Strage senza fine in carcere: altri quattro suicidi in meno di due giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2024 Salgono a 44 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. L’allarme di Antigone, che chiede provvedimenti urgenti per ridurre il sovraffollamento. Un’ondata di disperazione dilaga con una sequenza scioccante di suicidi che ha visto 4 detenuti togliersi la vita in appena 48 ore tra il 13 e il 14 giugno. I numeri sono da brivido: ben 44 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio del 2024, e ciò dipinge un quadro drammatico all’interno delle carceri, dove la sofferenza e l’abbandono sembrano regnare sovrani. Il 41esimo suicidio è avvenuto giovedì sera ad Ariano Irpino, dove un detenuto di 39 anni si è impiccato con gli slip nella sua cella. Poche ore dopo, all’una di notte, un detenuto romeno di 45 anni si è tolto la vita nel carcere di Biella. Venerdì la tragedia è proseguita con un detenuto di 77 anni che si è soffocato nel suo letto a Teramo, e infine un 44esimo suicidio è avvenuto nel pomeriggio dello stesso giorno a Sassari, dove un recluso si è impiccato con le lenzuola nel reparto di assistenza intensificata. La Sardegna appare un’area particolarmente critica, con 4 suicidi in appena 6 mesi: due a Cagliari-Uta e due a Sassari-Bancali, secondo Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme ODV. “Un dato terribile che impone una vera attenzione delle istituzioni”, afferma, sottolineando che questi drammi non sono casi isolati ma avvengono negli istituti con i più alti tassi di sovraffollamento, come Cagliari con 651 detenuti su 561 posti. “È evidente che in condizioni così la detenzione perde la funzione rieducativa e produce rabbia e disperazione”, per la carenza di personale e la vita difficile dietro le sbarre, prosegue Caligaris, denunciando “lo stato di abbandono delle carceri dove la vita ha poco valore e non si rispetta il dettato costituzionale”. Situazioni dove “si vogliono nascondere i problemi sociali negando una possibilità di riscatto a chi ha sbagliato”. L’allarme del sindacato della polizia - Anche i rappresentanti degli agenti penitenziari non tacciono. “È una carneficina, numeri pazzeschi indegni di un Paese civile”, tuona Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria, che denuncia l’indifferenza del governo di fronte a questa ecatombe. “Il sistema è imploso, non c’è più tempo, servono provvedimenti straordinari”. De Fazio rileva l’assordante silenzio del ministro Nordio e critica l’inerzia dell’esecutivo che sembra “incapace di assumere provvedimenti concreti”. Chiede un decreto immediato per deflazionare il sovraffollamento con 14mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, per assumere con procedure accelerate gli oltre 18mila agenti mancanti nel Corpo di Polizia penitenziaria e potenziare l’assistenza sanitaria carente, soprattutto di natura psichiatrica. Parallelamente, il sindacalista invoca riforme strutturali come la reingegnerizzazione dei dipartimenti penitenziario e di giustizia minorile e una riorganizzazione complessiva del personale. “È imbarazzante il silenzio di Nordio: batta un colpo o si dimetta”, conclude. Le proposte di Antigone - L’associazione Antigone alza la voce sulla tragica sequenza di suicidi nelle carceri italiane, definendola un’emergenza nazionale che richiede l’intervento prioritario di governo e Parlamento. “Se in una città di 60.000 abitanti si suicidassero 44 persone in pochi mesi non parleremmo d’altro”, afferma l’associazione, riferendosi ai 44 detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. La situazione è resa ancor più grave dal perdurante sovraffollamento, con oltre 14.000 reclusi che non hanno un posto regolamentare, condizioni di vita sempre più difficili per i detenuti e turni di lavoro estenuanti per gli operatori penitenziari. Antigone chiede provvedimenti urgenti per alleggerire il peso sulle carceri attraverso un maggior ricorso alle misure alternative al carcere. Sollecita inoltre la liberalizzazione delle telefonate, dotando le celle di telefoni laddove non vi siano problemi di sicurezza, per ridurre l’isolamento dei detenuti. Tra le altre richieste, l’assunzione di personale, la riduzione del peso dell’isolamento, la modernizzazione della pena carceraria, e l’aumento delle iniziative in carcere senza intoppi burocratici. Antigone critica aspramente il ddl sicurezza del governo, che va nella direzione opposta introducendo il reato di rivolta penitenziaria, punibile fino a 8 anni anche per resistenza passiva e proteste non violente. “Lascerà ai detenuti solo il proprio corpo per far emergere problemi, con un prevedibile aumento di autolesionismo e suicidi”, avverte Antigone, invitando l’esecutivo a ritirare il provvedimento. “Serve intervenire con urgenza, non si può più aspettare”, è l’appello dell’associazione al governo affinché la tragedia dei suicidi in carcere non continui a mietere vittime innocenti, prigioniere di un sistema sempre più al collasso. Le proposte dei 27 ministri dell’Ue - Ma, come già riportato su Il Dubbio, a causa del numero esorbitante dei suicidi, si è mosso anche il Consiglio d’Europa. Ben 27 ministri dell’Unione Europea hanno espresso all’unanimità il loro sostegno all’uso della detenzione su piccola scala. Lo hanno fatto adottando le Conclusioni del Consiglio relative a questo modello alternativo di detenzione e invitando così tutti gli Stati membri a prendere in considerazione, ove appropriato, l’uso di strutture detentive su piccola scala per scopi di custodia, comprese le case di reinserimento sociale, con l’obiettivo di limitare gli impatti negativi della detenzione e promuovere il reinserimento sociale e la preparazione al rilascio. Si tratta di un segnale forte e di speranza in tempi in cui molti sistemi carcerari discutono della costruzione di nuove carceri, riproponendo un modello di detenzione che si è dimostrato fallimentare. Il Movimento Rescaled, di cui fa parte Antigone, accoglie con favore l’adozione delle conclusioni del Consiglio europeo che segnano un passo importante verso un sistema giudiziario più sostenibile, verde, equo e inclusivo, puntando sulla detenzione su piccola scala. Uno dei principali aspetti evidenziati nelle conclusioni riguarda il potenziale della detenzione su piccola scala nel facilitare la riabilitazione e il reinserimento dei detenuti. Questo approccio non solo aiuta a prevenire la recidiva, ma contribuisce anche alla costruzione di comunità più inclusive e solidali. Il Consiglio europeo ha invitato gli Stati membri a valutare i benefici delle strutture di detenzione di piccole dimensioni, che siano differenziate e ben integrate nel tessuto sociale. Questo modello di detenzione, secondo il Consiglio, può migliorare il senso di comunità e l’integrazione sociale dei detenuti, oltre a contribuire alla creazione di società più sicure e resilienti. Per Rescaled si tratta di un segnale forte e di speranza, in un momento in cui molti paesi discutono ancora di costruire nuove grandi carceri con un modello fallimentare. “Siamo entusiasti di questa volontà di esplorare i benefici della detenzione di piccola scala, integrata nelle comunità”, afferma la direttrice Helene De Vos, vedendovi un passo verso un sistema giudiziario più rispondente alle esigenze di società inclusive, sicure e sostenibili. Altri quattro suicidi in carcere, ma al dramma del sovraffollamento si risponde con nuovi reati di Luigi Mastrodonato Il Domani, 18 giugno 2024 Quattro detenuti si sono tolti la vita nel giro di 24 ore. “Sono numeri indegni di un paese civile”, dice Gennarino De Fazio, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa. Mentre la condizione delle carceri italiane peggiora, secondo gli indicatori dell’ultimo report di Antigone. La strage nelle carceri italiane non si ferma. In 24 ore sono quattro i detenuti che si sono tolti la vita in cella. Con i morti di Sassari, Ariano Irpino, Biella e Teramo il numero di suicidi dall’inizio dell’anno ha toccato quota 44 e in proiezione il 2024 rischia di essere l’anno col dato peggiore, se si pensa che il record precedente del 2022 è di 84 suicidi totali. I numeri dicono che la situazione nelle carceri italiane non solo è critica, ma va peggiorando. Sul tema è intervenuto ora anche il Consiglio d’Europa, che ha chiesto all’Italia di prendere misure urgenti. Ma il governo Meloni fa muro a ogni proposta e soluzione che possano ridurre la pressione sugli istituti penitenziari. Prosegue la strage - Nella giornata di venerdì 14 giugno si è tolto la vita un detenuto 38enne del carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino. L’uomo si è impiccato in serata usando i propri vestiti e il suo decesso è stato il sesto in otto giorni nelle carceri della Campania. Nei giorni scorsi aveva aggredito alcuni agenti e dato segni di instabilità, quelli che il sindacato di polizia Uilpa ha definito “segni evidente di un disagio mentale”, ma nonostante questo il detenuto è stato lasciato solo, senza cure e assistenza. Nella tarda serata di venerdì in Piemonte, a Biella, un detenuto 45enne si è tolto la vita impiccandosi. Quello di Biella non è un istituto qualunque, ma è la perfetta sintesi di tutto il male che può racchiudersi oggi nelle carceri italiane. Il carcere piemontese è stato definito “il più sedato d’Italia”, visto che qui otto detenuti su dieci assumono psicofarmaci, segno del disagio collettivo in cui si sprofonda in questi luoghi. E sempre Biella è sotto i riflettori della magistratura, dal momento che 23 agenti sono sotto indagine per violenze e abusi nei confronti dei detenuti. Nonostante questo, continuano a lavorare nell’istituto, visto che poche settimane fa la Cassazione ha dichiarato inammissibile la loro sospensione. Il caso del detenuto 74enne - Nel pomeriggio di sabato 15 giugno un altro suicidio si è consumato nel carcere di Sassari. Un uomo di 43 anni ha approfittato del ricovero in infermeria per sottrarre le lenzuola e impiccarsi. Ma la giornata si era aperta con un altro, ennesimo suicidio. Nell’istituto di Teramo, dove a togliersi la vita è stato un 74enne. “Era un uomo malato, anziano sfinito da un vissuto logorante. Un uomo le cui condizioni di salute si sono palesate incompatibili con la detenzione carceraria. È stato ammazzato dallo Stato”, ha denunciato la sua avvocata, Federica Di Nicola. Quello dei detenuti anziani è uno dei tanti problemi del sistema penitenziario italiano: nessuno in Europa ha un’età media così alta in cella. Le pene alternative, infatti, non sono contemplate anche per chi è negli ultimi anni della propria vita e non costituisce un pericolo sociale. Casi eclatanti recenti sono quelli del detenuto 92enne nel carcere di Poggioreale, in provincia di Napoli, per un reato di natura sessuale. E del 90enne nel carcere di San Vittore, a Milano, per tentato omicidio. L’inferno delle carceri italiane - I quattro suicidi in 24 ore nelle carceri italiane hanno fatto salire il tragico bollettino del 2024 a 44. Non siamo neanche a metà anno e questo significa che, ai ritmi attuali, il dato finale potrebbe rappresentare un ulteriore incremento rispetto agli 84 suicidi in carcere del 2022, che già costituivano un record. “Sono numeri indegni di un paese civile”, ha commentato Gennarino De Fazio, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa. Ma sono numeri che non stupiscono. La condizione delle carceri italiane è disastrosa, lo evidenziano i numeri dell’associazione Antigone nell’ultimo report. Nel 28 per cento delle celle visitate non è garantito il minimo di legge di tre metri quadri per persona, nel 19 per cento non c’è il riscaldamento, nel 48,5 per cento mancano docce interne e il 6 per cento non ha il wc in un ambiente separato. Dopo che le carceri erano tornate a numeri di presenze sostenibili a causa del Covid-19, dando finalmente seguito alle numerose condanne internazionali per l’Italia, ora i dati del sovraffollamento sono tornati a crescere. A fronte di meno di 50mila posti effettivi, i detenuti in Italia sono oltre 61mila, con istituti come quello di Brescia dove il tasso di sovraffollamento è del 200 per cento. Il disagio mentale è la diretta conseguenza di un contesto simile, caratterizzato anche da violenza e abusi di potere sistematici, come hanno messo in luce decine di indagini, processi e condanne per tortura. Il 40 per cento dei detenuti in Italia assume psicofarmaci, gli atti di autolesionismo sono 18,1 ogni 100 detenuti. E sempre più persone si tolgono la vita, come ci ricorda la cronaca delle ultime ore. Interviene il consiglio d’Europa - Che la situazione delle carceri italiane sia particolarmente critica se n’è accorto anche il Consiglio d’Europa. Nelle scorse ore ha chiesto al governo italiano “di adottare rapidamente ulteriori misure e a garantire adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire queste morti”, dal momento che quanto fatto finora si è rivelato inefficace. Un appello condiviso dall’associazione Antigone, che ha chiesto di intervenire con provvedimenti che riducano la pressione sulle carceri e che migliorino le condizioni di vita al suo interno, come la liberalizzazione delle telefonate (oggi ai detenuti sono concessi solo dieci minuti di chiamata a settimana). Ma il governo Meloni continua a fare muro. Il ddl presentato da Roberto Giachetti (Iv) per tamponare nel breve termine l’emergenza carceri con le liberazioni anticipate rischia l’affossamento, mentre dall’esecutivo promettono solo misure a lungo termine come un nuovo decreto carceri che non prevede sconti di pena e la costruzione di nuovi istituti penitenziari nelle caserme dismesse. Sullo sfondo, vengono introdotte nuove fattispecie di reato che non fanno altro che riempire ulteriormente le carceri, come successo per gli istituti minorili dopo il decreto Caivano, dove il numero di presenze è aumentato del 30 per cento in un anno. E il nuovo ddl sicurezza in discussione alle commissioni, che tra il reato di rivolta in carcere, una stretta sulle droghe (compresa la “cannabis light”) e un ampliamento del ricorso alla custodia cautelare (di cui l’Italia è già prima in Europa) potrebbe dare il colpo di grazia all’utopia di avere carceri in linea con la Costituzione italiana, lì dove si dice che la pena non può corrispondere in trattamenti inumani e degradanti. 44 suicidi in prigione e Nordio non muove un dito di Angela Stella L’Unità, 18 giugno 2024 44 i detenuti che si sono tolti la vita nel 2024. Lo scorso anno, nello stesso periodo, erano 28. Ma il governo non muove un dito: Md, Pd e garanti all’attacco. Chissà che vignetta realizzerebbe il periodico satirico francese Charlie Hebdo dinanzi al 44esimo suicidio nelle nostre carceri? Forse un funzionario di via Arenula che entra nella stanza del Guardasigilli e allarmato gli comunica: “Ministro, purtroppo un altro detenuto suicida”. E Nordio: “Vorrei uno spritz, me lo può portare?”. Certo una immagine irriverente ma che fotograferebbe tutta l’indifferenza di questo Governo dinanzi a questa strage di Stato. Sono già 44, dicevamo, i detenuti che si sono tolti la vita quest’anno: gli ultimi quattro in appena 24 ore tra venerdì e sabato nelle carceri di Ariano Irpino, Biella, Sassari e Teramo, come denuncia Antigone. Nello stesso periodo dello scorso anno, ricorda l’Ansa, i suicidi erano 28. Adesso in crescita anche i tentati suicidi (877 contro 821), le aggressioni al personale di Polizia penitenziaria (881 contro 688), le manifestazioni di protesta collettive (599 contro 440), i ferimenti (286 contro 264) e le colluttazioni (2.203 contro 2.055). Eppure il Consiglio d’Europa solo pochi giorni fa ha definito “allarmante” la situazione e ha chiesto di intervenire “urgentemente” al nostro Paese. Il 18 marzo fu il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che, incontrando la polizia penitenziaria, ribadì che i suicidi nelle carceri sono un problema che è “indispensabile” affrontare “immediatamente e con urgenza”. E invece l’Esecutivo e il Parlamento restano a guardare o meglio tentano di affossare la proposta di legge per la liberazione anticipata promossa dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti insieme a Nessuno Tocchi Caino e annunciano un decreto legge che nessun impatto avrà su queste morti nelle mani dello Stato, come sottolinea all’Unità Stefano Celli, pm di Magistratura Democratica, e presidente della Commissione diritto penitenziario dell’Anm: “Aveva sperato che anche la semplice manifestazione di interesse alla condizione dei detenuti da parte di magistrati e avvocati potesse fermare la tragica progressione dei suicidi. È stata un’illusione. E anche il Ministero si illude di rendere più rapido l’esame dei benefici con una riforma più volte annunciata, proclamata, diffusa, ma per la quale non c’è un testo e che forse allevierà il lavoro della sorveglianza, certo non la condizione dei detenuti. Nel frattempo il Parlamento non ha il coraggio di esaminare una proposta minimale e più che ragionevole, l’allargamento temporaneo della liberazione anticipata. Se questa non piace, si pensi a una misura equivalente, ma non si può più attendere, dopo che anche il Consiglio d’Europa, tre giorni fa, preoccupato per l’incremento dei suicidi, ha preso atto che le misure intraprese dal Governo non sono efficaci e ha spronato l’Italia a fare di più, presto e meglio”. Una dura critica arriva anche dal senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato: “L’inerzia del Governo di fronte ai dati drammatici dei suicidi in carcere è colpevole e inaccettabile. Servono interventi subito per fermare questa catena di morte e dolore. La strada maestra è quella di ridurre il sovraffollamento e riportare così a condizioni più accettabili la vita negli istituti di pena. Ci sono provvedimenti già assunti durante la pandemia, come la scarcerazione anticipata per chi è a fine pena, che hanno funzionato e possono essere riproposti. E c’è, soprattutto, la possibilità di considerare le misure alternative al carcere la regola per chi deve scontare pene inferiori ai due anni. Altre misure sono state proposte da più parti, ma l’unica cosa non più tollerabile è che il Governo continui ad assistere ai suicidi e al degrado della vita nelle carceri senza muovere un dito”. Per Stefano Anastasia, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Lazio, “di fronte a questa vera e propria emergenza nazionale, il governo promette nuovi padiglioni penitenziari che non avranno il personale per poter essere aperti e assunzioni di personale che non compenseranno i pensionamenti dei più anziani. Seguono altre fantasie, tipo il rimpatrio di detenuti stranieri che i loro Paesi non vogliono riprendersi, l’utilizzo di caserme dismesse che non si sa chi aprirebbe, il trasferimento coatto dei tossicodipendenti in comunità o l’ultima invenzione di “comunità educanti” finanziate dallo Stato. Intanto la macchina repressiva gira a pieno ritmo, inventando fattispecie penali per ogni cosa, mentre i servizi sociali e sanitari territoriali, che dovrebbero farsi carico della marginalità che in gran parte riempie le carceri (sommando gli affiliati alle organizzazioni criminali e gli altri detenuti per gravi fatti contro la persona non si arriva a ventimila persone) sono depauperati di risorse umane e finanziarie”. E alla fine, per lui, “l’unica soluzione sono provvedimenti di amnistia e indulto”. Intanto ieri la compagna di Enzo Tortora Francesca Scopelliti ha organizzato insieme all’Unione Camere Penali una maratona oratoria dinanzi all’Hotel Plaza di Roma dove il giornalista fu arrestato: “Oggi (ieri, ndr) ricordiamo i 41 anni dell’arresto di Enzo Tortora, 41 anni sono tanti perché sono metà di una vita normale e sono tanti, troppi, ma sono anche tutti inutili perché quando un Paese, in tanti anni, non riesce a dare una risposta a quel crimine giudiziario che ha colpito Enzo, quando non fa tesoro di un errore, cercando le cause per trovare i rimedi, beh allora devo dire che le questioni di democrazia, di cultura del diritto sono messe in discussione”. Nelle carceri aumentano sovraffollamento, suicidi, aggressioni e proteste: tutti i dati ansa.it, 18 giugno 2024 A livello complessivo i detenuti nelle strutture presenti nel nostro Paese sono 61.468, a fronte di 47.067 posti regolarmente disponibili, per un indice di sovraffollamento pari al 130,59%. Lo certificano i numeri aggiornati degli istituti di pena. Nelle carceri italiane sono stati 43 i suicidi solo nel 2024, rispetto ad i 28 dello stesso periodo dello scorso anno. In aumento risultato anche i tentati suicidi (877 contro 821), le aggressioni al personale di Polizia penitenziaria (881 contro 688), le manifestazioni di protesta collettive (599 contro 440), i ferimenti (286 contro 264) e le colluttazioni (2.203 contro 2.055). Lo certificano i numeri aggiornati degli istituti di pena consultati dall’Agenzia Ansa. A livello complessivo i detenuti nelle strutture presenti nel nostro Paese sono 61.468, a fronte di 47.067 posti regolarmente disponibili, per un indice di sovraffollamento pari al 130,59%. Il 23,65% dei detenuti (14.538) è ospitato in uno spazio tra 3 e 4 metri quadrati. Sotto i 3 metri quadri si violerebbe la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nell’ultimo anno (dal 12/6/2023 al 12/6/2024) si sono registrati 42.903 ingressi nelle carceri dalla libertà e 28.710 uscite in libertà, mentre 18.715 son usciti in misura alternativa e 457 sono stati espulsi. L’indice di sovraffollamento maggiore si riscontra nelle carceri pugliesi (149,07%). seguiti da quelli lombardi (144,95%) e friulani (144,63%). I detenuti stranieri sono 19.270 (il 31,35% del totale). I detenuti condannati in via definitiva sono 41.498; quelli in attesa di primo giudizio sono 9.368; gli appellanti 3.423; i ricorrenti 1.961, mentre 4.880 sono in condizione giuridica mista. I detenuti comuni sono 44.169; quelli in alta sicurezza sono 9.393: i protetti sono 6.664, mentre 720 sono al 41 bis. Gli ergastolani sono 1.890. In 13.326 hanno da scontare un residuo di pena inferiore ai due anni. In 146 nel 2024 hanno riferito di percosse all’atto di arresto; lo scorso anno erano stati 109. Negli istituti penali maschili per minorenni sono reclusi 529 giovani a fronte di una capienza di 490, per un indice di sovraffollamento del 107,96%. In quelli femminili ci sono 25 ragazze, la capienza è di 24. I casi più recenti - Si tratta di “numeri pazzeschi, indegni di un Paese civile”, hanno denunciato i sindacati carcerari. Dei 43 detenuti che si sono tolti la vita nei primi mesi di quest’anno, 16 erano in attesa di giudizio e sugli ultimi casi l’Autorità sta svolgendo approfondimenti assumendo informazioni per capire le modalità dei gesti. Nel fine settimana si sono verificati, in particolare, 4 suicidi; in due casi si tratta di persone che avrebbero concluso la loro pena nel 2026. I detenuti, ha segnalato il segretario del Sappe, Donato Capece, “sono vittime innocenti di un disagio individuale a cui non si riesce a fare fronte nonostante gli sforzi e l’impegno degli operatori, in primis le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che il carcere lo vivono nelle sezioni detentive”. Secondo il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino de Fazio, “si notano due grandi essenti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni. Suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri, traffici illeciti, ma cos’altro deve accadere affinché l’esecutivo prenda atto dell’emergenza in essere e vari misure consequenziali?”. Lo psichiatra: “Troppi suicidi, serve la cultura dell’ascolto e una formazione specifica” - “Bisogna far calare negli istituti penitenziari una cultura della sensibilità rispetto al suicidio e non interventi spot. Questo significa avere operatori che vi lavorano sensibilizzati, ma penso anche agli stessi detenuti che dovrebbero essere più partecipi e propensi nell’ascoltare gli altri che manifestano i segnali d’allarme, quando ci sono”. Lo ha sottolineato Maurizio Pompili, professore ordinario di psichiatria all’Università Sapienza e direttore della Uoc di Psichiatria e del Servizio per la prevenzione del suicidio dell’Aou S. Andrea di Roma. “Poi serve formare e informare, preparare bene chi lavora con i detenuti sulle pratiche per la prevenzione del suicidio come evento che pone l’accento sulla sofferenza mentale della persona”, ha proseguito commentando la situazione legata all’allarme suicidi in carcere. Proprio nelle ultime ore ad Ariano Irpino, Biella, Sassari e Teramo si sono tolte la vita le ultime quattro persone detenute. Nevi (FI): “Presto mobilitazione, visite parlamentari per un’inchiesta sulla situazione” - “Nei prossimi giorni Forza Italia avvierà una mobilitazione: tutti i parlamentari si recheranno in ogni carcere del territorio italiano per avviare un’inchiesta sullo stato delle carceri. Non possiamo permetterci che ci sia questa condizione carceraria, in un Paese civile come il nostro, che vuole guidare il gruppo dei paesi più civili d’Europa e del mondo. Su questo noi siamo in campo. Stiamo portando avanti il disegno di legge sulla depenalizzazione delle pene. Poi altre cose come costruire carceri più grandi, moderne. L’obiettivo fondamentale è diminuire il sovraffollamento in tempi rapidi”. Queste le parole, sempre sul tema, rilasciate da Raffaele Nevi (FI). Pd: “Il governo inerte, intervenire sul sovraffollamento” - “Diciamo da tempo che non si può aspettare oltre. Sono mesi che con i nostri parlamentari facciamo visite ispettive nelle carceri italiane. Il Governo è inerte e con le decisioni prese fin qui ha solo peggiorato le condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari italiani. Occorre intervenire sul sovraffollamento oramai fuori controllo e spingere sulle misure alternative al carcere per le pene brevi ed approvare il più in fretta possibile quei provvedimenti, alcuni dei quali già adottati durante la pandemia come la scarcerazione anticipata per chi è a fine pena. È intollerabile che il Governo e la maggioranza continuino ad assistere ai suicidi in carcere senza far nulla e voltandosi dall’altra parte. Basta. Non c’è più tempo”. Questi alcuni passaggi di una nota diffusa, invece, dal Partito Democratico. Amnistia, indulto e numero chiuso: cosa deve cambiare nelle carceri di Stefano Anastasia huffingtonpost.it, 18 giugno 2024 Bisognerebbe disarmare il conflitto che cova nei penitenziari, cercare di far venir meno il risentimento così come la disperazione dei detenuti, a partire dal riconoscimento della loro dignità di persone e della loro titolarità di diritti. La scorsa settimana si sono tolte la vita cinque persone nelle carceri italiane, che si sono aggiunte alle trentanove registrate da gennaio, per un totale di quarantaquattro detenuti che si sono suicidate in carcere dall’inizio dell’anno: mai così tanti da quando siamo costretti a tenere questa macabra e dolorosa contabilità. Ogni atto suicidario è un caso a sé, si porta dietro la storia di una persona, le sue sofferenze, non ultima quella della restrizione in carcere, ma ciò non ci esime dalla necessità di interrogarci su quel che accade dietro le mura delle carceri e cosa potrebbe concorrere a motivare una frequenza di suicidi che non ha eguali nel passato. Nel 2017 il governo condivise con le Regioni l’adozione di un Piano nazionale di prevenzione del rischio suicidario che avrebbe dovuto specificarsi a ogni livello amministrativo, fino ai singoli istituti di pena. Nel 2022 - con 84 casi l’annus horribilis per i suicidi in carcere - il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, firmò una circolare “per un ‘intervento continuo’ in materia di prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”. Bisognerebbe verificare che ne è stato, dei piani e delle circolari, anche di quelle più risalenti nel tempo che imponevano l’organizzazione di sezioni di “accoglienza” per le persone appena arrivate in carcere e che ormai non esistono più o sono frammiste a sezioni di isolamento o disciplinari: l’esatto contrario di ciò per cui furono pensate. Ma possiamo anticipare sin d’ora che, se omissioni amministrative ci sono state, magari giustificate dalla carenza di risorse umane dell’Amministrazione penitenziaria così come di quelle sanitarie, non tutto è attribuibile alla mancata onnipotenza amministrativa. Piuttosto è all’ambiente penitenziario che bisogna prestare attenzione, come sin dal 2010 ha rimarcato il Comitato nazionale di bioetica, per capire l’insopportabilità della detenzione in carcere di cui i tanti suicidi sono una spia. La scorsa settimana, dopo qualche giorno di suspence, il Ministero della giustizia ha finalmente reso noto il numero dei detenuti nelle carceri italiane il 31 di maggio scorso: 61.547, 1.381 in più dall’inizio dell’anno, per un tasso di affollamento del 129% rispetto ai posti detentivi effettivamente disponibili. Dall’inizio della legislatura, sono cinquemila le persone detenute in più nelle nostre carceri. In questa situazione, che potrebbe rapidamente portarci a nuove sanzioni della Corte europea dei diritti umani, dopo il richiamo del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa della scorsa settimana, la gestione degli istituti penitenziari sconta ancora gravissime carenze di personale, di polizia e non solo. Personalmente ho incontrato agenti impegnati in turni di servizio di sedici ore e nel carcere romano di Regina Coeli, che in questo periodo ospita 1150 detenuti, quasi il doppio della sua capienza, nel turno di notte non si arriva a dieci poliziotti in servizio. Di fronte a questa vera e propria emergenza nazionale, il governo promette nuovi padiglioni penitenziari che non avranno il personale per poter essere aperti e assunzioni di personale che non compenseranno i pensionamenti dei più anziani. Seguono altre fantasie, tipo il rimpatrio di detenuti stranieri che i loro Paesi non vogliono riprendersi, l’utilizzo di caserme dismesse che non si sa chi aprirebbe, il trasferimento coatto dei tossicodipendenti in comunità o l’ultima invenzione di “comunità educanti” finanziate dallo Stato. Intanto la macchina repressiva gira a pieno ritmo, inventando fattispecie penali per ogni cosa, mentre i servizi sociali e sanitari territoriali, che dovrebbero farsi carico della marginalità che in gran parte riempie le carceri (sommando gli affiliati alle organizzazioni criminali e gli altri detenuti per gravi fatti contro la persona non si arriva a ventimila persone) sono depauperati di risorse umane e finanziarie. E mentre si fantastica di soluzioni che stanno tra l’improbabile e l’impossibile, in carcere viene alimentato un clima di tensione: si è iniziato dal taglio delle telefonate straordinarie garantite durante la pandemia e si è passati alla centralizzazione delle autorizzazioni alle attività promosse dalla società civile esterna, all’applicazione di una circolare che impedisce ai detenuti di uscire dalle stanze se non per andare all’aria o per inesistenti attività trattamentali, alla istituzionalizzazione delle squadrette repressive viste all’opera a Santa Maria Capua Vetere e in altre occasioni, fino alla previsione, nel disegno di legge all’esame della Camera, di un reato di “rivolta” carceraria, di cui sarebbe imputabile anche un gruppo di tre detenuti che non rientri dall’aria o in stanza perché vorrebbe rappresentare al direttore, al magistrato di sorveglianza o al garante una condizione di disagio o la violazione di un diritto. E in questo clima ci si sorprende della diffusione di atti di violenza contro gli altri e contro se stessi che registriamo nelle carceri italiane? Bisognerebbe, invece, disarmare il conflitto che cova nei penitenziari, cercare di far venir meno il risentimento così come la disperazione dei detenuti, a partire dal riconoscimento della loro dignità di persone e della loro titolarità di diritti, per esempio ripristinando quella frequenza di comunicazioni con i familiari che si è avuta durante il Covid e dando attuazione alla sentenza della Corte costituzionale che consente ai detenuti incontri riservati con il/la partner. E bisognerebbe poi affrontare obiettivamente il problema del sovraffollamento, non risolubile nel breve periodo con gli strumenti proposti dal Governo e ormai, temo, neanche con la pur meritoria proposta di Roberto Giachetti per un ulteriore sconto di pena a chi partecipi attivamente all’offerta rieducativa del personale penitenziario. Bisognerebbe aver il coraggio di dire che anche i migliori propositi, come quelli condivisi dall’Amministrazione penitenziaria con il Cnel, di promuovere attività di formazione e lavoro tra i detenuti per abbattere la recidiva, potranno funzionare solo se la popolazione detenuta diminuisce drasticamente, non solo per adeguarsi ai posti letto, ma anche al personale e alle risorse finanziarie disponibili. E per far questo c’è solo uno strumento adeguato, previsto dalla nostra Costituzione: l’adozione di un provvedimento straordinario di amnistia e di indulto, che cancelli i reati minori ancora da giudicare e anticipi l’uscita dal carcere dei condannati a fine pena: al 31 dicembre dello scorso anno erano 16mila i condannati a cui mancavano meno di due anni alla scarcerazione, il necessario per tirare una linea e ricominciare daccapo. Lo ha detto Giuliano Amato, incontrando i detenuti di San Vittore a Milano: o così o il numero chiuso, non c’è altro modo per riconoscere la dignità dei detenuti. Io mi permetto di integrare: così e con il numero chiuso, in modo che non si torni in futuro a una condizione di sovraffollamento. Si può fare, investendo il necessario sulle capacità di accoglienza nel territorio della marginalità sociale, e garantendo così le migliori condizioni possibili di vita ai detenuti e di lavoro al personale penitenziario. I Garanti: “Misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri” redattoresociale.it, 18 giugno 2024 Manifestazioni in tutta Italia e un appello alla politica e al Governo per interventi urgenti contro il sovraffollamento e i suicidi. Ciambriello: “Le carceri ormai sono diventate bombe ad orologeria con miccia corta”. I Garanti regionali, provinciali e comunali delle persone private della libertà Oggi manifestano in tutta Italia e diffondono un appello rivolto alla politica e al Governo per interventi urgenti contro il sovraffollamento e i suicidi nelle carceri. Tre mesi fa sul tema il Presidente della Repubblica aveva invitato la classe politica italiana ad adottare con urgenza misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiane, causato principalmente dal sovraffollamento, dalla carenza del personale e dall’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria. “Con grande preoccupazione, la Conferenza nazionale dei Garanti delle persone private della libertà constata, ancora una volta, la sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei detenuti, rispetto al peggioramento delle condizioni di vivibilità delle nostre carceri che, lungi dal consentire “quell’inveramento del volto costituzionale della pena”, continuano a tradire i basilari principi costituzionali, europei ed internazionali, su cui regge lo stato di diritto e a umiliare continuamente la dignità umana delle persone ristrette”. Così in un passeggio del documento firmato dai garanti. Per la Conferenza nazionale è indispensabile che il legislatore individui, immediatamente misure, anche temporanee, volte ad alleggerire la tensione sulla popolazione carceraria. Nel documento della Conferenza nazionale dei Garanti si legge tra l’altro: “È urgente partire dalla discussione e dall’approvazione di misure deflattive del sovraffollamento, facilmente applicabili, come quella contenuta nella proposta dell’on. Giacchetti, quale primo firmatario, volta a modificare l’istituto della liberazione anticipata e a prevedere uno sconto di ulteriori trenta giorni a semestre per i prossimi due anni, rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi (30+45). È necessario adottare un modello di esecuzione penale che si allontani il più possibile dalla visione carcero centrica del sistema punitivo. Cosa che sarebbe già possibile, a legislazione vigente, tramite una maggiore fruibilità da parte delle persone ristrette di misure alternative alla detenzione: al 10 giugno 2024 sono 23.443 le persone con un residuo pena al di sotto dei tre anni, di cui 7.954 con un residuo pena al di sotto di un anno; sono 1.529 i detenuti che hanno una pena inflitta da 1 mese a 1 anno”. Per i Garanti è fondamentale far sì che il carcere cessi di essere quel luogo di “desertificazione affettiva”, dando immediatamente seguito alla decisione della Corte costituzionale con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma dell’ordinamento penitenziario che vieta in carcere lo svolgimento di incontri affettivi intimi e riservati. È necessario inoltre aumentare le telefonate e i giorni dei permessi premio, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti. Particolare attenzione poi deve essere riservata alle persone con dipendenze, che al 10 giugno 2024 risultano essere 17.405 nelle carceri italiane. Risulta necessario incrementare per loro le misure alternative in comunità terapeutiche, ma anche ai detenuti stranieri, presenti in 19.304 al 10 giugno, che faticano più degli altri a vedersi tutelati i propri diritti fondamentali all’interno del carcere, ad avere accesso a prestazioni socioassistenziali e che, per lo più, versano in condizioni di povertà sociale assoluta. Attenzione specifica deve essere rivolta alla condizione alle persone affette da disagi psichici gravi che, pur avendo diritto ad accedere in una Rems, si trovano a scontare la pena in carcere, per via delle ancora troppo lunghe liste di attese per tali strutture riabilitative. Sono 38, al 10 giugno, le persone in lista d’attesa, attualmente in carcere, per una Rems. In questo quadro i garanti pongono l’accento sul fatto che nelle carceri italiane avviene suicidio ogni tre giorni. “I suicidi - sostengono - sono sia il prodotto della lontananza della politica e della società civile dal carcere sia della mancanza di figure sociosanitarie e di ascolto negli Istituti, considerando che chi si suicida o tenta il suicidio, nella maggior parte dei casi sono coloro entrati da poco tempo in carcere o che dovrebbero uscire, ma non vengono accompagnati in questa fase”. “Il sovraffollamento ha creato condizioni inumane. Indignarsi - le parole di Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti delle persone private della libertà e garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - non basta più. I numeri sono agghiaccianti e in estate peggioreranno. Le carceri ormai sono diventate bombe ad orologeria con miccia corta. Il Governo, la politica, la magistratura di sorveglianza, l’Amministrazione penitenziaria e la società civile devono fare la propria parte per far fronte a questa emergenza”. Signori magistrati, schieratevi con noi avvocati contro le morti in carcere di Gianpaolo Catanzariti* Il Dubbio, 18 giugno 2024 Nonostante ogni giorno arrivino, continuamente, le drammatiche notizie di nuovi suicidi fra i detenuti, questa lunga scia di morte, purtroppo, non sollecita più di tanto una diffusa indignazione. Solo poche realtà associative avvertono la vergogna per quanto sta avvenendo nelle carceri italiane. Pochissime quelle in mobilitazione diffusa. Pochi quotidiani, pochissimi intellettuali. Per i media e i politici è come se, risolta la questione personale della cittadina Ilaria Salis o di Chico Forti, l’Italia abbia cancellato il degrado e la vergogna dei propri istituti di pena. Intendiamoci, sono particolarmente felice che, almeno per il momento, questi casi individuali abbiano trovato una risposta positiva. Resto, però, sconcertato per la strafottenza e la superficialità con cui, specie la politica, ma non solo, si approccia al dramma delle carceri. Eppure, la presenza dei detenuti aumenta, mese dopo mese. Al 31 maggio si sono registrate 61.547 presenze in carcere. 250 in più rispetto al mese scorso. Quasi 1.400 in più dall’inizio dell’anno a fronte di un’effettiva capienza pari a 47.000 posti circa. E il numero delle persone incarcerate senza che nei loro confronti sia stata emessa una sentenza definitiva, nessuno dei quali, però, eletto al Parlamento europeo, ha superato le 15.000 unità, e sono almeno 2.000 i detenuti all’estero, in attesa che lo Stato italiano si ricordi anche di loro. Contiamo finora: 44 suicidi almeno. 56 deceduti per cause diverse dal suicidio oppure non ancora accertate. In totale sono 100 le morti in carcere e di carcere. Una cifra impressionante che dovrebbe provocare una generale ondata di indignazione. Solo la comunità dei penalisti, l’Unione delle Camere Penali, ha avvertito, da mesi, il dovere di mobilitarsi, sino alla maratona oratoria che impegna, da diverse settimane, numerose Camere penali. Da Nord a Sud, isole comprese, siamo nelle piazze d’Italia per prestare la nostra voce a chi, privato della libertà, violentato nella sua dignità, non può manifestare il proprio sdegno, se non attraverso il gesto estremo del suicidio. E saremo a Roma, per una manifestazione conclusiva, per sollecitare immediati ed efficaci interventi che fermino la mattanza carceraria, e per iniziare un percorso di riforme che possa riportare l’Italia al rispetto delle sue leggi, della Costituzione e delle Carte internazionali sui diritti dell’uomo. È dall’inizio dell’anno che mettiamo in campo le nostre risorse umane per sensibilizzare politica, cittadini, magistrati, giornalisti. Non per una rivendicazione corporativa: avvertiamo un sentimento diffuso di angoscia e di sofferenza per le condizioni disumane e indegne in cui vivono, costrette, migliaia di persone nelle carceri. Avvertiamo un profondo disagio per come lo Stato costringe le contingentate risorse umane del settore penitenziario a svolgere, in condizioni stressanti, la loro missione. E non ci fermeremo certo alla maratona oratoria per scuotere dal torpore e dall’ignavia le istituzioni, sorde anche ai moniti del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che denuncia, di nuovo, l’inerzia della politica rispetto al dramma dei suicidi, l’incapacità di affrontare l’emergenza carceraria; e stigmatizza la mancata trasparenza sulle azioni messe in campo. Non rimarremo in silenzio dinanzi alla strage di vite in custodia dello Stato, sperando che anche la magistratura esca dall’asfittica visione corporativa che ha indotto l’Anm alla mobilitazione generale, allo sciopero preventivo, all’apertura dei Tribunali di notte per contrastare la separazione delle carriere, ad oggi purtroppo lontana, rimanendo però silente dinanzi alla tragedia dei suicidi in carcere. Ora però basta, signori magistrati! Ora, basta, signori della politica! Basta! Sul carcere è in gioco il prestigio del nostro Paese, il decoro delle istituzioni repubblicane, la difesa della Costituzione antifascista, l’affermazione dello Stato di diritto, la tutela della dignità di ogni uomo. *Osservatorio Carcere Ucpi Pagano: “Quattro suicidi in 24 ore non si erano mai visti: ridurre il sovraffollamento subito” di Ilaria Dioguardi vita.it, 18 giugno 2024 “È la politica penitenziaria che non va. Il legislatore non può pensare soltanto in termini repressivi: non serve a nulla e determina tutti i problemi che abbiamo sotto gli occhi. Il dramma dei suicidi in carcere sta diventando sistematico”, dice Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore per 16 anni e già vice-capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap. Nelle carceri italiane sono stati quattro i detenuti che si sono tolti la vita lo scorso weekend, tra venerdì e sabato, ad Ariano Irpino, Biella, Sassari, Teramo. Salgono a 44 i suicidi negli istituti penitenziari, nei primi cinque mesi e mezzo del 2024: una media di quasi uno ogni tre giorni. Se si continua così, si superano i 70 suicidi dell’anno scorso e il numero record di 84 del 2022. Pagano, cosa può dirci del dramma dei suicidi in carcere? Da tre anni circa il numero dei suicidi tende ad aumentare ma quattro in 24 ore non si erano mai visti. Credo che debba essere un problema da affrontare immediatamente, cercando almeno di diminuire il sovraffollamento: come misura iniziale credo che non si possa fare altro. In che modo si potrebbe diminuire il sovraffollamento? In qualsiasi maniera, è inutile stare lì a girare intorno alla misura da adottare. Che la chiamiamo liberazione anticipata speciale o, come è più giusto chiamarla, amnistia e indulto, bisogna immediatamente cercare di ridurre quest’incidenza del sovraffollamento. Paradossalmente, il sovraffollamento non è dato da grandi criminali. La maggioranza delle persone è in carcere non per delitti gravi, come la massima sicurezza, l’associazione mafiosa, il traffico di droga a livello mondiale, ma è in carcere per altri reati. Oltre un quarto dei detenuti (secondo me anche di più) potrebbe ottenere misure alternative, ma non le può ottenere perché non ha i riferimenti sociali. Cos’altro si potrebbe fare, per ridurre il sovraffollamento nelle carceri italiane? È necessaria una politica penitenziaria amministrativamente condotta: le leggi ci sono e devono cambiare le situazioni di fatto. Non si può vivere in un’organizzazione che dovrebbe prevedere la socializzazione del detenuto e che, invece, un po’ per il sovraffollamento, un po’ per l’organizzazione, lo tiene chiuso nelle celle. Secondo il mio modesto parere, così si crea una situazione esplosiva che, per i più deboli, può portare al suicidio. Il sovraffollamento si registra anche negli Istituti penali per minorenni... Quello è stata la conseguenza del decreto Caivano. La Corte costituzionale ha detto mille volte che, nel momento in cui si pone una fattispecie di natura penale, bisogna ripensare anche a quelli che sono i contraccolpi del sistema penitenziario. Bisogna prima di tutto rispettare la dignità umana (attualmente non lo si sta facendo), poi bisogna tendere al reinserimento sociale. Il legislatore non può pensare soltanto in termini repressivi, ma deve pensare anche che ogni pena deve avere una finalità. Se si toglie questa finalità diventa una repressione pura e semplice, che non serve a nulla e determina tutti i problemi che abbiamo sotto gli occhi. Di recente, il ministro della Giustizia Nordio ha stanziato cinque milioni in più per i servizi psicologici in carcere e ha parlato della possibilità di usare caserme dismesse per costruire nuovi istituti penitenziari. Cosa ne pensa? Il problema del sovraffollamento non si può risolvere soltanto con gli psicologi, a prescindere dal fatto che non ci sono gli psicologi che servono: più si aumentano gli utenti più non si riesce a seguirli perché il personale non basta. Il problema non è soltanto seguire i detenuti, è anche di organizzazione penitenziaria: bisogna dare speranza alle persone in carcere e trattarle come previsto dalle norme. È inutile che ci andiamo a lamentare delle carceri di altri Paesi, come l’Ungheria, e non vediamo come vanno le cose in casa nostra. Soffriamo di presbiopia: vediamo i mali altrui ma i nostri non li vogliamo vedere. Per quanto riguarda le strutture, non servirebbero nuove carceri, ma carceri nuove: servirebbe un nuovo patrimonio penitenziario. Io sono stato per 16 anni direttore del carcere San Vittore di Milano, che è una struttura del 1870, non può gestire una pena così come la prevede l’ordinamento penitenziario. Poggioreale, Regina Coeli, San Vittore sono istituti vecchi che sono incentrati in modo “cellocentrico”, non prevedono spazi per fare delle attività, diventano soltanto depositi umani. Con tutta la buona volontà del personale, della Polizia penitenziaria, degli educatori, dei direttori. Se la politica penitenziaria vuole creare nuove carceri deve farlo non per avere più posti per i detenuti, ma per ridurli e creare carceri a dimensione umana. Questo bisognerebbe fare. In un’intervista per VITA rilasciata al fondatore Riccardo Bonacina, quasi tre anni fa, lei affermava: “Il carcere in questi anni è stato lasciato alla solitudine dei detenuti e degli operatori, senza che l’opinione pubblica si interessasse al problema. Il carcere che si apre all’esterno, il carcere dove entrano i volontari […] diventa un carcere trasparente […]”. In tre anni non è cambiato molto… I problemi sono gli stessi. Le situazioni si vengono a creare in conseguenza di un clima esasperato, tenendo chiusi i detenuti la tensione cresce e basta una scintilla per far scoppiare tutto. La polizia penitenziaria, a volte, deve gestire da sola delle situazioni molto difficili. Lungi da me difendere e giustificare nessuno, ma a volte gli agenti sono vittime e carnefici nello stesso momento. Un paio di mesi fa, a 21 agenti della Polizia penitenziaria del “Cesare Beccaria” di Milano sono stati contestati reati quali maltrattamenti a danno di minori, concorso nel reato di tortura, concorso nel reato di lesioni in danno di minori, un caso di tentata violenza sessuale. Sono fatti che non aiutano una situazione già incandescente... È la politica penitenziaria che non va. Se si lascia un’istituzione senza direttore per anni e non si controlla, il clima di tensione aumenta sempre di più. È come se entri in una camera satura di gas, accendi una sigaretta ed esplodi in aria. Se il detenuto si lascia in cella tantissimo tempo e gli agenti stanno sempre lì a controllare, si esaspera una situazione. Il detenuto deve stare il più possibile fuori dalla cella, deve partecipare ad attività e gli agenti devono controllare il territorio, e non la persona. Prima a causa del Covid, poi per la scarsità di personale il Terzo settore è spesso tenuto fuori dagli istituti penitenziari, soprattutto negli ultimi anni... Il rischio è concreto: se si tengono fuori i volontari, si fanno poche attività, si tengono sempre più i detenuti chiusi nelle celle le situazioni si esasperano. Secondo me manca una politica penitenziaria che significa applicare la legge. Io vedo che la legge non viene rispettata e diventa un paradosso. Qual è il paradosso? Si puniscono le persone perché non rispettano la legge e lo Stato, l’istituzione che dovrebbe dimostrare a chi l’ha violata come si coniuga il rispetto della legge è la prima ad essere fuorilegge. Il carcere non è più un’istituzione che porta all’umanità e che tende al reinserimento ma tradisce se stessa e diventa punizione pura e semplice. E quindi diventa terra di conflitto. Sono situazioni che ho visto all’inizio della mia carriera, ma c’erano i brigatisti, una situazione sociale diversa, criminali differenti. Adesso rischiamo di “fare come i capponi di Renzo”: tutti litigano con tutti e non si capisce in che direzione si stia andando. Ingiusta detenzione, uno su mille ce la fa di Antonio Mastrapasqua* Il Riformista, 18 giugno 2024 Di chi sarà la colpa dell’errore? Solo delle indagini di polizia giudiziaria? E non anche del pm o dei giudici? Politici e magistrati si somigliano più di quanto si possa credere. Intenti a cercare simboli ma distratti dalla realtà. Uno su mille ce la fa. Non è confortante per gli altri 999. La proporzione è più o meno quella delle vittime della malagiustizia. Circa mille all’anno i cittadini italiani che subiscono ingiusta detenzione. Ilaria Salis non è tecnicamente in questa contabilità, poiché la sua detenzione si è consumata in Ungheria. E prima di ogni sentenza è impossibile definire una detenzione “ingiusta”, se non per le disumane condizioni in cui la giovane maestra milanese è stata esposta e sottoposta prima e durante l’avvio del processo a suo carico. Ma certo è che le reazioni di fronte a quelle immagini hanno prodotto una condizione particolare, in qualche modo privilegiata. La stessa telefonata del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al padre di Ilaria, indica una eccezionalità, ottima per chi ne gode, un po’ frustrante per chi ne resta escluso. Roberto Salis ha raccontato che il Capo dello Stato “ha ribadito la sua vicinanza personale a me e alla famiglia e mi ha garantito il suo personale interessamento al caso”. Ci sono circa duemila cittadini italiani detenuti all’estero, più di 500 in Paesi extraeuropei, probabilmente - soprattutto questi ultimi - in condizioni poco rispettose della dignità umana. Perché tanta attenzione a una sola? Inutile negare che la vita pubblica, non solo la politica, abbia bisogno di simboli. Ma resta il drammatico fatto che per un caso che diventa simbolo, ce ne sono altre centinaia (migliaia?) che restano nell’ombra. A suo modo anche il caso di Chico Forti è uno di quelli che è (finalmente) uscito dalla cortina dell’apparente sopruso. Si tratta di una situazione ancora diversa. In questo caso c’è una condanna - sentenziata in un Paese che difficilmente può essere considerato culla della barbarie - che per molti è una condanna ingiusta. Ben venga dopo 24 anni l’estradizione in Italia, dove almeno potrà ricevere visite e attenzioni dei familiari e degli amici ai quali era stato di fatto sottratto: ma come dicevamo prima ci sono altri duemila italiani che sono (a torto o a ragione) dietro le sbarre di un carcere straniero. Nel caso di Chico Forti l’attenzione speciale non è stata quella di Mattarella, ma della premier Giorgia Meloni. Buon per lui, ma questa selettività nell’intervento delle Istituzioni lascia qualche perplessità. Come accade spesso il tema “giustizia” si presta a ogni tipo di strumentalizzazione politica. Andare in carcere a far visita ad Alfredo Cospito è un atto meritorio e degno di patente progressista; invece, verificare le condizioni di detenzione dei due cittadini americani - Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder - accusati di aver ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega fu quasi oggetto di censura da parte dell’allora segretario del Pd, Zingaretti. E poi ci sono le clamorose amnesie. Come quella che sembra aver colpito collettivamente tutti - politici, magistrati, giornalisti, opinion maker di ogni risma - di fronte alla vicenda di chi, come Beniamino Zuncheddu, si è fatto 33 anni di carcere, è stato riconosciuto innocente. Irene Testa e Gaia Tortora (sì, la figlia di Enzo) hanno fatto tanto per svelare i tragici errori che hanno portato all’ingiusta condanna di Zuncheddu. Ma il “caso” è rimasto impigliato nell’informazione di serie B, nessun politico se lo è intestato, nessun magistrato è stato accusato. La politica, tanto lesta, a cogliere e intestarsi un “caso” di ingiustizia (vera o presunta), fatica a imputare l’errore al giudice che sbaglia. Di chi sarà la colpa dell’errore? Solo delle indagini di polizia giudiziaria? E non piuttosto anche del pubblico ministero, o dei giudici che avrebbero dovuto liquidare con minor frettolosità le tesi difensive di Zuncheddu, ricorrendo ad aggettivi quali ‘fantasiose’, ‘assurde’, ‘disperate’? Nel caso del Pm, ci sono altri casi di errori giudiziari in carriera, e non risulta che abbia mai ricevuto sanzioni dal Csm. Nel caso dei giudici giudicanti, l’errore Zuncheddu è stato seguito da splendide carriere (così come successe ai giudici del caso Tortora). *Ex presidente Inps Riforma della giustizia, quella linea sottile tra democrazia e politica di Giuseppe Maria Berruti La Stampa, 18 giugno 2024 Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, stabilisce l’articolo 112 della Costituzione. Segnando uno storico allontanamento da ogni sistema che sottoponga l’azione stessa ad una valutazione discrezionale. La questione, eterna, è ridiventata attuale. Essa è comunque, di grande importanza democratica e politica. La repressione dei reati presuppone l’accertamento dei fatti che hanno preceduto un evento, in ipotesi cagionandolo. Si parte da quello che può essere delitto. Il cadavere di una persona che riporta ferite può essere dato il prodotto dell’intento, portato a termine, di uccidere. Oppure può essere frutto di suicidio, o ancora, di uso imprudente di armi. Esso è, in ogni caso, indizio il quale segna la possibilità che vi sia stato un delitto. A fronte di questa possibilità, accertata secondo regole codificate, il pubblico ministero deve procedere. Per stabilire dentro un meccanismo attentamente regolato dalla legge, che garantisce anche l’imputato che non c’è, e che non è detto vi debba essere, circa la completezza e la imparzialità dell’accertamento. Si serve del lavoro della polizia giudiziaria, valutandone gli esiti e stabilendone le conseguenze processuali. Dunque, con l’osservazione di tutte questo complesso di regole, svolge una indagine al termine della quale decide se chiedere un giudizio nei confronti di un cittadino, oppure il non luogo a procedere per non esservi delitto. Questo delicato, costoso, complesso meccanismo di poteri e di garanzie, serve a far sì che l’esercizio della giurisdizione penale sia consapevole delle garanzie di difesa. È il rispetto della difesa che caratterizza una giurisdizione democratica rispetto ad una giurisdizione tout court, che può anche essere efficace. Ma che è cosa diversa da quella della nostra Costituzione. La giurisdizione è uno dei costi della democrazia. Essa mette la forza dello Stato, la sua capacità di essere legittimamente violento, dentro un sistema di posizioni forti del cittadino: i diritti. Polizia e giudice contano meno della legge. Il rapporto tra le funzioni dello Stato è impostato anzitutto sulla loro legalità. Il tema, oggi, è la cosiddetta separazione delle carriere, che sostanzialmente si tradurrebbe nella distinzione non soltanto processuale, oggi esistente, tra giudicante ed inquirente, ma anche sostanziale. La quale porterebbe ad una formazione di base del pubblico ministero diversa da quella giudicante e quindi, nel dispiego del suo lavoro e della sua carriera, sottoponendolo ad un organo diverso da quello che governa, segue, giudica i magistrati giudicanti. La magistratura inquirente sarebbe un corpo nuovo, che oggi non esiste. Non sarebbe più soltanto una funzione giudiziaria specifica rispetto ad altra. Sarebbe il corpo al quale verrebbe assegnata la funzione della iniziativa penale. Retto da un suo proprio ordinamento, e non più da regole facenti parte dell’ordinamento giudiziario. La questione è di principio. Essa legittima le contrapposizioni tipiche delle questioni di questa natura. Il rischio è che in qualche modo essa divenga esclusivamente ideologica. Io parto dalla osservazione per la quale il Governo si sta occupando di un problema reale: le disfunzioni della giustizia. Intendiamoci, la migliore, ideale giustizia, che potessimo realizzare, comunque implicherebbe un certo numero di insufficienze. La sensibilità delle democrazie si verifica anche da come reagiscono alle insufficienze medesime. Esse non sono tollerabili. La lotta per il diritto, in questo senso, è davvero eterna. L’obiettivo dovrebbe essere anzitutto di tener conto della distinzione essenziale tra magistrato inquirente e poliziotto che opera nella indagine. Sono due diverse funzioni dello Stato. Metterle, come può accadere, dentro una giustizia separata in due corpi, nella inevitabile vicinanza di funzioni, può portare a percorrere un cammino inverso a quello che il diritto di difesa, e gli avvocati, hanno compiuto. Mettere all’inquirente un abito professionale obiettivamente diverso da quello del giudice significa creare un genus oggi tutto da riempire. E questo, credo, comporterebbe un costo politico enorme, rischi di inconvenienti ancora non conosciuti, ed un indebolimento, possibile almeno, del sistema costituzionale della giustizia. Che difficilmente coprirebbe la fase investigativa affidata alla polizia. Perciò, sarà bene far ragionare tutti i protagonisti del processo penale. Scioperi e comitati referendari: ecco il piano di lotta dei magistrati di Valentina Stella Il Dubbio, 18 giugno 2024 Anm in campo contro le riforme del ministro Nordio. Clima tesissimo nei Tribunali tra avvocati e magistrati. Ma Santalucia invoca il dialogo: “Non possiamo disertare gli incontri pubblici”. Usare tutti gli strumenti a disposizione e occupare ogni spazio possibile: questa la strategia decisa sabato dal Comitato direttivo centrale di una compatta Associazione nazionale magistrati per contrastare il disegno di legge costituzionale su separazione delle carriere, sorteggio nei due Csm e Alta Corte disciplinare per le toghe ordinarie. Fonti parlamentari ci dicono che sarebbe confermato l’inizio dell’iter di discussione alla Camera dei deputati, ma si chiarirà tutto nell’Ufficio di presidenza che dovrebbe tenersi in settimana. Intanto la magistratura associata non resta a guardare e si prepara alla maratona perché, come è noto, ci sarà prima un lungo iter parlamentare da seguire e poi molto probabilmente un referendum. E in tutto questo tempo, dal punto di vista di un’Anm assolutamente ostile alla riforma, occorre essere presenti in modi diversi. Innanzitutto con una o più giornate di astensione dall’attività giudiziaria, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sui presunti pericoli della riforma. Lo “sciopero”, o meglio gli scioperi si faranno, ma distribuiti nei mesi. E poi, come rilanciato inizialmente dalla corrente progressista “AreaDg”, la partecipazione alle iniziative di eventuali comitati referendari, istituiti innanzitutto con costituzionalisti e giuristi, in modo da sostenere il “No” a tutte e tre le modifiche costituzionali previste dal ddl Nordio. Su quest’ultima proposta, sabato mattina era emersa all’inizio qualche perplessità da parte degli altri gruppi associativi: l’obiezione prevalente era che, essendo i referendum lontani dal venire, non avrebbe avuto senso mettere ora nero su bianco un progetto del genere. Ma poi, dopo alcune interlocuzioni tra i big delle correnti, si è capito che i comitati per il No non lavorano soltanto nelle settimane della campagna referendaria per occupare gli spazi istituzionali previsti per il dibattito, bensì svolgono un’attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica durante tutto l’itinerario di formazione di una legge. Ad esempio, sono già nati dei comitati per il No al premierato, come quello dell’Anpi. Quindi si è presa consapevolezza che l’Anm potrebbe assumere un ruolo da protagonista, facendosi promotrice di un comitato aperto a tutte le forze politico-associative e sindacali che si riconoscono nella battaglia “per la difesa della Costituzione”, attraverso il contrasto alla riforma dell’ordinamento giudiziario, così come pensata dal ministro della Giustizia e dal governo in generale. Le altre iniziative messe in campo puntano a rafforzare la comunicazione, “senza usare slogan” e non disturbando Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Licio Gelli, ha detto il leader dell’Anm Giuseppe Santalucia. Poi dibattiti sul territorio e una manifestazione nazionale. Il tutto intrecciando gli argomenti giuridici a quelli meramente politici: la logica della magistratura associata è insomma riassumibile nel motto “l’unione dialettica fa la forza”, sia dentro che fuori dal Parlamento, dove sicuramente gli esponenti del “sindacato” delle toghe saranno chiamati in audizione. Il duplice obiettivo è quello di mettere in evidenza le presunte criticità tecniche della riforma ma anche far emergere le argomentazioni politiche sottese alla modifica costituzionale, che secondo l’Anm consisterebbero nella volontà di “ridurre se non eliminare del tutto il controllo della magistratura sull’attività politico-amministrativa”. Sulla mozione approvata nel fine settimana dell’Anm è arrivato il duro attacco dell’Unione Camere penali, promotrice della raccolta firme da cui, nel 2017, il lungo cammino della proposta di riforma ha avuto origine: “L’Associazione nazionale magistrati - scrive la giunta Ucpi guidata da Francesco Petrelli - lancia apertamente la propria sfida al Parlamento e sceglie la strada di una aperta politicizzazione della sua azione. Si potrebbe dire che il potere giudiziario abbia gettato la maschera, contrapponendosi apertamente a quello legislativo, se non fosse che è evidente a tutti da almeno trent’anni che nessuna riforma possa essere portata a termine in questo Paese senza il consenso della magistratura. Un potere che domina indisturbato il proscenio della nostra democrazia ben oltre le competenze e le funzioni che sono state attribuite dal Costituente alla magistratura”. Gli ha replicato Ciccio Zaccaro, segretario di “AreaDg”: l’Ucpi, dice, “si indigna per la mobilitazione della Anm per ristabilire la verità sulla inutile e anzi dannosa riforma della magistratura promossa dal governo. Non posso credere che l’avvocatura italiana si preoccupi di questo e non del fallimento della difesa dei non abbienti, delle pene spropositate per i reati di strada, per il disciplinare a carico del magistrato che preferisce mettere un cittadino ai domiciliari invece che in galera, per i tempi della giustizia civile che pare tornino ad allungarsi”. L’atmosfera tra avvocatura e magistratura è tesa, come non lo era da decenni. Come abbiamo potuto appurare frequentando i corridoi della cittadella giudiziaria di Piazzale Clodio, ma anche raccogliendo testimonianze al “parlamentino” Anm di sabato, tra i vari aspetti critici segnalati dalla magistratura sembra esserci proprio il senso di delusione e di sconforto nei confronti dei legali. Le toghe sostengono che l’avvocatura non riesce a capire che un pm separato sarebbe un danno per tutti, a partire dai difensori e dai diritti dei loro assistiti, e che questa riforma finirebbe per creare una figura di pubblico ministero completamente alienato dalla cultura delle garanzie e del giusto processo. Il presidente Santalucia, comunque, rispondendo indirettamente anche al sostituto procuratore di Bologna Nicola Scalabrini, che aveva annunciato di non volere più partecipare ai dibattiti organizzati dai Coa, ha detto: “Non possiamo disertare i confronti pubblici”. Anche nella mozione finale dell’Anm è ribadita la necessità di un confronto con l’avvocatura. Santalucia ha poi accennato al percorso parallelo che potrebbe avere la riforma sull’avvocato in Costituzione, sollecitata da anni da tutte le rappresentanze forensi, Cnf in testa: “Non si illudano, gli avvocati, che mettendo la parola avvocato in Costituzione, in questo contesto, con questa riforma possano potenziare la loro essenziale funzione, che vive all’interno di una giurisdizione autonoma e indipendente, condizione necessaria anche per la loro indipendenza”. I minorenni e il crimine: non aumenta il numero di reati ma cresce la violenza di Gianni Santucci Corriere della Sera, 18 giugno 2024 Dossier dell’Università Cattolica sulla delinquenza minorile: l’età media del primo reato si è abbassata a 15 anni e mezzo. Tra i ragazzi stranieri aumenta il disagio psicologico o psichiatrico. Una rapina. Un’aggressione violenta, spesso con lesioni. Sono stati i primi reati commessi da sette ragazzi su dieci, tra quelli arrestati o denunciati nel 2022-23. In percentuale, si tratta di quasi il doppio rispetto al 2015-16: meno di dieci anni fa, alla voce primo reato, la maggioranza dei ragazzi aveva furto, o spaccio. Comunque crimini, ma senza violenza o danni alle persone. L’inizio della delinquenza con un eccesso di aggressività è il dato più significativo (e allarmante) che emerge dallo studio: “Le traiettorie della devianza giovanile”, appena pubblicato dal centro di ricerca “Transcrime” dell’università Cattolica. La percezione di un aumento della delinquenza minorile viene da un paio d’anni banalizzata ed enfatizzata a fini politici. La ricerca del gruppo di studiosi guidato dal professor Ernesto Savona (con Marco Dugato) traccia invece una mappa più connessa alla realtà e più complessa. Ruota intorno a un elemento chiave: “I tassi di delinquenza giovanile nel periodo pre e post-pandemico non mostrano una significativa variazione. Si rileva però come siano aumentati in maniera importante i reati di natura violenta commessi da giovani e giovanissimi”. Più semplicemente: “Non aumentano i reati, ma cresce la violenza. Il cambiamento non è quantitativo, ma qualitativo”. Analisi delle statistiche. Ma soprattutto: approfondimento su cento fascicoli di minori e giovani adulti presi in carico dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni (articolazione del ministero della Giustizia) di Milano. Paragone tra due bienni: 2015-16 e 2022-23. La distanza di tempo permette di tracciare le traiettorie di evoluzione. Oltre l’aumento della violenza, c’è l’abbassamento dell’età. Dopo la pandemia, tra i ragazzi arrestati o denunciati, l’età media del primo reato si aggira sui 15 anni e mezzo; prima, era oltre i 16 anni. “Nel campione 2022-23, più della metà dei giovani (52 per cento) ha compiuto il primo reato entro i 15 anni, mentre nel 2015-16 questa percentuale era del 32 per cento”. Tra i ragazzi italiani, si nota un più marcato abbassamento dell’età. Spiega il professor Savona nella sua presentazione: “Vogliamo capire se gli episodi ai quali assistiamo sono casuali oppure l’inizio di una nuova fase di trasformazione della devianza giovanile, più pericolosa, più aggressiva e più allarmante. La risposta arriverà nei prossimi anni, ma per evitare il rischio di questa trasformazione da episodica a sistemica dobbiamo intervenire oggi”. Il cambiamento è delineato dalle statistiche. Pone interrogativi. Quello fondamentale: cosa è cambiato? Ovvero: da che radici s’alimenta l’aumento della violenza? I ricercatori possono offrire spunti. Offrire mappe. A partire dalle nazionalità: la metà dei ragazzi che hanno problemi con la giustizia sono italiani in entrambi i periodi analizzati; variazione minima anche per i giovani di seconda generazione (uno su dieci); in un caso su quattro si tratta invece di ragazzi stranieri nati all’estero: con prevalenza dei Paesi del Nord Africa, mentre nel 2015-16 la provenienza era più da Paesi dell’Est Europa. Anche la percentuale di minori non accompagnati è sostanzialmente stabile. Come non è diversa la percentuale (tra 60 e 70 per cento) di minori con problemi di abuso di alcol e sostanze. L’elemento che più spicca nella comparazione tra i due periodi è definito nel paragrafo dedicato al “disagio psicologico e relazionale”: “In aumento, rispetto a quanto evidenziato nei ragazzi presi in carico nel 2015-16, i casi di disturbo dell’emotività, ritardo cognitivo, stress post-traumatico e disturbi specifici dell’apprendimento”. Disagio psicologico o psichiatrico che si traduce spesso in “atti violenti contro le persone e, seppur minoritari, atti di autolesionismo o tentati suicidi. Sono soprattutto i ragazzi stranieri nati all’estero ad aver registrato un aumento in tutte queste categorie di agiti devianti”. Rapine e aggressioni sotto i quindici anni: “reati sempre più violenti” di Andrea Gianni Il Giorno, 18 giugno 2024 Il dossier Transcrime: sette su dieci iniziano con una razzia o un pestaggio. Disagio e solitudine benzina sul fuoco. Il primo reato, per oltre la metà del campione analizzato, viene commesso prima dei 15 anni, con un’età media in calo rispetto alle precedenti rilevazioni. E il 72% dei giovani ha vissuto il suo triste debutto nella criminalità con “una rapina, un reato violento o un concorso fra queste due fattispecie”, mentre in passato prevalevano i furti o i reati legati agli stupefacenti. Nonostante questo, aumentano gli adolescenti autori di reati con problemi di dipendenza o di uso di sostanze stupefacenti. Il numero dei reati non cresce, ma cresce piuttosto “la natura violenta dei reati commessi” dai più giovani. Una fotografia scattata da uno studio esplorativo condotto dal centro di ricerca dell’Università Cattolica Transcrime, partendo dai dati dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni (Ussm) di Milano, insieme al Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (Dgcm) del ministero della Giustizia. “Gli episodi di devianza giovanile ci fanno credere a un aumento dei casi - spiega il professor Ernesto Savona, direttore di Transcrime - ma i dati raccontano un problema diverso: ad aumentare non sono i numeri, ma la violenza allarmante dei comportamenti. Per evitare che questa trasformazione divenga sistemica, dobbiamo intervenire nelle cause e nei rimedi”. La presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, propone di “investire in maniera strutturata sulla prevenzione del disagio dei ragazzi e degli adolescenti, garantendo maggiori risorse e migliore coordinamento ai servizi sociali e a quelli psicologici e sanitari al fine di intercettare in tempo utile i segnali di malessere”. I ricercatori hanno comparato 50 cartelle di ragazze e ragazzi presi per la prima volta in carico dall’Ussm di Milano nel 2015-2016, con quelle di altrettanti minorenni presi in carico nel 2022-2023. E i risultati fanno suonare un campanello d’allarme. La crescita della violenza, descritta dalla maggiore incidenza di reati come rapine e lesioni personali, l’età media sempre più bassa e la crescita del “disagio psicologico e relazionale” che sfocia anche in gesti di autolesionismo o tentati suicidi. Cresce inoltre l’incidenza di “ragazzi con rapporti conflittuali e violenti con genitori o familiari” e si assiste a un “incremento rilevante” dei Neet, giovani che non studiano e non lavorano, tra gli italiani e le seconde generazioni. Adolescenti che, generalmente, non provengono da particolari situazioni di disagio socioeconomico. Tra i due periodi analizzati ci sono anche “fattori di continuità”, come gli ovvi problemi scolastici fra gli studenti autori di reato e il fatto che la maggior parte dei reati vengono commessi in concorso fra più persone, baby gang o gruppi di coetanei che si riuniscono per delinquere. In mezzo, tra i due periodi esaminati, c’è stata anche la pandemia, che ha amplificato le fragilità psicologiche e comportamentali dei giovanissimi. E la diffusione dei social ha portato a una “mercificazione del crimine”, con la diffusione online di contenuti violenti per un “ritorno economico o di visibilità”. Poi c’è il problema della recidiva perché la scommessa - al momento persa - è quella di riuscire a interrompere la spirale dopo il primo reato: il 44% dei ragazzi presi in carico nel 2022-23 è stato coinvolto in più di un procedimento. Il 16% ha commesso almeno un altro reato dopo la prima presa in carico. il 50% dei procedimenti ha visto l’applicazione di misure cautelari, con una crescita del ricorso alla messa alla prova, e solo per i casi più gravi si sono aperte le porte del Beccaria, struttura che nonostante questo sconta una cronica situazione di sovraffollamento. Il detenuto al 41bis può ascoltare musica su cd di Carlo Romano La Repubblica, 18 giugno 2024 La Cassazione: “Il carcere lo permetta. È un piccolo gesto di normalità”. I vertici del penitenziario Mammagialla di Viterbo si erano opposti: “I compact disc possono contenere messaggi dall’esterno o essere usati come lame”. Gli Ermellini: rivedere la decisione. Che il boss sia libero di ascoltare i suoi cd. Il via libera arriva direttamente dalla Cassazione: secondo gli Ermellini non si può vietare la musica ai detenuti, nemmeno a chi è in regime di carcere duro. La decisione arriva dopo il ricorso di Saverio Faccilongo, detenuto nel penitenziario viterbese Mammagialla: era ai vertici del clan Strisciuglio di Bari, il gruppo criminale che controlla le operazioni al quartiere San Pio. La lotta per la musica del “Benzina”, come lo chiama il resto della truppa a Bari, è partita nell’ormai lontano 8 aprile 2021. Quel giorno, ricorda Tusciaweb, la direzione del carcere gli ha vietato l’acquisto di un lettore cd e dei compact disc. Il 14 aprile 2023 è arrivata la conferma del magistrato del Tribunale di sorveglianza. Quindi la Cassazione, che ha chiesto alla toga di rivedere la sua decisione. Era già accaduto per altri due detenuti al 41 bis, un mafioso e un camorrista. Perché il boss è arrivato a bussare alle porte della Cassazione? Per i vertici del carcere, i cd sono pericolosi: possono contenere incisioni con messaggi provenienti dall’esterno e in più sono oggetti taglienti. Poi, se il detenuto vuole sentire la musica, ci sono sempre radio e tv in camera. Previsioni datate e non più contemporanee secondo gli Ermellini. “La possibilità di ascoltare musica per mezzo dei cd rientra, a pieno titolo, in quei ‘piccoli gesti di normalità quotidiana’ che la Corte Costituzionale ascrive ai legittimi ambiti di libertà residua del soggetto detenuto”, si legge nelle motivazioni dell’ordinanza che rinvia il caso al magistrato di sorveglianza. Per quanto riguarda la sicurezza in carcere, la Cassazione chiede controlli sui cd e scrive pure che “non appare pertinente il riferimento, contenuto nell’ordinanza impugnata, alla possibilità di utilizzo dei cd quali eventuali strumenti di offesa, giacché il regime differenziato, come più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, non ha quale scopo quello di contenere la cosiddetta pericolosità penitenziaria del singolo detenuto, cui sono finalizzati altri differenti istituti, come la sorveglianza particolare”. Teramo. Santoleri suicida in cella, le ultime parole: “Non posso più andare avanti” di Diana Pompetti Il Centro, 18 giugno 2024 Lo aveva detto agli altri detenuti che avevano cercato di confortarlo dopo il nuovo rinvio dell’udienza al tribunale di sorveglianza: “Così non posso più andare avanti”. Ora che la cronaca di un altro suicidio nel carcere di Castrogno sposta il pendolo sui tempi lunghi dei procedimenti giudiziari, le ultime parole di Giuseppe Santoleri prima di soffocarsi con una corda raccontano una tragedia annunciata. Con il nome del 74enne pensionato giuliese in carcere per scontare una condanna definitiva a 18 anni per aver ucciso insieme al figlio Simone la ex moglie Renata Rapposelli, pittrice di Chieti, che diventa il 44° dell’elenco dei detenuti che in Italia dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita. Numeri che fanno mobilitare anche il Consiglio d’Europa che nella seduta di venerdì ha espresso grande preoccupazione chiedendo al Governo l’adozione di misure urgenti. Tragedie diverse che diventano il volto più drammatico di carceri sovraffollate con agenti di polizia costretti a fare i conti con personale sempre più esiguo. E con differenze a segnare la realtà. Come nel caso di Giuseppe Santoleri, malato da tempo: per lui niente autopsia, il pm di turno ha già dato il nulla osta per la sepoltura, ma fino a ieri nessuno si è presentato in obitorio per i funerali. Dopo l’ultimo suicidio a Castrogno, il terzo in sei mesi, il sindaco Gianguido D’Alberto, che in passato ha più volte chiesto l’intervento del ministro della giustizia Carlo Nordio, dice: “Non è più il tempo degli appelli. Quello che succede nel carcere di Castrogno, dove da anni esiste una situazione di emergenza, non può che essere addebitato al silenzio e all’inerzia del Governo”. Il deputato di Azione Cesare Sottanelli, che ricorda di aver già presentato un’interrogazione a Nordio sulla situazione a Castrogno rimasta senza risposta e un esposto in Procura, annuncia un question-time per sollecitare interventi immediati da parte del Governo. E la federazione provinciale del Partito Socialista di Teramo lancia la proposta per la nascita di un comitato permanente “Carcere e Territorio” da istituire in Comune o in Provincia. Per l’associazione Antigone che si batte per i diritti dei detenuti: “Quella dei suicidi in carcere è un’emergenza nazionale. Ariano Irpino, Biella, Sassari, Teramo sono le quattro carceri dove tra venerdì e sabato, in 24 ore, si sono suicidate le ultime quattro persone detenute. Ultime delle, finora, 44 che si sono tolte la vita in un istituto di pena nei primi 5 mesi e mezzo del 2024, una ogni quasi tre giorni. Un numero che se continuasse a crescere a questo ritmo supererebbe il dato del 2022 con 85 suicidi”. L’associazione chiede a Governo e Parlamento di affrontare l’emergenza anche a fronte di una situazione di sovraffollamento “sempre più grave, con oltre 14.000 persone detenute senza un posto regolamentare, condizioni di vita sempre più difficili per i reclusi e di lavoro faticosissime per gli operatori penitenziari”. Per Antigone “serve intervenire con provvedimenti che portino a una riduzione del peso sulle carceri attraverso la concessione di misure alternative; serve liberalizzare le telefonate dotando le celle di telefoni laddove (ed è la maggioranza dei casi) non sussistano problemi di sicurezza rispetto ai contatti con l’esterno; serve assumere personale; serve ridurre il peso dell’isolamento; serve che si modernizzi la pena carceraria; serve che la vita in carcere sia piena di iniziative, senza ostacoli o burocrazie; serve che non vi sia mai violenza”. Verona. “Non c’è più tempo, fermiamo i suicidi in carcere” di Lauras Tedesco Corriere di Verona, 18 giugno 2024 “Non c’è più tempo, fermiamo i suicidi in cella”. Morire di carcere, morire in carcere. La lista delle vittime dei primi sei mesi dell’anno in Piazza dei Signori: 44 morti volontarie in cella nel 2024, le ultime 4 nell’ultimo fine settimane. Data, nome, causa del decesso: l’atroce elenco, scandito nel “salotto” più elegante di Verona dagli avvocati della Camera penale scaligera, in una maratona oratoria che per tre ore ha coinvolto legali, politici locali di entrambi gli schieramenti, ma soprattutto la società civile, associazioni, cooperative sociali, il maestro di teatro Anderloni, persone che sono state detenute in carcere. Tutti uniti a denunciare una emergenza che vede direttamente coinvolta Verona: cinque suicidi tra lo scorso novembre e febbraio di quest’anno, un gravissimo e irrisolto problema di sovraffollamento. Basti pensare che, rispetto a una capienza prevista di 335 detenuti, in questo momento il totale delle persone recluse a Montorio sfiora quota 600. Il garante dei detenuti di Verona, don carlo Vinco, non ha potuto partecipare all’evento causa Covid, ma ha comunque voluto mandare un messaggio dai toni inequivocabili: “Condivido molto la vostra iniziativa. Spero serva ad aiutare la cittadinanza a pensare al carcere in grave crisi. Il sovraffollamento è ormai scandaloso. I suicidi sono un sintomo e un fatto terribile”. Per il presidente della Camera penale di Verona, Paolo Mastropasqua, “lo scopo è sensibilizzare la politica, i media e la società civile affinché si realizzi una presa di coscienza della situazione disumanizzante in cui versano gli istituti penitenziari del nostro paese. Questi numeri allarmanti impongono una assunzione di responsabilità collettiva, soprattutto da parte di coloro che hanno il potere, anzi il dovere, di fermare questo tragico conteggio”. Il legale Simone Bergamini, dell’Osservatorio nazionale carcere e del direttivo della Camera scaligera, sottolinea che “c’è stata moltissima partecipazione, con più di 40 oratori alla maratona oratoria. Purtroppo non abbiamo riscontrato la presenza della direzione del carcere e della magistratura, ma come Camera penale non demordiamo e cercheremo di coinvolgerle in altre iniziative per il carcere”. Per la legale Barbara Sorgato dell’Unione Camere Penali “l’obiettivo è avere una risposta dalla politica”. Brescia. Il racconto dei detenuti: “Ci stanno privando della nostra umanità” di Valerio Morabito Corriere della Sera, 18 giugno 2024 Il tema del sovraffollamento nelle parole dei detenuti della Casa circondariale bresciana, tra suicidi e condizioni igieniche precarie. L’indice di sovraffollamento del carcere di Brescia supera il 200%, ben al di sopra della media nazionale (115%) e anche lombarda (152%). Numeri che, come da consuetudine, non fanno molto effetto. Invece colpiscono, come un pugno nello stomaco, i racconti dei detenuti della casa circondariale bresciana i quali hanno posto l’accento sulle le loro pesanti condizioni. “Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle - dice uno di loro- e si appiccica con vestiti addosso. Si boccheggia in cella e l’acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanta agognata doccia, evaporando riempie d’umidità il luogo”. “Dovevo andare in bagno - aggiunge un detenuto - ma era occupato. Altri quindici erano in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni ha il mio stesso problema, purtroppo per lui e per noi non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca a fatica di alzarsi dalla branda. In un attimo, lenzuola e materasso si impregnano di liquami e urina. Lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato e attonito. Piange, un uomo di 74 anni, si scusa, si lamenta”. “A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti. Di persone non autosufficienti in questo istituto ce ne sono parecchie. Sono elevati i suicidi in carcere, 44 da inizio anno. È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione. Ma è vero che oggi con questo sovraffollamento le persone detenute vengono poco alla volta, giorno per giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura”. Sono le parole e le storie di chi vive all’interno del carcere di Brescia. Episodi che sono stati raccolti in una lettera che, insieme ad alcune proposte formulate dai detenuti per affrontare il tema del sovraffollamento penitenziario, sono state trasmesse a tutti i parlamentari e senatori bresciani in vista di un incontro con i carcerati nella biblioteca della casa circondariale Nerio Fischione. Vicenza. La nuova direttrice del carcere: “La situazione non è facile, ma sta migliorando” di Francesco Brun Corriere del Veneto, 18 giugno 2024 “Abbiamo passato un periodo di forte salita. Ora sicuramente non siamo in discesa, ma possiamo dire che siamo sul piano”. Si è presentata con queste parole Luciana Traetta, da novembre direttrice della casa circondariale di Vicenza, nel corso della seduta congiunta della IV e della V commissione consiliare di ieri. Un’assemblea organizzata per poter approfondire le difficili condizioni del carcere cittadino e dei detenuti e durante la quale la direttrice ha potuto fornire ai consiglieri presenti le sue impressioni. “Ho trovato una situazione particolare al mio arrivo nell’istituto - le sue parole -, in quanto era evidente che fosse mancata una figura che facesse da guida e da collante tra dentro e fuori del carcere. Sono arrivata in un momento di cambiamenti, perché oltre alla mia figura è cambiato anche il comandante, anche se non in pianta stabile. Diciamo che la macchina dell’istituto è stata per lungo tempo senza benzina, mentre ora le figure stanno tornando al loro posto”. Stando ai dati forniti dalla direttrice, sono 328 i detenuti reclusi nella casa circondariale di San Pio X, ai quali si aggiungono 25 collaboratori di giustizia. Dei carcerati, tra il 30 e il 40% sono stranieri, mentre quasi la metà non hanno una condanna definitiva. Il tempo di permanenza medio nella struttura berica è di 18 mesi, e per quanto riguarda le recidive due detenuti su dieci tornano in carcere dopo essere stati rimessi in libertà. Le problematiche maggiori, spiega Traetta, riguardano la carenza di personale, e in particolar modo il reparto di polizia penitenziaria che non è mai stato adeguato all’aumento della popolazione detenuta, anche se qualcosa si sta muovendo. “Abbiamo avuto una nuova unità dal corso che si è appena concluso - spiega -, mentre dal prossimo, che si concluderà a luglio, ne avremo altri sei. Per quanto riguarda gli educatori, so che ci sono delle interlocuzioni per risolvere il problema, e ne abbiamo una nuova in servizio per cinque giorni a settimana. Arriveranno poi nuove unità di contabili, mentre in autunno sarà presente un comandare in pianta stabile”. Secondo Traetta, dal punto di vista sanitario la casa circondariale sia un vero e proprio fiore all’occhiello, e il rapporto con l’Usl 8 procede senza intoppi. Inoltre, proseguono le iniziative per il lavoro e lo studio dei detenuti, e dall’arrivo della nuova direttrice due di loro si sono laureati. La seduta è stata l’occasione per presentare il primo report semestrale della garante dei detenuti del Comune di Vicenza, Angela Barbaglio. “È una realtà difficile - afferma -, ma non diversa da tante altre del Paese. Un problema è rappresentato dalla diversa tipologia di detenuti, per i quali sarebbe necessario diversificare, ma purtroppo il tasso di sovraffollamento è del 120%. Nella struttura ci sono tantissimi detenuti psichiatrici, che vengono seguiti al meglio grazie all’importante lavoro dell’equipe medica”. Padova. Studenti-detenuti ottengono la maturità: “La scuola un momento di riscatto” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 18 giugno 2024 “Prof se arrivo in fondo a questo percorso apro la mia pasticceria, e ricomincio”. “Io invece penso che proverò a iscrivermi a sociologia all’università”. Sono maturandi, come gli altri. Ed esattamente come tutti gli altri in queste poche ore che li separano dalla prima prova riflettono sul loro futuro con un po’ di ansia. Anzi, di più. Perché per loro dopo cinque anni di studi in carcere la maturità di Ragioneria ha molti significati. Vuol dire innanzitutto provare a guardare avanti, lasciarsi alle spalle - senza mai dimenticarli naturalmente - i crimini commessi. Ma soprattutto provare a ripensarsi. E immaginare un nuovo domani. Ad affrontare la maturità in carcere a Padova in questi giorni ci sono anche Mirko Righetto (54 anni) che uccise la moglie, Mihail Savciuc (26 anni) che uccise l’ex fidanzata e Andrei Filip (28 anni) che uccise la madre Mikela Balan e la sorellastra Elena Larisa. “Noi spesso non vogliamo nemmeno sapere quali crimini hanno commesso - spiega Erica Bertasini, insegnante di economia aziendale dell’istituto Gramsci Einaudi di Padova e referente della scuola in carcere - per loro la scuola è proprio il momento del riscatto. Riflettiamo sulle cose della quotidianità, su quello che accade anche nella cronaca, certo. Ma non sulle loro tragedie personali. Quello della scuola in carcere è un processo rieducativo, insieme elaboriamo un progetto di vita costruttivo, senza naturalmente dimenticare nulla di quello che è accaduto”. Nei progetti costruttivi dei tre maturandi ci sono appunto nell’immediato futuro gli studi al Dams, quelli di sociologia e l’apertura di una pasticceria. “I nostri studenti sono ragazzi che già lavorano - dice Bertasini - si sono impegnati molto quest’anno. Faranno l’esame come tutti, con un colloquio e due prove scritte”. Bertasini e i colleghi sono molto compatti. Hanno scelto di insegnare in carcere perché credono ad un futuro possibile per tutti. Anche per chi ha sbagliato tanto, oltre il limite del tollerabile umano. Padova. “Nodo alla gola”, domani la presentazione del XX Rapporto di Antigone di Antonio Bincoletto* Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2024 In Italia c’è ancora la pena di morte. Non si tratta ovviamente di una condanna comminata dallo stato a singoli cittadini, bensì di una misura estrema che un numero impressionante di detenuti si sta autoinfliggendo nelle carceri italiane e che sta suscitando le reazioni allarmate e il monito rivolto all’Italia dal Consiglio d’Europa. Tre mesi fa, dopo la prima ondata di casi, il Presidente della Repubblica Mattarella dichiarava in proposito che “servono interventi urgenti per il sovraffollamento e i suicidi nelle carceri”. Allora le morti autoinflitte in carcere dall’inizio dell’anno erano state 25, una quantità molto superiore a quelle registrate negli anni precedenti, cui si sommavano i suicidi di ben quattro agenti penitenziari. Oggi, tre mesi dopo, siamo arrivati a 44, gli ultimi quattro nel giro di due giorni, e nessuna misura urgente è stata avviata. La morte in carcere avviene quasi sempre per impiccagione, più raramente per inalazione di gas. Spesso si tratta di persone giovani, arrestate da poco o anche con brevi residui di pena, con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza, uomini e donne, a riprova che la disperazione in carcere tocca molte categorie, e non necessariamente chi ha commesso i delitti più gravi ed ha pene più pesanti. Allargamento delle fattispecie di reato, inasprimento delle pene, sovraffollamento, isolamento, mancanza di risorse per sopravvivere, carenza di supporti psicologici e affettivi, paura del “mondo fuori”: sono tutti fattori che contribuiscono ad espandere il fenomeno rendendolo oggi un’emergenza. Se n’è accorto il Presidente Mattarella che ha lanciato l’allarme a marzo, ma pare che all’appello non siano seguite misure concrete e nei tre mesi passati da allora i suicidi sono proseguiti a ritmi mai visti prima. Alla luce di questi fatti, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali indice una terza mobilitazione generale martedì 18 giugno, per porre all’attenzione dell’opinione pubblica lo stato critico in cui versano le nostre carceri e per denunciarne le conseguenze: solo un intervento mirato e deciso da parte di chi governa potrà arginare i suicidi e riportare gli Istituti detentivi alla loro missione costituzionale, che non è solo retributiva e securitaria, ma anche e soprattutto ispirata a criteri di trattamento umano e dignitoso, tesa al recupero delle persone detenute. Per trattare questi argomenti, affinché si intervenga con urgenza per porre fine a questa “pena di morte de facto”, il Garante di Padova invita operatori e cittadinanza a partecipare all’iniziativa “Nodo alla gola”, presentazione del XX Rapporto Antigone, che si terrà mercoledì 19 alle 17,30 presso la sala Paladin del Municipio. *Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Padova Catanzaro. “Le prigioni della mente”. Criticità esistenti e percorsi innovativi crotoneinforma.it, 18 giugno 2024 Organizzate due giornate di dibattito a cura del Garante regionale dei diritti delle persone detenute. “Le prigioni della mente. Criticità esistenti e percorsi innovativi in ambito penitenziario”, questo il titolo delle due giornate di dibattito a cura del Garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, che si terranno il 18 e il 19 giugno presso la Cittadella regionale “Jole Santelli” di Catanzaro. All’evento, oltre ad esperti e specialisti del settore ed ai rappresentanti delle istituzioni, dell’Amministrazione penitenziaria, della magistratura, dell’avvocatura e degli Ordini professionali, parteciperà anche Felice Maurizio D’Ettore, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il quale concluderà i lavori della prima giornata. Il Convegno sarà aperto da una conferenza stampa tenuta in occasione della giornata di mobilitazione per migliorare le condizioni di vita nelle carceri a cura della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Si tratta dell’ennesimo atto di sensibilizzazione a distanza di tre mesi dall’appello “Servono interventi urgenti per il sovraffollamento e i suicidi nelle carceri”, in cui il Presidente della Repubblica Mattarella invitava la classe politica del Paese ad adottare con urgenza misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiane. Alla conferenza stampa iniziale, oltre al Garante regionale Luca Muglia, interverranno Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza e Garante regionale della Campania, e Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte. Previsti, altresì, gli interventi di Antonello Talerico, componente del Consiglio nazionale forense e Valerio Murgano, componente della Giunta nazionale dell’Unione camere penali italiane. La prima sessione, che analizzerà gli effetti della detenzione sotto il profilo neuroscientifico, prevede le relazioni di Umberto Sabatini, professore di neuroradiologia, Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, Federica Coppola, professore di diritto penale comparato dell’IE University Law School di Madrid, e Antonio Cerasa, neuroscienziato, responsabile della comunicazione IRIB CNR Messina. Nella seconda sessione, dedicata ai percorsi innovativi in ambito penitenziario, si avvicenderanno gli interventi di Cristina Franchini, responsabile area giustizia di My Life Design, Benedetta Genisio, coordinatrice dell’associazione Crisi Come Opportunità, Roberto Dichiera, cappellano del carcere di Frosinone e referente di Nuovi Orizzonti, Adolfo Adamo, autore e regista teatrale, Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, Enzo Galeota, componente dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Unione camere penali italiane e Piero Mancuso, co-responsabile dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Catanzaro. Ad introdurre i lavori il Garante regionale, mentre il dibattito sarà moderato dall’autore e conduttore televisivo Domenico Gareri. Il Garante Muglia ha sottolineato che “i temi trattati e le presenze autorevoli ci proiettano nel panorama nazionale. E’ un’occasione importante, la Calabria può diventare crocevia del dibattito sul carcere. Da un lato, le ricerche scientifiche sui rischi del carcere nel terzo millennio e su come le condizioni detentive compromettano la possibilità di riabilitazione sociale e recupero della persona. A documentarlo esperti nazionali ed internazionali in neuroscienze cognitive, sociali e affettive, alcuni dei quali calabresi. Dall’altro, l’intervento qualificato dei referenti di alcuni progetti regionali e nazionali molto innovativi, a dimostrazione del fatto che esistono strumenti del tutto diversi in grado di introdurre nuovi modi di concepire la pena e il tempo di detenzione”. Mahmood nella comunità Kayros di don Burgio, tra gli aspiranti rapper di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 18 giugno 2024 “Voi raccontate la verità. Il talento fa il 40%, il resto è testa, caparbietà, umiltà”. Il cantante è andato ad ascoltare le canzoni composte dagli adolescenti della comunità Kayros di Vimodrone, diretta da don Claudio Burgio e si è fatto raccontare le loro storie. Mahmood è appena andato via dalla comunità Kayros di Vimodrone, alle porte di Milano. Mentre il sole scende, ai ragazzi sembra di avere vissuto un sogno. Uno degli artisti più famosi d’Italia - uno che anche nel suo ultimo singolo “Ra ta ta” ha cantato il disagio giovanile e la vita di strada - è venuto ad ascoltare le loro musiche. E ha regalato una delle cose più preziose, il suo tempo. “Voi raccontate la verità e si sente”, li incitava. C’erano quegli adolescenti aspiranti rapper che stanno attraversando percorsi difficili, di carattere penale, e hanno messo le loro storie in musica. E in mezzo a loro lui, Mahmood, 31 dischi di platino e 8 dischi d’oro in Italia, nove all’estero, due Sanremo vinti e oltre 3,5 miliardi di stream all’attivo. “Okeychico”, autore del pezzo “Valori di papà”, racconta che ha iniziato a delinquere perché lo faceva il padre e lo ha perso troppo presto: allontanandosi dalla malavita gli sembrava di perderlo una seconda volta: “Ho cercato di guardare dentro me stesso scrivendo quelle barre”, confidava a Mahmood. Sguardi profondi. Ricordi. Sorrisi. C’è “Fandy”, che gli fa sentire “Odiami”, e Simo, con “Flash”, e ancora “Real Esse” con “Freddi dentro” e “Yambo” con “Euro”. Il cantante ha una parola per tutti: non per forza buona, anzi. Sono consigli sinceri e schietti regalati da uno che è partito da zero e ce l’ha fatta. “Lo sapete che io pregavo la gente per fare sessioni di musica, per potere registrare?”. I ragazzi ospiti di Kayros hanno una fortuna enorme: il fondatore, don Claudio Burgio, ha la passione della musica. In comunità da lui sono cresciuti come artisti Baby Gang e Sacky, del collettivo di San Siro Seven 7oo, che ultimamente gli ha dedicato anche una hit che si chiama proprio Kayros. Ora grazie all’aiuto del gruppo Sugar può contare su una vera e propria sala di registrazione e dalla collaborazione con Universal è nata persino una etichetta musicale. “Io ho studiato canto da quando avevo dodici anni, in una scuola di Baggio, mi facevo un’ora e mezza di tram per arrivarci - continua Mahmood -. E quando ho iniziato a scrivere, a 18 anni, per un milione di volte mi hanno respinto”. L’importante è non cedere, farsi l’armatura di difesa: “Fino a 27 anni io ho vissuto con mia mamma perché non potevo permettermi altro e quando ho vinto Sanremo ero talmente felice che neanche le sentivo, le voci di chi mi criticava”. Alle medie era cicciottello, “nessuno mi si filava, ma io volevo credere al mio sogno. Il talento vale per il 40 per cento il resto è testa, caparbietà, umiltà: bisogna accettare i ‘no’ e crescere su quelli”. E ancora: “Ho delle persone cui dire grazie, come Paola Zukar. Per un mese e mezzo ci trovavamo al bar, ascoltavamo della musica. Mi mandava dei beat e mi chiedeva di costruirci sopra delle melodie. Poi un giorno mi ha dato appuntamento in studio e mi sono trovato davanti Fibra, che era il mio idolo. Il tempo può diventare opportunità”. Mahmood è cresciuto al Gratosoglio, con la mamma e tantissimi cugini. Qualche ragazzo gli chiede del papà. “L’ho visto poco, è andato via di casa che ero piccolo. Nello sgabuzzino dove tenevo i giochi ho imparato presto a costruirmi mondi di difesa, paralleli, fantasiosi, per non sentire la mancanza. Lui si è risposato e ricostruito una vita. Mi ha portato due volte in Egitto, a 8 e 12 anni. Diventare adulti significa tenere cari i ricordi belli, anche se sono pochi”. Quelle vite da cattivi ragazzi raccontate in un podcast - “Quei cattivi ragazzi” registrato proprio dove “non esistono ragazzi cattivi”, cioè alla comunità Kayros di don Claudio Burgio, anche cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano. Un titolo che racchiude sei storie raccontate nel podcast della giornalista Gabriella Simoni, inviata di guerra del Tg5, e presentato lunedì alla stessa Kayros da Mario Calabresi e sua mamma Gemma per Chora media. “Sono le storie degli ospiti di Kayros. Alcuni al Beccaria hanno subito e portano con sé traumi di una violenza istituita a norma. Questa comunità è nata proprio come risposta alternativa al carcere e ha i cancelli aperti. Qui i ragazzi hanno possibilità di scegliere, di decidere”, spiega don Claudio. Le vite raccontate nel podcast prodotto da Chora media e Tutela legale spa sono quelle di Bryan e Andrew, grandi amici che la notte di Natale del 2022 si trovano a dover decidere se evadere o meno dal Beccaria: Bryan scappa mentre Andrew resta. Ora sono entrambi in comunità come pure Lamin che dalla Costa d’Avorio attraversa l’Africa e arriva dalla Libia in barcone in Italia dove vive nel sottobosco della Stazione Centrale. Da lì viene anche Bilal, che sui giornali è finito per una serie lunghissima di rapine quando aveva 12 anni. E ancora Giulia, Daniele e Giuliana “usciti dall’inferno” e diventati educatori. La regista Paula Jesus: “Un viaggio con le fotografie per raccontare i diritti negati” di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 18 giugno 2024 La giovane italo-cilena ha fondato la prima Biennale Itinerante del Sociale. I tre anni da clandestina, i viaggi. “Ora narriamo le ferite alle persone e al Pianeta”. Il filo rosso dei troppi diritti negati al mondo è un’enorme matassa, usata dall’occidente per ordire la sua ricchezza. Creando forme d’ingiustizia sociale e ambientale che portano a crisi umanitarie e dolorose migrazioni. Raccontarle è una missione intellettuale diventata ragione di vita per Paula Jesus, regista italo-cilena non ancora trentenne che ha fondato la prima Biennale Itinerante del Sociale. Uno strumento con cui narrare le troppe ferite inferte alla madre terra (Pachamama, come il nome dell’associazione culturale che la gestisce) e ai suoi abitanti più fragili. Il controcanto è però affidato all’ottimismo della volontà di coloro che le ingiustizie le denunciano, a tutte le latitudini. E provano a contrastarle. “Nella nostra Biennale non c’è limite alla necessità di parlare dei diritti Lgbtqia+, dell’ambiente sfruttato a fini economici, dei migranti costretti a lasciare le loro terre in cerca di condizioni di vita migliori, come nel caso della mia famiglia”, spiega Paula raccontando di come non sopportasse più vedere mamma spaccarsi la schiena là in Cile per permetterle di studiare dai Gesuiti, al punto da convincerla a partire per l’Italia, nel 2007. “Qui sanità e istruzione pubblica sono garantite mentre in Cile rispondono ancora alle regole della costituzione dittatoriale di Pinochet” spiega Paula. Vive tre anni “da clandestina” prima che le venga riconosciuta la cittadinanza, in quanto nelle sue vene scorre anche sangue italiano. Poi arriva la laurea in Filosofia all’università di Roma Tre; per mantenersi fa la videomaker e lavora anche per Cinecittà mentre la madre si trasferisce a Brescia nel 2020, il terribile anno del Covid. Decide di raggiungerla e qui conosce Marco Cola, direttore di una società sportiva dilettantistica per persone con disabilità, che si chiama Aole. È il termine dialettale di Alborelle, piccoli pesci d’acqua dolce che fanno del branco la loro forza. Principi che Paula riversa nel suo mediometraggio Blu Blu (visibile su Youtube). Nel frattempo, prosegue con le sue esperienze all’estero per Unicef. Viaggia molto: Palestina, Ucraina, Pakistan, Balcani. E avanza in lei l’urgenza di provare a tessere una rete di tutti i mondi e di tutte le vite difficili che ha incontrato. E che valgono la pena di essere raccontate. Ecco l’idea della biennale. “Per me era diventato un chiodo fisso” dice con una perentorietà inversamente proporzionale all’esilità del fisico. Paula deve combattere contro i pregiudizi, la supponenza e il maschilismo che sopravvive anche nel mondo dell’arte e del cooperativismo: “Ho incontrato persone sul cui viso si leggeva chiaro un “che ne vuoi sapere tu ragazzetta immigrata di arte o di sociale”. Ma alla fine, nonostante gli enormi problemi economici, ce l’abbiamo fatta. La biennale è realtà. Devo ringraziare la giovane assessora comunale Anna Frattini e qualche sponsor”, certifica. Con il suo Marco sta affinando il programma per la settimana di Genova (programma completo su biennaleitinerantedelsociale.com) ma con la mente è già al Cile: “Pensiamo di collaborare con le scuole dove studiano i ragazzi che vivono raccogliendo vestiti dall’enorme discarica del fast fashion”. La necessità di fare luce sulla devastazione ambientale perpetrata in Sud America e sconosciuta ai più (non c’è solo il disboscamento dell’Amazzonia) l’ha portata a invitare a Brescia il regista Stefano Sbrulli con il suo “Donde los niños no sueñan”, girato nella distopica città peruviana di Cerro de Pasco. Un ammasso informe di baracche sorte intorno al cratere dantesco di una miniera di proprietà della multinazionale Glencore, che nei decenni ha avvelenato di piombo l’acqua e il sangue degli abitanti. Con conseguenze atroci sui bambini. Anche Paula ad agosto sarà in Perù per documentare l’inferno di un’altra miniera che fornisce rame e oro all’occidente, quella di Rinconada: “Seguirò la tratta della prostituzione femminile, anche infantile, in una città popolata per lo più da lavoratori uomini e dove i diritti fondamentali sono negati”. Un lavoro per la prossima Biennale del 2026. Biennale che dall’aprile 2025 potrà intercettare finanziamenti pubblici, poiché l’associazione Pachamama avrà più di due anni di vita. Biennale che sogna di poter portare anche a Cuba, prima o poi. “Se ci fossero dieci Paula in ogni città credo il mondo sarebbe migliore” dice Marco, il suo compagno. Insieme si è più forti: lo sanno le alborelle, ma l’uomo sta dimenticando di essere un animale sociale. Ce lo ricorda una giovane donna italo-cilena. La prima edizione di questo incredibile laboratorio di esperienze personali, racconti, fotografie, filmati, report giornalistici, è partito da Brescia, è poi proseguito a Roma e ora è in arrivo a Genova (dall’ 8 al 14 luglio a Palazzo Ducale) per approdare in Cile dal 22 al 28 agosto a Iquique, città-discarica dove finiscono migliaia di tonnellate di abiti scartati dal bulimico mondo dell’avere per essere. Il nostro. Doppio naufragio di migranti, 66 dispersi e undici morti di Marina Della Croce Il Manifesto, 18 giugno 2024 Le tragedie davanti Lampedusa e alle coste calabresi. Tra le vittime anche 26 bambini. Quasi 70 migranti dispersi tra i quali almeno 26 minori, undici corpi già recuperati e per dieci di questi i soccorritori sono dovuti intervenire con un’ascia nella stiva della nave di legno nella quale sono morti soffocati. È l’ultimo bilancio di due naufragi avvenuti tra domenica e la scorsa notte nel Mediterraneo, uno al largo delle coste della Calabria e l’altro davanti l’isola di Lampedusa. Numeri che fanno salire a più di 800 le vittime dall’inizio dell’anno tra coloro che cercano di raggiungere l’Europa e a quasi 30 mila (più di 29.800) i dispersi nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni. “Ogni naufragio rappresenta un fallimento collettivo, un segno tangibile dell’incapacità degli Stati di proteggere le persone più vulnerabili”, denunciano l’Agenzia Onu per i Rifugiati (Unhcr), l’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim) e l’Unicef che definiscono inaccettabile la continua strage di uomini, donne e bambini. Dal primo gennaio a oggi si contano ormai cinque morti al giorno nel Mediterraneo centrale, che si conferma così come una delle rotte più pericolose al mondo. L’incidente avvenuto al largo della Calabria ha riguardato un’imbarcazione con a bordo 76 persone originarie di Iran, Siria e Iraq partita otto giorni fa dalla Turchia e sarebbe stato causato dall’incendio del motore che ha provocato l’affondamento dello scafo a 120 miglia dalle coste italiane, al limite tra le acque Sar di Italia e Grecia. A dare l’allarme sono stati alcuni diportisti francesi che hanno avvertito la Guardia costiera italiana dopo aver recuperato 12 persone. Sul posto sono arrivati un aereo e due motovedette, una delle quali ha preso a bordo i superstiti e li ha portati a Roccella Ionica. Una donna è morta durante le operazioni. “Questa mattina eravamo al porto e abbiamo supportato le attività di prima assistenza per i sopravvissuti” ha raccontato Shakilla Mohammadi, mediatrice interculturale di Medici Senza Frontiere a Roccella Jonica. “La scena era straziante, davanti a noi persone traumatizzate, il dolore si toccava con mano. Vedere annegare un parente o un amico è sempre orribile. Ho parlato con un ragazzo che ha perso la sua fidanzata - ha proseguito - i superstiti hanno parlato di 66 persone disperse, tra cui almeno 26 bambini, anche di pochi mesi. Intere famiglie dell’Afghanistan sarebbero morte. Sono partiti dalla Turchia 8 giorni fa e da 3 o 4 giorni imbarcavano acqua. Ci hanno detto che viaggiavano senza salvagente e che alcune imbarcazioni non si sono fermate per aiutarli”. Le ricerche in zona sono proseguite per tutta a giornata di ieri con assetti della Guardia costiera e di Frontex, mentre la procura di Locri sta coordinando l’attività investigativa. Il secondo episodio ha riguardato un barchino di legno 8 metri partito dalla Libia e trovatosi in difficoltà in acque Sar maltesi dopo essersi allagato. La Nadir della ong ResQship è intervenuta in soccorso, ma 10 persone sono soffocate nel piano inferiore stipato. Per liberare due dei naufraghi, rimasti privi di sensi, i soccorritori hanno demolito parte del ponte a colpi di ascia. Alla fine in 54 sono stati recuperati dalla Nadir e portati poi a Lampedusa dalla Guardia costiera. I corpi sono rimasti sul barchino che la nave umanitaria ha trainato sull’isola Pelagia in tarda serata. I migranti - originari di Bangladesh, Pakistan, Egitto e Siria - hanno pagato circa 3.500 dollari per mettersi in viaggio. Insieme a Unhcr, Oim e Unicef, anche Save the Children ha rinnovato ieri “l’invito alle istituzioni italiane ed europee ad un’assunzione di responsabilità affinché mettano al primo posto la vita delle persone in ogni decisione sulle politiche migratorie”. Il presidente della Croce Rossa italiana, Rosario Valastro si è invece detto “attonito davanti a quanto accaduto”. Per il Centro Astalli, infine, “serve un sussulto di umanità. Queste tragedie avvengono davanti ai nostri occhi. Eppure nulla si muove”. Critiche arrivano poi dall’opposizione. Per il senatore di Avs Peppe De Cristofaro “le disumane politiche del governo italiano e dell’Ue continuano ad uccidere. Dalla destra un approccio securitario al fenomeno migratorio ma l’immigrazione non è un’emergenza, è un fenomeno che va gestito”. “Alcune imbarcazioni non si sono fermate per aiutarci. Intere famiglie distrutte” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 18 giugno 2024 Strage di Roccella Jonica, lo strazio dei migranti superstiti. Il naufragio di una barca a vela con migranti al largo di Roccella Jonica. Salva una bambina di 10 anni. I volontari: ma è rimasta sola. Dieci anni e il cuore già a pezzi. Non ha più accanto sua madre, suo padre e la sua sorellina ed è disperata. Non fa che chiedere di loro, non sa che sono caduti in acqua e hanno dovuto arrendersi allo strapotere del mare; tre dei tanti corpi perduti per sempre nel Mediterraneo. Chi l’ha guardata sbarcare dice che non c’era niente negli occhi lucidi di quella bambina arrivata ieri mattina a Roccella Jonica. Sembravano spenti. Un momento di pausa dal pianto. Uno solo. Poi di nuovo lacrime. Di solitudine ma anche di sofferenza fisica, perché era così disidratata da avere dolori insopportabili alle braccia; sintomi che a inizio soccorso avevano convinto i medici che fossero spezzate. È arrivata in queste condizioni la più giovane dei dodici naufraghi approdati sulla terraferma di Roccella. Una donna sua compagna di viaggio non aveva più vita, gli altri dieci erano stremati, sofferenti, ma vivi. Sulle cartine la Terra Promessa sembrava lì, a portata di mano. Dalla Turchia alla Calabria era un sogno possibile, si saranno detti tutti. Un’ottantina di persone disposte a rischiare la vita perché, come sempre, venire da questa parte del mondo significa avere la speranza di un’esistenza migliore, tornare indietro vuol dire non averne nessuna. La vela della barca ha tagliato il vento per giorni e dopo un certo numero di albe e di tramonti la paura cominciava a far spazio alla fiducia. Ce la faremo, era il mantra di quelle famiglie, molte delle quali venivano da posti alla fine dei diritti umani come l’Afghanistan o l’Iran. Ma poi il mare è diventato grosso, sulla barca c’è stata un’esplosione, quella carretta ha cominciato a imbarcare acqua e la speranza è via via naufragata assieme alle vite della povera gente finita in mare. Il comandante della Guardia costiera di Roccella Jonica, Daniele Ticconi, si è sobbarcato 24 ore di lavoro senza sosta per seguire le operazioni dei suoi uomini. Dice che “i naufraghi stavolta erano tutti particolarmente provati”, che “mentre intervieni sei addestrato per mantenere lucidità e professionalità” ma che poi, “quando torni a casa, la sera, porti con te l’umanità con la quale hai avuto a che fare, come l’immagine di quella bambina, così piccola e già così sola e disperata”. Shakilla Mohammadi, mediatrice interculturale di Medici Senza Frontiere, racconta una strage di bambini perché i sopravvissuti le hanno detto che su quella bagnarola a vela fra i dispersi ci sarebbero “almeno 26 bambini” e che “intere famiglie afghane” sono finite preda del mare. Il dettaglio più indecente da tradurre è questo: “Viaggiavamo senza salvagente e alcune imbarcazioni non si sono fermate per aiutarci”. Nel porto della Locride hanno rimesso piede a terra “persone traumatizzate. È stata una scena straziante”, ripensa Shakilla. “Il dolore si toccava con mano”. Hanno quasi tutti lesioni o fratture alle braccia e alle gambe, alcuni hanno ustioni gravi. E poi ci sono le ferite del cuore, le più profonde. Il ragazzo che ha visto morire la fidanzata, chi era partito con la famiglia ed è sbarcato solo, chi ha perduto un figlio, una moglie... C’è lei, la piccola che non ha più nessuno. “Non ricorda cos’è successo e quando è arrivata era in forte stato confusionale. Gli altri ci hanno detto che è un’irachena curda” racconta dall’ospedale di Locri Concetta Gioffrè, vicepresidente del Comitato Riviera dei Gelsomini della Croce Rossa. “In Pediatria ci hanno concesso di stare con lei a lungo, le infermiere la coccolano, la trattano da regina. Ma lei non vuole né giocattoli né giocare. Si lamenta e urla perché vuole la mamma e la sorellina”. Concetta sospira. Pausa. Poi dice: “Ho sentito mio marito poco fa. Quando starà bene vorremmo ospitarla da noi, in attesa che si decida sul suo futuro”. Un raggio di sole in mezzo al cielo cupo di questo naufragio. Trieste, fuori i migranti dal Silos: sta per arrivare il Papa di Marinella Salvi Il Manifesto, 18 giugno 2024 Conosciuto ormai anche fuori d’Italia per le drammatiche condizioni in cui vive chi ha trovato rifugio nello stabile a due passi dalla “Piazza del Mondo”, unico riparo per i migranti, il sindaco Dipiazza ha firmato la fatidica ordinanza di sgombero: via tutti, tempo due settimane. Perché il 7 luglio a Trieste ci sarà la visita di Bergoglio. C’era Ahmed che tagliava i capelli con le sue forbici da barbiere e il cliente seduto su uno sgabello trovato chissà dove. Un angolo dell’enorme camerone, abbastanza fango, qualche trave caduta dal soffitto, foglie marce portate dentro dal vento tra bottiglie vuote e stracci. L’istituto di bellezza degli ultimi della terra: un fratello che taglia gratis i capelli ai migranti dentro al Silos. Poi Ahmed se n’è andato, chissà verso dove, un furgone blu, una decina di poliziotti, tu sì tu no e un gruppetto di ragazzi sparisce senza nemmeno il tempo di dire ciao. Trasferimenti, a spizzichi e bocconi, quelli che dovrebbero avere tempi certi e invece passano mesi e in tutto il mondo pare non esista un luogo che abbia quel minimo di dignità per essere definito accoglienza. Così dicono da Roma e lo ribadisce il prefetto mostrando di non pensare che se è così la responsabilità è esattamente e soltanto loro. E allora si dorme al Silos e non ci sono parole per descrivere lo schifo e la vergogna. Quelli che aspettano una riposta dalla questura per il loro diritto all’asilo, quelli che dalla questura tentano ancora di avere un appuntamento, quelli che vogliono solo ripartire verso il fratello, l’amico, la famiglia che ha trovato un posto, un lavoro, un tetto, nella sconosciuta ricca Europa. I richiedenti asilo dormono poco riparati, nel fango e tra i sassi, sotto piccole tende o su cartoni tra coperte appese alla bell’e meglio tra i muri pericolanti. Un polpastrello mangiucchiato, la t-shirt piena di buchi, un braccio arrossato dalle punture, la quotidiana condivisione di spazi con ratti e insetti di ogni tipo. Il Silos, a due passi dalla Stazione di Trieste e dalla piazza che si chiama Libertà ma da anni è diventata la Piazza del Mondo. Ci sono entrati in tanti, gente comune per condividere una giornata con i migranti ma anche il vescovo Trevisi che ha aperto un nuovo dormitorio a bassa soglia (un modello di intervento sociale indirizzato agli adulti in situazione di estrema difficoltà) ma sa che è poco, troppo poco, e continua a chiedere che l’amministrazione pubblica faccia il proprio dovere. C’è stata Tatiana Bucci che ottant’anni fa proprio da lì partì per Birkenau e che da sopravvissuta dai lager ha voluto rivedere i luoghi del suo dramma di bambina. Dentro il Silos si è coperta il viso con le mani ed è scoppiata in lacrime: “Mi sembra di essere tornata a Birkenau, povera gente, si faccia qualcosa. Povera gente, non è ammissibile una cosa così” Il sindaco Roberto Dipiazza? Esplicito e senza mezzi termini: “Chissenefrega”. Lo ha ripetuto per anni. Poi, mentre mezza città chiedeva che si riaprissero gli spazi di un ex mercato coperto, pronto e agibile proprio lì a due passi, per dare ai migranti almeno un tetto e un lavandino, ha cavato dal cappello la soluzione “ostello scout”, isolato lassù sull’altopiano, e di questa soluzione - che fa acqua da diverse parti - si è fatto vanto anche il ministro Piantedosi. Tutto risolto, a sentirli, ma passa il tempo e sembrava che tutto fosse stato dimenticato. Restano in centinaia ogni notte nel Silos e ogni pomeriggio in tanti nella Piazza del Mondo dove c’è sempre Lorena Fornasir a curare le ferite e i tanti che portano da mangiare e scatoloni di scarpe e vestiti e sorrisi: arrivano dalla città, dalla Regione, dal resto d’Italia e anche dall’estero perché quella quotidiana ostinata presenza ha costruito una rete incredibile di solidarietà. Piazza piena ogni sera, pentoloni e qualche asse a far da tavola per i piatti da riempire, le panchine come infermerie, qualche volta si riesce anche a ballare, a giocare a palla o a fare un girotondo perché magari ci sono bambini, i bambini delle famiglie curde che arrivano così spaesate e disabituate al traffico delle città da attraversare la strada stringendosi l’un l’altro senza guardare. Sarà che ormai il Silos è conosciuto anche fuori d’Italia, sarà per questa piazza che gli grida “vergognati” con la sua sola presenza, ecco che il sindaco ha firmato la fatidica ordinanza di sgombero: via dal Silos tutti, tempo due settimane. Chissà che vuotando il Silos non si vuoti anche la piazza, pensa sicuramente il primo cittadino “tutto decoro e turisti” e “Trieste bellissima”. Per portare dove questa gente fuggita dall’Afghanistan o dalla Siria? Non si sa. A sentire quel che racconta il sindaco sembra che una qualche entità trasferirà non si sa dove quelli che ci sono e quelli che arriveranno saranno destinati alla soluzione “campo scout”. Peccato che la soluzione sia ancora in attesa che si comincino alcuni lavori di riqualificazione, tipo rifare l’impianto fognario così da evitare che il pozzo nero tracimi come è già avvenuto. Nelle piccole palazzine e nel parco del campo scout per fare cosa? Quale assistenza, quali servizi, quali prospettive? E comunque “quelli che arriveranno” continuano ad arrivare, senza soluzione di continuità, una quarantina al giorno di media. E la maggior parte è fatta di transitanti, compaiono e scompaiono nell’arco di un paio di giorni, hanno altre mete, non vogliono fermarsi in Italia. La stazione dei treni è il loro obiettivo, la piazza del mondo un momento di calore, il Silos il tremendo ma obbligato momento di pausa. Petizioni, lettere ai giornali, messaggi sui social: “Riaprite l’ex mercato coperto!” e adesso “Sgombero? E poi? E stasera, e domani?”. ICS scrive comunicati rabbiosi, consiglieri di minoranza protestano, interrogano, sia in Comune che in Regione, ma per la destra la risposta resta una sola: cacciare la gente da quell’obbrobrio che è il Silos, fine. Intanto in piazza si aspetta, occhi e orecchie in allerta ma i giorni passano e sembra tutto come sempre. Ieri sono arrivati tre ragazzini siriani, stanchissimi, sdruciti, pestati dalla polizia bulgara e ributtati in Turchia, adesso a Trieste con le cento piaghe raccolte nei Balcani ma in piazza c’è Adeel che a Peshawar faceva l’infermiere nell’emergenza e si mette a fianco di Lorena a scegliere bende e pomate. C’è Adnan, però, con una ferita profonda e Gianni, medico arrivato proprio ieri da Chiavari, lo vede e se lo prende in macchina e lo porta al pronto soccorso. Più tardi ecco una famiglia afgana con due bimbi piccoli: stavano in Olanda, praticamente inseriti, ma sono cascati nella rete di Eurodac - la banca delle impronte digitali - che li ha visti transitanti dalla Croazia e li ha quindi rimandati là con volo dedicato. Regolamento di Dublino docet e infatti si chiamano “dublinanti” e non sono pochi quelli che si ritrovano rimandati indietro dopo che si stavano costruendo il futuro. In questo caso beffa e danno moltiplicati: Zagabria non li ha voluti e li ha rimessi in strada. Arrangiatevi. Ed eccoli a Trieste con gli occhi spaventati, senza un’idea di dove andare ma, dicono, almeno la famiglia è rimasta unita ché poteva andare peggio. Questa è la Piazza del Mondo, questa l’umanità che si accampa nei 5.000 mq del Silos e che sindaco e prefetto vogliono sgomberare. Via dagli occhi, via dal salotto buono, è solo questo che conta. E stavolta si farà davvero, a costo di tenerli nascosti quel tanto che basta: il 7 luglio a Trieste ci sarà la visita del Papa. Facile prevedere che entro quella data il Silos sarà stato blindato. Ci mancherebbe che quel cristiano convinto del vescovo ci porti dentro Francesco a vedere cos’è la tragedia della non accoglienza, l’orrore della porta d’ingresso in Italia dalla rotta balcanica. Iran. Perché di Ahmadreza Djalali non frega niente a nessuno? di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 18 giugno 2024 Negli anni del Covid-19, in un paese normale, lo scienziato ed esperto in Medicina di emergenza Ahmadreza Djalali, cittadino iraniano e svedese, sarebbe stato posto a capo della task-force di emergenza. Invece, già nel 2020 nel suo paese di origine, l’Iran, era in carcere da quattro anni e sotto condanna a morte da tre. Le autorità iraniane hanno una prassi consolidata di prendere in ostaggio cittadini con doppio passaporto e usarli come pedine di scambio per ottenere contropartite. È successo col Regno Unito, col Belgio e in altri casi. Non c’è dubbio, perché lo hanno dichiarato, che la condanna a morte di Djalali fosse diventata uno strumento di pressione. In questo caso, nei confronti della Svezia dove, nel 2022, era stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità Hamid Nouri, uno dei responsabili del “massacro delle carceri” del 1988 in cui, alla fine della guerra con l’Iraq, erano stati uccisi sommariamente migliaia di prigionieri politici. Cedendo alla cinica strategia iraniana del do ut des, sabato scorso lo scambio è stato portato a termine: Nouri è atterrato trionfalmente a Teheran, mentre a Stoccolma hanno fatto rientro il funzionario dell’Unione europea Johan Floderus, che rischiava l’ergastolo o la pena di morte per “spionaggio”, e Saeed Azizi, condannato a cinque anni per “collusione contro la sicurezza nazionale” e gravemente malato. La giustizia è la grande sconfitta di questa vicenda. C’erano voluti anni di sforzi della diaspora iraniana per attirare Nouri in Svezia, c’erano volute le coraggiose testimonianze di sopravvissuti e familiari delle vittime, cui tuttora verità e giustizia vengono negate in Iran. Ma, una volta piegatosi al negoziato, è incomprensibile e vergognoso che il governo svedese abbia lasciato indietro il suo cittadino Ahmadreza Djalali, arrestato ormai otto anni fa e da sette con un cappio al collo: un’immagine che, da metaforica, rischia di diventare reale perché ormai l’Iran ha ottenuto ciò che voleva e Djajali non serve neanche più per negoziare contropartite. Il capo uscente della politica estera dell’Unione europea Borrell ha dichiarato che proseguiranno gli sforzi per ottenere la scarcerazione degli altri cittadini con doppia nazionalità che si trovano ancora nelle carceri iraniane. Speriamo non siano parole di circostanza. Resta da capire perché, in Italia, di Ahmadreza Djajali non freghi praticamente niente a nessuno. Il nostro paese si è mobilitato, per fortuna, per uno studente egiziano che aveva studiato qualche mese all’Università di Bologna. Djalali, per anni, ha lavorato a Novara, presso l’Università del Piemonte orientale, contribuendo allo sviluppo della ricerca scientifica. Con l’eccezione dell’attore Gianmarco Saurino e del giornalista Alessandro Milan che dai microfoni di Radio 24 ha aggiornato regolarmente sulla situazione, contribuendo insieme ad Amnesty International a dare voce alla moglie di Ahmadreza e a rilanciare i suoi allarmi in occasione delle numerose volte in cui le autorità iraniane - per ricattare quelle svedesi - avevano annunciato l’esecuzione, la storia di Ahmadreza non è mai diventata una notizia: è rimasta sempre e solo una storia meramente novarese, che ha scaldato i cuori solo dei parlamentari e delle istituzioni locali, dell’università locale, della società civile locale, della stampa locale. La domanda senza risposta è: perché? Cosa c’è sotto? Quali relazioni non pubbliche e inconfessabili tra Italia e Iran impediscono di fare pressioni adeguate? E poi: non è che qualcuno crede davvero che Ahmadreza fosse uno spione dei servizi israeliani e che dunque un caso così “sensibile” non debba essere affrontato, tanto meno adesso? O che, sempre bevendo la propaganda iraniana, avendo fatto qualcosa per Israele contro l’Iran, Djalali meriti di essere lasciato al suo destino? *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. In Maryland annullate 175mila condanne per possesso di marijuana di Marina Catucci Il Manifesto, 18 giugno 2024 La decisione del governatore democratico Wes Moore. E già da luglio la cannabis sarà legalizzata anche nelle terre tribali della Carolina del Nord, a condizione che venga acquistata e consumata sul confine di Qualla. Il governatore democratico del Maryland, Wes Moore, annullerà 175.000 condanne per uso di marijuana emesse negli ultimi decenni. Moore, primo governatore nero del Maryland, ha annunciato questa mossa tramite un’intervista al Washington Post dichiarando che firmare questo decreto di grazia equivale a “rettificare un gran numero di errori storici”. Le grazie “perdoneranno automaticamente ogni reato di possesso di marijuana che la magistratura del Maryland potrebbe individuare nel sistema elettronico dei registri giudiziari dello stato”, ha affermato Moore. Circa 175.000 cittadini del Maryland, stato di 6 milioni di abitanti, vedranno scomparire dai loro casellari giudiziari le condanne per consumo o possesso di una droga che è diventata legale nello Stato. Nel 2023 tramite un referendum il Maryland, ha legalizzato l’uso ricreativo e la vendita al dettaglio di marijuana ma nonostante, ha detto il governatore, a chi ha precedenti per possesso o consumo di cannabis, di cui la maggior parte è afroamericana o ispanica, viene ancora negato il lavoro, l’affitto di una casa o l’accesso all’istruzione. Secondo il procuratore generale dello stato, Anthony Brown, la grazia si applica a tutti i condannati per possesso di marijuana, ma “colpisce in modo sproporzionato e in senso positivo” la popolazione nera che rappresenta il 33% della popolazione ma il 70% dei carcerati nello Stato. Negli Stati Uniti il modo in cui viene vista la marijuana dai cittadini e dai politici ha subito un cambiamento epocale negli ultimi dieci anni. Nel novembre 2023, una percentuale record del 70% degli americani intervistati da Gallup ha dichiarato di sostenere la legalizzazione della cannabis. Solo nel 2014 la percentuale era il 51%. Questo trend coinvolge anche le terre tribali della Carolina del Nord dove la marijuana potrebbe essere legalizzata entro agosto. La vendita e l’uso di marijuana ricreativa potrebbero diventare letali già quest’estate per chiunque abbia più di 21 anni, a condizione che venga acquistata e consumata sul confine di Qualla, nella fascia orientale degli indiani Cherokee. Il 6 giugno i membri del consiglio tribale avevano votato per approvare la nuova ordinanza, poche settimane dopo l’apertura del primo dispensario di marijuana medica nella Carolina del Nord. A settembre si era votato in un referendum sull’opportunità di sostenere la vendita di marijuana ricreativa. Ora The Great Smoky Cannabis Company nel primo anno potrebbe generare 385 milioni di dollari di entrate lorde. Adesso che l’ordinanza è approvata, la vendita ricreativa partirà a luglio e sarà inizialmente diretta ai soli membri della tribù, per poi allargarsi entro metà agosto a chiunque abbia più di 21 anni. “Abbiamo esercitato la nostra sovranità e utilizziamo le migliori pratiche possibili”, ha affermato Carolyn West di Qualla Enterprises, la società di proprietà dei Cherokee che gestisce le operazioni della tribù correlate alla cannabis. Nel frattempo l’uso di marijuana nella Carolina del Nord rimane illegale e qualsiasi cannabis acquistata sul Confine di Qualla non può essere portata all’esterno. Al momento un disegno di legge per legalizzare la marijuana medica in tutto lo stato è all’esame dell’assemblea generale.