Carcere, mentre si muore la burocrazia soffoca il volontariato di Ilaria Dioguardi vita.it, 20 giugno 2024 Dopo i quattro detenuti che si sono tolti la vita dello scorso weekend - 44 dall’inizio dell’anno - Ornella Favero, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia, racconta le difficoltà frapposte al lavoro delle associazioni. “Due circolari dell’ultimo anno rendono tutto più difficile: ci vogliono anche mesi per avere un’autorizzazione, mentre prima si aspettava qualche giorno”. E confessa la sua preoccupazione per l’estate alle porte col sovraffollamento a livelli altissimi. Dall’inizio dell’anno sono 44 i suicidi nelle carceri, quattro nel giro di 24 ore tra venerdì e sabato. “Non dobbiamo lasciare soli i detenuti. Ora più che mai c’è bisogno di noi”, dice Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice della rivista della Casa di reclusione di Padova Ristretti Orizzonti. Favero, cosa può dirci della situazione attuale delle carceri italiane? La situazione nelle carceri è molto complicata e pesante. Noi della Conferenza nazionale volontariato giustizia stiamo portando avanti una battaglia per non abbandonare le carceri quest’estate, dobbiamo continuare le nostre attività. È un controsenso. Da una parte ci sono tutti questi suicidi di detenuti, dall’altra già da un mese ci viene detto che c’è il piano ferie del personale da garantire, quindi che dobbiamo ridurre o chiudere le attività. È una follia diminuire o chiudere le attività nel momento più drammatico per le carceri, che è l’estate. Sono molto preoccupata per questa estate che si presenta già al peggio, con i numeri del sovraffollamento (61.547 detenuti a fronte di una capienza di 47.067 posti disponibili, ndr) e dei suicidi così alto. Già la stragrande maggioranza degli istituti alle ore 15 chiude le attività tutto l’anno, d’estate non è che i detenuti vadano in vacanza. Con tutto quel disagio e quella sofferenza chiudere tutto è istigazione al suicidio. L’estate in carcere è quanto di più triste si possa immaginare. Noi come Ristretti orizzonti entriamo sempre, tranne la settimana di Ferragosto perché il carcere chiude l’ingresso all’esterno e non ce lo consente. Non è stato facile riuscire ad entrare anche d’estate, ma noi vogliamo presidiare le carceri, ora più che mai c’è bisogno di noi. Anche altre associazioni continueranno le attività, nei limiti del possibile, nelle carceri anche d’estate? Come presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia ho invitato le Conferenze regionali volontariato giustizia a non abbandonare le carceri, a fare i turni per presidiarle. Il volontariato in carcere è un volontariato che non si può fare con il buon cuore, è un volontariato complesso. Bisogna formarsi, aggiornare la propria formazione. Dico sempre che non si va a fare volontariato in carcere semplicemente perché si vuole fare del bene: si rischia di fare disastri. Da più parti si lamenta una diminuzione delle attività nelle carceri, in particolare dal Covid in poi. Le risulta che le associazioni di volontariato abbiano più difficoltà ad entrare in carcere? Dall’anno scorso due nuove circolari (datate 7 marzo 2023 e 6 aprile 2023, con successiva integrazione del 9 maggio 2024, allegate sotto, ndr) firmate dal capo del Dap Giovanni Russo, chiedono ai provveditori regionali, ai direttori delle carceri e ad altre figure dell’amministrazione penitenziaria di comunicare le attività di particolare rilevanza (le chiamano best practices) che vengono fatte nei vari istituti penitenziari perché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap vuole esserne a conoscenza (“[…] sono a chiedere di essere informato di ogni iniziativa o evento, che sarà avviato nelle diverse sedi penitenziarie del distretto di competenza, riferibile sia al benessere del personale che alle persone detenute”, ndr). Ma queste circolari stanno paralizzando molte attività. È tutto eccessivamente burocratizzato e, inoltre, non ci sono risposte tempestive alle mail inviate con le richieste. Si è messo in piedi uno strumento che, a volte, blocca tutto. Perché si blocca tutto? A seconda delle richieste, ci vogliono anche mesi prima di ricevere una risposta. Prima delle circolari introdotte da un anno, se invitavo in redazione per intervistarle persone significative, operatori sociali, magistrati, vittime di reati, avvocati, e si trattava di persone senza precedenti penali, chiedevo al direttore, che inviava la richiesta al magistrato di sorveglianza e dopo tre giorni la ottenevo. Adesso con queste circolari che chiedono le comunicazioni delle best practices gli istituti devono mandare al Dap a Roma tutte le autorizzazioni e ricevere una risposta, per poi poter procedere. C’è una volontà di controllo, queste circolari suonano come una censura. Mentre il Codice del Terzo settore afferma che le associazioni devono essere coinvolte nella co-programmazione e nella co-progettazione, sta succedendo il contrario. C’è un’organizzazione totalmente burocratica e a volte bisogna aspettare mesi per ottenere delle autorizzazioni che qualunque direttore prima poteva decidere di dare in cinque minuti. Può farci qualche esempio concreto di problemi legati a questa burocratizzazione? Noi come redazione abbiamo invitato nel carcere di Padova l’architetto Cesare Burdese per intervistarlo, abbiamo fatto richiesta un mese fa e ancora aspettiamo una risposta. Burdese ha lavorato tantissimo nell’edilizia penitenziaria e sta facendo dei progetti per consentire colloqui intimi. Con Ristretti Orizzonti ci stiamo dando da fare perché siano consentiti al più presto i colloqui intimi in carcere, dopo che lo scorso gennaio la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che nega gli incontri senza controllo visivo tra i detenuti e i partner (VITA ne ha scritto QUI, ndr). Abbiamo chiesto l’autorizzazione due mesi fa per far venire in carcere un giornalista della trasmissione televisiva Il cavallo e la torre a fare delle riprese, stiamo ancora aspettando. Una volta fatta la richiesta, dipende dal tipo di richiesta, ma passano anche mesi. E non si sa neanche se poi arrivano le autorizzazioni per fare delle attività in carcere. Io vedo che tutte le richieste che vengono inviate a Roma al Dap non tornano indietro o tornano dopo tantissimo tempo. È tutto complicatissimo. Far entrare i volontari, far fare un’intervista ad una persona dentro un carcere sono decisioni da direttore, non da Dipartimento. Io mi sono accorta che molte persone non sanno che esistono queste circolari che rallentano e bloccano tutto. Il fatto che gli agenti della Polizia penitenziaria sono costantemente insufficienti (mancano 18mila agenti) non facilita la gestione degli istituti penitenziari… La mancanza di personale significa che, se le persone stanno male, non ci può essere la dovuta attenzione. L’aumento del numero dei detenuti porta ad un abbassamento dell’attenzione nei loro confronti, non per cattiva volontà ma perché gli agenti sono pochi. Dove c’è mancanza di personale, c’è ancora più rischio dei suicidi. Spesso a sventare i suicidi sono proprio gli agenti di Polizia penitenziaria che sono nelle sezioni e che si accorgono, durante i controlli, che un detenuto ha inalato il gas o ha tentato di impiccarsi. I racconti dei detenuti sono desolanti, vivere in un clima di sovraffollamento e di tensione continui è molto difficile. Penso a quest’estate con molta paura. Confesso che sono pessimista per il futuro. Perché è pessimista? Ad esempio perché per quanto riguarda la concessione della liberazione anticipata speciale (qualche giorno o mese in più l’anno) non se ne vuole sentir parlare. Il sottosegretario al Ministero della Giustizia Ostellari, di recente, ha ribadito la sua contrarietà a questi “sconti di pena”. Ma abbiamo tentato in tutte le maniere di spiegare che non è uno sconto di pena ma una compensazione: si fanno vivere le persone in maniera illegale (nel sovraffollamento), perlomeno si creasse una compensazione. Suicidi in carcere: basta alibi di Liliana Segre* Oggi, 20 giugno 2024 La democrazia si misura anche su come trattiamo i detenuti. Le loro condizioni di vita vanno rese degne di un Paese civile. Il tema delle carceri mi è caro per varie ragioni. Perché ritengo che lo stato di salute di una democrazia si misuri anche sul modo in cui tratta le persone che allo Stato sono affidate; perché è dal modo in cui si persegue chi sbaglia che si dimostra la capacità di contribuire a una comunità più giusta. E non ultimo per ragioni personali. Non solo perché anch’io vidi un suicidio in carcere, quello del mio lontano parente Rino Ravenna, per il quale la sorte era segnata, ma anche perché quando con mio padre e altre centinaia di persone fummo prelevati dal carcere di San Vittore per essere portati a quel Binario 21 da cui saremmo partiti verso il campo di sterminio, in una Milano che si mostrava indifferente alle nostre sorti e al nostro macabro viaggio, solo dai detenuti di San Vittore ricevemmo solidarietà, empatia, persino pezzi di pane e arance. Per queste e altre ragioni, la scorsa settimana ho trasecolato - come purtroppo in molte altre occasioni - leggendo di quattro suicidi in sole 24 ore in varie carceri d’Italia. Una strage silenziosa che ha fatto salire a 44 il numero di detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio di quest’anno, cioè in meno di sei mesi, a fronte dei 70 registrati in tutto il 2023. A questi dati vanno aggiunti i quattro agenti della polizia penitenziaria: quattro, da gennaio a oggi. Sono numeri che raccontano che così com’è il nostro sistema carcerario non funziona. La controprova è in un dato riportato nel rapporto annuale (2023) dell’encomiabile Associazione Antigone: se fuori dal carcere il tasso di suicidi è di 0,67 casi ogni 10 mila persone, in carcere quel tasso arriva all’8,7. Un dato che allarma ma purtroppo non stupisce più. Salvo rarissime ed encomiabili eccezioni, infatti, nelle carceri italiane ai detenuti non si assicurano le condizioni minime per una vita dignitosa: le strutture sono fatiscenti, non garantiscono lo spazio vitale (ci sono 14 mila detenuti più di quanti ne potrebbero ospitare), manca un’assistenza psicologica reale e adeguata, e in generale tutto quello che concorrerebbe a garantire il raggiungimento dello scopo che la nostra Costituzione attribuisce alla detenzione, cioè una completa riabilitazione in vista del ritorno del detenuto alla vita sociale, scontata la pena. E invece trattiamo i carcerati come fossero irrecuperabili scarti. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ci ha più volte sanzionati per le condizioni cui sono costretti i detenuti nel nostro Paese, e di recente anche il Consiglio d’Europa ha espresso preoccupazione sul tema, invitando il governo italiano a intervenire con urgenza. Cosa non facile, perché come spesso si è evidenziato servirebbero fondi ingenti, nuove carceri, un maggior ricorso a pene alternative e, secondo alcuni, la revisione dei reati che prevedono la detenzione in carcere. Il problema è così grande da sembrare spesso inaffrontabile. Ma è un alibi che non regge più. Da qualche parte, prima o poi, sarebbe bene cominciare almeno a provare ad aggredire una situazione indegna di un Paese che voglia dirsi davvero civile. *Senatrice a vita Nordio: “Pronto il piano per le carceri” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2024 Carlo Nordio, ministro della Giustizia: “Il decreto legge portato al Cdm oggi prevede risorse aggiuntive, incrementa la dotazione organica del personale penitenziario, accelera la costruzione di nuovi padiglioni, ma soprattutto semplifica la procedura della liberazione anticipata. Inoltre, per alleviare la tensione nelle carceri, si aumenta la possibilità di colloqui telefonici interfamiliari”. Signor ministro, aldilà delle contestazioni dell’Anm e della quasi unanimità della magistratura, non teme che le garanzie per il cittadino si abbasseranno se il pubblico ministero diventerà esclusivamente avvocato dell’accusa (il Codice di procedura oggi impone la ricerca di prove anche a favore della persona indagata)? E poi, indipendentemente dalle sue garanzie personali, i Pm non finiranno inevitabilmente attratti nella sfera d’influenza dell’Esecutivo, come avviene in moltissimi Paesi? No, questi pericoli sono assolutamente infondati. Il fatto che il Pm sia parte processuale, come il difensore, non significa affatto che debba accusare a tutti i costi. A differenza della difesa, dispone di una polizia giudiziaria numerosa, professionale e gratuita. Questo gli impone di valersene nell’interesse della legge, come avviene ora e come avverrà in futuro, anche nella prospettiva di un nuovo Codice di procedura penale. Quanto a una subordinazione al potere esecutivo, non accettiamo processi alle intenzioni. Il testo del disegno di legge è chiarissimo: la magistratura, giudicante e requirente, è indipendente e autonoma. Se un altro Governo e un altro Parlamento volessero un giorno cambiare questi principi, dovrebbe approvare una nuova legge costituzionale. E se fossi ancora al mondo sarei il primo ad oppormi. Con l’introduzione dell’Alta corte sul disciplinare non si perderà un elemento fondamentale con il quale il Csm “parla” alla magistratura, confinandolo a un organo di sola amministrazione? Esattamente il contrario. Oggi il Csm ha una funzione amministrativa e una disciplinare, che vanno invece tenute distinte. L’Alta corte sarà ancora più svincolata da quelle sussurrate baratterie che fino ad ora hanno vulnerato l’imparzialità del Csm. Tutti sanno che oggi il Csm è una stanza di compensazione tra le componenti correntizie, al punto che alcuni magistrati, magari dopo la pensione, hanno usato espressioni crudeli. Anche questo ha fatto precipitare la nostra credibilità presso i cittadini. Dico nostra, perché io mi sento sempre un magistrato. Come mai non è stato inserito nel disegno di legge di riforma costituzionale il riconoscimento dell’avvocato? Intende proporlo nel corso dei lavori parlamentari? Non è stato inserito per un problema tecnico: non ci sembrava in linea con un disegno di legge che riguardava essenzialmente la magistratura. Ma in sede parlamentare sosterremo con vigore il principio che il ruolo dell’avvocatura dovrà avere un riconoscimento costituzionale. Per affrontare l’emergenza carceri è opinione condivisa, sia dalla magistratura sia dall’avvocatura, che servirebbero misure per rendere più agevole l’uscita dagli istituti di una quota significativa degli attuali detenuti. È annunciato un decreto legge nei prossimi giorni. Può anticiparne i contenuti? Intanto guardiamo i dati. L’indice di sovraffollamento delle nostre carceri è di poco superiore a quello degli ultimi anni, e inferiore rispetto al periodo 2010- 2015. Questo non significa affatto che sia tollerabile: significa che riflette una patologia sedimentatasi nel tempo, non rimediabile nell’arco di poche settimane con proclami salvifici. Ma alcuni rimedi sono già all’orizzonte, come il decreto legge portato al Cdm oggi: prevede risorse aggiuntive, incrementa la dotazione organica del personale penitenziario, accelera la costruzione di nuovi padiglioni, ma soprattutto semplifica la procedura della liberazione anticipata. Inoltre, per alleviare la tensione nelle carceri, si aumenta la possibilità di colloqui telefonici interfamiliari. Non le sembra ancora insufficiente? Un secondo rimedio è il disegno di legge cosiddetto Nordio, appena licenziato dalla commissione Giustizia della Camera. Inciderà significativamente sul sovraffollamento perché oggi i detenuti in attesa del giudizio di primo grado sono quasi 10mila: statisticamente, molti saranno assolti e la loro carcerazione si sarà rivelata ingiustificata. Con l’attribuzione della competenza dell’ordinanza di custodia cautelare a un organo collegiale, previo interrogatorio dell’imputato, questa percentuale sarà sensibilmente ridotta. Poi stiamo lavorando sulla possibilità di far scontare la pena agli stranieri nei loro Paesi di origine. Trattandosi di 19.300 soggetti, anche la riduzione di un quarto ci porterebbe nei ranghi della normalità. Infine stiamo studiando misure alternative per i detenuti tossicodipendenti, imputati di reati minori, da accogliere in comunità piuttosto che in carcere. Contemporaneamente, stiamo da tempo lavorando per mettere in campo ogni possibile azione di prevenzione dei suicidi in carcere, un dramma complesso che interroga ciascuno di noi. Uno specifico gruppo di lavoro da mesi si sta concentrando su come migliorare le azioni di intervento dell’Amministrazione penitenziaria in una prospettiva di prevenzione e, tra l’altro, si sta valutando insieme all’Agenzia per l’Italia digitale anche il possibile supporto della tecnologia. È stato invece già incrementato il finanziamento per il servizio psicologico. Occorre ancora di più, lo so, ma i bisogni del carcere sono una mia priorità. Verrà rispettato l’obiettivo di azzerare o quasi (il 95%) l’arretrato statico nel processo civile, la scadenza è fra pochi giorni? Quanto possono influire le nuove regole processuali, a breve oggetto di intervento correttivo, e gli addetti all’ufficio del processo, prima ingaggiati e poi demotivati e in uscita? Anche qui parlano i dati. Siamo perfettamente in linea con i target definiti con l’Europa: gli arretrati sono sensibilmente diminuiti e, salvo casi isolati, stanno riducendosi secondo i programmi. Le tabelle sono disponibili e i numeri non tradiscono. Quanto all’Ufficio per il processo, direi che c’è già un’inversione di tendenza dovuta all’attenzione del ministero al capitale umano, dimostrata dalla proroga dei contratti fino al giugno 2026, dalla previsione di incentivi economici, dall’incremento di addetti per ogni ufficio e - soprattutto - dalla possibilità di stabilizzazione per il personale che abbia svolto almeno due anni consecutivi in servizio, al termine del contratto a tempo determinato previsto dal Pnrr. Non è allora un caso se oltre 70mila professionisti si sono presentati all’ultimo concorso e proprio oggi i 3.840 vincitori firmano il contratto. Non possiamo e non vogliamo perdere nemmeno un giorno. L’apporto degli addetti Upp è prezioso: stanno contribuendo a innovare il modo di lavorare negli uffici giudiziari, sempre più in squadra. E i risultati ci confortano. Resta però molto da fare, soprattutto per accelerare i concorsi di magistratura, ancora intollerabilmente lunghi per difficoltà burocratiche e per una radicata riluttanza alle novità imposteci dalle nuove esigenze di giustizia. Ma entro il 2026, per la prima volta nella storia della Repubblica, colmeremo gli organici che oggi sono carenti di 1.500 toghe. Conferma l’intenzione di procedere a un intervento strutturale sul sistema delle intercettazioni, quando in realtà in questo scorcio di legislatura molto è già stato fatto? Sì. Il disegno di legge Nordio contiene solo un’anticipazione, che riguarda la tutela del terzo citato nelle conversazioni. Ma la Commissione presieduta da Giulia Bongiorno ha lavorato molto e bene su una riforma più estesa. Da ultimo, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio perché ha violato i diritti fondamentali dei non indagati, intercettati senza nemmeno poter controllare la legittimità e la correttezza delle trascrizioni delle loro conversazioni. Ho incontrato la presidente della Corte europea dei Diritti dell’uomo e ho letto attentamente la sentenza della Corte: è di una severità umiliante per il nostro sistema giudiziario e per tutti noi. L’unica magra consolazione è che queste nefandezze le denuncio da trent’anni. Rimedieremo quanto prima e, se qualcuno eccepisce che facciamo un regalo alla mafia, lo mandiamo a lezione a Strasburgo. Da pochi giorni è stato approvato il decreto correttivo sulla crisi d’impresa. Resta però fermo, malgrado un testo già pronto da tempo, l’annunciato intervento sul penale fallimentare per adeguare le varie fattispecie di bancarotta al nuovo assetto civilistico. Intende presentare il provvedimento a breve in Consiglio dei ministri? Quello del penale fallimentare è un argomento estremamente complesso e ancora in parte in discussione. Quanto alla crisi d’impresa, con quest’ultimo intervento il Governo tende la mano ad aziende e professionisti in difficoltà, perché l’eventuale crisi possa essere affrontata il prima possibile Carriere separate, scatta la “caccia” alle toghe dissidenti di Valentina Stella Il Dubbio, 20 giugno 2024 Il “rumore di fondo” nel dibattito sulla riforma: proviene dai giudici “pro” (arruolati dal governo) e dai legali “contro” (utili all’Anm). Partita la caccia ai magistrati favorevoli alla riforma costituzionale della giustizia e quella agli avvocati contrari. È in questi termini che starebbe mutando in questi ultimi giorni la dialettica tra gli schieramenti in gioco, compresa la politica. Divide et impera infatti potrebbe essere l’obiettivo comune della maggioranza di governo, dell’Anm e dei penalisti per delegittimare l’avversario e spaccare il fronte opposto. Innanzitutto lo hanno fatto capire chiaramente ieri con le loro dichiarazioni a questo giornale il vice presidente della Camera Giorgio Mulè (Fi) e il segretario della commissione giustizia del Senato, Sergio Rastrelli (Fd’I), quando hanno sostenuto che c’è una larga fetta della magistratura, lontana dai vertici associativi, che sarebbe non solo contraria allo sciopero, deliberato della riunione del parlamentino del “sindacato” delle toghe sabato scorso, ma persino favorevole alla separazione delle carriere. Poi c’è una parte dell’avvocatura che sostiene che soprattutto i giudici con le funzioni nel penale sarebbero ben lieti di vedere approvata la riforma. La magistratura giudicante sarebbe la prima a salutare con favore una riforma che consentirebbe finalmente di dare attuazione a quella terzietà ed imparzialità del giudice che oggi semplicemente non può esistere e la cui assenza sta minando dalle fondamenta l’autorevolezza del giudicare, ci spiegano alcuni legali. Inoltre, come è noto, il gruppo Articolo Centouno si è detto favorevole al sorteggio temperato e non pregiudizialmente ostile a quello “puro” per la scelta dei membri del Csm. L’Esecutivo, o meglio la maggioranza che dovrà difendere e tentare di far approvare la riforma costituzionale in Parlamento, potrebbe far leva su questa fronda per depotenziare la battaglia che le toghe dovranno intraprendere in questo lungo percorso tra esame delle due Camere ed eventuale referendum. Tuttavia, è bene ricordare che la delibera sabato è stata approvata da tutti i gruppi, compresi i CentoUno, con questo incipit: “L’Associazione nazionale magistrati esprime un giudizio fortemente contrario sulla riforma dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso”. Dunque tutti coesi contro l’intera riforma. Inoltre, come ci spiega Rocco Maruotti, Coordinatore delle 27 Giunte esecutive sezionali dell’Anm, che ha avuto modo di esaminare tutti i verbali delle riunioni delle giunte distrettuali, “i magistrati italiani sono compatti nell’esprimere un giudizio fortemente contrario sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. Questa posizione è emersa non solo nel corso del Cdc di sabato scorso, a cui peraltro hanno partecipato anche i rappresentanti delle altre magistrature, e all’esito del quale l’Anm, a cui è iscritto il 97% dei magistrati, ha approvato all’unanimità un documento di forte critica al Ddl Nordio, ma è stata anche sostenuta, senza alcun distinguo, nel corso di tutte le assemblee che si sono svolte nei vari distretti e a cui hanno partecipato anche colleghi che non sono iscritti ad alcuna corrente. Per cui non corrisponde al vero il fatto che ci sia una parte della magistratura favorevole a questa riforma che, invece di migliorare il servizio giustizia, stravolgendo l’attuale assetto costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello Stato, sottrae spazi di indipendenza alla giurisdizione e, in definitiva, riduce le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini”. Fa eccezione la Ges di Campobasso che ha espresso “serie perplessità sulla concreta utilità e praticabilità, allo stato, di un’astensione tout court dall’attività lavorativa (c. d. sciopero)”. Una circostanza che da parte della magistratura viene considerata fisiologica, perché si troverà sempre qualcuno non perfettamente in linea con la maggioranza quasi assoluta dell’Anm; tuttavia, a detta delle toghe che abbiamo ascoltato, ciò non scalfisce minimamente la forza della battaglia che stanno per affrontare. Dall’altro lato c’è la magistratura che vuole portare dalla propria parte gli avvocati. Proprio ieri il segretario di Area, Ciccio Zaccaro, ci diceva che “ogni giorno, nei corridoi e nei bar del palazzo di giustizia, mi avvicinano avvocati, anche penalisti, indignati della campagna di delegittimazione della giurisdizione e soprattutto consapevoli che la riforma della magistratura non serve a risolvere i veri problemi della giustizia”. Una pancia silenziosa che però non esce allo scoperto. Esisterà davvero? In tale considerazione Zaccaro era stato preceduto sabato dalla pm Ida Teresi, presidente della Giunta dell’Anm di Napoli, che durante il Cdc ha raccontato di aver chiesto agli avvocati: “Davvero voi volete che io potenzi i miei poteri? E gli avvocati la risposta che mi danno in maniera più o meno confessoria è: “dottoressa, infatti sono contrario”. E allora ditelo, e sono penalisti. Altri non parlano, altri addirittura dicono “ha ragione dottoressa, ma ci vogliamo provare”. Ma come, noi buttiamo così un bussolotto, distruggiamo una organizzazione che poi storicamente ha dato i suoi frutti perché gli avvocati penalisti, alcuni di loro, vogliono provare, cioè neanche più il coraggio di dire è per questo motivo, no è perché “ci vogliamo provare” (trascrizione tratta dalla registrazione di Radio Radicale, ndr). Le ha replicato il presidente della Camera Penale di Napoli, Marco Campora: “Ho ascoltato il dibattito. Se l’Anm vuole intestardirsi su una battaglia culturalmente di retroguardia e di conservazione di un sistema che oggettivamente non funziona (e sicuramente non funziona per cittadini) è ovviamente liberissima di farlo. Dal canto suo, l’avvocatura penalistica (e, non solo, come dimostrano le chiare prese di posizioni espresse da quasi tutti i Consigli dell’Ordine italiani) è fermamente convinta della necessità della riforma e, pertanto, non ha alcuna reale praticabilità la strategia - pur ventilata nelle audizioni all’Anm - di “spaccare” il fronte dell’avvocatura (sic!). Ci sono poi aspetti sui quali si può senz’altro discutere: ad esempio - e parlo a titolo personale - trovo ben poco condivisibile la previsione della nomina al Csm attraverso il sorteggio che mortifica principi democratici basilari ed anche i canoni della logica più elementari”. “La protesta dei magistrati manda in crisi la democrazia” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 giugno 2024 Dopo l’intervista di ieri al magistrato Giovanni Zaccaro sulla riforma costituzionale della giustizia, oggi raccogliamo il punto di vista dell’avvocato Oliviero Mazza, ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca. Inaugurazione anno giudiziario 2024 a Roma: “Emesse 36.567 sentenze di primo grado, di queste 17.399 sono state pronunce assolutorie, con una percentuale complessiva del 47,5%”. Relazione Curzio 2023: esito del giudizio ordinario di primo grado pari al 54,8% di assoluzioni. Questi dati non dimostrano che non c’è appiattimento del giudice sull’accusatore? La separazione è imposta dalle regole costituzionali del giusto processo che da venticinque anni attendono piena attuazione. Il disegno costituzionale è chiarissimo: il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo. La terzietà non va confusa con l’imparzialità o con l’indipendenza, è un requisito in più che attiene al profilo ordinamentale del giudice, distinto da quello delle parti. Non è quindi un problema di indipendenza o di mancata adesione del giudice alle tesi d’accusa, ma di stato giuridico che non può essere comune a quello della parte pubblica. Non voglio però sottrarmi all’argomento suggestivo del numero delle assoluzioni. Mi dica allora... Ritengo che il 50% potrebbe essere incrementato con la separazione delle carriere, così come potrebbe ridursi per effetto di una maggiore ponderazione nell’esercizio dell’azione penale dettata proprio dalla consapevolezza della distanza del giudice dalle ragioni dell’accusa. Senza dimenticare i dati ben diversi che si registrano all’interno della fase delle indagini preliminari nei rapporti fra richieste del pm e decisioni del gip. Ad ogni modo, quel dato percentuale dimostra il preoccupante fallimento dell’accusa determinato dal progressivo appiattimento del pm sulle investigazioni poliziesche. Il giudice, dovendo ius dicere, non può a sua volta accettare acriticamente le conclusioni suggerite dalla polizia giudiziaria, di qui il numero elevato delle assoluzioni. Il vero problema sta proprio nella trasformazione del ruolo del pm divenuto recettore passivo delle istanze repressive della polizia giudiziaria. L’Ucpi ha scritto: “L’Anm lancia apertamente la propria sfida al Parlamento e sceglie la strada di una aperta politicizzazione della sua azione”. Ma non fa la stessa cosa l’associazione dei penalisti? C’è una fondamentale differenza: i magistrati sono pubblici dipendenti che esercitano il “potere” giudiziario, e come tali non sono legittimati ad opporsi al potere legislativo, mentre gli avvocati penalisti sono privati cittadini che possono liberamente criticare ogni potere dello Stato. La nostra è una democrazia parlamentare, la magistratura deve rispettare la volontà popolare espressa in libere elezioni che hanno premiato il programma della separazione delle carriere. L’opposizione preventiva a una legge che rispecchia la volontà popolare manda in crisi il sistema democratico. Lei crede che l’Anm abbia il diritto di scioperare contro la riforma? La riforma è proposta da una larghissima maggioranza parlamentare, lo sciopero contro la volontà del Parlamento mi sembra un atto abnorme, destabilizzante per gli equilibri democratici. In più non verrebbe compreso dall’opinione pubblica, ossia dai fruitori del sistema giudiziario, che lo percepirebbero come la rivendicazione di un privilegio di casta. La separazione tra giudici e pm è un concetto intuitivo, molto meno l’unità della magistratura. E di partecipare ad eventuali iniziative di comitati referendari? Pressioni sulla politica, sciopero, comitati referendari, mi sembrano tutte iniziative che mettono in seria crisi l’equilibrio dei poteri democratici. Anm non deve e non può fare politica in senso stretto. Le toghe sostengono che l’avvocatura non riesce a capire che un pm separato è un danno per tutti a partire dai difensori e dai diritti dei loro assistiti... Il pm oggi è una parte parziale, purtroppo sempre più appiattita sulle scelte della polizia giudiziaria. I cittadini devono sapere che, nella maggior parte dei casi, è l’informativa conclusiva di polizia che determina l’azione penale, così come le richieste di misure cautelari o dei mezzi di ricerca della prova invasivi delle libertà fondamentali. La finzione del pm imparziale ammanta di pseudogiurisdizionalità un’attività intrinsecamente partigiana e poliziesca. Meglio, dunque, superare ogni ipocrisia: il pm sostiene l’ipotesi d’accusa e non tutela gli interessi degli accusati, nella chiarezza e nella nettezza dei ruoli predicata dal giusto processo di parti fra loro contrapposte, mentre la garanzia dei diritti è affidata al giudice terzo rispetto alle parti. Sorteggio membri del Csm: si rischia di avere magistrati non all’altezza del ruolo... Il sorteggio è l’unico antidoto alla degenerazione correntizia plasticamente rappresentata dal caso Palamara che ormai sembra dimenticato. Potrebbe essere temperato da una selezione a monte dei sorteggiabili ispirata a criteri puramente meritocratici, ma allo stato non è superabile. Davvero secondo lei la priorità per la giustizia è creare un’Alta Corte per il disciplinare? L’Alta Corte è quanto mai opportuna, magari con qualche correttivo. In democrazia non sono nemmeno concepibili poteri senza responsabilità che finiscono inevitabilmente per sfociare nell’arbitrio. Personalmente sono sempre stato contrario alle giurisdizioni domestiche, spesso addomesticabili. Meglio rompere gli schemi: se i magistrati agiscono in nome del popolo italiano, ad esso devono rispondere anche sotto il profilo disciplinare. Certamente vi sono anche altre riforme urgenti, a partire dalla profonda e indifferibile revisione della Cartabia. Processo Regeni, continua l’ostruzionismo dell’Egitto: i testimoni non possono venire in Italia di Luca Sebastiani Il Riformista, 20 giugno 2024 Continua l’ostruzionismo dell’Egitto nel processo per la morte di Giulio Regeni. L’ultima novità emersa in aula oggi è che il Cairo ha vietato a quattro testimoni egiziani di essere sentiti nel procedimento in Italia. Nell’udienza a carico degli agenti egiziani, accusati di tortura e omicidio, infatti, è stato rivelato come la Procura Generale d’Egitto abbia informato la Farnesina sull’impossibilità di “eseguire le richieste di assistenza giudiziaria” per fare ascoltare nell’udienza di oggi i testimoni: il sindacalista Said Abdallah, la coordinatrice di un Centro per i diritti economici e sociali, Hoda Kamel Hussein e Rabab Ai-Mahdi, la tutor di Regeni nella capitale egiziana. Sergio Colaiocco, procuratore aggiunto che segue il caso, si è rivolto quindi alla Corte d’Assise in modo da poter ricevere le testimonianze dei testimoni assenti ma raccolte durante le indagini. “Siamo in presenza di testi che non hanno scelto liberamente di non essere qui. Le abbiamo tentate tutte per portare i testi qui”, ha affermato il procuratore, a conferma di un’opposizione costante da parte dell’Egitto. Durante l’udienza a Roma, è stato poi mostrato un video dell’incontro tra Giulio Regeni e il sindacalista Said Abdallah, l’uomo che poi lo tradì. Un filmato lungo, circa due ore, girato proprio dal rappresentante del sindacato degli ambulanti del Cairo grazie a una telecamera nascosta. L’apparecchio per la registrazione era stato nascosto sulla camicia dai servizi segreti egiziani. Nell’incontro, risalente al 7 gennaio del 2016, si vedono e sentono i due parlare: Abdallah cerca di capire di più sulle attività di Regeni, sul progetto da 10mila sterline finanziato dalla fondazione britannica Antipode, sulla presenza del ricercatore italiano. “Cosa sarebbe questa proposta, non capisco di cosa si tratta”, chiede il sindacalista, “l’unica cosa che capisco è che ci sono 10mila sterline. Bisogna stare attenti per non finire in galera”. Ma Regeni è chiaro: il denaro può essere “investito in qualche progetto, qualsiasi progetto non governativo ma affidato ai privati. Voglio che il sindacato possa tirare fuori dei guadagni e io sono in Egitto solo per la ricerca e non decido sui soldi”. Stralci di dialogo ‘trasmessi in aula’. Un video che inchioda il sindacalista. Alla fine, infatti, Abdallah chiama uno degli agenti egiziani imputati nel processo: “Ho parlato con il ragazzo, ho paura che il video potrebbe cancellarsi, ditemi cosa devo fare. Vengo da voi”. Durante l’udienza è emerso anche che il passaporto di Regeni era finito nelle mani dei servizi segreti egiziani già da metà dicembre del 2015. Gli agenti ne avevano fatto anche delle copie. A parlarne è Onofrio Panebianco, colonello del Ros sentito come testimone nel processo. È lui che ha svolto le indagini su delega della Procura di Roma. Panebianco ha riferito che “dell’acquisizione parlano due testimoni. Gli apparati di sicurezza oltre al documento di Regeni in quello stesso periodo, circa un mese prima che venisse prelevato nella zona della stazione metro di Dokki, avevano acquisito copia del progetto, finanziato per 10milea sterline, su cui stava lavorando il ricercatore friulano”. L’avvocato della famiglia Regeni Alessandra Ballerini, fuori l’aula bunker di Rebibbia, è netta: “Nonostante tutto l’impegno profuso dalla procura e nonostante le richieste formali che sono state poste in essere dalla Farnesina risulta innegabile l’ostruzionismo egiziano che pare a questo punto insormontabile ed anche per le argomentazioni che abbiamo sentito dal pubblico ministero, è del tutto illegittimo. Quindi il problema è l’ostruzionismo egiziano. Chiaro che chiunque dice che c’è collaborazione sta mentendo. Ed oggi ne abbiamo avuto le prove”. L’avvocato penalista ha poi continuato: “Grazie a Pif e Stefano Accorsi che hanno prestato le loro voci. Il video visto oggi ci dice tantissime cose, ci dice che Abdallah era un agente provocatore, che ha provato a far cadere Giulio in continui tranelli. Ci dice la purezza di Giulio ed anche il suo lato accademico. Ci dice in fondo una assoluta incomunicabilità tra i due, non solo perché parlano due lingue diverse. Abdallah voleva incastrare Giulio e consegnarlo alla National Security”. Rischia la pena di morte se venisse estradato in Pakistan: la Cassazione annulla l’arresto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2024 La Corte Suprema lo ha liberato, ricordando l’illegittimità della custodia cautelare su mandato di un Paese dove rischia la pena capitale. Intanto ha perso il lavoro ed è in pericolo anche il permesso di soggiorno. Un cittadino pakistano residente regolarmente in Italia dal 2018 è stato scarcerato dopo l’annullamento, senza rinvio, della custodia cautelare grazie alla sentenza numero 22945 della Cassazione. L’uomo, accusato di omicidio nel suo Paese, era stato arrestato in Italia in vista di una futura richiesta di estradizione. La difesa, sostenuta dall’avvocato Michele Biamonte, coadiuvato dalla fondamentale collaborazione della legale Monica Biamonte del foro di Bologna che ha seguito il caso fin dall’inizio, ha ottenuto un’importante vittoria. La Cassazione ha infatti stabilito che non è legittimo arrestare ai fini estradizionali una persona per un reato punito con la pena di morte nel suo Paese di origine. Oltre alle gravi carenze procedurali evidenziate dalla sentenza, la vicenda ha avuto un impatto significativo sulla vita del migrante. A causa dell’ingiusta carcerazione, l’uomo ha perso il suo lavoro a tempo indeterminato, subendo un danno irreparabile: con la perdita del lavoro, viene meno uno dei parametri per il mantenimento del permesso di soggiorno. Ricostruiamo i fatti. A.A., residente in Italia dal 2018, viene arrestato in relazione a un mandato di arresto emesso il 6 luglio 2012 dalla Corte Distrettuale di Gujrat, Pakistan, per il reato di omicidio. La Corte d’Appello di Bologna aveva convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere il 29 marzo 2024, nonostante il reato fosse punibile in Pakistan con la pena di morte. Andando ancora nello specifico, c’è un dettaglio curioso. Il mandato di arresto era per “tentato omicidio”, il che, apparentemente verrebbe meno il rischio della pena capitale. Nei fatti, così non è. Gli stessi giudici della Cassazione fanno notare che dal testo dell’ordinanza impugnata, risulta che a seguito della nota del 27 marzo 2024 del Ministero dell’Interno, il pakistano è stato tratto in arresto dalla polizia giudiziaria in quanto destinatario di un mandato di arresto emesso in relazione al reato di omicidio (quindi non “tentato”) commesso nel villaggio di Chak Hussain, per il quale la legge pakistana prevede, appunto, quale pena massima possibile la pena di morte. Altro punto interessante è che la Corte d’Appello ha convalidato l’arresto ritenendo che il Pakistan ha assicurato l’ergastolo come alternativa alla pena di morte. In sostanza, si basa sulla parola. Per la procura generale che si è opposta al ricorso del migrante, “la pena del reato in relazione al quale deve essere disposta la cautela è conforme - con riguardo a quella dell’ergastolo - a quella prevista dall’ordinamento italiano”. Ma per i giudici supremi, questo assunto va respinto. Censurano l’omessa considerazione da parte della Corte di appello - che si è limitata a ritenere compatibile la alternativa pena dell’ergastolo - della rilevante previsione, nell’ordinamento della Repubblica Islamica del Pakistan, per il reato in ordine al quale si è proceduto, della pena capitale, come peraltro espressamente indicato nella nota ministeriale. In sostanza il Collegio ritiene che la previsione in parola non può legittimare la convalida dell’arresto eseguito dalla polizia giudiziaria e la conseguente misura cautelare coercitiva applicata dalla Corte di appello. Non solo. La Cassazione - recependo le motivazioni degli avvocati difensori del migrante -, non concorda con un precedente orientamento secondo cui, nel procedimento di estradizione, la Corte d’Appello deve solo verificare formalmente l’esistenza dei presupposti per l’arresto dell’individuo richiesto (il reato contestato, le prove e il mandato di arresto dello Stato richiedente), senza valutare le condizioni sostanziali per una decisione favorevole all’estradizione, che spettano invece alla Corte d’Appello in una fase successiva. La Cassazione, citando una recente decisione su una vicenda simile, ritiene invece che già in questa fase iniziale il giudice debba considerare se sussistono gli ostacoli all’estradizione previsti dalla legge, in particolare il divieto di estradare se il reato è punibile con la pena di morte nello Stato richiedente, a meno che non sia stata irrevocabilmente comminata una pena diversa. Altrimenti, non avrebbe senso limitare provvisoriamente la libertà personale dell’individuo richiesto per un procedimento di estradizione che non potrebbe poi essere perfezionato. In sostanza, secondo la Cassazione, per disporre l’arresto e le misure cautelari in vista dell’estradizione, il giudice deve valutare preventivamente se, allo stato degli atti, l’estradizione potrebbe essere negata per i reati punibili con la pena capitale nello Stato richiedente. La sentenza della Cassazione, depositata il 6 giugno 2024, rappresenta una vittoria per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. Tuttavia, evidenzia anche le gravi conseguenze che possono derivare da decisioni giudiziarie errate, specialmente per le persone più vulnerabili, come i migranti. Lavorava come muratore a tempo indeterminato, era riuscito a integrarsi e mantenere la famiglia. Ma soprattutto, grazie al lavoro, si è visto accogliere l’istanza di sospensiva del diniego al rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale. E ora che l’ha perso? Sardegna. Dossier della Garante dei detenuti: carceri sovraffollate e aumento suicidi cagliaripad.it, 20 giugno 2024 Nell’analisi presentata questa mattina in Consiglio regionale, la garante dei detenuti Irene Testa presenta la situazione emergenziale delle carceri sarde. Il dossier sulle carceri sarde prodotto dalla garante dei detenuti, Irene Testa, presentato questa mattina in Consiglio regionale, fa emergere evidenti criticità e situazioni di vera e propria emergenza. In primo luogo, il dato regionale non evidenzia di per sé un problema di sovraffollamento: in Sardegna ci sono dieci istituti, per una capienza regolamentare di 2.616, popolati da un totale di 2.140 detenuti (82%) di cui 41 donne, 519 stranieri e 366 tossicodipendenti, mentre 40 sono i reclusi in semilibertà. Il fenomeno del sovraffollamento, però. riguarda tre istituti: Uta, Bancali e Tempio Pausania. Nel carcere di Uta, su una capienza di 561 posti i detenuti presenti sono 601, a Sassari se ne contano 18 oltre la capienza regolamentare di 454 detenuti, a Tempio sono sei in eccesso. Delle 41 donne, 29 si trovano nell’istituto del Cagliaritano e 12 a Bancali. A leggere i dati del personale in servizio emergono le criticità: in quasi tutti gli istituti la pianta organica prevede maggiori risorse di quelle effettive, così a Uta mancano 38 agenti, a Sassari ben 128, a Massama ne servirebbero 55. Di particolare rilevanza, è la situazione sanitaria e di disagio psicologico tra i detenuti, con la carenza di figure come psicologi ed educatori, e con dati allarmanti sui casi di suicidio e tentato suicidio, in particolare a Uta (due casi nel 2023 e 46 tentati suicidi), Sassari (un suicidio e 28 tentati) e Badu ‘e Carros (11 tentati suicidi). Sul fronte dei minori, l’istituto penale di Quartucciu nel 2023 contava 12 ragazzi. “Gli istituti di pena in Sardegna sono sovraccarichi di persone malate, questo è il dato che emerge più chiaramente dalle visite ispettive che ho svolto”, commenta Testa. “Ci sono alcuni istituti dove il disagio psichiatrico registra quasi l’80%, sono tantissimi gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi (96 in totale nel 2023), che grazie alla polizia penitenziaria e spesso ai compagni di cella riescono in qualche modo ad essere sventati”, spiega Testa. Ma non solo. “Si registra pochissima attività lavorativa - continua la garante - e le persone che vivono dentro le celle sono molto spesso tossicodipendenti, con gravi fragilità, persone che non dovrebbero stare in una cella perché non possono essere curati in una cella”. “La polizia penitenziaria non ha né le competenze, né dovrebbe essere il suo ruolo quello di gestire i malati, di doverli accudire, di sventare tutti i tentativi di suicidio - aggiunge Testa - ci dovrebbe essere prima tutto l’aspetto sanitario di prevenzione”. Per quanto riguarda il mondo femminile all’interno delle carceri, la garante afferma: “È un mondo abbandonato a sé stesso, trattandosi di numeri molto bassi, quindi di conseguenza anche le esigenze più elementari non vengono soddisfatte: ci sono detenute che hanno bisogno di indumenti personali, intimi e non c’è un posto dove poterli andare ad acquistare”. Alla conferenza stampa erano presenti il vice presidente del Consiglio regionale Giuseppe Frau, la presidente della Sesta commissione consiliare Carla Fundoni e i garanti comunali di Cagliari Gianni Loy, di Alghero Carmelo Piras, di Nuoro Giovanna Serra, di Oristano Paolo Mocci, di Sassari Gianfranco Favini. Sardegna. Otto detenuti su dieci hanno problemi psichiatrici di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 giugno 2024 L’intervento della garante sarda per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Irene Testa, alla presentazione della relazione sulle attività svolte nel 2023. “Gli istituti di pena in Sardegna sovraccarichi di persone malate e il disagio psichiatrico registra quasi l’80%. Sono tantissimi gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio, che grazie alla Polizia penitenziaria e ai compagni di cella, riescono in qualche modo a essere sventati”. Così, ieri mattina, la garante sarda per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Irene Testa, alla presentazione della relazione sulle attività svolte nel 2023. “Le persone che vivono nelle celle sono molto spesso tossicodipendenti, con gravi fragilità, che non dovrebbero stare in una cella perché non possono essere curate, accudite costantemente e sostenute - ha proseguito Testa -. In carcere tutto questo non c’è e queste persone spesso tentano di levarsi la vita, pur di evadere da quella situazione di malessere, che non riescono a gestire”. Per quanto riguarda la situazione delle donne detenute, Testa ha spiegato che “anche le esigenze più elementari non vengono soddisfatte”. Trieste. Morire di carcere. “Si sta consumando una strage e si volge lo sguardo in altra direzione” di Alessandro Martegani rtvslo.si, 20 giugno 2024 Un quadro sconfortante della situazione delle carceri italiane viene dipinto da Elisabetta Burla, Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste. Il numero dei suicidi all’interno delle carceri è in aumento e, anche a Trieste, i detenuti vivono in celle sovraffollate e in condizioni insopportabili, senza alcun intervento da parte della politica. Il sovraffollamento è presente anche nella Casa Circondariale di Trieste, che ospita da tempo tra 250 e 260 detenuti su una capienza regolamentare di 139 persone, portata, inspiegabilmente dice Burla, a 150, con celle di otto metri quadri, dove vivono più persone, con impianti sanitari in condizioni inaccettabili. Contemporaneamente vengono ridotti, quasi proporzionalmente all’aumento delle persone detenute, gli agenti di polizia penitenziaria in servizio. 44 vittime solo dall’inizio dell’anno: è un “drammatico conteggio” quello dei detenuti che si sono tolti la vita in Italia, richiamato in una nota da Elisabetta Burla, garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste. Si tratta di un fenomeno grave, che riguarda tutti i detenuti delle carceri italiane, uomini e donne, giovani e anziani, italiani e stranieri, “un drammatico conteggio - dice la Garante - che dovrebbe scuotere le coscienze perché dietro ogni numero c’è una persona e dietro a questa persona una famiglia, degli amici anche “solo” i compagni di detenzione e gli stessi agenti della polizia penitenziaria che, oltre a dover far fronte alle condizioni inumane di detenzione e alle condizioni inumane di lavoro, si trovano a dover superare il trauma che l’evento morte porta inesorabilmente con sé”. Burla punta il dito contro il sovraffollamento presente anche nella Casa Circondariale di Trieste, che ospita da tempo tra 250 e 260 detenuti su una capienza regolamentare di 139 persone, portata, inspiegabilmente dice, a 150, con celle di otto metri quadri, dove vivono più persone, con impianti sanitari in condizioni inaccettabili. Contemporaneamente vengono ridotti, quasi proporzionalmente all’aumento delle persone detenute, gli agenti di polizia penitenziaria in servizio. Una situazione a cui nessuno sembra poter mettere mano. Gli appelli degli operatori e dei Garanti rimangono inascoltati dalla politica, dice Burla: “si sta consumando una strage e si volge lo sguardo in altra direzione”, nonostante i richiami giunti dall’Europa, che ha evidenziato come “le misure adottate sinora dalle autorità non siano riuscite ad arrestare il fenomeno” e come l’Italia debba “adottare rapidamente ulteriori misure e a garantire adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire queste morti”. La Garante sottolinea anche come alcuni interventi proposti, che potrebbero aiutare ad affrontare la situazione, non comporterebbero spese per lo Stato: l’aumento delle telefonate a carico del detenuto e delle video chiamate, la possibilità di poter coltivare gli affetti, l’approvazione di una normativa di riduzione controllata della popolazione carceraria attraverso la liberazione anticipata speciale. Sarebbero anche necessarie, aggiunge, “riforme con una visione diversa dei reali bisogni della popolazione”: arginare la marginalità e l’isolamento sociale, garantire cure effettive alle persone con disagio, prevedere reali percorsi d’integrazione e risocializzazione, attuare norme già esistenti e garantire un’esecuzione della pena che possa davvero offrire validi strumenti alla persona per una concreta rivisitazione critica del passato”. Torino. Morire di carcere, lo stillicidio che infanga l’Italia al centro dell’incontro dei Garanti di Alice Bertino La Voce e il Tempo, 20 giugno 2024 Lo scorso 18 marzo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invitato a mettere in campo “interventi urgenti” per fermare lo “stillicidio” dei suicidi in carcere: un appello accolto dal Consiglio nazionale dei Garanti ma che risuona forte ancora oggi, tre mesi dopo, perché dietro le sbarre ci si toglie ancora la vita. Solo due settimane fa si è soffocata una donna di 65 anni in custodia cautelare nel carcere “Lorusso Cotugno” di Torino. I Garanti dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino Monica Cristina Gallo, e della Regione Bruno Mellano, accogliendo l’invito del Presidente della Repubblica, ogni mese promuovono - sostenuti da enti e associazioni tra cui il nostro giornale - un’iniziativa di sensibilizzazione per ricordare le vittime e per chiedere alla magistratura misure concrete come è accaduto giovedì scorso presso l’associazione culturale Comala in corso Ferrucci a Torino. “Continueremo con gli incontri” insistono i garanti, “finché non ci saranno cambiamenti concreti. Sono 43 i morti di carcere fino a giugno dall’inizio dell’anno, quattro di questi si sono tolti la vita in questi ultimi giorni, in sole 24 ore”. L’intenzione dei garanti è realizzare un dossier sul contenuto di questi incontri e consegnarlo al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Il fenomeno dei suicidi in carcere - è stato sottolineato - riguarda tutti. Basti pensare che è stato stimato che si verifica tra il 10 ed il 20% in più rispetto ai “liberi” e che i detenuti si tolgono la vita poco prima del fine pena, quando la rimessa in libertà è imminente, o appena dopo l’accoglienza nella struttura penitenziaria. Aldilà dei disagi psicologici individuali dei ristretti, il problema è strutturale: il sovraffollamento delle carceri è insostenibile, le celle e gli spazi comuni sono in condizioni fatiscenti, motivi per cui l’Italia era già stata condannata nel 2013 dalla Corte europea dei Diritti umani per trattamenti inumani e degradanti. Al 31 maggio scorso - secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia il numero dei detenuti nelle carceri italiane è di 61.547 persone, per un tasso di sovraffollamento del 129% rispetto ai posti disponibili. La grave carenza di personale fa sì che la maggior parte dei detenuti non svolgano alcuna attività trascorrendo giornate vuote, senza obiettivi concreti per il futuro, in profonda solitudine. “Servono iniziative pubbliche a vari livelli” ha detto Bruno Mellano “interventi urgenti e norme legislative. Il nostro proposito è far leva sulla Corte Costituzionale e sugli organismi internazionali per far scoppiare uno scandalo che è già evidente. Abbiamo il dovere di dare speranza ai detenuti nel trattamento dell’esecuzione penale perché per loro un futuro nuovo sia possibile”. Concedere ai detenuti di ricevere più visite dei famigliari, aumentare il numero di telefonate, fare in modo che il tempo della pena sia impiegato in attività formative in vista del reinserimento nella società sono elementi essenziali per attenuare immediatamente il senso di abbandono e di profondo disagio che caratterizza la “vita lenta” dietro le sbarre, è stato evidenziato. La vice sindaca di Torino Michela Favaro ha inviato un messaggio dove ha assicurato il sostegno della Città di Torino e raccomandando l’importanza di cogliere i segnali di rischio sin dai primi momenti dell’ingresso in carcere. “Soprattutto bisogna prestare attenzione ai cosiddetti ‘casi silenti’, più difficili da riconoscere, e fornire loro tutto l’aiuto ed il supporto necessario”. “43 suicidi sono un dato eclatante e nel carcere di Torino si muore con una frequenza a dir poco imbarazzante” convengono i garanti “c’è un’emergenza in corso e va fermata adesso. Non si può aprire la cella quando è troppo tardi”. L’incontro si è concluso con la lettura ad alta voce dei nomi dei “morti di carcere” sino ad oggi tra cui un detenuto di 20 anni. Al termine i presenti sono stati congedati con una frase di Giorgio Gaber: “C’è una fine per tutto e non è detto che sia la morte”. C’è il fine pena con cui si torna alla vita. Torino. Un grido sta salendo dal carcere dei ragazzi di Fra’ Giuseppe Giunti La Voce e il Tempo, 20 giugno 2024 Gli adolescenti che incontriamo all’interno del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino sono la testimonianza vivente che la nostra epoca è sempre più un mondo di “io”, che mette in secondo piano il “noi”. Il modo che si usa per definire la maggioranza di questi ragazzi è “minori non accompagnati”, soli appunto. La solitudine è una delle possibili letture del complicato mondo delle carceri cosiddette minorili, o tecnicamente Istituti Penali Minorili. Un adolescente solo, non accompagnato, non aspettato, non sgridato, non incoraggiato perché non ha una famiglia all’esterno sulla quale contare, alla quale fare riferimento in un progetto di rieducazione, o spesso di prima educazione vera e propria; questo è il soggetto del quale dobbiamo prenderci cura. Giorni fa ho potuto incontrare i ragazzi minorenni del Ferrante Aporti. Mentre entravo, assieme alla giornalista e amica Marina Lomunno, il pensiero andava a don Bosco; certo, perché proprio qui, dopo una prima visita per lui sconvolgente, nel suo cuore nacque il nucleo iniziale del metodo educativo. Don Bosco, che nel 1855 era un giovane sacerdote di 40 anni, pensò che se fuori dal carcere ci fosse stato qualcuno ad aspettare con amore quei giovani, “discoli e pericolanti”, in loro la scintilla di bene che avevano dentro non si sarebbe spenta, anzi! Una famiglia, una comunità e una scuola per far crescere il “noi”, che vuol dire senso di responsabilità, rispetto della legalità, impegno per realizzare i propri sogni di vita: ecco cosa ci vuole. E allora “ogni oratorio che nasce è un carcere che si chiude”, come diceva Leonardo Murialdo, un altro santo sociale amico di don Bosco. Dunque, entro nel carcere minorile e per stabilire un legame di fiducia reciproca chiedo ad uno dei ragazzi, Ahmed (nome di fantasia), di intonare un canto arabo di benvenuto, cosa che parte al volo, assieme ad un briciolo di commozione: cantare nella propria lingua, tutti insieme. Poi il colloquio si fa molto concreto e serio. Possiamo riassumere i numerosi e a volte urlati interventi, tradotti da Ahmed in perfetto italiano, in una domanda: “cosa ci stiamo a fare qui dentro?”. La risposta dovrebbe essere: vi preparate nel migliore e concreto dei modi, a uscire diversi e migliori da come siete entrati. Come tutto il sistema carcerario italiano, il Ferrante deve rispondere alle indicazioni dell’articolo 27 della Costituzione della Repubblica: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Eppure anche a Torino il numero dei giovani condannati è superiore alla capacità recettiva della struttura e in alcune celle si dorme su una branda da spiaggia a terra. A fronte di 46 posti certificati sono presenti 56 minori. Il Decreto Caivano, presentato come strumento utile per la sicurezza pubblica e la certezza della pena per i minori che commettono reati, in realtà aumenta semplicemente il numero dei giovani detenuti senza alcuna misura che fornisca gli strumenti necessari a mettere in pratica le indicazioni della Costituzione. Anche qui il personale è in numero inferiore alle necessità richieste dalle varie professioni. Gli agenti penitenziari si trovano a fare lo straordinario in maniera… ordinaria! E ci si chiede perché non ci sia una rete esterna di comunità, cooperative, famiglie che possano ridurre al minimo la detenzione all’interno. Esiste in realtà un certo numero di soggetti impegnati nel volontariato e in particolare nella dimensione scolastica, educativa. La forte esigenza è quella di profilare i progetti tenendo conto che i detenuti coinvolti sono adolescenti, ai quali bisogna fornire alfabetizzazione, prima di tutto, nuova fiducia negli adulti che si occupano di loro, nuova capacità di sognare un futuro “altro” rispetto al passato devastante dal quale provengono e che non può essere dimenticato dalla collettività. Potremmo dire che il carcere dei minori porta alla luce in maniera evidente le contraddizioni, le fatiche, le sconfitte che tutta la società sperimenta nei confronti degli adolescenti, oggi quasi invisibili nei programmi politici e culturali. “Sogna, ragazzo, sogna”: è l’incoraggiamento forte e cordiale, è l’augurio che deve risuonare anche nelle celle, nei laboratori, nei corridoi, nei cortili della “Generala”, come il “Ferrante Aporti” si chiamava al tempo di don Bosco. Torino. “Aiutateci, il carcere minorile scoppia” di Claudio Neve cronacaqui.it, 20 giugno 2024 Sovraffollamento al 30%, detenuti costretti a dormire sulle brandine da spiaggia. “Nel carcere minorile di Torino la situazione è drammatica. Il Ferrante Aporti scoppia”. A lanciare l’allarme, ancora una volta, sono i sindacati della polizia penitenziaria, che già da giorni denunciano una situazione diventata ormai quasi ingestibile, con alcuni dei minori che “dormono su brandine di resina da spiaggia in mezzo ad una stanza dove sono già presenti quatto/cinque detenuti”. Un sovraffollamento che nelle ultime ore si è ulteriormente aggravato. “La situazione nel carcere è drammatica - spiega con preoccupazione Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) - siamo giunti oggi a 60 minori presenti a fronte di una capienza massima di 46”. Detto in altro modo, significa che in questo momento il Ferrante Aporti ospita il 30% di reclusi in più di quanti dovrebbe. “Il personale di polizia penitenziaria è allo stremo delle forze, non ce la fa più. Il carcere scoppia”. Non è di certo la prima volta che l’Osapp lancia il proprio grido d’allarme sul Ferrante Aporti e, più in generale, sulle carceri piemontesi. “Stupisce il silenzio assordante dei vertici del Dipartimento della giustizia minorile - spiega Beneduci - che, pur essendo stati informati della grave situazione di Torino, sembrano non interessarsene. Gli agenti sono sottoposti a carichi di lavoro che minano gravemente la salute degli stessi”. Il segretario rinnova quindi l’invito al sottosegretario Ostellari a intervenire con la massima urgenza per accertare la situazione del carcere minorile di Torino “che è devastante per tutti” oltre a verificare la situazione dei distacchi a sedi anche non istituzionali del personale “con grave impoverimento delle strutture maggiormente a rischio. Urge poi una verifica sull’immotivato sovraffollamento della struttura, poiché l’esiguo personale di Polizia penitenziaria presente è davvero stanco e stressato per gli eccessivi rischi e i massicci carichi di lavoro”. Beneduci chiude poi con un monito preciso: “Vogliamo augurarci che all’istituto penale per minorenni di Torino non accadano eventi gravi e irreparabili. È seriamente a rischio la sicurezza di tutti”. Porto Azzurro (Li). “Ci sono miglioramenti ma serve intervento del Governo” elbapress.it, 20 giugno 2024 Raimonda Lobina, Garante dei detenuti per il carcere di Porto Azzurro commenta la situazione della Casa di reclusione elbana, dove nei giorni scorsi si sono verificati alcuni fatti di cronaca rilevanti, anche se non gravi come in alcune carceri italiane. Cambiamenti positivi ci sono stati rispetto ad un anno fa ma la strada è ancora lunga e soprattutto è necessario l’intervento del Governo. Restano infatti i problemi legati al sovraffollamento, alla carenza di personale e all’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria. Una buona notizia è l’arrivo di una direttrice in pianta stabile dal dicembre 2023 e di una direttrice sanitaria dall’ottobre scorso. “Anche se - commenta Lobina - resta il problema legato all’invio da parte della Asl di psichiatri e psicologi, importantissimi alla luce dell’aumento di persone che provengono da altri istituti a causa del sovraffollamento, spesso con la cosiddetta doppia diagnosi, sono tossicodipendenti ma anche psichiatrici. Si cura l’emergenza ma non c’è un piano di recupero organizzato e calendarizzato e speso si intraprende un percorso ma nel frattempo si trasferiscono detenuti e ne arrivano di nuovi. Hanno pene relativamente brevi e niente da perdere”. Arrivano in quella che è una casa di reclusione, ma oggi quasi una casa circondariale. L’assegnazione di detenuti con pene lunghe permetterebbe di costruire progetti rieducativi e la programmazione di un percorso, ad oggi inattuabile. “Porto Azzurro soffre - considera Lobina- è una casa di reclusione storica ma ora arrivano in grande maggioranza stranieri, extracomunitari senza famiglia e senza legami”. Bisognerebbe trovare il modo di decongestionare le strutture come ad esempio, suggerisce Lobina (come riportato in un documento della conferenza dei garanti territoriali) la proposta di modificare l’istituto della liberazione anticipata e prevedere uno sconto di ulteriori 30 giorni a semestre per i prossimi due anni “Non si risolvere il problema- ammette - ma almeno si attenua”. A Porto Azzurro comunque la situazione è gestita con molta professionalità dagli operatori e dalla Polizia penitenziaria oltre che dai volontari. Ad oggi poi sono arrivati otto nuovi educatori a cui si aggiungono due già presenti, la criminologa e la mediatrice culturale. “Anche il dentista ora c’è - informa - fino ad ora avevamo un ambulatorio attrezzato rimasto vacante. Un altro risultato”. Resta ancora il problema del lavoro esterno, non per mancanza di richiesta da parte degli imprenditori locali ma per i tempi burocratici lunghissimi che a volte rendono impossibile questa opportunità per il detenuto. “È necessario lo snellimento delle pratiche - commenta - e a questo si aggiunge il taglio dei finanziamenti per il lavoro interno, ora a turnazione”. Lobina suggerisce anche un’altra piccola (ma importante per il detenuto) attenzione, quella relativa alla sentenza della corte costituzionale sul diritto all’affettività nell’accezione più ampia del termine, vale a dire dare l’opportunità di incontrare i familiari. Fa presente la garante che nel carcere di Porto Azzurro manca una struttura in tal senso “ma forse perché fino ad ora non c’è stata richiesta -considera - abbiamo però almeno il parco verde con i giochi per i bambini. Importante è - termina - rilevare anche le cose positive, promuovendo anche una maggiore conoscenza tra la realtà carceraria e la comunità. Per questo penso ad un progetto con le scuole, anche per far conoscere e promuovere il volontariato tra i giovani e per un ricambio generazionale nel volontariato”. Avellino. Giustizia riparativa. Il magistrato: “Necessaria per restituire dignità ai detenuti” di Luis Gentile corriereirpinia.it, 20 giugno 2024 La giustizia “riparativa” può essere una soluzione per il reinserimento sociale dei detenuti? È stato il tema cardine dell’incontro che si è svolto nella giornata odierna presso la casa circondariale di Avellino. A prendere parte al confronto, moderato da Gianni Colucci, il procuratore della repubblica Domenico Airoma, il presidente della sezione penale del tribunale Giampiero Scarlato, il padre gesuita Mario Picech, il Garante dei detenuti della Provincia di Avellino Carlo Mele. La professoressa Perna ha spiegato come la giustizia riparativa rappresenti uno strumento per offrire dignità e un futuro ai detenuti, con l’obiettivo di garantire loro una inclusione nella società. Don Mario Picech si è soffermato sulle realtà delle carceri del Messico: “le condizioni in cui vivono i detenuti delle prigioni messicane sono molto più dure di quelle dei luoghi di pena italiani, ho dovuto assistere quasi 400 detenuti alla volta, senza poterli sostenere in maniera adeguata. Tutto questo, malgrado l’attuazione di percorsi di rieducazione al mondo del lavoro. Tanti gli imprenditori che selezionavano la manodopera proprio nelle carceri. In questo modo tanti hanno trovato una strada alternativa a quella della criminalità”. Ha proseguito deciso: “A San Vittore la realtà è differente perché non entro in contatto con tutti i detenuti ma solo con quelli aderenti ad un percorso specifico. Ciò mi fornisce l’opportunità di conoscerli ed entrare in empatia con loro, conosco le loro storie, le loro tribolazioni e posso offrire un contributo più adeguato. Bisogna agevolare il reinserimento sociale dei detenuti con dei progetti che iniziano nelle carceri e si concludono all’esterno. Oggi esistono tante realtà che operano in questa direzione ma bisogna garantire una vera integrazione sociale. La società deve smetterla di considerare i detenuti come dei problemi, si preoccupi piuttosto di tenere conto delle loro storie, di cercare un modo per potenziare dei percorsi di integrazione nella comunità. Questa è la mia idea di giustizia, non quella che si preoccupa di chiudere in una cella un uomo e lasciarlo a marcire lì”. Anche il giudice Scarlato ha sottolineato l’importanza della “giustizia Riparativa”, non senza evidenziare alcune criticità: “Auspico che nei prossimi anni si riescano ad ottenere risultati incoraggianti su procedimenti di giustizia alternativa che vadano oltre le classiche pene previste dal nostro ordinamento giuridico. La realtà che vivo ogni giorno nelle aule di tribunale però mi lascia perplesso. Una prova del mio scarso ottimismo? La mole di processi legati a ricorsi e querele per fatti anche banali che potrebbero essere risolti con un po’ di buon senso. Il percorso sarà lungo per poter ottenere dei veri risultati, bisogna operare insieme con la sinergia di tutti gli organi di giustizia, non basta solo crederci”. A chiudere l’incontro la direttrice della Casa Circondariale di Bellizzi Rita Romano che ha ringraziato tutti i partecipanti, ribadendo il ruolo fondamentale di ognuno per il raggiungimento di traguardi importanti “Ciò che emerge dall’incontro è la difficoltà di attuare percorsi di giustizia riparativa. Viene da chiedersi, se un domani venisse formulata una norma che preveda tali percorsi per la riabilitazione nella comunità, come reagirebbero i detenuti e i cittadini? Si corre il rischio di affidarsi troppo al buon senso, tralasciando potenziali ricadute legate a reati minori. Ma poi come reagirebbe la collettività in vista di tali processi? Si dovrebbe partire dal perfezionamento del sistema legislativo attuale”. Cremona. Giustizia riparativa: il bilancio del progetto “RI.PA.RA.RE.” cremonaoggi.it, 20 giugno 2024 Venerdì scorso nel penitenziario di via Cà del Ferro si è tenuto un evento di presentazione dei risultati raggiunti col progetto RI.PA.RA.RE.-Ricucire Parti Rammendare Relazioni, promosso dall’Associazione Carcere e Territorio di Brescia grazie al sostegno della Casa Circondariale di Cremona e in sinergia con la stessa. L’iniziativa, avviata a novembre 2022, mira a promuovere cultura riparativa e supporto tra pari all’interno della comunità penitenziaria, con un ampio coinvolgimento dei detenuti e in stretta collaborazione con i diversi ruoli professionali che svolgono all’interno del carcere. Alla presenza delle autorità civili e militari, la direttrice del carcere Rossella Padula ha introdotto l’evento, evidenziando come la progettualità abbia consentito la nascita di nuove e ulteriori esperienze che hanno contribuito a promuovere il cambiamento. La coordinatrice di RI.PA.RA.RE. Marzia Tosi ha parlato di come la realizzazione degli incontri nelle sezioni detentive abbia consentito di raggiungere un elevato numero di destinatari, con i quali si è anzitutto voluto costruire un linguaggio orientato all’idea di cultura riparativa, concetto che estende i confini della riparazione ben oltre quelli del sistema Giustizia. Il prorettore dell’Università degli Studi di Brescia e presidente di Associazione Carcere e Territorio Carlo Alberto Romano ha sottolineato che nel carcere di Cremona lo spessore delle relazioni professionali e umane è stato un elemento chiave per la realizzazione delle diverse iniziative che hanno dato concretezza all’approccio teorico basato sull’intreccio di cultura riparativa e peer support. Durante l’evento, i detenuti hanno raccontato le tante iniziative da loro ideate nell’ambito di RI.PA.RA.RE, a partire dal progetto -presentato da Ausenou- “Ci sentite?! Stiamo RAPparando”, attivato anche grazie al contributo del volontariato, con il quale sono stati prodotti diversi brani musicali che hanno intervallato il racconto delle esperienze. Il progetto di musica ha voluto da un lato rispondere al desiderio dei detenuti di far sentire la loro voce attraverso musica rap, trap e drill, dall’altro utilizzare questa forma espressiva per promuovere legalità e cultura riparativa, a partire dalle esperienze di vita dei partecipanti raccontate nelle canzoni di Raudel, Ausenou, Choib, Alam e Nassim. Laura Gagliardi si è concentrata sui percorsi specifici “Relazioni” con l’obiettivo di attivare una riflessione sulle relazioni come fattore di rischio e di protezione e “Cultura riparativa”, evidenziando come la metodologia utilizzata abbia consentito l’ideazione e lo sviluppo di progettualità riparative in ottica di supporto tra pari. I due peer-to-peer supporters Rachid e Samuel hanno parlato dei percorsi formativi e dei laboratori raccontando il loro vissuto come esperti per esperienza in ambito scolastico, con il quale il penitenziario cremonese ha rafforzato collaborazioni e sinergie, con progettualità che hanno coinvolto attivamente non solo i giovani, ma anche i docenti e i genitori degli studenti. Al mondo scolastico si rivolgono in particolare due progetti nati all’interno di RI.PA.RA.RE. Il primo è “Un amico oltre le sbarre”, ideato da Samuel, che lo ha presentato con Marzia Tosi, sulla costruzione di rapporti epistolari tra detenuti e classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado, per la promozione di legalità e cultura riparativa in ottica preventiva. Il secondo è “Il bivio della vita”, raccontato da Alberto con la referente Elena Ardissone, nel quale è stato evidenziato come l’omonimo libro porti in primo piano il tema della scelta attraverso i racconti biografici dei detenuti, divenendo così possibile strumento di prevenzione per i giovani. Altre iniziative nate da RI.PA.RA.RE. sono state il torneo di calcio “Win-Win”, presentato da Adam e organizzato con la collaborazione del Comune di Sirmione, un breve corso di produzioni casearie denominato “Il gusto di RI.PA.RA.RE.”, di cui ha parlato Rachid, e la raccolta tappi a scopo benefico “Stappiamo un sorriso”, in collaborazione con Croce Rossa, raccontato da Dani che è stato fra l’altro il presentatore dell’evento. RI.PA.RA.RE. è stato profondamente animato dall’approccio di peer-to-peer support: se da un lato i peer supporters formati in ambito penitenziario sono stati il motore trainante per l’ideazione e la realizzazione delle diverse iniziative, dall’altro alcune di esse sono state implementate proprio con docenti-supporters. Il progetto di orticoltura sostenibile “Ripartire Riparando” ha visto come formatori e tutor Giuseppe e Samuele, mentre l’esperienza che ha avuto come protagonista Matteo ha consentito in modo particolare di “trasformare in diritti i rovesci”: la sua attività non retribuita nell’ambito della Messa alla Prova ha infatti permesso la realizzazione del progetto “Sprigionare profumi di libertà”, con il quale sono stati realizzati due corsi di panificazione rivolti ai detenuti. Al termine dell’evento, conclusosi con la canzone di gruppo “C.R. CR | Cultura Riparativa a Cremona”, all’interno del teatro del carcere, è stato distribuito il libro “Il bivio della vita” ed è stato realizzato un breve momento conviviale con prodotti da forno. “Mio fratello Aldo morto in cella da innocente”: un libro di Cristiano Scardella per non dimenticare di Massimiliano Rais L’Unione Sarda, 20 giugno 2024 Il 25enne fu accusato di un omicidio che non aveva commesso. I pensieri di Cristiano Scardella, il fratello di Aldo, giovane accusato di un omicidio (il delitto del Bevimarket nel quartiere cagliaritano Fonsarda) che non aveva commesso. Aldo Scardella, recluso nel carcere di Buoncammino, muore in cella nei primi giorni di luglio del 1986. Aveva 25 anni. Nel volume “Caso Scardella, orrore senza fine. Un’anima bruciata” (Alfa Editrice, pagine 96), ora in libreria, in prosa e in forma poetica, con riflessioni, ricordi, sentimenti sospesi tra coraggio, forza d’animo e comprensibili fragilità, Cristiano alimenta il ricordo di Aldo, un ragazzo che ha vissuto con passione e impegno civile il ciclo, purtroppo breve, della sua vita. “In questo volume - spiega - c’è la storia di mio fratello che per me è una continua fonte di ispirazione e di energia. Nel mio racconto, che si sviluppa anche con la poesia, indosso i panni di un personaggio del West, Zeb Macahan. È un modo per esorcizzare il dolore, il tentativo di tenerlo lontano”. Un mondo per ricordare la vicenda (privata e collettiva) di Aldo morto in carcere, da innocente, dopo una via crucis giudiziaria che ha segnato la sua vita: “Anche le giovani generazioni devono sapere quello che è successo. La storia di Aldo riguarda tutti, perché ciascuno di noi può finire nel circuito infernale che ha portato mio fratello alla morte e distrutto la mia famiglia”. Suicidio assistito, la pietà dei giusti di Antonio Scurati La Repubblica, 20 giugno 2024 Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli rischiano 12 anni di carcere per aver aiutato un uomo di 44 anni affetto da sclerosi multipla a raggiungere la Svizzera per porre fine alla sua vita. Mentre scrivo queste parole, tre giusti sono alla sbarra. Giusti, coraggiosi e generosi. Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli rischiano fino a 12 anni di carcere per aver compiuto uno degli atti più pietosi che io riesca a immaginare: aver accompagnato un morente nel passo estremo. Brotòs. Uomo, mortale. Nella lingua greca antica erano sinonimi. L’essere umano è “colui che muore” per tutta la vita perché vive nella piena consapevolezza di dover morire. Per questo motivo, tenere la mano al morente, finché è ancora se stesso, confortarlo, sostenerlo, fare la sua volontà, rappresentano ai miei occhi la più alta forma di pietà di cui siamo capaci. In questo gesto, vano e al tempo stesso inestimabile, si ricapitola l’essenza dell’umanità affermata non come dato bruto ma come valore. Nelle prossime ore la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sul pietoso aiuto fornito a Massimiliano, toscano 44enne affetto da sclerosi multipla. Massimiliano (detto “Mib”) fu aiutato da Marco Cappato, rappresentante legale dell’Associazione Soccorso Civile, da Chiara Lalli e Felicetta Maltese a raggiungere la Svizzera per accedere alla morte volontaria assistita. Per poter compiere liberamente il suo ultimo passo in questa vita, Mib era stato costretto a espatriare in Svizzera nonostante fosse totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone per sopravvivere e affetto da una patologia irreversibile. Sebbene deciso a porre fine alla propria atroce sofferenza, in Italia Massimiliano avrebbe potuto incontrare ostacoli nell’accedere all’aiuto medico alla morte volontaria, diritto già riconosciuto da una sentenza del 2019 ma subordinato alla dipendenza da un trattamento di sostegno vitale inteso in senso restrittivo (come per esempio la ventilazione meccanica). Dopo averlo aiutato, Marco, Chiara e Felicetta si autodenunciarono ai Carabinieri di Firenze per l’aiuto fornito. Ora, se la Consulta dovesse riconfermare l’interpretazione restrittiva, Marco, Chiara e Felicetta andrebbero in galera per essere stati solidali con un essere umano morente e con la propria idea della dignità della vita umana su questa terra. Sì, la dignità della vita. Non possiamo dimenticare, infatti, che attraverso secoli di lotte sanguinose le democrazie liberali dell’Occidente hanno affermato contro teocrazie e totalitarismi che i loro valori supremi sono racchiusi nel concetto di libertà individuale e di dignità personale, entrambe intangibili di fronte allo Stato e alla Chiesa. Come ho già scritto altrove, noi europei d’Occidente abbiamo imparato ad amare e a rispettare la singola vita non in quanto “sacra” - concessa e benedetta da un qualsiasi Dio - e non in quanto sussunta a una laica entità superiore - Stato, Popolo o Nazione - ma in quanto libera, assoluta, sovrana su sé stessa. Ne è discesa un’etica laica che, a mio modo di vedere, è un’altissima forma di amore e di rispetto della vita. Siamo noi, laici, atei e materialisti, noi che viviamo sotto un cielo disertato da Dio, a glorificare la vita di un amore disperato, struggente, incondizionato, proprio perché non crediamo in un’altra vita, in un suo possibile riscatto, terreno o ultraterreno che sia, e la nostra perorazione a favore del diritto individuale a concluderla in modo dignitoso, legale, civile, condiviso, in modo pietoso, è l’ultima, più estrema manifestazione di quell’amore e rispetto della vita individuale. I pro-vita siamo noi. Noi che la contempliamo nella sua incorreggibile finitudine, che ne compatiamo la sofferenza senza appello, la disperazione senza mercede. Io la penso così. Mi rendo conto, però, che qui siamo nell’orizzonte aperto delle questioni di coscienza. Rispetto, dunque, in questo campo, le coscienze diverse dalla mia (e le invito al rispetto reciproco). Credo anche, però, che in una società aperta, nelle democrazie liberali, così come nessuno deve poter legiferare in nome di Dio, nessuno Stato dovrebbe imporre agli individui la propria legge sulle questioni ultime e sulle questioni prime. Inizio e fine della vita, alfa e omega, dovrebbero essere lasciate alla sovranità dell’individuo su sé stesso. Sono certo, infine, di una cosa: una legge che condannasse dei giusti alla galera in nome di una “interpretazione restrittiva” sarebbe una legge ingiusta. Fine vita, la Consulta rinvia la decisione su un nuovo caso di aiuto al suicidio di Lorenzo Stasi Il Domani, 20 giugno 2024 Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese rischiano fino a 12 anni di carcere per aver accompagnato in Svizzera Massimiliano, affetto da sclerosi multipla. A differenza di Dj Fabo, non era dipendente da trattamenti di sostegno vitale, ma “solo” dall’assistenza di persone terze. Dopo l’udienza pubblica del 19 giugno, la Corte costituzionale si esprimerà nelle prossime settimane. La Corte costituzionale nelle prossime settimane si pronuncerà su un nuovo “caso Cappato”. I giudici della Consulta, dopo l’udienza pubblica del 19 giugno, sono chiamati a esprimersi sul dubbio di legittimità costituzionale sull’aiuto al suicidio assistito fornito a Massimiliano, 44enne affetto da sclerosi multipla, accompagnato in Svizzera da Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese dell’associazione Luca Coscioni. In particolare, la questione riguarda un’interpretazione più ampia - relativa alla dipendenza da un “trattamento di sostegno vitale” - rispetto a quelle già individuate dalla stessa Corte. Il governo Meloni ha deciso di costituirsi parte civile nel processo penale da cui è scaturita la questione di legittimità - sollevata dal gip del tribunale di Firenze, che indaga i tre dopo che si sono autodenunciati al loro ritorno in Italia -, chiedendo che essa sia dichiarata inammissibile o infondata. Secondo l’esecutivo, l’accoglimento si risolverebbe in uno stravolgimento della sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale - che individuava i criteri di legittimità per l’eutanasia - “in senso irragionevolmente ed ingiustificatamente ampliativo”, sostituendosi in questo modo al parlamento, incaricato dalla stessa Consulta di legiferare sul tema. Ma le Camere, dopo anni di richiami, non sono mai intervenute con una legge organica per regolare la materia. “Abbiamo aiutato Massimiliano perché lo ritenevamo fosse nostro dovere, per interrompere una situazione di tortura a cui era sottoposto”, ha dichiarato Cappato a margine dell’udienza pubblica. “Se tornassimo indietro lo rifaremmo per lui e per tutte le persone che sono nelle sue condizioni”. All’udienza del 19 giugno hanno partecipato, oltre agli avvocati dello Stato, anche i difensori di Cappato, Maltese e Lalli. Il caso “Massimiliano” e i criteri della Consulta - Nel 2022 Cappato, Lalli e Maltese hanno aiutato Massimiliano, 44enne di San Vincenzo (Livorno) e malato di sclerosi multipla, ad andare in Svizzera per usufruire del suicidio assistito. Prima di morire, Massimiliano ha diffuso un appello in cui spiegava che avrebbe desiderato “essere aiutato a morire senza soffrire in Italia, ma non posso, perché non dipendo da trattamenti vitali”. L’essere dipendente da trattamenti vitali è una delle quattro condizioni individuate dalla Corte costituzionale nel 2019 in riferimento al “caso dj Fabo”, il precedente che - nell’inerzia del parlamento - ha costituito la base giuridica per l’eutanasia in Italia. Massimiliano non era sottoposto a un trattamento di sostegno vitale in senso stretto (come è ad esempio la ventilazione meccanica), ma era comunque dipendente dall’assistenza di terze persone per sopravvivere. Per questo avrebbe potuto incontrare ostacoli nell’accedere all’aiuto medico alla morte volontaria in Italia. Secondo la Consulta, affinché il suicidio assistito sia legale - oltre al requisito più ambiguo della dipendenza da trattamenti vitali - occorre anche che la persona abbia una patologia irreversibile, che sia fonte di sofferenze intollerabili (fisiche o psicologiche) e che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Dopo l’autodenuncia di Cappato per il caso dj Fabo e il successivo procedimento penale, in base all’articolo 580 del Codice penale (che punisce chiunque determini “altri al suicidio o rafforzi l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione”), la Corte costituzionale aveva sospeso la sua decisione per dare modo al parlamento di legiferare in materia e approvare una “appropriata disciplina” sul suicidio assistito. Ma nell’inerzia delle Camere era stata la Consulta stessa, nel settembre 2019, a delineare le condizioni di legittimità del suicidio assistito in Italia: alla luce di questo Cappato è stato assolto dalle accuse. Dopo la morte di Massimiliano - Cappato, Maltese e Lalli sono accusati dello stesso capo d’imputazione del caso dj Fabo e rischiano fino a 12 anni di carcere. Il giorno dopo il viaggio in Svizzera, i tre si sono autodenunciati ai carabinieri di Firenze. Lo scorso ottobre la procura fiorentina ha chiesto l’archiviazione perché l’aiuto fornito non sarebbe stato “penalmente rilevante”. È stata poi sollevata la questione di costituzionalità del requisito del sostegno vitale per violazione degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: “Discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche”, e “discende da circostanze del tutto accidentali”, “senza che tale differenza rifletta un bisogno di protezione più accentuato”. Le parole di Cappato - “Con questa costituzione (di parte civile, ndr), e nel merito della memoria depositata, il governo Meloni chiede una decisione della Corte che implicherebbe il rischio di una condanna da 5 a 12 anni carcere di Chiara Lalli, Felicetta Maltese e me per avere aiutato Massimiliano ad accedere all’aiuto alla morte volontaria in Svizzera”, ha dichiarato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e rappresentante legale dell’Associazione Soccorso Civile, l’organizzazione che fornisce informazioni e, in alcuni casi, assistenza logistica e finanziaria per ottenere aiuto medico alla morte volontaria all’estero. “Oggi non è in discussione il diritto a morire, ma la discriminazione esistente tra diversi malati sul suicidio assistito. Il diritto a morire cambia in base al trattamento di sostegno vitale”, ha dichiarato l’avvocata Filomena Gallo dell’associazione Luca Coscioni. “Anche l’assistenza continua è un sostegno vitale. La Corte - prosegue Gallo - è chiamata a pronunciarsi di nuovo sul diritto a congedarsi dalla vita, in assenza di una disciplina legislativa. Si tratta di casi di malattie degenerative e incurabili. Non chiediamo che la cintura di protezione della vita diventi evanescente, ma di definire l’area di non punibilità”. Fine vita e Consulta: le due vie in attesa del (nuovo) verdetto di Francesca Spasiano Il Dubbio, 20 giugno 2024 Questione complessa, domanda semplice: per accedere al suicidio assistito è necessario dipendere da un macchinario? Meglio: in presenza di una patologia irreversibile, la nostra scelta di vivere o morire può essere valutata in base alla dipendenza da un trattamento di sostegno vitale inteso esclusivamente come macchinario? La risposta è interamente nelle mani della Consulta, che ancora una volta si esprime sul fine vita dopo la storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Antoniani/Cappato sul caso Dj Fabo, che regola la materia nel silenzio del legislatore sul tema. Il verdetto della Corte non arriverà prima di qualche settimana, secondo le indiscrezioni che si rincorrono dopo l’udienza pubblica di ieri. Che a Palazzo della Consulta ha delineato un quadro già chiaro a metà pomeriggio: da una parte c’è il collegio difensivo che assiste Marco Cappato, Felicetta Maltese e Chiara Lalli - i quali rischiano il processo per aver accompagnato in Svizzera Massimiliano, malato di sclerosi multipla morto in una clinica nel 2022 - dall’altra l’Avvocatura dello Stato, che in rappresentanza della presidenza del Consiglio chiede di dichiarare la questione di legittimità inammissibile o infondata. A sollevarla, lo scorso gennaio, è stata la gip di Firenze Agnese De Girolamo. La quale ha chiesto il vaglio di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), così come modificato dalla sentenza 242, nella parte in cui subordina la non punibilità dei soggetti coinvolti al requisito del sostegno vitale. Ovvero uno dei quattro paletti stabiliti dai giudici per l’accesso al suicidio assistito. Gli altri tre prevedono che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile che sia capace di autodeterminarsi e che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili. Il procedimento riguarda i tre indagati, Cappato, Lalli e Maltese, che si sono autodenunciati al loro rientro in Italia: per la gip la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura (per ora) non può essere accolta. Il nodo riguarda invece la condizione di alcuni pazienti, che pur non dipendendo da un macchinario, come quello per la ventilazione meccanica, necessitano di molte altre cose per sopravvivere. “Oggi non è in discussione il diritto a morire, ma la discriminazione esistente tra i diversi malati in tema di suicidio assistito”, spiega in udienza l’avvocata Filomena Gallo. Per la quale anche “l’assistenza continua è un sostegno vitale”. Diverso il parere dell’Avvocatura dello Stato, che si oppone all’ampliamento della non punibilità, perché equivarrebbe a una “liberalizzazione” del suicidio assistito. “Massimiliano chiedeva soltanto di non soffrire e di poter morire a casa sua. Dovremmo ricordarci che la realtà è questa: un incidente o l’effetto di una malattia possono essere inevitabili, ciò che possiamo evitare è aggiungere un carico di ingiustizia”, chiosa Lalli. Che come gli altri due indagati rischia da 5 a 12 anni di carcere. Il loro destino, e quello di molti altri, è nelle mani dei giudici. Che ancora una volta dovranno “sostituirsi” al legislatore allargando o registrando le maglie di un diritto considerato già fragile. Clochard rinchiusi: Fratelli d’Italia vuole militarizzare i Centri per i poveri di Stefano Iannaccone Il Domani, 20 giugno 2024 La proposta è stata firmata dal meloniano Federico Mollicone, nell’ambito dell’iter del provvedimento sui senza fissa dimora in esame a Montecitorio. Prevede agenti a guardia delle strutture in cui devono tenersi percorsi di cura e recupero. I senzatetto rinchiusi in appositi centri sotto il controllo (anche) della polizia per avviare percorsi di cura e recupero. Un’edizione riveduta in ottica metropolitana dei Cpr, i Centri per i migranti, che nel caso delle persone più disagiate hanno il principale intento di salvaguardare il “decoro urbano”, riducendo la vicenda a un problema di ordine delle città. L’emendamento shock è stato firmato da Federico Mollicone, deputato di Fratelli d’Italia e presidente della commissione Cultura alla Camera, nell’ambito dell’iter del provvedimento sui senza fissa dimora in esame a Montecitorio. La proposta di legge punta a fornire gli strumenti adeguati a garantire un supporto ai più bisognosi, i “senza dimora”, che non corrispondono per forza di cose ai senzatetto. Talvolta si tratta di soggetti che hanno perso la residenza anagrafica e quindi hanno visto venire meno i diritti basilari, compresa l’assistenza sanitaria. Da qui l’iniziativa legislativa, voluta dal deputato del Pd Marco Furfaro, per prenderli eventualmente in carico laddove si avverta il bisogno. Il parlamentare dem, nonostante sia all’opposizione, è stato indicato come relatore, evidenziando il carattere bipartisan del progetto. E in effetti la maggioranza ha appoggiato la proposta, aprendo al dialogo in commissione, a Montecitorio. In quella sede sono stati limati alcuni aspetti della norma, approdata in aula all’inizio di questa settimana a ruota dell’autonomia differenziata. Il clima costruttivo è andato verso un’unica battuta d’arresto: Fratelli d’Italia, attraverso un suo noto esponente, non ha perso occasione di spingere verso una “militarizzazione” del progetto, palesata dall’emendamento di Mollicone, che prospetta una soluzione più dura e di matrice sanzionatoria. La povertà diventa una sottospecie di reato, che porta alla chiusura dei clochard nei centri. La modifica prospettata dal parlamentare di FdI prevede nel dettaglio che la Protezione civile e la Croce rossa allestiscano, entro due mesi dall’approvazione della legge, dei “centri per l’assistenza sanitaria per i soggetti senza fissa dimora di seguito denominati “centri rifugio per senza fissa dimora”. Il tutto, appunto, in collaborazione con le forze dell’ordine. Gli agenti dovrebbero svolgere una funzione di controllo e supervisione delle strutture. I centri devono essere individuati dagli enti locali, tra le aree dismesse, e devono poter assicurare il ricovero per (testuale) “percorsi di cura e di recupero”. L’obiettivo? “La tutela della salute pubblica nelle città e nei centri storici”. La traduzione dell’emendamento è che la condizione di senzatetto viene vista essenzialmente come un problema di salute, con la conseguente necessità di “recuperarli”. La povertà diventa una malattia da affidare anche al controllo alla polizia. E così il problema di chi ha perso un’abitazione stabile non viene affidato alle politiche sociali, e agli investimenti per aumentare le tutele e i diritti, ma viene immaginata una delega agli agenti delle forze dell’ordine, attingendo le risorse economiche - ancora da quantificare - da quelle stanziate per la legge di Bilancio. C’è poi un ulteriore intervento: l’estensione del reato di omissione di soccorso. Chiunque non presti cura ai senzatetto potrebbe essere indagato. Casi precedenti - All’interno della maggioranza, nei settori più moderati, c’è chi è rimasto sorpreso dalla mossa di Mollicone, proprio perché cozza con lo spirito unitario che anima la riforma. Secondo quanto apprende Domani, sarebbe in corso addirittura una moral suasion di Palazzo Chigi per convincere Mollicone al ritiro dell’emendamento. C’è anche una scusa buona per farlo: il reperimento delle coperture. Mollicone non è certo l’ultimo dei peones, anzi. È un volto rampante del partito di Giorgia Meloni, tanto da diventare presidente della commissione Cultura alla Camera. Nell’ambito culturale, almeno nella sua città natale, Roma, ha costruito una serie di relazioni che lo hanno reso centrale, per esempio, nella gestione del festival del cinema della capitale. Ma, nonostante il ruolo di maggiore visibilità, è qualche volta autore di proposte sopra le righe, come l’istituzione di una commissione per certificare le notizie contro le fake news propagate soprattutto sui social. Insomma, il meloniano non è nuovo a provocazioni del genere, sebbene in quel caso abbia rettificato: ha sostenuto di esser stato frainteso. E del resto Fratelli d’Italia continua a dimostrare una scarsa sensibilità verso le persone in difficoltà. Di recente ha fatto cassa sulle misure di sostegno per finanziare altri progetti. È successo già con il decreto Agricoltura, firmato da Francesco Lollobrigida: 83 milioni di euro sono stati attinti dall’Assegno di inclusione, il surrogato del vecchio Reddito di cittadinanza, per garantire degli sgravi alle imprese agricole. Migranti. Piantedosi modifica le norme sulla cauzione per la libertà, l’operazione Albania ora può partire di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 giugno 2024 La cifra richiesta andrà da 2.500 a 5.000 euro e sarà valutata caso per caso dal questore che disporrà il fermo. Potrà essere pagata anche da parenti di terzo grado. Niente più cauzione generalizzata per tutti i migranti provenienti da Paesi sicuri e soggetti alle procedure accelerate di frontiera. Via la norma del decreto Cutro, impugnata da tutti i giudici italiani, che imponeva il pagamento di una fidejussione di cinquemila euro, uguale per tutti, per evitare la detenzione amministrativa in attesa del responso della commissione provinciale per l’asilo. In attesa che (chissà quando) la corte di giustizia europea si pronunci sulla norma che i tribunali italiani hanno fin qui ritenuto illegittima, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha preferito modificare quanto previsto dal decreto Cutro: adesso per i migranti che faranno richiesta d’asilo la cauzione andrà da 2.500 a 5mila euro, e sarà determinata “senza indugio dal questore”, con valutazione “caso per caso e tenuto conto della situazione individuale dello straniero”. Così prevede il decreto Piantedosi, pubblicato in Gazzetta ufficiale, “al fine di assicurare la flessibilità alla prestazione della garanzia finanziaria anche dal punto di vista soggettivo, sulla base di una valutazione effettuata caso per caso”. Eliminato il rischio di un intervento dei giudici - Una soluzione che, di fatto, modifica il quadro giuridico di applicazione del protocollo Albania evitando che - così come ampiamente prevedibile - i giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma non convalidino i provvedimenti di fermo dei migranti che saranno portati in Albania, proprio perchè la cauzione loro richiesta per evitare il trattenimento nei centri, era generalizzata e non rispondeva ai requisiti di legittimità della legislazione europea. Ecco come funzionerà - Adesso, con questa modifica, la situazione di ciascuno dei migranti a cui saranno applicate le procedure accelerate di frontiera dovrà essere vagliata prima dal questore di Roma che disporrà il loro fermo. Poi toccherà comunque ai giudici valutare, entro 48 ore, se convalidare il fermo oppure no. Ma ecco cosa stabilisce la nuova norma che ora prevede anche la possibilità che la cauzione sia pagata “anche da parenti dello straniero in linea retta o collaterale entro il terzo grado, regolarmente soggiornanti in Italia o in altro Stato dell’Unione europea”. Per determinare l’importo della garanzia, il questore “valuta, in particolare, il grado di collaborazione fornita dallo straniero nelle procedure di identificazione, desumibile dalla documentazione, anche di natura elettronica, esibita ovvero dalle dichiarazioni rese dal medesimo”. Tra queste vengono indicate la declinazione delle proprie generalità e l’indicazione della cittadinanza posseduta; la copia dei documenti di identità o di viaggio o la copia di ogni altro documento che attesti l’identità o la cittadinanza e sia in grado di agevolarne l’identificazione; la documentata indicazione del luogo di provenienza o di abitazione nel paese di origine; la descrizione delle modalità e degli itinerari del viaggio effettuato e degli eventuali organizzatori; l’indicazione delle generalità dei parenti, nonché del luogo, dell’indirizzo ovvero di un recapito telefonico in cui possono essere rintracciati in Italia; l’indicazione dell’indirizzo del luogo, in Italia, dove intende alloggiare o delle generalità e del recapito anche telefonico di chi è disponibile a offrigli ospitalità in Italia. Migranti. L’accusa di Msf al governo: “Politiche di boicottaggio sul soccorso in mare” di Enrica Riera Il Domani, 20 giugno 2024 “Sei vittime al giorno in mare, frutto di precise scelte governative ed europee”. Parla Marco Bertotto di Medici senza frontiere: “Vergognoso il silenzio sul naufragio a largo di Roccella”. “Impegno collettivo e cooperazione rafforzata sul tema della migrazione”. Le dichiarazioni finali dei leader del G7 a Borgo Egnazia stridono con le immagini della barca a vela che lunedì 17 giugno è affondata nel mare al largo di Roccella Ionica. Ma anche con quelle delle bare sistemate più di un anno fa sul pavimento chiaro del Palazzetto dello sport di Crotone dopo il naufragio di Cutro. E ancora con la conta dei morti e dei sopravvissuti di tutto il Mediterraneo. I dispersi dell’imbarcazione partita dalla Turchia verso l’Italia e naufragata a 120 miglia dalla Calabria - ma pure i 6 corpi senza vita trovati non distanti dalle coste libiche, in Tunisia e a Lampedusa - rappresentano l’ultima prova in ordine di tempo del fatto che i soccorsi in mare non sono una priorità. Di questo è convinto Marco Bertotto, direttore dei programmi di Medici senza frontiere che, in riferimento ai salvataggi di migranti in mare, parla di “vere e proprie politiche di boicottaggio”. I numeri d’altronde sono chiari. “Si registrano 6 vittime al giorno nel Mediterraneo e queste morti”, dice a Domani Bertotto, “sono il risultato di scelte e decisioni governative, non solo italiane, che hanno dimenticato i diritti delle persone, che si basano esclusivamente su logiche securitarie e di deterrenza”. Morire venendo inghiottiti dalle acque, da soli, mentre si invoca invano aiuto, sembra dunque un fatto ordinario. Un fatto che oggi è diventato più ordinario che mai. “Con il decreto Piantedosi i soccorsi in mare sono estremamente ostacolati”, continua Bertotto di Msf, che aggiunge: “L’attività delle ong è criminalizzata, e certe norme la rendono sempre più marginale: imporre alle navi un singolo soccorso, assegnandogli un porto assai distante dalle zone Sar (zone per la ricerca e il soccorso in mare, ndc), vuol significare non solo impedire un secondo soccorso, ma anche e soprattutto ridurre la nostra operatività. Per non parlare”, chiosa, “delle sanzioni che vengono previste in caso di violazione di quanto stabilito”. Salvare una, molte vite ed essere puniti, in base a un decreto che impone di non soccorrere “troppo” e su cui, tra l’altro, dubbi di legittimità costituzionale sono stati recentemente avanzati. Lo scorso aprile inoltre i tribunali di Crotone e Brindisi hanno confermato la sospensione del provvedimento di fermo amministrativo per le navi Humanity 1 e Ocean Viking, bloccate in porto, dopo il salvataggio di migranti, perché accusate di aver violato il decreto del ministro Piantedosi. “Le lacrime di coccodrillo che sono state versate dopo la tragedia di Cutro”, continua Bertotto, “sono state superate dal silenzio di questi giorni, in cui si cercano i 66 dispersi partiti da Smirne verso l’Italia e naufragati a largo della Calabria. È un silenzio”, prosegue Bertotto, “vergognoso, un silenzio che dimostra che non c’è alcuna empatia verso i migranti e il tema delle migrazioni, ma soltanto una totale inerzia da parte delle istituzioni”. Le scelte securitarie - E non solo il decreto Piantedosi, datato 2 gennaio 2023 e poi divenuto legge. Tanti i “mattoni” che secondo il referente di Medici senza frontiere hanno portato le istituzioni a “costruire quest’emergenza umanitaria”. Ad oggi è di fatti “scomparso”, continua Bertotto, “il meccanismo del coordinamento dei soccorsi in mare per come lo conoscevamo nel 2011. Allora le ong venivano considerate degli assetti a disposizione delle autorità marittime per procedere ai salvataggi, ma via via”, spiega Bertotto, “tutto questo è venuto meno e attualmente non c’è più quel tipo di cooperazione: le ong, coi loro mezzi e in modo autonomo, identificano le imbarcazioni e i pericoli”. In più per capire il progressivo fenomeno di “abbandono” dei migranti in mare e marginalizzazione delle procedure di soccorso, c’è bisogno di tornare indietro nel tempo. Il 2017 è l’anno in cui il governo Gentiloni, con ministro dell’Interno Marco Minniti, sigla l’accordo bilaterale con la Libia. “L’Italia ha aiutato la guardia costiera libica nell’attività di intercettazione dei migranti, poi portati nei centri di detenzione, e questo ha anche portato a una riduzione delle attività di soccorso da parte della guardia costiera italiana che, comunque, fa tuttora un lavoro straordinario e lo fa nonostante il quadro politico in cui si trova a operare sia vergognoso”, spiega ancora Bertotto dell’organizzazione umanitaria che, col suo team di pronto soccorso psicologico, sta al momento sostenendo i sopravvissuti del naufragio al largo delle coste calabresi, nonché i familiari dei dispersi. Il 2018 è poi l’anno degli slogan del leader del Carroccio Matteo Salvini con la politica propagandista del “Chiudiamo i porti” e dei toni aspri contro l’accoglienza e l’inclusione; dopodiché arriva l’ora della “ministra Luciana Lamorgese e delle norme tecniche che hanno portato molte navi a essere multate perché considerate non in regola”. Anno dopo anno, insomma, una “caduta libera” in quanto a salvaguardia dei diritti e delle prerogative individuali, in quanto a rispetto dei principi costituzionali e non solo. Soltanto una brevissima parentesi, tra le politiche riguardanti il soccorso dei migranti in mare, potrebbe essere ricordata. Dopo la strage di migranti del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, dove si accertò la morte di 368 persone, l’Italia dà vita all’operazione “Mare nostrum”, incentrata, tra le altre cose, su un mandato europeo di ricerca e soccorso. “Quella è stata l’ultima iniziativa italiana in materia di soccorso in mare, anzi l’unico meccanismo istituzionale con specifico mandato di soccorso in mare, ed è durata solo un anno, nell’ottobre del 2014 venne chiusa per mere ragioni economiche”. Come a dire che possono esserci interessi superiori rispetto a quelli che tutelano la vita di donne e uomini. O di quei 26 bambini tra i dispersi nelle acque a Roccella Ionica, ancora inconsapevoli, una volta saliti sul veliero, che proteggere persone anziché confini non rappresenti, a volte, neanche un’alternativa. Migranti. Dopo il Silos nulla: che fine faranno i rifugiati di Trieste? di Alice Dominese Il Domani, 20 giugno 2024 Decine di migranti, provenienti principalmente da Bangladesh e Pakistan, continuano a vivere in condizioni estreme nel Silos di Trieste, accampati in tende in condizioni igieniche estremamente precarie. Come si vede nelle immagini, i migranti vengono assistiti e ristorati con assistenza e pasti caldi da volontari di alcune associazioni indipendenti, come “Linea D’Ombra”. Ora il sindaco Dipiazza ha promesso di sgomberare la struttura fatiscente dietro la stazione. Tra fango e topi, da anni vi vivono i migranti in transito dalla rotta balcanica. Dove andranno a finire? Il sindaco ha promesso di sgomberare la struttura fatiscente dietro la stazione. Tra fango e topi, da anni vi vivono i migranti in transito dalla rotta balcanica. Dove andranno a finire? A Trieste, il sindaco Roberto Dipiazza ha ordinato lo sgombero del Silos, l’edificio nei pressi della stazione centrale che in uno stato di totale fatiscenza è da anni riparo per centinaia di migranti provenienti dalla rotta balcanica. Lo ha fatto, contestano le associazioni che assistono i migranti, senza predisporre un’alternativa concreta per le persone costrette ad andarsene e per quelle che arriveranno in città nei mesi a venire. L’ordinanza comunale stabilisce che lo sgombero dovrà essere effettuato entro il 24 giugno, ma per quella data sembra altamente improbabile che tutti i 250 posti promessi dalla prefettura per accogliere le persone presenti nel Silos saranno disponibili. La destinazione di riferimento, per ora, è l’ostello Alpe Adria, gestito dagli scout triestini, che sorge nella località di Campo sacro. Il piano originale, predisposto ad aprile nel corso di una riunione in prefettura, prevedeva di trasferire lì gli occupanti del Silos dopo un ampliamento dei posti letto, a partire dal primo luglio. “Il signor Dipiazza intende seguire questo piano o intende semplicemente attuare un’operazione violenta di sgombero del Silos senza assicurare nulla dopo, cioè semplicemente gettando quelli che verranno in strada?”, si chiede Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics). Nel corso dell’ultima riunione in prefettura, è stato comunicato che i trasferimenti non avverranno prima che il nuovo spazio di accoglienza nella sede di Campo Sacro sarà pronto. Ma, a differenza dei 250 posti promessi, qui i posti agibili saranno inizialmente 85, ovvero quelli già disponibili prima che la decisione di chiudere il Silos venisse presa e che finora sono rimasti inutilizzati. I posti dovrebbero diventare 150 con i lavori di ampliamento previsti a luglio, quando l’agenzia Onu per i rifugiati farà installare dei moduli prefabbricati per aumentare la capienza. Nell’attesa che venga resa nota la data dello sgombero, la vita delle persone all’interno del Silos continua a restare sospesa, tra topi, insetti e fango. Non tutti otterranno il trasferimento. All’appello manca ancora un centinaio di posti letto da coprire, ma il comune non sembra intenzionato a mettere a disposizione altri spazi di sua proprietà, come un edificio, proposto dai comitati cittadini, a pochi passi dal Silos. Proprio questo stabile avrebbe dovuto essere inaugurato nel 2022 per ospitare un dormitorio da 100 posti letto, ma da allora è chiuso e abbandonato. La sorte dei migranti che non riceveranno il trasferimento a Campo Sacro è ancora incerta, e la prefettura sull’argomento non si è esposta. Chi non è riuscito a manifestare l’intenzione di chiedere asilo non ha garanzia di trovare accoglienza all’ostello, e il rischio è anche quello di rimanere in strada. Dei 16mila arrivi a Trieste durante il 2023 conteggiati dall’associazione Linea d’Ombra Odv, un migrante su tre è stato identificato come vulnerabile. La maggior parte di loro è afgana e pakistana, e solo una minoranza, pari a circa il 30 per cento, vuole rimanere in Italia. Per loro è necessaria una presa in carico a livello nazionale che permetta alle persone richiedenti asilo di accedere a percorsi di accoglienza più strutturati, dice Gianfranco Schiavone: “In questa situazione, senza che venga assicurata un’alta rotazione delle presenze all’interno dell’ostello, anche Campo Sacro rischia di essere solo una toppa a una problematica più grande”. Intanto, in piazza della Libertà, tra il Silos e la stazione, i volontari continuano a offrire ogni giorno pasti caldi e cure di base a chi entra in città e non sa a chi rivolgersi. Se torna di moda l’attrazione per la bomba atomica di Paolo Valentino Corriere della Sera, 20 giugno 2024 Ci stiamo di nuovo innamorando dell’atomica? Pare di sì, a leggere l’ultimo rapporto annuale del Sipri che da sempre fotografa la situazione delle armi nucleari nel mondo. “Come ho imparato ad amare la bomba”, diceva l’immortale dottor Stranamore nell’omonimo film di Stanley Kubrick. Eravamo al culmine della Guerra Fredda, gli anni della crisi di Cuba e della costruzione del Muro di Berlino, quando i negoziati sul disarmo atomico erano ancora di là da venire. Poi si aprì l’era della distensione, gli accordi sulla limitazione e perfino la riduzione reciproca degli arsenali nucleari di Usa e Urss. E per un breve momento, complici Regan e Gorbaciov alla fine degli Anni Ottanta, sognammo perfino un mondo liberato dagli ordigni dell’Apocalisse. Non più. Ci stiamo di nuovo innamorando dell’atomica? Pare di sì, a leggere l’ultimo rapporto annuale del Sipri, l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace con sede a Stoccolma, che da sempre fotografa la situazione delle armi nucleari nel mondo. I nove Paesi in possesso di ordigni atomici (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan, Nord Corea e Israele) stanno modernizzando i loro arsenali, che attualmente contano insieme 12 mila testate, di cui il 90% è in possesso di Washington e Mosca. “È una dinamica destinata a proseguire nei prossimi anni”, spiega il direttore del Sipri, Dan Smith. Il dato più allarmante è che 9.500 di queste sono pronte per essere usate. Non solo, nel 2023 oltre duemila ordigni atomici, cioè 100 in più dell’anno precedente, sono stati messi in stato di allarme e montati su missili balistici, la maggior parte in Russia e Stati Uniti, ma per la prima volta anche in Cina: “Pechino - secondo il rapporto - allarga il suo arsenale nucleare più velocemente di qualsiasi altro Paese”. Entro il 2030 Dragone potrebbe disporre di 1.000 testate montate su missili intercontinentali. Eppure, di fronte alle continue evocazioni sul possibile uso di armi atomiche da parte di Vladimir Putin, imparare dal passato e affidarsi di nuovo alla dissuasione nucleare è probabilmente inevitabile. Non per amore, ma per sicurezza: in fondo, l’equilibrio del terrore garantì mezzo secolo di pace. Medio Oriente. Onu: “A Gaza è sterminio”. La risposta: raid su tende e aiuti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 giugno 2024 Il rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni unite accusa Israele di crimini di guerra e Hamas di omicidio e presa d’ostaggi. Bombardata la tendopoli di al Mawasi. Colpita la strada delle “pause” mai entrate in vigore. “Mai visto niente del genere, di questa estensione”. Così ieri Navi Pillay, capa della commissione di inchiesta delle Nazioni unite sull’offensiva israeliana a Gaza ha sintetizzato i contenuti, durissimi, del rapporto pubblicato pochi giorni fa e presentato ieri a Ginevra. Le accuse sono dirette: Israele sta commettendo crimini di guerra e contro l’umanità. “Il bilancio di vittime è senza precedenti, i numeri sono incredibili”, commenta poi in un’intervista ad al Jazeera. Una tragedia talmente enorme, dice, “da sopraffare la commissione”: doveva produrre 10.700 pagine di rapporto, non sono bastate e ha aggiunto due allegati. Il rapporto sarà presentato all’Assemblea generale dell’Onu con l’obiettivo, si immagina, di costringere gli alleati di Israele a prendere misure concrete, che vadano al di là di condanne a parole mentre continuano a rimpolpare l’arsenale israeliano di armi. Armi, spiega la commissione d’inchiesta, che l’esercito di Tel Aviv usa “deliberatamente” per “attacchi intenzionali e diretti contro la popolazione civile”, macchiandosi dei crimini di sterminio, omicidio, trattamento crudele e disumano dei palestinesi, volontariamente portati alla fame, e “trasferendo con la forza quasi l’intera popolazione in uno spazio piccolo, insicuro e non vivibile”. A ciò si aggiungono “violenze sessuali e di genere commesse dalle forze israeliane con l’obiettivo di umiliare e subordinare ulteriormente la comunità palestinese”. Violenze perpetrate sia contro le donne sia contro gli uomini. Dello stesso crimine, la violenza sessuale, sono accusati i gruppi armati palestinesi, a partire da Hamas, commessa “in particolare contro le donne” durante l’attacco del 7 ottobre. A questi, dice Pillay, si aggiungono i crimini di omicidio, attacchi contro civili, torture e presa di ostaggi. Da capa della commissione per i Territori occupati, Pillay cita anche la Cisgiordania descrivendo un’ondata di violenza senza precedenti, confermata ieri dall’ennesimo rogo di alberi di ulivo palestinesi da parte di gruppi di coloni, a devastare un’economia già totalmente supina a quella israeliana e da mesi svuotata di mezzi di sostentamento. Quanto detto ieri a Ginevra non è nuovo. Sono le stesse conclusioni a cui sono giunte, in tempi e con modalità diverse, la Corte internazionale di Giustizia e la procura della Corte penale internazionale, i massimi tribunali del pianeta, rimasti inascoltati. Ieri, dopotutto, a Gaza è stato un giorno come i 257 precedenti. Un bombardamento israeliano ha centrato una casa nel quartiere Sabra di Gaza City, un altro il quartiere di Zeitoun: nel pomeriggio non c’era ancora un bilancio certo. Si conosce quello del raid che ha colpito al-Mawasi, trasformata da comunità beduina a tendopoli. Come accaduto a Tal al-Sultan a maggio, l’attacco su una presunta “zona sicura” ha incendiatole tende, otto gli uccisi. “Siamo stati colpiti in un’area che doveva essere sicura - racconta ai giornalisti un’anziana, Fatima al-Qiq - I bambini stavano dormendo”. È successo di notte: i carri armati israeliani si sono spinti verso Rafah ovest, coperti dall’aviazione, il fuoco è finito sulle tende di al-Mawasi. Tanti sono fuggiti in preda al panico. Ieri sera nove palestinesi una bomba israeliana ha preso di mira un gruppo di persone in attesa degli aiuti umanitari, a poca distanza da Kerem Shalom, sulla strada che domenica l’esercito aveva promesso di non colpire per 11 ore al giorno: nove uccisi. Il bilancio delle vittime palestinesi dal 7 ottobre sale a 37.396, a cui si aggiungono oltre 10mila dispersi. Non c’è tregua a Gaza con quel che resta della Striscia preda da otto mesi di una presunta strategia militare riassunta - lo ha rifatto ieri il primo ministro Netanyahu - in un punto apparentemente chiaro: la distruzione di Hamas. Stava scritto così nello scarno comunicato del premier, a smentire il portavoce dell’esercito Hagari che poche ore prima aveva detto quello che sanno tutti: Hamas non sarà distrutto, dire il contrario “è lanciare sabbia negli occhi dell’opinione pubblica”. Quel che può essere distrutto, e lo è ogni giorno, è Gaza, l’unica terribile “missione compiuta” che finora Netanyahu può intestarsi.