Emergenza carcere: i penalisti incrociano le braccia di Davide Vari Il Dubbio, 19 giugno 2024 La Giunta dell’Unione Camere penali proclama l’astensione delle udienze dal 10 al 12 luglio. Le opposizioni chiedono un’informativa urgente a Nordio. Penalisti, forze di opposizione, associazioni, garanti dei detenuti: tutti mobilitati per denunciare l’emergenza sovraffollamento e suicidi in carcere. Questa mattina in apertura di seduta alla Camera le forze di opposizione hanno chiesto una informativa urgente del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Alla proposta lanciata dalla deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi si sono associati Avs, Azione, Pd, +Europa, M5S. La Giunta dell’Unione delle Camere penali ha deliberato l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria dal 10 al 12 luglio prossimi e una manifestazione nazionale a Roma per tornare a denunciare la “condizione inumana dei detenuti e l’incessante stillicidio di persone che, ristrette nelle carceri del nostro Paese, pongono fine alle loro insopportabili condizioni di sofferenza togliendosi la vita con una frequenza impietosa e al contempo impressionante”. I penalisti ricordano che dal 29 maggio - giorno in cui ha preso il via la loro “maratona oratoria” che proseguirà fino al 10 luglio in tutta Italia - a oggi “abbiamo dovuto aggiornare ben otto volte la drammatica conta dei suicidi in carcere, tra cui gli ultimi quattro nel corso dell’ultimo fine settimana” e richiamano il documento del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in cui si “constata con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere”. Non solo: i vertici delle Camere penali affermano che “la magistratura associata ha, nei giorni scorsi, ha rifiutato di sottoscrivere insieme all’Ucpi un documento nel quale si richiedeva al governo di assumere misure urgenti per la deflazione carceraria” e che “pur a fronte del costante e rapido aumento del sovraffollamento degli istituti di pena, dobbiamo costatare che la stessa magistratura non è disposta a fare ricorso solo in casi veramente eccezionali alla misura della custodia cautelare in carcere, ad applicare in modo esteso le pene sostitutive introdotte dalla riforma Cartabia e a riconoscere benefici penitenziari sulla base di criteri che tengano conto delle condizioni inumane di detenzione”. La situazione del sovraffollamento carcerario “appare ingravescente - scrivono ancora i penalisti nella loro delibera di Giunta - anche in considerazione della legislazione carcerocentrica e securitaria adottata dal governo, che ha finanche determinato un incremento mai registrato di ingressi nelle carceri minorili anch’esse poste in condizioni di grande sofferenza con ovvie ricadute sotto il profilo della sicurezza”. Suicidi in carcere, i penalisti annunciano tre giorni di sciopero di Angela Stella L’Unità, 19 giugno 2024 Tre giorni di sciopero (10, 11, 12 luglio) e una manifestazione a Roma il primo giorno di astensione: questa la decisione presa dalla giunta dell’Unione delle Camere Penali per imporre alla politica di prendere iniziative urgenti contro il sovraffollamento in carcere e i suicidi e per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema. Nella delibera i penalisti ricordano come nonostante “il Comitato dei Ministri ‘constata con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024’ e per questo ‘esorta le autorità ad adottare rapidamente ulteriori misure correttive e a garantire lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire i suicidi nelle carceri’ tenendo informata Strasburgo sulle misure prese e sui progressi compiuti” e che “il richiamo ad intervenire con urgenza al fine di interrompere questa ininterrotta scia di morte, la cui responsabilità ricade inesorabilmente su uno Stato incapace di assicurare il diritto fondamentale al rispetto della dignità umana alle persone private della libertà personale era già inutilmente stato formulato dal Pontefice e dal Presidente della Repubblica” assistiamo “all’inerzia dei decisori politici in capo ai quali incombe il preciso dovere di porre fine a tali condizioni inumane di detenzione”. Intanto ieri in apertura di seduta alla Camera le forze di opposizione hanno chiesto una informativa urgente del ministro Nordio sui suicidi in carcere e sul sovraffollamento degli istituti di detenzione. Alla proposta lanciata dalla deputata di Iv Maria Elena Boschi si sono associati Avs, Azione, Pd, +Europa, M5S. “Abbiamo assistito nello scorso fine settimana a ben 4 suicidi in carcere, un bilancio drammatico che porta a 44 il numero delle persone che si sono tolte la vita - ha evidenziato Boschi - Una situazione aggravata dalle condizioni di sovraffollamento per tutta la popolazione carceraria. Già oggi - ha spiegato - ci sono oltre 15 mila detenuti sopra il numero massimo relativo alla capienza delle Carceri. Un dato che, secondo il rapporto di Antigone, va a peggiorare grazie alla politica penale del governo Meloni che aumenta i reati e le pene senza riuscire a trovare soluzioni a una situazione esplosiva e che provoca un bilancio in termini di vite umane non degno di un paese civile. Questa situazione mette a dura prova il lavoro dell’amministrazione penitenziaria e degli agenti della polizia penitenziaria, sottoposti a condizioni di lavoro insostenibili”. E ha concluso: “Se in una democrazia è responsabilità dello Stato tutelare la vita allora è necessario che il governo intervenga, subito”. Sempre ieri in una nota congiunta il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone hanno ricordato che “nel Lazio quest’anno tre detenuti si sono tolti la vita, due a Regina Coeli e uno a Latina, 43 in tutta Italia, oltre al suicidio avvenuto nel Cpr di Ponte Galeria”. Nel 2023 i suicidi nel Lazio sono stati sei, cinque a Regina Coeli, uno a Frosinone, in Italia ben 70. Madri recluse, il governo viola i diritti di donne e bambini di Denise Amerini* Il Manifesto, 19 giugno 2024 I bambini in carcere non devono stare. Negli scorsi anni si è provato a dare concretezza a questa affermazione con proposte di legge, come quella presentata dall’on. Siani, poi ripresentata dall’on. Serracchiani, ritirata per gli emendamenti presentati dalla maggioranza che andavano in tutt’altra direzione: togliere la potestà genitoriale alle donne condannate in via definitiva, alle “madri indegne” per il solo fatto di aver compiuto un reato. Da lì lo sdegno che spinse una coalizione di forze democratiche a reagire, dando il via alla campagna “Madri Fuori, dallo stigma e dal carcere, con i loro bambini”. Oggi, nella rincorsa al peggior giustizialismo, il Ddl sicurezza del governo, fra le tante misure repressive, innalzamenti delle pene e introduzione di nuovi reati, prevede (art. 12) la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinta e le madri di bambini fino a tre anni. Il rinvio diventerebbe facoltativo, e non avverrebbe ove sussista il rischio di commissione di ulteriori reati: in tal caso, la detenuta madre rimarrebbe in prigione, in un Istituto a Custodia Attenuata (Icam). Il differimento della pena era stato introdotto dal codice Rocco: si riesce a peggiorare pure quella norma, nonostante l’art. 31 della Costituzione affermi la tutela della maternità e dell’infanzia, favorendo gli istituti necessari allo scopo. E in spregio e disprezzo a quanto stabilito nel1989 dalla convenzione Onu sui diritti del fanciullo; e dalla Corte Costituzionale che più volte ha riconosciuto come preminente l’interesse del minore. Sotto la strumentale bandiera della “tutela della sicurezza”, il Ddl governativo è un provvedimento di stampo classista, sessista, oltre che razzista: abbiamo già udito, purtroppo, affermazioni secondo le quali “finalmente le donne rom, abili borseggiatrici che ci impediscono di prendere tranquillamente la metro, finiranno di farsi mettere incinta solo per non andare in carcere”. Peccato che la disposizione appaia in netto contrasto anche con quanto previsto dalle regole penitenziarie europee, secondo cui le detenute devono essere autorizzate a partorire fuori dal carcere a difesa dei bambini, in quanto è impossibile prevedere quando avverrà il parto. Invece, il governo italiano vuole privare il bambino del diritto di venire alla luce fuori dalla galera, declassificandolo a concessione discrezionale. In conclusione, si costruiscono norme solo di ampliamento del penale, che limitano o smantellano diritti, senza intervenire sui problemi veri che spesso sono alla base di certi comportamenti: fragilità, marginalità, povertà. Le misure ipotizzate contro le donne madri non tengono conto della realtà del carcere: le prigioni non sono luoghi per i bambini, per la maternità responsabile, per un rapporto sereno fra madre e bambino. Sono luoghi dove il diritto alla salute non è pienamente esigibile, anche per la carenza di personale sanitario ed educativo (ma all’incremento e promozione di questo personale non si fa cenno). Alle donne deve essere garantita la possibilità di essere madri nel modo migliore possibile, creando tutte le condizioni per una genitorialità serena. Ai bambini deve essere garantito il diritto ad una infanzia dignitosa, libera. Gli Icam sono una forma migliore di carcere, ma pur sempre istituzioni totali: non sono luoghi per bambini, costretti comunque a vedere il cielo attraverso le sbarre. Rilanceremo la mobilitazione della campagna “Madri Fuori”, perché neanche un bambino veda il carcere, per il superamento degli Icam, per la realizzazione delle case famiglia, previste dal nostro ordinamento. È indegno per una democrazia, per una società civile, vedere bambini nascere e crescere dietro le sbarre. *Cgil nazionale, responsabile carcere e dipendenze Il carcere è una pena, non deve essere una sofferenza di Doriano Saracino* primocanale.it, 19 giugno 2024 Il carcere è una pena. Non l’unico tipo di pena prevista dal nostro ordinamento, ma certamente la prima a cui pensiamo, soprattutto quando si tratta di reati particolarmente odiosi. E la parola “pena” ha due diverse valenze, entrambe presenti in relazione alla detenzione: punizione e sofferenza. Sei punito, ed in questa punizione dev’essere contenuta una certa sofferenza, altrimenti non la si considera una vera punizione. Non si ricorre al carcere solo per “mettere in sicurezza” la nostra società, ma anche e forse soprattutto per punire chi infrange le regole. Se tutti i criminali fossero posti in un resort di lusso, circondato da mura invalicabili e da cui non si può sfuggire, forse saremmo tutti più sicuri ma lo troveremmo ingiusto. Ma se la pena non mette in sicurezza la nostra società, non è altrettanto ingiusto? A cosa serve un carcere che produce maggiore criminalità, recidiva, violenza? Perché questo è oggi il sistema penitenziario italiano. I garanti territoriali delle persone private della libertà si stanno mobilitando da alcuni mesi intorno al tema dei suicidi e delle morti in carcere. Secondo Ristretti, sito di informazione curato da detenuti e operatori penitenziari, che tra l’altro cura il Dossier: “Morire di carcere” ad oggi i morti in carcere nel 2024 sono 100, di cui 44 suicidi. L’incidenza della morte per suicidio in carcere è venti o trenta volte quella che si ha all’esterno. E già quattro i suicidi anche tra gli agenti di polizia penitenziaria. Ritengo il suicidio in carcere non un dato fisiologico, a cui dobbiamo abituarci, ma la spia di un disagio profondo, risultato di un carcere che non rieduca, non garantisce sicurezza, non dà prospettive. Secondo alcune analisi molti suicidi avvengono nelle prime settimane di carcerazione, a significare l’importanza dello choc carcerario. Altri invece quando si avvicina il fine pena. Non sarà mai sottolineata abbastanza l’importanza dell’accoglienza e di un trattamento finalizzato al reinserimento. Non si può ridurre il suicidio ad una dimensione sanitaria o psichiatrica, anche se certo il supporto di specialisti in relazioni di aiuto è fondamentale. Ma va notato che spesso gli psicologi assunti dall’amministrazione penitenziaria devono dedicare buona parte del proprio tempo a partecipare a consigli di disciplina dove si decidono le sanzioni per i detenuti che hanno infranto il regolamento piuttosto che ad azioni di supporto. Eppure potremmo leggere quelle infrazioni, soprattutto quando compiute da giovani, come un grido di aiuto, la voglia di essere visti: poco più che adolescenti, privi di figure di riferimento, fanno il proprio Edipo contro l’autorità penitenziaria non avendo spesso avuto un padre a cui ribellarsi. Un simile grido, anzi ancora più forte, lo abbiamo con i gesti di autolesionismo ed i tentati suicidi, che talvolta possono anche condurre alla morte. Si può fare qualcosa? Sì, a partire da cose semplici: aumentare le telefonate, che sono a carico delle persone detenute; facilitare l’ingresso in carcere della comunità esterna, realizzando iniziative che vadano a riempire il vuoto dell’estate; consentire incontri intimi con il coniuge o il partner, come ha stabilito una sentenza della Corte Costituzionale; non introdurre nuovi reati che non danno maggior sicurezza ma servono soltanto a riempire ancor di più le carceri, come nella ventilata fattispecie della rivolta carceraria dove si potrebbe essere puniti con due anni di reclusione per resistenza passiva agli ordini. Ma anche la comunità esterna può fare molto. Ad esempio, i comuni dovrebbero consentire l’iscrizione anagrafica dei detenuti, così come previsto dalla norma di legge, anche nel caso di persone prive del permesso di soggiorno. I programmi di formazione professionale dovrebbero coinvolgere in modo continuativo la popolazione carceraria. Gli imprenditori dovrebbero investire in attività produttive da realizzare in carcere, fruendo peraltro di importanti riduzioni fiscali e contributive. Dal carcere prima o poi si esce. Al di là della retorica del “buttiamo via la chiave” sta a noi scegliere se ci bastano punizione e sofferenza oppure se vogliamo dare un senso ad una istituzione dove vivono 61.547 persone, in spazi che potrebbero ospitarne al massimo 50.000, senza contare le migliaia di uomini e donne che ci lavorano, a partire dalla polizia penitenziaria. *Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Rems, arriva la svolta: più posti disponibili e assassini in carcere di Roberto Garritano Il Secolo d’Italia, 19 giugno 2024 Il governo Meloni mette mano alla questione delle Rems, le residenze giudiziarie per autori di reato con patologie psichiatriche. I ministeri della giustizia e della salute, attraverso l’impegno diretto di Schillaci e Nordio e dei sottosegretari Gemmato e Delmastro, stanno approntando un piano per le nuove residenze, implementando i posti a disposizione. Nel contempo, Fratelli d’Italia ha presentato, lo scorso anno, una proposta di legge di modifica degli articoli 88 e 89 del codice penale che disciplinano l’infermità e la seminfermità mentale. L’obiettivo è quello di superare la famosa sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 2005 che ha conferito dignità anche ai disturbi di personalità. Oltre un terzo degli ospiti delle Rems dovrebbero stare in carcere - Oltre un terzo degli ospiti delle Rems presentano un disturbo di personalità antisociale. In sostanza non hanno nulla e sono delinquenti. Questo impedisce a chi è davvero malato di poter entrare nelle residenze e consente una sorta di impunità indiretta a chi compie reati anche gravi. La commissione tecnica, che vede la presenza del prof Alberto Siracusano e del prof Giuseppe Nicolò, coordinatore e coordinatore vicario del tavolo di salute mentale, ha lavorato alacremente per circa un anno per definire le priorità. Delmastro e Gemmato hanno seguito da vicino la questione, facendo anche una mappatura delle esigenze e dei bisogni. Parallelamente, il governo sta potenziando i servizi di sostegno nelle carceri, che prevedono l’impiego di psichiatri e psicologi. Il caso Delfino e gli assassini nelle Rems - Eclatanti sono stati i casi di autori di reati, tra cui femminicidi, risultati parzialmente incapaci di intendere perché antisociali. Del resto, dal caso Impagnatiello a quello Turetta, è ormai una consuetudine la richiesta di perizia psichiatrica per qualsiasi omicidio volontario. Luca Delfino, il “mostro” di Genova, è oggi in una Rems dopo un periodo di carcere. Tanti sono gli assassini seriali che hanno avuto la possibilità di evitare l’ergastolo sulla base di una sentenza che ha fatto giurisprudenza e che è divenuta una sorta di legge. Abolizione dell’abuso d’ufficio, il Ddl Nordio alla Camera il 24 giugno di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2024 L’approdo in Aula al termine di una seduta fiume di 12 ore in Commissione Giustizia. Tutti respinti gli emendamenti delle opposizioni. Il M5S chiedono di convocare la Conferenza dei capigruppo per un rinvio. Al termine di una seduta fiume, durata circa 12 ore, la Commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame del Ddl sulla giustizia del ministro Carlo Nordio, che prevede tra l’altro l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Respinti tutti gli emendamenti, il testo andrà in Aula nella formulazione identica a quella già approvata dal Senato. Il Ddl ha tra i suoi punti principali anche un ridimensionamento del perimetro del traffico di influenze illecite e un giro di vite sulla pubblicazione delle intercettazioni. Il testo, varato in Consiglio dei ministri oltre un anno fa, aveva avuto il via libera del Senato nel febbraio scorso mentre l’esame in commissione era fermo da metà maggio. Ora invece l’approdo in Aula è previsto per lunedì prossimo. L’annuncio arriva dal presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, Ciro Maschio di FdI. “In Commissione - afferma Maschio - la maggioranza aveva più volte annunciato e ribadito l’intenzione di rispettare la scadenza del 24 giugno per l’approdo in Assemblea e così è stato. Per evitare il rischio di non avere tempo sufficiente a disposizione nelle giornate di oggi e domani, si è ritenuto di poter concludere stanotte”. “Il ddl - prosegue - interviene su diversi temi importanti tra i quali l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la modifica in chiave garantista della normativa sulla pubblicazione delle intercettazioni e sulle misure cautelari. Ora attendiamo i pareri delle commissioni e a breve il mandato al relatore. Il 24 giugno si va in Aula con la discussione generale”. Tutti bocciati dunque gli emendamenti di opposizione che miravano a modificare l’articolo 1 del testo che cancella, appunto, il reato d’abuso d’ufficio. Proposte che miravano a sopprimere o anche a circoscrivere la proposta. “Una velocizzazione - accusa il Dem Andrea Casu - dovuta solo alla necessità di dare un segnale al junior partner di maggioranza, Forza Italia, nella settimana in cui si procede su premierato ed Autonomia”. I deputati del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia Valentina D’Orso, Stefania Ascari, Federico Cafiero De Raho e Carla Giuliano, hanno inviato una lettera al presidente della Camera Lorenzo Fontana in cui stigmatizzano la gestione dell’esame parlamentare del ddl. Il provvedimento, sottolineano, dopo mesi in commissione Giustizia, nella giornata di ieri “ha conosciuto una inaspettata accelerazione, con l’esame ininterrotto di oltre 100 emendamenti, sino al suo termine, raggiunto in piena notte”. “È del tutto evidente - si legge nella lettera - che la sua fase istruttoria in commissione non risponda a criteri di ragionevolezza, in particolare l’esame degli emendamenti è risultato oltremisura compresso”. La richiesta è di convocare la Conferenza dei capigruppo per un rinvio dell’approdo in Aula del provvedimento. Di segno opposto la reazione di Pietro Pittalis deputato di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Giustizia: “È valsa assolutamente la pena - afferma - lavorare di notte sul ddl Nordio su abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite. Questo è un provvedimento tanto voluto e sollecitato da Forza Italia a tutela dei sindaci e amministratori da un’ipotesi di reato che ha prodotto, più di 9 volte su 10, inchieste terminate con assoluzioni, proscioglimenti e archiviazioni, a fronte di processi lunghi e costosi, danni di immagine irreparabili per sindaci ed amministratori, mai risarciti o riabilitati neanche dopo l’assoluzione”. “È un provvedimento - ha detto il viceministro Paolo Sisto - che ha avuto una larga maggioranza in Senato. Ognuno ha il diritto di ritenere che ci siano scelte opportune o meno ma questa è la democrazia parlamentare”. Nello specifico, l’articolo 1 abroga il delitto di abuso d’ufficio, previsto dall’articolo 323 del codice penale, e modifica l’art. 346-bis c.p., che disciplina il reato di traffico di influenze illecite, precisando che le relazioni del mediatore con il pubblico ufficiale devono essere esistenti (non solo asserite) ed effettivamente utilizzate (non solo vantate) intenzionalmente allo scopo di farsi dare o promettere indebitamente, a sé o ad altri, denaro o altra utilità economica per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, in relazione all’esercizio delle sue funzioni, o per realizzare un’altra mediazione illecita. L’articolo 2 invece prevede una serie di modifiche al codice di procedura penale volte a: rafforzare la tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni del difensore. Viene introdotto il divieto di pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni in tutti i casi in cui quest’ultimo non sia riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento. Per quanto riguarda l’eventuale applicazione di misura cautelare nel corso delle indagini preliminari, si dispone l’obbligatorietà dell’interrogatorio preventivo, che deve essere documentato in audio e video, nonché la collegialità della decisione. L’articolo 3 modifica l’articolo 89-bis disp. att. c.p.p., relativo all’archivio delle intercettazioni. L’articolo 4 modifica i criteri per l’assegnazione degli affari penali al giudice per le indagini preliminari, al fine di garantire la costituzione di un collegio anche nell’ambito delle tabelle infradistrettuali. L’articolo 5 reca l’aumento di 250 unità del ruolo organico della magistratura, da destinare alle funzioni giudicanti di primo grado. L’articolo 6 contiene una norma di interpretazione autentica riguardante il limite di età di 65 anni previsto per i giudici popolari delle Corti d’assise, chiarendo che esso è riferito esclusivamente al momento in cui il giudice viene chiamato a prestare servizio. L’articolo 7 interviene in materia di incidenza di provvedimenti giudiziari nella procedura per l’avanzamento al grado superiore dei militari. L’articolo 8 quantifica gli oneri per l’aumento di organico della magistratura. L’articolo 9 prevede che le modifiche al codice di rito in materia di decisione si applichino decorsi due anni dalla entrata in vigore della legge. “Da 30 anni nessuna legge può essere approvata senza l’ok dei magistrati, la politica reagisca” di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 giugno 2024 Parla Petrelli (Ucpi): “Occorre che la politica con un atto di responsabilità e di orgoglio recuperi gli spazi che le appartengono in una democrazia costituzionale, contro lo strapotere della magistratura”. “Da almeno trent’anni in questo Paese nessuna riforma può essere portata a termine senza il consenso della magistratura. Occorre che la politica con un atto di responsabilità e di orgoglio recuperi gli spazi che le appartengono. È la politica che deve orientare i destini di una democrazia. Non devono essere i magistrati a dire cosa è bene e cosa è male, cosa è etico e cosa non lo è, con un deragliamento dai princìpi fondamentali di una democrazia liberale. Pensiamo che questo paese abbia le energie e sia ancora in tempo per recuperare i giusti equilibri”. A dirlo, intervistato dal Foglio, è Francesco Petrelli, presidente dell’Unione camere penali italiane (Ucpi), all’indomani della presa di posizione dell’Associazione nazionale magistrati contro la riforma sulla separazione delle carriere. Al termine di un’assemblea straordinaria, sabato scorso l’Anm ha ribadito il suo “giudizio fortemente contrario sulla riforma dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso”, incentrata sulla separazione delle carriere tra pm e giudici, la creazione di due Csm e l’istituzione di un’Alta corte per i giudizi disciplinari. Il comitato direttivo centrale dell’Anm ha annunciato un’immediata “mobilitazione culturale e una sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui pericoli di questa riforma”, con l’organizzazione anche di una o più giornate di sciopero, in relazione all’iter parlamentare di discussione del ddl di riforma costituzionale. Insomma, al momento giusto, quando per esempio la riforma otterrà il primo via libera di un ramo del Parlamento, i magistrati scenderanno in piazza per opporsi alla sua approvazione. La presa di posizione dell’Anm è stata interpretata dai penalisti come una “inaccettabile sfida al Parlamento”: “Si potrebbe dire che il potere giudiziario abbia gettato la maschera, contrapponendosi apertamente a quello legislativo, se non fosse che è evidente a tutti da almeno trent’anni che nessuna riforma possa essere portata a termine in questo paese senza il consenso della magistratura. Un potere che domina indisturbato il proscenio della nostra democrazia ben oltre le competenze e le funzioni che sono state attribuite dal Costituente alla magistratura”, recita una dura nota dell’Ucpi. Al nostro giornale Petrelli ribadisce questa lettura: “Tutti devono essere liberi di poter esprimere il proprio pensiero e la propria posizione. Ormai, però, si ritiene che non ci sia legge rispetto alla quale l’Anm non debba esprimere non solo il proprio parere ma addirittura il proprio consenso”. “La quantità degli interventi - prosegue Petrelli - incide sulla qualità dell’autonomia e dell’indipendenza del Parlamento, facendo emergere un chiaro problema per il funzionamento della democrazia. Sono i giudici a essere soggetti alla legge, ai sensi dell’articolo 101 della nostra Costituzione, quindi almeno si lasci che le leggi le faccia liberamente il Parlamento”. “È una condizione in cui ormai si versa da troppo tempo, caratterizzata da un arretramento della politica dalle sue normali funzioni”, prosegue il presidente dei penalisti. “Assistiamo a una progressiva deformazione del sistema. Si pensi anche al Consiglio superiore della magistratura, che esercita come prassi un potere che non gli è attribuito dalla nostra Costituzione: quello di dare pareri su qualsiasi proposta di legge, anche laddove non richiesto dal potere legislativo o dal governo”. “Per questi motivi, invitiamo la politica a riprendersi gli spazi che le appartengono in una democrazia costituzionale”, ripete Petrelli. La riforma costituzionale della magistratura sarà in questo senso un banco di prova fondamentale. Petrelli respinge “gli argomenti insostenibili” utilizzati dall’Anm contro la riforma. Questa, secondo le toghe, porrebbe ad esempio “le premesse per il concreto rischio dell’assoggettamento del pubblico ministero al potere esecutivo”. “Già la nostra proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, per la quale nel 2017 abbiamo raccolto circa 70 mila firme, prevedeva la creazione di due Csm. Qualcuno ci dovrebbe spiegare cosa di più di un organismo di governo autonomo dei pm possa garantirne l’autonomia e l’indipendenza. È l’assetto attuale della magistratura, quindi perché mai uno identico dovrebbe esporre la magistratura requirente a una soggezione al potere politico? Poi se si vogliono raccontare delle favole è un altro conto”. Allo stesso tempo, per Petrelli è da respingere l’argomento secondo cui la riforma sarebbe inutile essendo oggi pochissimi i passaggi di funzione fra pm e giudici: “Si tratta di una vera truffa delle etichette. La separazione delle funzioni non ha nulla a che vedere con la separazione delle carriere. Se pm e giudici, pur non potendosi scambiare i ruoli, continuano a frequentare la stessa panchina e lo stesso spogliatoio è chiaro che ne viene fuori un sistema che nega l’esistenza di un giudice terzo”. “I giudici devono avere una carriera separata, perché altrimenti il giusto processo, che è già scritto nella nostra Costituzione nell’articolo 111, non potrà mai trovare una piena realizzazione”, conclude Petrelli. “Vedrete: se passa la riforma, i pm saranno strumento del governo” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 giugno 2024 Prosegue il dibattito aperto dal Dubbio tra magistratura e avvocatura sulla riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere, il sorteggio dei togati al Csm e l’Alta Corte disciplinare. Ne parliamo con Giovanni Zaccaro, segretario della corrente progressista AreaDg. Domenica scorsa, in un’intervista al Tempo, il viceministro Sisto ha detto: “Per parafrasare Erika Jong, quella dell’Anm la chiamerei “paura di cambiare”. Siete così conservatori? Già Renzi rispose così quando alcuni, me compreso, contestarono la sua riforma costituzionale. C’è una costante in Italia: chi ha la maggioranza parlamentare vuole subito cambiare l’assetto costituzionale dei poteri. L’attuale maggioranza si inserisce in quel solco. Con il premierato rafforzerà i poteri del governo in danno del Parlamento e degli organi di garanzia. Con l’autonomia differenziata romperà la solidarietà nazionale, e le regioni più ricche lo saranno ancora di più a scapito della più povere. Con la riforma del Csm si cerca di ridurre l’indipendenza della magistratura, ovviamente a favore dei poteri forti che non vogliono controlli. Se è questo il cambiamento, io sono conservatore, nel senso che preferisco conservare la Costituzione nata come antidoto alla dittatura e alla guerra. Nella mozione approvata sabato al direttivo Anm ci si propone di creare ‘ luoghi di confronto’. Non le sembra paradossale visto che voi non siete disposti a cedere su nulla? La magistratura italiana e sicuramente AreaDg sono pronte a confrontarsi su ogni proposta che migliori le risposte di giustizia, nell’interesse dei cittadini. Ma non transigiamo sul mantenimento dell’assetto costituzionale dei poteri, proprio perché è la prima garanzia per i diritti dei più deboli. La propaganda governativa spaccia la riforma della magistratura come la panacea per i problemi della giustizia. Noi vogliamo confrontarci con tutta la società italiana per disvelare il grande inganno: la riforma non renderà i processi più veloci o più giusti, ma creerà solo magistrati più intimoriti innanzi al volere della maggioranza di turno. Si è scritto che dovete mettere in atto una strategia comunicativa nuova. Il presidente Santalucia ha ammesso che voi magistrati non siete bravi comunicatori. Come spiegherebbe in maniera semplice al cittadino comune i pericoli sottesi alla riforma? Un pm che non appartiene alla giurisdizione avrà come unico interesse ottenere una condanna. E cosa farà? Si concentrerà sui ladri di polli lasciando in pace il più ricco o il più potente o quello con l’avvocato più bravo. Ripetete come un mantra che il pm diviso dal giudice sarà un superpoliziotto: ma davvero i pm non avranno la forza di mantenere la barra dritta delle garanzie? Saranno così “culturalmente deboli”? La proposta di riforma è molto pasticciata sul punto e già questo imporrebbe cautela. Oggi un pm è obbligato a esercitare l’azione penale a fronte di una notizia di reato, e la sua indipendenza, dai condizionamenti di chi guida la Procura o peggio dal contesto socio-economico e politico esterno, è garantita dal Csm. Già prevedere due Consigli superiori concorre a indebolirne l’indipendenza, dopodiché nel dibattito pubblico e, mi spiace dirlo, anche in alcuni interventi di dirigenti dell’Ucpi, ho letto di proposte perché sia la politica a guidare la magistratura. Mi pare un passo indietro per i diritti e le garanzie di tutti. L’avvocato Valerio Spigarelli vi obietta: “Che Gelli fosse anche per la separazione delle carriere non significa niente: anche un orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta. Perché non dicono che l’unitarietà delle due funzioni venne presentata dal ministro Grandi a Mussolini come elemento qualificante dello Stato fascista?”. Come replica? Sono felice che Spigarelli utilizzi la pregiudiziale antifascista, di questi tempi è una rarità. Non conosco l’episodio a cui si riferisce, ma so che al tempo del fascismo non c’era il Csm che tutelava l’indipendenza della magistratura, e i pm erano sotto il controllo del governo. La riforma del governo Meloni- Nordio umilia il ruolo costituzionale del Csm, e spero non sia il viatico perché i magistrati rispondano al governo di turno. Ha presente Porte Aperte di Sciascia? Davvero vogliano tornare a quel tempo? Perché l’Alta Corte non vi piace? In fondo finora la vostra è stata una giustizia prettamente domestica... I magistrati italiani, se commettono reati, sono sottoposti a processo penale e, spesso, subiscono condanne severe. Se sperperano denaro pubblico sono assoggettati a responsabilità contabile. Se commettono illeciti disciplinari sono processati innanzi alla sezione disciplinare del Csm, che è molto più severa rispetto a tutti gli organi di disciplina interna degli Ordini professionali italiani. Cosa non funziona in questo sistema? Perché riformarlo? Forse si è osato cercare di processare qualche magistrato che ha buoni rapporti con la politica? Lei due giorni ha contestato il comunicato dell’Ucpi. I rapporti sono più esasperati nei confronti della politica o dell’avvocatura? Abbiamo ottimi rapporti con l’avvocatura italiana. Pensiamo che insieme si debba difendere i diritti e le garanzie e promuovere un percorso di formazione culturale comune. Ogni giorno, nei corridoi e nei bar del palazzo di giustizia, mi avvicinano avvocati, anche penalisti, indignati per la campagna di delegittimazione della giurisdizione e soprattutto consapevoli che la riforma della magistratura non serve a risolvere i veri problemi della giustizia. Se solo la sciopero fa notizia. Giudici e pm contro Nordio per salvare la Costituzione di Liana Milella La Repubblica, 19 giugno 2024 Contro lo stravolgimento del governo Meloni con la separazione delle carriere, la magistratura attua una strategia sul lungo percorso che viene sminuita come segno di debolezza. Se giudici e pm scioperano, anche per un solo giorno, allora fanno notizia. Con lo strillo ovunque, siti, giornali e tv. Se invece non scioperano lì per lì, ma pianificano una reazione assai più complessa e di lunga durata, visto che la battaglia parlamentare sulla separazione delle carriere sarà assai lunga, allora si beccano l’accusa di essere dei “conigli” tremebondi. Perché un’adesione scarsa all’eventuale astensione - come avvenne a maggio del 2022 con il 48% di adesioni contro il “fascicolo della toga”, una sorta di schedatura a fini punitivi - sortirebbe solo l’effetto di metterli in evidente difficoltà. La stampa di destra li minimizza. Ed enfatizza invece i pettegolezzi sulle divisioni interne. Anche se proprio i magistrati di destra, quelli di Magistratura indipendente, sono durissimi contro questa riforma, come dimostra l’intervista a Repubblica del segretario Claudio Galoppi. È davvero singolare la reazione mediatica contro le toghe alle prese con la separazione delle carriere. Che neppure Berlusconi era riuscito a condurre in porto e che adesso manda in Parlamento il governo Meloni. Non fa notizia a meno che i giudici non scendano in strada. Per giunta i magistrati non si dividono. E già questo toglie appeal ai fan dello scontro. Parlano con una sola voce. Basta ascoltarli. Considerano la separazione un gravissimo e irreparabile vulnus. Una riforma dal sapore chiaramente vendicativo. Come cittadini sono offesi alla sola idea che si possano sorteggiare i componenti del Csm. Certo, tra di loro c’è chi - come la piccola corrente di Articolo 101, oppure il consigliere del Csm Andrea Mirenda con i suoi sostenitori - è convinto che ci voglia il sorteggio “contro” le correnti. Era ed è tuttora la loro reazione contro gli accordi sulle nomine e il caso Palamara. Ma forse non riflettono a sufficienza sul disastro ben più grave di cittadini italiani, gli unici, privati del diritto riconosciuto dalla Costituzione, quello del voto. Un obbrobrio. Ma tant’è. Adesso, per la magistratura italiana, la questione è un’altra. Perché la separazione delle carriere non è una leggina qualunque, ma una rivoluzione. Che tocca soprattutto i cittadini. E le toghe non hanno affatto bisogno di misurare la loro forza e il loro consenso popolare solo con il metro dello sciopero. Della serie, se lo fanno sono forti; se non lo fanno sono deboli. E in questo secondo caso - è il mantra della destra - vuol dire che gli italiani non stanno dalla loro parte. Un’argomentazione insidiosa e distruttiva. Che arriva proprio dalla stessa destra che vorrebbe addirittura vietare ai giudici anche la possibilità di riunirsi in un convegno dicendo liberamente quello che pensano. Vedi gli attacchi del ministro Guido Crosetto contro i dibattiti di Area a Palermo e di Magistratura democratica a Napoli. Mai che questa destra citi, a mo’ d’esempio, i giudici di Unicost e di Magistratura indipendente. Eppure fanno convegni anche loro a dozzine, congressi compresi. Ma sono protetti dall’immunità. Stavolta poi le voci di centrodestra - se proprio si vogliono usare tali etichette politiche - firmano la strategia anti governativa contro la separazione. Ecco le voci del segretario generale dell’Anm Salvatore Casciaro e della presidente di Unicost Rossella Marro. Le loro analisi suonano identiche a quelle del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, toga di Area, dell’ex segretario della stessa corrente Eugenio Albamonte e di quello attuale Giovanni “Ciccio” Zaccaro, e ancora della presidente di Magistratura democratica Silvia Albano e del battagliero Stefano Celli. Ad ascoltali - senza vederli né sapendo il loro nome - non si troverebbero distinzioni. La riforma delle carriere sta per andare solo adesso alla Camera. Ce ne vorrà di tempo per farla camminare, anche se il solito Crosetto dice a Repubblica che sarà la prima legge costituzionale ad andare avanti. Addirittura prima del premierato tanto caro a Meloni. Chissà poi perché. Forse l’Autonomia fa troppo il gioco della Lega. E il premierato rischia con il referendum. Tant’è che Meloni lo vedrebbe bene pure nella legislatura successiva. Ovviamente c’è tempo anche per la separazione delle carriere. Renzi insegna, meglio non scherzare. Proprio per questo le toghe si attrezzano per un cammino che inevitabilmente sarà lungo. Allo sciopero si arriverà, ma solo al momento opportuno. E per la prima volta nella storia ipotizzano non uno solo, ma più scioperi. Ma le novità sono ben altre. L’utilizzo dei social, proprio quello che il centrodestra vorrebbe inibire. E infatti spiano le singole toghe costringendole di fatto a non usare quello che qualsiasi cittadino utilizza. Un modo per isolarli e impaurirli. Ma loro guardano oltre. Ecco Albamonte lanciare i Comitati per il No. Un No alla separazione delle carriere che rende pochi e potentissimi (molto più di oggi) i pm, spinti inevitabilmente verso l’esecutivo. Un’obbligatorietà dell’azione penale in pericolo. Quindi i cittadini stessi in pericolo. Meno sicuri mentre la corruzione dilaga. Perché magari il Parlamento, dettando le linee guida dell’azione penale, potrebbe decidere che bisogna privilegiare i reati di strada e mettere in secondo piano quelli dei colletti bianchi. In combutta con le mafie. Il mantra delle toghe sarà semplice: la separazione delle carriere non è una riforma contro la magistratura, ma contro tutti gli italiani. “Lo sciopero Anm è un atto di guerra”. Da Mulè e Rastrelli la replica alle toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 19 giugno 2024 Il vicepresidente della Camera Forza Italia), e il senatore di Fratelli d’Italia intervengono dopo che il sindacato ha dato il via alla protesta. Che per Bazoli (Pd) “è giusta”. Che ne pensa la politica della decisione dell’Anm di indire “una o più giornate di astensione dall’attività giudiziaria per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della riforma”, cioè del ddl costituzionale sulla separazione delle carriere? Lo abbiamo chiesto a esponenti della maggioranza e dell’opposizione. Secondo Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera ed esponente di punta di Forza Italia, “per chi crede nella separazione dei poteri, e per chi la proclama, non vi è nulla di più inquinante di un’invasione nella reciproca legittimazione della divisione dei poteri. Il Parlamento, e quindi l’organo che secondo Costituzione è deputato a fare quelle leggi alle quali sono soggetti i magistrati, si avvia a discutere questa riforma: in questo contesto lo sciopero indetto dai magistrati è il peggior viatico per quella leale collaborazione che ci dovrebbe essere tra i poteri dello Stato. Ogni punto di vista è legittimo, ma deliberando delle astensioni è come se si volessero mettere le mani avanti e si rifiutasse a priori qualsiasi tipo di discussione. Questo atteggiamento, ripeto, è nemico della leale collaborazione tra poteri”. D’altra parte è vero che a compromettere il dialogo ci si impegna molto il forzista Gasparri per cui l’Anm sarebbe “eversiva” se scioperasse. “Il problema del dialogo funziona se le persone vogliono dialogare - replica Mulè -. Se invece non c’è questa volontà bensì quella di sottomettere il Parlamento a ciò che sono i desiderata di una parte della magistratura, questo preclude ogni possibilità di trovare una soluzione, di trovare un compromesso. Ci sono gli strumenti parlamentari per far sentire la propria voce e per provare a correggere questa riforma. Quindi non saranno le agenzie di Gasparri a giustificare lo sciopero dei magistrati. I magistrati hanno una funzione talmente alta, nobile da dover essere superiore a quella che magari è la dialettica politica. Se però loro per primi dissotterrano l’ascia di guerra e dichiarano, tra virgolette, guerra al Parlamento con lo sciopero, questo significa pregiudicarsi gli spazi di discussione che evidentemente non vogliono percorrere”. Ma a cosa si riferisce Mulè quando parla di “parti della magistratura”, considerato che il parlamentino Anm ha firmato unitariamente la mozione sulle astensioni? “In Italia ci sono più di 8mila magistrati - risponde il vicepresidente della Camera -, loro rappresentano una parte di questi magistrati, con questo sistema delle correnti che sarebbe dovuto essere superato e invece continua a imperare all’interno della magistratura. Le correnti che si muovono in questa direzione sono nemiche della famosa terzietà e indipendenza della magistratura, però sic transit gloria mundi: faranno lo sciopero, ma non ci impediranno di fare il nostro lavoro, che è quello di fare i legislatori. Un’occasione persa!”. Il senatore di Fratelli d’Italia Sergio Rastrelli, segretario della commissione Giustizia di Palazzo Madama, osserva a propria volta: “Non c’è dubbio che la iniziativa dell’Anm possa determinare un inutile e dannoso innalzamento del clima di scontro tra poteri dello Stato. Io parto dal presupposto che l’Anm è naturalmente libera di determinarsi come crede. Quello che non permetteremo sono sfide al Parlamento sovrano, o attività di indebita interdizione nei confronti di doverose e coraggiose iniziative legislative. In questo senso distinguo sempre i piani di ragionamento, nel senso che le riforme costituzionali sono sempre, o almeno dovrebbero essere, il luogo della massima condivisione, per cui ogni contributo, anche il più critico è sempre prezioso, purché si rispettino i rispettivi ruoli. Questa è una riforma giusta, necessaria e storica, come l’ha definita Giorgia Meloni. È una riforma che è nel nostro programma di governo, invocata dalle forze più vitali della società, ed è una riforma irrinunciabile. Per noi, quale che siano gli scenari che si prospettano, si andrà avanti nel portarla fino in fondo, e io addirittura auspico che l’Anm non voglia porsi a difesa di logiche di immobilismo culturale, di difesa di privilegi corporativi, di inutile difesa a oltranza rispetto all’assetto esistente, che è ormai superato e assolutamente inadeguato alle esigenze della modernità. Quindi mi auguro che si rispetti fino in fondo il ruolo che ciascuno responsabilmente deve rivestire: d’altronde mi stupirei del contrario, perché questa, come è stato detto e scritto e come è realmente, non è assolutamente una riforma contro la magistratura”. Tuttavia c’è chi in Parlamento mette in dubbio il diritto dell’Anm a scioperare: “Io non mi addentrerei su questo piano, faccio solo notare che all’interno della magistratura c’è un’ampia quota di toghe, intellettualmente libere, che questa riforma la condivide, perché migliora la giurisdizione e soprattutto serve all’Italia”. Di parere opposto è il senatore, e capogruppo dem in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli: “Non è la prima volta che lo sciopero viene utilizzato dai magistrati come forma di protesta contro provvedimenti che loro considerano a rischio, quindi non è una grande novità il fatto che venga deliberato. Venne fatto anche contro la riforma Cartabia, contro il famoso fascicolo del magistrato e contro provvedimenti che noi stessi abbiamo sostenuto e che io rivendico tra le buone cose fatte”. In questo caso, però prosegue il parlamentare del Pd, “lo sciopero può essere più giustificato che in altre circostanze per il fatto che la riforma proposta dal governo rischia di mettere a repentaglio alcune garanzie della magistratura, in particolare l’autonomia e l’indipendenza. Sebbene sappiamo che la riforma formalmente non lo prevede, si è consapevoli che prima o poi si troverà l’occasione per mettere il pm sotto il controllo dell’esecutivo”. E per Bazoli, il punto critico che giustificherebbe ancor di più l’iniziativa risiede nella circostanza per cui “il Csm verrebbe sostanzialmente trasformato da organo di alta rappresentanza della magistratura in un organo puramente burocratico, a cui i magistrati accedono per sorteggio, quindi senza alcuna forma di rappresentanza effettiva. Il principio sotteso è quello dell’uno vale uno, osteggiato quando venne introdotto in politica, ma ora applicato ai magistrati: una previsione per me molto pericolosa, perché il Csm viene sostanzialmente umiliato e depotenziato. Questa è una ragione che secondo me vale ancora di più rispetto alla separazione delle carriere, e che giustifica una scelta radicale di protesta ai magistrati”. Chiediamo anche al senatore una considerazione sulle parole del collega di FI Gasparri: “Non contribuisce a raffreddare il clima” replica Bazoli, che conclude: “Evidentemente ha interesse, come forse altri, ad alimentare uno scontro frontale con un potere dello Stato. Penso che questo non faccia bene a nessuno, tantomeno alla politica. Se Gasparri dice queste cose significa che vuole incendiare gli animi: se ne assuma la responsabilità, penso che non porti bene né a lui né alla maggioranza per raggiungere gli obiettivi che si prefigge”. Giudice di pace, uffici al collasso: gli avvocati di Roma e dei fori laziali in piazza il 4 luglio di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 giugno 2024 Nei prossimi mesi si susseguiranno diverse iniziative per ricordare il secolo e mezzo di vita delle istituzioni dell’avvocatura. Uno sguardo rivolto al passato e grande attenzione verso il presente e le sue criticità. Nell’adunanza plenaria dell’Unione degli Ordini forensi del Lazio, tenutasi sabato scorso nell’Aula avvocati della Cassazione, sono stati affrontati alcuni temi relativi alla condizione dell’avvocatura, laziale e non solo. Prima di tutto è stato celebrato il 150° anniversario della legge istitutiva degli Ordini forensi. Nei prossimi mesi si susseguiranno diverse iniziative per ricordare il secolo e mezzo di vita delle istituzioni dell’avvocatura. Inoltre è stato fatto il punto sullo stato in cui versa la giustizia nei Tribunali del Lazio. La preoccupazione è tanta: la carenza di magistrati e personale amministrativo rischia di provocare una paralisi. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, Paolo Nesta, si è soffermato sulla situazione degli uffici giudiziari della Corte d’Appello e del Tribunale di Roma, con riferimento all’arretrato e all’eccessiva durata dei processi. Vera e propria spina nel fianco, inoltre, la questione riguardante gli uffici del Giudice di Pace: dal Coa di Roma è stato lanciato l’allarme, ed è stata anche anticipata un’importante iniziativa: “L’agibilità degli uffici del Giudice di Pace - commenta Nesta - è del tutto assente, dopo che l’amministrazione è stata posta sotto sfratto. Devono essere abbandonati gli uffici di via Teulada e quelli, destinati al penale, di via Gregorio VII. È stata fatta una proposta: trasferire tutto sulla via Aurelia, in periferia. Ma si tratta di una soluzione irragionevole. Ci sarebbe la possibilità reale di utilizzare alcune caserme in zona Prati e altri uffici disponibili. La carenza dell’organico, negli uffici del Gdp, è del 60%, e la riforma Cartabia non è stata d’aiuto. Questa grave situazione riguarda Roma, il Lazio e tutta l’Italia. A nulla sono servite le nostre richieste di intervento avanzate al governo: per questo motivo abbiamo organizzato una manifestazione di protesta il 4 luglio: vogliamo dimostrare ai politici che il funzionamento della giustizia riguarda tutti. Quella del Giudice di Pace non è una giurisdizione minore: anzi, riguarda gran parte della collettività”. Anche David Bacecci, presidente dell’Unione degli Ordini forensi del Lazio, chiede al governo maggiore attenzione. “Partiamo da una premessa: i Coa svolgono una funzione sociale essenziale, poiché difendono il diritto dei cittadini ad avere un processo giusto, che venga celebrato in tempi ragionevoli. Efficienza, razionalizzazione delle risorse e investimenti economici per aumentare in maniera considerevole le piante organiche della magistratura e del personale amministrativo sono”, spiega Bacecci, “le basi essenziali per consentite alla giustizia italiana di funzionare. Per questo motivo abbiamo aderito con convinzione all’iniziativa indetta dall’Ordine di Roma il 4 luglio per denunciare la disastrosa situazione in cui versa l’ufficio del Giudice di Pace nella maggior parte dei Tribunali del Lazio e più in generale in Italia”. Liguria. Il Garante dei detenuti: “Indispensabili misure per combattere il sovraffollamento” genova24.it, 19 giugno 2024 Doriano Saracino, referente per la Liguria, ha aderito all’appello lanciato a livello nazionale dalla Conferenza dei garanti. Aumento dei giorni di liberazione anticipata per chi partecipa in modo attivo al percorso di rieducazione, non aumentare il novero dei reati, aumentare le telefonate e garantire spazi per l’affettività. Sono le richieste che i garanti territoriali dei diritti dei detenuti hanno rivolto alla classe politica per contrastare il sovraffollamento delle carceri e fermare le morti per suicidio. L’appello è stato diffuso nei giorni scorsi da tutti i garanti, compreso Doriano Saracino, il garante ligure, anche alla luce dell’appello diffuso tre mesi fa dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Una mobilitazione finalizzata ad adottare misure urgenti alla luce dei numeri drammatici che si sono registrati nei primi mesi del 2024: già 44 le persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane. “Con grande preoccupazione, constatiamo, ancora una volta, la sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei detenuti, rispetto al peggioramento delle condizioni di vivibilità delle nostre carceri che, lungi dal consentire quell’”inveramento del volto costituzionale della pena”, continuano a tradire i basilari principi costituzionali, europei ed internazionali, su cui regge lo stato di diritto e a umiliare continuamente la dignità umana delle persone ristrette - è l’appello della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale - Per la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà è indispensabile che il legislatore individui, immediatamente misure, anche temporanee, volte ad alleggerire la tensione sulla popolazione carceraria”. “È urgente innanzitutto partire dalla discussione e dall’approvazione di misure deflattive del sovraffollamento - proseguono - facilmente applicabili, come quella contenuta nella proposta dell’onorevole Giacchetti, quale primo firmatario, volta a modificare l’istituto della liberazione anticipata e a prevedere uno sconto di ulteriori trenta giorni a semestre per i prossimi due anni, rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi (30+45). È necessario poi incominciare ad attuare un modello di esecuzione penale che si allontani il più possibile dalla visione carcerocentrica del sistema punitivo. Cosa che sarebbe già possibile, a legislazione vigente, tramite una maggiore fruibilità da parte delle persone ristrette di misure alternative alla detenzione: al 10 giugno 2024 sono 23.443 le persone con un residuo pena al di sotto dei tre anni, di cui 7.954 con un residuo pena al di sotto di un anno; sono 1.529 i detenuti che hanno una pena inflitta da 1 mese a 1 anno”. “È fondamentale, poi, far sì che il carcere cessi di essere quel luogo di ‘desertificazione affettiva’, dando immediatamente seguito alla decisione della Corte costituzionale con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma dell’ordinamento penitenziario che vieta in carcere lo svolgimento di incontri affettivi intimi e riservati - prosegue la missiva - La decisone n. 10 del 2024, infatti, dimostra come la tutela del diritto inviolabile a coltivare i propri affetti non può arrestarsi innanzi ad un ‘blindo’ di una cella, che non è (né può diventare) un confine, a suo modo, per la legalità costituzionale o un confino per la dignità umana delle persone. Siamo convinti che gli Istituti penitenziari comprenderanno il valore di questa novità, per il lavoro che fanno quotidianamente nel costruire percorsi risocializzanti”. “Così come siamo altrettanto convinti che la Magistratura di sorveglianza non attenderà che qualcun altro risolva il problema, perché la Corte costituzionale ha delegato anche loro nella risoluzione di questa problematica. È essenziale, inoltre, aumentare le telefonate, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti e allentare il clima di tensione che si respira nelle diverse sezioni degli Istituti italiani. Occorre, infine, che la Magistratura di sorveglianza aumenti i giorni di permesso premio per i ristretti e si trovi il modo di rendere più efficiente e tempestivo il procedimento di concessione di tali permessi, specie per quelli di stretta necessità”. Trento. Suicidi, organici, disagio psichico: in carcere la situazione è pesante di Jacopo Strapparava Corriere del Trentino, 19 giugno 2024 “Bisogna lavorare sulle cause”. L’appello di Antonia Menghini, garante dei diritti dei detenuti. Una donna. Nata in Italia, ma di origini straniere, dentro per reati contro il patrimonio. Si è impiccata con i lacci delle scarpe nelle docce della sezione femminile. Soccorsa dopo pochi minuti, l’hanno portata in ospedale ma non c’è stato niente da fare. L’amara contabilità che si tiene in situazioni come questa ha classificato il suo caso come “morte in seguito a tentativo di suicidio”. Sarebbe dovuta tornare libera entro sei mesi. Aveva 37 anni. Una storia come tante ne avvengono, alla Casa circondariale di Spini di Gardolo. Solo nel 2023, nelle mura del carcere di Trento Nord, si sono verificati un suicidio e 84 atti di autolesionismo, il doppio rispetto al dato medio di un decennio fa. Nel giro degli ultimi dieci anni i suicidi sono stati 5. Nel 2024 finora si registra un tentativo non andato a termine. Ma la situazione nelle celle è sempre al limite. La storia della donna ammazzatasi prima di Natale è solo la spia di una situazione complicatissima. All’11 giugno Spini contava 368 detenuti, di cui 335 uomini e 33 donne. La struttura ha raggiunto punte di 380 reclusi, a fronte di una capienza massima che stando ai tre metri quadri a persona previsti dal ministero della Giustizia, dovrebbe essere di 419, mentre stando alle prescrizioni della Provincia, che di metri quadri pro capite ne vorrebbe sette, il numero ottimale sarebbe 240. Gli stranieri, perlopiù extracomunitari, sono 187. I cosiddetti “protetti” - collaboratori di giustizia, ex poliziotti, responsabili di reati di natura sessuale e tutti coloro che per regolamento devono essere tenuti sempre separati dagli altri - sono 114. Altre 83 persone, che pure il giudice non ha considerato incapaci di intendere e di volere al momento del reato, soffrono delle cosiddette “patologie psichiatriche sopravvenute”, spesso esacerbate dall’isolamento, dai loro trascorsi, dalle difficili condizioni del carcere e dalla dipendenza da sostanze stupefacenti. A fronte di questi numeri, a Gardolo, vi sono solamente 170 agenti di polizia penitenziaria, quando il numero ottimale sarebbe di 227. Ci sono problemi per la quantità e la qualità del vitto, per le visite mediche e dentistiche, persino per il lavoro dell’ufficio contabile, responsabile di tutti gli aspetti della vita quotidiana in carcere, dagli ordini di sapone e carta igienica, fino alle procedure previdenziali per fare ottenere i sussidi di disoccupazione a chi ne ha diritto. “Credo che molto si possa fare per prevenire i sucidi lavorando sui problemi che li determinano” ha detto, commentando questi dati, Antonia Menghini, garante dei diritti dei detenuti, nel corso di un convegno organizzato tenutosi al palazzo della Regione. L’avvocato Roberto Bertuol, della Camera penale di Trento, ha fatto omaggio al presidente del Consiglio provinciale Claudio Soini di un braccialetto verde con scritto “Ora basta!”. Ha sottolineato la necessità di un’amnistia, ha ricordato i casi di innocenti finiti in carcere e che i penalisti sciopereranno il 10, l’11e il 12 luglio. La direttrice di Spini Annarita Nuzzaci, infine, ha chiamatole istituzioni e il mondo dell’associazionismo locale a dedicare tempo, risorse e energie alla questione. Ricordando l’articolo 27 della Costituzione. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Firenze. Il Garante dei detenuti: “Ancora problemi legati al sovraffollamento” di Angela Feo inconsiglio.it, 19 giugno 2024 Illustrata la relazione annuale sull’attività 2023 su cui la commissione Sanità ha espresso parere positivo. Nel sistema carcerario permangono enormi i problemi legati al sovraffollamento, alla mancanza di sostegno psichiatrico, di affettività e di prospettiva lavorativa. Mentre la lista di attesa per le REMS (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) in Toscana è lunga e aumentata rispetto agli anni passati. Ad affermarlo è stato il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, che stamattina (martedì 18 giugno) è intervenuto in commissione Sanità per illustrare la relazione annuale sulla attività 2023, su cui la commissione stessa è tenuta ad esprimere un parere secondario. Un parere che è stato all’unanimità positivo e accompagnato da parole di apprezzamento “per l’estensione dell’attività del Garante a tutti i luoghi di privazione della libertà personale oltre alle carceri e per l’attenzione posta sul tema della salute mentale dei detenuti e sul sistema delle Rems”. Insieme al Garante è intervenuta anche Katia Poneti, dell’ufficio di Assistenza al Garante dei detenuti, che ha curato la redazione della relazione stessa, occupandosi degli aspetti che riguardano la sanità e soprattutto la psichiatria in carcere. Il Garante ha aperto l’intervento ricordando come la pandemia abbia richiesto una importante capacità organizzativa del sistema sanitario all’interno del sistema carcerario che ha permesso di arrivare alla vaccinazione di quasi tutti i detenuti. In Toscana ci sono 16 carceri, due Istituti minorili e due Rems (una a Volterra e una a Empoli). Al 31 dicembre scorso in Toscana i detenuti erano 3.094, a fronte di una popolazione carceraria a livello nazionale di oltre 60mila unità. Il 4 per cento sono donne (59 donne a Firenze e 26 a Pisa) mentre non ci sono più bambini. La percentuale dei cittadini stranieri è del 44,5 per cento. Nelle strutture penitenziarie della Toscana al 31 dicembre 2023 erano presenti 1.214 detenuti tossicodipendenti (pari al 39,2 per cento del totale). Di questi, 526 erano stranieri (pari al 38,1 per cento rispetto al totale degli stranieri detenuti). Quanto alla situazione applicativa dell’affidamento terapeutico, su un totale di 194 misure concesse 126 provenivano dalla detenzione, un numero inadeguato rispetto a quello totale dei tossicodipendenti in carcere. I dati sulla patologia mentale parlano di un 31,8 per cento dei detenuti in carico alla psichiatria, percentuale che sale al 34,56 se si considerano solo gli stranieri extra Ue. La patologia mentale viene quasi sempre diagnosticata per la prima volta quando la persona entra in carcere. Per quanto riguarda le Rems, Volterra ospita attualmente 28 persone mentre Empoli ne ospita 9. È stato evidenziato come sia ancora lunga la lista di attesa: attualmente sono 90 le persone che aspettano di entrarci e che nel frattempo rimangono in carcere, di cui 57 di competenza della Toscana e 18 dell’Umbria. Negli anni precedenti i numeri erano inferiori: 70 persone al 31 dicembre 2022, 46 persone nel 2021, 33 persone nel 2020. È ampio l’utilizzo delle misure di sicurezza provvisorie e definitive nella lista d’attesa, che in Toscana rappresentano il 50 per cento: Su un totale di 90 persone in attesa di REMS, ve ne sono 53 in misura provvisoria (pari al 59% dei casi), 27 in misura definitiva e 10 di cui non è noto se la misura sia provvisoria o definitiva. Il dato viene ribaltato quando si guarda alle posizioni giuridiche delle persone inserite in REMS, in cui le provvisorie sono quest’anno solo il 16% dei casi. Sembra dunque che il percorso fatto durante la permanenza in lista d’attesa permette di indirizzare le misure provvisorie verso misure meno contenitive, come la libertà vigilata con prescrizioni terapeutiche. Nel corso dell’illustrazione è stato evidenziato come l’istituzione del Punto Unico Regionale (PUR) per Toscana e Umbria, formalmente istituito nel gennaio scorso, costituisca un grande cambiamento che va a intervenire sulle relazioni tra magistratura e servizio psichiatrico e come esso stia già servendo e servirà ancora di più nella riduzione della lista d’attesa dei REMS. Il PUR è stato collocato all’interno della Ausl Toscana Centro. La mission del gruppo di coordinamento del PUR è quella di prendere le decisioni a valenza strategica. In particolare, il coordinamento presidia alla realizzazione dei protocolli con le autorità giudiziarie e gestisce la lista d’attesa. Milano. Riccardo a San Vittore, solo e senza terapia di Luigi Travaglia* Il Manifesto, 19 giugno 2024 Ordinaria ingiustizia. Arrestato per stalking, da un mese è in carcere. Ma nemmeno se ne è reso conto. Dalla notte di venerdì 10 maggio Riccardo è in custodia cautelare a San Vittore per stalking. È stato ammanettato da quattro agenti di polizia dentro un cinema nel cuore della Milano progressista, ex capitale morale d’Italia. Riccardo ha 37 anni, di lui sappiamo molto poco: dice di chiamarsi Lancillotto e di essere stato adottato dai proprietari dello stesso cinema dove si trovava al momento dell’arresto quando ancora era in fasce in una cesta di vimini deposta da una cicogna di fronte l’ingresso dello stabile. Di vero c’è che ha perso il padre, che viveva con la madre e la sorella, anche lei con disturbi psichiatrici, nessuno sa dove. Riccardo era un assiduo frequentatore del cinema, ed un gran bevitore di Coca Cola, la sua bevanda preferita. Riccardo è sempre stato un ragazzo stravagante e simpatico, nella sua malattia mentale geniale, con la battuta pronta e mai aggressivo. Viveva nel suo mondo di dame, cavalieri gentili, santi protettori dai nomi lunghissimi e Inter, scriveva poesie colorate e bellissime in un corsivo rotondo e perfetto per pagine e pagine di quadernoni colorati. Ultimamente si era innamorato, come si innamora un bambino, di una delle ragazze del bar, convincendosi che si sarebbero presto sposati, trainati da una carrozza con cavalli bianchi. Cantava serenate e scriveva poesie più belle del solito. La presenza allegra e chiassosa di Riccardo portava per alcuni divertimento, per altri disturbo. Ultimamente si era fissato che una persona specifica si stava frapponendo tra lui e la sua amata, coltivando giorno dopo giorno un rancore che nessuno riusciva a smorzare, era quasi sempre arrabbiato e offeso. Venerdì 10 maggio nel tardo pomeriggio si è presentato al bar che era solito frequentare prima di entrare in sala con un tagliacarte, forse un spacca ghiaccio, non si capisce bene, confabulando minacce verso una ragazza del bar anche lei complice di allontanarlo dalla sua amata. Il tagliacarte è stato scambiato per un coltello ed è stata subito chiamata la polizia. Quando gli agenti sono entrati Riccardo non ha voluto fornire le sue generalità in quanto amico del Presidente della Repubblica. Sotto gli occhi di tutti gli agenti si sono messi i guanti neri: in quattro lo hanno buttato a terra e ammanettato. Da più di un mese è in carcere a San Vittore, in una cella con solo stranieri perché dai documenti emersi risulta essere brasiliano. Riccardo è un uomo, ma ha la testa di un bambino, non ha capito e non capisce perché è in carcere. Una volta entrato nel girone infernale di San Vittore si è comportato esattamente come si comporterebbe un bambino spaventato, confuso, solo e abbandonato. È quasi tutto il giorno ritirato in un angolo sotto la finestra con la sua busta di colori in mano, spaventato a morte che qualcuno possa fargli del male. Le prime due settimane non ha preso alcuna terapia perché l’acqua non era rosa e non sapeva di fragola. Oggi è ancora in attesa di una perizia psichiatrica che attesti la sua incompatibilità con il carcere. Fortunatamente le compagne ed i compagni che ogni giorno cercano di alleviare le pene dei detenuti in carcere, volontari e avvocati, si stanno prendendo cura per quanto possibile di Riccardo. Nessuno conosce il passato di questo ragazzo, ma chi lo conosce oggi sa che la violenza non è nelle sue corde. Sempre rispettoso, capiva quando esagerava con le sue sparate. Riccardo non può essere considerato una persona capace di intendere e di volere, eppure è stato tradotto in carcere. Purtroppo in pochi sanno cosa significa entrare anche per solo una notte nel carcere di San Vittore, altrimenti si sopporterebbe anche mal volentieri una vera diversità come quella di Riccardo. *Luigi Travaglia è un nome di fantasia dietro il quale si nasconde uno dei 61.468 detenuti nelle carceri italiane Milano. “Renato Vallanzasca va curato in un luogo esterno al carcere” Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2024 la relazione dei medici di Bollate. È da tempo che i legali di Renato Vallanzasca, tra un stop e l’altro ai permessi, lamentano che le sue condizioni di salute sono tali da non permettere oltre la detenzione in carcere e ora c’è un parere proprio dei medici del carcere di Bollate (Milano) a supporto di questa tesi. L’ambiente “carcerario” è “carente nel fornire” le cure di cui ha bisogno e gli “stimoli cognitivi” e per questo andrebbe trasferito in un “ambito residenziale protetto”, in un “luogo di cura esterno”, data la sua “patologia” scrive l’equipe di medici del carcere milanese in una relazione, facendo riferimento alle condizioni di Renato Vallanzasca, 74 anni, ex protagonista della mala milanese degli anni 70 e 80 e che ha già trascorso oltre mezzo secolo di vita da detenuto. La relazione medica è stata acquisita dai suoi legali, gli avvocati Corrado Limentani e Paolo Muzzi, che puntano a presentare una nuova richiesta di differimento pena, con detenzione domiciliare in una struttura adatta, per motivi di salute per Vallanzasca, dato che da tempo, anche attraverso il lavoro di propri consulenti, lamentano che il 74enne non possa più stare in carcere, perché soffre di un decadimento neurologico e cognitivo. Tra l’altro, oggi Vallanzasca è arrivato in udienza davanti ai giudici della Sorveglianza, perché di recente gli sono stati revocati i permessi premio per frequentare una comunità, dove andava almeno una volta alla settimana. La difesa ha presentato un reclamo contro il provvedimento, che si discute oggi. Per la Sorveglianza le sue condizioni fisiche e psichiche sono tali che quella comunità non gli può garantire l’assistenza necessaria, ma secondo i suoi difensori in quel luogo c’è, invece, assistenza e gli è utile comunque per alleviare il decadimento delle condizioni di salute. Dopo l’udienza sul reclamo, i giudici (togati Di Rosa e Caffarena) decideranno nei prossimi giorni se accogliere o meno il ricorso difensivo e permettere a Vallanzasca di frequentare un ente esterno con permessi premio. Diversa sarà la strada dell’istanza per la detenzione domiciliare in una casa di cura. Varese. Penalisti in campo per fermare i suicidi in cella: “Non c’è più tempo” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 19 giugno 2024 Giovedì 20 giugno l’evento organizzato dalla Camera penale per denunciare la strage in carcere con un incontro-dibattito presso la “Sala Risorgimento” di Villa Mirabello. “Fermare i suicidi in carcere: non c’è più tempo”. È questo il titolo dell’incontro-dibattito organizzato dalla Camera penale di Varese “Giuseppe Lozito-Lucio Paliaga”, in programma giovedì 20 giugno, con inizio alle 14.30, presso la “Sala Risorgimento” di Villa Mirabello. Il numero dei suicidi in carcere aumenta giorno dopo e, come evidenziano i penalisti, servono interventi urgenti e una progettualità che prenda in considerazione l’esigenza di rendere la vita negli istituti penitenziari più umana e risocializzante. Il momento è drammatico, evidenzia il presidente della Camera penale di Varese, Fabio Margarini. “La nostra Camera Penale - dice al Dubbio - ha organizzato un evento sul tema sempre più drammatico e attuale dei suicidi in carcere e delle condizioni in cui vivono i detenuti. L’iniziativa rientra nel calendario delle manifestazioni indette dall’Unione delle Camere penali italiane in un programma nazionale di “maratona oratoria”. Riteniamo necessario non abbassare mai la guardia. È necessario discutere e riflettere sulle possibili risposte concrete, immediate e a più lungo termine per deprivare la condizione carceraria di quella deumanizzazione della prigione che sembra essere la prima causa dell’inaccettabile dramma suicidario”. L’evento ha anche l’obiettivo di sensibilizzare e smuovere le istituzioni. “Diceva Montesquieu - commenta l’avvocato Margarini - che ogni pena inflitta da un uomo ad un altro uomo, che non derivi dall’assoluta necessità, è un atto di tirannia. E se storicamente le punizioni andavano a ledere il corpo del suppliziato in forza di una funzione retributiva ed esemplificativa della pena pubblicamente esposta, non vi è dubbio che dopo Beccaria e l’Illuminismo il punto focale di ogni più evoluta ricerca diventi la mente, la psiche o per dirla con Michel Foucault l’anima del detenuto che si intende rieducare alla vita civile e sociale. Quando si parla di condizioni carcerarie degradanti, di sovraffollamento disumano, è di quella sofferenza in carcere di cui dobbiamo parlare e di cui oggi la politica non può avere infingimenti e restare indifferente ai dati ferocemente drammatici dei sucidi”. I dati presentano un quadro preoccupante. Nel 2022 i suicidi sono stati 85, nel 2023 sono stati 75. Quest’anno e siamo già a quota 44. “Non va neppure taciuto - aggiunge il presidente della Camera penale di Varese - il numero altrettanto inquietante dei tentativi di suicidi sventati dall’intervento del personale di polizia penitenziaria o da altri detenuti ed altresì di quello dei suicidi post-detenzione oggetto di un’interrogazione parlamentare più ampia sul reinserimento dei detenuti. Se la carcerazione ha la funzione assegnatale dalla Carta fondamentale, il percorso di ogni detenuto dev’essere, secondo una definizione che ho molto apprezzato del viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, “umanocentrico” e non “carcerocentrico”. L’iniziativa sarà aperta da Fabio Margarini (Camera penale di Varese), Elisabetta Bertani (tesoriere Camera Penale di Varese) e Gianluca Franchi (vicepresidente e segretario Comitato Pari Opportunità di Varese). Sono, inoltre, previsti, gli interventi di Valentina Alberta (presidente Camera Penale di Milano) Vincenzo Andraous (giornalista e saggista), Rita Bernardini (presidente dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”), Elisabetta Brusa (componente dell’Organismo congressuale forense, Commissione detenzione-carcere) Maria Chiara Gadda (deputata), Franco Grillo (medico psichiatra), Serena Pirrello (consulente giuridico pedagogico presso il carcere di Varese), don David Riboldi (cappellano del carcere di Busto Arsizio e Fondatore della Cooperativa Sociale “La Valle di Ezechiele”), Giulia Vassalli (magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Varese) e Andrea Pellicini (deputato e componente della Commissione Giustizia alla Camera). Spesso, le detenute - anche madri - vengono relegate ai margini, non fanno clamore. Secondo l’avvocata Elisabetta Brusa, bisogna moltiplicare gli sforzi affinché questa parte della popolazione carceraria riceva le dovute attenzioni. “Parliamo delle donne - commenta -, non solo madri, detenute perché, costituendo una minoranza nell’ambito penitenziario, i loro bisogni sono spesso disattesi o comunque poco conosciuti”. È necessario, dunque, fare uno sforzo per superare alcune impostazioni del passato. “Le carceri - aggiunge l’avvocata Brusa - sono progettate e costruite “da uomini per uomini”, sottovalutando quindi le necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. Le leggi sono uguali per uomini e donne e gli istituti detentivi, attraverso circolari e regolamenti interni tra loro differenti sul territorio nazionale, disciplinano l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative e le spese del “sopravvitto” per l’acquisto di beni legati alla propria cura e igiene. Gli avvocati sono la voce per portare all’esterno le loro necessità. L’impegno dell’avvocatura e dell’Organismo congressuale forense è quello di continuare ad interloquire con la politica per trovare soluzioni e dare dignità alle quasi tremila detenute ospitate nelle carceri italiane”. Verona. “Ero un bullo”, il bestseller di Andrea Franzoso diventa pièce teatrale di Francesca Visentin Corriere del Veneto, 19 giugno 2024 Un’adolescenza da bullo, qualche reato, il carcere. E poi la rinascita, una nuova vita da educatore e motivatore dei ragazzi “perduti”, a dimostrazione che c’è sempre un’opportunità per ricominciare. Questa la vera storia di Daniel Zaccaro, raccontata dallo scrittore veneziano Andrea Franzoso nel libro “Ero un bullo” (De Agostini), bestseller con 16 ristampe, tradotto in vari Paesi del mondo. Il libro ora diventa pièce teatrale che debutta questa sera in prima nazionale a Verona, al Cinema Teatro Nuovo San Michele (ore 21). Lo spettacolo è prodotto da Fondazione Aida, in collaborazione con l’assessorato all’Istruzione e la Settima Circoscrizione del Comune di Verona. Una pièce rivolta soprattutto a ragazzi e ragazze, a famiglie, insegnanti, educatori, educatrici e a chi pensa non sia mai troppo tardi per ricominciare, anche partendo da errori e fallimenti. Ero un bullo (stesso tiolo del libro), con la regia di Lucia Messina, contiene un forte risvolto educativo e motivazionale. “Magari c’è qualche ragazzo o ragazza che si riconoscerà nella mia storia - sottolinea Daniel Zaccaro -. Nella vita non esiste un copione già scritto. Fino all’ultimo si può decidere di cambiare il finale”. Lo scrittore Andrea Franzoso, che questa sera sarà presente al debutto della pièce, fa notare, riportando le parole di don Claudio Burgio del carcere minorile Beccaria: “Nessuno avrebbe scommesso un centesimo su Daniel Zaccaro. Eppure quello che sembrava destino già scritto, ha preso una piega inaspettata dopo che Daniel ha incontrato adulti credibili. Il libro e la pièce parlano di bullismo, devianza giovanile, baby gang, dispersione scolastica, ma sono anche monito per gli adulti: che esempio diamo ai nostri ragazzi e ragazze, come possiamo intervenire, che fare e che cosa non fare?”. La storia di Daniel Zaccaro adolescente è comune a quella di molti ragazzi che sembrano “perduti”: vive a Quarto Oggiaro, periferia di Milano, cresce nei cortili delle case popolari, adora il calcio, a dieci anni gioca con la maglia dell’Inter. In famiglia pochi soldi e continui litigi. Durante una partita, manca il goal decisivo e il suo sogno di diventare un calciatore famoso si infrange. Alle medie Daniel è un bullo carico di rabbia e aggressività. Da lì alle rapine il passo è breve, finisce al carcere Beccaria. È considerato un ragazzo perduto, irrecuperabile. A segnare la svolta, l’incontro con don Claudio, il cappellano del carcere e altre figure positive di adulti e adulte. Viene affidato alla comunità di don Claudio e impara a guardare le cose da una nuova prospettiva. Oggi fa l’educatore alla comunità Kayrós di Milano. Bologna. 370 persone con dipendenza alla Dozza. Spettacoli, dialoghi e incontri in città di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 19 giugno 2024 L'edizione 2024 delle "Giornate dell'Interdipendenza" punta ad approfondire il tema delle dipendenze patologiche e la salute mentale in carcere. Si chiamano “Giornate dell’interdipendenza”, organizzate dai professionisti dell’Azienda USL di Bologna e del Terzo settore, in collaborazione con istituzioni ed Enti locali. La terza edizione, quella di quest'anno, punta ad approfondire il tema delle dipendenze patologiche e la salute mentale in carcere. In particolare, quest’anno, la rassegna di eventi prevede dapprima un momento dedicato a riflettere con la cittadinanza “Oltre il muro” – in programma il 20 giugno presso lo Spazio DumBo - e un secondo momento di formazione, pensato per promuovere un confronto tra i diversi professionisti che si occupano di dipendenza. "Quest'anno ci siamo sfidati con un argomento che sicuramente è spinoso e di estrema attualità - ha dichiarato Maria Luisa Grech, direttrice SerDP Azienda USL di Bologna - ovvero il tema della cura delle persone che hanno una dipendenza patologica all'interno del carcere, delle misure alternative alla detenzione e dei percorsi terapeutici e riabilitativi fuori dal carcere. Faremo in un confronto onesto, intellettuale e scientifico con i professionisti del settore ma anche con lei istituzioni e con la cittadinanza attiva". "Si possono verificare delle situazioni in cui la dipendenza patologica implica delle condotte che poi portano all'arresto e alla detenzione in carcere - ha detto Hazem Cavina dell'Area Dipendenze Open Group - ma sulle quali si può lavorare attraverso la comunità terapeutica per una piena riabilitazione". Le giornate - L’evento dal titolo “Oltre il muro”, aperto alla cittadinanza, prenderà avvio con uno spettacolo i cui protagonisti sono gli utenti ospiti delle comunità terapeutiche e si concluderà con l’intervista al giornalista Paolo Aleotti, autore del libro “Che sapore hanno i muri”. Tra questi due momenti il dialogo si svolgerà attraverso due tavole rotonde a cui prenderanno parte professionisti dei SerDP e rappresentanti delle Istituzioni. Nel corso della prima tavola rotonda, il confronto verterà sulle relazioni tra Salute mentale e Dipendenze in carcere, nonché sul tema della Misura Alternativa alla Detenzione (MAD). E’ possibile la cura e la riabilitazione in carcere? Quando è indicata la misura alternativa alla detenzione? Cosa comporta per il paziente? Sono solo alcuni quesiti attorno ai quali si svilupperà il dibattito. A seguire, nel corso della seconda tavola rotonda, i relatori si confronteranno sul dopo detenzione, sul post pena affrontando il cruciale tema del reinserimento in società. Come affrontare le questioni dell’abitare e del lavoro, come favorire dunque l’inclusione nella comunità di persone che hanno già portato a termine un percorso riabilitativo durante la pena? Il secondo evento, in programma il 26 giugno presso la comunità terapeutica “il Sorriso” di Imola, sarà un’occasione di confronto tra i professionisti dei SerDP e delle comunità terapeutiche sui trattamenti terapeutici in ambiente ristretto: dai percorsi valutativi e terapeutici messi in atto dall’equipe carcere del SerDP alla Dozza, fino ai programmi realizzati nelle Comunità terapeutiche di MAD, passando attraverso alcuni progetti di giustizia ripartiva. L'Ausl di Bologna e le persone recluse alla Dozza - Ad oggi le persone detenute nel carcere della Dozza con una diagnosi di Dipendenza patologica sono 370, di cui 28 donne e 342 uomini. Di queste, 61 sono in trattamento con terapia oppioide (in quanto soggetti con diagnosi di dipendenza per lo più da eroina), mentre i restanti 309 sono in trattamento con altri farmaci, oltre a essere inseriti in un percorso socio-educativo individualizzato. Come definito dalla Legge 309/90 all’interno delle carceri è prevista un’equipe SerDP multidisciplinare e multiprofessionale composta da medici, psicologo e assistente sociale. Anche l'equipe SerDP in carcere si occupa di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone che hanno sviluppato una dipendenza da sostanze. Si parla quindi anche delle Misure Alternative alla Detenzione che coinvolgono gli operatori della comunità terapeutica per la co-costruzione del percorso riabilitativo personalizzato. "La fotografia del fenomeno della dipendenza da sostanze all’interno del carcere rispecchia, in proporzione, quella che si osserva in città" siega Ausl "in questo momento i SerDP stanno contrastando l’incremento di persone che sviluppano una dipendenza da cocaina, mentre rimane pressoché stabile la percentuale di soggetti con dipendenza da eroina ed è ubiquitaria l’assunzione di cannabinoidi associata al consumo di alcol". Più in generale, presso l'Istituto penitenziario bolognese, l'assistenza sanitaria primaria viene garantita da medici convenzionati di Assistenza Primaria (24 medici incaricati) che rappresentano il riferimento per la presa in carico di base e di primo livello di tutti i soggetti presenti in carcere, garantendo una presenza h24 a cui si aggiunge il supporto medico della Continuità assistenziale di Montebello. L'attività medica delle Cure Primarie è integrata con quella dell'equipe infermieristica. In particolare, l'equipe assistenziale-riabilitativa è composta da 1 coordinatore assistenziale, 28 infermieri, 1 educatore professionale, 3 terapisti della Riabilitazione Psichiatrica e 5 operatori socio-sanitari. Gli infermieri, presenti 24 ore al giorno, garantiscono ai detenuti l’accoglienza, l’assistenza in particolare per i pazienti con patologie croniche o riacutizzate (in primis diabete, patologie cardiovascolari e polmonari), con disturbi psichiatrici, con dipendenza patologica e a persone con malattie infettive (HIV-AIDS, epatiti, TBC e malattie sessualmente trasmesse). Gli infermieri si occupano inoltre della somministrazione delle terapie farmacologiche e collaborano con il medico di Continuità assistenziale per la gestione delle urgenze. In aggiunta, l’educatore professionale coordina le attività di informazione, educazione sanitaria e promozione della salute, nonché la programmazione di visite ed esami eseguiti all’esterno dell’Istituto. Per le donne detenute l’Azienda USL di Bologna prevede la presenza di un’ostetrica in carcere 2 volte al mese e, con la stessa frequenza, sono presenti i fisioterapisti del territorio. L’assistenza specialistica ambulatoriale viene garantita sia da specialisti interni che attraverso visite specialistiche esterne. Nello specifico, in carcere possono essere eseguiti raggi ed ECG, mentre le specialistiche presenti all'interno del Poliambulatorio della Dozza sono: Allergologia (in telemedicina), Dermatologia, Odontoiatria, Cardiologia, Ecografia, Ginecologia, Infettivologia, Ostetricia e Ginecologia, Otorinolaringoiatria, Oculistica, Pneumologia, Reumatologia (in telemedicina), Proctologia. È in corso un ulteriore sviluppo della telemedicina anche presso la struttura carceraria, così come in altri setting assistenziali dell’Azienda USL di Bologna. Bologna. Al carcere della Dozza con il rugby si recuperano i detenuti ansa.it, 19 giugno 2024 Sono quasi 300 i detenuti del carcere di Bologna che in questi ultimi dieci anni hanno indossato la maglia del Giallo Dozza, squadra di rugby nata nel 2014 all’interno della casa circondariale, che milita - caso unico in Italia - nel campionato nazionale di serie C. La società Giallo Dozza Bologna Rugby A.s.d. ha anche vinto il bando Sport di tutti - “Carceri”, iniziativa promossa dal ministro per lo sport e i giovani Andrea Abodi, che ha l’obiettivo per 18 mesi di supportare le realtà sportive e gli enti del Terzo settore nella promozione della salute, del benessere e del recupero dei detenuti, dell’inclusione sociale, attraverso l’attività sportiva. “Siamo assegnatari di questo bando grazie alla rete che si è creata attorno al Giallo Dozza, fuori e all’interno del carcere. Siamo molto felici perché è fondamentale per andare avanti”, ha sottolineato questa mattina in conferenza stampa nella sede di Illumia, partner del progetto, il presidente della squadra Matteo Carassiti. “In questi anni dentro il carcere sono entrate decine di squadre di persone libere che si sono venute a confrontare con i giocatori detenuti - racconta - Molti di loro prima non avevano mai visto una palla ovale e si sono messi in gioco con 4 allenamenti settimanali sul campo e teorici”. Anche alla Dozza, si vive “il terzo tempo” che contraddistingue il rugby, con un momento conviviale dopo la partita insieme alla squadra avversaria. L’obiettivo è insegnare il rispetto delle regole, la lealtà, la solidarietà, il fair play. Tra i dati spicca quello delle recidive tra i detenuti-atleti della squadra, al di sotto del 5%: “Una percentuale minima - conferma Carassiti - contro quella drammatica della media nazionale del 62%”. All’interno delle iniziative del progetto ministeriale, s’inserisce il Memorial Marco Gardenghi, già presidente dell’Unione Nazionale Giornalisti Pensionati, recentemente scomparso, innamorato del rugby. L’evento, con la partecipazione della squadra Giallo Dozza, è organizzato per il prossimo autunno dall’Ungp Emilia-Romagna e nazionale, l’Odg, l’Aser, l’Unione stampa sportiva italiana e Confcommercio Ascom Bologna. Rapporto sui media, non si sa, non si deve sapere di Vincenzo Vita Il Manifesto, 19 giugno 2024 Se fosse davvero confermata la notizia anticipata dall’edizione europea della testata giornalistica statunitense Politico a firma di Clothilde Goujard - secondo cui Ursula von der Leyen starebbe cercando di occultare la pubblicazione del Rapporto sullo stato di diritto per imbonirsi Giorgia Meloni, corteggiata per il prossimo voto sul vertice di Bruxelles- saremmo di fronte ad un caso vergognoso. Del resto, erano pesino state stigmatizzate nei giorni scorsi le prese di posizione pressoché omologhe della vice della von der Leyen Vera Jourova, che si occupa proprio di quel rapporto. Lo stato dell’arte, per così dire, è noto, in Italia. La Rai è sotto occupazione, le querele temerarie e provocatorie contro chi fa cronaca volteggiano nell’aria, rimane il carcere per i giornalisti, le istituzioni culturali sono nel mirino di una destra che vive i suoi quindici minuti di celebrità e non guarda in faccia neppure i santi. Il conflitto di interessi, dalla presenza di Mediaset al governo con Forza Italia al caso inquietante di Angelucci parlamentare e cacciatore di testate- è vivo più che mai. La federazione della stampa, l’associazione Articolo21, il sindacato europeo dei giornalisti (con il segretario Ricardo Gutierrez) e il consorzio dedicato al settore Media freedom rapid response (MFRR) hanno sottolineato la gravità della vicenda. E si sono espresse componenti parlamentari. Tuttavia, simile orribile brandello di storia minore ci illumina su quanto sia precario l’assetto della vecchia Europa. Al vento nero che sta avvolgendo l’ex nobile continente si risponde con mille altre sfumature, sempre nerastre. In verità, se la ri-candidata tedesca alla massima poltrona della Commissione ricorre a tutti gli stratagemmi per mantenere lo scranno fino a rinviare a dopo l’eventuale conferma la discussione sul testo in questione, sono le autorità competenti italiane a dover prendere una posizione. Alla strategia del segreto, tipica dei poteri non commendevoli, va contrapposta una chiara linea tesa alla massima trasparenza. Si renda noto il Rapporto e si affrontino con coraggio i problemi che pone. Altro che successo della riunione del G7, tenutasi in un clima surreale da regime di cartapesta. Se il governo delle destre è oggetto di critiche non banali sul versante delle libertà nell’infosfera, si eviti di cantare peana patetici e si guardi in faccia la realtà. L’Italia è scesa dal 41° al 46° posto nella graduatoria di Reporters sans frontières, e non certamente per caso. In Europa siamo ormai più vicini all’Ungheria che alle democrazie liberali e Giorgia Meloni sembra ripercorrere in pejus (le copie sono peggiori dell’originale) i fasti pagani di Silvio Berlusconi. Simile sgradevole situazione dovrebbe divenire oggetto di un tormentone straordinario da parte delle forze di opposizione: politiche, culturali, associative. L’argomento non è meno importante e delicato di altri. Anzi. Se vengono a mancare il diritto all’informazione e il pluralismo del pensiero, si finisce dritti in un sistema autoritario. L’accademica discussione su quale sia la distanza tra ciò che accade oggi e la tradizione dei fascismi trova risposte, purtroppo, puntuali: nei ricorrenti momenti di razzismo e nell’attacco ai contropoteri. In simile clima i due macigni del premierato elettivo e dell’autonomia differenziata potrebbero costituire il colpo di grazia. La messa sotto il tappeto del citato rapporto fa il paio con l’incredibile nota inviata al Senato dal dipartimento delegato alla materia di Palazzo Chigi, volto a neutralizzare la portata davvero inedita dell’European Media Freedom Act (EMFA), che chiede metodi assai diversi per la delineazione dei vertici dei servizi pubblici. Meloni bifronte, dunque. A Bruxelles una parte in commedia, qui quella opposta. C’è materia per prendere in considerazione una grande mobilitazione nazionale per tutelare un capitolo cruciale dell’edificio democratico. Già, ma il segreto è un’arma impropria di chi comanda. I sudditi non sanno e non devono sapere. Per dirla con Dario Fo, dal titolo di una delle sue pièce folgoranti. Ma la lotta paga e il vento gira. Il protocollo Italia-Albania sui migranti e il rischio di sanzioni Ue: ecco perché di Vitalba Azzollini* Il Domani, 19 giugno 2024 I tribunali europei hanno già sanzionato l’Ungheria per violazioni del diritto sul rimpatrio di migranti. L’idea che possa succedere anche all’Italia, per i centri albanesi, non è peregrina: l’intesa è stata ritenuta ammissibile dall’Ue perché non riguarderebbe il diritto europeo. Ma se si legge la ratifica del Protocollo, così non è. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria a pagare una multa di 200 milioni di euro per non aver rispettato una sentenza del dicembre 2020, e un ulteriore milione di euro per ogni giorno di ritardo. “Una violazione senza precedenti ed estremamente grave del diritto comunitario”, l’ha definita la Commissione Ue. Nel 2020, la Corte aveva stabilito - tra l’altro - che il Paese avesse contravvenuto agli “obblighi del diritto dell’Unione in materia di procedure di riconoscimento della protezione internazionale e di rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”, e non fornito “garanzie procedurali” e “sostegno adeguato” per i richiedenti asilo “identificati come vulnerabili”. La decisione riguardante l’Ungheria dà lo spunto per parlare di alcuni profili del Protocollo tra Italia e Albania. Al momento, l’Unione l’ha ritenuto ammissibile perché esso non riguarderebbe il diritto europeo. La commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson, nel novembre scorso affermò che esso “non viola il diritto dell’Ue” perché “è al di fuori del diritto Ue”. L’esatto opposto di quanto ha detto Giorgia Meloni in Albania il 5 giugno scorso: “Abbiamo portato qui la legislazione italiana ed europea”. C’è qualcosa che non torna. Proviamo a capire. Secondo la legge di ratifica del Protocollo (legge n. 14/2024), ai migranti che rientrano nel suo ambito - vale a dire quelli provenienti da Paesi sicuri, soccorsi da navi di autorità italiane in acque internazionali e poi condotti nelle aree albanesi - “si applicano, in quanto compatibili” una serie di norme nazionali in tema di immigrazione, nonché la “disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale”. Questa disposizione pone diversi problemi: innanzitutto, perché smentisce quanto affermato da Johansson, la quale ha escluso espressamente l’applicabilità del diritto Ue al Protocollo. In secondo luogo, come chiarito dalla stessa Johansson, e non solo, “il diritto comunitario non è applicabile al di fuori del territorio dell’Ue”, per cui il Protocollo con l’Albania sarebbe in violazione di questo principio. In terzo luogo, è privo di fondamento il presupposto secondo cui il diritto Ue non riguarda le procedure in Albania perché esse interessano solo migranti trovati da navi militari italiane in acque internazionali, dove non si applica il diritto europeo. Le navi militari di Stati membri in alto mare, come afferma un parere del servizio giuridico del parlamento europeo del 2018, sono territorio dello Stato membro di bandiera, e quindi dell’Ue, per cui i migranti salvati da tali navi sono tutelati dal diritto dell’Unione (in conformità a quanto deciso nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia). Infine, l’applicabilità di norme italiane ed europee solo “in quanto compatibili” significa lasciare una discrezionalità amplissima - svincolata da paletti normativi, in spregio ai principi di legalità e certezza del diritto - all’autorità amministrativa che dovrà vagliare la situazione degli immigrati portati in Albania. Diritti dei migranti - A tutto questo si aggiungono alcuni dubbi. Innanzitutto, sulla effettiva valutazione del diritto all’asilo degli immigrati, poiché la procedura di frontiera - della durata di 28 giorni, incluso l’eventuale ricorso contro il rigetto della domanda di asilo e la decisione del giudice - prevede un’istruttoria sommaria, quindi carente; poi, sul rispetto del diritto di difesa dell’immigrato, che tra l’altro non potrà essere presente dinanzi al giudice né avere un contatto di persona, ma solo online, con il proprio avvocato; ancora, sulla tutela dei vulnerabili, dato che, nonostante le rassicurazioni formulate nelle Commissioni riunite Affari Costituzionali, la legge di ratifica dell’intesa fra Italia e Albania non contiene disposizioni riguardanti un’effettiva verifica delle condizioni di vulnerabilità né l’espresso divieto di trattenimento di chi presenti tali condizioni. Soprattutto, quanto sin qui esposto, unitamente al fatto che le procedure si svolgeranno in sedi lontane dai nostri occhi, con procedure decisionali poco prevedibili e non trasparenti, e la conseguente difficoltà di verificare il rispetto dei diritti dei migranti, rafforza quanto paventato dall’onorevole Riccardo Magi in Albania, mentre era strattonato dagli addetti alla sicurezza: “Se accade questo a un parlamentare italiano, potete immaginare cosa accadrà ai poveri cristi che saranno chiusi qui”. Insomma, il rischio che in Albania si replichi il trattamento ungherese, sanzionato dalla Corte Ue, non è poi così remoto. Dalla Turchia alla Calabria, il business dei migranti dietro all’ultimo naufragio di Bianca Senatore Il Domani, 19 giugno 2024 I numeri di Frontex suggeriscono un calo, ma solo perché si basano sulle persone intercettate. La rotta balcanica è molto attiva, e i tempi di percorrenza sono diventati molto veloci. “I gruppi WhatsApp e Telegram erano bollenti. La notizia del naufragio tra Grecia e Italia ha bloccato tutta l’organizzazione per ore”. A raccontarcelo è Kerem, un uomo sulla sessantina che vive a Smirne ed è “infiltrato” in una dei gruppi che aiutano prevalentemente i migranti afgani e iraniani. Non ha mai fatto il contrabbandiere lui, dice di non avere il cuore forte per gestire lo stress, ma aiuta volentieri chi si trova in difficoltà. “Io non prendo soldi, ma conosco i broker della città”. Alla base del sistema dei pagamenti dei viaggi illegali dei migranti c’è la “hawala”, un sistema di trasferimento di denaro basato sulla fiducia interpersonale per cui i mediatori (loro si definiscono broker) sbloccano la somma pattuita per il viaggio solo all’arrivo. La hawala è un sistema antico che è stato rilanciato proprio dai trafficanti negli ultimi anni, perché permette di nascondere i fondi al controllo dello Stato e consente di controllare l’iter. “Rispetto a un qualsiasi money transfer, che prende una commissione del 15 per cento, i broker prendono solo il 2 per cento, massimo il 5 per cento”, spiega Kerem. “E poi offre una garanzia, perché non si paga finché non si raggiunge la meta, in caso di respingimento o in caso di morte”. E infatti, da lunedì, dopo le voci sull’annegamento di almeno 66 persone a bordo di una barca a vela, molti dei broker coinvolti non ha pagato il contrabbandiere. “Aspetteranno di capire chi è vivo e chi no prima di saldare il conto, è una specie di risarcimento”, dice ancora Kerem. Ma intanto sulle coste della Turchia sono già pronti a partire altre centinaia e centinaia di migranti, nonostante la paura, nonostante il rischio. Le reti dei trafficanti continuano ad operare su larga scala e con organizzazioni sempre più ramificate, ma nello stesso tempo agili. “L’ideazione del viaggio è sempre settoriale e comincia nei singoli paesi di partenza, quindi in Afghanistan, Iraq o Siria”, spiega Tareke, un giornalista siriano che vive da anni a Smirne. Il gancio iniziale è sempre un amico di un amico che ha contatti con il trafficante che opera al confine. Lui, a sua volta è già in contatto con il broker che gestirà il passaggio di soldi alla tappa successiva, e così via. Alla base c’è un sistema fiduciario che, generalmente, termina un po’ prima dell’ultima tappa. Quando, cioè, si arriva nelle mani di colui che decide chi parte e chi no e quante persone salgono sul caicco o sulla barca a vela. A seconda di quanto è stato sborsato. “Sui gruppi WhatsApp e Telegram ci sono tutte le informazioni”, racconta Kerem. “Se parliamo di rotte via mare, per andare dalla costa turca fino a una delle isole greche più vicine, Samos o Lesvos, servono circa 30 euro. Se si vuol raggiungere la terraferma greca il costo sale a 2mila dollari per un posto sul gommone. Ma nell’ultimo anno il più richiesto è stato il viaggio diretto verso l’Italia che costa fino a 10mila dollari per una barca in vetroresina”. Il prezzo è così alto, dicono, perché copre il lavoro di chi ha rubato la barca a vela, spesso nei porti di Malta, e perché assicura una navigazione più “confortevole”. Inoltre, sempre secondo i trafficanti, la barca a vela da meno nell’occhio e quindi il rischio di venire bloccati dalle Guardie Costiere è minore. “Noi cerchiamo di informare i migranti sui pericoli delle traversate in mare”, spiega Cavidan, un’avvocata che si occupa di diritti umani in Turchia, “ma ci rispondono che sono disposti a rischiare pur di scappare dalla violenza e da morte certa”. In questi giorni sulla costa turca, tra Dikili e Cesme c’è un gran fermento. I migranti pronti a partire sono nascosti in case sicure non lontano dai punti di imbarco, ma le partenze sono rallentate. Il naufragio ha creato subbuglio nella rete dei trafficanti ma ha anche acceso l’attenzione politica sulla questione delle partenze illegali dalla Turchia. Queste ore sono state cruciali anche per la Guardia Costiera che dovrebbe impedire le partenze, come previsto negli accordi con l’Ue, ma spesso non lo fa. “Sappiamo che la rete di trafficanti che opera lungo la costa ha accordi sottobanco con la polizia e con i militari”, afferma Cavidan, “che, dunque, decide di chiudere un occhio. Quando si aprono delle finestre di buon tempo, le motovedette si spostano verso nord o verso sud, ovviamente dopo aver intascato una percentuale del pagamento al trafficante”. Una percentuale di quei soldi che il migrante paga per salvarsi la vita in Europa. A scegliere il viaggio via mare verso l’Italia sono essenzialmente famiglie con bambini che non riescono ad affrontare la rotta balcanica, lunga e rischiosa. Sia per il clima, specialmente in inverno, sia per la presenza di guardie di frontiera o milizie estremamente violente. “Alcuni dei ragazzi che ho visto passare in questi mesi dalla costa - racconta il giornalista Tareke - erano stati respinti tre o quattro volte dalla polizia bulgara. Molti sono stati picchiati a sangue, altri hanno raccontato di essere scampati a ronde armate e di aver visto cadaveri in putrefazione nei boschi. E quindi, ora provano la rotta via mare”. La città che è diventata base di partenza per la rotta balcanica è Edirne, dove c’è tutt’altra rete di trafficanti che, in parte, opera diversamente. I ragazzi che arrivano a Edirne hanno già contattato il loro contrabbandiere tramite Tik Tok. “Sono qui nella jungle tra Bulgaria e Kosovo e sto portando un gruppo di amici. Sono affidabile, conosco la strada e so gestire gli imprevisti”. Il messaggio è uno dei tanti che si trovano sul social network. I nuovi contrabbandieri si fanno pubblicità così, con video girati lungo il cammino, con le testimonianze dei “clienti” di quel momento, i quali possono confermare che è tutto vero, ci si può fidare. E così il business cresce e si evolve. Secondo i dati di Frontex, la rotta balcanica ha registrato un calo del 71 per cento nei primi cinque mesi del 2024 ma il numero fa riferimento ai soli migranti intercettati lungo il cammino. In realtà, la rotta del Mediterraneo orientale, tra Turchia e Grecia, cioè all’imbocco della via tra i Balcani, mostra un raddoppio di presenze rispetto all’anno scorso. Questo vuol dire che la rotta balcanica è attiva ma i tempi di percorrenza sono diventati molto veloci. In parte grazie ai trafficanti e in parte grazie a tutti coloro che, lungo i vari Paesi di attraversamento, hanno deciso di entrare nel business. E così, il game, l’attraversamento a piedi delle frontiere, oggi è divento un taxi-game. In Bosnia, in Croazia, ma anche in Serbia i migranti possono pagano un tot a persona per raggiungere un confine o anche per risparmiare molti km di strada. A Bihac, al confine tra Bosnia e Croazia, a sera compaiono tanti taxi che sembra di stare a New York. “Alla stazione ferroviaria anche gli autobus hanno cominciato a fare questo “lavoretto” - racconta un’attivista locale - Dieci euro a persona e 400 euro per 5 km di strada sono un guadagno facile e veloce. Poi, se i migranti vengono respinti al confine tanto meglio, il gioco non si esaurisce mai”. Migranti. Lo status di rifugiato riconosciuto da uno Stato membro impedisce l’estradizione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2024 La richiesta dello Stato terzo d’origine dell’interessato impone di contattare le autorità del Paese Ue che ha riconosciuto la protezione. Non è possibile estradare verso il Paese d’origine lo straniero che abbia ottenuto in uno Stato membro il riconoscimento dello status di rifugiato. Questa l’affermazione della Corte di giustizia dell’Unione europea contenuta nella sentenza sulla causa C-352/22. Quindi il riconoscimento dello status di rifugiato in uno Stato membro osta a che un altro Paese Ue possa procedere all’estradizione dell’interessato verso il suo Paese d’origine. E, quindi, indipendentemente dai motivi posti alla base della domanda di estradizione, finché l’autorità che ha riconosciuto tale status non lo revoca, lo straniero non potrà essere estradato. Gli obblighi degli Stati Ue - L’autorità a cui venga presentata la domanda di estradizione deve mettersi in contatto con l’autorità di altro Stato membro che abbia riconosciuto tale status. La vicenda a quo - Nella vicenda concreta la Turchia aveva chiesto alla Germania di estradare un cittadino turco di origine curda sospettato di omicidio. Il giudice tedesco chiamato a statuire su tale domanda ha quindi chiesto alla Cgue se fosse ostativo all’estradizione il fatto che all’interessato fosse stato riconosciuto lo status di rifugiato in Italia nel 2010, per il motivo che egli correva un rischio di persecuzioni politiche da parte delle autorità turche in ragione del suo sostegno al Partito dei lavoratori del Kurdistan (il Pkk). L’interpretazione della Cgue - La questione interpretativa posta rientra nell’ambito del sistema europeo di asilo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La Corte ha risposto che il riconoscimento dello status di rifugiato in Italia osta all’estradizione dell’interessato verso il suo Paese d’origine, da cui è fuggito. E non avendo le autorità italiane revocato tale status, l’estradizione va rifiutata. Infatti, afferma la Corte, una tale estradizione equivarrebbe, in realtà, a porre fine a detto status. Per cui la Cgue nello sciogliere il dubbio del giudice tedesco ha chiarito che l’autorità competente in Germania deve, conformemente al principio di “leale cooperazione”, mettersi in contatto con l’autorità italiana che ha riconosciuto lo status di rifugiato. E se, a seguito di tale contatto, l’autorità italiana revochi lo status di rifugiato, l’autorità tedesca deve poi giungere essa stessa alla conclusione che l’interessato non ha, o non ha più, la qualità di rifugiato. Inoltre, deve assicurarsi che non esista alcun serio rischio che, in caso di estradizione, l’interessato sia sottoposto in Turchia alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.