Quattro suicidi in carcere in 24 ore. La Polizia penitenziaria: “Numeri pazzeschi, è un’ecatombe” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 16 giugno 2024 Situazione insostenibile nei penitenziari: 14.000 detenuti in più e 18.000 agenti in meno. Il Consiglio d’Europa ammonisce l’Italia. L’ultimo è riuscito ad impiccarsi nel reparto ospedaliero all’interno del carcere di Bancali a Sassari. Il quarto in 24 ore dopo i suicidi nei penitenziari di Ariano Irpino, Biella, Teramo. Detenuti giovani e anziani, italiani e stranieri, accomunati dall’incapacità di tollerare condizioni di detenzione che hanno oltrepassato i limiti. Sono già 44 i detenuti che si sono tolti la vita in cella dall’inizio dell’anno. “Numeri indegni di un Paese civile” - La polizia penitenziaria alza per l’ennesima volta la voce e prova a mettere in mora il governo che, a fronte dei ripetuti allarmi, non sembra essersi fatto carico di un’emergenza certificata dai fatti. “Numeri pazzeschi, indegni di un paese civile”, denuncia Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Polizia penitenziaria. “Non abbiamo più parole per commentare e appellarci alla sensibilità della politica. A fronte di tutto ciò, infatti, si notano due grandi assenti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni. Suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri, traffici illeciti, ma cos’altro deve accadere affinché l’esecutivo prenda atto dell’emergenza in essere e vari misure consequenziali?”. Il Consiglio d’Europa ammonisce l’Italia - Un “monito” all’Italia per “l’immediata adozione di efficaci interventi sulle disastrose condizioni delle carceri e per una maggiore trasparenza delle informazioni”, arriva dal Consiglio d’Europa. Il comitato dei ministri proprio due giorni fa ha emesso una nota in cui “constata con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024”. I sindacati: “Subito un decreto svuotacarceri” - I sindacati degli agenti penitenziaria da tempo chiedono un decreto-legge per alleggerire la popolazione delle carceri che in questo momento in Italia conta ben 14mila detenuti in più rispetto alla capienza. “Servono assunzioni straordinarie e accelerate nel corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità, e il potenziamento dell’assistenza sanitaria, soprattutto psichiatrica, in crisi profondissima. Parallelamente, vanno avviate riforme strutturali. Siamo dentro un’ecatombe”, aggiunge De Fazio. Aggressioni in aumento anche agli agenti penitenziari - Grande sofferenza parallelamente nel corpo della Polizia penitenziaria. “L’altra faccia della medaglia dell’emergenza carcere sottolinea Aldo Di Giacomo del Sindacato di polizia penitenziaria, “è l’aumento di aggressioni e violenze al personale penitenziario che ha raggiunto il 40% in più nel giro di pochi mesi. Nella stessa giornata del suicidio a Teramo, sono 8 gli agenti aggrediti e costretti a ricorrere alle cure dei medici”. Suicidi in carcere: perché il Consiglio d’Europa ha richiamato l’Italia di Angela Stella L’Unità, 16 giugno 2024 Mentre Strasburgo lancia l’allarme, il governo boccia la legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale e annuncia un “decretino”. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane preoccupa molto il Consiglio d’Europa: una situazione “allarmante” evidenziata da una tendenza negativa osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024. E sulla quale il governo italiano dovrebbe intervenire “urgentemente”, si legge in un documento reso noto ieri. Sui suicidi dei detenuti - che proprio ieri hanno toccato quota 42 dall’inizio dell’anno con i casi di Biella ed Ariano Irpino - Strasburgo “constata con grande preoccupazione” che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare il fenomeno. L’Italia è quindi chiamata “ad adottare rapidamente ulteriori misure e a garantire adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire queste morti”. Davanti a questa drammatica situazione il Governo che fa? Boccia la proposta di legge di liberazione anticipata di Roberto Giachetti (Iv), come specificato dal sottosegretario Ostellari due giorni fa durante un evento sul carcere organizzato dal quotidiano il Dubbio, e annuncia un decreto carceri, presentato dallo stesso esponente leghista in un comunicato, come un provvedimento volto a “tutelare diritti senza nuovi sconti di pena”. Dovrebbe arrivare in Cdm la prossima settimana. “Il testo prevede - si legge nella nota - anche una norma che disciplina il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta. Non saranno introdotti sconti di pena. L’obiettivo è alleggerire i tribunali di sorveglianza, gravati dalla necessità di evadere 200mila richieste all’anno e, contemporaneamente, garantire ai detenuti i diritti già previsti dalla normativa vigente”. Si sta discutendo, al ministero della Giustizia, di istituire un albo delle comunità per associazioni del terzo settore, già dotate di strutture di accoglienza, per consentire - a chi ha già i requisiti ma non dispone di una casa - di scontare la pena in regime di detenzione domiciliare, o di affidamento in prova purché svolga una attività lavorativa. La misura potrebbe dunque riguardare coloro che hanno un fine pena inferiore ai due anni, oltre a chi è inserito in uno specifico percorso trattamentale. Molto critica la presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini: “Ostellari con l’annuncio del decreto del governo non si pone minimamente il problema dell’emergenza sovraffollamento e i numeri parlano chiaro. Al 31 maggio 2024 i dati prodotti dal Ministero ci dicono (falsamente perché non tengono conto dei 4.300 posti inagibili e quindi inutilizzabili) che 61.547 detenuti sono costretti a vivere in 51.241 posti (in realtà 46.941). E, sempre senza tenere in conto i posti non utilizzabili, questi dati ci dicono che ben 80 istituti penitenziari hanno un sovraffollamento superiore al 130% con punte che arrivano al 200%. La verità è che dalla fine dell’anno scorso ad oggi i detenuti sono aumentati di 1.381 unità senza che sia stato recuperato alcuno dei posti inagibili. La verità è che 42 disperati si sono tolti la vita e che l’unico atto legislativo concreto in grado di portare un minimo di sollievo (e di legalità) alla comunità penitenziaria è la proposta di legge Giachetti - Nessuno Tocchi Caino”. Invece lo Stato resta a guardare e propone soluzioni a medio-lungo termine: “È come se assistessimo all’aggressione violenta di una persona senza muovere un dito”. Due giorni fa è scaduto il termine per la presentazione degli emendamenti in Commissione giustizia della Camera alla pdl Giachetti che in teoria dovrebbe giungere in Aula il 24 giugno. Ma fonti parlamentari sono pessimiste: da lunedì ricomincia nella medesima commissione la discussione del ddl Nordio che, tra l’altro, abroga il reato di abuso di ufficio. Quindi i tempi per la misura svuota carcere potrebbero ulteriormente accorciarsi. Ogni anno 960 detenzioni ingiuste. Ai danneggiati mini risarcimenti di Fabio Amendolara La Verità, 16 giugno 2024 Gli errori eclatanti, dal caso Zuncheddu fino a Contrada, ex numero due del Sisde. Nel cuore del sistema giudiziario italiano si nasconde un dramma trascurato ma devastante: l’ingiusta detenzione di innocenti. È un fenomeno che, pur passando molto sotto traccia, lascia cicatrici profonde nella vita di chi ne è vittima. Emergono con forza dai dati recenti del garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, cifre allarmanti per le riparazioni per ingiusta detenzione nel corso del 2023. I numeri non mentono e lasciano senza fiato. Durante lo scorso anno le Corti d’appello italiane hanno emesso ben 619 ordinanze di pagamento per risarcire le vittime di detenzioni ingiuste, per un totale di quasi 28 milioni di euro. Questi numeri, per quanto impressionanti, rappresentano solo la punta dell’iceberg di un problema sistemico. Si stima che dal 1991 al 31 dicembre 2023 gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni superino i 32.000 casi. La media annua è clamorosa: 960 persone. In questa triste classifica delle Corti più attive spiccano Reggio Calabria con 82 ordinanze di pagamento per oltre 8 milioni di euro, seguita da Roma con 59 e Catania con 53. Ma dietro a ogni numero ci sono dei nomi. E c’è una storia di ingiustizia. Prendiamo ad esempio il caso di un operaio edile fiorentino che ha trascorso oltre 1.000 giorni dietro le sbarre per un’accusa di violenza sessuale aggravata e che poi è stato completamente assolto. Il risarcimento di 140.000 euro che ha ricevuto non può cancellare la sofferenza patita. Ma le storie che emergono sono tutte altrettanto strazianti. Come quella di Francesco Paolo Cocco di Palermo, che ha trascorso tre anni in carcere per un omicidio mai commesso (è stato risarcito con 300.000 euro), o quella di Beniamino Zuncheddu che ha perso 33 anni della sua vita per un errore giudiziario imperdonabile e che ora chiede un risarcimento immediato. Ogni caso racconta anni rubati, dignità calpestata e ferite che non guariranno mai. E mentre alcuni hanno ricevuto risarcimenti significativi, altri, come Pio Del Gaudio, ex sindaco di Caserta, hanno ottenuto solo un’ombra di compensazione (2.500 euro) per undici giorni di detenzione ingiusta. Erminio Diodato di Vergiate (Varese) è rimasto in carcere con un’accusa di spaccio per cinque mesi prima di essere assolto con formula piena e ottenere 60.000 euro di risarcimento. Giampaolo Laudani a Milano è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento alla ‘ndrangheta dopo tre mesi di arresti domiciliari e ha ricevuto un risarcimento di 12.500 euro. Come dimenticare poi il caso di Bruno Contrada, l’ex numero due del Sisde, il vecchio servizio segreto civile, condannato ingiustamente per associazione mafiosa e che ha ottenuto 285.000 euro di risarcimento dopo una battaglia legale durata otto anni. Giuseppe Raguseo, accusato di associazione mafiosa ed estorsione prima di essere assolto, ha ricevuto 330.000 euro di risarcimento per tre anni di detenzione. Saverio De Sario, dopo essere stato condannato erroneamente a 11 anni di carcere per abusi sessuali, è stato assolto dopo la ritrattazione dei figli. Ha ricevuto un risarcimento di 400.000 euro per i 1.068 giorni trascorsi in custodia cautelare. Vincenzo Salvatore Onorio, arrestato nell’operazione Nerone ed erroneamente condannato per associazione mafiosa e tentata estorsione, ha ottenuto un risarcimento di 176.000 euro per i 2 anni e 11 giorni di ingiusta detenzione. Nicola Nuzzolese, ingiustamente accusato di violenza sessuale nei confronti della figlia minorenne della compagna, è stato assolto nel 2013 e ha ricevuto un risarcimento di circa 28.000 euro per i 6 mesi di detenzione. Omar Milanetto, ex calciatore del Genoa, detenuto ingiustamente nell’ambito dell’inchiesta sul calcioscommesse, è stato risarcito con 30.000 euro per l’ingiusta detenzione di 10 giorni. Non mancano gli stranieri: Ben Mouhammed Nasreddine (73.000 euro di risarcimento); Mounir Knani (490.000 euro); Kelly Iyekekpolor (60.000 euro); Hatem Yaakoubi (90.000 euro). Indizi non verificati, assenza di prove, accuse contraddittorie. Il cortocircuito della giustizia è servito. Il conto pure. Una partita con mamma e papà, in carcere di Monica Coviello vanityfair.it, 16 giugno 2024 Per l’ottava edizione della “Partita con mamma e papà”, gli istituti penitenziari aprono le porte alle famiglie dei detenuti, per aiutare i bambini a mantenere il legame affettivo con il genitore. Quattro calci al pallone insieme ai genitori: se per la maggior parte dei bambini basta andare al campetto vicino, per i figli dei detenuti è un sogno difficile da realizzare. Per questo, anche quest’anno, per loro, torna la “Partita con mamma e papà”: gli istituti penitenziari aprono le porte alle famiglie dei detenuti, per iniziativa dell’associazione Bambinisenzasbarre, in collaborazione con il Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Una partita con mamma e papà in carcere - Qui c’è il calendario delle partite, che è in continuo aggiornamento. Lunedì 17 si gioca a Milano, nella Casa di Reclusione Opera e nella Casa Circondariale San Vittore, a Genova, a Paola, in provincia di Cosenza, e a Vercelli. Martedì sarà la volta di Civitavecchia, Messina e Spoleto, mercoledì di Chiavari e Livorno e giovedì di Torino e Rossano. L’evento, come ogni anno, coincide con la campagna europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna”, che ha l’obiettivo di sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha lo scopo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi e dell’emarginazione di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) con il papà o la mamma in carcere. “Questi bambini”, spiega Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre, “vivono in silenzio il loro segreto del genitore recluso per non essere stigmatizzati ed esclusi”. La “Partita con mamma e papà” è nata nel 2015, e ha visto l’adesione di 12 istituti e la partecipazione di 500 bambini e 250 papà detenuti. Si è tenuta tutti gli anni fino al 2019, ed è stata interrotta per due anni a causa della pandemia. All’edizione di ripresa, quella del giugno 2022, hanno aderito ben 76 istituti, dove sono state giocare 82 partite, fra 4100 bambini e 1900 genitori). I numeri sono aumentati ancora nella scorsa edizione, la settima, che ha visto l’adesione di 79 istituti italiani e ha coinvolto 4250 bambini e 2050 genitori detenuti. Questa è un’edizione molto importante, perché segna il decennale della firma della “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, un documento unico che riconosce formalmente il diritto di questi bambini al mantenimento del legame affettivo con il genitore detenuto, come prevede con l’articolo 9 della Convenzione Onu sull’infanzia e l’adolescenza e, nel contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità delle persone detenute e impegna il sistema penitenziario in una cultura dell’accoglienza che riconosca e tenga in considerazione la presenza dei bambini che, loro malgrado, incontrano il carcere. Per questa occasione, il prossimo autunno la “Partita con mamma e papà” verrà realizzata anche a livello europeo per il network Children of Prisoners Europe, di cui Bambinisenzasbarre è membro. Le toghe pronte allo sciopero contro Nordio. Ma non subito di Mario Di Vito Il Manifesto, 16 giugno 2024 Lo scontro. Anm movimentista: ci sarà anche una manifestazione. Dubbi sui tempi della riforma. Correnti contrarie alla separazione delle carriere: “Si indebolisce la democrazia”. Il giudizio delle toghe sulla riforma della giustizia è “fortemente negativo nel suo complesso”. Questo si sapeva già da un po’, per la verità, ma la riunione del comitato direttivo centrale dell’Anm, ieri in Cassazione, ha cristallizzato l’unanimità di questa presa di posizione. Di più: tutte le correnti della magistratura sono d’accordo sulla necessità di scioperare, anche per più giorni. Ma non subito, “in relazione all’iter parlamentare”. Il timore delle toghe sul punto, oltre alla partecipazione (l’ultima volta nel 2022 l’adesione si fermò al 48%), è di perdere lo scontro sul piano mediatico, passando per corporazione chiusa nella difesa dei propri interessi. Per questo, nei vari interventi che si sono susseguiti durante le sei ore di dibattito, molte parole sono state spese sulla necessità di migliorare sul versante della comunicazione. La questione viene ritenuta di tale importanza da diventare il primo punto del documento unitario partorito dal comitato direttivo: “Elaborazione di una strategia comunicativa innovativa ed efficace anche mediante il supporto di esperti della comunicazione”. Il Presidente Giuseppe Santalucia ha battuto molto su questo nella sua relazione introduttiva. “Non dobbiamo aver paura di essere tacciati di fare politica - ha detto - siamo magistrati e non ci preoccupa il colore dei provvedimenti, ma la difesa dell’assetto costituzionale”. Per le toghe la separazione delle carriere proposta dal governo Meloni è “un indebolimento della democrazia” dalla dubbia aderenza ai principi della Carta. “In definitiva - si legge ancora nel documento intitolato “Una mobilitazione culturale” - è una riforma che, stravolgendo l’attuale assetto costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello stato, sottrae spazi di indipendenza alla giurisdizione, riducendo le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini”. C’è dunque consapevolezza diffusa che se c’è una possibilità di vincere la battaglia sulla giustizia, per coglierla si renderà necessario uscire dal dibattito tecnico e affrontare i vari temi sul ring dell’opinione pubblica. “Dobbiamo cogliere l’invito a uscire dai palazzi di giustizia, senza paura di contaminarci, di sporcarci le mani e di stringere quelle di tutti i cittadini - così scrivono i componenti di Magistratura democratica nel consiglio direttivo dell’Anm -. Non per esibizionismo populistico, ma quale frutto della consapevolezza che, se si è parte di una comunità, con la comunità occorre relazionarsi, avvisandolo del pericolo che corre la tutela dei diritti di tutti i cittadini”. Da qui l’intera Anm si propone di organizzare “almeno una manifestazione nazionale da svolgersi in un luogo istituzionale significativo”. Una svolta movimentista che ha del clamoroso, a ben guardare, e che diventa quasi incredibile se si considera che ad essere favorevoli sono persino le toghe di destra: Magistratura indipendente (la corrente a cui apparteneva, per dire, anche il sottosegretario Alfredo Mantovano quando ancora faceva il magistrato) non ha avuto niente da obiettare e le critiche alla riforma espresse dai suoi membri sono dello stesso tenore di quelle della sinistra giudiziaria. Al di là degli slanci ideali e della sensazione diffusa di essere di fronte a un attacco frontale del potere esecutivo a quello giudiziario, è comunque impossibile non vedere sullo sfondo di questo dibattito le elezioni di gennaio, quando i giudici di tutto il paese saranno chiamati a votare per il rinnovo del comitato direttivo centrale. Resta sospesa la questione dei tempi della riforma, e quindi anche dei tempi della protesta. Malgrado le parole del ministro Crosetto, secondo il quale la questione della giustizia andrebbe affrontata al più presto, la premier Meloni appare più concentrata sul premierato e sul conseguente referendum costituzionale. La separazione delle carriere, contentino concesso a Forza Italia alla vigilia delle europee, potrebbe sì fare un primo passaggio in parlamento prima delle vacanze estive, ma in pochi credono che basterà questa legislatura per chiudere la partita. Anm compatta e pronta all’astensione: “Partecipiamo ai comitati referendari” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 giugno 2024 Dal parlamentino delle toghe “un giudizio fortemente contrario sulla riforma” della separazione delle carriere. L’Anm esce compatta con una mozione unitaria dalla riunione del parlamentino convocato in merito alla riforma costituzionale della riforma della separazione delle carriere, del sorteggio per i membri del Csm e dell’Alta Corte. I gruppi associativi hanno deliberato sette punti. Tra i principali: 1. Nella eventuale prospettiva di un referendum costituzionale, l’impegno ad ogni forma di mobilitazione, inclusa la partecipazione ad eventuali iniziative di comitati referendari; 2. L’indizione, in relazione all’iter parlamentare di discussione del ddl di riforma costituzionale, di una o più giornate di astensione dall’attività giudiziaria per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della riforma. L’Anm ha espresso “un giudizio fortemente contrario sulla riforma” per i motivi già noti e espressi nei numerosi interventi, non solo dei membri del Cdc ma anche dei rappresentanti delle 15 sezioni distrettuali dell’Anm intervenute. Più della metà delle 26 totali: segno interpretato come una rivitalizzazione dell’associazionismo a conferma del congresso di Palermo e della forte contrarietà al ddl costituzionale. Nella mozione si parla di “disegno di indebolimento della magistratura”. Inoltre, “la separazione delle carriere non risponde ad alcuna esigenza di miglioramento del servizio giustizia, ma determina l’isolamento del pubblico ministero, mortificandone la funzione di garanzia e abbandonandolo ad una logica securitaria, nonché ponendo le premesse per il concreto rischio del suo assoggettamento al potere esecutivo. In definitiva, è una riforma che, stravolgendo l’attuale assetto costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello Stato, sottrae spazi di indipendenza alla giurisdizione, riducendo le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini”. Tra le altre iniziative da mettere in campo, l’elaborazione di una strategia comunicativa innovativa ed efficace anche mediante il supporto di esperti della comunicazione; lo svolgimento di iniziative comuni su tutto il territorio coinvolgendo istituzioni locali, avvocatura, scuole, università, esponenti della società civile, sindacati e associazionismo; l’organizzazione di almeno una manifestazione nazionale da svolgersi in un luogo istituzionale significativo; la creazione di luoghi di confronto e sinergia con le altre magistrature; il coinvolgimento delle istituzioni europee preposte al monitoraggio dell’indipendenza e imparzialità della magistratura. “Mobilitazione culturale” dei magistrati contro la riforma: sciopero solo quando servirà di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2024 La separazione delle carriere di pm e di giudici non deve essere realizzata. È la fine della democratica separazione dei poteri. Toghe all’unisono, esprimono un parere “fortemente contrario” alla riforma del governo Meloni, al Cdc, il “parlamentino” dell’Anm, concluso poco fa. È stato votato, caso più unico che raro negli ultimi tempi, un documento all’unanimità perché, come ha detto un giovane magistrato siciliano, se passa questa riforma “cessa di esistere” la magistratura pensata “dai nostri padri costituenti” che hanno concepito “pesi e contrappesi”. Non ci sarà, però, come era prevedibile, uno sciopero immediato, poco “strategico” ma più avanti. Invece, è stato deciso di organizzare in tutta Italia una “mobilitazione culturale” ed è prevista anche una “manifestazione nazionale da svolgersi in un luogo istituzionale significativo”. Nel documento si legge che la separazione delle carriere “non risponde ad alcuna esigenza di miglioramento del servizio giustizia, ma determina l’isolamento del pm, mortificandone la funzione di garanzia e abbandonandolo a una logica securitaria, nonché ponendo le premesse per il concreto rischio del suo assoggettamento al potere esecutivo”. Una riforma che “sottrae spazi di indipendenza alla giurisdizione, riducendo le garanzie e i diritti di libertà per i cittadini”. Sul (prevedibile) mancato sciopero immediato è il presidente Giuseppe Santalucia a dare la motivazione che vede d’accordo tutti i gruppi: “Lo sciopero quando servirà sarà messo in campo, dovrà essere un volano della nostra capacità di comunicazione. Un giorno, due o tre, tutti quelli che serviranno nel momento in cui saranno necessari”. Ovvero quando sarà in corso il dibattito parlamentare: “Si tratta di un percorso lungo. Lo sciopero sarà fatto con una programmazione, quando l’iter parlamentare entrerà nel vivo per sottolineare ed evidenziare la nostra posizione. Non c’è nessun tipo di riserva né di cautela perché è una riforma sbagliata che farà voltare pagina all’ordine giudiziario e al nostro assetto costituzionale “ma, conclude, “non vogliamo diventi uno strumento che si ritorca contro le ragioni che cerchiamo di spiegare”. E ribadisce il senso negativo, per l’Anm della riforma: “Punta a contenere un ordine giudiziario che viene avvertito come problema, come un potere che ha invaso i confini della politica e quindi va circoscritto e gli vanno tagliate le unghie”. E prevede un indebolimento della magistratura “che passa attraverso la divisione in due del Csm, l’espropriazione del potere disciplinare (con l’istituzione di un’alta Corte ad hoc, ndr) e l’elezione per sorteggio”. Un sorteggio puro, secondo il ddl Nordio, per quanto riguarda i togati mentre per i laici c’è il “trucchetto”. Saranno sorteggiati professori e avvocati scelti dal Parlamento, ovvero proseguiranno a essere di nomina politica. Lo sottolinea il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro: ci sarà “la polverizzazione dei togati” e la presenza di “una pattuglia di laici agguerrita, frutto della maggioranza parlamentare”. Casciaro, poi, mette in luce come le garanzie costituzionali attuali scompariranno con l’incrocio tra la riforma della separazione delle carriere e quella del premierato. La riforma voluta da Giorgia Meloni prevede - ricorda Casciaro - “all’art. 3, un premio ‘garantito’ di maggioranza del 55% che darebbe alle forze della coalizione che esprimono il presidente del Consiglio il potere di nominare (dopo il terzo scrutinio) un ‘proprio’ presidente della Repubblica, depotenziandone il ruolo di garante super partes degli equilibri costituzionali. Cosa che potrebbe riproporsi agevolmente -conclude Casciaro-al momento della nomina dei cinque giudici della Consulta e dei dieci componenti laici dei due Csm”. Il sorteggio come metodo di elezione dei togati è sostenuto solo da Articolo 101, convinto che sia l’unico modo per debellare la correntocrazia. A margine della riunione, i giornalisti hanno chiesto conto a Santalucia del via libera del presidente Mattarella all’iter parlamentare del ddl sulla separazione delle carriere. Il presidente Anm ha fatto notare che “non significa condivisione dei contenuti” ma che “c’è un forte rispetto da parte del presidente della Repubblica delle prerogative del potere legislativo e dell’iniziativa del governo”. Come dire, non poteva fare diversamente. E se, come è verosimile, la riforma sarà approvata da questo Parlamento, alcuni magistrati durante il dibattito hanno detto che l’Anm “deve porsi il quesito se essere promotore o comunque fare parte di un comitato referendario per il no”. Marina Castellaneta: “Se l’Italia abolisce l’abuso d’ufficio rischia sanzioni Ue” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2024 Abolire il reato di abuso d’ufficio equivale a una “violazione di un obbligo internazionale e del diritto Ue”. Ecco perché la misura che ha di recente ricevuto il primo via libera dal Parlamento potrebbe presto costare al nostro Paese una procedura d’infrazione davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea. A spiegarlo è Marina Castellaneta, ordinaria di Diritto Internazionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, giornalista pubblicista e autrice di numerosi saggi sulla libertà di stampa e sul diritto europeo. “Con l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio ci troveremmo sicuramente di fronte a un vulnus del nostro ordinamento, in una situazione d’inadempimento di un obbligo internazionale e in aperto contrasto con le norme di diritto Ue”, dice la giurista. L’abolizione dell’abuso d’ufficio, come è noto, è una misura bandiera del governo di Giorgia Meloni, fortemente voluta dal ministro Carlo Nordio. Secondo il guardasigilli, l’abuso d’ufficio è un reato evanescente e dunque va abolito. Per la Commissione Ue, invece, questa mossa ha un impatto sull’efficacia della lotta alla corruzione. Professoressa, chi ha ragione? Naturalmente la Commissione Ue. L’abolizione dell’abuso d’ufficio è molto rischiosa dal punto di vista della lotta alla corruzione. Anzi sicuramente costituisce un vero e proprio ostacolo nella persecuzione dei reati corruttivi. E ricordiamo che la lotta alla corruzione è un elemento centrale dell’Unione europea, anche nell’attribuzione dei fondi comunitari. A cosa si riferisce? Per esempio al Next Generation Eu: Bruxelles chiedeva agli Stati di rispettare le regole dello Stato di diritto, inclusa la lotta alla corruzione. Quindi non è un reato evanescente? Direi di no, perché abbiamo una definizione precisa nella nuova proposta di direttiva Ue sulla lotta alla corruzione e anche nella Convenzione di Mérida, una convenzione Onu che l’Italia ha già ratificato. Quindi dire che l’abuso d’ufficio è evanescente è una contraddizione rispetto alla posizione dell’Italia. E abolirlo equivale a una violazione di un obbligo internazionale e del diritto Ue. In caso di abrogazione l’Italia sarebbe l’unico Paese dell’Ue a non avere alcun tipo di reato per perseguire chi abusa del potere pubblico per fini privati. A quel punto che cosa succederà? Ci troveremo sicuramente di fronte a un vulnus del nostro ordinamento, in una situazione d’inadempimento di un obbligo internazionale. Ripeto: la Convenzione di Mèrida impone la presenza di reati come l’abuso d’ufficio. In pratica abrogare questo reato equivale a varare una normativa contraria all’articolo 117 della Costituzione: la potestà legislativa va esercitata rispettando i vincoli dell’ordinamento comunitario e gli obblighi internazionali. E dal punto di vista dell’Unione europea? A breve sarà approvata questa nuova proposta di direttiva sulla lotta alla corruzione: l’Italia rischia di essere in aperto contrasto con le norme di diritto Ue. Partirebbe una procedura d’infrazione? Esatto. Aggiungo che tra l’altro l’Italia fa parte del Consiglio d’Europa e anche lì ci sono due convenzioni importanti sulla lotta alla corruzione. Quindi penso che avrà qualcosa da dire anche il Comitato del Consiglio d’Europa, che si occupa di monitorare il livello di lotta alla corruzione nei vari Paesi che hanno ratificato queste convenzioni. Già in passato ha evidenziato le lacune del sistema italiano. A livello pratico cosa rischia l’Italia da una procedura di infrazione? In genere la procedura di infrazione si attiva quando la Commissione verifica o ritiene che ci sia un inadempimento del diritto dell’Unione. Il primo step è inviare una lettera di messa in mora allo Stato per consentirgli di riparare. Se lo Stato non lo fa viene citato in giudizio dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Si svolge quindi un processo che può terminare con la constatazione dell’inadempimento: lo Stato, dunque, può essere condannato. Che tipo di condanna può ricevere? Una multa? Sì, sono misure sanzionatorie di carattere pecuniario. Quindi il sistema grava sui conti e sul bilancio dello Stato che prosegue nel suo inadempimento. Dal punto di vista operativo, invece, dopo l’abolizione dell’abuso d’ufficio i magistrati contesteranno fattispecie più gravi, tipo la corruzione? Probabilmente sì. Su questo non posso essere molto precisa perché non mi occupo propriamente di diritto interno. Però voglio sottolineare che l’abuso d’ufficio è una forma di corruzione, una delle varie forme enunciate nel diritto Ue e nel diritto internazionale. Quindi dopo la sua abrogazione sarebbe possibile contestare la corruzione anche dal punto di vista interpretativo. Femminicidi. Giuseppe Delmonte e la sua battaglia per gli orfani senza giustizia di Giulia Avataneo tg.la7.it, 16 giugno 2024 “Leggi inadeguate e burocrazia estenuante”. L’associazione Olga, dedicata alla mamma, tiene l’attenzione sul tema. Com’e incerto è il numero delle donne vittime di femminicidio in Italia, anche quello degli orfani è un dato che oscilla dalle poche decine alle centinaia. Un censimento ufficiale non c’è, ed è un problema perché bambini e adolescenti sono due volte vittime, soli al mondo e con il futuro rubato. Se sono minori, il più delle volte sono affidati a parenti stretti, ma gli aiuti dello stato restano pochi e inadeguati anche nei confronti di chi li assiste e li aiuta a crescere. Convivere con un trauma così grande - che a volte avviene anche sotto i propri occhi - significa aver bisogno di assistenza psicologica, sostegno affettivo ed economico per potersi ricostruire. Ma su questo c’è ancora molta strada da fare. Giuseppe Delmonte: “Noi orfani condannati all’ergastolo del dolore” - Giuseppe Del Monte ha vissuto questa tragedia nel 1997, a 19 anni, quando sua mamma, Olga Granà, è stata uccisa dal padre a colpi d’ascia per strada, ad Albizzate. Anni dopo quel dramma, è nata un’associazione per sensibilizzare i giovani e le istituzioni sui temi della violenza di genere e delle discriminazioni. “Avevo 19 anni - racconta al TG La7 - Mia mamma si era separata da cinque, dopo un matrimonio durato 24 anni. Un’unione segnata dalla violenza, prima psicologica e poi fisica. Quando mia madre ha trovato la forza di separarsi, è iniziata una fase di stalking serrato”. Dice stalking, Delmonte, ma in realtà una legge sullo stalking sarebbe arrivata solo nel 2009. Il femminicidio di Olga Granà e la condanna all’ergastolo dell’ex marito - “Mio padre non si è mai rassegnato a questa separazione - prosegue Delmonte - torturava mia madre dal punto di vista psicologico. E lei sapeva benissimo che fine avrebbe fatto. Ce lo diceva sempre”. Dopo cinque anni la uccide. È il 26 luglio 1997: Olga viene massacrata con sette colpi d’ascia. L’ex marito viene condannato all’ergastolo dopo cinque anni. “All’ergastolo è però siamo finiti noi figli - osserva Delmonte - io sono l’ultimo di tre e siamo stati completamente abbandonati”. Di Giuseppe e i suoi fratelli si prendono cura i parenti. Ma il trauma lascia il segno. “Dico spesso che mi sono stati rubati i sogni, perché il mio sogno era diventare chirurgo, ma a 19 anni, quando ti succede una cosa del genere, non hai la forza psicologica per affrontare un ciclo di studi così lungo. Ma soprattutto non me lo potevo permettere da un punto di vista economico. Quindi io ho sempre definito mio padre un ladro, prima di essere un assassino, perché mi ha rubato questo sogno”. Dal dolore all’impegno: la nascita dell’associazione Olga - Giuseppe prosegue la sua vita in un’altra città e dopo lunghi anni di negazione affronta il trauma con l’aiuto di uno psicologo. Oggi, a 47 anni, fa lo strumentista di sala operatoria. “Posso dire che la psicoterapia mi ha salvato la vita - ammette - perché è riuscita a portare alla luce quel dolore che io non sapevo assolutamente gestire”. Questo percorso fa capire a Delmonte quanto sia importante avere a disposizione gli strumenti per affrontare il trauma. “Ho iniziato a chiedermi cosa succede alle donne vittime di violenza. E che fine fanno i loro figli”, spiega. “A quel punto mi sono scontrato con una realtà non così lontana da quella che avevo vissuto nel 1997”. “Noi siamo condannati all’ergastolo del dolore - dice - Il fine pena mai lo portiamo comunque dentro, ma sicuramente oggi ho i mezzi, strumenti per poterne parlare. Questi strumenti mancano a tanti giovani che hanno a che fare con la violenza, a volte senza neppure riconoscerla”. Un vuoto normativo: cosa succede agli orfani di femminicidio? La situazione non è cambiata poi molto nel 2024. “Oggi mi scontro ancora con una realtà dove l’orfano di femminicidio, se vuole un sussidio, lo deve chiedere. E le famiglie che si prendono cura di questi orfani, che quando sono fortunati hanno nonni o zii, non vengono assistiti”. Resta un vuoto istituzionale ancora molto marcato. Alcuni passi - importanti - sono stati fatti: la legge sullo stalking, il Codice rosso, la Convenzione di Istanbul. Ma i dati restano allarmanti. Ancora oggi ogni tre giorni muore una donna, vittima di femminicidio. E per gli orfani e i loro caregiver inizia un tunnel burocratico estenuante. “L’unica legge che esiste - spiega Delmonte - la legge 4/2018, istituisce un fondo senza neppure sapere quanti orfani ci sono in Italia. In più, sono le vittime a dover presentare domanda e solo quando la condanna dell’omicida diventa definitiva. Credo che sia una cosa aberrante che l’orfano debba fare domanda per avere questo sussidio. Uno stato civile si dovrebbe presentare il giorno dell’omicidio, prendersi cura di questi figli e, azzarderei anche, chiedere scusa perché non è stato in grado di difendere le madri”. Il ruolo delle associazioni - Laddove lo stato è carente, arrivano le associazioni. Così nasce l’idea di creare una realtà che tenga alta l’attenzione sul tema. “Il mio scopo, oggi, è quello di dire ai giovani che se se vivono una situazione di violenza possono uscirne. Basta chiedere aiuto e rivolgersi a professionisti, come ho fatto io”. Dopo due anni di attivismo nelle scuole, Delmonte decide di creare un’associazione, Olga, e dedicarla alla mamma. “Raccontando la mia storia - spiega - mi sono reso conto di quanto ci sia bisogno di rispondere alle domande dei giovani su diversi ambiti, dalla psicologia agli aspetti legali fino all’educazione sentimentale e sessuale”. Olga riunisce una squadra di professionisti che affrontano il tema del rispetto e delle discriminazioni da un punto di vista complessivo. “Non parliamo solo di violenza di genere e di violenza nei confronti delle donne, ma anche di tematiche come il bullismo e il cyberbullismo, diritti umani, lotta contro le discriminazioni nel mondo Lgbtq”. La necessità di un’educazione affettiva nelle scuole - Usa parole forti per raccontare il clima che ha trovato nelle scuole, soprattutto nella fascia di età 14-18, con cui si confronta più di frequente: “Mi sono scontrato con un’ignoranza culturale che non mi aspettavo - ammette - Ma anche con tante domande che mi fanno capire quanto ci sia bisogno di capire e affrontare la violenza”. Olga vuole fare la differenza: “Costruire mattone su mattone un’educazione all’affettività, all’emotività e al rispetto dell’essere umano in quanto essere umano”. Teramo. Detenuto suicida in carcere a 74 anni. Il legale: “Troppo vecchio per stare lì” di Grazia Longo La Stampa, 16 giugno 2024 Non si arresta la catena di suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Gli ultimi due ieri a Sassari dove un cagliaritano di 52 anni si è impiccato, e a Teramo dove Giuseppe Santoleri, 74 anni, condannato in via definitiva a 18 anni di reclusione per l’omicidio dell’ex moglie si è soffocato nel letto della sua cella. L’altro ieri, invece, si è tolto la vita nella prigione di Biella un romeno di 46 anni e il giorno prima era accaduto a un italiano di 34 anni detenuto ad Ariano Irpino. Quattro suicidi in meno di 48 ore. L’elenco è lunghissimo: sempre recentemente, l’11 giugno si è impiccato un italiano di 56 anni nel carcere di Ferrara e il 23 maggio, a Torino, una torinese di 64 anni condannata per violenza si è asfissiata con un sacchetto di nylon in testa. “Siamo al punto di produrre una sorta di assuefazione e ridurre il suicidio in cella a poche righe in pagina di cronaca locale perché non fa più notizia - stigmatizza Aldo di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Spp -. La situazione è completamente sfuggita di mano perché il “deus ex machina” del sistema penitenziario, il sottosegretario Andrea Delmastro, non solo ha esautorato il Dap da ogni funzione e compito ma dimostra di non avere alcuna conoscenza dei problemi dell’emergenza carcere. Vale per tutti il Protocollo operativo con il quale si procede all’acquisto di guanti, abbigliamento e strumenti per il personale secondo la logica di attrezzare gli agenti a fare la “guerra” ai detenuti”. In merito al caso di ieri a Teramo, l’avvocata della vittima, Federica Di Nicola, incalza: “Santoleri è stato ammazzato dallo Stato, dalle lungaggini processuali e dall’incuria ed inadeguatezza dell’istituto carcerario. Era un uomo malato, anziano sfinito da un vissuto logorante. Un uomo le cui condizioni di salute si sono appalesate incompatibili con la detenzione carceraria. Per questo ho lottato, invano, per ottenere la concessione di una misura alternativa alla detenzione”. Donato Capece, segretario generale di un altro importante sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe, dichiara: “Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea. Si potrebbe ipotizzare un nuovo sistema penitenziario con una diversa articolazione delle pene detentive”. E il segretario generale del sindacato Uilpa, Gennarino De Fazio, chiosa: “Serve un decreto carceri per deflazionare il sovraffollamento detentivo, sono oltre 14 mila i detenuti in più rispetto ai posti disponibili, e per consentire l’assunzione straordinaria e accelerata di agenti nel corpo di polizia penitenziaria, in quanto ne mancano più di 18 mila, e assicurare il potenziamento dell’assistenza sanitaria, specie di natura psichiatrica”. Teramo. Santolieri era malato, aveva chiesto di essere trasferito in struttura alternativa al carcere di Tito di Persio Corriere Adriatico, 16 giugno 2024 Dramma nel carcere di Teramo: si è tolto la vita Giuseppe Santoleri, 74 anni. Stava scontando una pena di 18 anni con il figlio Simone per il concorso nell’omicidio della ex moglie, la pittrice Renata Rapposelli. La 64enne, originaria di Chieti, viveva ad Ancona, in un appartamento di via della Pescheria. Scomparve il 9 ottobre 2017 e il suo corpo fu trovato il successivo 10 novembre sul greto del fiume Chienti, in contrada Pianarucci, nel territorio di Tolentino. Santoleri padre attendeva l’udienza del 18 luglio prossimo per vedersi assegnare una pena alternativa da scontare in una Rsa. Non ha lasciato alcun biglietto. Si è strangolato con un laccio da scarpa intrecciato ad un elastico. A trovare il suo corpo, disteso sul letto, è stato il compagno di cella ieri mattina verso le 7. Il detenuto ha subito allertato i soccorsi. Il 118 ha potuto solo constatare il decesso. Il pm Davide Rosati ha disposto la ricognizione cadaverica, effettuata dal dottor Giuseppe Sciarra, che ha stabilito che Santoleri è deceduto per asfissia. Una seconda ispezione più approfondita, effettuata all’obitorio, ha dato lo stesso risultato, senza trovare segni di violenza. Il pm quindi ha restituito la salma alla famiglia per la sepoltura. Gli agenti della polizia penitenziaria fanno sapere che il 74enne non aveva mai dato segni che potessero far pensare all’intenzione di un gesto estremo. Ieri alle 10 Santoleri aveva appuntamento in ospedale per una Tac encefalografica. “Santoleri è stato ammazzato dallo Stato italiano, dalle lungaggini processuali e dall’incuria ed inadeguatezza dell’istituto carcerario”, attacca l’avvocato Federica Di Nicola, legale di Santoleri. Insieme al figlio Simone, quest’ultimo condannato a 27 anni, era accusato di aver ucciso e poi occultato il cadavere dell’ex moglie Renata. Il delitto avvenne nel 2017 nella casa dei Santoleri, a Giulianova, ma il corpo della donna fu ritrovato dopo un mese di ricerche a Tolentino. Da tempo malato, il 74enne aveva chiesto - finora invano - di poter essere trasferito in una struttura alternativa al carcere. “Era un uomo prostrato - prosegue il suo legale -. Anziano e sfinito da un vissuto logorante. Un uomo le cui condizioni di salute si sono rivelate incompatibili con la detenzione carceraria. Per questo ho lottato per ottenere la concessione di una misura alternativa alla detenzione, con un’istanza depositata il 18 gennaio scorso presso il tribunale di sorveglianza dell’Aquila: avevo trovato una struttura a Selva di Altino (Chieti) idonea a garantire a Giuseppe cure necessarie e adeguate. Il tribunale di sorveglianza, noncurante delle precarie condizioni di salute di Santoleri, ha disposto ben tre rinvii di udienza (11 aprile, 6 giugno e 18 luglio, ndr). Il mio assistito mi aveva preannunciato che non avrebbe aspettato l’udienza del 18 luglio e mi aveva detto: “Avvocà, non ce la faccio più, uno di questi giorni mi uccido”. Ho cercato di confortarlo e rassicurarlo, promettendogli che sarebbe stato l’ultimo rinvio. Tutto inutile”. Sassari. Detenuto italiano di 43 anni si toglie la vita nel carcere di Bancali La Nuova Sardegna, 16 giugno 2024 Un detenuto si è tolto la vita nel carcere di Sassari Bancali, impiccandosi con le lenzuola nel servizio di assistenza intensificata. Il fatto è successo ieri, sabato 15 giugno, attorno alle 15.30. Il detenuto, un 43enne italiano, era ricoverato in infermeria. Si tratta del quarto caso in poco più di 24 ore nelle strutture di detenzione italiane - questa mattina si è suicidato un detenuto anziano nel carcere di Teramo. Con l’episodio di Bancali sale a 44 il numero di casi da inizio anno. “Numeri pazzeschi, indegni di un paese civile - dichiara Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria -. Non abbiamo più parole per commentare e appellarci alla sensibilità della politica. A fronte di tutto ciò, infatti, si notano due grandi essenti, il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il Governo Meloni. Suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri, traffici illeciti, ma cos’altro deve accadere affinché l’esecutivo prenda atto dell’emergenza in essere e vari misure consequenziali? Urge un decreto-legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva, sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto alla capienza utile, assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità, e il potenziamento dell’assistenza sanitaria, soprattutto psichiatrica, in crisi profondissima. Parallelamente, vanno avviate riforme strutturali. Siamo dentro un’ecatombe”, conclude De Fazio. “L’agente sul piano pare si dovesse occupare della sorveglianza della II Sezione, III Sezione, Box e della sorveglianza del SAI. Al momento non abbiamo altre notizie”, fa sapere il segretario generale Sappe Donato Capece. Il sindacalista evidenzia che “episodi simili, in un certo modo, portano con sé il fallimento del sistema penitenziario, talvolta incapace di intercettare il disagio dei più fragili che vedono nell’estremo gesto l’unica via d’uscita. Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea”. Torino. All’Ipm Ferrante Aporti i ragazzi detenuti dormono per terra di Giuseppe Legato La Stampa, 16 giugno 2024 La procuratrice: più arresti con il decreto Caivano. Il nuovo fronte della protesta carceraria non è più soltanto l’istituto penitenziario per antonomasia della città, il Lorusso e Cutugno al centro in questi giorni di un processo per presunte torture con 22 agenti indagati. Sovraffollamento, aggressività dei detenuti, emergenza personale sono temi che varcano adesso anche i cancelli dell’istituto modello Ferrante Aporti, riservato ai minori che commettono reati o per questi vengono condannati. L’Osapp, uno dei più rappresentativi sindacati di polizia penitenziaria in città parla di “situazione drammatica”. A fronte di una capienza di 46 minori “ne sono presenti oggi 56”. I riflessi dei dati sono questi: “I minori dormono per terra su una brandina di resina da spiaggia in mezzo ad una stanza dove sono già presenti quatto/cinque detenuti. La situazione - riferisce il sindacato - è ulteriormente accentuata dal fatto che sono distaccati da anni circa 20 unità di personale di polizia penitenziaria in ogni dove (non si sa dove) di sedi della Repubblica (non si capisce che fine abbiano fatto)”. Risultato? “L’esiguo personale presente svolge mensilmente dalle 40 alle 50 ore di straordinario, sottoposto ad uno stress psicofisico mai registrato prima d’ora nel silenzio più assordante del Dipartimento della giustizia minorile che, pur essendo stato informato della grave situazione di Torino sembrerebbe non interessi”. I numeri così ristretti avrebbero comportato che “al personale - sostiene l’Osapp - viene tolto quasi sistematicamente il riposo”. Infine: “L’Istituto per minorenni di Torino è diventato oramai il ricettacolo di detenuti facinorosi”. Il segretario generale degli agenti Leo Beneduci chiede “al sottosegretario Ostellari di intervenire con la massima urgenza per accertare la situazione dei distacchi a sedi anche non istituzionali del personale con grave impoverimento delle strutture maggiormente a rischio, poiché l’esiguo personale di Polizia penitenziaria presente è davvero stanco e stressato per gli eccessivi rischi e i massicci carichi di lavoro. Vogliamo augurarci - conclude - che all’istituto penale per minorenni di Torino non accadano eventi gravi e irreparabili”. La denuncia è in parte fondata e lo si comprende dalle parole della Procuratrice dei Minori Emma Avezzù. Che conferma “l’esistenza di un sovraffollamento e quindi di una presenza di ospiti superiore al tetto massimo previsto. Più che altro però - aggiunge - sono aumentati i casi nei quali non si trovano alternative al carcere trattandosi di ragazzi, molto spesso stranieri, che non hanno famiglie alle spalle pronte ad accoglierli o per i quali non vi è posto nelle comunità anche quando il giudice ne stabilisce il trasferimento. A fronte dell’aumento della complessità dei singoli casi che giungono qui, c’è anche il tema della crescente tossicodipendenza nelle fasce di età giovanili che aumenta la difficoltà della gestione dell’ospite. E tutto questo finisce per gravare sulla giustizia minorile”. Dunque il problema esiste “e anche visti i fatti che riguardano il carcere minorile di Milano, la soglia di attenzione va tenuta alta”. Per Avezzù il fronte principale si potrebbe sintetizzare così: più arresti, più detenuti. “il decreto Caivano - racconta - ha consentito di applicare misure che prima non erano applicabili”. Che hanno stabilito “l’aumento dei termini di custodia” con la conseguenza “chiara che gli istituti minorili si sarebbero riempiti. Le presenze - aggiunge - sono superiori (come d’altronde in altri istituti) e il tutto viene a gravare di più sul personale che comprendo debba svolgere maggiori controlli, con orari di lavoro più pesanti”. Reggio Emilia. Pestaggio in carcere a un detenuto. Per ora 8mila euro di risarcimento di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 16 giugno 2024 La cifra consegnata dalle difese di otto agenti, ma la richiesta è di 180mila. Pestaggio in carcere: otto dei dieci agenti di polizia penitenziaria imputati a vario titolo (dei reati di tortura, lesioni e falso ideologico in atto pubblico aggravati) hanno messo sul banco del giudice complessivamente 8mila euro in assegni circolari. Un’offerta risarcitoria al detenuto parte civile, che ne vorrebbe 180mila. È stato il punto saliente dell’udienza di ieri davanti al giudice per le indagini preliminari, Silvia Guareschi. La vicenda, che ha avuto un clamore mediatico nazionale, è quella del pestaggio avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere reggiano della Pulce ai danni di un detenuto tunisino di 43 anni che aveva appena ricevuto l’ultimo di 35 provvedimenti disciplinari: doveva andare in cella d’isolamento, ma lui si sarebbe opposto scatenando la reazione degli agenti. Nel video diffuso dall’Ansa - parziale secondo le difese, che hanno parlato di un montaggio ad arte - si vede il 43enne che, a causa di uno sgambetto, cade a terra, viene colpito con schiaffi, calci e pugni, denudato dalla cintola in giù e spinto per terra, dove il volto viene coperto con un lenzuolo. Nella seduta di ieri, durata circa due ore alla presenza del detenuto, si è concretizzata un’iniziativa già annunciata dagli avvocati difensori. Otto dei dieci imputati, vale a dire coloro che devono rispondere del più grave capo d’imputazione di tortura, hanno depositato assegni circolari dell’importo di mille euro ciascuno, per un totale di 8mila euro. La difesa del detenuto, avvocato Luca Sebastiani ieri sostituito dal collega Eugenio Biondi, li ha “trattenuti per maggior dovuto”: una formula che indica l’accettazione come acconto. Una mossa tattica: presentare un’offerta in questa fase assicura alle difese il fatto di poter dimostrare, in un secondo tempo, la volontà di riparare anche parzialmente al danno, alleggerendo la posizione degli imputati. “La circostanza che una parte degli indagati abbia voluto formalizzare un’offerta risarcitoria davanti al giudice è sicuramente in sé un fatto apprezzabile, da più punti di vista - commenta Sebastiani - Tuttavia, dato che riteniamo l’offerta ricevuta talmente esigua da non apparire neanche simbolica, abbiamo formalizzato di trattenerla come acconto sull’eventuale maggior danno che contiamo verrà riconosciuto dal giudice”. Le difese hanno replicato che i loro assistiti non possono lavorare: anche se la sospensione al servizio è stata revocata dal tribunale, resta la sospensione amministrativa in attesa dell’esito del processo, perciò gli agenti ricevono il cosiddetto stipendio alimentare (il minimo). In totale ammontano a 400mila euro le richieste presentate in precedenza da tutte le parti civili: due associazioni di tutela dei diritti dei detenuti, Antigone e Yairahia ETS Onlus, il garante regionale dei detenuti e il garante nazionale dei detenuti. È stato escluso come responsabile civile il datore di lavoro degli agenti: il Ministero della Giustizia. Sempre ai fini risarcitori il pm Maria Rita Pantani ha chiesto una perizia che valuti i danni psicologici e fisici sul detenuto: istanza rigettata dal gip, che ha respinto anche le richieste di alcune difese di rito abbreviato condizionato all’audizione di un testimone (l’allora comandante facente funzione della polizia penitenziaria). Il gip Guareschi ha calendarizzato le date del processo: il 24 giugno si terrà l’esame degli imputati, il 5 e 8 luglio le conclusioni e la sentenza. Messina. La Tac destinata al carcere è da anni imballata in un sottoscala di Irene Carmina La Repubblica, 16 giugno 2024 Il costoso macchinario nuovo di zecca è inutilizzato dal 2019. A denunciarlo in una nota il Garante regionale per i detenuti. Una Tac nuova di zecca, ancora imballata. È sistemata in un sottoscala del carcere di Messina, all’interno dei locali del Sai, il servizio di assistenza intensificato. Come un pacco regalo in attesa di essere aperto. Solo che sono passati cinque anni dalla data di consegna. Era il 2019 quando l’Asp di Messina l’ha fatta arrivare dall’ospedale di Patti. E da quel momento non si è smossa dal sottoscala. “È una vergogna - tuona Santi Consolo, Garante regionale dei detenuti - Stiamo parlando di un macchinario che costa una barca di soldi, il cui mancato utilizzo determina una gravissima compromissione del diritto alla salute dei detenuti”. Una questione di cablaggio e di impianti elettrici: il problema è solo questo. “Basterebbe schermare la stanza e adeguare gli impianti”, dice Consolo che a gennaio aveva già segnalato la situazione al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, al tribunale di sorveglianza di Messina e alla direttrice del carcere di Messina. Non è servito a niente. L’altro ieri l’ennesima nota, inviata da Pietro Valenti, dirigente dell’ufficio speciale regionale del garante dei diritti dei detenuti. Destinatari anche l’Asp di Messina e l’assessora alla Salute Giovanna Volo. “Spreco di denaro pubblico, lesione del diritto alla salute, responsabilità erariale: siamo davanti a una situazione gravissima che, seppur segnalata alle autorità competenti già da mesi, è ferma da cinque anni”, accusa Valenti. “Ho poco da dire sull’argomento”, è la risposta secca della direttrice del carcere di Messina Angela Sciavicco, mentre l’Asp di Messina allarga le braccia e fa sapere che tutto quello che poteva fare l’ha fatto, consegnando tempestivamente il macchinario quando richiesto. La competenza, infatti, sarebbe del ministero della Giustizia. “Siamo davanti a un incredibile paradosso che temiamo possa aver comportato ingiustificabili ritardi nella diagnosi delle patologie dei detenuti, oltre che un inutile aggravio delle liste d’attesa dei presidi pubblici dell’Asp”, dice Consolo. La richiesta è chiara: non c’è più tempo da perdere. “Chiediamo - si legge nella nota - a tutte le autorità a vario titolo competenti, prima tra tutte l’amministrazione penitenziaria, di porre in essere quanto necessario affinché la popolazione detenuta possa finalmente avvalersi nel più breve tempo possibile di tale prezioso, quanto costoso, macchinario diagnostico”. Il caso della Tac fantasma è stato oggetto di discussione anche durante l’incontro organizzato dal Comitato esistono diritti presieduto da Gaetano D’Amico sul “carcere visto da dentro”. C’era anche il garante dei detenuti di Palermo, Pino Apprendi: “Se per noi i tempi della sanità sono lunghi, per un detenuto sono infiniti. Sei mesi diventano 12 e tutto nell’inferno delle carceri diventa problematico, anche un semplice mal di pancia”. Per non parlare delle prenotazioni per interventi, che assomigliano a un terno al lotto. “Spesso saltano - accusa Apprendi - perché una volta manca il personale di scorta, impegnato in altre mansioni, una volta non arriva l’ambulanza”. Eppure, la Costituzione parla chiaro: all’art 32 “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Un diritto che spetta ai detenuti come ai liberi cittadini, senza alcuna distinzione, e che non può essere compromesso né lasciato alla discrezionalità. Sulla carta, verrebbe da dire. “Perché - osserva il garante - è inutile girarci troppo intorno: in carcere, il diritto alla salute non è garantito. Anche chi entra perfettamente sano di mente dopo qualche settimana può andare fuori di testa e chi è ammalato spesso finisce per aggravarsi e resta lì a morire abbandonato dallo Stato e dalla Regione”. Salerno. 70 ventilatori donati al Carcere dall’Arcivescovo e dal Cappellano salernotoday.it, 16 giugno 2024 L’iniziativa rappresenta un gesto concreto di attenzione verso il prossimo di cui si è discusso durante il IV convegno nazionale dei Cappellani e Volontari delle Carceri. L’estate è alle porte, così, mercoledì 19 giugno alle ore 11, l’Arcivescovo di Salerno-Campagna-Acerno, Sua Eccellenza Monsignor Andrea Bellandi, insieme al Cappellano Don Rosario Petrone e agli addetti alla pastorale carceraria diocesana, si recherà presso l’Istituto penitenziario di Salerno per la consegna di 70 ventilatori. Ciò è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra l’Ispettorato nazionale dei Cappellani delle Carceri e la C.E.I. che hanno lanciato l’iniziativa “Semi di tarassaco volano nell’aria” al fine di alleviare, per quanto possibile, le sofferenze dei detenuti (in particolare in alcuni reparti) che vengono acuite a causa delle condizioni meteorologiche estive. Lo scopo - L’iniziativa rappresenta un gesto concreto di attenzione verso il prossimo di cui si è discusso durante il IV convegno nazionale dei Cappellani e Volontari delle Carceri, “Lo vide e ne ebbe compassione; dell’indifferenza alla cura”, tenuto ad aprile ad Assisi. Padova. La musica si trasforma in arte, dalle carceri escono quadri di Francesca Visentin Corriere del Veneto, 16 giugno 2024 La mostra “I segni dell’anima” a Palazzo Zucckermann. Le opere di detenuti e detenute delle carceri di Padova, Treviso e della Casa di reclusione femminile di Venezia, nella mostra I Segni dell’anima, che apre domani a Palazzo Zuckermann, a Padova. L’arte, insieme alla musica, si fa terapia, conforta, distrae, riempie di emozioni e speranza. I dipinti sono nati dall’ascolto di celebri pagine sinfoniche, un mosaico cromatico scaturito dalle note di Smetana, Ravel, Morricone, Debussy e altri. Il tema della mostra è la musica e le suggestioni dell’acqua. Le opere arrivano dal progetto del maestro Nicola Guerini, direttore d’orchestra e divulgatore, che promuove nelle carceri l’ascolto della musica, che genera segni e narrazioni creative. I quadri di detenute e detenuti parlano di dolore, fallimento ma anche di emozioni e rinascita. La mostra I Segni dell’anima resterà aperta fino alla mattina di domenica 23 giugno (ingresso libero. Lunedì 10-13.30, martedì-sabato 10-19, domenica 10-13.30). È realizzata con la curatela di Silvia Prelz, Maurizio Longhin e di Nicola Guerini, in collaborazione con Maurizio Bruno. Nelle tele, abissi, ma anche luci, un’esperienza immersiva nel colore attraverso la suggestione dei suoni. “La musica è linguaggio universale che insegna a riconoscere il patrimonio percettivo e emozionale - sottolinea Nicola Guerini. L’insegnamento più grande della musica è l’ascolto, che diventa esperienza individuale per nuovi percorsi di crescita consapevole”. Evidenzia Maria Grazia Bregoli, direttrice della Casa di Reclusione femminile di Venezia: “Il carcere è uno spazio generalmente inteso come chiuso, ma che attraverso l’arte tende all’apertura dei mondi interiori infiniti di chi lo abita. Il progetto del maestro Guerini fa emergere la dimensione creativa, riscopre emozioni, crea bellezza, rigenera, alimenta la speranza di una nuova vita”. La provvedit r i ce dell’amministrazione penitenziaria del Veneto, Rosella Santoro, fa notare: “È un intervento che riduce il disagio e la sofferenza delle persone detenute. Offre la possibilità di esprimere e comunicare sentimenti e emozioni attraverso note e pittura”. Il progetto di Guerini, sostenuto dal Rotary Club Verona, è diventato protocollo con il Provveditorato di Padova per 16 carceri del Triveneto. L’iniziativa è promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, Musei Civici di Padova, con il patrocinio del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, del Club per l’Unesco, il sostegno di Rotary Club Verona e Inner Wheel Club Padova (2 C.A.R.F.). Milano. “Mezz’ora d’aria”, il disco rap scritto e registrato dai detenuti di Bollate di Roberta Rampini Il Giorno, 16 giugno 2024 La casa discografica Rude Cares ha donato le attrezzature per la sala di registrazione dove i giovani artisti hanno potuto lavorare sui pezzi originali. Il nome evoca il luogo in cui è stato pensato e ideato, “Mezz’ora d’aria”. È il titolo dell’album interamente scritto e registrato dai ragazzi detenuti nel quarto reparto della casa di reclusione di Milano Bollate. Punto d’arrivo di un percorso musicale iniziato nel 2021 da Rude Cares, ramo charity della casa discografica Rude Records, in collaborazione con la cooperativa Articolo 3, l’album uscirà mercoledì. “Nel quarto reparto, quello a trattamento avanzato, ci sono molti detenuti giovani che hanno dai 15 ai 19 anni e sono appassionati di rap. L’incontro con la casa discografica è avvenuto casualmente, in occasione di una giornata di volontariato durante la quale la Rude Cares, insieme all’Accademia delle Belle arti di Milano, ha realizzato alcuni murales dedicati alla musica e alle personalità iconiche del mondo rock e non solo - racconta Federica Parodi, una delle sei operatrici sociali della cooperativa Articolo 3 -. Insieme a loro abbiamo organizzato alcune lezioni di approfondimento sulla musica, sui lavori che ruotano intorno all’industria musicale. La Rude Cares ha donato le attrezzature per la sala di registrazione dove i ragazzi hanno potuto lavorare su pezzi originali, scritti da loro. Nell’album c’è anche un brano collettivo, scritto a più mani dai dieci ragazzi detenuti che hanno partecipato al progetto, con sonorità musicali differenti perché tra di loro ci sono italiani, ma anche stranieri che provengono dalla Romania e dal Sud America”. Un disco ricco delle storie e dei sogni dei detenuti, un disco che riflette la diversità e la multiculturalità della comunità carceraria. “Nei brani i ragazzi detenuti raccontano le loro esperienze dentro e fuori dal carcere - spiegano dalla casa discografica - poi hanno unito le loro storie e forze in una traccia collettiva, la “Posse Track” dalla quale è nato un videoclip professionale, realizzato dal team di PandaHouse Productions, che racconta tutto il percorso”. Il debutto sul palco per i ragazzi coinvolti nel progetto musicale è stato a maggio, quando si sono esibiti davanti a Jack The Smoker, Nitro Wilson e Lazza durante il loro concerto all’interno del carcere. In quell’occasione hanno presentato alcuni brani che fanno parte dell’album. Il ricavato del disco “Mezz’ora d’aria” sarà devoluto alla Cooperativa Articolo Tre per sostenere l’attività dello studio di registrazione, in modo che i detenuti possano continuare a creare musica. Dopo l’evento di presentazione dell’album in carcere, mercoledì 19, tutti potranno acquistare il disco. “Siamo certi che tutti capiranno il valore umano e artistico che questo progetto ha rappresentato per noi e per l’intera comunità carceraria”. Livorno. Progetto Ulisse: chiusura della sesta edizione presso la Casa circondariale di barbara bellettini Ristretti Orizzonti, 16 giugno 2024 Giovedì 13 giugno si è svolta presso la Casa circondariale Le Sughere di Livorno, la giornata conclusiva del progetto Ulisse - sesta edizione (Pet Therapy), alla presenza dei detenuti partecipanti, di Marco Bravi (in rappresentanza di Enpa, Ente Nazionale Protezione Animali, che ha finanziato il progetto anche quest’anno), di Lorella Fulceri (Cooperativa Melograno), del personale educativo e della polizia penitenziaria, degli operatori dell’associazione Do Re Miao-APS e dei cani Nana, Pigna e El Niño. Ai saluti istituzionali, che hanno sottolineato l’importanza dei progetti territoriali che mettono in comunicazione le risorse e i bisogni, individuando spazi di intervento dove la presenza degli altri-animali può davvero fare la differenza, sono seguiti gli “esami” pratici relativi agli apprendimenti e alle competenze acquisite durante il corso. Tutti promossi, a pieni voti! Con la consegna dell’attestato di partecipazione si conclude questo bellissimo percorso, che ha coinvolto anche alcuni cani ospiti del canile municipale La Cuccia nel Bosco, gestito dalla cooperativa Melograno. Nella speranza di poter replicare a partire da Settembre 2024 si ringraziano in particolare le dott.sse Giulia Cerri e Marcella Gori dell’Area Educativa, tutti gli agenti di Polizia Penitenziaria a vario titolo coinvolti, il direttore Giuseppe Renna, l’ENPA, l’amministrazione comunale di Livorno e l’ufficio tutela animali gli operatori del canile e naturalmente i cani, straordinari compagni e maestri di vita, amici generosi e pieni di fiducia, che sanno sempre come aprire ponti al di là dei pregiudizi. Il Parlamento tiene in ostaggio da sette mesi il seggio vacante alla Consulta di Sergio Rizzo L’Espresso, 16 giugno 2024 Dal 11 novembre 2023 le Camere temporeggiano sull’elezione del giudice mancante della Corte costituzionale. Cessata Silvana Sciarra, seconda donna a presiederla dopo Marta Cartabia, i partiti aspettano dicembre, quando ne scadranno altri tre. Per lottizzarla completamente. Si profila un’altra infornata spaventosa di nomine, la più imponente degli ultimi anni. Ci sono da riempire - dice il Centro Studi CoMar che segue puntualmente le evoluzioni di questo scenario - 694 caselle nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali di società pubbliche. Ma non fatevi prendere dall’ansia: per lo spettacolo c’è ancora tempo. Tanto per cambiare, la politica che ci governa non concede neppure in questa occasione una deroga alla regola aurea non scritta, ma in vigore da tempo immemore ormai. Cioè che, nella scala dei fattori che ispirano questa curiosa gestione della cosa pubblica, gli interessi della collettività vengono sempre dopo quelli dei partiti, quando non dei singoli loro leader. Il governo di Giorgia Meloni ha quindi stabilito che l’ordalia delle nomine avrà inizio dopo le elezioni dell’Europarlamento. Soltanto in seguito al verdetto delle urne si saprà chi saranno i nuovi amministratori delle grandi e piccole imprese pubbliche. Quelli della Cassa depositi e prestiti, la più grande holding di Stato che controlla roba come Eni, Poste e Autostrade. Quelli delle Ferrovie dello Stato, destinatarie della maggior parte dei fondi per le infrastrutture del mitico Pnrr. Quelli della Rai, da non confondere con TeleMeloni. E altre ancora. Per quale motivo si rimanda tutto a dopo le elezioni? Elementare, Watson. Perché le elezioni serviranno a confermare i vecchi o a fissare i nuovi rapporti di forza fra i partiti della maggioranza, con le relative quote di spettanza nella lottizzazione degli incarichi. Per non parlare dei trombati alle urne che andranno sistemati nei consigli di amministrazione, così come è stato già fatto con legioni di candidati non eletti alle ultime Politiche. Così ha funzionato, funziona e funzionerà in un Paese dove chi ha il potere, anche se per mandato popolare, considera di poter disporre a proprio piacimento della cosa pubblica. Ma c’è qualcosa, se possibile, di ancora più discutibile dello slittamento per ragioni politiche delle nomine pubbliche. È il caso di una sola nomina, che non va decisa dal governo bensì dal Parlamento in seduta comune. Da sabato 11 novembre 2023 la Corte costituzionale è monca. La presidente Silvana Sciarra, seconda donna nella storia ad arrivare al vertice dell’istituzione, è scaduta. Con lei sono scaduti anche i vicepresidenti Nicolò Zanon e Daria de Pretis, l’uno apprezzato dal centrodestra e l’altra in sintonia con il centrosinistra, che erano stati nominati dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. I quali sono stati immediatamente sostituiti dal suo successore Sergio Mattarella. Che ha designato Antonella Sciarrone Alibrandi, ex sottosegretaria al dicastero per la Cultura del Vaticano, e Giovanni Pitruzzella, nominato a suo tempo capo dell’Antitrust dai presidenti delle Camere del centrodestra, Renato Schifani e Gianfranco Fini. Alla sollecitudine di Mattarella non ha tuttavia fatto riscontro quella del Parlamento. Con il risultato che da sette mesi la Corte costituzionale attende che il vuoto si riempia. Uno su quindici, cosa volete che sia: la Consulta può lavorare ugualmente. Certo. Anche se avere un giudice costituzionale in meno qualche problemino lo crea. Almeno per la durata dei procedimenti, che già non è fulminea, vista anche la complessità delle questioni: in media 227 giorni. Openpolis ha calcolato che dal 2009 al 2023 la Corte ha emanato 4.421 decisioni, con una media di 295 l’anno. E se il numero complessivo è calato dalle circa 340 decisioni del 2009 alle 229 (di cui ben 210 hanno riguardato questioni di legittimità costituzionale) del 2023, va considerato che ormai le sentenze rappresentano quasi l’80 per cento, mentre erano meno della metà nel 2009. Nell’ultima relazione annuale il presidente della Corte Augusto Barbera ha spiegato che la flessione non “corrisponde a un effettivo allentamento delle problematiche costituzionali”, le quali “appaiono anzi più vive che mai sotto l’effetto di molteplici spinte politiche e sociali”. Per dirne una: c’è sempre lo scontro fra lo Stato e le Regioni che, da quando è stata approvata la riforma del Titolo V della Costituzione, è andato inasprendosi. E seppure negli ultimi due anni le impugnazioni delle leggi regionali davanti alla Consulta sono diminuite, perché il governo e i poteri regionali tendono sempre più (per fortuna) a comporre i contrasti, adesso incombe l’autonomia differenziata, capace di infiammare di nuovo il fronte. Poi c’è tutto il resto, per di più con l’attuale maggioranza di governo che punta a cambiamenti radicali della stessa Carta costituzionale. Ce ne sarebbe abbastanza perché dalla classe politica arrivasse un segno di responsabilità, colmando in fretta il vuoto della Corte. Una faccenda così importante viene invece relegata a problema marginale e questo la dice lunga sulla considerazione che certa classe politica ha della Carta fondamentale. Tutto fa pensare che la soluzione del quindicesimo giudice debba restare nel cassetto per calcolo politico, anche in questo caso per rispettare la regola oscena della lottizzazione. Che ovviamente non può risparmiare nemmeno l’istituzione garante della Carta fondamentale. Un terzo dei quindici giudici è nominato dal presidente della Repubblica, un altro terzo viene eletto dalle magistrature e il rimanente terzo è responsabilità del Parlamento in seduta comune. Ma con l’aria che tira tappare un buco isolato non è facile. I giudici costituzionali devono avere i due terzi dei voti del Parlamento in seduta comune. Dopo il terzo scrutinio sono sufficienti i tre quinti: ne servirebbero dunque almeno 363 su 605, tenendo conto anche dei cinque senatori a vita. Ma sommando tutti i voti della coalizione che sostiene il governo di Meloni non si arriva che a 354. Ne consegue che per far passare un giudice costituzionale scelto dal centrodestra, che potrebbe tornare in un prossimo futuro molto utile per certe beghe prevedibili, servirebbe un aiutino di qualcuno dell’opposizione. Non molto probabile, a dire la verità. A meno che non si faccia scivolare tutto a fine anno, esattamente al 15 dicembre 2024, quando scadranno altri tre giudici costituzionali di nomina parlamentare. Prima di tutti il presidente Barbera, sostenuto dal Pd, già ministro dei Rapporti con il Parlamento nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, in passato deputato del Pci e del Pds. Poi il vicepresidente Franco Modugno, sostenuto nel 2015 dal Movimento 5 Stelle. Infine, l’altro vicepresidente Giulio Prosperetti, frutto di un accordo fra Pd, M5S e la formazione di centrodestra Area popolare (Ncd e Udc). Con quattro posti da decidere trovare un accordo politico con l’opposizione, ma anche nella stessa coalizione di governo, sarebbe di sicuro più agevole. Poco importa se per 13 mesi la Consulta sarà andata avanti a ranghi ridotti. La destra punta chiaramente a egemonizzarla, mentre la sinistra sarà costretta a subire. Magari con un contentino. Questa, detto brutalmente, è la questione che fa premio su tutte le altre considerazioni. C’è solo un piccolo particolare. Dal 15, presidente della Consulta sarà con ogni probabilità, come si fa di solito, il giudice con la maggiore anzianità. Cioè Giovanni Amoroso, magistrato proveniente dalla Cassazione. Ma i giudici saranno soltanto 11. Ovvero, il numero minimo per garantire l’operatività della Corte. C’è solo da sperare che godano tutti di ottima salute. Coppie omosessuali. La furia ideologica del ministro Nordio e la lettura politica delle sentenze di Donatella Stasio La Stampa, 16 giugno 2024 Le citazioni di passi di Cassazione e Consulta fatte ad arte, dimenticando altre prescrizioni. È già avvenuto sulle adozioni omogenitoriali, sul fine vita e sul diritto all’affettività in carcere. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio va a Lussemburgo e sventola le sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione per dimostrare che l’Italia proprio non può condividere la proposta di regolamento Ue sul riconoscimento automatico della genitorialità di coppie omosessuali già accettata da altri Stati membri dell’Unione europea, perché quelle sentenze lo escludono. Carta canta, sembra dire lo zelante Nordio che, come il suo governo, usa le sentenze delle Corti supreme, in particolare della Consulta, quando e come più gli aggrada. Dalla tutela dei figli arcobaleno al fine vita, dal doppio cognome al diritto all’affettività dei detenuti, è tutto un gioco di citazioni, omissioni, strumentalizzazioni. Qualcuno direbbe un gioco delle tre carte. Fatto sta che le sentenze vengono richiamate solo quando fa comodo alla furia ideologica di un governo che calpesta i diritti, in particolare delle minoranze e delle persone più fragili. Se così non fosse, andrebbe anche ricordato che quelle sentenze (dal 2021) chiedono però al legislatore - Parlamento e Governo - di apprestare una tutela reale ai figli nati da coppie arcobaleno per rendere rapido, non oneroso, certo ed efficace il diritto al riconoscimento di questi bambini. Cosa che la maggioranza si è ben guardata dal fare, finora, preferendo cavalcare il fanatismo ideologico con la proposta di legge sul reato universale di maternità surrogata. E così, per il riconoscimento dei figli nati da coppie arcobaleno non rimane che la strada dell’adozione in casi particolari, che però - nonostante i miglioramenti apportati da Consulta e Cassazione nei limiti delle loro competenze - non è adeguata all’obiettivo, appunto, di un riconoscimento in tempi rapidi, non onerosi, certi ed efficaci. Peraltro, nei casi in cui i genitori arrivano alla fine di quella strada, lunga, tortuosa e invasiva, poi si vedono negare dagli uffici anagrafici il riconoscimento formale di “genitori” sui documenti dei figli, perché, per volere di Salvini, Roccella e non ultima Meloni, sui documenti si può scrivere solo mamma e papà. Il Governo, quindi, finge di rispettare le sentenze ma in realtà le ignora, le boicotta, le usa in modo strumentale. È così anche sul fine vita: la sentenza 242 del 2019 è rimasta lettera morta non solo nella parte in cui, sia pure entro un perimetro limitato e a precise condizioni, riconosce la libertà del malato di staccare la spina, ma anche là dove invita ripetutamente il legislatore a intervenire per completare la materia. Ostruzionismo è la parola d’ordine di questa maggioranza. Con buona pace dei diritti. Dopo un anno di governo Meloni, l’opposizione ha ottenuto la calendarizzazione di una sua proposta di legge per dare esecuzione alla sentenza della Corte, ma qual è stata la risposta del centrodestra? Il confronto? Il dialogo? Nient’affatto. È stata la provocazione: una proposta di legge che va in direzione diametralmente opposta a quella indicata dalla Corte, violando così - nel più assoluto silenzio dei vertici parlamentari - i principi secondo cui il giudicato costituzionale non può essere scavalcato. Un braccio di ferro arrogante e inaccettabile in una democrazia costituzionale dove, invece, dovrebbe esistere e funzionare il principio di leale collaborazione tra le istituzioni. E così, ecco che ancora una volta sul fine vita dovrà intervenire la Corte costituzionale. Ma ancora una volta, se le sue determinazioni saranno sgradite alla maggioranza, rimarranno lettera morta. In Polonia, per silenziare la Corte costituzionale che aveva pronunciato una sentenza sgradita, il governo dell’epoca si limitò semplicemente a non pubblicare quella sentenza sulla Gazzetta ufficiale e così quella sentenza sparì, non spiegò mai i suoi effetti: ecco come le regressioni democratiche avvengono dall’interno, per mano di governi democraticamente eletti, ma insofferenti a qualunque limite al proprio agire, rappresentato anzitutto dalle istituzioni di garanzia come le Corti. Ancora: dov’è la leale collaborazione istituzionale se, a distanza di due anni da un’altra sentenza della Consulta - quella che, di fronte all’inerzia legislativa, ha introdotto la regola del doppio cognome dei figli, invitando però il legislatore a completare il quadro - il Parlamento è ancora a “caro amico”, a discutere dei massimi sistemi e il governo fa di nuovo ostruzionismo negli uffici anagrafici? E dov’è, di grazia, la leale collaborazione istituzionale dopo cinque mesi da una sentenza della Corte che più chiara non si può, quella sul diritto dei detenuti all’affettività, che impone al legislatore e all’amministrazione di rimboccarsi le maniche subito, non a babbo morto, perché in gioco c’è la dignità della persona e il dovere delle istituzioni di tutelarla, anche se sono in carcere, anzi, ancora di più se sono in carcere. Per tutta risposta, l’Amministrazione ha bloccato i direttori più volenterosi annunciando, due mesi fa, di aver costituito un gruppo di studio di cui non si sa chi siano i componenti, che cosa stia facendo ed entro quanto tempo dovrà completare i lavori. Anche qui si cerca di silenziare la Corte costituzionale. E forse non è un caso se da sette mesi (la media del ritardo è di sette mesi e mezzo) la maggioranza stia ritardando l’elezione parlamentare del quindicesimo giudice costituzionale, ma con il piglio di chi pensa di essere proprietario del Parlamento e della Corte (ed è questo che rende il ritardo ben più grave del passato in cui nessun premier si era mai sognato di rivendicare la “prerogativa di dare le carte”). Negli ambienti delle destre si ripete che la partita sarà spostata a dicembre, quando a palazzo della Consulta si libereranno altri tre posti, perché così sarà più facile spedire in quel palazzo, se non un poker, un bel tris di giudici di area di centrodestra, con l’obiettivo di ridurre il pluralismo delle voci all’interno della Corte, affinché parli solo, o sempre di più, con sentenze gradite a sua maestà il governo. L’inerzia inaccettabile sul suicidio assistito di Giovanni Maria Flick La Stampa, 16 giugno 2024 Consenso liberamente formato, incurabilità, sofferenze insopportabili. Il suicidio assistito richiede valutazioni legate alla situazione concreta. La Corte costituzionale nel 2019 ha ricordato la necessità di un intervento del Parlamento per regolare in maniera organica il fine vita. La legge richiesta dalla Corte non è stata adottata, nonostante l’approvazione di un disegno di legge da parte di un ramo del Parlamento nella precedente legislatura e la presentazione di altre proposte nel corso di quella attuale. Molti ritengono (fra cui il sottoscritto) che l’inerzia del Parlamento su questo tema non sia più accettabile, ma a questo punto occorre chiedersi se ciò non sia frutto di una scelta politica legittima, a prescindere dal merito. La Corte costituzionale ha affermato che la punizione generalizzata dell’aiuto al suicidio si pone in contrasto con la Costituzione e deve riconoscersi la non punibilità di chi agevola il proposito di suicidio “autonomamente e liberamente formatosi” di una persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”; che sia “affetta da una patologia irreversibile”; che subisca a causa di tale patologia “sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”; purché però sia pienamente capace di autodeterminarsi. La Corte ha ricordato la necessità di una verifica e di una valutazione da parte di una struttura pubblica sanitaria, “previo parere del comitato etico territorialmente competente”. La sentenza della Corte ha stimolato interpretazioni diverse da parte dei giudici di merito nelle singole situazioni loro sottoposte. Di ciò offre conferma la questione di legittimità costituzionale sollevata dal gip di Firenze - su cui deciderà la Corte costituzionale il 19 giugno - in un caso di aiuto al suicidio nel quale il pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione e eccepito in subordine l’incostituzionalità del reato contestato. Il gip ha sollevato la questione di legittimità ritenendo la fattispecie in contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione (quest’ultimo in riferimento agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) nella parte in cui limita la non punibilità dell’aiuto alla sussistenza - insieme agli altri - del requisito che la persona sia “tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale”. La Corte costituzionale nella prima ordinanza del 2018 non aveva dato un’indicazione tassativa per definire tale trattamento. Aveva fatto ad esempio riferimento ai trattamenti di “ventilazione, idratazione o alimentazione artificiali”. La giurisprudenza si è già confrontata con casi diversi da quello che aveva portato alla pronuncia della Corte nel 2019 e da quello attuale. Ha ritenuto ad esempio che la somministrazione continua di farmaci e la necessità di praticare manovre di evacuazione manuali per evitare occlusioni fatali fossero condizioni tali da configurare un “trattamento di sostegno vitale”. Si è chiesta se sia possibile estendere analogicamente la causa di non punibilità quando la persona - senza l’assistenza continua di soggetti terzi necessaria per l’espletamento delle funzioni vitali (come mangiare e bere) - non potrebbe sopravvivere. Nel caso oggetto della questione di costituzionalità, secondo la ricostruzione del gip la persona non è tenuta in vita da supporti meccanici; non assume farmaci salvavita; non richiede l’assistenza di soggetti terzi per manovre di evacuazione o interventi assimilabili. Il giudice tuttavia non ritiene possibile estendere interpretativamente la definizione di “trattamento di sostegno vitale”. Ciò richiede di porre attenzione sulla “libera scelta” e sulla “essenzialità” del sostegno per la vita (sia esso meccanico, farmacologico o umano-assistenziale) una volta accertata l’irreversibilità della patologia e l’intollerabilità della sofferenza che ne derivi. Non mi sembra si possa rimettere la ricerca dell’equilibrio tra tutela della vita e rispetto dell’autodeterminazione alla scelta di un giudice in concreto fra una interpretazione in astratto restrittiva o estensiva di uno dei requisiti della causa di non punibilità. Ma non mi sembra neppure che si possa cogliere l’occasione della vicenda sub iudice per chiedere alla Corte costituzionale di spostare l’equilibrio da essa fissato con la sentenza del 2019 tra il valore della vita e quello dell’autodeterminazione personale a favore di quest’ultimo, eliminando il requisito del “trattamento di sostegno vitale”. O al contrario che si possa chiedere alla Corte di spostare quell’equilibrio a favore del valore della vita, delimitando in via interpretativa il “sostegno vitale” soltanto ad un intervento “meccanico” che riconoscerebbe una riduzione della persona ad una sorta di “vita artificiale” in termini generali ed astratti. In entrambi i casi si cancellerebbe per finalità opposte il risultato raggiunto nel 2019 dalla Corte sul presupposto delle quattro condizioni di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Non è mio compito entrare nel merito della decisione che la Corte costituzionale dovrà emettere, né avanzare pronostici. Credo che si debba tornare a discutere questo tema senza cadere nella tentazione dei radicalismi - di destra e di sinistra - e delle rigidità ideologiche. Lo Stato deve assicurare la tutela massima della vita, con i servizi sanitari e socioassistenziali e la qualità di essi su tutto il territorio della Repubblica; senza differenze, con un concreto sostegno alle persone e alle famiglie che devono affrontare il dramma delle malattie inabilitanti, irreversibili e dolorose. Mi sembra doveroso - in una società democratica e pluralista basata sul rispetto della pari dignità sociale come richiede la Costituzione - consentire che la persona possa ricevere assistenza al suicidio quando ricorrano le quattro condizioni indicate dalla Corte costituzionale, secondo una loro interpretazione non astratta ma legata alla concretezza delle circostanze e delle condizioni cliniche ed esistenziali; come la Corte ha deciso nel 2019. Migranti. Corte di giustizia Ue, una sentenza per ribaltare il “reato di solidarietà” di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 giugno 2024 Martedì prossimo alla Corte di giustizia dell’Unione europea si terrà un’udienza che potrebbe cambiare le sorti di una delle questioni più controverse in materia di immigrazione. Quella che riguarda il reato di favoreggiamento. Nell’ordinamento italiano è previsto dall’articolo 12 del testo unico immigrazione che, sebbene introdotto precedentemente, rispecchia con precisione gli obblighi di incriminazione previsti dal cosiddetto Facilitators package. L’espressione indica la combinazione di una direttiva e di una decisione quadro dell’Ue, entrambe del 2002. Il 17 luglio 2023 il tribunale di Bologna, sezione penale, ha accolto la richiesta dell’avvocata Francesca Cancellaro di rinvio pregiudiziale in merito a tali norme nazionali e comunitarie. La Corte deve aver ritenuto il caso molto importante, perché a giudicare sarà la Grande Camera. Una sorta di Sezioni unite della Cassazione, chiamata a esprimersi su interpretazioni particolarmente controverse o che possono avere effetti molto rilevanti sul piano giuridico. Come stavolta, perché al centro del processo ci sarà la compatibilità delle norme che definiscono il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare con la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Alla sbarra c’è l’obbligo di incriminazione anche in assenza della finalità di lucro. Il guadagno materiale, infatti, non è un elemento costitutivo del reato in questione, ma solo un’aggravante. Significa che si può finire davanti al giudice anche per aver aiutato qualcuno ad attraversare una frontiera per ragioni umanitarie o solidaristiche. Come la donna da cui ha origine questa vicenda, che ha già cambiato la storia dell’articolo 12. E.K.K., nata in Congo, è stata arrestata il 27 agosto del 2019 all’aeroporto di Bologna: era appena sbarcata da un volo proveniente da Casablanca e stava provando a superare i controlli con dei documenti falsi. Con lei c’erano due bambine: la figlia di 8 anni e la nipotina di 12. L’accusa di favoreggiamento è scattata per la presenza delle due piccole. La donna racconterà poi di aver lasciato il suo paese per sottrarsi alle minacce di morte che il compagno, dopo la fine del loro rapporto, rivolgeva a lei e alla sua famiglia. In Italia lo stesso caso è già finito davanti alla Corte costituzionale che ha eliminato dall’articolo 12 le aggravanti relative all’uso di “servizi internazionali di trasporto” e “documenti contraffatti o alterati”. Con quelle E. K. K. rischiava fino a 15 anni di carcere. Dopo il pronunciamento della Consulta il reato è stato riconfigurato in favoreggiamento semplice e la competenza è diventata del giudice monocratico, che ha poi passato la palla alla Corte Ue. Intanto, però, era già accaduto qualcosa di terribile e irreparabile: con l’arresto la donna è stata separata dalle due bambine, dopo pochi giorni la nipote si è allontanata dalla casa di accoglienza. Non è mai stata ritrovata. Tornando all’aspetto giuridico, nell’ordinanza del tribunale, firmata dalla magistrata Valeria Bolici in accoglimento della richiesta della difesa, si legge che “il giudice remittente dubita che la disciplina di cui all’articolo 12 Tui, coerente con l’assetto normativo dettato dal Facilitators package, sia conforme ai principi sanciti dalla Carta”. Un rinvio ampio che mette in questione tutta l’architettura della norma. Questa, secondo la difesa, determina una compressione sproporzionata di una serie di diritti fondamentali sia di chi è accusato di favorire l’ingresso irregolare di stranieri, sia degli stessi migranti coinvolti. Alcuni di questi diritti sono colpiti indirettamente dal chilling effect della legge, cioè dall’effetto dissuasivo prodotto dalla paura di una sanzione. Il quale può scoraggiare interventi a carattere umanitario, che in alcuni casi si rivelano salvavita. Del resto la legge italiana prevede la scriminante umanitaria solo dentro il territorio nazionale: non è mai stata applicata nei processi per l’articolo 12. È su questa base che nel corso degli anni sono stati aperti numerosi procedimenti contro attivisti, volontari e migranti accusati di favoreggiamento per condotte di natura solidale. Adesso la Corte ha l’opportunità di segnare un punto di svolta sul terreno dei “reati di solidarietà”. La discrezionalità del suo giudizio è molto ampia e non è possibile prevedere su quali piani si orienterà. La sentenza è attesa entro fine anno, ma già nell’udienza di martedì saranno chiarite le posizioni delle parti in gioco. La Danimarca affitta un carcere in Kosovo per deportare i detenuti extracomunitari di Simone Matteis Il Domani, 16 giugno 2024 Con un accordo decennale Copenaghen affitterà 300 celle di un carcere kosovaro di fatto per deportare prigionieri che non hanno la cittadinanza europea.In questi giorni il carcere di Gjilan, nell’est del Kosovo, si sta rimettendo in sesto per adeguarsi agli standard degli istituti penitenziari della Danimarca. Copenaghen è un modello da imitare? Probabilmente sì, ma dietro al piano di Pristina non c’è soltanto un puro spirito di emulazione. A dire il vero c’è molto di più. Duecentodieci milioni di euro a essere precisi, cifra che il Kosovo incasserà grazie all’accordo decennale recentemente siglato con il ministero della giustizia danese per l’affitto di 300 celle destinate ad accogliere altrettanti detenuti provenienti da stati extra-Ue. Tradotto, è un patto per deportare stranieri di paesi terzi in cambio di una quantità di denaro che oggi, per stessa ammissione del direttore del Sistema correzionale kosovaro, Ismail Dibrani, supera il budget annuale per l’intero apparato, che comprende oltre tremila persone tra detenuti e impiegati. È “un progetto rivoluzionario” secondo il ministro della Giustizia danese, Nick Hækkerup: Copenaghen verserà ogni anno 15 milioni di euro più altri 6 milioni destinati a sostenere la transizione energetica del Kosovo, che attraverso un’apposita formazione svolta da esperti provenienti direttamente dal Nord Europa, si impegnerà a replicare a Giljan le stesse condizioni riservate ai detenuti in Danimarca. Dalla definizione dell’accordo, in cantiere dal 2021, le autorità danesi hanno visitato più volte il Kosovo per appurare le condizioni del penitenziario, evidentemente ritenute idonee, anche se non mancano voci critiche. Numerose associazioni per la tutela dei diritti umani affermano che i centri di detenzione kosovari sono molto spesso teatro di violenze, corruzione e infiltrazioni di radicalismi politico-religiosi, oltre a soffrire la carenza di medicinali. Secondo Therese Rytter, rappresentante legale di Dignity, l’istituto danese contro le torture, le numerose testimonianze di violenze ritenute credibili “costituiscono un fattore di rischio maggiore rispetto a una pena scontata all’interno di un carcere danese”. Gli stessi timori sono stati confermati dai rapporti del Dipartimento di Stato americano e del Comitato Onu contro le torture, entrambi del 2023, che evidenziano come gli istituti di pena in Kosovo, pur rispettando diversi standard internazionali, siano caratterizzati da violenza e trattamenti inadeguati nel campo della salute mentale. Tra gli aspetti da non sottovalutare c’è poi quello che riguarda gli incontri con i familiari, che duemila chilometri di distanza renderebbero assai difficoltosi se non totalmente impossibili, in netta violazione del diritto dei detenuti ai quali spetta un colloquio settimanale di un’ora e mezza. Nel 2016 la Danimarca aveva approvato una legge che autorizzava, nei confronti di migranti e richiedenti asilo, la confisca di beni personali del valore superiore alle diecimila corone (l’equivalente di circa 1.300 euro) per la copertura delle spese di accoglienza. Negli anni la battaglia contro stranieri e immigrati è proseguita e sembra non volersi arrestare nemmeno oggi che a guidare governo c’è Mette Fredericksen, la leader 44enne dei socialdemocratici. A metà maggio la Danimarca insieme ad altri 14 stati Ue ha inviato una lettera alla Commissione per invocare “sforzi complementari per affrontare le cause profonde della migrazione irregolare”: senza arrivare alla riproposizione del “piano Ruanda” studiato dal Regno Unito, la richiesta verte sull’incremento dei partenariati con i paesi terzi finalizzata a una gestione dei rimpatri più efficiente attraverso hub in cui attendere “l’allontanamento definitivo”. Destino che accomuna anche i detenuti trasferiti in Kosovo, i quali avrebbero dovuto lasciare la Danimarca una volta scontata la loro condanna. Illustrando l’accordo, Copenaghen ha addotto come motivazione un sovraffollamento carcerario di quasi mille unità. Una stima che, tuttavia, sembrerebbe non reggere stando ai numeri del rapporto Space diffuso dal Consiglio d’Europa: al 31 gennaio 2022, infatti, il sistema penitenziario della Danimarca contava 4.114 detenuti a fronte di 4.238 posti disponibili, un dato pari al 97,1 per cento della capienza complessiva. Sebbene il report mostri un aumento del tasso di carcerazione in ben 16 paesi dopo la pandemia (in Danimarca +5,5 per cento), il dato europeo risulta “ancora inferiore a quello osservato all’inizio del 2020, segno che il calo costante osservato dal 2011 continua”, sottolinea il professor Marcelo Aebi, a capo del gruppo di ricerca dell’Università di Losanna responsabile del rapporto. Così, mentre sul sovraffollamento delle celle sembra non esserci sufficiente chiarezza, la prospettiva di trasferire in Kosovo 300 detenuti appare un’imminente realtà. Medio Oriente. I cittadini palestinesi di Israele discriminati e arrestati senza motivo di Elena Colonna L’Espresso, 16 giugno 2024 Sono due milioni quelli che vivono nello Stato ebraico, sotto un regime sempre di più di apartheid: “Dal 7 ottobre la repressione ha raggiunto il livello di persecuzione politica”. Duecentocinquanta persone protestano ad Haifa, nel Nord di Israele. È il 27 maggio, il giorno dopo la strage di Rafah, in cui un raid dell’esercito israeliano ha ucciso almeno 45 sfollati e ne ha feriti più di 180 in una zona che era stata designata come area umanitaria. I manifestanti agitano uno striscione su cui c’è scritto “Stop al massacro” e qualcuno alza una bandiera palestinese. Per la maggior parte sono cittadini palestinesi di Israele, parte della minoranza araba del Paese, ma ci sono anche alcuni attivisti ebrei. A un’ora dall’inizio della protesta, la polizia intima ai manifestanti di allontanarsi, poi irrompe a cavallo su di loro, caricando con violenza la folla, sequestrando i cartelli e arrestando nove persone. Una delle persone arrestate è Rana Bishara, artista e attivista di 53 anni, cittadina palestinese di Israele. Rana è stata arrestata per aver alzato, durante la protesta, un cartello con la foto di Walid Daqqa, prigioniero palestinese morto di cancro ad aprile in un carcere israeliano, il cui corpo non è ancora stato restituito alla famiglia. “In quanto artista e attivista, è mio dovere protestare contro il genocidio che sta accadendo a Gaza”, dice Rana, che incontriamo il giorno dopo la protesta, appena dopo essere stata rilasciata: ha una mano bendata, dove è stata colpita dalla polizia. “Appena ho alzato il cartello la polizia mi ha attaccato. Sono stati brutali”, continua Rana che dopo essere stata portata in ospedale ha passato la notte in cella. “Trovarsi davanti a questo livello di ostilità, di violenza, di insulti e derisione, è stato scioccante”, dice. L’attivista aggiunge che dall’inizio della guerra a Gaza la condizione dei cittadini palestinesi di Israele è “terribilmente peggiorata”: “Non siamo visti come esseri umani”, dice e spiega che “tanti cittadini arabi di Israele sono spaventati, perché ci sono stati molti arresti negli ultimi mesi”. I cittadini palestinesi di Israele, detti anche i palestinesi del ‘48, sono gli arabi che possiedono la cittadinanza israeliana: si tratta di circa due milioni di persone, discendenti dalla popolazione araba rimasta all’interno dello Stato di Israele durante la Nakba, l’espulsione della popolazione palestinese in concomitanza alla creazione di Israele nel 1948. Tra i cosiddetti palestinesi del ‘48 ci sono musulmani, cristiani, drusi e comunità beduine, e a oggi corrispondono a circa il 20% della popolazione del Paese. Nonostante abbiano la cittadinanza israeliana e godano del diritto di voto, secondo molte associazioni per i diritti umani soffrono varie discriminazioni e, dall’attacco di Hamas contro i civili israeliani dello scorso 7 ottobre e l’invasione israeliana di Gaza, una pesante repressione. “Non c’era alcuna base legale per l’arresto”, dice Adi Mansour, uno degli avvocati che ha rappresentato Rana e le altre persone che sono state arrestate. Mansour spiega che, come emerge dal caso di Rana, arrestata per avere semplicemente esposto un cartello, “sono stati arrestati per il messaggio politico della protesta, che era contro la guerra a Gaza: è chiaramente un tentativo di prevenire ogni tipo di mobilizzazione e una violazione dei diritti civili”. Mansour, che lavora in Adalah, un centro legale che difende i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che “dopo il 7 ottobre abbiamo osservato una chiara repressione dei palestinesi cittadini di Israele, che a nostro avviso ha raggiunto il livello della persecuzione politica”. L’avvocato racconta che centinaia di cittadini palestinesi di Israele sono stati arrestati “per post o storie su Instagram”, licenziati o sanzionati con procedure disciplinari all’interno delle università. “Questa mattina ho avuto l’udienza di una studentessa che ha postato la bandiera palestinese nella sua bio e che per questo è accusata di supporto al terrorismo”. Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, a dicembre scorso il 71% dei cittadini arabi di Israele erano preoccupati all’idea di esprimere la propria opinione sui social media e l’84% temeva per la propria incolumità fisica. Mansour spiega infatti che i cittadini palestinesi negli ultimi mesi hanno subìto anche attacchi violenti, minacce e molestie. Inoltre, per mesi, il governo israeliano non ha autorizzato mobilitazioni contro la guerra a Gaza. Ma i palestinesi con cittadinanza israeliana sono sempre stati vittime di discriminazioni. Dal 1948, anno dell’istituzione dello Stato di Israele, e fino al 1966, i cittadini arabi sono stati sottoposti a un regime di legge marziale, con forti limitazioni alla libertà di movimento e di assemblea, misure che non si applicavano ai cittadini ebrei. Anche dopo l’abolizione della legge marziale, come spiega Amnesty International in un rapporto del 2022, i cittadini palestinesi di Israele continuano a essere soggetti a un sistema di oppressione e dominazione attraverso politiche discriminatorie che influiscono sul loro status giuridico, il loro accesso alla terra, alle risorse e ai servizi. In particolare, il rapporto di Amnesty cita le restrizioni relative al ricongiungimento familiare e al diritto a estendere i diritti di soggiorno, e le pratiche che escludono i palestinesi dall’accesso e dal possesso della stragrande maggioranza dei terreni pubblici (che costituiscono il 90% del territorio di Israele). Come spiega l’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem, inoltre, sul 3% del territorio israeliano designato per le comunità di palestinesi, il governo limita i permessi di costruzione: i palestinesi sono quindi spesso costretti a costruire senza permessi abitazioni che poi vengono demolite. Nella regione del Negev, per esempio, il governo israeliano ha effettuato ripetute demolizioni di case e sgomberi forzati contro i palestinesi. Come conseguenza di queste politiche, i palestinesi in Israele soffrono un’importante segregazione: circa il 90% di loro vive in città e villaggi abitati esclusivamente da palestinesi, e solo il 10% di loro nelle cosiddette città miste come Haifa e Acre. Cittadini arabi e cittadini ebrei frequentano scuole diverse. Inoltre, secondo i dati del 2023 dell’Istituto di Statistica israeliano, il 53% dei cittadini palestinesi di Israele è a rischio povertà, contro il 18% dei cittadini israeliani. Con l’adozione, nel 2018, della legge fondamentale sullo Stato-nazione, che definisce Israele come uno Stato-nazione ebraico nei cui confini il diritto all’autodeterminazione è esclusiva della popolazione ebrea, questa discriminazione sistemica è diventata esplicita. Per varie organizzazioni, tra cui Amnesty International, B’Tselem e Human Rights Watch, la discriminazione contro i cittadini palestinesi di Israele corrisponderebbe, nei fatti, a un sistema di apartheid. Mentre in Israele il dissenso contro la guerra viene represso, e si aspetta l’esito del negoziato rispetto all’ennesima proposta per una tregua, questa volta presentata dal presidente americano Joe Biden, che porterebbe a sei settimane di cessate il fuoco e al rilascio di molti degli ostaggi, la situazione a Gaza diventa sempre più drammatica. Nonostante lo scorso 24 maggio la Corte di Giustizia internazionale abbia ordinato la fine dell’offensiva israeliana su Gaza in una sentenza storica, l’esercito israeliano ha continuato ad avanzare su Rafah. Dopo il raid israeliano sulla tendopoli di Tal as-Sultan di domenica scorsa, che ha sollevato forti condanne internazionali, sono continuati bombardamenti e incursioni su terra anche nelle zone designate come sicure, dove si sono rifugiate migliaia di profughi dal resto della Striscia. Birmania. Parla il figlio della premio Nobel in carcere: “Aiutate mia madre, Aung San Suu Kyi” di Anna Lombardi La Repubblica, 16 giugno 2024 Il secondogenito Kim Aris racconta le battaglie per liberarla: “Non abbiamo notizie da gennaio”. “Mia madre Aung San Suu Kyi compirà 79 anni il 19 giugno, nell’isolamento in cui è costretta dal 2021: condannata a 27 anni sulla base di false accuse rivoltele dalla giunta militare che quell’anno rovesciò il suo governo con un colpo di Stato. Di lei, non so nulla da mesi”. Kim Aris, 47 anni, secondogenito dell’attivista e del tibetologo britannico Michael Aris è rimasto in silenzio per anni. Lasciando parlare per lui il suo corpo interamente tatuato col “Naga”, il drago d’acqua burmese, simbolo della resistenza nel suo Paese. Infine ha scelto di cogliere il testimone della battaglia per la democrazia di quella mamma pur vista poco. Fiera oppositrice del regime militare birmano (i democratici preferiscono chiamare il paese Burma, Birmania, perché Myanmar è gradito ai militari), premiata col Nobel per la Pace nel 1991. Dopo aver vinto le elezioni nel 2016 e 2020 è stata ministra degli Esteri e poi consigliera di Stato. Suo figlio Aris oggi gira il mondo parlando di lei e della guerra in corso nel suo Paese. In questi giorni è in Italia, a Parma, ospite dell’Associazione Amicizia Italo-Birmana. Come sta sua madre? “Francamente, non lo so. In tre anni e mezzo abbiamo ricevuto un’unica lettera da lei, lo scorso gennaio. Avevamo saputo che stava male, tormentata da un brutto mal di denti non curato che le impediva di mangiare, la faceva vomitare e le dava giramenti di testa. Io e mio fratello abbiamo dunque mandato un pacco di medicinali. E a gennaio abbiamo incredibilmente ricevuto un suo messaggio autografo: ringraziava ma non ci rassicurava. Stava ancora male. Abbiamo subito spedito un altro pacco. Ma non abbiamo più avuto altre notizie da lei”. Ad aprile i militari hanno detto di averla spostato dal carcere ad arresti domiciliari in una località segreta. Lei ha detto che lo hanno fatto per usarla come “scudo umano”. Perché? “Dicono di averla spostata per proteggerla dal forte caldo di questa stagione. Ma non l’hanno portata nella sua casa di Rangoon. Per quel che ne sappiamo, potrebbe dunque essere ancora in carcere. O, se davvero è in una casa, è tenuta in una località segreta per altri motivi: la resistenza controlla ormai il 60 per cento del Paese, i combattimenti sono sempre più vicini a Naypyidaw, roccaforte dei militari. Non far sapere dove si trova la leader dell’opposizione potrebbe essere un modo per proteggersi da attacchi pesanti contro di loro. E un domani potrebbero perfino usarla come merce di scambio”. Teme di non rivederla? “No. La Junta è molto debole e non ha il controllo del Paese. L’economia è crollata, siamo diventati epicentro di crimine, traffici umani, produzione di oppio e metanfetamine. Sono convinto che mia madre sarà presto libera. Ha quasi 80 anni e ha trascorso un quarto della sua vita in prigionia, merita di vedere il suo sogno democratico realizzato”. Aveva undici anni quando sua madre decise di lasciare l’Inghilterra dove vivevate, per tornare in Birmania. Fu difficile da accettare? “Ero un bambino, fu certo difficile. Negli anni ‘90 però, quando finì la prima volta agli arresti domiciliari, potei stare con lei. Ricordo quel periodo con tenerezza, quello in cui siamo stati più vicini. Il resto del tempo sono sempre stato con mio padre e mio fratello di 4 anni più grande. Papà ci ha aiutati a capire, rendendoci fieri di nostra madre. L’ha d’altronde sempre sostenuta anche a distanza. Per lui è stata molto più dura che per chiunque altro. Ma sapeva che senza il suo sostegno lei non ce l’avrebbe fatta a diventare quel che è”. Noi la conosciamo come Aung San Suu Kyi, icona di democrazia. Com’è in privato? “Per me è sempre stata solo la mia mamma. Quella che mi chiedeva con fermezza se avevo fatto i compiti ma poi era estremamente gentile. Ogni momento con lei mi è estremamente caro. So che è difficile capire dall’esterno, ma non ho avuto nessun’altra vita e la sua assenza alla fine mi è sembrata normale”. Quando l’ha vista l’ultima volta? “Nel 2017. Andai a trovarla, ma aveva tante responsabilità politiche, era molto impegnata. La volta precedente era stata nel 2010: le regalai un cucciolo di cane che divenne per lei un importante compagno. Per il resto, ci siamo sempre sentiti al telefono”. In cosa consiste il concetto di “pace burmese” da lei professato? “Uso le sue parole: “Un’attitudine basata sulla definizione burmese di pace: consiste nel rimuovere tutti i fattori negativi che mirano a distruggerla. Pace non è solo mettere fine alle violenze ma a ciò che la minaccia: discriminazione, diseguaglianze, povertà”. Il mondo dovrebbe ispirarsi a queste parole, oggi più che mai”. Fu suo fratello Alex a pronunciare il discorso di accettazione del Nobel conferitole nel 1991. Cosa ricorda? “Una grande fierezza. Ma avevo 13 anni, non capivo bene l’enormità della cosa”. Ha taciuto a lungo. Cosa l’ha spinta, infine, a cogliere il testimone della lotta di sua mamma? “Poco prima di andare a trovarla nel 2010, mi tatuai addosso un drago perché volevo affermare il mio sostegno senza parlare. Non mi piace essere una figura pubblica. Ma lei è in prigione e ho il dovere di fare qualcosa. Non posso permettere che sia dimenticata. Raccoglierne il testimone è stata l’unica decisione possibile”. La comunità internazionale ne ha fatto un’icona. Poi l’ha duramente attaccata... “Quando era al potere l’accusarono di non aver fatto abbastanza per la minoranza Rohingya, nonostante la colpa delle loro condizioni fosse dei militari precedentemente al governo. Finì che nel 2017 nessuno sostenne la sua determinazione nel consegnare i militari alla giustizia. Se avesse avuto più sostegno allora, forse l’attuale guerra civile si sarebbe evitata”. Cosa si può ancora fare? “Diffondere informazioni su quanto accade in Birmania è fondamentale. Poi bisognerebbe dare più supporto alla resistenza, innanzitutto con aiuti umanitari. Ma servirebbero anche armi. I militari fanno affidamento proprio sul fatto che gli oppositori sono mal armati e non hanno alle spalle nessuna grande potenza”. Lei ha lanciato una campagna di raccolta fondi che passa attraverso i tatuaggi... “Attivisti della diaspora birmana e semplici sostenitori si fanno tatuare il drago d’acqua e poi pubblicano le immagini sui social in segno di solidarietà. Ma una parte consistente della Freedom Tattoo Campaign consiste nella raccolta fondi. La colletta ha già fruttato centomila dollari, usati per fornire aiuti umanitari alla popolazione e sostegno alle famiglie dei dissidenti politici. Ma abbiamo ancora bisogno di aiuto”.