La situazione carceraria: storia di un inarrestabile disastro tra demagogia e indifferenza di Desi Bruno* deriveapprodi.com, 1 giugno 2024 La questione è ormai nota a tutti. Non c’è quasi giorno che passi senza che non arrivi una segnalazione sull’aumento della popolazione carceraria (oltre 60.000 presenze a fronte di una capienza regolamentare di 47.000 ad oggi), sui numeri crescenti ed abnormi delle persone detenute che si suicidano (28 detenuti e 3 appartenenti alla polizia penitenziaria nei primi 3 mesi dell’anno), sui rischi connessi alla presenza sempre maggiore di situazioni di disagio psichico, sulla carenza di educatori e quindi sulla difficoltà di lavorare per il reinserimento dei detenuti definitivi, in numero sempre crescente, sulla mancanza di opportunità lavorative, di fondi, su episodi di intolleranza e violenza di detenuti e contro i detenuti e quindi sulle problematiche connesse alla sicurezza nella vita degli istituti. L’ elenco delle criticità potrebbe allungarsi ancora molto. Rispondere alla questione del sovraffollamento carcerario con la proposta di costruire nuove carceri è anche troppo facile, ed è quella che «paga di più». Nel 2010, è bene ricordarlo, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, decretò lo stato di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri, rimarcando lo stato di inadeguatezza degli istituti penitenziari e i conseguenti problemi di salute e sicurezza. Ne seguì un controverso Piano carceri, che portò alla costruzione di una serie di padiglioni aggiuntivi a molte delle strutture esistenti, con caratteristiche più adeguate ai parametri indicati dalle Convenzioni internazionali e dall’ordinamento penitenziario, senza che il problema si sia risolto. Ma altrettanto demagogico appare il grido di orrore sulla costruzione di nuove carceri, quelle di cui ancora comunque purtroppo c’è bisogno, almeno per una parte della attuale popolazione carceraria, che sostituiscano in toto quelle fatiscenti dove gli spazi, l’igiene e la mancanza di acqua rendono la vita un inferno e per le quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel 2013 per violazione dell’art. 3 CEDU con la sentenza «Torreggiani», per il trattamento inumano e degradante denunciato da alcuni detenuti italiani. E comunque «liberarsi della necessità del carcere» passa, di necessità, dapprima attraverso la loro ricostruzione, se è vero che l’ambiente penitenziario nella sua dimensione attuale ha effetti criminogeni sulla stessa popolazione detenuta. Di recente il Ministro di Giustizia ha proposto il recupero di alcune strutture del demanio non utilizzate per recuperare almeno duemila posti, ma i tempi sono lunghi, e di nuovo è comparsa la proposta di ulteriori padiglioni in aggiunta alle strutture esistenti. Ancora, si discute sulla possibilità di inserire i detenuti tossicodipendenti in comunità terapeutiche come ordinaria modalità di esecuzione della pena e di introdurre per chi ha pene brevi case- famiglia a custodia attenuata per rendere più agevole al momento del rilascio il rientro in ambito sociale, umanizzando la pena e riducendo i numeri dei detenuti. Tutti temi che meritano una trattazione a parte, ma danno l’idea della complessità dell’universo carcerario. Dieci anni dopo siamo di nuovo nella situazione del 2010, nonostante il susseguirsi di molti interventi normativi nel tentativo reale o apparente di ridurre il numero delle presenze e di incentivare il ricorso alle misure alternative alla detenzione, sulla base della semplice considerazione che le alternative al carcere offrono molte più garanzie di incidere sulla recidiva rispetto all’esecuzione di pene solo detentive. Secondo le statistiche ministeriali la recidiva si abbatte di 2/3 in caso di accesso alle misure alternative al carcere. Non è un dato di poco conto. Nel 2015 il Ministro di Giustizia di allora, Orlando, convocò gli Stati generali dell’esecuzione penale per un grande progetto riformatore dell’esecuzione penale costituendo 18 tavoli di esperti, a cui era demandato il compito di rivedere tutto il sistema penitenziario, dal tema dell’edilizia carceraria, alle misure di sicurezza, al tema dei rapporti con la famiglia, ecc. Quel progetto riformatore è rimasto inattuato perché era impopolare, e dopo due anni di lavori, tutti i progetti di riforma sono rimati nel cassetto, ad eccezione dell’ordinamento minorile. Seguirono importanti commissioni, guidate da giuristi come Giostra e Lattanzi, fino alla riforma c.d. «Cartabia», che avrebbe dovuto, nell’intenzione del legislatore, accelerare i processi, ridurre il ricorso al carcere, favorire la giustizia riparativa, tutti obiettivi allo stato ancora da conseguire. Ma al contempo, a fasi alterne, e sotto ogni governo, si continua anche a legiferare inasprendo le pene, anche se la storia giudiziaria, di ogni paese e di qualunque epoca, consente di affermare che l’inasprimento delle pene ha un valore simbolico, lenisce, in parte, la sofferenza delle vittime, dà l’impressione che lo Stato si occupi del problema. Così è stato per gli stupefacenti, per la corruzione, per i delitti in materia familiare, sino al «codice rosso», in materia di reati di genere, più volte rivisitato e rafforzato nell’apparato repressivo (ma che deve essere accompagnato da una serie di interventi di sostegno economico alle donne che vogliono e non possono liberarsi da situazioni di violenza). Si è introdotto l’omicidio stradale, come se nel nostro ordinamento non esistesse il reato di omicidio, si è introdotto quello nautico ed altri ancora ne verranno, risposte sull’onda di fatti gravissimi ma che non possono essere risolti solo con l’intervento penale, e le ragioni e le condizioni in cui maturano i reati non sono influenzati dall’asprezza delle pene. Da ultimo come non ricordare, sempre in via esemplificativa, il D.L. n.123/2023 «Caivano», risposta a un degrado urbano di tutta evidenza, ma che ha modificato l’approccio trattamentale nei confronti della devianza minorile con pene più severe (anche per gli esercenti la potestà sui minori), con l’ampliamento delle ipotesi di custodia cautelare e con provvedimenti di ammonimento (anche per i giovani tra i 12 e 14 anni), già al vaglio della Corte Costituzionale per violazione della finalità educativa della pena per reati commessi da minorenne. Spesso gli inasprimenti di pena o gli interventi di maggior rigore vengono travolti dalla Corte Costituzionale, che soprattutto con riferimento alla fase esecutiva della pena è intervenuta per ricordare che le persone detenute, qualunque reato abbiano commesso, possono evolversi e che il trattamento carcerario non può essere inumano e degradante, secondo il chiaro dettato dell’art. 27 della Costituzione. Appunto, la dignità delle persone, operatori penitenziari compresi, è ad oggi ancora calpestata. Sarebbe utile che la magistratura giudicante e quella requirente facessero qualche visita ai penitenziari italiani (peraltro l’art. 69 dell’ordinamento penitenziario lo impone alla magistratura di sorveglianza) e che le parole di scandalo, da condividere, per le condizioni nelle quali è stata presentata Ilaria Salis detenuta in Ungheria, accomunassero in quel grido di orrore anche quel che accade qui ed ora: e come non ricordare anche le modalità con cui fino a poco tempo fa erano portati i detenuti in giudizio, o come si può vivere d’estate senza acqua e senza aria in 3 mq e a quali reazioni porti un simile trattamento. Popolazione poverissima, quella carceraria, per la presenza di percentuali alte di tossicodipendenti, stranieri, anche di seconda generazione, non solo immigrati senza titolo per permanere sul territorio ma anche persone affette da patologie fisiche e psichiche, e molti autori di reati di genere, femminicidi, maltrattamenti, violenze sessuali, su cui val la pena ritornare, perché rappresenta comunque un tema in parte «nuovo» nell’universo penitenziario. Popolazione che spesso vive dell’aiuto del volontariato, vero circuito che assicura quel po' di welfare di sopravvivenza rispetto ad esigenze elementari di vita. Ma detto questo, si avverte una distonia in questo continuo intervenire, perché non è chiaro quale sia il pensiero sul carcere che sorregge l’opinione e l’intervento di molti, che oscillano tra l’invocazione del carcere a tutti i costi e la professione di fede sulla necessità di reinserire e ridurre il ricorso alla privazione della libertà personale, peraltro in un paese che vede ancora una presenza in carcere di presunti innocenti di poco sotto la soglia del 30% (e in passato la presenza ha sfiorato il 40%). Alla fine l’unica risposta possibile è che la questione carcere e giustizia continui a non essere parte di un progetto complessivo, privo di un pensiero che sovrintenda e avvii mutamenti normativi rispettosi di tutte le parti, del principio di legalità, di non colpevolezza, di uguaglianza, del carcere come estrema risposta, di rieducazione, di sicurezza della collettività, di terzietà del giudice, accompagnando ogni riforma con i necessari interventi di sostegno economico e di incremento di personale dedicato e competente. Non è più possibile accettare riforme a costo zero o a basso investimento di risorse. Le battaglie di civiltà sembrano tutte da iniziare ogni giorno più di prima.Il carcere come extrema ratio destinato a un intervento sulle situazioni di maggior allarme sociale resta un’utopia. Però la domanda è d’obbligo, e va rivolta con chiarezza. Il carcere è la soluzione di tutti i mali, l’isolamento aiuta a costruire una società più giusta e sicura e dobbiamo investire in una politica di edilizia penitenziaria volta non a migliorare, ma a costruire per far fronte a numeri sempre più importanti? Il continuo aumento delle pene ha risolto qualche forma di criminalità? O spesso non è servito che ad accontentare l’opinione pubblica perché, come ha detto recentemente un ex magistrato, Gherardo Colombo, più si punisce (o si invoca la punizione) più ci si sente innocenti e, però, spesso ci si ritrova più lontani dalla risoluzione dei problemi. Ma i problemi sono giganteschi e spesso la richiesta di sicurezza nasce dalla propria insicurezza sociale, dal disagio sempre più marcato, dall’assenza di forti riferimenti valoriali, da una solitudine sociale ed esistenziale che sembra non trovare via d’uscita. Nello specifico: il carcere e la violenza di genere Il tema della punizione è un tema complesso, e pur a fronte di una risposta negativa alle domande prima poste, oggi, soprattutto dopo decenni dalla scomparsa di reati come il delitto d’onore e simili dal nostro ordinamento, la violenza di genere ripropone ancora il tema dell’utilità della detenzione rispetto a delitti che sembravano più appartenere all’ambito dei delitti c.d. «culturalmente orientati», cioè determinati dalla presenza in alcune culture di valori del tutto dissonanti dai principi consacrati nelle Convenzioni internazionali. L’elenco del ricorso «comunque» al carcere come risposta a qualsivoglia problema sociale pone diversi e irrisolti interrogativi nella relazione con i delitti previsti dal c.d. «codice rosso» e di fronte al numero costante di femminicidi, che da anni supera oltre le cento vittime, nella maggior parte dei casi donne uccise in ambito familiare o comunque nell’ambito di rapporti affettivi e di relazioni di convivenza. Non si può negare che sia stata intrapresa anche la strada della prevenzione: basta ricordare, per tutti, che nel 2015 venne varato il primo piano straordinario contro la violenza di genere, in attuazione di Convenzioni internazionali (Convenzione di Istanbul 2013), e le linee programmatiche, poi riprese dai piani successivi, erano indicate nella prevenzione, protezione e sostegno delle vittime attraverso il sostegno economico e lavorativo alle donne che volevano denunciare e attraverso, ma non da solo, l’apparato repressivo. Nel frattempo il gratuito patrocinio a spese dello Stato viene esteso a tutte le donne, a prescindere dal reddito percepito, per poter essere assistite nel processo penale come persone offese. Nel 2019 il tema della violenza di genere è stato affrontato con la legge 16/2019 che ha introdotto nuovi reati come il revenge porn, la costrizione al matrimonio, la deformazione al viso mediante lesioni permanenti, la violazione del divieto di avvicinamento o allontanamento disposti dal giudice; inoltre, si è allungato il termine per la proposizione della querela da 6 mesi ad un anno nei reati di violenza sessuale ed altri interventi in materia di aggravanti nel delitto di omicidio. Nel 2023 è stata istituita una Commissione bicamerale di inchiesta sul fenomeno e con la legge 12/2023 si è sancita l’obbligatorietà di assumere la testimonianza della persona offesa entro 3 giorni dalla denuncia. Una corsa contro il tempo per evitare altre vittime. È stato introdotto, già in passato, l’obbligo di comunicare ed avvisare dell’eventuale scarcerazione degli autori o imputati di reati connotati da violenza di genere, onde evitare, per quel che è possibile, il contatto tra vittima e autore, anche presunto. Con la legge 168/2023 si è arrivati a poter applicare la legislazione antimafia in tema di misura della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno, in funzione di tutela preventiva, ai sospettati di gravi reati, sino alla previsione dell’ammonimento del questore nel caso di segnalazione di reati c.d. «spia» (lesioni, danneggiamenti, percosse, sempre in ambito familiare), al fine di impedire l’evoluzione di condotte ritenute sintomatiche verso più gravi reati. Il processo è stato stravolto: frantumata la presunzione di non colpevolezza si è aggiunta l’opera malsana di una informazione assetata di particolari. La normativa è complessa e la riflessione deve fare i conti anche con un mutamento della realtà carceraria in termini di presenza di imputati. Sino ad alcuni anni fa gli autori di reati di violenza sessuale o comunque di genere erano destinati ad un isolamento carcerario nelle sezioni «protette», dove venivano collocati coloro (autori di violenza sessuale, collaboratori di giustizia, appartenenti alle forze dell’ordine, ecc.) che potevano avere problemi di incontro con il resto della popolazione detenuta che non accettava la commissione di determinati reati. Le sezioni protette sono state per decenni luoghi di ulteriore sofferenza e segregazione, senza prospettive di cura e di programmi, con esclusione anche dal lavoro e da una socialità che rischiava di trasformarsi in occasioni di violenze tra detenuti sex offenders e tutti gli altri. Sono stati pochi i tentativi di affrontare in modo multidisciplinare il problema, come accade da anni nel carcere di Bollate, e prima ancora ad Opera, che riservano pochi posti a chi riesce ad inserirsi in un virtuoso percorso terapeutico guidato da esperti e che alla base ha un patto trattamentale tra autore di reato e amministrazione. Una goccia nel deserto. La gran parte resta esclusa. Nel 2023 sono state 109 le donne uccise, 3566 i detenuti per violenza sessuale, 4662 per maltrattamenti in famiglia, 1791 per stalking, 174 per riduzione in schiavitù. Numeri che crescono a dispetto dell’incremento delle figure di reato, di aggravanti e sanzioni sino ad una anticipazione della soglia di intervento punitivo ad un intervento amministrativo, quello del questore, che impone l’avvio a percorsi di riabilitazione, a prescindere dall’accertamento di una verità almeno processuale. Non può essere che ci si trovi di fronte alla situazione in cui vengono contrapposti la tutela dei diritti umani delle donne contro il diritto di difesa dell’imputato. Bisognerà trovare una strada. L’accesso alle misure alternative per gli autori di reati «sessuali» è da anni ormai possibile solo dopo avere compiuto un anno di osservazione scientifica della personalità, come prevede l’art.4 bis dell’ordinamento penitenziario, al fine di ridurre il rischio di recidiva. E si condivide. Ma gli esperti sono pochi e i condannati in aumento. Nel processo penale anche il beneficio della sospensione condizionale della pena per condannati per reati di maltrattamenti e violenza di genere può essere subordinato all’esito positivo di un percorso riabilitativo presso i centri-antiviolenza. Ma anche i centri sono pochi e l’accertamento di responsabilità deve essere compiuto. Ancora una volta è evidente che l’approccio al tema deve fronteggiare molteplici aspetti, spesso antitetici, ma in realtà strettamente connessi. Il diritto come strumento di tutela dei soggetti vulnerabili, ammesso che cosi si presenti almeno talvolta, può diventare strumento di annientamento di fronte al pericolo di recidiva. La tutela delle donne impone percorsi di tutela differenziati e può connotare in parte il processo, almeno nei tempi. Ma senza stravolgere il piano delle tutele. Il diritto non è solo uno strumento che si adatta, deve essere un argine e non una via di fuga. L’art. 90 quater c.p. definisce il concetto di vulnerabilità, che connota, tra le altre, le persone offese affettivamente psicologicamente ed economicamente dipendenti dall’autore di reato. Forse questo è il piano su cui lavorare per ridurre il ricorso ad una violenza che pare inarrestabile e non solo in ambito familiare e affettivo. Oggi la strada appare davvero in salita. *** Desi Bruno svolge l’attività di avvocato penalista dal 1986 nel Foro di Bologna. Ha rivestito numerosi incarichi, in particolare è stata prima Garante per le persone private della libertà personale per il Comune di Bologna dal 2005 al 2010 e poi per la Regione Emilia-Romagna dal 2011 al 2016. Attualmente ricopre il responsabile dell’Osservatorio Carcere e diritti umani della Camera Penale «Franco Bricola» di Bologna. L'isolamento nelle carceri va superato di Andrea Oleandri lavialibera.it, 1 giugno 2024 Si tratta di una pratica ancora abusata, che espone i detenuti a violenze e torture, avendo un impatto devastante dal punto di vista psicologico, fisico e sociale. “Uno di questi apriva la cella di isolamento e diceva a S.M. di entrare; poiché S.M, temendo di essere picchiato, non voleva entrare, uno degli agenti lo colpiva con un calcio da dietro e lo faceva rovinare a terra, battendo la testa; a questo punto tutti gli agenti lo colpivano con calci e pugni…”. Questo è uno stralcio della ricostruzione che i giudici milanesi hanno fatto di quanto sarebbe accaduto nell’Istituto penale per minorenni Beccaria di Milano. È?? uno degli episodi accaduti all’interno dei reparti di isolamento che si trovano nelle carceri italiane: luoghi spesso collocati in aree separate rispetto alle sezioni ordinarie, lontano quindi dagli sguardi, dai controlli e dove, per questo, è più facile si possano verificare episodi di violenza e tortura. Ma non è il solo, anzi. Lamine Hakimi è morto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 4 maggio del 2020. Era una dei detenuti vittima di quella che viene definita “mattanza” e per cui oltre 100 persone (agenti penitenziari, operatori e dirigenti) sono oggi sotto processo per diversi reati, a partire dalla tortura. In questo caso il reato contestato è morte come conseguenza della tortura. Dopo aver subito violenti pestaggi, Lamine è stato portato in una cella di isolamento per un provvedimento disciplinare, poi contestato dai giudici perché basato su documenti e attestazioni false, e lì lasciato ben oltre i tempi consentiti. Abbandonato, senza che gli fossero prestate le cure necessarie. Nel dicembre 2004 due persone detenute sono state condotte nelle celle di isolamento del carcere di Asti, prive di vetri, nonostante il freddo intenso, nonché di materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, e sgabello. Gli è stato razionato il cibo e impedito di dormire. Nei giorni successivi, sono stati insultati e sottoposti a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo. A uno dei due, è stata persino schiacciata la testa con i piedi. L’episodio è emerso a causa di intercettazioni dirette ad appurare altri reati su cui i pubblici ministeri indagavano. Il processo si è concluso nel 2012 con il proscioglimento per prescrizione degli agenti imputati. Il giudice del caso ha precisato che i reati contestati erano riconducibili alla fattispecie di tortura ma che, in assenza di una legge ad hoc, non si poteva procedere. Legge poi introdotta nel 2017, dopo una sentenza della Corte europea dei diritti che ha riconosciuto a quei due detenuti lo status di vittime di torture e di trattamenti inumani e degradanti, condannando lo Stato italiano a risarcirli con 80 mila euro ciascuno. Ma l’isolamento non è un problema che riguarda solo le violenze. Infatti, ha un impatto devastante dal punto di vista psicologico, fisico e sociale. Separa le persone dalla vita comune, riducendo i contatti non solo con l’esterno ma anche con l’interno dell’istituto, e ponendo i detenuti in celle spoglie. Una condizione che ha conseguenze emotivamente forti, come dimostrano anche i numeri dei suicidi: delle 34 persone che si sono tolte la vita dall’inizio del 2024, almeno cinque di loro si trovavano in una cella di isolamento. Ecco perché dal 2022 Antigone e Physicians for Human Rights Israel hanno avviato una campagna a livello globale per superare questa pratica carceraria, realizzando delle Linee guida internazionali sulle alternative all’isolamento penitenziario: un documento che include raccomandazioni dirette a eliminare le cause all’origine dell’isolamento, a mettere in atto misure di responsabilità e supervisione, nonché a orientare la creazione di piani di assistenza personalizzati e a formare il personale. Una pratica abusata, ma in contrasto con la costituzione - In Italia l’isolamento è ampiamente ammesso nella legislazione interna. Ne esistono di tre tipi: c’è l’isolamento disciplinare che può essere disposto fino a 15 giorni nel caso di infrazioni disciplinari. Poi, l’isolamento giudiziario, stabilito dai magistrati nella fase di custodia cautelare per evitare che gli arrestati possano precostituire tesi difensive. Infine, c’è l’isolamento diurno, un obbrobrio tutto italiano, introdotto in epoca fascista (1930), nel codice Rocco e da allora rimasto nel nostro ordinamento penale, che prevede l’isolamento diurno da sei mesi a tre anni come pena vera e propria nel caso di pluri-ergastolani. Quest’ultimo è, peraltro, l’unico caso in cui il giudice può disporre della modalità di esecuzione della pena che in tutti gli altri casi non sta più a lui, ma ad altre amministrazioni dello Stato. Nei primi mesi del 2024 in Italia ci sono stati 668 casi di isolamento disciplinare e 15 di isolamento giudiziario, quindi più o meno l’un per cento della popolazione detenuta è passata per una cella di isolamento. Per quanto riguarda l’isolamento disciplinare, in alcuni casi si è assistito a un suo abuso. Se la normativa prevede un limite massimo di 15 giorni, la stessa non pone altri limiti temporali e, dunque, non è raro sapere di persone che dopo i 15 giorni sono stati riportati nella propria cella e, dopo poche ore, poste di nuovo in isolamento per altri 15 giorni. Eppure, secondo la letteratura medica, una persona può essere posta in isolamento per un tempo massimo proprio di 15 giorni: dopo due settimane, infatti, i danni prodotti da questo regime, potrebbero essere addirittura irreversibili. Inoltre, l’isolamento come pena è in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione in base al quale le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e “devono tendere alla rieducazione del condannato”. E un regime come quello dell’isolamento, tanto quello disciplinare, quanto quello giudiziario e diurno, non si vede come possa mai avere questo scopo. *Responsabile comunicazione di Antigone Riforma Nordio, c’è chi dice sì di Valentina Stella Il Dubbio, 1 giugno 2024 Magistratura “di base” sedotta dal sorteggio al Csm: il governo ci crede. Uno degli aspetti più controversi della riforma costituzionale incentrata sulla separazione delle carriere è il sorteggio “secco” dei magistrati al Csm. L’Anm ha parlato di “svilimento della funzione di rappresentanza elettiva dei togati”. Il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano ha spiegato invece che l’obiettivo di questa parte della riforma è un altro. È quello di “ridimensionare il ruolo delle correnti, gli unici veri partiti rimasti sul campo, protagoniste spesso delle carriere dei magistrati”. In questa cornice si è inserita la posizione controcorrente (almeno in parte) assunta dal gruppo “antisistema” dell’Anm, Articolo Centouno, i cui rappresentanti nel “parlamentino” delle toghe si sono detti favorevoli al sorteggio temperato, e non pregiudizialmente ostili a quello “puro”. Insomma, c’è una fetta della magistratura che non è contraria a questa previsione della riforma. A tal proposito ricordiamo che a gennaio 2022 il “sindacato” delle toghe ha indetto un referendum interno sul sistema di voto “ideale” per l’elezione dei consiglieri togati al Csm (in vista della tornata con cui, pochi mesi dopo, sarebbero stati scelti i nuovi rappresentanti della magistratura a Palazzo dei Marescialli). Rispetto al quesito sul sorteggio, 2.470 magistrati risposero “No”, pari a circa il 58% di quelli che votarono, ma il risultato, definito “inatteso e sorprendente” dai favorevoli, fu quel 42% (1.787 voti) che invece disse “Sì” all’estrazione a sorte dei consiglieri. Le interpretazioni dell’esito finale, seppur dinanzi agli stessi numeri, ovviamente furono opposte. Tuttavia quello che interessa ora è capire che peso avrà questa frangia della magistratura, non tanto e non solo sul piano del dibattito interno alle toghe, quanto nel confronto che certamente metterà in tensione, nei prossimi mesi, il governo e l’Anm. Per essere più chiari: questa questione può rappresentare certamente un oggetto di sfida. Come? L’Esecutivo, o meglio la maggioranza che dovrà difendere e tentare di far approvare la riforma costituzionale in Parlamento, potrebbe far leva su quella fronda di favorevoli al sorteggio per depotenziare la battaglia che le toghe dovranno intraprendere in questo lungo percorso tra esame delle due Camere ed eventuale referendum. Siamo sempre nel campo delle ipotesi, tuttavia una tale eventualità rappresenterebbe un modo per indebolire l’Anm e far emergere un sentimento di minor appartenenza al “sindacato” delle toghe. Immaginate cosa accadrebbe se qualche magistrato cominciasse a rilasciare interviste ai giornali per dichiararsi, come qualcuno ha già fatto, favorevole non solo alla separazione delle carriere ma anche al sorteggio: in una campagna referendaria che si giocherà quasi esclusivamente sui media, sarebbe un fattore di indebolimento della narrazione proposta dall’Anm. È pur vero che l’ultimo congresso dell’Associazione magistrati ha ricompattato, contro le riforme in atto, tutte le correnti, e i numeri di Palermo lo hanno dimostrato. Non è escluso che la voce dissidente alla fine ripieghi verso l’obiettivo più grande di scongiurare la vittoria della maggioranza al referendum. Ma nulla è scontato. L’oscillazione tra le due prospettive - prevalenza dello “spirito corporativo” e rivolta della base contro la linea delle correnti - è imprevedibile nel suo esito. Carlo Nordio non sembra privo della determinazione a cavalcare, sul piano mediatico, strumenti dialettici più aggressivi rispetto allo stile esibito finora. Basti pensare alla dichiarazione con cui due giorni fa il guardasigilli ha risposto, durante la trasmissione “Cinque minuti”, alla domanda di Bruno Vespa sul rischio che la riforma - la separazione delle carriere in particolare - indebolisca la magistratura: “A indebolirla sono stati gli scandali”, ha replicato il ministro. Toni che autorizzano a non escludere una comunicazione altrettanto “bellicosa” dell’intero governo nella disputa dei prossimi mesi con l’Anm. Ed è esattamente questo lo scenario in cui l’Esecutivo può scommette su una “maggioranza silenziosa” di giudici che, come Spartaco, rompono improvvisamente le catene dell’egemonia correntizia, attratti dalla possibilità che non siano più i gruppi di potere interni all’Anm a selezionare giudici e pm da eleggere nei due Consigli superiori, ma che a decidere provvederà semplicemente la sorte. E la prospettiva - per ora astratta ma certo non esclusa né da Nordio né dai vertici del “sindacato” delle toghe - di una progressiva emancipazione delle “toghe di base” dalle correnti è certamente favorita proprio dal nuovo sistema di potere disegnato dalla riforma: a decidere sulle carriere dei colleghi non sarebbero più i gruppi associativi, attraverso i loro delegati a Palazzo dei Marescialli, ma un’assemblea presidiata da giudici (da una parte) e pm (dall’altra) potenzialmente privi di legami con l’Anm. In uno scenario simile, la popolarità del sorteggio, tra i magistrati, pare effettivamente destinata ad accrescersi. E se si moltiplicassero i “testimonial”, la campagna di Nordio non potrebbe che giovarsene: a quel punto il “no” alla sua riforma verrebbe attribuito non alla magistratura ma alla sua gerarchia “politica”, l’Amm appunto. Un quadro che aumenterebbe di sicuro le possibilità, per il governo, di vittoria al referendum. Le radici antiche del sorteggio (che conta molto per l’imparzialità) di Mario Garofalo Corriere della Sera, 1 giugno 2024 Può sembrare un’idea strampalata o una provocazione, ma il sistema legato al fato ha radici lontane. Può sembrare strampalata l’idea di sorteggiare chi dovrà governare la magistratura, può apparire come una provocazione o, peggio, come una mortificazione delle toghe. Ma il sistema, al di là delle presunte o reali finalità politiche della riforma, ha radici lontane. Fino a duecento anni fa, anzi, la “democrazia aleatoria” era diffusissima. Nell’antica Atene, si entrava per sorteggio nel Consiglio dei Cinquecento, che era l’equivalente del potere esecutivo. La fortuna aveva una parte nella complessissima selezione del doge di Venezia, dove un bambino estraeva da un’urna le ballotte, piccole sfere di legno con i nomi. Secondo Montesquieu il “suffragio per sorte” era democratico, quello “per scelta” aristocratico. Ci sono molti fautori, oggi, di un ritorno al passato. Uno dei più noti, l’intellettuale belga David Van Reybrouck ne ha spiegato i vantaggi: favorirebbe la partecipazione dei cittadini a rotazione, smantellerebbe la “casta” dei rappresentanti professionisti. Tecnicamente è quello che vorrebbe fare Carlo Nordio con le correnti della magistratura. I Cinque Stelle ora si oppongono, ma era stato il loro guardasigilli Alfonso Bonafede a lanciare l’idea di un sorteggio del Consiglio superiore della magistratura (Csm) e ancora nell’aprile del 2022 Conte non si opponeva all’ipotesi. La cosa non era sorprendente, visto che Gianroberto Casaleggio adorava Van Reybrouck e Beppe Grillo si era spinto fino a proporre addirittura l’estrazione dei componenti del Parlamento. Un ruolo della fortuna nella composizione del Csm è stato evocato da studiosi di varia provenienza, da Bruno Tinti a Stefano Passigli a Michele Ainis. L’ex presidente della Camera Luciano Violante (Pd) ha immaginato un’estrazione “al contrario” dei consiglieri da sostituire. La politologa Nadia Urbinati, escludendo giustamente il sorteggio dei parlamentari (non risponderebbero al popolo), lo ha ammesso per “organi con funzioni determinate” in cui sia importante “l’obiettivo dell’imparzialità”. Per questo motivo, se sono comprensibili altre preoccupazioni sulla riforma Nordio e sulla tutela dell’indipendenza della magistratura, lo sono meno le critiche al sorteggio. Certo, bisogna capire in concreto quale sarà il meccanismo: bene che dopo il confronto al Quirinale si sia intervenuti perché tutti i consiglieri vengano selezionati in base alla fortuna, non solo quelli togati. Era importante per l’autonomia di uno dei fondamentali poteri dello Stato. Perseguire il giusto processo non è eversione ma significa rispettare la Costituzione di Francesco Petrelli Il Foglio, 1 giugno 2024 La separazione delle carriere approvata dal governo attua un fondamentale principio costituzionale: quello del “giudice terzo”. Al fine di comprendere meglio il significato della riforma costituzionale della separazione delle carriere, al di là di inutili e facili slogan, sembra utile ricordare alcuni fondamentali passaggi che hanno segnato la storia del nostro processo penale: dal varo del nuovo codice “Vassalli” nel 1989, alla riforma costituzionale del 1999, alla proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare depositata in Parlamento nel 2017 dall’Unione delle Camere penali, forte della raccolta di oltre 71.000 firme. La riforma del 1999, con la quale si è introdotta nell’art. 111 della nostra Carta la figura del “giudice terzo”, ha contribuito a chiudere positivamente una stagione, quella degli anni ‘90, davvero drammatica per il nostro Paese. Una stagione segnata dalla vicenda di Tangentopoli e dalla traumatica fine della prima repubblica. Una storia di durissimi conflitti fra magistratura e politica che ha certamente stravolto i già fragili equilibri fra la magistratura ed i poteri dello Stato. Con quella riforma, intervenuta dieci anni dopo l’introduzione del processo accusatorio, sono stati finalmente inseriti in Costituzione i principi del “giusto processo”. Pochi oggi riescono a negare che quella riforma abbia anche costituito un fondamentale potenziamento delle garanzie ed una evidente modernizzazione del processo penale. Quel nuovo testo dell’art. 111 Cost., alla cui riforma l’Unione delle Camere penali ha fornito un fondamentale contributo, ha segnato un cambio di paradigma che appare oggi davvero irrinunciabile. Perché con quella riforma si sono messi in sicurezza i fondamenti del nostro modello accusatorio, ed in particolare quello della formazione della prova nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo. Un principio intriso di valori democratici della cui importanza non sempre si è consapevoli. Così come non si è compreso che quelle garanzie del Giusto processo, intanto possono trovare concreta attuazione, se quel processo si svolge davanti a un giudice terzo, distinto cioè da entrambe le parti. La terzietà del giudice, imposta da quell’art. 111 della nostra Costituzione, intesa come separatezza ordinamentale fra chi accusa e chi giudica, fra controllore e controllato, non è mai stata realizzata, condividendo ancora i magistrati, requirenti e giudicanti, un’unica ed indistinta commistione di interessi in sede di disciplina, di valutazione professionale e di avanzamento delle carriere. Ogni modello processuale ha bisogno dei suoi interpreti ed interpreti del modello accusatorio non possono certo essere quei giudici e quei pubblici ministeri dalle carriere unificate che plasmano le figure ibride di quasi-giudici e di quasi-pubblici ministeri. Quel nuovo modello non ha mai trovato una compiuta attuazione proprio a causa della mancata realizzazione di quella figura di giudice terzo. Non si tratta, dunque, come alcuni vogliono far credere, di una riforma che “stravolge” la nostra costituzione, ma di una riforma che, al contrario, finalmente attua un fondamentale principio della nostra Costituzione. Anche in questo caso, come nel 1999, si tratta di realizzare un rafforzamento delle garanzie di tutti i cittadini ed una evidente modernizzazione della cultura del nostro processo penale. Colpire i magistrati: ecco il vero e unico obiettivo del governo di Franco Monaco Il Domani, 1 giugno 2024 Considerata la sproporzione tra i limiti oggettivi della questione da un lato e, dall’altro, l’enfasi attribuita alla riforma (“epocale”) con gli strappi che essa comporta, non si può non chiedersi il perché, ovvero quale sia il vero obiettivo. Si può dare una sola risposta: indirizzare un messaggio intimidatorio ai magistrati. Non è il caso di indugiare sui pro e sui contro della separazione delle carriere dei magistrati. Questione annosa e controversa sulla quale le opposte opinioni sono da gran tempo cristallizzate. Questione che sta al centro della declamata “riforma della giustizia” varata dal Consiglio dei ministri. Titolazione decisamente enfatica e impropria, trattandosi più esattamente di “riforma dei magistrati”. Mi limito al secco giudizio dell’avvocato Franco Coppi, che l’ha bollata come “inutilmente ideologica”. Giudizio interessante perché formulato da un principe del foro, che si sottrae alla rigida polarizzazione tra le opposte “corporazioni”: avvocati favorevoli, magistrati contrari. Dunque, prescindendo dal merito, per farsene un’opinione merita considerare contesto e metodo. A cominciare dall’incidente che ha preceduto il varo del provvedimento da parte del Consiglio dei ministri: un colloquio del ministro Nordio e del sottosegretario Mantovano al Quirinale che avrebbe dovuto essere riservato, spacciato come un via libera del presidente Mattarella (la mattina seguente Il Giornale così titolava “Cambia la giustizia, sì del Quirinale”). Palesemente un falso. Il baratto delle riforme - Conosciamo benissimo lo scrupolo e la correttezza di Mattarella, il quale non interferisce nella sfera di autonomia di governo e parlamento. Specie, come in questo caso, quando si tratta di materia costituzionale e, di più, di riforme che possono intaccare le sue prerogative (come il Csm da lui presieduto). Basterebbe tale sgarbo per farsi un’idea del modo - le scarpe chiodate - con il quale il governo si comporta in tema di Costituzione e, in questo caso, di giustizia. Un test eloquente di ciò che potrà accadere allorquando, introdotto il “premierato assoluto” con plebiscito popolare, il rapporto tra governo e presidente della Repubblica si risolverebbe in una subordinazione. Del resto, lo sappiamo: si tratta della terza bandierina tenacemente voluta da FI, che si affianca alle altre due: il premierato, vessillo di Meloni, e l’autonomia differenziata, moneta di scambio della Lega. L’opposto del metodo che si conviene alle riforme: visione condivisa (e non crudo baratto) e confronto effettivo con l’opposizione. Nonché dialogo con i destinatari della riforma e non contro di essi. Qualcuno si è spinto a evocare il progetto piduista. Altri più semplicemente, persino proclamandolo con toni trionfalistici, come la realizzazione del sogno di Berlusconi tra i cui lasciti meno encomiabili e più divisivi si iscrive la guerra ai magistrati. Una riforma “epocale”, l’hanno definita Meloni e Nordio. Curiosamente varata in un Consiglio dei ministri di venti minuti a una settimana dalle elezioni europee. Operazione propagandistica - Una precipitazione chiaramente inscritta nel quadro di una operazione propagandistica ove a ciascuno dei tre partiti di maggioranza, nel segno di una rigorosa par condicio, sia dato modo di agitare il proprio trofeo. Merita porsi due domande: quale sia il rapporto di tali misure con i mali endemici e concreti dell’amministrazione della giustizia, a cominciare da quello della durata dei processi; e quali le dimensioni del fenomeno, da stroncare, del passaggio dall’una all’altra carriera (da inquirente a giudicante o viceversa). Conosciamo le rispettive risposte: nessun rapporto, rilevanza zero. I passaggi di carriera sono in numero irrisorio, e, dopo la riforma Cartabia, ciascun magistrato potrà cambiare una sola volta. Dunque, considerata la sproporzione tra i limiti oggettivi della questione da un lato e, dall’altro, l’enfasi attribuita alla riforma (“epocale”) con gli strappi che essa comporta, non si può non chiedersi il perché, ovvero quale sia il vero obiettivo. Si può dare una sola risposta. La seguente, che di nuovo ci rinvia al tempo e alle gesta del Cavaliere: indirizzare un messaggio intimidatorio ai magistrati. Un messaggio che, a sua volta, fa seguito a parole e atti volti a svilire i presidi di legalità, le istituzioni di garanzia e di controllo, il principio della separazione dei poteri. Sullo sfondo, una complessiva visione in contrasto con la idea-forza del costituzionalismo democratico suscettibile di essere condensata nella seguente massima: “Porre limiti al potere di chi comanda”. A ben vedere, la cifra illiberale che connota la natura e la cultura del governo delle destre, nelle quali antichi riflessi condizionati si mescolano con il portato del berlusconismo. Una miscela di autoritarismo e di anarco-individualismo. Separazione delle carriere: il ruolo del pm è cruciale e merita una riflessione profonda di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2024 L’avvento della Costituzione italiana ha segnato un punto di svolta fondamentale per il sistema giudiziario, in quanto ha riconosciuto e tutelato l’indipendenza esterna della magistratura dal potere esecutivo. Questo principio è sancito in modo chiaro nel terzo comma dell’articolo 107 della Costituzione, il quale afferma che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per la diversità delle funzioni esercitate. Tale principio ha permesso di affrancare definitivamente il Pubblico Ministero dal controllo dell’esecutivo. Di recente, il Consiglio dei ministri ha discusso un disegno di legge costituzionale volto a separare le carriere dei magistrati, una decisione che, sebbene dibattuta per soli 20 minuti, solleva numerose questioni. A partire da una domanda fondamentale: qual è l’utilità del Pubblico Ministero nel nostro sistema giudiziario? Il ruolo del Pubblico Ministero è cruciale e merita una riflessione approfondita, soprattutto alla luce delle recenti decisioni politiche. Questo tema, che ho spesso trattato in contesti internazionali, richiede un’analisi estesa e articolata. Pertanto, propongo di sviluppare il discorso in una serie ordinata di interventi su questo blog, invitando i lettori a partecipare attivamente con domande e richieste di chiarimenti come faccio spesso con gli studenti, insomma ad essere una spina nel fianco. Occorre essere chiari: il Pubblico Ministero ha subito significative trasformazioni storiche e funzionali. Originariamente una figura subordinata del Procureur du Roi, è evoluto nel prototipo napoleonico del Parquet nel processo penale, ampliando le sue funzioni fino a diventare un garante dei diritti fondamentali. Oggi, il Pubblico Ministero assume un ruolo sovranazionale, sia nell’Unione Europea sia, come stiamo vedendo nella strettissima attualità, nella Corte Penale Internazionale. L’espansione delle funzioni si è manifestata in due principali direzioni. La prima riguarda l’ambito civile, iniziata nella seconda metà del XX secolo, che lo ha visto impegnarsi nella tutela dei diritti fondamentali collettivi contro poteri privati e nel rispetto dei diritti sociali. La seconda espansione, ancora in fase embrionale, si verifica a livello sovranazionale in risposta alla globalizzazione e alla crisi della sovranità statale, con la creazione della Procura Europea e della Procura presso la Corte Penale Internazionale. Proprio per questi secondi motivi, suggerirei, per chi legge, di superare per un attimo l’idea delle contrapposizioni antagoniste, stile piccolo mondo antico, che ci viene rappresentata in queste ore dal dibattito nazionale e di provare a tenere dritta la barra sul punto dell’orizzonte per il quale il Pubblico Ministero oggi, nonostante le diverse configurazioni istituzionali nei vari paesi, è un’istituzione chiaramente vincolata alla cornice democratica dello Stato costituzionale. Insomma, non ne possiamo fare a meno. In Italia, quindi, egli deve essere visto non solo come un attore del processo penale, ma anche come un garante della legalità, un custode dei diritti fondamentali e un promotore della giustizia sociale. In particolare, la sua funzione di tutela dei diritti collettivi e sociali assume un ruolo centrale in un contesto globale dove le violazioni possono essere perpetrate tanto dai poteri pubblici quanto dai grandi e selvaggi poteri che rappresentano l’assolutismo economico e imprenditoriale che causano danni all’ambiente, alla salute, alla sicurezza dei lavoratori e contro le organizzazioni criminali. Questo ruolo richiede non solo una solida formazione giuridica, ma anche una sensibilità verso le problematiche sociali ed economiche, in linea con un auspicato costituzionalismo globale. Con la riforma del codice di procedura penale del 1988, si era affermata l’indipendenza interna del Pubblico Ministero attraverso la “degerarchizzazione” degli uffici della Procura e la “personalizzazione” delle funzioni. Dal 2006 invece stiamo assistendo ad un progressivo ritorno al passato precostituzionale con l’obiettivo di ripristinare i principi originari contenuti nelle leggi dello Stato unitario, privilegiando nuovamente il criterio gerarchico e verticistico, al fine di superare la personalizzazione delle funzioni requirenti. Un percorso che, mentre da una parte ha accentuato la gerarchizzazione degli uffici requirenti, incrementando i poteri del Dirigente dell’ufficio, sia dal punto di vista organizzativo, sia con riguardo alla gestione del procedimento e dei rapporti con i Sostituti, dall’altra ne sta progressivamente erodendo il campo di azione in favore del crescente dinamismo del Questore e del Prefetto nelle aree, oggi più che mai sensibili, delle misure di prevenzione. Questa tendenza ha portato a un controllo più diretto dell’Esecutivo, con un sapore politico sempre più marcato. Il Procuratore della Repubblica è oggi il titolare esclusivo dell’azione penale e assicura il corretto esercizio della stessa e il rispetto delle norme sul giusto processo. Egli determina i criteri di organizzazione e assegnazione dei procedimenti, i rapporti con la Polizia giudiziaria e l’utilizzo delle risorse. È innegabile che il crescente controllo gerarchico e l’uso strumentale della Polizia giudiziaria abbia favorito il carrierismo minandone la credibilità. Ma le critiche, spesso mosse da una politica ancor meno credibile, sono talvolta basate su pregiudizi o interessi di parte. La tensione verso un sistema accusatorio, perfettamente aderente alla riforma del 1988, si scontra dunque con la realtà italiana, caratterizzata da continui cambiamenti normativi. L’ultima riforma, la riforma Cartabia, non è stata pienamente attuata a causa di carenze di organico. La separazione delle carriere dei magistrati potrebbe aggravare ulteriormente la situazione. Le principali preoccupazioni riguardano l’indipendenza di questo potere, la legittimità e la rappresentatività dei membri dei Consigli Superiori della Magistratura, e l’impatto sulla stabilità e l’efficienza del sistema giudiziario. In una fase storica in cui molte sedi giudiziarie soffrono di una significativa carenza di personale, questa riforma potrebbe aggravare la situazione, oltre ad essere costosissima per il bilancio statale. In un Paese ideale dove siano effettivi i principi di legalità ed etica questa iniziativa potrebbe, astrattamente, funzionare e sperare in un approccio olistico e trasparente per realizzare un sistema giudiziario che serva il popolo italiano. Ma è davvero così? E chiuderei lasciandovi per la prossima volta: qual è il reale convitato di pietra di tutte queste riforme? *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Il giudice legislatore. Cassazione: la legittimità in crisi di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 1 giugno 2024 La legge (del 1941) attribuisce alla Corte di Cassazione il compito, davvero cruciale, di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Tale funzione, ovviamente, è regolata e limitata dal superiore principio costituzionale della sottoposizione del giudice alla Legge. Si apre qui il tema del limite del potere di interpretazione della legge da parte del giudice: un limite non sempre agevolmente individuabile, ma che certamente pone fuori dal sistema una interpretazione che giunga a riscrivere la legge, o a colmarne le (pretese) lacune, facendosi essa stessa fonte normativa. E invece - eccoci al punto che vogliamo affrontare in questo numero di PQM - la Corte di Cassazione, con una drastica accelerazione negli ultimi decenni, si è assegnata un ruolo crescente di fonte primaria della normazione. Non si contano - leggete sul punto la lucida analisi del prof. Daniele Negri - i casi nei quali l’interpretazione di una norma da parte della Corte si è tradotta in una riscrittura radicale della norma stessa, lontana non solo dalla volontà storica del legislatore, ma perfi no dalla inequivoca semantica del testo. Il tema è dunque di straordinario interesse, e non è il solo che occorre affrontare - e che qui, infatti, affrontiamo - quando si voglia approfondire la rifl essione su una istituzione giudiziaria di questa suprema (è il caso di dirlo) importanza. È sempre più pressante, ad esempio, il tema del carico dei ricorsi, d’altronde frutto di princìpi costituzionali non scalfi bili circa il diritto ad impugnare sentenze sfavorevoli, fino a sindacarne la legittimità, appunto, davanti alla Corte di Cassazione. Ed è indubbio che da anni la Corte Suprema si sia fatta carico di costruire, in via interpretativa, una strada sempre più ostile ed impervia per chi intenda proporre ricorso, innanzitutto attraverso un ampliamento francamente indebito della nozione di inammissibilità del ricorso. Le statistiche ci dicono che più di sei ricorsi su dieci vengono non - si badi - rigettati, ma addirittura dichiarati inammissibili. Il tema del numero impattante dei ricorsi non può e non deve certo essere ignorato, ma la soluzione non può essere questa. Certamente occorre una forte responsabilizzazione, tecnica e qualitativa, dell’avvocato, perché il ricorso sulla legittimità delle sentenze ha una complessità del tutto peculiare, che merita di essere onorata da una preparazione specifica e sempre più qualificata del difensore. Né si comprende il motivo per il quale non si ragioni mai nel senso di irrobustire gli organici ed il numero delle sezioni della Corte. Ma la soluzione di questi problemi, quale che essa sia, deve essere affidata al legislatore, non può farsene carico il giudice di legittimità, dilatando oltre ogni limite semantico e di coerenza di sistema istituti processuali ai quali mai il legislatore ha affidato funzioni di filtro o di limitazione massiva del diritto di impugnazione. Né una innegabile condizione critica di sovraccarico degli uffici può mai giustificare un orientamento della interpretazione della legge processuale ispirata a criteri di efficientamento che le sono estranei. Insomma, questa ipertrofia del potere di interpretazione della norma da parte del giudice (di legittimità, in particolare) mette in discussione lo stesso principio di legalità, cioè la regola fondativa dei sistemi giuridici di civil law quale il nostro, che è quella del primato della legge, dal quale il giudice non può affrancarsi se non al prezzo di scardinare il sistema stesso. E in fondo è proprio questo ciò che sta accadendo: un giudice di legittimità che sempre più apertamente svolge le proprie funzioni come se operasse in un sistema di common law; che potrà anche ritenersi migliore del nostro, ma che - semplicemente - non è il nostro sistema. La qual cosa, come dire, non è un dettaglio da poco. Buona lettura. Le misure cautelari e il ricorso per Cassazione di Enrico Marzaduri* Il Riformista, 1 giugno 2024 L’intervento della Corte di Cassazione è tutt’oggi fortemente condizionato dalla persistenza di logiche presuntive che continuano ad operare. Nell’intenso dibattito svoltosi in occasione dei lavori preparatori della nostra Costituzione, se Piero Calamandrei collegava nettamente il significato del ricorso per Cassazione ad una prospettiva nomofilattica, in forza della quale l’iniziativa individuale finiva per essere legittimata dall’interesse pubblico al superamento di specifiche e significative incertezze interpretative, Giovanni Leone invece sottolineava la valenza garantistica dell’impugnativa così assicurata al privato soprattutto con riguardo alle tematiche della libertà personale. E queste due “anime” del ricorso per Cassazione avrebbero poi trovato traduzione nella stesura dell’art. 111 Cost. Nel cui originario 2° comma, per l’appunto, oltre alla generale ricorribilità delle sentenze, è stata prevista analoga possibilità per tutti i provvedimenti sulla libertà personale. Indubbiamente una garanzia siffatta non era in grado di dare una risposta adeguata alle esigenze di tempestività e di estensione del controllo de libertate. E, del resto, sono trascorsi ormai più di quaranta anni da quando il legislatore, ben prima di procedere all’approvazione del primo (e tuttora unico) codice repubblicano, ha avvertito il bisogno di prevedere una più articolata disciplina delle impugnazioni nei confronti dei provvedimenti applicativi delle misure cautelari personali. Nonostante l’ampiezza del ventaglio delle misure applicabili, ancora oggi i provvedimenti custodiali sono più del 50%: la custodia carceraria opera quasi in un caso su tre e quella domiciliare quasi in un caso su quattro. Il che provoca subito una riflessione sul valore che viene di fatto riconosciuto nella giurisprudenza al disposto del primo periodo dell’art. 275 comma 3 c.p.p., per il quale, come noto, “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate congiuntamente, risultino inadeguate”. Né si deve dimenticare che comunque le esigenze cautelari devono risultare individuate nel rispetto dei severi limiti imposti nell’art. 274 c.p.p., dove si allude sempre ad una concretezza ed attualità dei relativi pericula. Le statistiche parlano chiaro: esaminando i procedimenti iscritti, nel 2023, 2016 ricorsi su 3464 sono stati dichiarati inammissibili, quindi, all’incirca il 60% dei casi, una percentuale peraltro inferiore rispetto a quella del 66,2% che ha riguardato i ricorsi ordinari. Quanto alla tempistica, la durata media dall’iscrizione in cancelleria penale all’udienza per i ricorsi in materia di misure cautelari personali è risultata di 77 giorni, decisamente inferiore rispetto ai 146 giorni che concernono i ricorsi ordinari, ma ancora troppi vista la tematica trattata. L’intervento della Corte di Cassazione è tutt’oggi fortemente condizionato dalla persistenza di logiche presuntive che, nonostante la riforma del 2015, continuano ad operare. In particolare, nell’art. 275 comma 3 c.p.p. per un ampio campionario di imputazioni, si è abbandonata la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria, misura che viene disposta, ma “salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. Ebbene, ove si ritenga, come fa la Corte di Cassazione, che la scelta compiuta dal legislatore del 2015 sia stata quella di inserire sulla presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari una presunzione relativa di adeguatezza della custodia in carcere, non potrebbe non constatarsi la modestia della crescita di attenzione per la tutela della liberta? personale dell’imputato. Invero, se la verifica dell’esistenza di elementi che permettono di ritenere adeguata una misura meno grave potrà essere effettuata solo dopo aver individuato gli elementi idonei ad escludere completamente la sussistenza della pericolosita? cautelare, appare sinceramente assai problematico immaginare situazioni nelle quali si potrà apprezzare il cambiamento di regime a livello di presunzioni di adeguatezza della custodia in carcere. Per l’appunto, il tipo di giudizio demandato al giudice dalla disposizione richiamata, pare presupporre necessariamente l’individuazione delle esigenze cautelari, in quanto, ove mancasse questo previo passaggio, non potrebbe ipotizzarsi lo sviluppo di una riflessione analoga a quella demandata al giudice nell’art. 275 co. 3 Cpp. Così, anche recentemente, la Suprema Corte, sez. IV, n. 178803, con decisione depositata il 7 maggio 2024, ha stabilito che, “quando si procede per un delitto per il quale opera una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria, ai fini della prova contraria, occorrono elementi idonei ad escludere la sussistenza di ragionevoli dubbi posto che la presunzione detta un criterio da applicarsi proprio in caso di incertezza”. Insomma, la tutela della libertà personale deve cedere a fronte di una situazione di mero dubbio sulla presenza delle esigenze cautelari. *Professore ordinario di Procedura penale Dal vertice ambiguo alla fabbrica delle inammissibilità di Oliviero Mazza* Il Riformista, 1 giugno 2024 Le ambiguità di fondo sul ruolo della Cassazione sono la causa dell’assedio insostenibile di ricorsi. Corte Suprema di Cassazione: già la denominazione ufficiale, che si trova in epigrafe a tutte le sentenze, mette in luce l’ambiguità della crasi fra i due modelli che storicamente contraddistinguono le giurisdizioni superiori. La Corte Suprema è il giudice di terza istanza che persegue la giustizia della decisione e conosce il merito della controversia, un organo di giustizia che non si interessa della nomofilachia. La Cassazione, invece, nasce come il giudice posto a tutela del potere legislativo, il garante dell’esatta osservanza della legge di fronte alle esondazioni interpretative del potere giudiziario. La Cassazione, dunque, nel suo modello puro è il giudice di stretta legittimità. Non si occupa del fatto e della giustizia della decisione, ma garantisce l’uniformità della giurisprudenza e la sua coerenza con la volontà del legislatore, ossia la nomofilachia. Il nostro vertice ambiguo, secondo la felice espressione di Taruffo, è una Cassazione che, a seconda dei casi e delle opportunità, non disdegna il ruolo di Corte Suprema, come dimostra l’impiego di un modello di sentenza ampiamente argomentativo, discorsivo, incentrato sul fatto e certamente lontano dalla frase unique dell’archetipo francese della Cassation. Le incursioni sul terreno del fatto, di solito oggetto di severi moniti rivolti agli avvocati, sono sempre più frequenti e giustificate da quella straordinaria valvola di sfogo rappresentata dal vizio di motivazione. L’idea di fondo è semplice, il vizio di motivazione è una violazione di legge, per la precisione del modello legale di sentenza che comprende l’argomentazione logica e non contraddittoria, ma al tempo stesso rappresenta la trasposizione del fatto nella sentenza. Il controllo su questa trasposizione permette al giudice di legittimità di occuparsi, sia pure in via mediata, del fatto. Come uno sperimentato alchimista, la Cassazione riesce a trasformare il fatto in diritto anche attraverso la strada della sua qualificazione giuridica, un’operazione che si pone a mezza strada fra la terza istanza e il legislatore. Nemmeno sulle questioni di pura interpretazione della legge la Cassazione rimane fedele al modello originario di garante della testuale volontà del sovrano (oggi il Popolo attraverso il Parlamento), avendo da tempo accolto un’ermeneutica più legata allo scopo che al testo della disposizione. Dunque, anche il modello puro rivolto alla nomofilachia è messo in crisi dal ruolo di judge made law che la Corte si è ritagliata nel tempo. Le ambiguità di fondo sul ruolo della Cassazione sono certamente la causa efficiente dell’assedio di un numero asseritamente insostenibile di ricorsi (circa 55.000 l’anno), situazione che ha condizionato la qualità della risposta giurisdizionale attraverso il diffondersi della cultura dell’inammissibilità, malintesa quale sub-cultura del non rispondere alle istanze di giustizia dei ricorrenti. Il giudizio in Cassazione è così divenuto una partita a scacchi in cui, a ogni mossa del ricorrente, il giudice risponde con una contromossa volta a neutralizzare la pretesa di una decisione che “renda giustizia” nel caso singolo. Alle inammissibilità formali (mancanza di legittimazione, motivi non consentiti, impugnazione fuori termine) si sono indebitamente aggiunte quelle sostanziali, legate al merito della impugnazione (manifesta infondatezza, decisività, prova di resistenza) e quelle atipiche, come l’autosufficienza del ricorso mediante l’onere di allegazione degli atti che ci ha esposto alla condanna (sia pure nel civile) da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Se la medicina difensiva porta a un eccessivo impiego di tutti gli strumenti diagnostici per prevenire l’errore, l’autodifesa della Cassazione conduce, al contrario, a rifuggire da ogni approfondimento cognitivo, assumendosi il rischio dell’errore giudiziario in favore del fin de non-recevoir rappresentato dalla inammissibilità. *Professore ordinario di Procedura penale La legge suprema della Cassazione di Daniele Negri* Il Riformista, 1 giugno 2024 Deve trovarsi ancora scritto da qualche parte, fra gli atrii muscosi e i Fori cadenti, che la Corte di cassazione ha il compito di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”. Vecchia insegna annerita dal tempo, alla quale passando nessuno fa più caso. Se la ricordiamo talvolta a lezione, è immediato l’effetto di straniamento. C’è una solennità ormai fuori posto in quella frase, stridente con la realtà, che diviene parodistica quando batte sulla parola “legge”. Tutti sono avvezzi a costatare come l’organo di vertice della giurisdizione penale prescinda a piacimento dalla sintassi della legge e si comporti con noncuranza da primo artefice del diritto. Poco importa che la Cassazione, in quanto giudice, risulti a sua volta soggetta “alla legge” per chiaro dettato della Costituzione repubblicana (art. 101): chi oserebbe mai umiliarne la maestà, subordinandola al vile prodotto d’un’assemblea elettiva composta di personale screditato? Una linea di pensiero che congiunge - in maniera nient’affatto singolare - populismo politico e aristocrazia giudiziaria dell’alta magistratura. Con un capovolgimento nella gerarchia delle fonti, converrà piuttosto che sia il Parlamento a uniformarsi quanto prima alla norma vivente creata dalla Cassazione. Le riforme legislative degli ultimi decenni, difatti, hanno per lo più codificato precedenti soluzioni giurisprudenziali contra legem, anche grazie alla presenza nelle commissioni ministeriali degli stessi magistrati - piccoli Talleyrand - che le avevano promosse. Del resto a nobilitare il fenomeno è intervenuta la corrente impetuosa di studi che inneggiano compiaciuti alla postmodernità, dilettandosi a sfatare le mitologie illuministe e a schernire, tra esse, l’idea grottesca del giudice bocca della legge. Storici, filosofie giuristi di diritto positivo, spesso desiderosi di mostrarsi à la page, hanno cominciato a ripetere la litania dell’irriducibile vaghezza delle norme, ad appellarsi alle esigenze di equità, a reclamare la necessaria aderenza dell’interprete alla concretezza dei casi, senza rendersi conto del costo che comporta per le garanzie individuali l’abbandono del vincolo al testo della legge. Il pericolo trascurato consiste nel fatto che, prescindendo dalle norme positive, la Cassazione imprime al funzionamento e all’esito del processo una direzione e un contenuto rispondenti ai propri scopi, estranei alla volontà democratica; oppure altera le proporzioni fra i diversi interessi in gioco, così come fissate dal Parlamento, a tutto vantaggio di quello personalmente preferito. La Suprema Corte diventa, in altre parole, decisore politico senza averne la responsabilità, con l’aggravante di degradare la certezza del diritto a mera aspettativa, per i cittadini in genere e gli imputati specialmente, a che i giudici si adeguino in futuro all’indirizzo della Corte medesima. Sono infiniti gli esempi al riguardo, soprattutto nell’ambito del processo penale, dove l’estro della Cassazione si esprime con maggiore fantasia poiché, essendo i giudici direttamente tenuti all’osservanza delle regole sul rito, fatale è la tentazione di scioglierli dai limiti stringenti all’esercizio del potere. Basterà rammentare qualcuno degli interventi creativi con cui la Cassazione ha riplasmato la disciplina processuale a propria immagine. Si pensi all’invenzione del congegno che trattiene il giudice dal dichiarare la nullità di imputazioni difettose, facendone il migliore alleato del pubblico ministero nel perfezionamento dell’atto d’accusa in udienza preliminare; oppure all’introduzione nel sistema del criterio dell’abuso del diritto, utile a sanzionare le condotte ostruzionistiche della difesa. Emblematica, poi, la sorte riservata al canone d’immediatezza nell’assunzione della prova, soffiato via dall’orizzonte processuale quando cambia in corso d’opera il giudice del dibattimento. Ancora, viene a tema il requisito della specificità estrinseca dei motivi d’appello, concepito allo scopo di moltiplicare i casi di inammissibilità dell’impugnazione. Interi settori dell’ordinamento processuale sono ormai affrancati dal presidio delle nullità, imponendo a chi le reclama la dimostrazione d’aver subìto un pregiudizio effettivo; la stessa inutilizzabilità è declassata a vizio sanabile, a dispetto del suo rigoroso statuto legale. Guai se i giudici inferiori osassero trasgredire i comandamenti della Cassazione rimanendo fedeli al codice: la loro condotta, qualificata come atto abnorme, li esporrebbe a illecito disciplinare. Tutte queste trovate, che nulla hanno da spartire con i margini fisiologici di discrezionalità interpretativa, la Cassazione escogita invocando con disinvoltura la ragionevole durata del processo quale valore antagonista e preminente rispetto alle forme del processo penale, prescritte dalla legge a garanzia dei diritti individuali. Un valore malinteso che, nel laboratorio della giustizia manageriale devota alle statistiche e ai flussi degli affari penali, ha partorito l’efficientismo grossolano dei recenti piani di ripresa e resilienza. Non c’è da sperare in una inversione di rotta, se la Corte costituzionale non si disporrà a censurare il diritto vivente per violazione, in primis, del principio che vuole il giusto processo “regolato dalla legge” (art. 111), accentuando la propria autonomia, in nome dell’ispirazione illuminista della nostra Carta fondamentale, dalla cultura di cui è portatrice la Suprema Corte situata sull’altra riva del Tevere. *Professore ordinario di procedura penale “No” alla moda dell’inammissibilità di Luca Marafioti* Il Riformista, 1 giugno 2024 Potenziare il vaglio di inammissibilità dei ricorsi ha conferito alla Corte di Cassazione poteri ancora più estesi. Il grido di dolore lanciato dai giudici alla fi ne dello scorso secolo sulla mole ingovernabile dei ricorsi in Cassazione aveva suggerito di introdurre nel 2001 una procedura semplificata di selezione preliminare, davanti ad un’aggiuntiva settima sezione appositamente istituita. Ne è passata di acqua sotto al ponte dinanzi al Palazzaccio; eppure, lo strumento dell’inammissibilità dei ricorsi è sempre più à la page. Conserva la natura di vizio fulminante, che preclude un esame delle ragioni delle impugnazioni, imponendo di emettere apposita pronuncia in tal senso. Ma vede progressivamente ingigantito il proprio ruolo. Da incisivo smaltimento dell’enorme carico di lavoro che assedia la Corte di cassazione la si incarica, addirittura, di fungere da baluardo a tutela delle funzioni attribuite alla giurisdizione di legittimità. In tale ottica, non ci si accontenta di cestinare, per tale via, oltre il sessanta per cento dei ricorsi presentati; simile risultato parlerebbe da solo. Si assume, infatti, che alla massiccia riduzione della quantità sia destinato ad accompagnarsi un automatico innalzamento nella qualità della giurisdizione. Molte meno cause in Cassazione, grazie all’ampio utilizzo della sanzione dell’inammissibilità, sarebbe, pertanto, sinonimo di una ben più esatta ed uniforme interpretazione della legge penale. Come si pretende persino da parte di magistrati illuminati, insomma, anche attraverso l’inammissibilità si farebbe nomofilachia. Si tratta di scenari con direttrici assai ambiziose, se è vero che il rudimentale ragionamento economico sotteso non sembra abbia condotto agevolmente ai risultati sperati. Anzi, un più attento esame delle cause di inammissibilità, unitamente ad una ricognizione dei motivi di ricorso previsti dal codice di procedura penale induce a porre in rilievo i pericoli insiti in simile strategia. Accanto ad ipotesi di inammissibilità delle impugnazioni di più agevole riscontro formale, ve ne sono altre che implicano interpretazioni e valutazioni di non poco momento circa i margini di proposizione del ricorso. Una cosa, infatti, è il mancato rispetto delle regole in materia dei termini o della legittimazione ad impugnare; ben altra cosa, è il rilievo in ordine alla presentazione di motivi non consentiti dalla legge o manifestamente infondati. Invero, la linea di discrimine tra un ricorso non proponibile in assoluto e quello solo infondato può risultare assai più difficile da tracciare di quanto a prima vista si possa pensare, in astratto e in concreto. Con un correlativo rischio: letture estensive o superficiali della portata delle disposizioni in materia possono condurre ad una sempre più estesa e sbrigativa selezione dei ricorsi sulla base di una malintesa delimitazione dei propri poteri. A ciò si aggiunga: il sistema non limita il momento della pronuncia di inammissibilità esclusivamente ad una fase del tutto preliminare del procedimento in cassazione, con pochissime garanzie ed a contraddittorio meramente eventuale e cartolare, potendo il ricorrente lamentarsi dinanzi alla settima sezione solo con note scritte e confidando in un ripensamento circa la cernita di inammissibilità già operata. La tagliola dell’inammissibilità può scattare anche dopo, all’esito della trattazione di ricorsi già scampati alla prematura selezione e, perfino, dopo la discussione in pubblica udienza. Cosa che accade tutt’altro che di rado e certo non per ricorsi privi di quei requisiti minimi che impedirebbero di adire il controllo di cassazione. Qui si annida il paradosso nell’attuale tendenza: potenziare il vaglio di inammissibilità, preliminare e non, dei ricorsi ha conferito alla Corte di Cassazione poteri ancora più estesi di quelli, già formidabili, attribuiti in ordine al controllo di legittimità. Essa diventa, ogni giorno di più, anche e soprattutto, giudice dell’estensione dei propri poteri e dell’area del ricorribile. Tale compito, viceversa, dovrebbe spettare esclusivamente alla legge. *Professore ordinario di procedura penale Milano. “Al Beccaria c’è stata una protesta, non una rivolta” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2024 Al carcere minorile Beccaria di Milano non c’è stata una rivolta, ma una protesta rientrata dopo poche ore. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, sottolinea l’importanza di una corretta informazione, soprattutto nell’utilizzo giusto dei termini, riconoscendo la differenza tra rivolte e proteste. “I ragazzi hanno manifestato il loro dissenso in modo pacifico, senza violenza, e le loro azioni sono rientrate dopo poche ore”, dichiara Gonnella. Secondo il presidente di Antigone, l’utilizzo del termine “rivolta” è inappropriato e rischia di stigmatizzare ulteriormente la situazione già tesa all’interno del carcere. “Dobbiamo evitare di criminalizzare le proteste”, afferma Gonnella. “Piuttosto, dovremmo sforzarci di capire le ragioni del malessere dei ragazzi e cercare di risolvere i problemi che li affliggono”. Sottolinea inoltre che le proteste del Beccaria non sono un caso isolato. “Negli ultimi mesi ci sono stati diversi episodi di tensione all’interno del carcere”, spiega. “Questo è un segnale che qualcosa non va e che è necessario un intervento da parte delle istituzioni”. Il presidente di Antigone propone un dialogo costruttivo tra le diverse parti coinvolte - istituzioni carcerarie, Comune di Milano, Regione Lombardia, magistratura, avvocatura e società civile per trovare soluzioni concrete ai problemi del Beccaria. “Dobbiamo lavorare per ripristinare la fiducia tra i ragazzi e le guardie”, afferma Gonnella. “Solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca potremo evitare che si verifichino ulteriori proteste in futuro”. Altro punto importante è la sua critica nei confronti del disegno di legge sicurezza, che prevede pene sproporzionate per le rivolte carcerarie, anche non violente. “Se questo ddl fosse stato in vigore”, spiega, “i ragazzi del Beccaria avrebbero potuto essere condannati fino a 8 anni di carcere, con l’esclusione dai benefici penitenziari”. “Anche perché - sottolinea sempre Gonnella - le proteste carcerarie sono un’occasione per denunciare problemi e malessere”. E conclude: “Non devono essere represse, ma ascoltate e comprese. Solo così potremo costruire un sistema carcerario più giusto e umano”. Le dichiarazioni del presidente di Antigone sollevano importanti questioni sulla gestione delle carceri minorili in Italia, ma anche un monito nei confronti del disegno di legge sulla sicurezza che minaccia lo Stato di diritto. Pensiamo appunto al nuovo reato di rivolta carceraria. Il reato equipara le proteste violente a quelle non violente, punendo anche chi si oppone pacificamente agli ordini in carcere, nei centri di accoglienza o nei Centri di permanenza per il rimpatrio. Le pene previste sono severe: fino a 8 anni di reclusione, con possibile applicazione del 4 bis, il famoso articolo dell’ordinamento penitenziario ostativo ai benefici penitenziari, pensato inizialmente per i reati di terrorismo e criminalità organizzata, poi via via allargato ad altri reati fino ad arrivare - tramite questo disegno di legge - perfino a chi protesta nelle carceri. Secondo le organizzazioni come Antigone o l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), questo nuovo reato rischia di stravolgere il modello penitenziario italiano, riportandolo indietro al regime fascista del 1931. La logica repressiva del disegno di legge, infatti, equipara le proteste sociali all’attività criminale, criminalizzando di fatto i manifestanti. Inoltre, il disegno di legge introduce una sorta di immunità funzionale per le forze dell’ordine, che godrebbero di un privilegio giuridico in caso di lesioni subite durante le proteste. Questo significa che le lesioni inflitte dai manifestanti vengono considerate più gravi di quelle inferte dalla polizia. L’approvazione di questo reato potrebbe avere conseguenze negative sul sistema penitenziario italiano, alimentando tensioni e rendendo più difficile il dialogo tra detenuti e istituzioni. Le associazioni che tutelano i diritti umani chiedono una revisione del testo, invitando il Parlamento a privilegiare un approccio più garantista e rispettoso dei diritti umani. Aversa (Ce). Ex Opg, il Garante dei detenuti: “Trovate due persone sepolte vive” di Biagio Salvati Il Mattino, 1 giugno 2024 Ciambriello visita la Casa lavoro: “Dagli internati un grido di aiuto”. Sulla carta è una “Casa Lavoro” ma poco è cambiato dopo la chiusura del manicomio criminale di Aversa, ribattezzato Ospedale psichiatrico di Aversa, oggi chiamato Opg, ma in sostanza una delle cinque case lavoro italiane (prima erano nove) istituite nel 1932 dove sono ancora presenti detenuti internati con problemi psichici. L’edificio normanno, ieri, è stato teatro della visita del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, che si è recato sul posto per incontrare reclusi e internati della Casa Lavoro. “Ho trovato due persone sepolte vive”, ha dichiarato Ciambriello al termine della visita, riproponendo il delicato tema delle patologie mentali da cui sono affetti i detenuti che andrebbero allocati in una Rems o strutture alternative. “Si continua a discutere se è il caso di aprire nuove Rems o più strutture alternative e intanto - ha spiegato il Garante - altri detenuti con le stesse patologie continuano a stare in carcere. Di chi è la colpa o le omissioni di questi sepolti vivi nelle carceri campane? Sono davvero stanco di risposte superficiali e ideologiche. Ho ascoltato il grido di aiuto di internati che sentono gravare sulle loro vite la lentezza delle procedure della magistratura”. E aggiunge: “I detenuti e gli internati chiedono tempi più certi e più celeri. Occorre un magistrato di sorveglianza solo per gli internati”. Nella struttura, gli internati sono 65 a fronte di una capienza regolamentare di 43 posti mentre nel carcere di Aversa, a ieri, erano presenti oltre agli internati anche 187 detenuti. Il Garante, ha incontrato due internati che da mesi sono destinatari di un provvedimento di incompatibilità carceraria da parte del magistrato di sorveglianza. La Rems di San Nicola Baronia è stata la prima Rems definitiva della Campania e ha iniziato le sue attività nel dicembre del 2015. Con la sua apertura è avvenuta la chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. La città di Aversa ha ospitato il primo “manicomio giudiziario” a sorgere in Italia, in quella che era l’antica struttura conventuale di San Francesco da Paola. Nel 1876, infatti, il direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, Martino Beltrani Scalia, con un semplice atto amministrativo, inaugurò la Sezione per “maniaci”. Nel 1907 la direzione del manicomio di Aversa passò all’alienista Filippo Saporito, mentre il nucleo iniziale dell’istituto andava ampliandosi inglobando alcuni edifici circostanti divenendo, nel 1975, Ospedale psichiatrico giudiziario. Dal 2012, anno in cui la legge ha stabilito l’eliminazione di queste strutture, è stato progressivamente dismesso e da agosto 2016 ufficialmente riconvertito in casa di reclusione. L’edificio ha avuto la riqualificazione di due locali wc del reparto 3, con l’integrazione delle docce in camera. Intanto, sempre ieri, i sindacati penitenziari campani (Sinappe, Uil Pa Pp, Uspp, Fns-Cisl e Cnpp) e il personale, hanno manifestato a Napoli per denunciare la cattiva gestione del sistema carcerario da parte dei vertici del Dap. Una protesta contro le continue aggressioni al personale, l’abbandono dei poliziotti e la precarietà delle relazioni sindacali. Chiedono più risorse umane ed economiche, maggiore sicurezza nelle carceri e una riduzione del sovraffollamento, che ha raggiunto livelli insostenibili. Verona. Riconosciuto diritto detenuto a stare in carcere vicino famiglia ansa.it, 1 giugno 2024 Il magistrato di sorveglianza di Verona ha accolto l’istanza presentata dal difensore di un detenuto calabrese che aveva chiesto di potere scontare la pena a cui è stato condannato in un carcere della sua regione in modo da potere essere vicino alla famiglia. Il detenuto ha 43 anni ed è ristretto attualmente nel carcere di Vicenza. Sta scontando una condanna definitiva per traffico di sostanze stupefacenti ed é anche imputato in un altro processo a Milano sempre per traffico di droga. Il suo difensore, l’avvocato Adele Manno, del Foro di Catanzaro, si era rivolto al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria chiedendo che il suo assistito venisse trasferito in Calabria in considerazione del fatto che “la detenzione in Veneto gli impediva di coltivare le sue relazioni familiari, con grave pregiudizio per i figli minori, privati di fatto del rapporto con il padre”. Sulla questione era intervenuto anche il Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, che aveva sollecitato il Dap ad applicare la normativa prevista in questi casi. L’avvocato Manno, nel reclamo presentato al magistrato di sorveglianza, aveva sottolineato “la lesione del diritto soggettivo del detenuto ad effettuare regolari colloqui con la propria famiglia, con grave pregiudizio per i figli ancora in tenera età, ai quali di fatto veniva precluso di coltivare il rapporto con il padre, e ciò in palese contrasto con le norme dell’ordinamento penitenziario ed i protocolli stipulati tra il Ministero della Giustizia e l’Autorità nazionale Garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, oltre che in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, all’articolo 8, riconosce e protegge il diritto al rispetto della vita privata e familiare”. Il Magistrato di sorveglianza ha accolto l’istanza del difensore del 43enne, riconoscendo “il diritto soggettivo del detenuto ad essere collocato in un carcere vicino la residenza della famiglia”. “in presenza di diritti umani - ha detto all’Ansa l’avvocato Manno - non possiamo recedere di un millimetro ed abbiamo il dovere di coltivare ogni questione giuridica che porti al loro rispetto. L’auspicio adesso è che il Dap provveda immediatamente a dare attuazione all’ordinanza del magistrato di sorveglianza”. Siracusa. “Sprigiona il tuo cuore”, percorsi per tutelare i figli dei detenuti libertasicilia.it, 1 giugno 2024 La sperimentazione di un sistema strutturato e organico di presa in carico di minori e dei loro bisogni derivanti dalla condizione di “figli di detenuti”. Un grande sistema di rete tra enti e associazione per un progetto che riguarda il mondo delle carceri. Si intitola “Sprigiona il tuo cuore”, il progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Il progetto vede una rete di partner mettersi insieme per promuovere la sperimentazione di un sistema strutturato e organico di presa in carico di minori e dei loro bisogni derivanti dalla condizione di “figli di detenuti”. Presentato nell’ambito del bando “Liberi di crescere 2022” di Con i bambini. Il programma punta all’interesse superiore del minore e il diritto alla relazione con il genitore. Tale diritto si estende ai genitori reclusi, le cui esigenze affettive sono considerate al pari di quelle dei figli. La Fondazione di comunità Val di Noto, come soggetto capofila, dà l’apporto di un ampio radicamento nel territorio, oltre che di una consolidata presenza nel mondo delle carceri e dei percorsi inclusivi promossi insieme alle realtà del territorio che lavorano in prima linea “con” e “dentro” gli istituti penitenziari coinvolti. “Sprigiona il tuo cuore”, dunque, mira a raccordarsi alle comunità locali e agli istituti penitenziari, con attenzione al loro vissuto quotidiano e ai percorsi per i detenuti. Il progetto interesserà i territori di Siracusa, Augusta e Ragusa. La rete che ha avviato il progetto è composta da Fondazione di Comunità Val di Noto, Associazione culturale “Le interferenze”, Associazione Padre Massimiliano Maria Kolbe, le case circondariali di Siracusa, Ragusa e Augusta, la cooperativa sociale Il Sorriso, la Fondazione San Giovanni Battista, Heart4Children, la società cooperativa L’Arcolaio, l’impresa sociale Passwork, gli uffici locali di Esecuzione penale esterna di Siracusa e Ragusa, i Comuni di Siracusa, Ragusa, Priolo e Augusta. Verranno promosse molte attività, come laboratori, incontri, momenti di socialità, fuori e dentro il carcere per accrescere e migliorare le relazioni, per formare il personale che opera nelle strutture ed avviare un dialogo concreto con i vari soggetti coinvolti. “Il progetto è stato selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Il Fondo nasce da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, il Forum Nazionale del Terzo Settore e il Governo. Sostiene interventi finalizzati a rimuovere gli ostacoli di natura economica, sociale e culturale che impediscono la piena fruizione dei processi educativi da parte dei minori. Per attuare i programmi del Fondo, a giugno 2016 è nata l’impresa sociale Con i Bambini, organizzazione senza scopo di lucro interamente partecipata dalla Fondazione Con il Sud. Latina. La Costituzione italiana spiegata in carcere radioluna.it, 1 giugno 2024 Possibile grazie alla collaborazione tra Caritas diocesana, Università La Sapienza e Casa Circondariale. Va avanti con successo il progetto “3CiLab - Costituzione, Carcere e Città di Latina” che vede unite la Caritas diocesana di Latina con l’Università La Sapienza e l’Amministrazione penitenziaria della Casa Circondariale di Latina in uno sforzo congiunto per divulgare la Costituzione italiana. Lo scorso 14 maggio e giovedì 23 maggio proprio il carcere di Latina ha ospitato un ciclo di seminari su “La Costituzione fuori e dentro le mura”, uno per gli uomini e uno per le donne, in cui sono intervenuti i professori Donatella Bocchese, Guido Colaiacovo, Marta Mengozzi e Marco Polese, coordinati dalla professoressa Fabrizia Covino, responsabile scientifica del progetto. Hanno partecipato agli incontri 40 uomini e altrettante donne, oltre ad alcuni insegnanti, educatori, dottorandi di ricerca, agenti e volontari. Dopo un primo seminario “Carcere e Costituzione. Esperienze a confronto” svoltosi il 27 novembre 2023 presso la Facoltà di Economia della Sapienza, sede di Latina, promosso e moderato dalla professoressa Fabrizia Covino, docente di Istituzioni di diritto pubblico - in cui sono intervenuti la Direttrice della Casa circondariale di Latina, Pia Paola Palmeri, il Responsabile dell’Area Educativa della Casa Circondariale, Rodolfo Craia, e Pietro Gava, coordinatore del volontariato penitenziario Caritas - è stata tracciata una via per consentire l’interazione e lo scambio tra realtà universitaria e carceraria, in particolare tra studenti, detenuti, docenti e amministrazione penitenziaria, oltre a valorizzare il ruolo delle attività di supporto fornite dal Terzo Settore in ambiti fragili come la realtà detentiva. Il successo del percorso riabilitativo delle persone detenute è certamente la conseguenza di una serie di azioni che coinvolgono, oltre la struttura carceraria, le istituzioni dell’Istruzione, il Terzo Settore, nonché l’intera comunità locale; in questo ambito rientra anche la Terza Missione dell’Università La Sapienza, che affianca le due principali funzioni, ricerca scientifica e formazione, con il preciso mandato di diffondere cultura, conoscenze e trasferire i risultati della ricerca al di fuori del contesto accademico, contribuendo alla crescita sociale e all’indirizzo culturale del territorio. Torino. L’idea dei detenuti: l’evasione dal carcere diventa un gioco da tavolo di Filippo Femia La Stampa, 1 giugno 2024 Gli autori sono alcuni detenuti del Lorusso e Cotugno: “Abbiamo scoperto talenti che non immaginavamo, siamo riusciti a scappare con l’immaginazione”. Dal momento in cui varca la soglia del carcere, ogni detenuto pensa a come evadere: l’abbiamo imparato dai film hollywoodiani. A Torino, nella Casa circondariale Lorusso e Cotugno, un pugno di prigionieri ci è riuscito. “Ovviamente si tratta soltanto di un gioco”, sorride Massimo Munafò. È l’ad di Torino Factory, società che nel 2017 ha fatto notizia per Torinopoli, versione in salsa sabauda di Monopoli, venduta in 50 mila esemplari. Da lunedì sarà nei negozi l’ultimo arrivo in catalogo: “Articolo 385 - La fuga”. Il riferimento è alla norma del codice penale che punisce l’evasione con pene da uno a sei anni. A progettare il gioco, con la collaborazione dell’associazione Sapori Reclusi, una decina di detenuti che frequentano il Primo Liceo Artistico del carcere. “Ci abbiamo lavorato per circa un anno e mezzo - racconta Munafò, responsabile del progetto -. Abbiamo instradato i ragazzi, ma sono stati loro a tirare fuori le idee più originali”. I protagonisti del gioco sono otto personaggi, ingiustamente detenuti, ça va sans dire. L’obiettivo è guadagnare la libertà raccogliendo gli oggetti necessari per realizzare il piano di evasione, dribblando le perquisizioni e l’intervento delle guardie. Il tono è ironico, quasi caricaturale: c’è il palestrato, l’ergastolano, il boss. “Si tratta di cliché, ma tutti in qualche modo hanno tratti reali. Come l’utilizzo del tabacco come moneta di scambio: qui in carcere è davvero così”, spiega Giovanni Mazza. Insieme ad Alejandro Dominguez, origini salvadoregne ma cresciuto a Milano, ha creato gli ambienti di gioco, gli oggetti e i diversi personaggi, dotati di diverse caratteristiche. Tutto disegnato e colorato a mano, in un momento storico in cui l’intelligenza artificiale si sta impadronendo degli aspetti più basilari della grafica. Per i detenuti lavorare al gioco è stata una vera evasione: da una quotidianità in cui i secondi sembrano ore e dallo sconforto di non poter vedere i familiari. “Questo progetto ha dato valore al nostro tempo - racconta Giovanni -. Qui dentro la difficoltà maggiore è fare passare le giornate. Non ci sono svaghi: per noi Articolo 385 è stato l’equivalente di un viaggio per chi sta fuori”. Le diverse tonalità, poi, hanno sgretolato la grigia monotonia imposta dalle sbarre: “In un posto come questo i colori sono vita - esclama Giovanni. Per questo abbiamo anche realizzato alcuni murales con disegni ispirati a Keith Haring ed Escher”. Per Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte, progetti come questo andrebbero replicati ovunque: “Da inizio anno nei penitenziari italiani ci sono stati 37 suicidi. È importante mostrare quanta umanità c’è tra queste mura per richiamare un’attenzione diversa da parte della politica verso il mondo carcerario”. Grazie ad Articolo 385 alcuni ragazzi hanno scoperto talenti o capacità che non sospettavano di avere: “Per me disegnare era un hobby. Ora ho capito che può servirmi in futuro una volta fuori di qui”, esclama Alejandro. I detenuti sono stati seguiti passo a passo dalla professoressa Annalisa Gallo con la supervisione di Arianna Balma Tivola, responsabile dell’area Trattamentale del carcere: “Quando finalmente hanno visto il gioco in scatola realizzato si sono illuminati - ricorda la docente -. Il loro è stato anche un percorso didattico, sono cresciuti artisticamente”. Ieri, all’interno del teatro del carcere, gli ideatori del gioco hanno ricevuto una sorta di diploma. Alcuni non hanno risposto all’appello: nel frattempo hanno scontato la pena. C’è da scommettere che compreranno una copia di Articolo 385, per giocare pensando ai compagni con cui hanno realizzato questa piccola grande impresa: fuggire dal carcere senza evadere. Genitori oltre le sbarre, la vita di madri e padri detenuti diventa un podcast di Lodovico Poletto La Stampa, 1 giugno 2024 Certe sere Concettina si appoggia alla finestra e respira a bocca aperta, come se volesse mangiare l’aria. Respira, avida, come se quello fosse l’unico cibo capace di tenerla ancora in vita. L’aria di Torino. La stessa che respira il suo Emanuele, quel figlio che ha dovuto abbandonare quando è finita in carcere, nel 2012, e lui era poco più che un bambino. Certe sere, dalla sua cella al Lorusso e Cutugno, Concettina ha bisogno più di ogni altra cosa al mondo di sentire il suo bambino - oramai maggiorenne - accanto a sé. Dentro di sé. E cancellare quel maledettissimo senso di colpa che la divora. Il senso di colpa per averlo abbandonato quando era piccino. In questa storia, e nelle altre che seguiranno, il cognome dei protagonisti non ha nessuna importanza. Quello che conta è che, per la prima volta, qualcuno ha scelto di guardare dentro al carcere da una finestra diversa. E non per discutere di sovraffollamento, che c’è e si vede. Non per ragionare sulle difficoltà del reinserimento sociale post-detenzione. Non per alimentare il più che doveroso dibattito sulle pene alternative. Ciò che hanno provato ad esplorare quelli della Fondazione Circolo dei lettori di Torino è la pena più grande di tutte per un detenuto, più della condanna stessa: il senso di vuoto che arriva dalla separazione dai figli. Il senso di colpa e di vergogna. Hanno provato a scavare negli animi di chi è dentro per rapine, furti, droga, omicidi, quelli della Fondazione e ne è nato un podcast in cinque puntate, nel quale i protagonisti sono i detenuti e il rapporto con i figli. Visti per anni soltanto un’ora alla settimana. Bambini abbandonati quando la galera ha sbarrato il cancello d’acciaio dietro il furgone della penitenziaria che li portava dentro. E che ritroveranno, un giorno, ormai adulti. E allora Concettina (l’unica donna tra 14 uomini che ha accettato di raccontarsi) e la sua “fame di aria” sono la sintesi perfetta di questo dolore. Che il carcere acuisce. Perché - per dirla con le parole di quelli della Fondazione: “Tutti siamo genitori e tutti siamo stati figli”. Lei faceva truffe on line, agli istituti religiosi. L’hanno portata in galera con 374 capi di accusa, 1800 pagine di fascicolo giudiziario. “Soltanto qui dentro - svela - ho capito che fare la mamma è fare sacrifici”. I soldi - i tanti soldi - arrivati senza troppe fatiche non le hanno portato la gioia che inseguiva. Sessanta perquisizioni in un anno. I carabinieri dentro e fuori casa in continuazione. Le domande senza risposta di Emanuele bambino: “Mamma chi sono questi signori?” Chi ha scelto di raccontarsi lo ha fatto senza costrizioni. Ha ascoltato quel che gli spiegava Francesca Berardi (che firma i podcast) nelle riunioni dentro la biblioteca del carcere. Hanno capito che non c’era giudizio. E neppure la trama di un racconto da costruire. C’era soltanto voglia di ascoltare. E hanno parlato. E sono racconti di vite che spesso hanno il medesimo canovaccio. Coincidenze. Marco è diventato papà a 23 anni, dopo una lunga detenzione. Conosce una ragazza. Resta subito incinta. Oggi di anni lui ne ha già 46. Suo figlio è grande: “Vorrei davvero poter riprendere il mio rapporto con lui”. Già, il rapporto. La rinuncia forzata a quello che chiama “il ruolo di padre” o di madre. Le domande difficili a cui rispondere. La ricerca di una intimità impossibile con il figlio. Michele quando lo spiega non è più l’uomo che non ha paura di nulla: “Ci vediamo una volta la settimana, per un’ora”. Michele ha soltanto bisogno di stare con lui, giocare con lui. Riprendersi quel che non ha più: l’affetto. Ma è quel sentirsi padre, colpevole di non esserci che lo strazia: “Mia moglie mi dice sgridalo per questo e per quello. Ma come faccio? Sono io quello che si sente in difetto. Lo vedo così poco. E non riesco proprio a sgridarlo”. Già, il “difetto”. E la paura di ammettere gli sbagli. Dario ha un altro racconto: “...lui pensa che io sia via per lavoro, che sono in un posto di montagna ed è per quello che ho sempre il telefono spento. Quando lo sento e dopo un po’ mi dice “papà vado a giocare”, io sto bene. Perché capisco che lui adesso è felice...”. Non ci sono domande in questi podcast, solo racconti con il cuore in mano: “Sai, mio figlio è l’unica cosa bella che ho fatto” E poterli vedere, abbracciare, baciare, è davvero “una finta giornata di sole”. Che poi è anche il titolo di questa serie di racconti, nonché la sintesi dello stato d’animo di uno dei protagonisti dei podcast (saranno trasmessi dal 3 giugno su “Tre soldi” a Radio 3): “Quando lui deve venire a trovarmi per me è come una finta giornata di sole”. Nella biblioteca del carcere adesso c’è una ragazza con i capelli raccolti in una piccola coda. Da ore non smette di piangere. Ascolta i racconti degli altri e si dispera. Nessuno l’ha mai vista così. Il suo nome è Karen. Ha ucciso il marito con una coltellata. Sua figlia ha otto anni e lei non la vede da mesi. Un mondo senza carcere, un codice penale senza pene di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 1 giugno 2024 Livio Ferrari ha scritto un libro che si intitola “Il carcere in Italia oggi - Una fotografia impietosa” edito dalla casa editrice Apogeo. L’autore non è di certo nuovo al tema. Giornalista, scrittore, cantautore, esperto di politiche penitenziarie, è portavoce del Movimento No Prison. Il suo sguardo è rivolto a chi di pena muore. Livio sa che anche laddove la pena di morte non c’è più, anche laddove la pena fino alla morte è abolita, continua a esistere la morte per pena. E continua a esistere la morte per pena perché esiste il carcere. Sono già 35 i suicidi avvenuti in carcere quest’anno. Dal libro apprendiamo che sono milleottocento quelli avvenuti da inizio ‘900 mentre quasi tremila esseri umani sono morti in carcere. Poi ci sono gli atti di autolesionismo, spesso ultima disperata istanza per dire “io esisto!”. Con le violenze che vengono perpetrate da chi, in questo luogo mortifero, si abbruttisce nel circolo vizioso senza fine del male che chiama male. Numeri che parlano. Ma poi servono occhi che vedano. Perché se i muri di cinta dei penitenziari fossero cristalli trasparenti e le pareti di vetro, allora le petizioni popolari, le proposte di legge se non addirittura i decreti legge dettati da ragioni di “necessità e urgenza” di chiudere questi istituti, si sprecherebbero. Perché quello che accade là dentro, nascosto da alti muri di cemento e magari anche da “gelosie” alle finestre, urta contro il senso di umanità. E può durare fintanto che non lo si vede. Nella guerra che si combatte nei campi di battaglia, i responsabili delle ostilità sono noti. Ma nel conflitto che ogni giorno si consuma nelle carceri dove la trasparenza svanisce insieme alla conoscenza di ciò che accade là dentro, le cose vanno diversamente e sembra che la responsabilità sia solo e sempre di chi in carcere ci è entrato. Vale per me quello che disse il Primo Ministro britannico Clement Attlee nel discorso di apertura della Conferenza istitutiva dell’Unesco: “Le guerre, dopo tutto, non iniziano nelle menti degli uomini?” Perché è dal nostro modo di pensare che si determina il cambiamento. Ecco allora che risulta attualissimo quanto affermato già dal “Manifesto No Prison” nel 2012 che dichiarava doveroso un radicale cambio di paradigma, un’uscita dalla concezione patibolare della giustizia che vuole la componente del dolore come riparatrice di un male accaduto. II volume descrive i nodi da sciogliere nello stretto mondo della reclusione: dalle case di lavoro all’ergastolo, dal 41bis alla questione della segregazione in carcere prevalentemente dei “perdenti”, i poveri, gli emarginati. È una denuncia di come il diritto penale sia divenuto ormai e sempre di più il modo in cui si affrontano (o per meglio dire, non affrontano) questioni sociali. Il diritto penale con la sua appendice carceraria diventa così merce a buon mercato nello scambio tra elettori ed eletti. Uno scambio che per essere proficuo richiede la creazione e la costante alimentazione di un clima di paura che costringe a rifugiarsi in sentimenti primordiali quale la vendetta. Lucida poi è la denuncia di quanto la risposta insita nella pena come privazione della libertà comporti in realtà una de-responsabilizzazione dell’autore del reato. Quando invece quello che conta è l’esercizio della responsabilità. Responsabilità che porta con sé la riparazione del danno arrecato e anche il recupero all’ordine sociale di chi quell’ordine ha infranto. È un libro quello di Livio Ferrari che nel paragonare il carcere all’ultimo avamposto manicomiale, recupera il pensiero di Basaglia. E che eleva a faro di un pensiero volto al futuro quello di chi, come Gustav Radbruch, quasi un secolo fa, a metà novecento, voleva un “codice penale senza pene”. Un uomo di grande sensibilità e intelligenza che non chiedeva un “miglioramento del diritto penale, ma un suo superamento con qualcosa di meglio del diritto penale” abbandonando gli atteggiamenti sanzionatori di carattere repressivo e vendicativo, per concretizzarli in leggi più umane e ragionevoli. Conclude il libro un capitolo dedicato alle canzoni. Perché Livio Ferrari è legato alla musica e alle canzoni. Ha composto circa centocinquanta brani e tra questi c’è una canzone ambientata in carcere scritta quando ancora non conosceva direttamente questo luogo. Ma il carcere ritorna anche in diversi altri cantautori. Chi ne canta lo denuncia, lo racconta più intimamente. Come in un processo alchemico, la combinazione di note musicali, può sprigionare forza vitale. E così anche la canzone può contribuire a questo processo di liberazione da questo altro ferrovecchio della storia. Daria Bignardi: “Il carcere è sessista e classista, ma soprattutto è inutile” di Francesco Raiola fanpage.it, 1 giugno 2024 Daria Bignardi ha parlato a Fanpage del suo ultimo libro, “Ogni prigione è un’isola” sull’istituzione carcere, la poca conoscenza che la società ne ha e anche la sua inutilità. Toccare l’argomento “carcere”, in Italia, è spesso un tabù. Non lo fa la Politica, perché è un tema troppo scivoloso che porta più rogne che voti, non lo fa l’opinione pubblica che spesso sulle carceri ha un’idea giustizialista data dalla poca conoscenza di certi meccanismi. Nonostante ciò, Daria Bignardi ha voluto dedicare al tema il suo ultimo libro, “Ogni prigione è un’isola” (Mondadori), partendo dalla propria esperienza personale all’interno delle carceri italiane, dando voce a detenuti, ex detenuti, direttori e direttrici di penitenziari - e facendolo passando dall’isola di Linosa -, ma soprattutto portando avanti una riflessione sull’inutilità del sistema carcerario italiano e partendo da una riflessone, ovvero che “il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere degli altri”. Ecco l’intervista a Daria Bignardi con cui Fanpage ha parlato del libro, ma anche della sua esperienza televisiva. Come mai hai deciso che fosse arrivato il momento di scrivere questo libro sulle carceri? Un po’ per caso, come succedono tante cose. Avevo scritto un lungo articolo per Finzioni, perché Jonathan Bazzi, che lo dirigeva quel mese, mi chiese di scrivere una cosa di Milano, così ho pensato: ma io cosa so bene di Milano? Forse una delle cose che conosco meglio è il carcere di San Vittore, posto in cui vado da sempre. Scrivendo questo articolo abbiamo notato che erano rimaste fuori tante cose - Mondadori aveva notato che nei romanzi mettevo spesso il carcere - e mi sono resa conto di avere resistenze, di non volerlo fare e ho capito che probabilmente è perché facendolo ne sei un po’ ossessionata, ci stai dentro giorno e notte, non pensi ad altro e io non volevo stare in carcere giorno e notte, perché è un posto in cui si sta male. Anche nel rapporto col carcere sono discontinua, ci sto due anni, poi non ci vado, faccio un altro progetto, etc. Scrivendolo mi sono resa conto che è un rapporto che va avanti da tantissimo tempo, quindi ho messo dentro tutto quello che riguardava questo mondo e che mi riguardava. A un certo punto leghi il carcere a tua madre… Il gigante dai cento occhi, che è come il Panopticon, la struttura pensata dal giurista inglese del 700 Jeremy Bentham, pensato con un corpo centrale e dei raggi attorno per cui tutti i detenuti devono sempre avere la sensazione di poter essere visti, anche se non lo sono, ma da questo corpo centrale si sentono sempre osservati, come io mi sentivo da mia madre e tanti si sentono da certe figure genitoriali. Non c’è niente da fare, lei torna sempre, anche se si parla di carcere, non a caso. Il tuo rapporto con le carceri, invece, come nasce? L’ho capito scrivendo, forse la primissima cosa è stata scrivermi con un detenuto condannato a morte che mi ha risposto e per un po’ c’è stata questa corrispondenza, mi raccontava della sua vita nel braccio della morte finché mi ha detto che sarebbe stata l’ultima lettera perché era arrivato il momento dell’esecuzione. Forse da lì, poco dopo, ho cominciato ad andarci e fare dei lavori, quando facevo Tempi moderni coinvolgevo dei detenuti del carcere di San Vittore, ho diretto un giornale che si chiamava Donna e avevo dato a un gruppo di detenuti una rubrica di televisione, perché è l’unico rapporto che hanno con l’esterno e mi sono resa conto che da lì non ho più smesso. Prima parlavi di come scrivere sia un’ossessione, quanto ti spaventa, prima di scrivere, questa ossessione? Te ne accorgi facendolo, io ho cominciato tardi a scrivere romanzi, 15 anni fa, e non sapevo che dimensione fosse dal punto di vista ossessivo: mentre certi lavori giornalistici o da autore tv sono più limitati nel tempo e sono lavori di gruppo, scrivere un libro è un lavoro solitario, molto più intimo, che va più in profondità e in cui lavori il tuo materiale, la scrittura, con più ossessività, ma è anche bello. Una delle cose bellissime dello scrivere è il riscrivere, la possibilità di riscrivere una pagina cinquanta volte, finché non trovi la sua voce, che tu sai qual è, la senti, e lavori finché non trovi il ritmo giusto. La solitudine di Linosa, dove hai scritto parte del libro, è servita a trovarla questa voce? Sì, è servita proprio a trovarla questa voce. Il processo di scrittura di questo libro è stato particolarmente rognoso perché il carcere è un tema molto complicato, è quasi utopico parlarne perché i problemi sono enormi, sono sempre gli stessi, anzi sono sempre peggio e lavorandoci da tanti anni sai benissimo che quello che scriverai non piacerà a nessuno: il carcere lo odiano tutti, qualcuno ama il carcere degli altri, però è un tema respingente e io amo essere inclusiva rispetto a chi mi legge. In più volevo portare per mano le persone che non hanno già un certo pensiero sull’argomento, ma che magari hanno una curiosità, volevo portarle con me dentro questo mondo e avevo bisogno di isolarmi. Così ho scelto quest’isola che frequentavo da poco. Come mai l’hai scelta? L’ho scelta perché è remota, lontana e piccola. È un’isola particolarmente complicata nell’accesso, perché non ha il porto, quindi se c’è il mare grosso a volte il traghetto non attracca, dipende dalla bravura del comandante, la continuità territoriale non è garantita, è un’isola piena di problemi, ma magnifica e particolarmente solitaria. E quindi ho detto: vado là, così mi concentro, mi isolo e trovo quella condizione mentale, che è quella dell’isolamento che in qualche modo mi tiene anche vicino al tema del carcere e del suo isolamento. Poi continuavano a succedere cose che avevano a che fare col carcere: in biblioteca ho trovato dei documenti inediti di soggiornanti mafiosi che erano stati sull’isola dagli anni ‘70 in avanti, lettere scritte da loro, lettere della popolazione, mi è capitato di incontrare Leonardo Di Costanzo, il regista di Aria ferma, che è un ottimo film che parla di carcere, insomma continuavano a succedere cose e allora alla fine le ho lasciate entrare dentro. Tra le varie cose che racconti c’è la riflessione sul carcere come struttura pensata per gli uomini ma in cui ci sono pure le donne. E questo è un grosso problema... Sì, tra l’altro sono pochissime le donne, solo il 4% della popolazione penitenziaria e sicuramente il carcere non è un posto per loro. Per me non è un posto per nessuno ma in particolare per le donne, che soffrono particolarmente per la lontananza dai figli, soffrono di un isolamento particolare. Sono stata anche nel carcere di Tirana, in Albania, che somiglia un po’ al carcere femminile di Pozzuoli, perché ha molti spazi aperti e ha una popolazione anche di polizia penitenziaria molto vicina a quella carceraria e ho chiesto a queste signore che piangevano di raccontarmi le loro storie: “Perché secondo voi - ho chiesto - in tanti anni che vado in carcere non ho mai visto uomo piangere? Perché gli uomini non piangono e le donne sì?”. E loro mi hanno detto: intanto perché spesso loro hanno fuori una donna che si occupa di loro, che sia la mamma, la fidanzata, la sorella, un’amica, mentre noi siamo molto più abbandonate e in più noi soffriamo terribilmente per la mancanza dei figli. Poi questo proprio non è un posto per noi, mi ricordo una di loro che disse: “Beh, ma neanche fuori è un posto per noi”. La condizione delle donne è particolarmente dolorosa in carcere. Oltre al genere, un altro problema che fai emergere è quello della classe… C’è poco da fare, il carcere è un posto classista, nel senso che ci trovi soprattutto persone povere, disgraziate, con pochi strumenti, poco istruite, insomma c’è di tutto ma le persone benestanti e istruite sono una minoranza esigua anche perché sono quelle che riescono a difendersi meglio, riescono a usare le leggi che ci sono, che magari ti permettono l’affidamento o i domiciliari. Le nostre carceri sono piene di persone che probabilmente avrebbero i requisiti per andare ai domiciliari, ma un domicilio non ce l’hanno e non sanno dove andare e in carcere rimangono. Magari non lo sanno neanche che potrebbero uscire, il carcere è pieno di persone malate, che hanno problemi psichiatrici molto gravi, è un posto in cui, visti gli enormi problemi, si cerca con la terapia - gli psicofarmaci soprattutto - di tenere sotto controllo una situazione che è incontrollabile. Lo si vede quando succedono cose come quelle avvenute durante le rivolte di marzo 2020, quando col Covid è esploso il terrore, ci sono stati 13 morti, insomma una strage di persone affidate allo Stato, è stata una grande sconfitta, ma anche un segnale della difficoltà di certe situazioni. Ero con Lucia Castellano, la provveditrice agli istituti penitenziari campani e lei diceva: “È una pentola a pressione di problemi”. Problemi di cui sono vittime non solo le persone detenute ma anche le persone che in carcere lavorano, tipo gli agenti di polizia penitenziaria che fanno una vita molto difficile, non soltanto i detenuti, quindi, ma anche gli agenti. Spiegami meglio… Ammiro molto chi lavora in carcere perché è veramente un lavoro molto difficile, moltissimi lo fanno con un grande spirito di servizio e tra l’altro non particolarmente sostenuti né dall’opinione pubblica, né dalla politica, se non per motivi elettorali o di sindacato. Diciamo che quello che racconti delle rivolte, in qualche modo, non aiuta neanche ad avere una visione positiva, perché sono le cose che arrivano anche al grande pubblico... Io spero di essere riuscita a raccontare anche come io non creda nelle mele marce. Sai, quando succedono quelle cose e ne vediamo i video, i manganelli, le percosse, come successo a Santa Maria Capua Vetere, c’è sempre qualcuno in politica che dice che si tratta di poche mele marce. Non è vero, è il sistema che è guasto, non ci sono le mele marce. Ti dico un’altra cosa, i detenuti difendono moltissimo gli agenti: penso a un istituto come quello di Bollate, in cui si applica quello che sarebbe l’articolo 27 della Costituzione, che parla di non venire mai meno alle regole di umanità, di reinserimento e in cui si cercano di mettere in pratica queste regole - benché sia comunque un carcere brutto e squallido come tutte le carceri; c’è un ex detenuto, nel libro, Pino Cantatore che dice: “Io penso che le stesse persone che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere, se fossero state Bollate non l’avrebbero fatto”. Non è un tema di persone, ma di sistema che diventa esplosivo, una pentola a pressione di problemi che esplodono, perché dove c’è violenza c’è violenza per tutti”. Cosa vuol dire che il carcere è inutile? Che il carcere sia inutile non lo dico e non l’ho pensato io, ma lo dicono quelli che ci lavorano. Lo dice l’ispettore al quale ho dato voce, lo dice Luigi Pagano, direttore quarantennale di carcere, uno forse dei più bravi e dei più importanti che abbiamo mai avuto, lo dice Gherardo Colombo, che sull’inutilità del carcere ci ha scritto un libro. Il carcere, infatti, così com’è non funziona, intanto ci dovrebbe essere meno gente, le nostre carceri sono piene, zeppe - 61 mila persone a fronte di 47 mila posti al massimo - di gente che magari ha piccole pene, un solo anno di detenzione, gente che è inutile che stia in carcere, sta solo veramente a farsi del male, a costituire un costo, una sofferenza per loro e per le loro famiglie. E, tra l’altro, non è che ci guadagnino le vittime dei loro reati per questa detenzione che assomiglia a una vendetta. E cosa si potrebbe fare? Intanto ci dovrebbe essere meno gente, ci dovrebbero essere le pene alternative al carcere, si dovrebbe fare di più per creare lavoro: sappiamo che quando c’è una formazione, con un carcere che permette di accedere a un tipo di lavoro un po’ qualificato, la recidiva crolla dal 70% al 20%. Ci converrebbe molto, come Stato e come cittadini, se invece che tornare in carcere il 70% ci tornasse solo il 20%. Pagano dice sempre che su 60 mila detenuti che ci sono ce ne dovrebbero stare forse 6 mila: quel migliaio di mafiosi, quei 600 al 41 bis e tutti gli altri sarebbe meglio che facessero altro e questo te lo dicono le persone che ne sanno. Però non è un tema nel Paese, non lo è mai per la Politica, per esempio... Ma non lo è perché il carcere non porta voti, non interessa a nessuno, son ben pochi: abbiamo avuto Pannella, ora c’è Manconi che è stato Senatore e si è occupato di carceri, però a chi interessa questo tema? Non è solo questo Governo, che pure sta inasprendo le pene, portando più gente in carcere, ma quello precedente era uguale! È un tema sul quale nessuno si vuole prendere la patata bollente. Tra l’altro è provato che la nostra popolazione penitenziaria è raddoppiata mentre il crimine è molto diminuito: gli omicidi sono molto diminuiti, ma non sappiamo mai e non sentiamo mai questi dati, invece ci sono, sono sotto gli occhi di tutti quindi è comprensibile il tema della sicurezza ma non è il carcere né a fare da deterrente né a creare una popolazione che in carcere non ci torna. Anzi quello che mi hanno detto tanti detenuti che ho conosciuto e intervistato è che loro in carcere hanno imparato a fare i criminali veri, magari sono entrati per una piccola cosa, un furtarello, una macchina, contrabbando e sono usciti coi contatti giusti per fare proprio i rapinatori: l’università del crimine spesso è il carcere. Sei stata una delle ultime direttrici della vecchia RAI. Ti sei fatta un’idea di quello che è successo in queste ultime settimane? Certo che me la sono fatta. È l’idea di un sistema che mostra tutta la sua ipocrisia, che mostra quello che c’è sempre stato, perché da quello che ho capito, anche nella mia esperienza, quando arrivammo in RAI… Arrivaste chi? Antonio Campo Dall’Orto che era stato mio direttore a La 7, Ilaria Dallatana che venuta a fare la direttrice Rai2 e io di Rai3. Ci avevano detto che era tutto cambiato, era tutto diverso, la politica non esisteva più, non era vero neanche allora, nel senso che la RAI credo sia sempre stata vissuta come un posto in cui il Governo in carica si è sempre aspettato di avere un occhio di riguardo, la sua rete, e io credo che come abbiamo fatto noi ci siano generazioni e generazioni di persone che ci sono andate a lavorare pensando che non fosse più così. Ti manca la conduzione televisiva? No, perché l’ho fatta a lungo, mi sono presa un sacco di soddisfazioni, mi sono divertita col mio gruppo, è molto bello fare l’autore. Però? Però intanto non ho mai amato molto la parte dell’apparire, con tutto quello che comporta, che ha qualcosa di malsano, almeno per quanto riguarda me. Mi piace la parte del pensare alle cose che vanno in onda, meno il fatto di essere io a incarnarle, quindi ho sempre fatto molta fatica, mi sono sempre molto stressata. In più da 15 anni, da quando ho pubblicato il primo libro “Non vi lascerò orfani” mi sento talmente più io, mi sento talmente più me stessa che faccio le cose che ho sempre voluto fare; non che quelle di prima non mi piacessero, però erano veramente solo una parte di me, adesso è come se ci fosse tutto. Che poi è sempre un’illusione quella dell’identità. È un grande trasporto quello del desiderare l’autenticità, di essere davvero noi stessi e più si va avanti, credo, più un po’ si riesce a tagliare tutte le cose che non ci corrispondono davvero e a cercare di mantenere il nostro nucleo forte, quel daimon per il quale siamo nati. Per questo non mi manca, anche se ci sono cose molto belle nel condurre, delle cose che riesci a portare. Tante scoperte, tante cose che hai fatto, artisti meno famosi, il rap… Certo, da Roberto Saviano a Michela Murgia, tanti rapper come Massimo Pericolo o i Club Dogo, Fabri Fibra… sono molto curiosa, mi piace sempre ficcare il naso, cercare di aprire un po’ di strade, ma lo si può fare in tanti modi. E tu lo hai fatto in tanti modi, a partire dall’essere stata la prima conduttrice del Grande Fratello, direttrice di rete, scrittrice, anche se spesso il tuo nome è legato alle interviste… Certo, le ho fatte per undici anni, alle Invasioni credo di averne fatte più di mille, perché poi erano interviste in diretta, cinque a sera, non so neanche come facevo, francamente, forse per quello ho smesso, non ne potevo più. Pressioni ce n’erano? No, devo dire che a La7 era un paradiso, non ho mai avuto mezza pressione, ho sempre fatto tutto quello che volevo, compresi gli errori. Guarda, a un certo punto ho fatto un passaggio sconsiderato a Rai2 da La7, con L’era glaciale e sono tornata subito indietro, perché quello, come dicevamo prima, è un mondo diverso. Che successe? Andai a fare L’era glaciale, e feci la famosa intervista a Brunetta, che allora era Ministro dell’economia, e poi un giorno c’era con me Morgan, che ai tempi era resident artist del programma e non mi ricordo cosa disse di Berlusconi e della P2: noi eravamo in differita quell’anno, avevo sempre fatto dirette, però quella volta ero in differita, il che vuol dire che registri e poi va in onda dopo mezzora, tipo. Insomma, finiamo la puntata, andiamo tutti insieme a mangiare una pizza, accendiamo la tv e al posto del programma c’erano i cartoni animati. Ci chiedemmo se non avesse avuto a che fare col fatto che aveva detto Morgan, della P2, di Berlusconi… comunque quello che so è che dopo tre settimane sono tornata a La7. L’intervista più divertente che ricordi? Banalmente Checco Zalone e Alessandro Siani, con lui ho riso alle lacrime, con un umorismo cattivo, di pancia, irresistibile. Ma anche con Checco, cioè, tante, tante interviste sono state molto divertenti. Ma questo non vale il ritorno... Ma no, vado a vederli a teatro e mi diverto un sacco. Scuola e integrazione, solo così cresce il Paese di Chiara Saraceno La Stampa, 1 giugno 2024 Nelle sue “osservazioni finali” il governatore della Banca d’Italia ha sollevato diversi punti che riguardano la sostenibilità e efficacia dell’architettura economica dell’Unione Europea nell’attuale contesto internazionale di cui, purtroppo, non si trova traccia nella sgangherata campagna elettorale di queste settimane. Nulla sanno gli elettori su quale linea i diversi partiti e candidati hanno, ad esempio, rispetto al rafforzamento del mercato unico, all’opportunità di avviarsi verso un unico mercato dei capitali, alla realizzazione di un effettivo bilancio unico europeo. Il governatore ha anche presentato un’analisi della situazione economica dell’Italia dove, accanto all’apprezzamento della capacità di ripresa dimostrata sul piano occupazionale, delle esportazioni e del Pil, rimangono problemi rilevanti che, se non adeguatamente affrontati, rischiano di condurre a una stagnazione. Il primo riguarda i bassi salari, che sono inferiori di un quarto a quelli di Francia e Germania. Ciò è in parte legato alla stagnazione della produttività, che non dipende dalla scarsa voglia di lavorare dei lavoratori, ma dalla scarsità di investimenti in istruzione e formazione, anche in costanza di lavoro, da un lato, in ricerca e innovazione dall’altro. Il secondo problema nasce dal paradosso tutto italiano di una forte, e crescente, riduzione della popolazione in età attiva, con il rischio di una forte diminuzione del Pil, unita ad un basso tasso di occupazione sia giovanile sia femminile. Il tasso di occupazione nella fascia di età tra 20 e 34 anni, che nel 2007 era del 62, 1%, era sceso al 49, 6 per cento nel 2014 e solo di recente è tornato ad aumentare, raggiungendo il 57, 8 per cento, 13 punti percentuali al di sotto della media europea, nonostante i giovani escano in media dal sistema formativo prima dei loro coetanei di altri paesi. Non solo, pur lamentando un numero di laureati inferiore a quello di altri paesi e insufficiente a sostenere i processi di innovazione tecnologica in un’economia sempre più fondata sulla conoscenza, le imprese (ma anche le amministrazioni pubbliche) italiane non sono interessate a valorizzarli. Per i laureati tra 20 e 34 anni il tasso di disoccupazione in Italia era pari nel 2019 al 12, 3 per cento, più del doppio rispetto alla media di Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia e Spagna. E tra i laureati occupati il livello di remunerazione è sostanziosamente più basso. Non stupisce che molti di loro emigrino in paesi più favorevoli, ulteriormente depauperando, a livello demografico e di competenze, un capitale umano già scarso e riducendo le possibilità di migliorare la produttività. Aggiungo che, mentre ci si rassegna a perdere parte dei pochi laureati che ci sono, troppo poco si fa per contrastare la povertà educativa che inchioda troppi bambini, adolescenti e giovani al destino di nascita. Un grande spreco, oltre che una grande ingiustizia. Quanto all’occupazione femminile, nonostante i via via annunciati “record”, con il 52, 5% rimane anch’essa, come quella giovanile, 13 punti percentuali inferiore alla media europea, oltre che con enormi differenze a livello territoriale e di grado di istruzione. Stereotipi di genere e difficoltà a conciliare responsabilità famigliari e una occupazione, specie per le madri con figli piccoli, non solo obbligano molte donne a rimanere fuori dal mercato del lavoro o a uscirne. Provocano anche discriminazioni nel mercato dl lavoro, dove le donne hanno progressioni di carriera più lente e sono spesso concentrate nei contratti atipici e nel part time involontario. Giustamente il governatore segnala positivamente l’investimento sui nidi con i fondi del Pnrr, anche se c’è stato un taglio significativo e i fondi per la gestione non sono assicurati. I nidi, per altro, on sono solo un servizio di conciliazione famiglia-lavoro. Sono, dovrebbero essere, innanzitutto un servizio di pari opportunità nella crescita tra bambini, il primo tassello di un investimento nelle nuove generazioni. Ma accanto ai nidi, sia per favorire l’occupazione femminile sia per sostenere il pieno sviluppo delle proprie capacità delle giovani generazioni, quindi nel loro capitale umano, occorre anche investire in una scuola di qualità e inclusiva. Per aumentare l’occupazione in un contesto demografico segnato dalla scarsità della popolazione in età attiva, il governatore suggerisce, insieme alla valorizzazione dei giovani di entrambi i sessi e delle donne di ogni età, anche altre vie che si potrebbero percorrere. Una è una revisione del sistema di detrazioni e trasferimenti che riduca i disincentivi al lavoro del secondo percettore di reddito in una famiglia. Disincentivi inevitabili, specie nelle famiglie a reddito più modesto, allorché si utilizza l’Isee, o anche solo il reddito, famigliare per determinare l’accesso a un beneficio o il suo ammontare, o definire l’entità delle rette. Una questione non semplice. Un’altra proposta è l’apertura a flussi immigratori regolari in numero superiore a quello preventivato, un’apertura che non può essere lasciata alla sola iniziativa spontanea di chi arriva o di chi (azienda) fa arrivare, ma va accompagnata da un rafforzamento delle misure di integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro. Insomma, secondo il governatore, un welfare inteso come investimento sociale, che valorizzi i giovani e le donne, ed una immigrazione sostanziosa ma ben regolata contribuirebbero in modo significativo a compensare, almeno nel breve-medio periodo, la perdita demografica e, insieme ad investimenti sia in formazione sia in ricerca e innovazione, a migliorare la produttività. L’immigrazione come risorsa: le norme e le procedure che servono oggi di Maurizio Ambrosini Avvenire, 1 giugno 2024 Nel panorama cupo delle politiche europee dell’immigrazione degli ultimi tempi, un barlume di luce scaturisce dalla pur prudente riapertura verso l’immigrazione per lavoro. Se ne parla poco, in tempi di elezioni e sotto il peso delle campagne anti-rifugiati, ma il cambiamento di prospettiva è sostanziale. Non più ladri di lavoro e temibili concorrenti dei lavoratori nazionali, ma ausilio imprescindibile sia per l’economia, sia per le necessità delle famiglie. Concorre a questo deficit l’inaridimento della sorgente di manodopera a buon mercato rappresentata dai Paesi dell’Est membri dell’UE. Anche in Italia le organizzazioni imprenditoriali, troppo a lungo defilate e silenti in materia di politiche migratorie, hanno iniziato a reclamare più ingressi di lavoratori. Dal canto suo proprio ieri nelle sue Considerazioni finali il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha parlato di un sostegno all’occupazione derivante da un flusso di immigrati regolari, da gestire “in coordinamento con gli altri paesi europei” e “rafforzando le misure di integrazione”. In questo nuovo clima, prima il governo Draghi, poi il governo Meloni hanno aumentato sensibilmente gli ingressi autorizzati: ben 452.000 nel triennio 2023-2025, sebbene perlopiù per lavoro stagionale. Anche le scelte positive hanno però bisogno di gambe per camminare. Emerge un vistoso gap tra la volontà politica di apertura e il funzionamento della macchina burocratica incaricata di gestire le procedure previste, nonostante i correttivi introdotti anche su questo fronte coinvolgendo le associazioni dei datori di lavoro. La campagna “Ero Straniero”, di cui Avvenire ha dato conto ieri, ha presentato dati impietosi: nel 2023 le domande presentate dai datori di lavoro sono state sei volte superiori al numero di nuovi ingressi previsti (462.422 a fronte di 74.105 posti disponibili). Nei meandri della procedura (accettazione della domanda, rilascio del nulla osta, finalizzazione con la stipula del contratto), altre candidature si perdono, cosicché soltanto 17.435 persone nel 2023 hanno ottenuto l’agognato visto. Appena il 23,5%. Se il problema nasce da una sopravvenuta indisponibilità del datore di lavoro a procedere all’assunzione, la legge prevede una clausola di salvaguardia: la concessione di un permesso di soggiorno per attesa occupazione. Peccato però che di questi permessi nel 2023 ne siano stati rilasciati appena 84, ancora meno che nel 2022 (146). Occorre quindi porre mano non solo alle procedure, ma all’impianto stesso della normativa che risale alla legge Bossi-Fini di oltre vent’anni fa. Riformata a colpi di sentenze su molti punti, ma non su questo. È anzitutto il cosiddetto click-day a provocare intasamento e sovraccarico di domande: a data fissa i datori di lavoro devono presentare l’istanza, oggi con un canale preferenziale se passano attraverso un’associazione di categoria, ma sempre con l’alea di rimanere esclusi per fattori casuali come un malfunzionamento di internet o una scarsa velocità della connessione. Meglio sarebbe un sistema aperto tutto l’anno. Lo stesso concetto di quote annuali andrebbe ammorbidito e rimodulato in funzione delle esigenze del mercato del lavoro, la cui stima a priori è sempre un esercizio opinabile. Poiché poi le quote d’ingresso, come vari studi hanno rilevato, sono finora servite in gran parte a regolarizzare lavoratori già entrati e assunti informalmente, tanto varrebbe prevedere un canale dedicato per risolvere questi casi, separandoli dai nuovi ingressi veri e propri. I datori di lavoro dovrebbero vedersi riconosciuta più libertà di assumere dall’estero, ma anche più responsabilità. Sarebbe opportuno prevedere un contributo per assicurare o il rientro in patria, o una ricollocazione del lavoratore in un’altra occupazione, in caso di conclusione del rapporto. Gioverebbe in questo senso anche una reintroduzione dell’istituto dello sponsor: chi ha qui una sponda, rappresentata dai parenti, può trovare orientamento, sostegno all’integrazione, aiuto nelle difficoltà. Va ricordato ancora una volta che insieme alle braccia arrivano delle persone. In fuga da guerre e povertà: il riscatto passa da Napoli. “Qui per trovare il nostro futuro” di Walter Medolla Corriere della Sera, 1 giugno 2024 L’iniziativa “Sogni che meritano di volare” per gli 800 anni dell’Università Federico II di Napoli. Sedici borse di studio per giovani promettenti che provengono da Paesi poveri o in guerra. “Avere un futuro” è la risposta che tutte le persone migranti, costrette ad andare via dai propri Paesi di origine, ti danno quando chiedi loro un “perché”. Perché sei scappato, lasciando a casa genitori, figli e compagni? Perché hai rischiato di morire attraversando il deserto a piedi e imbarcandoti su un gommone attraversando il Mediterraneo? Perché hai affrontato senza certezze un viaggio passando per mezza Europa? La risposta è quella, disarmante nella sua semplicità: per vivere liberamente e non smettere di pensare al proprio futuro. Proprio come hanno fatto i giovani provenienti da Afghanistan, Guinea, Iran, Mali, Nigeria, Senegal, Sudan e Ucraina arrivati a Napoli per costruirsi un futuro e che alle pendici del Vesuvio hanno avuto un’opportunità vedendosi assegnare una borsa di studio per coltivare il proprio progetto di vita. Lo hanno fatto grazie a “Sogni che meritano di volare”, l’iniziativa nata per celebrare gli 800 anni dell’Università Federico II, la più antica università pubblica del mondo, con lo scopo di offrire un sostegno tangibile a studenti meritevoli provenienti da Paesi in guerra, travolti da carestie o sottoposti a gravi limitazioni dei diritti economici, civili e politici. Per l’anno accademico 2024/2025 sono stati 16 gli studenti assegnatari delle borse di studio finanziate da Gesac, la società degli aeroporti di Napoli e Salerno, selezionati da una commissione - composta da un delegato della Federico II, dal segretario generale della Comunità di S. Egidio a Napoli e da un rappresentante di Gesac. Criteri di valutazione sono stati, oltre all’effettiva e documentata situazione di bisogno, la ferma motivazione a proseguire gli studi, il certificato di immatricolazione alla Federico II con gli eventuali esami sostenuti, il percorso formativo e professionale, anche nei Paesi di origine, nonché il livello di conoscenza della lingua italiana, veicolo fondamentale per la prosecuzione degli studi e l’inserimento nel contesto accademico e sociale. Così come si è tenuto conto della partecipazione a progetti di volontariato e ad attività che evidenziano il contributo significativo dei giovani stranieri alla costruzione di una rete di solidarietà. “Grazie alle borse di studio - spiega Roberto Barbieri, amministratore delegato di Gesac, Società di gestione degli aeroporti di Napoli e Salerno - offriamo l’opportunità a giovani provenienti da Paesi in guerra, o sottoposti a gravi limitazioni dei diritti economici, civili e politici, di scrivere un nuovo e migliore futuro in cui valorizzare i propri talenti e portare energie culturali nella nostra società. Mi auguro - è il suo auspicio - che questa sana relazione fra pubblico, privato e Terzo settore diventi un modello d’integrazione ed inclusione per tutte le Università”. Il grande bluff dei Centri per migranti in Albania di Marika Ikonomu e Giovanni Tizian Il Domani, 1 giugno 2024 Viaggio a Gjader e Shengjin, dove dovrebbero sorgere le strutture previste dall’accordo tra il governo Meloni e quello albanese. Dovevano essere inaugurate entro maggio, ma uno dei cantieri è in alto mare. E l’hotspot, quasi completato, rischia di essere solo una scatola vuota. Alle tre del pomeriggio Gjader è un paese fantasma. Come fantasmi saranno i migranti che, sognando l’Europa, verranno deportati all’ombra di questa montagna grazie all’accordo tra Giorgia Meloni e il presidente dell’Albania, Edi Rama. Gadjer è una frazione del vicino comune di Lezhe, nord del paese, a 50 chilometri dal confine con il Montenegro e dal Kosovo. Ricorda quei vecchi film western con edifici in legno che cadono a pezzi. Qui, però, i muri delle case sono in cemento scrostato. Il borgo, stretto attorno a un’unica strada tappezzata di buche, conta una trentina di abitazioni a uno e due piani sparse da un lato e dall’altro. L’unico sussulto di vita è in un bar con quattro pensionati che si sfidano a carte. A un altro tavolo è seduto un quarantenne sorridente e disoccupato, che sfugge alle nostre domande. Nessuno vuole parlare del grande centro per migranti. Solo i signori tra una partita e un’altra, sbuffano qualche parola in albanese che il traduttore sintetizza così: “La politica decide sopra le nostre teste”. Il cantiere di Gjader è la smentita più eclatante delle promesse diffuse da Radio propaganda Meloni, che aveva assicurato con enfasi alla nazione che le strutture sarebbero state pronte per maggio 2024. Il nostro giornale, in una inchiesta pubblicata il 10 aprile scorso, aveva già rivelato il cronoprogramma interno del 3° reparto Genio dell’Aeronautica, al quale il ministero della Difesa ha assegnato con una determina la realizzazione dei centri in Albania stanziando 65 milioni di euro. La prima struttura sarà a Shengjin e l’altra, appunto, a Gjader. Il cronoprogramma, dicevamo: indica la fine lavori dopo 223 giorni a partire da fine marzo, quindi a fine ottobre - novembre. Tabella di marcia stilata sulla base di relazioni scritte dai militari dopo i sopralluoghi nelle aree interessate in cui sono state segnalate alcune criticità che hanno dilatato i tempi. Altro che inaugurazione entro maggio. L’inizio della deportazione in Albania dei migranti “invasori” del patrio suolo può così attendere. E sebbene non esista alcuna emergenza in atto (lo rivelano i numeri degli sbarchi), il governo non arretra. Anzi, chiede celerità. Perciò nella determina sono previste deroghe su deroghe per l’affidamento a ditte esterne di lavori. Fornitori locali dei quali non si conosce nulla. Prima però di addentrarci nel centro di Gjader è necessario tornare sulla costa, nel paese di Shengjin, a trenta minuti di auto dal paese fantasma, dove è quasi pronta la struttura realizzata nel porto commerciale che funzionerà da hotspot, cioè da centro di identificazione. Da lì, poi, i migranti verranno trasferiti a Gjader. L’inutile hotspot - “Non potete entrare”. Alla fine, l’uomo davanti all’entrata del porto, si fa capire in una lingua che assomiglia all’italiano condito da alcune parole in albanese. Non c’è verso di fargli cambiare idea. Solo la mattina successiva, autorizzati dal capo dell’autorità portuale di Shengjin, un sessantenne brizzolato e fumatore incallito, riusciamo finalmente ad accedere nel porto che, per volere di Giorgia Meloni, è diventato anche un po’ italiano o della nazione, per usare il termine che più ama la presidente del Consiglio. Appena varcata la soglia, sulla sinistra, appare una struttura che assomiglia a un super carcere: imponente per le inferriate di grigio scintillante che sembrano toccare il cielo. Servono per impedire la fuga. Per dare colore a questa struttura carceraria, i moduli prefabbricati sono stati poggiati su un prato verde finto, dall’alto sembra un campo di calcetto. Ma di ludico questo spazio non ha nulla. Per molti sarà solo l’anticamera dell’inferno: i migranti deportati fin qui dalle navi italiane sosteranno giusto il tempo per essere identificati, per le visite mediche. I più fortunati potranno compilare la richiesta di asilo, il destino di altri sarà il rimpatrio ma sempre dopo una sosta a Gjader. Intanto tra navi cargo e pescherecci attraccati ai moli è tutto, o quasi, pronto per il taglio del nastro. Ma comunque vada sarà un’inaugurazione inutile, una passerella: dove verranno mandati i migranti identificati se l’altro, il vero centro, di Gjader è ancora inesistente? I vulnerabili - “Questo accordo non riguarda i minori e altri soggetti vulnerabili”, aveva assicurato la premier durante la conferenza stampa di novembre, quando con l’omologo albanese aveva presentato il contenuto del protocollo. Le procedure accelerate di frontiera, che dovrebbero essere applicate alle persone che verranno rinchiuse nei centri, non possono, per legge, essere destinate a minori, disabili, anziani, donne in gravidanza, vittime della tratta di esseri umani e altri soggetti con esigenze particolari. Le imbarcazioni delle autorità italiane dovrebbero, secondo quanto previsto dall’accordo, portare in Albania le persone salvate in acque internazionali. Ma non è possibile determinare se un soggetto può essere o meno considerato vulnerabile su una barca durante i trasbordi e le delicate operazioni di salvataggio. Occorre personale specializzato. A ogni modo queste rassicurazioni fatte da Meloni durante la conferenza stampa non sembrano corrispondere alla realtà. Da una mappa dei locali interni del centro di Shengjin, visionata da Domani e allegata a una relazione del Genio militare dopo un sopralluogo di gennaio scorso, è previsto un locale di 28 metri quadri chiamato “attesa minori”. Quegli stessi minori ai quali, per legge, dovrebbero essere garantite le procedure ordinarie. Un giallo che nessuno è ancora riuscito a chiarire. Anche perché l’Aeronautica, cui fa capo il 3° reparto Genio, ha risposto che per quanto riguarda le informazioni sui progetti albanesi sono maneggiate da un non meglio precisato livello governativo. E neppure la Difesa a oggi ha saputo indicare a chi rivolgerci per avere risposte sui minori e anche sulla filiera oscura degli appalti. Filiera senza nome - Ritorniamo quindi a Gjader, il grande cantiere segreto finanziato con milioni di euro degli italiani. A chi vanno a finire questi soldi? Di certo non solo ad aziende della “nazione”. Qui i lavori vanno a rilento. L’area vista dall’alto, con le immagini realizzate da Domani, appare come una landa arida popolata da gru, escavatori e camion, stretta tra la montagna e una schiera di case. Il sito è un terreno di 70mila metri quadri offerto da Rama all’Italia: un tempo era una base dell’aeronautica militare albanese. Va bonificato persino da eventuali ordigni bellici, è scritto dei documenti ufficiali letti dal nostro giornale. La struttura sarà una sorta di Cpr all’italiana, potrà contenere oltre 800 persone. “I centri saranno pronti entro la fine di maggio”, ripetevano all’unisono ministri e parlamentari, mentendo spudoratamente anche quando era chiaro che non sarebbe stato così. Difficile credere che buona parte dell’esecutivo fosse all’oscuro del vero cronoprogramma in mano al 3° reparto Genio dell’Aeronautica. Nel centro di Gjader nulla è pronto: dall’impianto fognario alla rete idrica, neppure è iniziata la bonifica di eventuali ordigni bellici da cercare fin dentro i tunnel e i rifugi presenti in quel terreno. Il sorvolo dell’area, perciò, svela il costosissimo bluff di Meloni: oltre ai 65 milioni per la costruzione vanno aggiunti centinaia di milioni per la gestione e la sicurezza interna assicurata dalle nostre forze di polizia in trasferta ben pagata. Al bluff si somma la riservatezza e l’opacità attorno a questo cantiere pubblico. Al Genio è stata concessa la possibilità di affidare senza gara forniture di vario tipo senza alcuno screening. Fare presto è l’imperativo che arriva da Roma. Figurarsi se c’è il tempo per effettuare verifiche antimafia. “In ragione dell’urgenza e della rilevanza si prevedono i seguenti affidamenti a operatori esterni”, è scritto nella determina di affidamento. “Lavorano 6 compagnie con operai albanesi e kossovari divisi su tre turni sulle 24 ore”, conferma un poliziotto di guardia all’entrata secondaria del cantiere. Di queste aziende, tuttavia, non c’è traccia in nessun cartello di cantiere. A chi vanno, perciò, parte dei fondi pubblici dello stato italiano? Ad anonimi fornitori albanesi e kossovari. Qualcuno sospetta suggerite da ambienti governativi albanesi. Contattato, il presidente Rama non ha risposto alle nostre reiterate richieste di intervista. Sul cartellone dei lavori è, invece, indicata l’azienda progettista: Akkad, società di ingegneria, sede a Roma. Direttore tecnico dell’azienda è Fabrizio Palmiotti, il suo nome è emerso in un’inchiesta della procura di Matera sugli appalti pubblici. La società ha declinato la nostra richiesta di commento: avremmo voluto conoscere più dettagli di quella vicenda. Sullo stesso cartellone alla voce impresa esecutrice troviamo scritto Ri.Group della provincia di Lecce. Il rappresentante legale è Salvatore Tafuro: coinvolto in un’inchiesta, ma “prosciolto nel 2020 con sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione”, è la risposta dell’azienda da tempo in affari con la Difesa e che si è aggiudicata per 5milioni di euro la realizzazione dei prefabbricati di Gjader. La catena dei fornitori, come da determina, ricade in capo al 3° reparto Genio dell’aeronautica. Ma neppure da loro al momento abbiamo ricevuto risposte sul tipo di verifiche fatte prima di stipulare contratti con aziende locali. “La criminalità organizzata albanese è abile nell’inserirsi dove ci sono fondi pubblici”, spiega un’autorevole fonte della super procura anti corruzione di Tirana, la Spak. Ma in questo grande bluff dei patrioti al governo, la priorità non è capire a chi finiscano i soldi, si tratta, piuttosto, di tagliare il nastro per dare il via alla deportazione dei migranti per gestire un’emergenza inesistente. Stati Uniti. Leonard Peltier: in carcere da quasi mezzo secolo, probabilmente innocente di Naila Clerici* L’Unità, 1 giugno 2024 È il 1975, Pine Ridge Reservation, South Dakota, teatro di una guerra civile mai dichiarata. Sono gli anni caldi delle proteste, non solo dei nativi americani, contro la politica interna ed estera del governo statunitense: guardate Incident at Oglala e Cuore di Tuono per entrare in atmosfera. L’FBI appoggiava Dick Wilson e la sua polizia privata: il presidente del Consiglio Tribale era favorevole allo sfruttamento minerario (petrolio e uranio), anche per interessi personali e i casi di violenza e intimidazione verso chi si opponeva alla sua politica erano all’ordine del giorno. Leonard Peltier, Anishinabe Lakota Sioux, nato nel Nord Dakota, a Grand Forks, il 12 settembre 1944, crebbe con i nonni, sperimentò la rigidissima disciplina del collegio di Wahpeton e lavorò poi come meccanico a Portland e a Seattle. Nella sua officina dava regolarmente asilo a indiani alcolizzati ed ex carcerati. Fortemente impressionato dalla povertà e dai molti problemi che affliggevano la sua gente, Leonard nel 1970 si accostò all’American Indian Movement (AIM), un movimento che si batteva per ricordare i trattati infranti, le terre rubate, i diritti civili negati e gli episodi di razzismo, e in poco tempo ne divenne uno dei principali esponenti. Su richiesta fatta all’AIM dai capi tradizionalisti Oglala Sioux, che volevano proteggere la comunità dai continui attacchi dei GOONs, Leonard Peltier si recò a Pine Ridge assieme ad altri membri dell’AIM. Il 26 giugno 1975, Leonard era presente durante una sparatoria in cui perirono due agenti dell’FBI entrati senza nessuna forma di riconoscimento in una proprietà inseguendo un nativo che “aveva rubato un paio di stivali”. Furono arrestati con l’accusa di omicidio Bob Robideau e Dino Butler, ma poi furono assolti per legittima difesa. Leonard fuggì in Canada e venne estradato e arrestato nel 1977. Il processo fu segnato da discriminazione e pregiudizio, testimoni che ritrattarono e prove balistiche (che provavano che non era stata la sua arma a uccidere gli agenti) arrivate in ritardo non servirono a cambiare il verdetto auspicato dall’FBI. Nonostante vari appelli e richieste di clemenza Peltier è in prigione dal 1977, condannato a due ergastoli e rinchiuso in carceri di massima sicurezza. Amnesty International lo ha dichiarato prigioniero politico; da anni il Leonard Peltier Defense Commitee si batte per la sua innocenza, sostenuto anche da voci autorevoli da tutto il mondo; anche molte realtà italiane come il Centro di ricerca per la pace di Viterbo, il Comitato di solidarietà con Leonard Peltier di Milano, e Soconas Incomindios hanno continuato a scrivere petizioni e a organizzare eventi per non far cadere nell’oblio il suo caso. Per un’analisi dei fatti e dei ruoli delle parti suggeriamo anche la rivista TEPEE, e i video su YouTube dell’associazione Soconas Incomindios. Secondo il sistema giudiziario statunitense non c’è più possibilità di ricorrere in appello, l’unica via è la grazia. Al presidente Biden e al suo governo si chiede dunque un’azione umanitaria, auspicando che le pressioni dell’FBI non abbiano la meglio, com’è invece avvenuto con i precedenti presidenti. Il 10 giugno si riunirà la United States Parole Commission ed è dunque l’occasione per fare pressione, chiedendo la concessione della libertà vigilata per Leonard Peltier. Scriviamo al Procuratore Generale degli Stati Uniti d’America (United States Attorney General), chiedendo un provvedimento di “compassionate release” per Leonard Peltier (usare il form justice.gov/doj/webform/your-message-department-justice). Scriviamo al Presidente degli Stati Uniti d’America, chiedendo la grazia presidenziale per Leonard Peltier (whitehouse.gov/contact/). Scriviamo per opportuna conoscenza ai legali che assistono Leonard Peltier, Kevin Sharp: ksharp@sanfordheisler.com, Jenipher Jones: jenipherj@forthepeoplelegal.com e a Europe for Peltier 2024 Coalition: lpsgrheinmain@aol.com. Leonard Peltier, a distanza di quasi 50 anni dai fatti che lo hanno visto condannato, resta un simbolo controverso e potente della lotta per i diritti civili e merita il nostro appoggio. “Il silenzio, dicono, è la voce della complicità. Ma il silenzio è impossibile. Il silenzio grida. Il silenzio è un messaggio, proprio come non fare nulla è un’azione. Chiunque tu sia, lascia che suoni e risuoni in ogni parola e in ogni azione. Sì, diventa chi tu sei. Non è possibile eludere il tuo essere o la tua responsabilità. Tu sei ciò che fai. Hai ciò che meriti. Divieni il tuo messaggio. Tu sei il messaggio.” (Leonard Peltier, Nello spirito di Crazy Horse) *Già docente di Storia delle Popolazioni Indigene d’America, Università di Genova