgone e a scaricarli davanti alla loro abitazione, lasciando l’arto staccato su una cassetta della frutta. Sarebbe indagato anche un lavoratore indiano che era alla guida del furgone che ha scaricato Singh davanti a casa sua. L’imprenditore ha raccontato ai pm di aver chiamato “un aiuto” per la raccolta dei cocomeri nel suo appezzamento di 4 ettari e di aver portato la vittima sotto casa su sua richiesta. Secondo le prime ricostruzioni, nessuno in azienda avrebbe chiamato i soccorsi per almeno due ore, che potrebbero essere risultate fatali. Il 118 sarebbe stato chiamato solo una volta che il giovane era stato portato a casa. “Ho visto l’incidente, ho implorato il padrone di portarlo in ospedale, ma lui doveva salvare la sua azienda agricola. Ha messo davanti a tutto la sua azienda agricola. Il padrone ha preso i nostri telefoni per evitare che si venisse a sapere delle condizioni in cui lavoriamo. Poi ci ha messo sul furgone togliendoci anche la possibilità di chiamare i soccorsi”, ha raccontato Sony, la moglie di Satnam. “Si sentivano le urla della moglie che continuava a chiedere aiuto, poi abbiamo visto un ragazzo che lo teneva in braccio e lo ha portato dietro casa. Noi pensavamo lo stesse aiutando, ma poi è scappato via”, hanno ricordato due ragazzi che ospitavano Satnam e la moglie in un rustico dietro la loro abitazione e che per primi hanno chiamato i soccorsi. “L’ho visto che entrava nel furgone e gli ho chiesto cosa fosse successo e perché non lo aveva portato in ospedale. Mi ha risposto “da me non sta in regola”. Migranti. Naufragio nello Jonio come Cutro, quei naufraghi si potevano salvare di Vittorio Alessandro* L'Unità, 21 giugno 2024 Sono trascorsi 5 giorni, prima che la barca a vela partita dalla Turchia ricevesse soccorso nonostante fosse alla deriva. Tante barche l’hanno ignorata. Una strage figlia delle politiche anti-immigrati di questo governo. Dovremmo affrettarci a dare un nome al naufragio di quattro giorni fa al largo delle coste calabresi, perché gli affondamenti senza titolo vengono presto dimenticati. Cutro o il 13 ottobre, con i cadaveri sulla spiaggia o allineati in banchina, rimangono, con la loro triste etichetta, a interrogare le nostre coscienze. Senza nome sono quasi sempre i naufragi più lontani, che si confondono tra loro e le cui vittime, anch’esse anonime, durano soltanto il tempo buono delle statistiche. A proposito: sono già 800 i morti dall’inizio dell’anno e, secondo qualcuno, questo sarebbe un dato favorevole. Quest’ultimo potremmo registrarlo come il Naufragio dei cinque giorni: tanti ce ne sono voluti perché la barca a vela - partita l’11 giugno dal porticciolo turco di Bodrum e affondata, forse dopo un’esplosione, nella notte fra domenica e lunedì - venisse finalmente raggiunta dal mercantile che ha salvato 12 superstiti (una donna è morta nel tragitto di sbarco), mentre i dispersi sarebbero 64, tra i quali 26 bambini e intere famiglie fuggite dall’Afghanistan. Poi iraniani, curdi, iracheni. Certamente le quasi cento persone costipate nella barca durante otto giorni di navigazione, cinque dei quali trascorsi alla deriva con lo scafo che imbarca acqua, senza tregua avranno chiesto aiuto ai centri istituzionali del soccorso (le guardie costiere) e alle unità di passaggio su quel mare “forza olio”. Sarebbe stata proprio una di loro, una imbarcazione da diporto, a rimbalzare l’allarme all’IRMCC italiano, a quel punto chiamato a rispondere ad una “emergenza conclamata” (l’intervento sarebbe stato, altrimenti, derubricato a semplice operazione di polizia anti-immigrazione) in acque SAR italiane. Le ricerche, svolte in mare e in volo da assetti della Guardia Costiera e di Frontex, non hanno però dato il risultato sperato, nonostante le buone condizioni meteo-marine e l’area di ricerca relativamente ristretta. Affermano, inoltre, i sopravvissuti che molte barche sarebbero passate accanto a loro senza prestare aiuto e proprio questo tradimento, ormai ricorrente, delle regole fondamentali della marineria merita più di una riflessione. Bisognerebbe chiedersi, cioè, quanto veleno abbia riversato in mare una politica migratoria europea che, incapace di dare risposta ai fantasmi da se stessa evocati, si è ridotta a limitare e ad ostacolare i soccorsi. Il nostro governo, prima e più degli altri, si è mosso su due assi portanti. Il primo, coerente con le politiche precedenti, consiste nell’aver ristretto gli interventi per raggio di estensione (raramente si interviene nell’area Sar libica o maltese, anche quando quei paesi non intervengono) e per criteri di intervento (se una barca galleggia e naviga, benché strapiena e in pericolo, la sua presenza riguarda la polizia e non il soccorso). Per conseguire l’obiettivo, l’esecutivo ha di fatto mutilato la nostra Guardia costiera, differenziando i soccorsi “ordinari” da quelli rivolti ai migranti (l’emergenza dei “grandi numeri”), e mortificando lo straordinario riflesso condizionato di chi esce in mare ancor prima di averci pensato, per salvare la vita di chiunque si trovi in pericolo. Sfugge spesso che i soccorsi in mare non sono soltanto il frutto di quella virtuosa capacità di reazione, ma anche il risultato di una visione strategica che solo la Guardia costiera, per posizione istituzionale, è in grado di elaborare: quella che nel 2011 la indusse a dislocare un buon numero di motovedette classe 300 (cosiddette “ogni tempo”) ancor prima che deflagrassero i numerosi sbarchi nell’anno della primavera araba. Il secondo perno strategico governativo poggia sugli accordi con Libia e Tunisia tesi ad ostacolare le partenze usando finanziamenti e motovedette forniti dall’Italia, da tempo disinteressata alle sorti dei migranti e ai campi di prigionia, parte decisiva dell’organizzazione criminale libica. Su pressione dell’Europa, anche la Tunisia ha in questi giorni ottenuto una propria area Sar, nonostante versi in una situazione non dissimile da quella libica: a terra la persecuzione dei migranti; in mare i miliziani chiamati a catturare in tutti i modi chi prende il largo; assenza di porti sicuri: elementi che hanno indotto il Consiglio di Stato a sospendere, in via cautelare, la cessione di motovedette italiane alla Tunisia. La terza tappa sarà, dopo aver ostacolato il soccorso civile, la costosa e controversa creazione di un campo italiano in Albania. L’ispirazione governativa, esplicitata poco più di un anno fa a Cutro, si basa sull’analisi del fenomeno migratorio non quale intrattenibile flusso (peraltro, numericamente modesto) di spostamenti umani, ma come l’esito di un disegno che incrocerebbe genitori irresponsabili, rampolli in cerca di occidente e scafisti criminali. A partire da una valutazione così ideologicamente costipata, l’obiettivo del governo si risolve nello scoraggiare le partenze: caro migrante, sarai catturato e riportato indietro e, comunque, sappi che rischieresti di morire: sto ostacolando le navi di soccorso e nessuna motovedetta italiana metterà la prua fuori dalle proprie acque Sar; in prospettiva potresti, poi, finire rinchiuso in un campo profughi albanese. Diamo, dunque, un nome anche a questo naufragio, ci serve. Il Naufragio dei Cinque giorni, oppure - ancora meglio - lasciamogli il nome di Nalina, la bambina irachena di dieci anni, scampata alla morte, che continua ancora a chiedere dove siano i suoi genitori. Sono diventati un numero, anch’essi fra gli 800 annegati di questo 2024. *Ammiraglio della Guardia Costiera in congedo Migranti. Famiglie intere inghiottite dal mare, la tragedia costruita a tavolino dai governi di Marco Bertotto* L'Unità, 21 giugno 2024 All’indomani dell’ennesima strage in mare, il dolore dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime reclama risposte, azioni e responsabilità da parte delle istituzioni italiane ed europee per impedire altre morti. Di fronte all’ennesima conta straziante, 21 salme e oltre 60 dispersi in soli 10 giorni, il silenzio istituzionale è vergognoso. Un silenzio incurante del dolore di chi sopravvive, un vuoto disumano non tollerabile. Non c’è risposta dai governi italiani e dalle istituzioni europee agli oltre 1.000 morti nel Mediterraneo solo quest’anno; la loro inerzia lo ha svuotato di mezzi e risorse di ricerca e soccorso. Sei morti al giorno sono qualcosa di più che la dimostrazione di un fallimento delle autorità italiane, smascherano soprattutto una tragedia umanitaria costruita a tavolino, provvedimento dopo provvedimento, dai diversi governi che si sono succeduti in questi anni. Invece di azioni concrete per evitare altre tragedie in mare, come rafforzare le attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo o creare vie legali e sicure per arrivare in Europa, le autorità italiane e le istituzioni europee hanno scelto consapevolmente politiche letali di deterrenza, violenza alle frontiere, respingimenti forzati, accordi con Paesi terzi che perseguitano le persone migranti e la sistematica criminalizzazione di chi tenta di soccorrere chi è in pericolo in mare. Ciascuna di queste scelte politiche disumane ha contribuito a far sì che ieri intere famiglie scomparissero inghiottite dal mare davanti alle coste italiane. All’indomani dell’ennesima strage in mare, il dolore dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime reclama risposte, azioni e responsabilità da parte delle istituzioni italiane ed europee per impedire altre morti. *Direttore dei programmi di Medici Senza Frontiere in Italia Migranti. Motovedette alla Tunisia, lo stop del Consiglio di Stato di Marina Della Croce Il Manifesto, 21 giugno 2024 Accolto il ricorso di un cartello di Ong: “Non è un Paese sicuro”. La sentenza attesa per luglio. Proprio nei giorni in cui la Tunisia formalizza la creazione di una sua zona di ricerca e soccorso (Sar) nella quale dovrebbe intervenire in aiuto delle imbarcazioni dei migranti in difficoltà, il Consiglio di Stato sospende il trasferimento di sei motovedette a Tunisi accogliendo l’istanza cautelare presentata da una serie di ong che contestano la continua violazione dei diritti umani messa in atto nel paese nordafricano nei confronti di quanti cercano di attraversare il Mediterraneo. La decisione finale verrà presa l’11 luglio prossimo, giorno in cui è stata fissata la camera di consiglio, ma per il momento le imbarcazioni restano all’ancora in Italia. Nel frattempo un rapporto messo a punto dalla ong Alarm Phone insieme alla società civile tunisina e intitolato “Mare interrotto”, mette nero su bianco le violenze compiute proprio dalla Guardia costiera tunisina nei confronti dei migranti. A fine maggio il Tribunale amministrativo aveva reputato legittimo l’accordo per l’invio di sei motovedette a Tunisi - con un impegno finanziario di 4,8 milioni di euro per la rimessa in efficienza e il trasferimento - e per questo aveva respinto il ricorso presentato dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Human, Spazi circolari e Le Carbet. Per i giudici amministrativi la fornitura di imbarcazioni era in linea con le decisioni prese a livello comunitario - come ad esempio il Memorandum siglato il 16 luglio 2023 tra Ue e Tunisia - e da ultimo con la conferma della Tunisia quale paese di origine sicuro e ritenendo che il governo italiano avesse condotto una completa istruttoria a fronte di una cooperazione di lungo periodo con la Tunisia. Un giudizio ribaltato dal Consiglio di Stato - a cui le ong avevano presentato ricorso - che ha ritenuto “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate dalla parte appellante” e sospeso, almeno per ora, l’invio delle navi. La decisione di palazzo Spada mette in crisi un tassello importante della politica messa in atto dal governo per provare a fermare i migranti, e ha suscitato le critiche di alcuni esponenti del centrodestra. Soddisfatti, viceversa, i commenti delle ong. “Come sostenuto dalle Nazioni unite, fornire motovedette alle autorità tunisine vuol dire aumentare il rischio che le persone migranti siano sottoposte a deportazioni illegali” hanno spiegato tre dei legali che seguono il caso. Mentre per Lorenzo Figoni di ActionAid “le deportazioni d massa, gli arresti arbitrari e le violenze ai danni elle persone migranti dimostrano che la Tunisia non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco”. Un’ulteriore prova di cosa accade dell’altra parte del Mediterraneo la forniscono le testimonianze raccolte da Alarm Phone nel dossier “Mare interrotto”, in cui si denuncia come l’Unione europea abbia appaltato la gestione dei flussi di migranti alle autorità tunisine in cambio di aiuti di varia natura. “Erano le 5 del mattino del 10 luglio 2021”, è il racconto di Alì, bloccato insieme ad altri migranti mentre tentava di raggiungere l’Europa con un barcone. “La guardia costiera tunisina si è avvicinata alla nostra barca e ci ha chiesto di fermarci. Abbiamo deciso di obbedire, ma ha fatto una inversione e ha colpito deliberatamente la nostra barca che si è capovolta. Alcuni di noi avevano i giubbotti di salvataggio, ma non tutti. Solo 31 i sopravvissuti, 29 i dispersi. Tutti i bambini sono morti”. Ancora più drammatico, se possibile, il racconto di Maria, originaria del Camerun. “Mio figlio aveva un anno e tre mesi quando ho deciso di tentare la traversata. Eravamo su una piccola barca, avevo il bambino sulla schiena per la traversata, ero stanca. Abbiamo visto arrivare la Guardia nazionale che ci ha detto che saremmo morti qui. Hanno spinto la nostra barca e l’acqua ha cominciato a entrare, la gente ha iniziato a urlare. La nave della Marina si è allontanata e la nostra barca si è capovolta. C’erano mamme con bambini, donne incinte. Il mio bambino è morto. I 9 bambini che erano sulla barca sono morti tutti. Ho chiesto il suo corpo, ma la guardia costiera si è rifiutata e ora non so dove sia seppellito”. I nemici nella guerra si ritrovano a Parigi, fianco a fianco al gran banchetto degli armamenti di Domenico Quirico La Stampa, 21 giugno 2024 C’è un luogo in cui russi e ucraini si ritrovano sotto lo stesso tetto, insieme alle altre potenze. È la fiera bellica di Parigi, dove l’industria delle armi vola, corteggiata da destra e da sinistra. Il secondo anno di massacri ha fatto il suo lavoro. Un cielo fosco ci tiene nell’ombra e il vento di guerra pietrifica i mondi. A popoli interi, per cui le promesse sono diventate un soffio, non resta che trovar rifugio tra le rovine e attendere. Spappolato il comunismo, incancrenito l’Occidente tra parole grosse, frasi fatte e altri nauseabondi ingredienti della politica, condannato, ci mancherebbe, dalle sue selvagge sillabe il jihadismo planetario, non credevo fossero rimasti universalismi possibili, linguaggi comuni, Weltanschauung unificanti. Poi ho riscoperto “Eurosatory”, a Villepinte, banlieue di Parigi e il suo venticinquesimo salone mondiale degli armamenti. È stata lì, per alcuni densi e polposi giorni, la sede della Quarta internazionale, del vero Concilio ecumenico. Dunque c’è ancora un evento che affratella, che cancella le differenze, che rende tutti eguali perché vale solo l’eccellenza del prodotto e l’appetito del business. E dove verrebbe da aggiungere, si respira l’agostiniana “naturalezza del Male”, ma non con angoscia, semmai allegramente con l’Utile e la partita doppia. Pensavate che una mostra di macchinari omicidi fosse un luogo inameno, cruccioso, drammatico? Per nulla. Il mercato delle armi non conosce frontiere, sanzioni, divieti, ideologie, tentennamenti, rimorsi. Perché il Male, soprattutto di questi tempi, vende benissimo. E in fondo la Morte non rende tutti eguali? Il centro di gravità del pianeta si è spostato negli arsenali. Si annunciano, (ieri il caso della Estonia che ha fatto la spesa di Caesar, micidiali cannoni francesi a lungo raggio), si annunciano acquisti di armi come un tempo si celebravano i successi dello Stato Sociale. Paesi stringati dalla fame accorrono al bazar del carro armato e del drone infallibile. Di fronte al Riarmo in Europa, Destra e Sinistra si miscelano finalmente omologati, come all’epoca del Kaiser e di Poincaré. Si è fatta una nicchia, questa bellicistica fiera universale, in Seine-Saint-Denis. E che nicchia: 170 mila metri quadri, millecinquecento espositori, un centinaio di delegazioni nazionali, cinquanta Paesi rappresentati. C’è tutta la crème della Nazioni Unite, quelle che dovevano tutelare la pace. Gli Stati Uniti guidano il libro d’oro delle vendite con ventidue miliardi di dollari, poi la Russia che segue a sette e poi la Francia, la Gran Bretagna la Germania e via dicendo. C’è un solo posto al mondo in cui, per una settimana, Ucraina e Russia non si sono sparati. Non è Lucerna o Ryad dove gli arnesi grossi dell’analisi geopolitica posizionano futuri improbabili negoziati. È appunto Villepinte. Putin e Zelensky hanno organizzato con cura i rispettivi padiglioni, affollatissimi, appena ai lati opposti della fiera. Ma i russi erano lì, a Parigi, gli aggressori, i criminali, braccati dalle sanzioni e da infami mandati di cattura? Le aziende russe, come da regolamento, non hanno esposto gli originali, ma modellini. Ingegnoso stratagemma. C’era la fila di compratori per prenotazioni e commesse. Il benessere guerrafondaio è omologante, si vende e si fanno affari fianco a fianco con quelli con cui ci si massacra ferocemente. Altro che tregua olimpica! Qui si risolvono le contraddizioni per mezzo di prestidigitazioni del business globale. Questa economia ha i suoi geroglifici, i suoi messaggi, non ha più il quieto pudore della reticenza, anzi si vanta di esser sempre pervasiva. Alcuni ingenui che non hanno capito nulla del formicaio contemporaneo hanno provato a far escludere con decreto giudiziario l’industria militare israeliana per punirla dalla operazione a Gaza. Riammessa di urgenza. Ai francesi è bastato dare un’occhiata al fatturato. Va bene la fraternité con i bombardati, ma non esageriamo. C’eravamo anche noi. Con un nuovo elicottero prodotto da una delle cosiddette “eccellenze industriali” nostrane, Leonardo. Assicurano i piazzisti che piace e piacerà in molti degli orizzonti circoscritti da un tam tam di morte. Volete sapere, a farla corta, perché la guerra in Ucraina si prolungherà e diventerà più grande? La risposta sono i ministri e i generali, i presidenti di trust del complesso militar industriale e finanziario, gli amministratori delegati che negli ultimi due anni hanno triplicato il fatturato della “sicurezza”, gli specialisti della tecnologia omicida, accorsi tutti in ghingheri a Parigi e il cui motto è armatevi! È l’affare del millennio. Il salone era vietato ai minori di anni sedici, come una volta i film leggermente osé. Oh oh, faccio tra me. Ma che errore grossolano questa censura anagrafica! Le scolaresche bisognava portare qui, intruppate, dalle scuole elementari al “baccalaureat”. Che si istruiscano, in questa decoratività bellicista e un po’ fanfarona, su cosa muove davvero il terzo millennio. E si preparino all’evo che li aspetta, non un mondo declamatorio in tela e cartapesta ma quello di una età del ferro planetaria. Nel 2022 con l’aggressione putiniana si è rotto l’equilibrio e si è avviato un lungo, doloroso, affannoso cercare un ordine nuovo che colmi i vuoti di quello vecchio e seppellisca le forme sopravvissute a se stesse. In questa atroce baraonda ognuno cerca, ben camuffato dietro le sue bugie, un utile. I pescecani della guerra, gli eredi dei Krupp, ora ben mimetizzati in un opaco pulviscolo di aziende, multinazionali, partecipazioni intrecciate, si riservano ognuno un frammento della catena di montaggio omicida, per cancellare le tracce e la colpa finale. Uno sparuto gruppetto di volenterosi ha manifestato davanti ai cancelli di Eurosatory: questa è la città dell’amore non della guerra! Non si sono accorti che tutti i partiti, a destra e a sinistra, fanno ormai bigotte riverenze alla guerra “fino a quando sarà necessario”. I post fascisti che fino a ieri erano attraversati da non certo faticosi affetti putiniani danno lezioni di atlantismo viscerale ai post comunisti terrorizzati dall’idea di sentirsi rammentare (remote) aggrovigliature internazionaliste o peggio. La politica in Occidente e ad Oriente è formata da commessi viaggiatori dell’Industria della guerra. Stati Uniti. Negato il “diritto all’abbraccio” di Paolo Fruncillo La Discussione, 21 giugno 2024 In molte carceri americane le videochiamate sono l’unico modo in cui i detenuti possono vedere i propri cari. Reekila Harris-Dudley attendeva con ansia una videochiamata, seduta su una cassa di plastica nella prigione della contea di Genesee a Flint, Michigan, di fronte a uno schermo. Quella era l’unica possibilità per augurare a sua figlia un felice quarto compleanno faccia a faccia. Purtroppo, il sistema non funzionava. Come molte persone detenute nelle carceri americane, Harris-Dudley non ha potuto vedere sua figlia perché la contea di Genesee ha sostituito le visite in presenza con videochiamate, spesso costose e problematiche. Centinaia di giurisdizioni negli USA hanno eliminato le visite in presenza, lasciando solo le videochiamate. Gli amministratori delle carceri hanno visto un vantaggio economico e un incremento delle entrate. A febbraio, Harris-Dudley è stata arrestata e accusata dopo aver reagito violentemente contro il padre di suo figlio, che secondo lei abusava di lei. Più di 90 giorni dopo, era ancora rinchiusa perché non poteva permettersi la cauzione. Nella contea di Genesee, le videochiamate sono gratuite se il visitatore si reca in prigione e utilizza uno schermo lì. Altrimenti, costano 10 dollari per 25 minuti. Un rapporto della Prison Policy Initiative (PPI) del 2015 mostra che il 74% delle carceri che hanno implementato le videochiamate hanno anche vietato le visite in presenza. Worth Rises, un’organizzazione per la giustizia penale, si batte per abbassare il costo delle chiamate da dietro le sbarre, e spinge per una legislazione che renda le telefonate gratuite per i detenuti ovunque negli USA. Alec Karakatsanis sta ora sfidando in tribunale la politica delle visite solo video, definendola incostituzionale e dannosa per la società. Nei suoi documenti, ha sostenuto che i bambini hanno il “diritto di abbracciare” i loro genitori. Russia. “Metodo Navalny” per altri due dissidenti di Rosalba Castelletti La Repubblica, 21 giugno 2024 I prigionieri politici Jashin e Kara-Murza sono stati trasferiti in una “cella di rigore”, uno dei più duri regimi carcerari russi. L’isolamento nello shizo, la cella di punizione, non basta più. A distanza di un giorno, Vladimir Kara-Murza e Ilja Jashin, i più noti detenuti politici russi, sono stati trasferiti in un Pkt, Pomeshcheniye kamernogo tipa, letteralmente un “locale tipo cella”, una cella di rigore o - come l’ha descritta Jashin - “una prigione di massima sicurezza all’interno di una colonia penale, in sostanza una cella di punizione, ma su base permanente”. Per il legale di Kara-Murza, Vadim Prokhorov, “si tratta di tortura e di un rischio reale per la salute e la vita”. Anche Aleksej Navalny, l’oppositore morto in carcere lo scorso febbraio, era stato sottoposto a questo regime. Il timore inconfessato è che Kara-Murza e Jashin possano fare la sua stessa fine. Già in precarie condizioni di salute dopo essere sopravvissuto a due avvelenamenti, Kara-Murza si trova in un carcere di massima sicurezza, la colonia penale n. 6 di Omsk, dove sta scontando 25 anni di carcere per alto tradimento. Condanna confermata in appello dalla Corte Suprema lo scorso maggio. La ragione dell’inasprimento della detenzione è che “ha tenuto le mani dietro la schiena per diversi secondi mentre si avvicinava al luogo dove, secondo le regole interne, bisognava mettere il copricapo”, ha spiegato Prokhorov. Il giorno prima anche Jashin era stato trasferito in un “Pkt” dopo essere stato confinato già quasi un mese in una cella di punizione: 15 giorni per essersi alzato dal letto tre minuti prima del comando “Alzarsi” e altri 12 per aver violato il “codice di abbigliamento” carcerario perché, uscito dalla doccia, si era tolto l’uniforme per un paio di minuti per mettersi la maglietta. L’oppositore sta scontando otto anni e mezzo di carcere per “fake news” sulle forze armate russe nella colonia penale Ik-3 nella regione di Smolensk dove, a suo dire, le autorità carcerarie lo starebbero “pressando” per via delle sue lettere dal carcere e dei suoi post sui social network. “Significa che tutto questo colpisce l’obiettivo. Significa che sto facendo tutto bene e sto dando il mio contributo al nostro degno futuro. E non abbiate dubbi: continuerò”.