Emergenza suicidi in carcere, troppi silenzi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 17 giugno 2024 Ogni quattro giorni un detenuto si toglie la vita in cella. Un fenomeno allarmante sul quale però mancano risposte ed efficaci misure di prevenzione. Due detenuti uccisisi in carcere sabato, quattro in due giorni, nove negli ultimi dieci giorni, 44 suicidi dall’inizio dell’anno, in media uno ogni quattro giorni. Eppure ormai nemmeno conquistano una “breve”, fossero il collaboratore di giustizia a Ferrara, il detenuto guardato a vista per problemi psicologici a Sassari, l’uxoricida a Teramo in attesa di misura alternativa per malattia, il ribelle trasferito ad Ariano Irpino per le sue intemperanze altrove, il romeno invece detenuto modello a Biella. La già problematica media nazionale di sovraffollamento (129% per i 60.547 detenuti in teorici 51.241 posti) è superiore per 39.000 detenuti in 103 carceri, 20.000 stanno in 60 istituti addirittura oltre il 150%, e ben 8.000 in 19 istituti persino oltre il 180%: senza contare che, al netto di inagibilità e ristrutturazioni, i posti “veri” sono peraltro non 51.241 ma 46.941 per 60.547 detenuti in carne, ossa e problemi psichiatrici, dipendenze da droghe e alcol, lingue di altri mondi, disagi sociali cronicizzati nell’irregolarità. Persone che per lo più, riassumeva giorni fa il direttore di San Vittore, “qui non finirebbero se “prima” fossero agganciati dai servizi territoriali, e che invece qui finiscono solo perché il carcere è l’ultimo, e unico, posto che non può appendere fuori il cartello “non li prendiamo”. L’altro giorno il titolare di un immobile Ministero della Giustizia, esultante per il via libera europeo (a suo avviso) all’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ha sorvolato sul fatto che intanto il Consiglio d’Europa avesse chiesto all’Italia di intervenire “urgentemente” sulla “allarmante” tendenza negativa dei suicidi in carcere proseguita dal 2016 all’inizio del 2024. E non invertita né dopo gli appelli del Papa (“Il sovraffollamento delle carceri è un muro, non è umano!”), né dopo il monito del Presidente della Repubblica lo scorso 18 marzo (“Sui suicidi e sul sovraffollamento servono interventi urgenti e immediati”). Si vede che l’Europa, come papa Francesco e Mattarella, va bene solo quando fa comodo. Quattro suicidi in carcere in 24 ore: è allarme nazionale di Davide Varì Il Dubbio, 17 giugno 2024 Antigone richiama il governo a intervenire con misure urgenti per contrastare il fenomeno. Nelle ultime 24 ore, quattro persone detenute si sono tolte la vita nelle carceri di Ariano Irpino, Biella, Sassari e Teramo. Questi tragici eventi portano a 44 il numero di suicidi in carcere nei primi cinque mesi e mezzo del 2024, una media di uno ogni tre giorni. Se questa tendenza continuasse, il 2024 potrebbe superare il record negativo del 2022, quando i suicidi furono 85. Le condizioni nelle carceri italiane - Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha definito la situazione dei suicidi in carcere come un’emergenza nazionale. Con oltre 14.000 persone detenute oltre la capienza regolamentare, le condizioni di vita per i detenuti e di lavoro per gli operatori penitenziari sono sempre più difficili. Se una città di 60.000 abitanti avesse 44 suicidi in pochi mesi, sarebbe un’emergenza di primo piano per il governo e il parlamento. Antigone chiede al governo di intervenire con misure che riducano il sovraffollamento carcerario. Tra le proposte, l’introduzione di misure alternative alla detenzione, la liberalizzazione delle telefonate nelle celle e l’assunzione di nuovo personale. Queste misure potrebbero migliorare significativamente le condizioni di vita dei detenuti e ridurre il tasso di suicidi. La necessità di una modernizzazione delle pene - Gonnella sottolinea l’importanza di modernizzare la pena carceraria, rendendo la vita in carcere più attiva e meno burocratizzata. La riduzione del peso dell’isolamento e l’implementazione di attività educative e ricreative possono contribuire a migliorare il benessere psicologico dei detenuti e prevenire atti di autolesionismo e suicidi. Antigone critica fortemente il ddl sicurezza proposto dal governo, che introduce il reato di rivolta penitenziaria punibile fino a 8 anni di carcere. Gonnella avverte che questa misura potrebbe aumentare il numero di atti di autolesionismo e suicidi, poiché limita le forme di protesta non violenta disponibili per i detenuti. L’appello finale di Antigone - Antigone invita il governo a ritirare il ddl sicurezza e a concentrarsi su riforme che affrontino le vere cause della crisi carceraria. Interventi strutturali, come la riduzione del sovraffollamento e il miglioramento delle condizioni di vita nelle prigioni, sono essenziali per prevenire ulteriori tragedie e garantire il rispetto dei diritti umani dei detenuti. Mal di carcere, quattro suicidi in 24 ore. Condizioni indegne, ma il governo tace di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 giugno 2024 Sono per lo più giovani, spesso condannati a pene non lunghissime, persino a pochi mesi dalla libertà. Ma anche anziani, come l’uomo di 77 anni che ha deciso di farla finita nel carcere di Teramo due giorni fa. Quarantaquattro suicidi nei penitenziari italiani dall’inizio dell’anno, uno ogni tre giorni, gli ultimi quattro in poco più di 24 ore. “Numeri pazzeschi indegni di un Paese civile”, gridano i sindacati della polizia penitenziaria. L’ultimo detenuto si è impiccato nel reparto ospedaliero all’interno del carcere di Bancali a Sassari. Il quarto in 24 ore dopo i suicidi nei penitenziari di Ariano Irpino, Biella, Teramo. Una vera emergenza nazionale - “Quella dei suicidi in carcere è un’emergenza nazionale”, denuncia l’Associazione Antigone. “Un numero che se continuasse a crescere a questo ritmo porterebbe il 2024 a superare il tragico dato del 2022 quando i suicidi in prigione furono 85”. Un’emergenza più volte denunciata, nelle carceri ma ormai anche negli istituti per minorenni sempre più pieni dopo le nuove norme restrittive introdotte dal decreto Caivano, ma su cui il governo fa orecchie da mercante. “Non abbiamo più parole per commentare e appellarci alla sensibilità della politica. A fronte di tutto ciò si notano due grandi assenti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni”, accusa Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa penitenziaria. L’ammonizione del Consiglio d’Europa - E dire che proprio qualche giorno fa il Consiglio d’Europa aveva ammonito l’Italia sollecitando “l’immediata adozione di efficaci interventi sulle disastrose condizioni delle carceri e una maggiore trasparenza delle informazioni”. Il comitato dei ministri proprio due giorni fa ha emesso una nota in cui “constata con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere”. L’incredibile assenza - “In tutto questo spicca un’incredibile assenza: quella dell’ufficio del garante nazionale dei detenuti”, accusa il senatore pd Walter Verini, segretario della commissione Giustizia. “Da quando il nuovo ufficio si è insediato non risultano sopralluoghi e monitoraggi nelle carceri nelle quali avvengono queste tragedie”. “Subito un decreto svuotacarceri” è la richiesta che i sindacati degli agenti di polizia chiedono da tempo. Un decreto-legge per alleggerire la popolazione carceraria che in Italia conta ben 14 mila detenuti in più rispetto alla capienza. Richiesta a cui si associa Ilaria Cucchi, parlamentare di Avs: “Una situazione insostenibile nel silenzio generale. Il ddl sicurezza proposto dalla destra non affronta minimamente il sovraffollamento anzi, tutta la legislazione del governo Meloni è tesa ad aggiungere reati, aggravare le pene fino al nuovo reato di rivolta penitenziaria. Il contrario di quello che serve”. Le sofferenze della Polizia penitenziaria - Grande sofferenza anche nel corpo della Polizia penitenziaria. Ancora ieri due aggressioni nel carcere di Frosinone, due agenti feriti a Trento, uno a Trapani. “L’altra faccia della medaglia dell’emergenza carcere”, sottolinea Aldo Di Giacomo del Sindacato di polizia penitenziaria, “è l’aumento di aggressioni e violenze al personale penitenziario che ha raggiunto il 40% in più nel giro di pochi mesi. Nella stessa giornata del suicidio a Teramo, sono stati otto gli agenti aggrediti”. Santoro (L’Altro Diritto): “Nelle carceri condizioni inumane, bisogna intervenire” di David Allegranti La Nazione, 17 giugno 2024 Sono già 44 dall’inizio dell’anno i detenuti che si sono tolti la vita. L’appello di Antigone: le misure alternative devono essere usate di più. Quattro suicidi in carcere in 24 ore. Ad Ariano Irpino, Teramo, Sassari, Biella. Sono 44 dall’inizio dell’anno. Quasi uno ogni 3 giorni. Nel 2022 - l’anno del triste record - furono 85. Il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa l’ha messo nero su bianco in un documento: la situazione è “allarmante” e il governo dovrebbe intervenire “urgentemente”; il comitato “constata con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024”. Insomma, è “un disastro. Credo che abbiamo un problema: mettiamo in carcere persone che non dovrebbero mai entrarci”, dice a QN, con cautela, il filosofo del diritto Emilio Santoro, fondatore de L’Altro Diritto. “Numero enormi, drammatici, che richiedono interventi urgenti”, aggiunge Antigone. “Quella dei suicidi in carcere è un’emergenza nazionale. Se in una città di 60.000 abitanti si suicidassero 44 persone in pochi mesi non parleremo di altro”. “Numeri pazzeschi, indegni di un paese civile”, dice Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria: “Si notano due grandi assenti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni. Suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri, traffici illeciti, ma cos’altro deve accadere affinché l’esecutivo prenda atto dell’emergenza in essere e vari misure consequenziali?”. Per De Fazio serve “un decreto legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva, sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto alla capienza utile, assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità, e il potenziamento dell’assistenza sanitaria, soprattutto psichiatrica, in crisi profondissima”. Parallelamente, “vanno avviate riforme strutturali. Siamo dentro un’ecatombe”. Servono provvedimenti, aggiunge Antigone, che “portino a una riduzione del peso sulle carceri attraverso la concessione di misure alternative; serve liberalizzare le telefonate dotando le celle di telefoni laddove (ed è la maggioranza dei casi) non sussistano problemi di sicurezza rispetto ai contatti con l’esterno”. Antigone chiede il ritiro del ddl sicurezza che è “l’opposto di quanto servirebbe”. L’introduzione del reato di rivolta penitenziaria, nella quale si punisce con una pena fino a 8 anni anche la resistenza passiva e la protesta non violenta, a parere dell’associazione “lascerà alle persone detenute come unico strumento per far emergere le difficoltà e le problematiche il proprio corpo, con un prevedibile aumento di atti di autolesionismo e suicidi”. A fine aprile, partecipando al convegno ‘Senza dignità’ organizzato all’Università Roma Tre da Radio Radicale, il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva affrontato l’argomento: “Dobbiamo superare il sistema carcerocentrico e il sovraffollamento, che è fonte di suicidi. Non di certo con un’amnistia, che rappresenta un fallimento dello Stato e verrebbe negativamente compresa dai cittadini: quello che occorrerà fare è limitare la carcerazione preventiva e intervenire nei confronti di quelle persone condannate per reati minori e vicine al fine pena, e per i tossicodipendenti”. Fin qui, tuttavia, come rilevato anche dal Consiglio d’Europa, ancora poco o niente è stato fatto e appare incerto anche il percorso del ddl Giachetti - ne è convinto lo stesso deputato di Italia Viva e autore della proposta - sulla liberazione anticipata. Zanettin (Forza Italia): “Numeri agghiaccianti e in estate peggioreranno. Nordio deve fare di più” di David Allegranti La Nazione, 17 giugno 2024 Il senatore azzurro: rischiamo di superare il tragico record del 2022. “Aumentare il numero di telefonate ai famigliari può aiutare”. “Sono dati agghiaccianti che meritano sicuramente una riflessione profonda”, dice Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia e membro della Commissione Giustizia, commentando i dati sui suicidi fra i ristretti. Tra i pochi a occuparsi con continuità di carcere e diritti dei detenuti nel centrodestra, Zanettin - ex presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi - risponde al telefono dal treno, mentre sta rientrando a Roma dopo giorni di campagna elettorale per le Europee e le amministrative, e incalza il governo Meloni a “fare di più”. Senatore Zanettin, sono quarantaquattro i suicidi fino a oggi nelle carceri italiane. Quattro nelle ultime 24 ore... “E siamo solo al 16 (17 oggi per chi legge, ndr) giugno. Rischiamo di superare il record del 2022”. È un’emergenza nazionale? “Qualche soluzione va trovata subito, è inequivocabile. Ci si avvicina alla stagione estiva e gli episodi di autolesionismo e di tensione inevitabilmente aumenteranno. Credo che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di cui conosciamo la sensibilità umanistica e liberale, dovrà individuare qualche soluzione ulteriore rispetto ad adesso”. C’è una responsabilità del governo? “Come detto, Nordio deve fare di più. I dati ci dicono che servono altre soluzioni”. Ma il ddl Giachetti sulla liberazione anticipata non potrebbe essere utile? “Non entro nello specifico di questa o quella proposta. Senz’altro aumentare il numero di ore per le telefonate ai famigliari a casa, come durante l’emergenza sanitaria, rientra fra le possibilità. Non è certamente la panacea di tutti i mali, ma è un provvedimento che si può realizzare in sede amministrativa, senza scomodare atti legislativi”. Serve qualche segnale? “Sì, dobbiamo dare segnali. Sono stati fatti investimenti sugli psicologi e questo può aver aiutato. Ma i dati di oggi sono allarmanti”. E gli interventi di edilizia carceraria? “Sono tempi lunghi. Servono ahimè mesi, anni. Oltretutto con l’applicazione del patto di stabilità non ci saranno grandissime risorse. E in ogni caso sono soluzioni mediamente lunghe. Qui servono soluzioni immediate”. Questo centrodestra ha bisogno di qualche iniezione liberale sul fronte carcerario? “Serve maggiore sensibilità sul tema. Ma è anche una questione di rapporti di forza interni. Per fortuna con le Europee abbiamo recuperato terreno, ma la strada è ancora lunga”. “Prigione solo nei casi gravi. Il sovraffollamento cancella la persona e i suoi diritti” di Liana Milella La Repubblica, 17 giugno 2024 Dopo i 44 suicidi in cella, un record assoluto per l’Italia, parla Monica Amirante, nuova Coordinatrice nazionale dei Magistrati di sorveglianza, le toghe che vivono a contatto con le carceri. Dal 25 maggio lei è la nuova Coordinatrice nazionale dei Magistrati di sorveglianza. Proprio le toghe che vivono a contatto con le carceri. E oggi non si può che partire dai 44 suicidi in cella, un record assoluto per l’Italia, e siamo solo a giugno… “È molto sconfortante che questa situazione si protragga da sempre e sia stata segnata da alcuni passaggi legislativi di tipo emergenziale che possono risolvere solo temporaneamente i problemi. Ma come si dice nello splendido film “Aria ferma” di Leonardo Di Costanzo ‘il carcere piano piano lo riempiamo un’altra volta’”. Nel senso che un detenuto muore e viene subito rimpiazzato da un altro? “Certo, perché in Italia non c’è mai stata una seria e complessiva riforma dell’esecuzione penale. La legge Cartabia sulle pene sostitutive ha lanciato un’inversione di rotta. Il carcere non può e non deve essere l’unica risposta. Serve per i casi gravi e non è difficile immaginare quali siano”. Un detenuto si suicida. Tutti accusano il governo che non fa nulla. Pure il ministro Nordio è assai avaro di visite laddove si muore. Ma voi giudici che dovreste essere i primi a tutelare i diritti dei detenuti che fate? “La verità è che la gravissima situazione delle carceri richiederebbe una nostra maggiore presenza. Ma soprattutto dalla sentenza Torreggiani del 2013, che ha condannato l’Italia a suon di miliardi per le condizioni disumane delle nostre prigioni, sono aumentate in modo esponenziale le ‘carte’ di cui proprio noi ci dobbiamo occupare”. Di che “carte” parla? “Le migliaia di fascicoli dei cosiddetti ‘liberi sospesi’, tutti quelli già condannati definitivamente con pene fino a 4 anni, ma che aspettano la nostra decisione per eseguirle. Per non parlare della conversione delle pene pecuniarie, lavoro burocratico più che giuridico, che però impegna moltissimo le cancellerie. Il problema purtroppo resta sempre quello dell’abnorme carenza di personale e di mezzi informatici”. Scusi, ma in Italia quanti magistrati di sorveglianza ci sono? “Siamo circa 230, un numero comunque insufficiente anche se il problema più grave è l’assoluta e costante carenza degli amministrativi. Insomma, è come se un direttore d’orchestra volesse dirigere senza i musicanti”. Che succede se da un carcere riesce ad arrivare la segnalazione di un detenuto che potrebbe uccidersi? Voi che fate? “Nei regolamenti di ogni prigione è prevista la presenza di un gruppo di esperti che segnala il rischio di un suicidio. Può scattare però una voglia di morte improvvisa. Ma il vero guaio sta nelle drammatiche condizioni delle carceri. Perché il sovraffollamento fa sparire la singola persona con i suoi diritti e rende assai difficile individuare tempestivamente i suoi bisogni”. Il famoso ordinamento penitenziario del 1975 non prevede già una sorta di schedatura del detenuto in ingresso che dovrebbe segnalare un’eventuale fragilità? “Quel meraviglioso libro, ancora in parte inattuato, parla proprio di trattamento individualizzato, teso a dare dignità a ogni singolo soggetto a prescindere dalle sue colpe, che nel caso di condanna definitiva non sono in discussione”. Perché però il governo, dopo anni di suicidi, non fa nulla per prevenirli? “Purtroppo il carcere è e resta un luogo pieno di bruttezza non necessaria, una sorta di fondo suppliziante. Le brutalità sono terribili e avvengono spesso tra gli stessi detenuti perché la logica del potere feroce impera nei piccoli spazi. Senza voler sottacere gli episodi di violenza che hanno visto coinvolti gli agenti della penitenziaria, non posso trascurare che molte sono persone straordinarie che riescono a risolvere alcune criticità con una sapienza maturata sul campo”. A fronte dei 44 suicidi non è singolare che il sottosegretario Delmastro lanci il Gio, il gruppo speciale che dovrebbe intervenire in caso di sommosse. Nuovi picchiatori? “Voglio sperare che non sia assolutamente così. L’aumento del personale è necessario sia per gli agenti che per gli educatori, purché si superi un concetto che ho sentito esprimere proprio dal sottosegretario in una visita al carcere di Salerno quando pensa che il benessere della penitenziaria sia svincolato da quello dei detenuti. Ma gli va dato atto che sta girando nelle carceri di tutt’Italia e ciò mi fa ben sperare perché se conosci davvero la vita in cella ti rendi conto che non puoi affrontare separatamente le possibili rivolte e la vivibilità quotidiana nelle patrie galere”. Da quando è Guardasigilli, Nordio ha annunciato mille volte l’uso delle caserme, ma che novità ha visto promosse da lui? “Purtroppo non ho ancora visto nulla di concreto. Anzi mi tocca segnalare che siamo stati esclusi perfino dall’assegnazione delle nuove figure, gli addetti all’ufficio del processo, inviate ovunque, ma negate ai nostri uffici perché si continua a pensare che la fase dell’esecuzione penale sia fuori dal processo. Eppure in tanti non fanno che insistere proprio sulla certezza della pena”. Il Conams vede, oltre a lei come coordinatrice, ben altre sei magistrate al vertice. Possibile che Nordio non vi abbia ancora ricevuto? “Già quand’era presidente Gianni Pavarin era stato chiesto un incontro formale con il ministro in ossequio a una consolidata consuetudine. Ma purtroppo finora non siamo stati convocati. Eppure i buoni interventi possono esserci se, come diceva Piero Calamandrei, ‘il carcere lo si conosce per davvero’”. L’emergenza suicidi nelle carceri italiane, dove è reclusa la marginalità di Alessandro Canella radiocittafujiko.it, 17 giugno 2024 Intervista a Susanna Marietti, coordinatrice dell’Associazione Antigone. Ariano Irpino, Biella, Sassari, Teramo: sono le località dove tra venerdì e sabato scorsi, in un arco di 24 ore, si sono suicidate quattro persone detenute. Si tratta solo degli ultimi gesti disperati di una vera e propria strage che, nella prima metà del 2024, ha portato a 44 suicidi, di cui 16 di detenuti in attesa di giudizio. Le persone in carcere si tolgono la vita con con una frequenza di quasi una ogni tre giorni. “Se questo trend dovesse continuare - osserva l’Associazione Antigone - il 2024 potrebbe superare il tragico record del 2022, quando i suicidi in prigione furono 85”. La questione dei suicidi in carcere è una vera e propria emergenza nazionale, ma non ha l’attenzione necessaria. “Se in una città di 60.000 abitanti si suicidassero 44 persone in pochi mesi - sottolinea Antigone - l’argomento sarebbe al centro dell’attenzione pubblica e mediatica. Invece così non è, come non sembra di interesse tutto il tema carcere, non solo per i suicidi. “Nessuno ormai crede più alla favola che il carcere sia un luogo dove recludere la grande criminalità e in seguito reintegrare quelle persone in società - osserva ai nostri microfoni Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone - Oggi il carcere è il luogo in cui viene reclusa la marginalità, la povertà”. Questi ultimi elementi spiegano, in parte, anche l’emergenza suicidi. Spesso nei penitenziari italiani entrano persone già in grave situazione di marginalità, con problemi di tipo sociale, relazioni interrotte, grande disperazione. L’isolamento del carcere può rappresentare un vero e proprio colpo di grazia su persone che perdono completamente la speranza. Per questa ragione, Antigone propone alcune misure che possano alleggerire il peso della condizione carceraria. A partire ovviamente dal sovraffollamento, che andrebbe drasticamente ridotto, ma anche con la liberalizzazione delle telefonate, dotando le celle di telefoni laddove non sussistano problemi di sicurezza, per mantenere i contatti con l’esterno. “In questi casi è vero che una telefonata ti può salvare la vita”, osserva Marietti. Tra le altre misure che sarebbero necessarie c’è l’assunzione di nuovo personale per alleviare il carico di lavoro degli operatori penitenziari, la riduzione dell’isolamento, promuovendo l’interazione e la socialità tra i detenuti, e dell’utilizzo di psicofarmaci, la modernizzazione del sistema penitenziario, rendendo la vita in carcere più attiva e ricca di iniziative, senza ostacoli burocratici, l’eliminazione della violenza all’interno delle carceri, garantendo un ambiente sicuro per tutti. Il governo Meloni, invece, sta andando nella direzione opposta con l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi reati che stanno facendo viaggiare il sovraffollamento carcerario a una velocità di 300 detenuti in più al mese. Su questo tema l’Associazione Antigone lancia un appello al governo: “Invitiamo il governo a ritirare il ddl sicurezza che, invece, va verso una strada che è l’opposto di quanto servirebbe e, soprattutto, con l’introduzione del reato di rivolta penitenziaria, nella quale si punisce con una pena fino a 8 anni anche la resistenza passiva e la protesta non violenta, lascerà alle persone detenute come unico strumento per far emergere le difficoltà e le problematiche il proprio corpo, con un prevedibile aumento di atti di autolesionismo e suicidi”. I ministeri di Giustizia e Lavoro siglano accordo per il reinserimento sociale dei detenuti gnewsonline.it, 17 giugno 2024 280 milioni di euro, per favorire il reinserimento di chi è sottoposto a misure penali. Promuovere lo sviluppo di attività formative e lavorative per le persone detenute o interessate da misure penali in varia forma; creare attività di supporto a minori e giovani adulti, che si trovino nel circuito della Giustizia minorile; sviluppare un modello che accompagni verso il reinserimento sociale, che offra opportunità lavorative e abitative alle persone in uscita dal circuito penitenziario, in esecuzione penale esterna o sottoposti a sanzioni di comunità. Queste le azioni delegate al ministero della Giustizia - direzione generale per il Coordinamento delle politiche di coesione - in seguito alla sottoscrizione della Convenzione con il ministero del Lavoro e delle politiche sociali, nell’ambito del Programma Nazionale “Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027”. Il PN - in coerenza con quanto definito dal Piano d’azione del Pilastro europeo dei diritti sociali - risponde alle esigenze delle persone vulnerabili e in particolare a quelle degli adulti e dei minori sottoposti alle misure penali. Verranno realizzati, infatti, una serie di interventi orientati a nuovi modelli di inclusione intra ed extra muraria: opportunità lavorative, formative e di inclusione, che li accompagneranno nel percorso di reinserimento, attraverso la promozione di competenze e iniziative di supporto, verso l’uscita dal sistema penale in condizioni di autonomia. “A partire dall’esperienza maturata con il precedente Pon Inclusione 2014-2020 - ha affermato Ettore Sala, capo del dipartimento della Transizione digitale, Analisi statistiche e Politiche di coesione - il Programma Nazionale ha come obiettivo la promozione dell’inclusione sociale e il contrasto alla povertà”. “Grande soddisfazione” ha espresso Gabriella De Stradis, Direttore generale per le Politiche di coesione sottoscrittrice dell’accordo: “La Convenzione darà vita a importanti sinergie tra il Ministero, gli Enti locali e le Organizzazioni del terzo settore - ha proseguito - e saranno finanziati interventi tesi a contrastare fenomeni di esclusione e marginalità delle persone sottoposte a misure penali”. Decreto sicurezza: sorvegliare e punire di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 17 giugno 2024 Abbiamo già detto, anche nella recente audizione alla Camera chiedendone il ritiro, quanto lo schema di disegno di legge 1660 in tema di sicurezza pubblica sia un condensato di propaganda e populismo istituzionale, diretto solo a dare risposte emergenziali di ordine pubblico, che non affronta il tema della sicurezza come questione sociale a cui vanno date risposte di carattere politico. Nel disegno di legge anche la questione carcere viene affrontata con una impostazione esclusivamente giustizialista: aumento delle fattispecie di reato, inasprimento delle pene, anche di quelle già previste dal codice. Niente di nuovo, ne avevamo avuto un chiaro anticipo con i decreti Caivano, Cutro, Rave. Si perseguono e si criminalizzano tutti quei comportamenti che nascono e si determinano in ambienti di povertà, di disagio, di marginalità e di degrado sociale, che avrebbero bisogno di una più forte presenza dei servizi sociali e di una rete di sostegno. In tema di esecuzione penale è rilevante la previsione del carcere nei confronti di donne incinte o madri di figli minori di tre anni, con l’eliminazione dell’obbligo di rinvio dell’esecuzione della pena. Una norma questa che non avrà alcun effetto di deterrenza ma che contribuirà all’affollamento delle carceri e alla presenza di minori all’interno degli istituti, ispirata a colpire soprattutto alcune etnie. Non per niente già si è levato il plauso perché finalmente vengono colpite le donne rom, “borseggiatrici che si fanno mettere incinta solo per non andare in carcere e continuare nelle loro attività”. Ma c’è di più: si vuole perseguire ogni manifestazione del dissenso. Si aggravano le pene per chi imbratta beni in uso alle forze di polizia o ad altri soggetti pubblici, e si introduce il reato di rivolta in carcere, peraltro già esistente. Non si perseguono, com’è ovvio, gli atti di violenza, ma qualsiasi forma di protesta, perfino la resistenza passiva, rendendo quindi impossibile qualsiasi forma pacifica di dissenso. Un detenuto che batte le sbarre per richiamare l’attenzione rischia fino a ulteriori 8 anni di carcere: può essere in carcere per un reato bagatellare, addirittura essere in attesa di giudizio, e vedersi comminati anni di pena perché ha protestato pacificamente per le condizioni della cella in cui è recluso, perché gli viene negata una telefonata, o una visita a un congiunto. In questo contesto riteniamo gravissima l’autorizzazione alla detenzione di una seconda arma senza licenza per gli operatori di polizia; suona come un riconoscimento a un esercizio della sicurezza quasi in forma privata, non compatibile con il nostro ordinamento costituzionale. E ulteriore preoccupazione desta l’istituzione, prevista con il decreto Nordio del 14 maggio scorso, dei cosiddetti Gio, i Gruppi di intervento operativo, soprattutto se letta insieme all’istituzione del reato di rivolta carceraria, di resistenza passiva: reparti speciali per sedare le “rivolte” nelle carceri. La domanda è d’obbligo: è davvero necessario istituire un corpo specializzato per reprimere reati di nuova invenzione, proteste che potrebbero non aver luogo se le condizioni di vita in carcere non fossero inumane, degradanti, se le pene rispondessero al dettato costituzionale? È di questo che ha bisogno il personale, o non avrebbe invece bisogno di dotazioni organiche adeguate e di formazione professionale? Ancora una volta il mantra è soltanto repressione. Così si esprime al riguardo, per fare un esempio, la Camera penale di Roma: “Il nuovo decreto sottrae risorse alla polizia penitenziaria, già numericamente del tutto inadeguata, per istituire nuovi corpi speciali per la repressione delle rivolte e per i quali prevede una formazione di soli tre mesi. Mentre davanti agli occhi scorrono le immagini terrificanti di Santa Maria Capua Vetere, di Reggio Emilia e dell’istituto minorile Beccaria di Milano, riteniamo che appaia indispensabile adottare strumenti che garantiscano l’assoluta trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine, soprattutto all’interno degli istituti di pena troppo spesso percepiti come luoghi di buio impenetrabile”. È del tutto evidente quanto interessi solo e soltanto il “pugno duro”. A fronte di un sovraffollamento che sfiora le condizioni che nel 2013 portarono la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia per violazione dei diritti umani, invece di intervenire con misure deflattive, immediatamente realizzabili, si introducono misure che non avranno altro effetto che quello di aumentare ancora di più la popolazione carceraria. L’unica logica che guida le scelte del governo sul carcere è sempre e solo buttare le chiavi. Sorvegliare e punire. Non a caso la presidente del Consiglio vuole togliere, in linea con il perverso disegno di revisione della Costituzione che sta perseguendo il governo, la finalità rieducativa dall’articolo 27. Dobbiamo assolutamente reagire a tutto questo. Partita a scacchi sulla giustizia, l’Anm si placa e aspetta Nordio di Giulia Merlo Il Domani, 17 giugno 2024 All’assemblea straordinaria c’è il sì allo sciopero, ma solo “quando sarà utile”. Il nodo dei tempi parlamentari. La mozione unitaria ottenuta grazie al superamento del tema del sorteggio al Csm: molte toghe sono favorevoli. Quella da correre è una maratona, non i cento metri piani. Meglio allora rallentare, prendersi il tempo per pianificare ogni mossa, scegliendo “allargamento” come parola d’ordine. Sono servite un’assemblea di sette ore nel sabato di un caldo pomeriggio romano, molti interventi e quattro proposte di mozione, ma l’Associazione nazionale magistrati ha scelto la linea - unitaria - con cui affrontare i prossimi mesi di inevitabile scontro con il ministero della Giustizia, Carlo Nordio, intorno alla riforma costituzionale che separa le carriere e smembra il Csm. E la strategia è sintetizzabile in un’attesa al varco del governo, con lo sciopero come strada percorribile ma solo dopo un percorso partecipato e, soprattutto, da svolgere al momento opportuno. Del resto, è stato il ragionamento filtrato da più parti, l’Anm fino a oggi ha rincorso il governo a ogni proclama - a partire dalle intercettazioni - dandogli esattamente ciò che cercava: un nemico da indicare all’opinione pubblica. Anche in questo caso, infatti, la riforma costituzionale della giustizia è arrivata con un tempismo da campagna elettorale, utile slogan soprattutto per Forza Italia che con più energia l’aveva richiesta. Eppure, al netto del via libera del Consiglio dei ministri e del nulla osta del Quirinale alla presentazione alle camere (per cui Sergio Mattarella si è preso due settimane), la certezza concreta è che l’iter non sarà rapido. Il testo “sarà emendabile”, ha detto il sottosegretario Alfredo Mantovano che della formulazione e presentazione è stato eminenza grigia. Poi, una volta rifinito, ci vorranno due distinte letture in parlamento e, se mancherà la maggioranza dei due terzi, arriverà il probabile referendum. Proprio questo ha sottolineato il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, nella sua relazione: “La riforma ha tempi fisiologicamente lunghi”. Per questo le toghe non dovranno cadere nel tranello della fretta, rispondendo di pancia e non di testa a quella che viene descritta come una riforma “tendente a ridimensionare il potere giudiziario”, “che punta a chiudere l’epoca del controllo effettivo, indipendente e autonomo della giurisdizione”. Così dall’assemblea è subito stato allontanato il dibattito su sciopero sì, sciopero no, facendo vincere subito la sintesi di “sciopero sì, se e quando sarà necessario, incastonandolo in un programma di iniziative aperte e partecipate”. Il risultato, dunque, è stato quello di un lavoro tutto interno all’Anm per ritrovare l’unità, anche a costo di smussare qualche angolo. E l’operazione è riuscita: alla fine l’assemblea ha votato all’unanimità una mozione unica, che ha fatto sintesi delle quattro presentate da Magistratura indipendente, Magistratura democratica, Unità per la Costituzione e Articolo 101. Paradossalmente - viste le accuse di collateralismo al governo spesso mosse dalle altre correnti - la più dura delle quattro mozioni è stata proprio quella presentata dal gruppo conservatore di Mi, con il segretario dell’Anm Salvatore Casciaro che ha parlato di “riforma umiliante, mortificante, perniciosa e pericolosa”, esprimendo la “radicale contrarietà di Mi alla creazione di un corpo autonomo di superpoliziotti destinati alla sottoposizione all’esecutivo” e “ad affidare alla sorte le funzioni del Csm, secondo la logica qualunquista dell’uno vale uno”. Proprio quest’ultimo passaggio - contenuto anche nella relazione del presidente Santalucia che ha parlato di “privazione dell’elettorato passivo e attivo ai magistrati” - era la bomba pronta a esplodere e che solo la diplomazia ha permesso di disinnescare. A minare l’unità è la parte della riforma che prevede il sorteggio secco per l’individuazione dei consiglieri togati al Csm. Scelta stigmatizzata da tutti i gruppi associativi, è invece il punto distintivo del gruppo “anticorrentista” di Articolo 101, che fa parte dell’Anm ed è stato eletto proprio perché sostiene il sorteggio come unico modo di scardinare il cosiddetto “sistema Palamara”. “C’è la necessità di giungere a una protesta unanime contro la riforma che nel suo complesso mina la nostra indipendenza”, ha detto Enrico Infante, ma “la mozione unitaria passa per il rispetto delle varie sensibilità” e “noi sul sorteggio non possiamo transigere”. Questo è stato il punto che, nella dinamica interna, ha richiesto maggior lavoro di mediazione a cui si è adoperata in particolare Md, che ha fatto da pontiera per trovare una formula che evitasse la rottura. Anche perché, spiegano fonti interne, lasciare fuori Articolo 101 avrebbe voluto dire armare il governo con la tesi della magistratura divisa, con la parte “sana”, a favore del sorteggio, esclusa. Il risultato finale è stato un testo votato all’unanimità che fa emergere i punti di convergenza e sorvola su quelli di dissenso. Si esprime un giudizio “fortemente contrario alla riforma nel suo complesso”, che indebolisce la magistratura attraverso “la separazione delle carriere che determina l’isolamento del pubblico ministero”, “la previsione di due diversi Csm” e “l’attribuzione della competenza disciplinare ad un’Alta Corte, che si configura come un tribunale speciale”. Nessun accenno al sorteggio, né in chiave positiva - come lo ha sempre trattato Articolo 101 - né in modo critico come fanno i gruppi associativi. Il timore dei numeri - Del resto nessuno dentro l’Anm ha scordato i numeri numeri: un referendum interno di gennaio 2022 ha certificato che il 42 per cento delle toghe è a favore del sorteggio. L’ultimo sciopero, convocato nel maggio 2022 contro la riforma Cartabia, ha visto solo il 48 per cento di adesioni. Proprio su questi dati fa silenziosamente leva anche il ministro Nordio, quando parla di riforma che convince la maggioranza silenziosa della magistratura. Anche attraverso questa consapevolezza sarebbe passata la scelta di prudenza dell’Anm, che ha scelto la strada di iniziative graduali, il più possibile condivise con l’esterno e soprattutto comunicate in modo da tentare di rompere quella che è stata definita “la propaganda del governo”. In altre parole: per evitare il flop con effetto boomerang in favore della riforma, è necessario arrivare allo sciopero dopo un percorso di costruzione del consenso, visto che il lungo iter costituzionale non impone accelerazioni. I prossimi passi - L’imperativo della magistratura associata, dunque, è quello di non cadere nel tranello della foga, rispondendo pavlovianamente alle sollecitazioni politiche del governo. Si comincerà con iniziative territoriali che coinvolgano “avvocatura, scuole, università, società civile e associazioni” da far culminare con l’organizzazione di una manifestazione nazionale; il coinvolgimento “delle istituzioni europee preposte al monitoraggio dell’indipendenza e imparzialità della magistratura” e infine, nel caso si arrivasse al referendum, la partecipazione anche ai comitati referendari. Solo in ultima istanza e “in relazione all’iter parlamentare di discussione del ddl di riforma costituzionale” ci sarà l’indizione di una o più giornate di astensione. Serve poi anche “l’elaborazione di una strategia comunicativa innovativa ed efficace anche mediante il supporto di esperti della comunicazione”, si legge nel documento. Dentro l’associazione, infatti, c’è la sensazione che la prima arma contro il governo sia quella di fare controinformazione. “Dobbiamo contrastare la vulgata del giudice che prende il caffè col pm o il falso storico di Falcone a favore della separazione delle carriere”, ha esemplificato Stefano Celli di Md, auspicando un cambio di passo che renda comprensibili le ragioni delle toghe a un pubblico di non esperti. La partita a scacchi tra Anm e governo è appena iniziata e si prospetta una partita lenta e tattica. Intanto, evitando il proclama di uno sciopero immediato, la magistratura associata ha sottratto al governo Meloni la facile via dello scontro frontale, facendolo passare come chiusura corporativa. Ora la mossa spetta al centrodestra: con tutta probabilità si partirà dalla Camera e il testo uscito dal Cdm dovrà reggere prima di tutto l’urto parlamentare, dove le voci - non solo di opposizione - non saranno unanimi. Umbria. Il Garante dei detenuti: nelle carceri ancora alto rischio di suicidi ansa.it, 17 giugno 2024 L’Umbria statisticamente rimane una regione ad alto tasso di suicidi in carcere nel rapporto fra detenuti e numero di episodi di autolesionismo. Negli ultimi 12 mesi nelle strutture cinque persone si sono tolte la vita, quattro a Terni. Per questo Giuseppe Caforio, Garante dei detenuti per la Regione Umbria, aderendo a un’iniziativa nazionale rilancia l’appello con il quale il presidente della Repubblica ha invitato la politica ad “adottare con urgenza misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri, causato principalmente dal sovraffollamento, dalla carenza del personale e dall’inefficienza dell’assistenza sanitaria intramuraria”. “Con grande preoccupazione - afferma Caforio - constatiamo, ancora una volta, la sostanziale indifferenza della politica rispetto all’acuirsi dello stato di sofferenza dei detenuti, rispetto al peggioramento delle condizioni di vivibilità delle nostre carceri che, lungi dal consentire quell’inveramento del volto costituzionale della pena, continuano a tradire i basilari principi costituzionali, europei ed internazionali, su cui regge lo stato di diritto e a umiliare continuamente la dignità umana delle persone ristrette. Per la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà è indispensabile che il legislatore individui, immediatamente misure, anche temporanee, volte ad alleggerire la tensione sulla popolazione carceraria. È fondamentale, poi, far sì che il carcere cessi di essere quel luogo di ‘desertificazione affettiva’. Siamo convinti che gli Istituti penitenziari comprenderanno il valore di questa novità, per il lavoro che fanno quotidianamente nel costruire percorsi risocializzanti. Così come siamo altrettanto convinti che la Magistratura di sorveglianza non attenderà che qualcun altro risolva il problema, perché la Corte costituzionale ha delegato anche loro nella risoluzione di questa problematica. È essenziale, inoltre, aumentare le telefonate, perché questo rappresenta un ulteriore modo per tutelare l’intimità degli affetti dei detenuti e allentare il clima di tensione che si respira nelle diverse sezioni degli Istituti italiani. La politica poi deve farsi carico in modo più mirato dei problemi legati al crescente disagio psichico negli Istituti penitenziari. Così come attenzione specifica deve essere rivolta alla condizione alle persone affette da disagi psichici gravi. Altrettanta attenzione, infine, va riservata ai tanti detenuti, affetti da grave disagio psichico o da infermità psichica sopravvenuta, si trovano a scontare la pena in sezioni comuni e non in articolazioni psichiatriche o in misura di detenzione domiciliare cd. in deroga”. Secondo Caforio, poi, “i suicidi sono sia il prodotto della lontananza della politica e della società civile dal carcere sia della mancanza di figure sociosanitarie e di ascolto negli Istituti”. Milano. Evasione dall’Ipm Beccaria: preso anche il secondo fuggitivo di Marianna Vazzana Il Giorno, 17 giugno 2024 Due ragazzi marocchini si erano allontanati dal carcere minorile venerdì scorso: il primo era stato ritrovato su un treno a Garbagnate. Il secondo individuato nei pressi della struttura di detenzione. Evasione dal Beccaria: preso anche il secondo fuggitivo. Il ragazzo, un sedicenne marocchino, scappato dal cortile passeggi venerdì scorso, è stato avvistato in prossimità dell’ingresso del carcere dall’agente addetto alla portineria. Subito è stato prelevato dal personale di Polizia Penitenziaria e riaccompagnato nella struttura dove si trovava detenuto. Fin dalle prime ore successive all’evasione sono state perlustrate le zone dove i detenuti avrebbero potuto cercare ospitalità. Anche nelle strade vicine all’istituto erano state disposte ronde e controlli da parte degli operatori del Beccaria. I due detenuti erano evasi nel pomeriggio di venerdì 14 dal cortile passeggi, scavalcando senza troppe difficoltà il muro del cortile e quello di cinta. Il primo fuggitivo, anch’egli sedicenne marocchino, era stato riacciuffato poco dopo la mezzanotte del giorno dell’evasione, su un treno fermo in stazione a Garbagnate. L’avevano identificato i carabinieri della compagnia di Cesate. Sul posto anche la polizia penitenziaria. Soddisfazione è espressa da Domenico Pelliccia e Giuseppe Merola, al vertice della Federazione sindacati autonomi Cnpp: “Complimenti per il lavoro svolto al personale di polizia penitenziaria, capitanato dal dirigente Daniele Alborghetti”. Ferrara. Presini: “La recidiva è molto bassa dove si scommette sulle attività rieducative” di Giuseppe Malaspina ferraratoday.it, 17 giugno 2024 Il curatore del progetto del giornale “Astrolabio” racconta come si articola il lavoro della redazione. Una finestra su un luogo che tende a sfuggire agli sguardi del mondo esterno, pur essendo collocato all’interno del tessuto urbano. Se in tempi antichi l’astrolabio era uno strumento astronomico utile a individuare la posizione dei corpi celesti, il nome di questo antenato del navigatore moderno è stato preso in prestito per raccontare quanto avviene nel carcere. Dietro il giornale dell’Arginone, infatti, c’è un progetto editoriale che tenta di creare un ponte fra le comunità dentro e fuori quello spazio fisico, dando voce ai reclusi e a chi opera nella casa circondariale ‘Costantino Satta’ per restituire una prospettiva sulle attività che vi si svolgono e sulle storie delle persone che la abitano. Attualmente, a curare il progetto è Mauro Presini. Da diversi anni, lei cura la realizzazione del giornale ‘Astrolabio’ del carcere ‘Satta’ di Ferrara. Che cosa rappresenta l’esperienza della redazione per i detenuti coinvolti? “Chi partecipa alle attività della redazione fa una scelta di impegno e di responsabilità perché, essendo queste collocate in un orario che coincide con l’ora d’aria, dimostra un sincero interesse rinunciando a un momento importante della giornata. Inoltre rappresenta un momento di confronto e di condivisione di temi interni ed esterni al carcere in cui ognuno può intervenire rispettando le regole democratiche di una normale discussione civile”. Come viene articolato il lavoro? “Ci si incontra una volta la settimana per un’ora e mezza: si parla di quel che è successo in particolare a qualcuno o in generale. Se una persona ha scritto qualcosa la legge agli altri quindi si socializzano le riflessioni conseguenti. Se ho qualche articolo o brano di libro che ho scelto, lo leggo e lo si commenta insieme. Cerco di indirizzare la scrittura su alcuni argomenti, curando particolarmente l’aspetto della forma perché questa non dovrebbe risultare solo e sempre recriminatoria o rivendicativa ma una scrittura che, accogliendo le osservazioni critiche, le faccia seguire da un’adeguata parte propositiva. In ogni caso, chiunque è libero di scrivere sugli argomenti che ritiene interessanti”. Una volta raccolti i testi, cosa avviene? “Quando si hanno gli scritti necessari per chiudere il numero, si fa attenzione nella distribuzione degli articoli in modo che ci possano essere autori diversi e quindi diversi punti di vista. Si concorda l’ultima pagina che, di solito, è dedicata a un personaggio importante che ha vissuto l’esperienza del carcere. Si discute di quali immagini potrebbero illustrare il numero, si guardano i disegni che hanno fatto altre persone dentro, e infine si sceglie la copertina. Una volta fatto questo, gli scritti, le foto e i disegni vengono spediti all’ufficio grafico che propone una bozza. Sistemata e corretta la bozza si distribuisce una copia per cella, se ne spediscono più di un centinaio di copie agli indirizzi selezionati quindi la si mette a disposizione su internet. Tutti i numeri di ‘Astrolabio’ sono scaricabili gratuitamente sul sito web del giornale”. Chi è sottoposto a una compressione della libertà inevitabilmente rielabora le proprie priorità. Quanto questa condizione si riflette nella scelta dei temi da trattare nel giornale? “Le condizioni di vita delle persone ristrette condizionano in maniera forte i temi scelti in ‘Astrolabio’. C’è però, da parte di tutti, il desiderio di non fare un giornale pesante, sia per chi lo legge da dentro che per chi lo legge da fuori. Quindi sono bene accetti articoli che non parlano solo della condizione carceraria ma che offrono un respiro più ampio che allarghi il punto di vista. Da qui nasce anche la scelta di usare fotografie o immagini che evochino armonia e bellezza. A noi sembra che ciò possa far sentire il bello e il buono che c’è attorno a noi”. Fra le questioni più pressanti per la comunità carceraria in generale, c’è il sovraffollamento. In quale misura questo problema tocca i detenuti dell’Arginone? “I dati statistici, al 31 maggio 2024, presentano una situazione molto preoccupante anche per quanto riguarda la casa circondariale di Ferrara: a fronte di una capienza di 244 posti, i detenuti presenti sono 406 di cui 167 stranieri. Il problema andrebbe risolto non tanto con la costruzione di nuovi padiglioni che andrebbero a invadere spazi utili alla rieducazione ma provando ad attuare misure alternative alla carcerazione come la semilibertà, l’affidamento ai servizi sociali, la detenzione domiciliare”. Dallo sport al teatro, passando per la cura del verde, quanto sono importanti le attività dei detenuti in un’ottica di reinserimento sociale? “È ormai provato statisticamente che negli istituti penitenziari dove si scommette molto sulle attività rieducative, la recidiva sia molto bassa. Al contrario nelle carceri dove il lavoro e le attività trattamentali sono poche, la recidiva raggiunge quote anche del 70%. Quando una parte di opinione pubblica, indicando i ‘cattivi’ che stanno in carcere, vuole che si chiudono e che si butti la chiave, scordano che queste persone prima o poi sconteranno la loro pena e usciranno di nuovo nella società. Pertanto diventa indispensabile migliorare la qualità delle attività rieducative e offrire il giusto sostegno a chi esce dal carcere”. La fase dell’emergenza pandemica ha contribuito a vanificare l’incidenza di laboratori e le varie attività in carcere? “Sicuramente le misure messe in atto durante la pandemia hanno bloccato tutte le attività per un periodo abbastanza lungo con forti conseguenze psicologiche sulla routine quotidiana di chi l’ha vissuta da dentro. Fortunatamente noi volontari abbiamo potuto rientrare prima del previsto, sottoponendoci alla necessaria profilassi, e ciò ha portato una maggiore tranquillità nelle persone detenute poiché il nostro rientro ha rappresentato una sorta di ritorno alla normalità”. Quanto è importante, per i detenuti e per la società ‘fuori’, la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale? “La figura del Garante è di un’importanza rilevante sia per chi sta dentro che per chi sta fuori perché, rappresentando un osservatore del rispetto dei diritti civili, riveste un ruolo di garanzia fondamentale. Va segnalata inoltre la gravità della scelta del Comune di Ferrara, distintosi in passato fra i primi per la nomina del Garante, di non averne ancora nominato uno nuovo nonostante le sollecitazioni della società civile e del Garante regionale stesso”. Oltre al suo impegno in carcere, lei è un maestro elementare. Quanti elementi di comunanza ritrova nelle due esperienze? “I bambini e le persone detenute hanno in comune il fatto che non vengono considerati cittadini degni di esprimere il proprio pensiero nonostante la nostra Costituzione affermi che ‘tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione’. Per questo curo orgogliosamente da più di 30 anni ‘La Gazzetta del cocomero’, il giornale dei bambini e delle bambine della scuola ‘Bruno Ciari’ di Cocomaro di Cona e altrettanto faccio da 8 anni con ‘Astrolabio’, il giornale del carcere di Ferrara. Penso ci sia bisogno di dare a tutte le persone la dignità che è dovuta, siano esse bambini o detenuti. Un’ultima riflessione? “Il nostro Paese sta vivendo una grossa crisi non solo economica ma anche sociale, culturale ed educativa. Io credo che per cercare di risolverla si dovrebbe investire sulla cooperazione e non sulla competizione, sul lavoro vero e non su quello precario, sulla giustizia sociale e non sulle disparità di trattamento, sul rispetto della legalità e non sui condoni agli evasori. Ma soprattutto credo fortemente si dovrebbe praticare, in concreto, un modello educativo serio, rispettoso e inclusivo che restituisca a ciascuno di noi quell’umanità che ci sta mancando, quella fiducia nelle persone che ci permetta di vivere insieme e quella speranza in un domani migliore di cui abbiamo tutti bisogno”. Verona. Suicidi in carcere, oggi la Maratona oratoria dell’Unione Camere Penali cronacadiverona.com, 17 giugno 2024 Accendere i riflettori su una questione molto seria:?i suicidi in carcere. Questo è l’obiettivo degli avvocati dell’Unione Camere Penali che stanno girando tutta Italia con una maratona oratoria “per dare voce a chi non ce l’ha”. Riguardo l’evento, che avrà luogo a Verona lunedì 17 giugno alle 11 in piazza dei Signori, l’avvocata veronese Barbara Sorgato, membro della giunta nazionale dell’Unione Camere Penali, ha dichiarato: “L’evento a Verona fa seguito alle molte iniziative che abbiamo organizzato per portare a conoscenza della situazione critica delle carceri e l’obiettivo è avere una risposta dalla politica. Oggi il sovraffollamento delle carceri sta raggiungendo i numeri del 2013, anno in cui l’UE ha sanzionato l’Italia per questo motivo. Noi non ci siamo mai fermati e abbiamo invitato tutte le 129 Camere Penali d’Italia a questa iniziativa, una maratona oratoria in cui parteciperanno non solo avvocati e giuristi, ma sono invitati a parlare anche cittadini ed ex carcerati”. Anche Giorgio Pasetto, +Europa, parteciperà all’evento e contestualmente lancia una proposta: “È molto importante partecipare. È un tema che spesso passa in secondo piano ma la situazione è critica, anche a Verona. Con questo Governo la situazione è peggiorata ulteriormente con l’inasprimento delle pene. I carcerati non vanno ghettizzati ma reintegrati. Anche l’attività sportiva è molto importante per i detenuti”. “Io - conclude Pasetto - in qualità di presidente della Fondazione Bentegodi, sono disponibile ad incontrare la direttrice della Casa Circondariale per confrontarci su come possiamo renderci utili e portare lo sport in carcere”. Catanzaro. Le prigioni della mente: due giornate dedicate alle persone private della libertà cn24tv.it, 17 giugno 2024 “Le prigioni della mente. Criticità esistenti e percorsi innovativi in ambito penitenziario”, questo il titolo delle due giornate di dibattito a cura del Garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia, che si terranno il 18 e il 19 giugno presso la Cittadella regionale “Jole Santelli” di Catanzaro. All’evento, oltre ad esperti e specialisti del settore ed ai rappresentanti delle istituzioni, dell’Amministrazione penitenziaria, della magistratura, dell’avvocatura e degli Ordini professionali, parteciperà anche Felice Maurizio D’Ettore, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, il quale concluderà i lavori della prima giornata. Il Convegno sarà aperto da una conferenza stampa tenuta in occasione della giornata di mobilitazione per migliorare le condizioni di vita nelle carceri a cura della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Si tratta dell’ennesimo atto di sensibilizzazione a distanza di tre mesi dall’appello “Servono interventi urgenti per il sovraffollamento e i suicidi nelle carceri”, in cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella invitava la classe politica del Paese ad adottare con urgenza misure immediate per allentare il clima di tensione che si respira nelle carceri italiane. Alla conferenza iniziale, oltre al Garante regionale Muglia, interverranno Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza e Garante regionale della Campania, e Bruno Mellano, Garante regionale del Piemonte. Previsti, altresì, gli interventi di Antonello Talerico, componente del Consiglio nazionale forense e Valerio Murgano, componente della Giunta nazionale dell’Unione camere penali italiane. La prima sessione, che analizzerà gli effetti della detenzione sotto il profilo neuroscientifico, prevede le relazioni di Umberto Sabatini, professore di neuroradiologia, Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, Federica Coppola, professore di diritto penale comparato dell’IE University Law School di Madrid, e Antonio Cerasa, neuroscienziato, responsabile della comunicazione IRIB CNR Messina. Nella seconda sessione, dedicata ai percorsi innovativi in ambito penitenziario, si avvicenderanno gli interventi di Cristina Franchini, responsabile area giustizia di My Life Design, Benedetta Genisio, coordinatrice dell’associazione Crisi Come Opportunità, Roberto Dichiera, cappellano del carcere di Frosinone e referente di Nuovi Orizzonti, Adolfo Adamo, autore e regista teatrale, Marcella Reni, presidente di Prison Fellowship Italia, Enzo Galeota, componente dell’Osservatorio nazionale carcere dell’Unione camere penali italiane e Piero Mancuso, co-responsabile dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Catanzaro. Ad introdurre i lavori il Garante regionale, mentre il dibattito sarà moderato dall’autore e conduttore televisivo Domenico Gareri. Il Garante Muglia ha sottolineato che “i temi trattati e le presenze autorevoli ci proiettano nel panorama nazionale. È un’occasione importante, la Calabria può diventare crocevia del dibattito sul carcere. Da un lato, le ricerche scientifiche sui rischi del carcere nel terzo millennio e su come le condizioni detentive compromettano la possibilità di riabilitazione sociale e recupero della persona. A documentarlo esperti nazionali ed internazionali in neuroscienze cognitive, sociali e affettive, alcuni dei quali calabresi. Dall’altro, l’intervento qualificato dei referenti di alcuni progetti regionali e nazionali molto innovativi, a dimostrazione del fatto che esistono strumenti del tutto diversi in grado di introdurre nuovi modi di concepire la pena e il tempo di detenzione”. Pontremoli (Ms). Corso di giornalismo per le ragazze detenute dell’Ipm di Alessandro Fiorentino lagazzettadimassaecarrara.it, 17 giugno 2024 L’Istituto Penale Minorile di Pontremoli ha partecipato a un progetto per il recupero e la riammissione in società delle ragazze detenute, che ha visto coinvolto, non solo l’amministrazione comunale, ma anche alcuni soggetti esterni, tra cui il giornalista ormai Andrea Luparia. È proprio lui che ha avviato un corso di giornalismo al quale hanno partecipato con molto entusiasmo molte ragazze, con la speranza di poter trovare un nuovo inizio, una nuova strada da percorrere una volta tornate alla vita reale. Un messaggio che trova fondamento anche nelle parole del sindaco di Pontremoli, Jacopo Ferri, chiamato ad aprire la relazione finale tenutasi all’interno del carcere femminile: “Sono contento che Pontremoli si offra a progetti come questi, così come è stata l’esperienza teatrale di qualche mese fa. Pontremoli spera di vedervi alla fine del vostro percorso carcerario per aiutarvi a rifarvi una vita”. Di opportunità di lavoro ha anche parlato il responsabile della CISL di Massa Carrara, Andrea Figaia che non ha nascosto di aver avuto qualche momento di difficoltà entrando nel mondo della detenzione. “È stato difficile entrare nella mentalità di un carcere” ha sottolineato “è stato necessario fare uno sforzo mentale e di cuore per riuscire ad abbattere le barriere mentali che ci dividono. I sindacati sono una porta aperta anche per voi, devono diventare un’opportunità di riaccoglievi nel mondo del lavoro”. Il giornalista Luparia ha avuto un lungo colloquio con le detenute, spiegando che questo progetto appena terminato, iniziato analizzando la lettura del Vangelo con l’aiuto di don Giovanni Perini, non sarà l’ultimo ed ha chiesto alle ragazze stesse di indicare quali possono essere i soggetti di nuovi futuri corsi che potranno permettere loro di presentarsi all’appuntamento con la libertà, con un’arma in più per un ingresso in società positivo. Ancora Jacopo Ferri ha insistito col dire che la vera sfida è fuori non dentro il carcere e ancora una volta e, su questa linea di pensiero, si è accodato Simone Andreozzi educatore dell’Istituto che accompagna le ragazze durante la loro permanenza in carcere: “Dovete vedere questo periodo della vostra vita come un bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto. Avete la possibilità di essere accompagnate verso una nuova vita, con un valore aggiunto, approfittatene”. Presente anche la direttrice degli Istituti di Scuola Superiori Pacinotti e Belmesseri, Lucia Baracchini che ha spronato le ragazze ad impegnarsi, partendo dal basso, dagli studi prima di tutto ricordando alcune ospiti che prima di loro hanno frequentato con successo le scuole lunigianesi con profitto, dando una svolta decisiva alla propria vita, perché nessuno debba ritenersi penalizzato. Assente il professor Nicola Carrozza, sindacalista della Provincia di La Spezia che per motivi personali non è potuto intervenire ma ha voluto comunque lasciare un messaggio scritto di incoraggiamento alle ospiti. Le giovani ragazze, provenienti per la maggior parte dal nord Italia, si sono mostrate molto interessate ed hanno seguito con viva partecipazione la conferenza dando interessanti spunti di riflessione sia sulla loro esperienza carceraria, sia sulle loro aspettative ed i loro sogni in attesa di essere realizzati una volta oltrepassate le sbarre del carcere. San Severo (Fg). “Rinascita Murale”, l’arte dei detenuti di illumina la sala colloqui Gazzetta del Mezzogiorno, 17 giugno 2024 Frutto della collaborazione tra l’artista e volontaria Veronica Di Mauro, la dirigente Patrizia Andrianello e l’associazione “Movimento Uniti per San Severo”. Presso la Casa Circondariale di S. Severo si è svolta l’inaugurazione della nuova Sala Colloqui, frutto della collaborazione tra l’artista e volontaria Veronica Di Mauro, la dirigente Patrizia Andrianello e l’associazione “Movimento Uniti per San Severo”. L’iniziativa ha preso forma grazie anche al supporto dell’Ufficio Area Giuridico-Pedagogica, rappresentato dal Segretario Tecnico Giacomo Salvemini e dal F.G.P. Dott.ssa Alexa Campanaro. “Rinascita murale” rappresenta il processo di cambiamento e rinnovamento personale che un gruppo di 5 detenuti ha sperimentato durante la creazione di dipinti all’interno della Sala Colloqui, con l’intento di offrire un ambiente supportivo per le famiglie, particolarmente attento ai bisogni dei bambini per i quali è stata allestita una piccola area ludoteca, migliorando così il tempo delle visite e della genitorialità. Il progetto, di spiccato valore pedagogico, ha offerto ai detenuti una forma di espressione artistica per occupare il tempo in modo costruttivo nonché l’opportunità di partecipare attivamente alla trasformazione dell’ambiente, contribuendo così al processo di riabilitazione. Tra novembre 2023 e febbraio 2024, si sono svolti 35 incontri, di cui 10 per la pianificazione e la progettazione, durante i quali si è scelto come tema del Murale “la crescita e il rinnovamento”, rappresentato attraverso un paesaggio campestre, emblema di libertà e riunificazione familiare. Veronica Di Mauro, coordinatrice del progetto, ha sottolineato come l’arte sia trasformativa e possa connettere mondi diversi. “Durante i lavori ho appreso come dirigere e motivare un gruppo variegato di persone, comprendendo le loro difficoltà quotidiane e l’importanza dell’arte nella rieducazione per ispirare cambiamenti profondi. Ho osservato la trasformazione dei ragazzi coinvolti, che, creando il murale, hanno provato un senso di appartenenza e scopo. Il merito del successo va a Nicola, Filippo, Lorenzo, Antonio e Gabriele, che lavorando con impegno ed entusiasmo, hanno dimostrato come la bellezza possa emergere anche in contesti difficili, come quello carcerario”. Il murale, frutto di un lavoro di squadra, si erge come simbolo tangibile di speranza, cambiamento e rinascita, evidenziando il potere dell’arte come strumento di riabilitazione e integrazione. Piacenza. Anche i detenuti delle Novate tra i vincitori del bando della prima YouthBank di Francesco Petronzio ilnuovogiornale.it, 17 giugno 2024 La Fondazione di Piacenza e Vigevano finanzia ogni proposta - dal valore complessivo di 8mila euro - con un contributo di 7mila e 200 euro. Più che raddoppiato dunque il budget fissato all’inizio: da 30mila euro, l’ente di via Sant’Eufemia investe 64mila e 800 euro per le nove proposte, presentate alla città durante l’evento Joy - Journey of youth che si è tenuto sabato sera, 15 giugno, all’ex caserma Cantore a Piacenza. Il progetto YouthBank, promosso dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano per promuovere il protagonismo giovanile, taglia dunque un nuovo traguardo e si prepara a dare vita agli interventi che un gruppo di under 25 ha ideato (gli youthplanner) e altri coetanei hanno selezionato (gli youthbanker). Nove gruppi affiancati da organizzazioni no profit - “Grazie all’impegno degli youthbanker nel far conoscere il bando presso scuole, associazioni, persino all’interno della casa circondariale - sottolinea Edoardo Favari, consigliere generale della Fondazione - dal territorio è arrivata un’adesione molto superiore alle aspettative, ripagandoci degli sforzi compiuti lungo il percorso. Tanto che abbiamo deciso di celebrare il momento con una festa, il Joy Piacenza Party. Un ringraziamento particolare, per la fase di presentazione formale dei progetti, che si è appena conclusa, voglio rivolgerlo alle associazioni e agli uffici della Fondazione, che hanno supportato gli youthplanner nell’assolvere agli aspetti formali della richiesta di contributo”. Annunciati dagli youthbanker - ovvero i “banchieri” under 25 che hanno scritto il bando - i giovani progettisti sociali (youthplanner) hanno presentato le proprie proposte, che si concretizzeranno grazie all’affiancamento di una organizzazione no-profit del territorio, come previsto dal regolamento. Ecco i nove progetti. La grafica delle sigarette negli anni - Daniele Sciaudone, affiancato da Associazione Fase Luce, ha proposto Paradiso Artificiale - Una Comunicazione Efficace: una mostra sull’evoluzione delle pubblicità dei pacchetti di sigarette durante il XX secolo, esposizione di poster/grafiche e analisi delle strategie di marketing. “Analizziamo l’aspetto grafico e comunicativo dei pacchetti in tre periodi principali - spiegano i progettisti -: fino agli anni 50, quando si pensava che le sigarette facessero addirittura bene e quindi venivano usati testimonial medici, dagli anni ‘50 agli anni ‘80, con i primi divieti, e infine dagli anni 80 ad oggi”. Una comunità scientifica a Piacenza - Maria Diletta Neri, Azzurra Lagomarsini, Anastasia Grendene e Giulio Fontanella sono gli ideatori di Piacenza Scientific Talks, che con l’affiancamento di Amop Piacenza proporrà conferenze in lingua inglese su clinical innovation e medical sciences tenute da ospiti internazionali e laboratori a tema (ad esempio, sulle tecniche di sutura, il massaggio cardiaco, come leggere un elettrocardiogramma, eccetera). “L’obiettivo è creare una comunità scientifica a Piacenza e raggruppare scienziati da tutta Europa per parlare delle loro ricerche in ambito medico. Il nostro interesse è condividere più competenze pratiche su manovre di primo soccorso come il defibrillatore”, spiegano le progettiste. Il carcere parla attraverso la musica - Da Dentro a Fuori - Musica per includere progetto proposto da un gruppo di ragazzi ristretti, in collaborazione con Verso Itaca APS. Eventi musicali con i detenuti della Casa Circondariale “Le Novate”, studenti delle scuole piacentine, ospiti e artisti esterni. A presentare il progetto, e a rappresentare i quattro planners detenuti, la direttrice del carcere Maria Gabriella Lusi e Alberto Gromi di “Verso Itaca”. “È un progetto che nasce dal desiderio dei giovani detenuti di stare insieme attraverso la musica. Credo che la luce negli occhi dei ragazzi, che si sono impegnati in questo progetto scrivendo musica insieme a Michele Serra, col coordinamento del professor Gromi e di un educatore che oggi non c’è, è già un grande risultato. È quella luce che determina speranza, sia nei ragazzi sia in noi e in tutta la cittadinanza”, afferma Lusi. “L’evento zero sarà il 20 giugno, poi ci saranno altri tre concerti in autunno, aperti a tutti”, spiega Gromi. Un festival della salute mentale - Estella Dallagiovanna e Bianca Catalano con Associazione Fuori Serie hanno pensato a JOMO - festival della salute mentale che prevede l’attivazione di uno sportello d’ascolto, laboratori e talk con esperti, spazio graffiti, esposizioni di artisti locali e concerto finale del rapper Moder. “Lo sportello, per tutte le fasce d’età e soprattutto per gli adolescenti - spiegano - sarà aperto con un festival di tre giorni, in contemporanea con il Festival del pensare contemporaneo, e andrà avanti per alcuni mesi. Jomo si sviluppa sia sulla salute mentale che sull’ascolto e sulla cultura, sull’arte e sulla musica. Perciò abbiamo deciso di aprire gli stand sui laboratori artistici, con musicisti, dj, artisti piacentini oltre a talk con esperti come ginecologi e volontari dei centri antiviolenza. Vogliamo creare un ambiente di collettività che possa essere un posto sicuro per tutti gli adolescenti e giovani adulti che vogliono farci conoscere i propri problemi”. Aiutare gli studenti internazionali - Aysenur Ozbek e Muhammed Kayra Kilickan affiancati da Rathaus hanno messo a punto Piacenza Student Society (PSS), per favorire e supportare l’integrazione degli studenti internazionali a Piacenza. “Lo scopo è aiutare gli studenti internazionali con le procedure legali e migliorare la loro vita sociale a Piacenza”, spiegano. Dipendenze, un progetto nelle scuole - Shantal Fummi con Tice cooperativa sociale onlus realizzerà AttraversaMENTI, un ciclo di interventi negli istituti superiori sulla salute mentale, le dipendenze, l’affettività e l’età adolescenziale, rivolto sia agli studenti che ai genitori. “È un progetto di educazione, formazione e informazione sui temi della dipendenza da sostanze e affettiva da realizzare negli istituti superiori del territorio. Crediamo sia importante che gli agenti di socializzazione primaria, come famiglia e scuola, possano fare la differenza all’interno delle traiettorie evolutive che i ragazzi potrebbero prendere”. Festival “della sostenibilità” - Elena Brianzi, Nausicaa Fermi, Anna Vullo e Rossana Gazzola coadiuvate da Kult APS hanno pensato ad Alter Fest, un festival poliedrico e partecipato sulla tematica della responsabilità dei giovani in merito alla sostenibilità ambientale, sociale e culturale (talk, proiezioni, laboratori, musica, arte, attività outdoor, mercatino handmade). “Il festival è giunto alla seconda edizione, che riusciamo a realizzare grazie a YouthBank e alla Fondazione. Si svolgerà a ottobre e durerà due giorni”. Tutti possono creare cultura - Anna Ferrari e Matteo Piva con il progetto Ciak! hanno pensato a un laboratorio inclusivo di formazione sulle tecniche audiovisive e produzione di un cortometraggio; saranno affiancati da Associazione Coming out. “Sono poche le iniziative culturali a cui possono avere accesso ragazzi con poca disponibilità economica - spiegano - quindi, abbiamo deciso di dare un’opportunità a questi ragazzi, che selezioneremo entro la fine di giugno, di esprimere la propria voce attraverso il linguaggio cinematografico e la produzione di un breve documentario. Il tema sarà scelto da loro. La prima fase sarà di formazione con professionisti del settore, poi verranno affiancati da un tutor per concretizzare le loro idee per poi restituirle alla comunità in una proiezione che presenterà tutto il percorso svolto”. Un musical per parlare di sé - Ludovica Fissolo, Erica Pittoni, David Remondini, Jacopo Farsetti e Ginevra Barani hanno presentato il progetto A scuola di musical, e con la Compagnia teatrale Erranti Aps hanno pensato a un laboratorio teatrale finalizzato alla realizzazione e messa in scena di un musical con il coinvolgimento degli studenti del Liceo artistico per le scenografie. David Remondini, vicepresidente di Erranti Aps, ha illustrato i dettagli del progetto: “Ci ha colpito molto la trasversalità pensata dai ragazzi, che significa empatia. Ragazzi del Cassinari hanno pensato di creare un musical, un “pretesto” per arrivare a raccontare qualcosa di sé. Il musical è il massimo dell’espressione dell’essere umano su un palco, perché laddove non bastano le parole del testo, il personaggio deve cantare. Laddove non basta il canto, bisogna muoversi, ballare. E così si arriva a mettere insieme tre discipline artistiche fortissime. Trasversalità perché i ragazzi che parteciperanno saranno non solo interpreti ma anche scenografi, costumisti, creatori di un video che racconti l’esperienza a chi non potrà esserci”. Premio extra a “Piacenza Student Society” - L’evento Joy Piacenza Party è andato avanti dalle 18 fino alla mezzanotte di sabato 15 giugno con musica live, premiazioni e dj set. Durante la serata si sono esibite dal vivo diverse giovani band della new wave piacentina: dagli Amine all’indie rock/pop degli Sbraisers, dai Fields of petrichor a Beatrice Tommasi, per proseguire con gli Aeufenic e concludere con l’alternative rock dei Lunaris Causa. Dopo la premiazione dei progetti, il pubblico ha votato il “preferito”, Piacenza Student Society di Aysenur Ozbek e Muhammed Kayra Kilickan affiancati da Rathaus, che si è aggiudicato la speciale “borsa Joy”, ossia un fondo extra di 500 euro per la realizzazione dell’attività. Daria Bignardi: “Il male esiste, ma la sofferenza non serve a niente” di Elena Coatti estense.com, 17 giugno 2024 “Ogni prigione è un’isola”. È questo il titolo dell’ultimo libro di Daria Bignardi con il quale mette in relazione due mondi a lei molto cari, quasi “irresistibili” dice, e che ha potuto conoscere da vicino negli ultimi trent’anni. Ad accompagnarla nella presentazione anche la senatrice Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo, accolti nella sala della Libraccio da un fragoroso applauso. Daria Bignardi racconta come è nato il suo “magnetismo” nei confronti del carcere. Un po’ perché da piccolina quando andava a trovare la sua amica in via Piangipane non poteva fare a meno di notare quell’edificio, oggi sede del Museo ebraico, e non si spiegava come poteva esserci finito Giorgio Bassani. “Ma non ci vanno solo le persone cattive?”, si chiedeva. Poi, una volta cresciuta, scambiò diverse lettere con un giovane americano condannato a morte, Scotty. Forse, Daria Bignardi ha semplicemente capito che il carcere riguarda tutti noi. E l’ha capito sulla sua pelle Ilaria Cucchi, il cui fratello di carcere è morto e che da allora si batte per cambiare questo sistema. “Ogni prigione è un’isola perché le prigioni sono isolate non solo dal punto di vista strutturale - spiega la senatrice Cucchi -, quindi lontane dai centri urbani, ma sono isolate soprattutto nell’immaginario collettivo”. Ma il carcere “ci riguarda tutti - continua - e i detenuti un giorno torneranno a far parte della società”. Per questo è necessario investire sul loro futuro perché, come spiega Bignardi, “nei casi in cui i detenuti che hanno avuto accesso a programmi di lavoro, la recidiva crolla al 20%”. Tuttavia, le condizioni del sistema carcerario “non fanno che peggiorare”, afferma l’autrice. Adesso le prigioni sono “piene di persone disgraziate, povere e con problemi di salute mentale”. Perché il carcere è così classista? “È lo specchio della nostra società - interviene Fabio Anselmo -. Il carcere è diventato una discarica nella quale gettare tutti coloro che non sono normo-conformati, dove la piramide dei diritti è invertita perché la legge non è uguale per tutti”. Non sono uguali nemmeno le possibilità tra i detenuti quando si tratta di carceri femminili, nelle quali le donne, essendo in minoranza, sono abbandonate a loro stesse. Ma vittime di questo sistema sono anche gli operatori e gli agenti di polizia “che devono fare i conti con il continuo sovraffollamento”, ricorda Cucchi, sia dal punto di vista logistico che psicologico. “Bisogna raccontare il carcere - afferma Daria Bignardi - per far venire alle persone la voglia di guardarci dentro. Un carcere aperto è meglio per tutti, sia per i detenuti, per chi ci lavora e per chi sta fuori”. L’autrice racconta che fu proprio Luigi Pagano, il direttore del carcere più grosso d’Italia, a spiegarle che “se c’è una cosa per cui la prigione può essere utile sta nella relazione che si crea tra una persona detenuta e una esterna, come un volontario o uno psicologo”. “In quella relazione - conclude l’autrice - si crea un legame di fiducia che il detenuto, quando uscirà, non vorrà tradire”. Ecco cosa dovrebbero capire certi politici, secondo Fabio Anselmo: “un carcere aperto e a misura d’uomo ridurrebbe la recidiva”. Quelle finte giornate di sole dei genitori in carcere di Sebastiano Pucciarelli huffingtonpost.it, 17 giugno 2024 L’esperienza dei detenuti nella Casa Circondariale Lorusso Cotugno di Torino in un podcast curato da Francesca Berardi: “Essere genitori ci porta a fare i conti col nostro essere figli e col passato, un processo che dentro una cella si amplifica”. Ti tocchi compulsivamente le tasche e non trovi il telefono. Ti agiti, poi ricordi che è giusto così: lì dove sei non puoi averlo. Dopo un minuto lo rifai, stesso turbamento, e ti ripeti che è normale: sei in carcere. Non ci avevi mai pensato, ma chi sta dietro le sbarre non vive connesso alle protesi tecnologiche che chi sta fuori non molla mai - telefono, navigatore, cuffie. Starai in prigione per poche ore e hai dovuto lasciare tutti gli apparecchi elettronici in quella terra di mezzo fatta di gabbiotti per i controlli, bar e uffici che separa il cancello d’ingresso dal secondo, quello del penitenziario vero e proprio. Chissà se anche i detenuti sentono questa “nudità” quando entrano, e chissà quanto ci si mette a dimenticare quelle appendici che abbiamo sempre addosso. Che qua dentro si viva in un tempo senza tempo, fuori dalla storia, è una delle sensazioni più nette che ti investe quando varchi quella soglia. Niente tecnologia neanche nella biblioteca, uno degli spazi apparentemente più simili all’esterno, se non fosse per i soffitti bassi e le finestre sbarrate: solo moduli cartacei e matite, libri e riviste. Tutto fisico, tutto tangibile, tutto come venti o quaranta anni fa. Qua la rivoluzione digitale non è mai arrivata. Ma c’è un’altra sfasatura di cui saremo testimoni io e pochi altri visitatori, nella biblioteca centrale del carcere di Torino dove presto ci raggiungono una ventina di detenuti e detenute: quella del pensiero, delle proiezioni mentali che legano i carcerati ai loro familiari, presenze lontane che però sembrano non lasciarli mai. Siamo qua proprio per ascoltare le loro storie, cucite in un bel podcast che la giornalista Francesca Berardi ha curato per la Fondazione Circolo dei lettori, realizzato con la direzione della Casa circondariale Lorusso Cotugno e le Biblioteche Civiche Torinesi, che in carcere sono coordinate dal regista teatrale Marco Monfredini. Nove racconti personali per cinque brevi episodi, trasmessi da Radio 3 e ora disponibili su RaiPlay Sound col titolo Una finta giornata di sole. Come racconta uno dei protagonisti, la finta giornata di sole è quella di chi a un certo punto credeva di avercela fatta, pensava che finalmente le cose si fossero sistemate… E invece poi la vita lo ha travolto di nuovo. Ma è anche, aggiunge un altro, il tempo del colloquio coi parenti: un’ora alla settimana, un breve momento di conforto in un’esistenza sospesa. È strano ascoltare vicende così private e drammatiche di fianco a chi le ha prima vissute e poi confessate a un microfono: nella saletta la tensione è palpabile, anche se a tratti si scioglie in risate e sfottò tra i detenuti. Molti occhi lucidi, molti sospiri. Ma non vi aspettate interviste truci sui reati commessi o storie di denuncia sulla condizione carceraria, perché Berardi e i suoi narratori hanno scelto un focus intimo, esplicitato dal sottotitolo del podcast: Storie di genitori in carcere. L’autrice spiega che “essere genitori ci porta a fare i conti col nostro essere figli e col passato, un processo che dentro una cella si amplifica”. Ed è impressionante quanto, attraverso la semplice lente del rapporto genitori-figli, i nodi irrisolti di queste vite vengano al pettine. Vite diversamente complicate ma che seguono binari paralleli: quasi tutti sono cresciuti senza padri, morti o assenti; ancora adolescenti sono passati dai piccoli furti (giubbotti a scuola o profumi nei supermercati) alle dipendenze, poi alle truffe e alle rapine (in alcuni casi con vittime); hanno fatto figli da giovanissimi, spesso tra una carcerazione e l’altra. In tutti emerge un senso di colpa fortissimo proprio nei confronti di quei bambini, che hanno messo al mondo ma non hanno visto crescere: chi per la vergogna preferisce raccontare che lavora in montagna, “non puoi chiamarmi, il telefono non prende”, chi al colloquio settimanale proprio non ce la fa a sgridarli, chi si consola all’idea di essere nella stessa città dei figli, “se mi metto vicino alle sbarre penso che posso respirare la loro stessa aria”. Sono confessioni intense, ma non patetiche - anche perché la giornalista interviene pochissimo, e il montaggio e la sonorizzazione (di Luca Morino) accompagnano con mano lieve questi racconti in prima persona. E poi, lo dicevamo, c’è anche spazio per qualche risata a denti stretti: la stessa donna che raccontava di essere finalmente “vicina” al figlio, poi spiega che no, lei non ha mai fatto uso di sostanze, la sua unica droga era fare reati. Ma qual è la “dipendenza” che le è valsa ben 374 capi di imputazione? Truffare istituti religiosi, Inferno garantito. Decisiva è stata la formula laboratoriale che ha portato al podcast: non interviste singole ma incontri di gruppo, in cui tutti insieme i detenuti si sono raccontati e ascoltati, scoprendo punti di contatto tra i loro percorsi e dettagli che non si erano mai confessati. Perché, qui più che fuori, è difficile togliersi la maschera da duri e mostrarsi deboli. “Ho buttato fuori tutto, è stato meglio dello psicologo”, confessa sempre la stessa donna - e quella puntata si chiude con l’applauso liberatorio degli altri compagni, un abbraccio sonoro che davvero sa di comprensione e di umana solidarietà. “Ma a quelli fuori non frega niente di noi” recrimina qualche detenuto dopo l’ascolto collettivo in biblioteca. E allora chissà che questi piccoli racconti personali non servano molto anche a noi che stiamo fuori. Noi che quelle storie preferiamo non sentirle, e che in fondo accettiamo che la prigione continui a essere la discarica sociale di chi ha sbagliato. Noi che al quarantaduesimo suicidio in carcere solo nel 2024 (e quattro gli agenti che si sono tolti la vita - anche loro in qualche modo detenuti, ma per lavoro) proviamo un brivido, ma solo per un attimo, come quando non troviamo il cellulare in tasca. Oggi come nel Settecento, non c’è bisogno di essere Voltaire per capire che il grado di civiltà di un popolo si misura anche dalle condizioni delle sue prigioni, e che sventolare le storie di detenuti eccellenti solo quando ci sono elezioni in vista non è un gran segnale di civiltà, per un popolo e per il suo sistema politico-mediatico. Al carcere di Torino è ora di separarsi, è tempo che ognuno torni alla sua normalità: per i visitatori le notifiche sugli smartphone, per i detenuti i pensieri dietro le sbarre. “Sole a strisce”, il dramma dei reclusi nel racconto di una psicologa di Diego Minuti italia-informa.com, 17 giugno 2024 La privazione della libertà, per colpe vere, presunte, accettate o respinte, resta un dramma, che ha tempi e modi diversi per potere essere metabolizzato. Dall’interno di una cella, il mondo che è fuori è qualcosa che si può guardare solo da lontano, magari attraverso le grate, che restituiscono frammenti del cielo e, quando si è fortunati, anche del sole. Che, essendo di tutti e per tutti, spesso è l’unico legame che si ha con chi sta fuori. È proprio quel “Sole a strisce” che diventa il filo rosso che unisce le esperienze che si traducono nei drammi che, dal singolo, dal recluso, si espandono alla sua famiglia, in una tragica trasfusione di dolore, che sicuramente non è meno duro per chi aspetta che la persona amata torni a fare parte, da libero, del consesso civile. “Il sole a strisce”, edito da Santelli, è scritto dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Tinto, che in esso ha messo le emozioni, tante e ripetute, che le vengono dalla sua esperienza. Una esperienza che ora ha voluto mettere a disposizione di tutti, sia di chi “sta fuori” che di coloro che vivono - al di là delle colpe e delle responsabilità personali - il dramma di essere esclusi dalla comunità cui si sentono di appartenere. Un dramma che i detenuti cercano di superare aggrappandosi alla sola voce che - ad esclusione dei congiunti e dei difensori - ritengono non nemica, non parte del Sistema di cui si sentono vittima. Persone che, da dentro una cella, vedono nello psicologo o nella psicologa, lo stretto sentiero delimitato dalle loro fragilità e che imboccano, cercando di vedere, alla sua fine, la libertà e, con essa, la possibilità di una nuova vita. Come si legge nella sinossi de “Il sole a strisce”, nel libro “si assiste a uno scambio emotivo tra le parti, che rende la lettura appassionante e particolarmente avvincente. La riflessione riguarda anche le famiglie disfunzionali, i genitori iperprotettivi o, al contrario, quelli trascuranti, il mondo dell’adozione e dei conflitti che ne conseguono”. Dal libro di Maria Tinto, quindi, spunti di riflessione, grazie anche ad uno spettro di osservazione che non si limita ai detenuti, ma si allarga alla cerchia dei loro rapporti affettivi, spesso il solo appiglio che resta per evitare di precipitare nella disperazione. Suicidio assistito: la politica diserta, la Consulta decide di Valentina Stella Il Dubbio, 17 giugno 2024 Il prossimo 19 giugno la Corte costituzionale sarà chiamata nuovamente ad esprimersi in tema di “suicidio medicalmente assistito”. La prima volta è accaduto nel 2019 nel caso di Dj Fabo quando la Consulta stabilì che, per poter accedere legalmente all’aiuto medico alla morte volontaria, la persona deve essere in possesso di determinati requisiti: essere affetta da una patologia irreversibile, capace di autodeterminarsi, reputare intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche che la malattia determina, e infine, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Quattro requisiti, in presenza dei quali la Corte Costituzionale escluse la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria, prevista dall’articolo 580 del codice penale. Fabiano Antoniani, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione. Era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive. La sua condizione era risultata irreversibile. Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare. Di seguito a ciò, aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica. Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale. Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta. Il suicidio avvenne il 27 febbraio 2017: azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale. Di ritorno dal viaggio, Cappato si era autodenunciato ai carabinieri. Viene imputato dinanzi al tribunale di Milano per violazione dell’art. 580 cp (Istigazione o aiuto al suicidio). Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale. Il 25 settembre 2019 la Consulta, con la sentenza 249, dichiara in parte l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale. Il nuovo caso - Mercoledì i 14 giudici della Corte - non 15 visto che il Parlamento ancora non lo elegge - si riuniranno in udienza pubblica per discutere la vicenda di Massimiliano S, toscano 44enne affetto da sclerosi multipla. Prima l’esordio di sintomi lievi, poi il peggioramento: aveva iniziato a manifestare difficoltà nella deambulazione, poi aveva avuto bisogno della sedia a rotelle e, dopo appena qualche mese - ad aprile 2022 -, risultava già definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori. Per la prima volta matura in lui l’idea di porre fine alla propria vita, per ragioni legate alla patologia di cui soffriva. L’uomo non era dipendente da un trattamento di sostegno vitale inteso in senso restrittivo (come per esempio la ventilazione meccanica), nonostante fosse totalmente dipendente dall’assistenza di terze persone per sopravvivere. Per questo avrebbe potuto incontrare ostacoli nell’accedere all’aiuto medico alla morte volontaria in Italia così come disciplinata dalla sentenza della Consulta 242/19. Contatta allora Cappato che tramite l’associazione si fa carico anche di alcune spese, come il noleggio del furgone, guidato a turno da lui, Chiara Lalli, e Felicetta Maltese, che lo condurranno in una clinica svizzera. Alla presenza del padre e della sorella Massimiliano, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare, ha assunto per via orale il farmaco letale. È morto dopo pochi minuti. Cappato, Lalli e Maltese si sono autodenunciati ai Carabinieri di Firenze per l’aiuto fornito, e sono indagati nel procedimento penale pendente davanti al Tribunale di Firenze per aiuto al suicidio e non istigazione. Il GIP, con ordinanza del 17 gennaio 2024, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, perché il requisito del sostegno vitale sarebbe in contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La rilevanza penale della condotta degli indagati, nel caso di specie, dipende dunque soltanto dalla loro partecipazione e cooperazione materiale alla realizzazione del suicidio. In quest’ottica, la Procura ha quindi sostenuto che il comportamento degli indagati non sarebbe tipico neppure ai sensi della fattispecie di aiuto al suicidio e ha chiesto l’archiviazione. Di diverso parere il gip. “Allo stato - si legge nell’ordinanza in cui ha sollevato la questione di legittimità costituzionale - la richiesta di archiviazione non potrebbe essere accolta”, spiega la gip, perché “la condotta degli indagati rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 580 del codice penale, in particolare nella fattispecie di aiuto al suicidio, senza che possa beneficiare della causa di non punibilità introdotta” con la sentenza 242. “Nel caso di specie sussistono tutti gli elementi costitutivi del titolo di reato in origine ipotizzato dal pubblico ministero”, si legge ancora nell’ordinanza. Si esclude il reato di istigazione, avendo Massimiliano scelto autonomamente di porre fine alla propria vita autosomministrandosi il farmaco letale, ma resta l’ipotesi di aiuto, per la “cooperazione e partecipazione materiale alla realizzazione del sucidio” da parte degli indagati. I quali rischiano dai cinque ai 12 anni di carcere. Oggetto della nuova pronuncia dei giudici della Corte sarà, dunque, il requisito del trattamento di sostegno vitale, ossia quello che si presta a un’interpretazione più controversa e con potenziali effetti discriminatori, a causa del quale tanti italiani sono costretti ad andare in Svizzera per accedere all’aiuto medico alla morte volontaria, oppure a dover subire, contro la propria volontà, condizioni di sofferenza insopportabile. Turismo del fine vita - Come è successo alla regista romana Sibilla Barbieri: era paziente oncologica terminale e Consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni, e a seguito del diniego della sua Asl era stata costretta ad andare all’estero per poter ricorrere all’aiuto medico alla morte volontaria. Secondo la Asl non possedeva tutti e 4 i requisiti previsti dalla sentenza Cappato\Antoniani della Corte costituzionale per poter accedere legalmente alla morte volontaria assistita. In particolare l’équipe medica ha ritenuto che alla donna mancasse il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale. Nella sfortuna, ha avuto la fortuna di poter spendere diecimila euro per raggiungere la Svizzera e autosomministrarsi il farmaco letale in una clinica. E sono in molti, tra i malati che non dipendono da sostegni vitali tecnicamente intesi, a subire lo stesso destino. Cosa dice la scienza - In ambito scientifico non c’è condivisione su cosa sia un “trattamento di sostegno vitale”. Come si legge sul sito dell’Associazione Coscioni, “per rispondere alla domanda su quali trattamenti sono considerabili come di “sostegno vitale”, riportiamo a seguire quanto scritto su Quotidiano Sanità dal dott. Davide Mazzon, già Direttore UOC Anestesia e Rianimazione Belluno, membro del Comitato Etico per la pratica clinica ULSS 1 Regione Veneto e Vicepresidente OMCeO Belluno: “La complessità della moderna prassi clinico-assistenziale rende palese che il “trattamento di sostegno vitale” non possa riferirsi ad uno specifico apparecchio tecnologico, né ad un singolo presidio clinico-assistenziale, né ad una somministrazione farmacologica, né ad una o più pratiche assistenziali che, in modo esclusivo, consentano alla persona malata il prolungamento della sopravvivenza. È invece l’uso simultaneo ed integrato di apparecchi, presidi, farmaci, di atti sanitari di competenza medica e infermieristica, che si concretizza in un piano il quale, applicato secondo le specifiche necessità di ciascun caso, consente la ottimizzazione di cure estremamente complesse in persone con malattie gravi, progressive ed a prognosi infausta in tempi più o meno lunghi. I trattamenti sanitari di supporto al mantenimento in vita della persona gravemente malata possono spaziare da apparecchi esterni per la sostituzione integrale o parziale di funzioni vitali (es. ventilatore, emodialisi, apparecchi di vario tipo per supportare la funzione di pompa cardiaca, ecc), a dispositivi impiantati per “protezione” dalla insorgenza di Eventi Avversi (es. pacemaker cardiaci, defibrillatori automatici, ecc.), a dispositivi esterni o impiantati per la erogazione di farmaci o di stimolazioni elettriche per il trattamento di patologie che richiedono particolari infusioni o neurostimolazioni (es. diabete, m. di Parkinson, Dolore Neuropatico, ecc). Ma “trattamenti di sostegno vitale” possono considerarsi anche la semplice Ossigenoterapia, indispensabile per moltissime persone affette da Insufficienza respiratoria da malattie cardiorespiratorie, neurologiche, ecc., nonché i farmaci in grado di mantenere la persona gravemente malata in compenso cardiovascolare, respiratorio, neurologico, metabolico, immunitario, ecc., rallentando l’evoluzione di malattie croniche progressive ad evoluzione fatale e prevenendone le riacutizzazioni che possono implicare pericolo di vita. E ancora nella categoria di “trattamenti di sostegno vitale” vanno fatti rientrare gli strumenti assistenziali di gestione infermieristica necessari per garantire la tracheoaspirazione, lo svuotamento di vescica ed intestino anche attraverso stomie esterne, nonché il trattamento di lesioni cutanee di frequente insorgenza in persone allettate o con problemi cardiocircolatori. Risulta quindi assolutamente ragionevole qualificare come “trattamenti di sostegno vitale”, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente, l’insieme integrato di trattamenti sanitari medico-infermieristici che mantengono in vita pazienti “cronicamente critici” e non un singolo apparecchio/presidio/farmaco”. A conferma di ciò, il requisito del sostegno vitale è stato in questi anni più volte interpretato dalle Corti e dai Comitati etici in modo estensivo”. L’indirizzo della Corte costituzionale - Difficile prevedere quale sarà l’esito della decisione (Relatore Modugno/Viganò). Possiamo però ricordare le parole del Presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, nella sua relazione dinanzi al Capo dello Stato Mattarella lo scorso marzo, quando strigliò il Parlamento per non avere ancora approvato una legge sul fine vita: “ Non si può non manifestare un certo rammarico per il fatto che nei casi più significativi il legislatore non sia intervenuto, rinunciando ad una prerogativa che ad esso compete, obbligando questa Corte a procedere con una propria e autonoma soluzione, inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione. È con questo spirito che si auspica sia un intervento del legislatore che dia seguito alla sentenza n. 242 del 2019 (il cosiddetto caso Cappato), sul fine vita, sia un intervento che tenga conto del monito relativo alla condizione anagrafica dei figli di coppie dello stesso sesso. In entrambi i casi il silenzio del legislatore sta portando, nel primo, a numerose supplenze delle assemblee regionali; nel secondo, al disordinato e contraddittorio intervento dei Sindaci preposti ai registri dell’anagrafe”. Suicidio assistito. Vi spiego perché il requisito del “sostegno vitale” è irragionevole di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 17 giugno 2024 È uno dei quattro paletti fissati dalla Consulta per l’accesso al suicidio assistito secondo la sentenza sul caso Dj Fabo. a distanza di 5 anni, e nel silenzio del parlamento, la corte torna a pronunciarsi proprio sul limite che sbarra la strada ai malati che non dipendono da un macchinario. Con la sentenza numero 242/2019 la Corte costituzionale costruisce la nuova ipotesi di liceità dell’agevolazione al suicidio (art. 580 cp), anche in rapporto agli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 nella parte in cui esclude la punibilità con riferimento all’art.580 c.p. di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (TSV indicato come criterio sub c)) e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, previo parere del comitato etico territoriale (CET) competente. Già dalla lettura del dispositivo della sentenza, si coglie l’importanza del passo compiuto, che amplia i margini dell’autodeterminazione individuale, spostandone i confini - nel rispetto dell’esigenza di bilanciare la salvaguardia del bene vita oltre la linea del diritto di rifiutare o interrompere trattamenti sanitari, sinora garantita dalla legge numero 219/2017. La sentenza dà concreta attuazione alla decisione di legittimare la condotta di agevolazione al suicidio, in presenza di ben circoscritte condizioni, e soprattutto completa il disegno tratteggiato con l’ordinanza n. 207/2018 nella quale, come si ricorderà, riconoscendo, ma non ancora dichiarando la parziale illegittimità costituzionale dell’art 580 c.p., era stato richiesto un necessario dialogo - rivelatosi poi infruttuoso - con il parlamento, invitato, nel rispetto della sua discrezionalità, considerati gli inevitabili vuoti normativi presenti nella sentenza, anche sotto la riflessione etica, a intervenire, nelle modalità suggerite dalla stessa Corte. L’assenza di una normativa rende complicato definire con certezza i criteri che vengono indicati dalla Corte costituzionale per consentire l’aiuto al suicidio medicalizzato. Particolare difficoltà la si incontra proprio per quanto concerne il requisito del TSV, che non compare in altri contesti e ordinamenti nei quali sono state introdotte forme di regolamentazione del suicidio medicalmente assistito e che questo si inserisce in una situazione sanitaria e sociale alquanto complessa e che non sempre rende possibile distinguerlo da un trattamento sanitario ordinario o dalla cura dei bisogni vitali. Pertanto in questa prospettiva, che non può prescindere dalle condizioni psicofisiche del paziente, il criterio c) appare poco legittimo a chi scrive quale condizione prevista dalla Corte per accedere all’aiuto al suicidio. In questa prospettiva la presenza di trattamenti di sostegno vitale si sarebbero dovuti considerare eventualmente una condizione aggiuntiva. Ritenerla necessaria infatti crea una discriminazione irragionevole e incostituzionale tra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti pure affetti da patologia anche gravissima e con forti sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora. “Si imporrebbe inoltre a questi ultimi di accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di poter richiedere l’assistenza al suicidio, prospettando in questo modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo ragionevole”. Si consideri poi che la legge 219/2017, considerata un riferimento essenziale per la Corte costituzionale, anche in previsione di una futura normativa, autorizza il paziente, capace di intendere e di volere o che abbia sottoscritto le DAT, a rifiutare o chiedere la interruzione di qualsiasi trattamento di cura, compresi quelli appunto definibili di sostegno vitale. Peraltro, parlare di TSV è terminologia incerta e dovrà essere meglio definita dallo stesso legislatore, qualora sia ancora legittimo conservare questo criterio c). Infatti non troviamo da parte della Cassazione nell’ordinanza 207/ 2018 né nella sentenza 242/2019 una definizione analitica e sistematica del significato dei trattamenti di sostegno vitale. E la difficoltà appare tanto più evidente ove si consideri che la tecnologia e la sperimentazione medico-clinica sono in continuo sviluppo al fine di tutelare la vita dei pazienti e trovare nuove forme di cura: ci sono molti malati con un alto grado di dipendenza verso forme di sostegno medico clinico che fino a pochi anni fa non erano prospettabili, come ben evidenzia la Corte, parlando di tecnologie e farmaci che hanno generato situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali (sent. 242/2019, Considerato in diritto, 2.3). È spettato pertanto alla dottrina e alla giurisprudenza in occasione dei primi casi cercare di dare una definizione di cosa si dovesse intendere per trattamento di sostegno vitale. Una prima ipotesi ha fatto riferimento ad elementi riferibili a dispositivi o apparati medici elettromeccanici artificiali, molto invasivi, sostitutivi delle funzioni vitali in quanto necessari per sottrarre dalla morte un malato in condizioni estremamente compromesse, dunque terminali, la cui sopravvivenza, senza tali terapie, potrebbe stimarsi appena di pochi giorni non essendo più prospettabili alternative, ma solo cure del dolore anche nella forma della situazione palliativa profonda. Tale condizione è più facilmente ricavabile dal testo della Corte costituzionale, perché il parametro utilizzato può essere considerato nella fattispecie il principio di “eguaglianza”, anziché l’autodeterminazione. Si sostiene che per chi avrebbe potuto richiedere l’aiuto al suicidio la Corte abbia voluto come riferimento la situazione del Dj Fabo e le sue condizioni fisiche (tra l’altro dipendente da macchinari medici). Un paragone, come già detto, per chi scrive inaccettabile, considerato che la pretesa di trattamenti di sostegno vitali sul genere di quelli del Dj Fabo è condizione del tutto irragionevole, in contrasto con il principio dignità di altri pazienti, foriera di discriminazioni visto che la maggior parte delle persone che ricorrono all’aiuto al suicidio non sono necessariamente sostenute da macchinari medici, in particolare la ventilazione, né si alimentano in via parentale. In questa prospettiva la presenza di trattamenti di sostegno vitale dato dalle macchine si sarebbe dovuta considerare una condizione “aggiuntiva”, solo eventuale. Altra ipotesi, soprattutto riscontrabile nelle sentenze dei Tribunali, è che il requisito sub c) non debba significare esclusivamente “dipendenza da una macchina”. Secondo queste sentenze possono, dunque, venire in rilievo tutti i trattamenti sanitari, interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato in maniera più o meno rapida. In queste sentenze emerge ancora una duplice forma di dipendenza: in primo luogo una “dipendenza dai farmaci” e in secondo luogo un “trattamento assistenziale”, un “sostegno vitale”, la cui mancanza sarebbe stata incompatibile con la sopravvivenza. Opinioni dunque che tendono ad ampliare il campo della richiesta all’aiuto al suicidio medicalizzato. Il tribunale di Massa nel caso Trentini tende a non differenziare la dipendenza da un sostegno vitale dalla necessità di assistenza continua da una o più persone senza la quale il paziente “non si sarebbe potuto alimentare, non avrebbe potuto espletare i propri bisogni fisiologici, sarebbe dovuto rimanere immobile a letto”. Tutto ciò, osserva il tribunale in modo pressoché analogo a chi sopravvive grazie ai trattamenti di macchinari medici. Pertanto secondo il tribunale di Massa, come quello di Ancona, la locuzione “trattamento sanitario” è di portata generale e tale da ricomprendere ogni intervento realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico, interrompendo i quali si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida. In conclusione, dobbiamo cercare di dare una definizione al trattamento sanitario salvavita: questi vanno sempre considerati all’interno di un quadro clinico la cui gravità non si riduce al solo fatto che la persona gravemente malata è tenuta in vita da uno specifico trattamento tecnologico, né da un singolo presidio clinico-assistenziale, né da una somministrazione farmacologica né da una o più pratiche assistenziali che, in modo esclusivo, consentano alla persona malata il prolungamento della sopravvivenza. È invece l’uso simultaneo ed integrato di apparecchi, presidi, farmaci, di atti sanitari di competenza medica e infermieristica, che si concretizza in un piano il quale, applicato, secondo le specifiche necessità di ciascun caso, consente l’ottimazione di cure estremamente complesse in persone con malattie gravi, progressive e da prognosi infausta in tempi più o meno lunghi. Pertanto - come scrive il dott. Davide Mazzon su Quotidiano Sanità - i trattamenti sanitari di supporto al mantenimento in vita della persona gravemente malata possono spaziare da parecchi esterni per la sostituzione integrale o parziale di funzioni vitali (ad esempio ventilatore, emondialisi, apparecchi di vario tipo per supportare le funzioni di pompa cardiaca), a dispositivi impiantati per protezione della insorgenza di eventi avversi (pacemaker cardiaci, defibrillatori automatici, ecc.), a dispositivi esterni o impiantati per la erogazione di farmaci o di stimolazioni elettriche per il trattamento di patologie che richiedono particola- ri infusioni o neuro stimolazioni (es. diabete, m. di Parkinson, dolore neuropatico, ecc.). Pare dunque apprezzabile la scelta di indirizzare i maggiori sforzi interpretativi verso un problema concreto e pressante, cioè il reale perimetro delle condizioni sostanziali richieste perché il paziente possa ottenere un lecito aiuto al suicidio. Si tratta in altri termini di tracciare il confine tra chi potrà ottenere l’accesso a una procedura di suicidio medicalmente assistito e chi ne resterà fuori. I senza-casa e la loro salute: ecco un’istantanea del lavoro dei volontari che operano a Torino di Maurizio Paganelli La Repubblica, 17 giugno 2024 Un quadro disponibile venuto fuori tirando le somme dell’attività degli sportelli della salute di World Friends onlus e Amref-Comitato Collaborazione Medica per senza fissa dimora. Senza una casa, come va la salute? Una istantanea degli homeless torinesi è ora disponibile, tirando le somme dell’attività degli sportelli della salute (World Friends onlus e Amref-Comitato Collaborazione Medica) per senza fissa dimora, sia italiani che immigrati, e in condizioni di povertà assoluta. Uno spaccato della realtà piemontese con dati che coprono tutto l’anno passato. Il censimento nazionale. A livello nazionale (dati elaborati nel 2023 del Censimento Istat 2021) i senza tetto e senza fissa dimora in Italia sono 96.197 iscritti all’anagrafe. La maggioranza è composta da uomini e il 38% è rappresentato da cittadini stranieri (più della metà dall’Africa). Il 50% di homeless vive in 6 città: Roma (23%), Milano (9%), Napoli (7%), Torino (4,6%), Genova (3%), Foggia (3,7%). Se la stima di persone che risulta nel capoluogo piemontese in condizione di povertà assoluta si assesta sulle 80 mila persone (in Italia, dati Istat, sarebbero ormai 5,6 milioni) circa 4 mila sarebbero gli homeless. Mille visite l’anno. La salute e l’assistenza, sempre in collegamento con il Servizio Sanitario Nazionale, è il focus di questi interventi, con circa mille visite l’anno. Quattro le tipologie di aiuto attivate: 1) servizi di ascolto e assistenza sanitaria di base; 2) orientamento ai servizi e distribuzione di farmaci da banco e altri prodotti terapeutici; 3) percorsi di educazione sanitaria su temi quali malattie croniche, malattie acute, salute mentale, primo soccorso, alimentazione, malattie a trasmissione sessuale; 4) accompagnamenti mirati dei soggetti più vulnerabili e marginali, esclusi dal circuito sanitario e privi di documenti e tessera sanitaria, per aiutarli ad accedere ai servizi del Sistema Sanitario Nazionale. Dove si svolgono le visite. Le strutture dove si svolgono visite e colloqui sono la Casa Santa Luisa, la “Charité” - Centro di Accoglienza Vincenziana per Persone senza dimora di Via Nizza 24; il servizio diurno a bassa soglia di Via Pacini 18 del Gruppo Abele. Poi vi è un intervento in una casa occupata, zona grigia, non ufficiale. Le ore donate dai volontari a Torino. Torino, rispetto alla media nazionale, ha una rete di realtà - laiche e religiose - assai sviluppate a sostegno delle persone più fragili e povere. I dati che ha fornito World Friends riescono però finalmente a portare alla luce lo sforzo e la dimensione del problema. Sedici volontari - medici, assistenti, ostetriche, personale non sanitario - hanno donato un totale di 567 ore. La maggioranza di marocchini e rumeni. Sono state effettuate 839 visite, per un totale di 363 persone che hanno frequentato gli sportelli. 69 di queste sono donne, 294 uomini. Maggioranza di stranieri (303), soprattutto provenienti da Marocco e Romania. Nella struttura di via Pacini, gestita dal Gruppo Abele, si svolgono anche altre attività di sostegno e rete sul territorio, come la distribuzione di colazioni e alimenti freschi, corsi e scuole. Gli sportelli educativi e le attività. Sono realizzati anche con l’aiuto degli stessi utenti. Per esempio Frédéric, 65 anni, cittadino del mondo e girovago, originario della Francia, ha fatto uso di droghe per quarant’anni. Da più di 10 anni è in Italia e frequenta il centro di via Pacini dove è ora un peer educator, una “figura attiva nella sensibilizzazione per l’uso di sostanze e sulle malattie tipiche del consumo di droga ad iniezione come l’HIV e l’epatite C”. C’è chi ha esperienza nel taglio dei capelli e si mette a disposizione degli altri per i servizi di cura della persona. E così altri. Tutti medici e assistenti volontari. Il medico Paolo Leoncini, che lavora al Pronto Soccorso di Pinerolo, vicepresidente della onlus Worldfriends, e volontario tra i senza tetto, racconta delle diverse necessità e dei tipi di persone che incontra nei tre diversi ambulatori attivati (un quarto da quest’anno in Zona Falchera dove vivono gran parte di immigrati anche di seconda generazione o italiani). L’intervento sui tossicodipendenti. “L’ambulatorio di via Pacini, storicamente luogo del Gruppo Abele per la riduzione del rischio nelle tossicodipendenze, raccoglie in gran parte uomini con età media tra i 25 e i 45 anni, con problematiche legate alle dipendenze e patologie ormai croniche. Si chiedono medicazioni per ferite, infezioni (i piedi in primis), febbri, polmoniti, lombalgie, interventi chirurgici, malattie croniche scompensate o altre urgenza del momento. Molto lavoro viene svolto dal peer educatore Frédéric per le informazioni, gestione e prevenzione”. Gli aiuti di natura legale. Oltre ad interventi di emergenza, le richieste sono anche di natura legale e a volte burocratica. Gruppo diverso - spiega Leoncini - è quello del Centro Vincenziano di via Nizza dove sono presenti homeless che intendono in qualche modo migliorare la propria condizione. Qui ci sono persone più adulte, anche donne, con problematiche cliniche croniche (diabete, schizofrenia, ipertensione). Gran parte del lavoro è quello di reinserire tutti nel Sistema sanitario. Per smettere di farli trattare come fantasmi. Spesso sono dei fantasmi perché non si sono mai registrati. E allora vanno informati e seguiti e poi va cercata quell’alleanza medico-paziente che permetta una sostenibilità di vita, anche per i tossicodipendenti. “Circa il 20% delle persone che trattiamo ha problemi psichiatrici e dipendenze, con confini labili perché si crea un circolo vizioso tra i due aspetti, abuso di sostanze e disturbi psichici”. Il lavoro sulla prevenzione. L’obiettivo primario sarebbe lavorare sulla prevenzione, ma le emergenze e le condizioni inducono a tamponare l’esistente: prima di tutto riagganciare le persone al Sistema Sanitario. Permettere l’iscrizione del senza tetto a via della Casa Comunale significa renderli ufficiali all’anagrafe e poter fare la scelta del medico di base. Quindi creare un legame con il medico - che spesso non sa neppure di avere un simile assistito e che è ormai abituato alle ricette online o alle prescrizioni e invio del paziente per esami. Lo sportello salute immigrati. Leoncini spiega che il medico “di famiglia” va convinto della collaborazione con l’ambulatorio dei volontari: “I medici non amano ricevere nel loro studio persone che puzzano, mal vestite, incapaci spesso di gestire le più semplici questioni. In genere però la collaborazione funzione, solo in un caso, tra l’altro di un paziente che aveva la tubercolosi e quindi poneva seri problemi di salute pubblica, abbiamo dovuto bypassare il medico perché non si è reso rintracciabile. Con gli irregolari stranieri a Torino funziona il centro ISI, lo sportello salute immigrati per chi è temporaneamente in Italia (ogni sei mesi va rinnovata l’iscrizione) e questo permette e dà diritto al medico e alle cure”. I migranti di passaggio. Spesso sono immigrati di passaggio che vogliono raggiungere la Francia, passaggio tutt’altro che facile, e la Gendarmerie ne intercetta e respinge tanti al valico di frontiera. A volte questi immigrati potrebbero avere invece tutti i diritti se informati adeguatamente ed essere riconosciuti come rifugiati. Così si deve gestire anche questa situazione che porta ad aumentare il numero dei senza fissa dimora nel nord Ovest italiano. Torino, rispetto a Milano e a Roma, ha un numero assai minore di homeless e fragili, come indicato dall’Istat. I diritti degli homeless negli USA. Purtroppo in molti Paesi la questione degli homeless sta diventando divisiva ed una vera emergenza. Nelle società democratiche si verificano conflitti tra homeless che occupano spazi per dormire all’aperto, anche parchi pubblici o luoghi frequentati, ed esigenze di cittadini, condomini e negozianti. Proprio ora negli Usa si aspettano le decisioni della Corte Suprema sulla causa intentata dalla amministrazione di Grants Pass (Oregon) che ha posto divieti e sanzionato (persino il carcere) chi dorme o si accampa in aree pubbliche perché senza casa o non ha posto dove rifugiarsi. In Oregon multano i disgraziati che dormono per strada. A Grants Pass, cittadina di circa 40 mila abitanti, si segnalano circa 600 homeless accampati nei parchi pubblici o nelle strade. Una sentenza della Corte Suprema del 2018 indicava come “crudele o inusuale punizione arrestare o multare persone che dormono all’aperto quando non hanno un luogo dove rifugiarsi” in base all’Ottavo emendamento della Costituzione (“Non si dovranno esigere cauzioni eccessivamente onerose, né imporre ammende altrettanto onerose, né infliggere pene crudeli e inconsuete”). Oggi la Corte Suprema ha una maggioranza di diverso orientamento. Russia. Rivolta nel carcere di Rostov: uccisi sei detenuti che avevano sequestrato due guardie di Riccardo Ricci La Repubblica, 17 giugno 2024 La vicenda apre degli interrogativi sulle falle e sugli errori che hanno permesso a militanti islamisti di colpire di nuovo la Russia a soli tre mesi dall’attentato al Crocus. Gli ostaggi a Rostov sono stati rilasciati. Non ci sono vittime tra i militari”: con queste parole la direttrice di Russia Today, Margarita Simonjan, ha rassicurato il pubblico sull’esito positivo di una vicenda che per qualche ora ha tenuto con il fiato sospeso il Paese. In mattinata un gruppo di detenuti in attesa di processo, che si sono definiti membri dello Stato Islamico, ha preso in ostaggio due dipendenti di un centro di custodia cautelare della regione di Rostov sul Don. Ora, liberati gli ostaggi, le autorità dovranno interrogarsi con le falle e gli errori che hanno permesso a militanti islamisti di colpire di nuovo la Russia a soli tre mesi dall’attentato al Crocus. Le prime informazioni sul sequestro sono apparse sul canale Baza intorno alle 9.30. Il Servizio penitenziario ha poi confermato che erano in corso trattative con i sei sequestratori, ma a distanza di un paio di ore, intorno alle 11.30 locali, i media presenti sul posto hanno riferito dell’irruzione degli agenti antisommossa, seguiti dalle ambulanze. Contemporaneamente in rete hanno iniziato a circolare video delle strade intorno al carcere, con il rumore degli spari in sottofondo e poco dopo le prime immagini offuscate dei corpi senza vita dei sequestratori. Le indagini - Il Comitato investigativo ha immediatamente avviato indagini per far luce sulla dinamica, ma commenti e teorie sull’accaduto si sono rincorse fin dai primi minuti. Stando alle osservazioni di Eva Merkacheva, membro del Consiglio presidenziale per i diritti umani, una serie di fattori, compreso il sovraffollamento, avrebbero permesso ai sequestratori di organizzarsi. I terroristi, ha osservato Merkacheva in un post su Telegram, hanno potuto comunicare tra loro e con i loro leader in libertà, perché “sapevano esattamente cosa fare”. “Negli ultimi 20 anni - ha ricordato l’attivista - diversi direttori del Servizio penitenziario hanno affermato che gli accusati di terrorismo dovrebbero essere tenuti separati”. Nei video pubblicati in rete, in cui si sono ripresi accanto agli ufficiali ammanettati, indossavano persino simboli dello stato Islamico, che in qualche modo sono entrati tra le pareti del centro di detenzione. La falla nella sicurezza - Una fonte anonima dell’emittente Rtvi ha spiegato che i cellulari usati dai terroristi possono essere stati contrabbandati proprio da agenti alle prime armi e l’intera faccenda sarebbe dovuta proprio alla scarsa qualificazione e motivazione del personale: “Salari bassi, formazione minima, turnover del personale. Tutto ciò porta a quanto abbiamo visto”. Un veterano del gruppo antiterroristico Alpha, consultato dal canale Abzatz, ha osservato che nelle celle a volte entra anche personale tecnico, come operai e inservienti, che potrebbero aver fornito coltelli e manganelli usati per intimorire gli agenti penitenziari. Curiosamente, solo una settimana fa l’amministrazione regionale del Servizio penitenziario aveva celebrato in un post su Vkontakte i successi nella gestione sicura del Centro di custodia cautelare grazie alle “moderne apparecchiature” e allo zelo del personale. Il post, scovato dalla giornalista Ksenja Sobchak, al momento risulta non più disponibile online. Chi sono i sequestratori - Il canale Baza è riuscito a risalire all’identità di alcuni dei sei sequestratori, tre dei quali - Azamat Tsitskiev, Tamerlan Gireev e Shamil Akiev - sono stati condannati nel dicembre 2023 per coinvolgimento nell’attività dell’IS e per aver pianificato un attentato alla Corte Suprema della regione di Karachaj-Circassia. Un quarto elemento del gruppo di sequestratori è stato arrestato lo scorso anno in Inguscezia per coinvolgimento in attività terroristiche. Il governatore dell’Inguscezia, regione di origine di quattro dei sei sequestratori, ha pubblicato un post per commentare gli avvenimenti di Rostov, che cadono in un “giorno sacro” per i musulmani. “Oggi i musulmani di tutto il mondo celebrano l’Eid al-Adha - ha ricordato Makhmud-Ali Kalimatov - Oscurarlo con tali azioni è una bestemmia”. I collegamenti con lo Stato Islamico - Fin dal mattino i media avevano infatti ripreso i messaggi di auguri alla numerosa comunità islamica di Russa da parte delle più alte cariche dello Stato, Vladimir Putin compreso. Una tradizione vecchia quanto la Russia post sovietica che però quest’anno, dopo l’attentato di matrice islamica al Crocus, si carica di un particolare significato. Nei primi resoconti sui fatti di Rostov, invece, le agenzie governative hanno messo in secondo piano il collegamento tra i sequestratori e lo Stato Islamico è stato tenuto in secondo piano. Secondo il canale telegram OChK Opgu, vicino alle forze dell’ordine, le autorità avrebbero tentato effettivamente un negoziato per gestire la crisi con discrezione. E c’è chi, come la politologa Ekaterina Shulman, si chiede se la Russia sia davvero immune alle recrudescenze dell’islamismo radicale. Se il “taglio dell’orecchio”, il pugno duro usato contro gli attentatori del Crocus, possa davvero dissuadere gli elementi più radicali. Scambio di prigionieri tra Iran e Israele, ma il ricercatore dell’Upo Djalali non torna libero di Barbara Cottavoz La Stampa, 17 giugno 2024 Il ricercatore dell’Università Piemonte Orientale che ha vissuto a Novara è detenuto dal 2016. È stato condannato a morte perché considerato una spia di Israele. Lo scambio tra prigionieri c’è stato ma non ha riguardato Ahmadreza Djalali. Svezia e Iran hanno diffuso la notizia di aver raggiunto l’accordo in cui speravano molto tutti, familiari, amici e sostenitori della campagna di mobilitazione per liberare il medico e ricercatore del Crimedim dell’Università del Piemonte orientale condannato a morte da Teheran. Non è andata così e ora la situazione per lui è preoccupante: Teheran è riuscita a portare a casa tutti i suoi per cui proponeva uno scambio. “Siamo sconcertati - ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, - e in ansia per Ahmad”. Djalali ha lavorato al centro di ricerca sulla Medicina dei disastri di Novara dal 2012 al 2015 prima di trasferirsi in Svezia con la famiglia a fine dicembre: il 25 aprile dell’anno successivo è stato arrestato con l’accusa di spionaggio, mai provata, durante un viaggio in Iran su invito dell’Università di Teheran. Una trappola: lui dal carcere ha fatto avere a La Stampa un documento in cui racconta di aver rifiutato per due volte di collaborare con i servizi segreti iraniani e che la sua condanna a morte sarebbe una ritorsione. Da quel giorno del 2016 è in una cella del carcere di Evin e fino ad ora nulla, nemmeno la mobilitazione di premi Nobel e accademici di tutto il mondo, di organizzazioni come Amnesty International, e dei governi di Svezia, di cui ha avuto la nazionalità, Belgio, dove ha lavorato, e Italia, dove ha anche vissuto (è cittadino onorario di Novara), ha ottenuto nulla. Un’opportunità poteva essere lo scambio di prigionieri. L’Iran voleva riportare in patria un suo diplomatico arrestato e condannato ad Anversa e ce l’ha fatta, rilasciando un cooperante di doppia nazionalità iraniana e belga, e puntava soprattutto alla liberazione di Hamid Nouri, condannato all’ergastolo per il coinvolgimento nei massacri delle prigioni iraniane del 1988. L’accordo c’è stato e l’Iran ha “restituito” il funzionario svedese in forza alla diplomazia dell’Ue Johan Floderus, in carcere a Teheran da due anni, e Saeed Azizi, un altro cittadino svedese arrestato nel novembre 2023. “Sono persone che l’Iran ha imprigionato come moneta di scambio - commenta da Roma Noury - e l’idea che la Svezia abbia accettato questo ricatto è scandalosa. Ma una volta compresa questa cinica strategia, è vergognoso che il governo svedese abbia lasciato indietro il suo cittadino Ahmadreza Djalali, arrestato otto anni fa e da sette con un cappio al collo: un’immagine che, da metaforica, rischia di diventare reale perché l’Iran ha ottenuto ciò che voleva e Djalali non serve neanche più per negoziare contropartite”. A Stoccolma la moglie Vida Mehrannia ha saputo della trattativa e dell’esito (che non riguardava suo marito) dai media svedesi, subendo anche la ferita delle dichiarazioni trionfalistiche del ministero degli Esteri iraniano che ha sottolineato “la forza” della diplomazia di Teheran e delle immagini trasmesse dalla tivù di Stato con di Hamid Nouri che scendeva zoppicando da un aereo all’aeroporto internazionale Mehrabad di Teheran e veniva abbracciato dal”a sua famiglia: “Sono Hamid Nouri. Sono in Iran. Dio mi rende libero”. Adesso la strada che resta porta all’Unione Europea e punta sulle parole dell’Alto rappresentante Josep Borrell postate sui social: “Altri cittadini Ue sono ancora arbitrariamente detenuti in Iran e noi, insieme agli Stati membri, continueremo a lavorare per ottenere la loro liberazione”. Il portavoce di Amnesty Nouri ha incalzato: “Speriamo non siano parole di circostanza. In nome del fatto che Djalali ha trascorso anni in Italia, contribuendo all’avanzamento della ricerca scientifica qui, adesso è importante che si muova anche il nostro Governo”. El Salvador. Duemila detenuti trasferiti nel mega-carcere di Tecoluca La Repubblica, 17 giugno 2024 Secondo il governo di Nayib Bukele i detenuti sono sospetti membri di bande criminali. Continua la controversa repressione del crimine che ha fatto impennare la popolazione carceraria della nazione centroamericana: 100.000 detenuti su circa 6 milioni di abitanti. A torso nudo, ammanettati dietro la schiena e seduti a terra con il capo chinato in avanti, oltre 2.000 presunti membri di bande criminali in Salvador, conosciuti come “pandilleros”, sono stati trasferiti da varie carceri del Paese centroamericano a un’unica “mega-prigione” presso il Centro de Confinamiento contro il Terrorismo (Cecot) a Tecoluca. La struttura di massima sicurezza ha una capacità di oltre 40.000 persone, secondo il governo del presidente Nayib Bukele la prigione è la più grande delle Americhe e servirà da simbolo della lotta di El Salvador contro le bande criminali. Attualmente sono rinchiusi nel carcere 12.500 membri delle bande Mara Salvatrucha (MS-13) e Barrio 18. Il Congresso del Salvador su richiesta di Bukele ha decretato lo stato di emergenza nel Paese, in base al quale sono detenuti più di 80.000 presunti membri di bande, in risposta a un’escalation di violenza che è costata la vita a 87 persone tra il 25 e il 27 marzo 2022. Per le organizzazioni per i diritti umani, nei centri di detenzione sono incarcerati anche innocenti che soffrono ingiustamente e subiscono trattamenti disumani. Un altro trasferimento del genere era avvenuto nel febbraio 2023 e le immagini avevano fatto il giro del mondo, raccogliendo l’attenzione delle organizzazioni umanitarie che denunciano le condizioni disumane dei prigionieri. Intanto anche Il presidente dell’Honduras ha annunciato la creazione di una nuova “megaprigione” da 20.000 posti. Il piano fa parte di un più ampio giro di vite del governo contro l’ondata di violenza delle gang. Il presidente Xiomara Castro ha svelato una serie di misure di emergenza in un discorso televisivo nazionale a mezzanotte di sabato. Il piano prevede di rafforzare il ruolo dell’esercito nella lotta al crimine organizzato, di perseguire i trafficanti di droga come terroristi e di costruire nuove strutture per alleviare il sovraffollamento a causa dell’aumento dei crimini legati alla narcoviolenza. È l’ultimo esempio della linea dura di Castro in materia di sicurezza. Una presa di posizione che ricalca quella del presidente Nayib Bukele nel vicino El Salvador. Bambini arruolati, rapiti in casa o mentre andavano a scuola, il focus su Haiti e Niger La Repubblica, 17 giugno 2024 La complessità e l’intensificarsi di guerre e conflitti, nonché l’uso ormai abituale di armi esplosive nelle aree densamente popolate, hanno portato a un aumento significativo delle violazioni contro i bambini nel 2023. Il rapporto delle Nazioni Unite include, per la prima volta, informazioni su Haiti e sul Niger. In totale si sono verificati 32.990 abusi contro 22.557 minori. 11.649 sono i bambini rimasti uccisi o mutilati, cioè quasi 15 al giorno: un aumento del 35 per cento rispetto allo scorso anno e, in generale, è il numero più alto di questi ultimi anni. 8655 sono stati quelli reclutati nei gruppi armati e 4356 sono stati, invece, quelli rapiti. I luoghi e gli autori della violenza. Il maggior numero di abusi e reati si è verificato in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati, nella Repubblica Democratica del Congo, in Myanmar, in Somalia, in Nigeria e in Sudan. La gran parte di questi crimini, oltre la metà, sono stati commessi dai gruppi armati non statali, compresi quelli designati come terroristi dall’ONU, mentre l’altra metà è opera di forze governative, mine antiuomo e ordigni esplosivi improvvisati. Ai gruppi armati non statali si devono la gran parte dei rapimenti, dei reclutamenti e della violenza sessuale contro i minori, mentre alle forze governative si imputano principalmente uccisioni e mutilazioni, attacchi a scuole e ospedali e al relativo personale, e negazione dell’accesso agli aiuti umanitari. Gli ostacoli o addirittura i divieti di accedere all’assistenza delle ONG sono aumentati del 32 per cento nel 2023 rispetto al 2022 e sono probabilmente stime al ribasso perché molte famiglie non denunciano gli abusi per paura di subire ritorsioni, per sfiducia nella giustizia e perché temono per la propria incolumità. Gli episodi di violenza sessuale contro i minori sono cresciuti del 25 per cento rispetto al 2022. Infine l’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari è stato compromesso per migliaia di bambini, con 1.650 attacchi verificati contro scuole, ospedali e contro il relativo personale. I gruppi armati non statali. In Burkina Faso il gruppo dello Stato Islamico nel Grande Sahara utilizza come strategia di guerra il rapimento sistematico dei bambini. In Israele e nei Territori Palestinesi Occupati le Brigate Izz al-Din al-Qassam di Hamas e le fazioni affiliate, e le Brigate Al-Quds del Jihad islamico palestinese sono state inserite nell’elenco dei responsabili dell’uccisione, della mutilazione e del rapimento di minori, soprattutto in seguito agli atti di terrorismo commessi contro Israele il 7 ottobre 2023. In Sudan, invece, le Forze di Supporto Rapido sono state inserite nell’elenco dei responsabili del reclutamento, dell’impiego, dell’uccisione e della mutilazione di bambini, dello stupro e di altre forme di violenza sessuale contro i più piccoli, nonché di attacchi a scuole e ospedali. I progressi. Nonostante il quadro ancora molto fosco, nel 2023 si è acceso anche qualche lampo di speranza: più di 10.600 bambini precedentemente associati a forze o gruppi armati hanno ricevuto protezione, sono stati liberati e aiutati a reinserirsi nella società. Le Nazioni Unite hanno avviato o consolidato il dialogo con le parti in conflitto in Burkina Faso, Camerun, Repubblica Centrafricana, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Iraq, Israele e Territori Palestinesi Occupati, Mali, Mozambico, Nigeria, Filippine, Somalia, Sud Sudan, Siria, Ucraina e Yemen. Alcuni di questi Paesi hanno già adottato misure che forniscono una migliore protezione per i bambini coinvolti nei conflitti armati.