Questi sono i frutti di un sistema malato, ora serve un cambiamento radicale di Mauro Palma La Stampa, 15 giugno 2024 Difficile scrivere di un sistema quale quello dell’attuale detenzione che presenta una pluralità di sintomi di malattia. La doverosa precedenza va al lato umano delle 40 persone che si sono tolte la vita in questi mesi dell’anno - due nelle ultime ventiquattro ore - al ritmo medio di una ogni quattro giorni; ma tale constatazione rinvia necessariamente alla complessiva funesta aria che circonda il sistema detentivo nel suo complesso e, quindi, alla sua attuale fisionomia funzionale, gestionale e amministrativa. Perché l’amministrazione dell’esecuzione penale non può ridursi alla gestione della disperazione e del malessere, di chi è ristretto e anche di chi in carcere opera. Così come invece sembra ultimamente essere divenuta nella sottovalutazione della funzione progettuale a totale vantaggio del valore simbolico del castigo assicurato e garantito, da inviare quale messaggio alla collettività. Mentre scrivo, giunge la voce anche degli Organi internazionali: il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che nel marzo 2016 aveva chiuso la vicenda della sentenza Torreggiani - la condanna dell’Italia nel 2013 per le condizioni carcerarie inumane e degradanti - lodando i provvedimenti allora presi, oggi manifesta la propria preoccupazione, per l’alto numero dei suicidi constatando “che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024”. Chiede “misure urgenti”, mentre il dibattito nostrano sembra eludere tale urgenza, rifiutando quel provvedimento di immediato respiro sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata, in grado di dare senso a proposte di cambiamento nel medio termine. Perché di radicale cambiamento occorre parlare, se non si vuole rincorrere ogni sintomo di quella complessiva malattia con interventi che nulla hanno dato in positivo - neppure la promessa di un po’ più di telefonate è stata mantenuta - mentre molto hanno prodotto in negativo: la circolare sulla gestione della quotidianità delle persone detenute comuni, di sicurezza “media”, è stata attuata con una maggiore chiusura e non già con l’aumento di attività fuori dalle celle. Le cattive condizioni materiali, come è ovvio, aggravano poi i sintomi. L’affollamento crescente ne è un indicatore essenziale in un contesto di assenza di una visione complessiva e si salda alla riduzione del tutto al contenimento della violenza interna che certamente così si sviluppa e all’ipotesi di ridurla con la previsione di nuovi reati commettibili in carcere e l’inasprimento delle pene per quelli già previsti, o con l’esaltazione del possibile impiego di “gruppi di intervento”, di nuova istituzione, in caso di disordini interni. Due impropri e pericolosi farmaci. Perché il primo porta a ridurre il percorso di tendenziale reinserimento allo scorrere del tempo nella mera obbedienza agli ordini, prevedendo, come in un provvedimento ora in discussione, la criminalizzazione grave della inadempienza, anche in forma passiva, a un ordine impartito - così genericamente indicato. Mentre il secondo, se da un lato supera la superficialità violenta di gruppi “raccogliticci”, fatti intervenire in note vicende, dall’altro riprende esplicitamente l’esperienza francese dell’Eris, già criticata nel 2003 e nel 2006 dagli Organi sovranazionali; proponendo l’annullamento secco del sintomo come rimedio curativo. Questi gli unici due messaggi recenti verso un sistema in sofferenza. La cui immagine nelle situazioni di crisi acuta scorre intanto in talune aule di tribunale, connotata da testimonianze di violenza e di tentativi di copertura, d’intimidazione o di disattenzione di chi doveva controllare. Triste leggere cosa emerge in tali deposizioni, per la loro gravità e per il loro annidarsi in alcuni focolai culturali interni; rimanendo forse un po’ speranzosi perché talvolta sono stati gli stessi organismi dell’amministrazione deputati all’indagine a consolidare queste storie. Però chi come Garante, nazionale o locale, dei diritti di chi è recluso ha dovuto assumersi allora il compito - doloroso - di portare gli episodi all’attenzione della Procura, legge quanto oggi emerge con la consapevolezza che tutti questi sintomi fanno parte di un’unica malattia e che le tradizionali cure non bastano più. Occorre un cambio di passo, una diversità di approccio alla pena e alla sua esecuzione: perché il tema del carcere non è proprietà di chi lo amministra, ma è tessuto del nostro vivere sociale. Il Consiglio d’Europa lancia l’allarme rosso per i suicidi nelle carceri italiane di Valentina Stella Il Dubbio, 15 giugno 2024 Documento di Strasburgo per sollecitare “misure in grado di fermare le morti”. Ma il testo Giachetti, che limita il sovraffollamento, rischia di essere affossato. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane preoccupa molto il Consiglio d’Europa: una situazione “allarmante” evidenziata da una tendenza negativa osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024. E sulla quale il governo italiano dovrebbe intervenire “urgentemente”, si legge in un documento reso noto ieri. Sui suicidi dei detenuti che proprio ieri hanno toccato quota 42 dall’inizio dell’anno con i casi di Biella e Ariano Irpino - Strasburgo “constata con grande preoccupazione” che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare il fenomeno. L’Italia è quindi chiamata “ad adottare rapidamente ulteriori misure e a garantire adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire queste morti”. Inoltre il Consiglio d’Europa, pur giudicando “positivamente” l’annuncio di Roma sull’aumento del budget 2024 per il rafforzamento dell’assistenza psicologica e psichiatrica nelle carceri, “nota tuttavia che a causa del concomitante aumento dei costi di questi servizi, l’impatto di questa misura appare limitato”. Questa notizia arriva il giorno dopo l’annuncio, da parte del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, di un decreto legge sulle carceri che dovrebbe essere portato in Consiglio dei ministri giovedì prossimo. Proprio all’evento organizzato due giorni fa dal Dubbio l’esponente della Lega ha illustrato le linee generali del provvedimento: “Si disciplina il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta. Non saranno introdotti sconti di pena. L’obiettivo è alleggerire i Tribunali di sorveglianza, oggi gravati dalla necessità di evadere 200mila richieste l’anno e, contemporaneamente, garantire ai detenuti i diritti già previsti dalla normativa vigente”. Una misura assai prudente, che non sembra rispondere all’urgenza rilevata dal Consiglio d’Europa, diversamente da quanto avverrebbe con “l’iniziativa di Giachetti, che darebbe subito respiro alle carceri”, come sottolineato giovedì dalla radicale Rita Bernardini. Tra l’altro il varo del decreto potrebbe affossare del tutto la proposta del deputato di Italia viva, elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino. Il testo, che prevede una liberazione anticipata speciale, sarebbe dovuto arrivare in aula alla Camera il 24 giugno, ma la data sembra destinata a slittare: verrà data priorità al ddl penale di Nordio che, tra l’altro, abroga il reato di abuso d’ufficio, e che è atteso in aula per quello stesso giorno. Il termine per la presentazione degli emendamenti alla legge Giachetti è scaduto mercoledì: non hanno depositato richieste di modifica né FdI né la Lega. Da sottolineare la posizione favorevole al provvedimento da parte di Forza Italia, che ha presentato emendamenti per accelerare la procedura di concessione del beneficio, ovviamente in assenza di situazione ostative, e poi ha accolto la proposta del Procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo, il quale aveva auspicato in audizione che la proposta di legge potesse diventare “l’occasione per snellire alcuni meccanismi procedurali che ostacolano l’applicazione del beneficio”. Il capo della Dna aveva suggerito di ispirarsi al modello francese, secondo cui all’ingresso in carcere il condannato è informato del meccanismo premiale della riduzione della pena e delle possibilità della sua negazione. Sul piano politico il problema non è solo lo slittamento: settimana più, settimana meno non cambierebbe molto. Il timore è che l’iniziativa di via Arenula metta un punto definitivo all’iniziativa del parlamentare renziano. Certo, le incognite non mancano. In fase di conversione del decreto, si potrebbero creare maggioranze atipiche: FI potrebbe unirsi al Pd nel sostenere la linea Giachetti. A quel punto anche i 5 Stelle potrebbero cambiare linea pur di dare un colpo al governo. E non si escludono “dissidenti” all’interno del Carroccio: come appreso da fonti parlamentari, esponenti di spicco come Simonetta Matone avrebbero mostrato attenzione per il testo di Giachetti. Sul documento del Consiglio d’Europa è arrivato il commento dell’Unione Camere penali, che rivolgono “ancora una volta un appello al governo e a tutte le forze politiche perché adottino al più presto una soluzione legislativa che consenta nell’immediato di eliminare il fenomeno del sovraffollamento, di migliorare le condizioni dei detenuti, di tutelarne la salute fisica e psichica e la dignità negli istituti di detenzione”. Carcere, ancora due suicidi. Il Consiglio d’Europa: “L’Italia intervenga” di Costanza Oliva Avvenire, 15 giugno 2024 Due detenuti si tolgono la vita a Biella e Ariano Irpino. Il Consiglio d’Europa: situazione allarmante da tempo, le misure adottate non sono sufficienti. Le misure adottate non sono sufficienti e la situazione è “allarmante”: è il pronunciamento del Consiglio d’Europa che oggi si è detto “molto preoccupato” per l’alto numero di suicidi nelle carceri italiane. La richiesta rivolta a Roma è che vengano stanziate maggiori risorse e prese “rapidamente ulteriori misure correttive”. Una denuncia che arriva nello stesso giorno in cui si verificano due suicidi, che portano il totale a quarantadue dall’inizio dell’anno. È successo nella notte, verso l’una, nel carcere di Biella. Era un uomo di 45 anni di origine romena. Nella stessa sera, un detenuto minorenne di origine magrebine ha tentato di togliersi la vita nel carcere Malaspina di Palermo. Si è salvato solo grazie al rapido intervento degli agenti della Polizia penitenziaria. Il suicidio precedente risale a ieri, 13 giugno, ad Ariano Irpino (Avellino). Prima ancora, l’11 giugno a Ferrara. “Nelle carceri si consuma una strage silenziosa: ormai non facciamo in tempo a riprenderci, per quanto possibile, dallo sconforto per un suicidio in carcere che se ne aggiunge un altro” - ha dichiarato il garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello. “Sono sia il prodotto della lontananza della politica e della società civile dal carcere, sia dalla mancanza di figure sociosanitarie e di ascolto”. Non è la prima volta che il Consiglio d’Europa denuncia la situazione carceraria italiana. Lo scorso anno era arrivato lo stesso appello: viene espressa preoccupazione anche per il fatto che Roma non abbia fornito nessuna delle informazioni che erano state richieste dopo l’ultimo esame condotto dal comitato dei ministri un anno fa. Nello specifico, era stato chiesto di inviare dati che dimostrassero che quando i tribunali nazionali, o la Corte di Strasburgo, indicano che un detenuto deve essere trasferito in una Rems, questo avvenga “senza indugio”, e non in 35 giorni come accadde nel caso per cui l’Italia fu condannata dalla Cedu. Dall’esecutivo del Consiglio d’Europa viene sottolineato che l’annuncio sull’aumento del budget 2024 per il rafforzamento dell’assistenza psicologica e psichiatrica negli istituti di pena sarebbe certamente positivo se non fosse che “alla luce del concomitante aumento dei costi di questi servizi, l’impatto di questa misura appare limitato”. Viene anche espressa preoccupazione per i detenuti che soffrono di disturbi psichici che attendono il trasferimento dalle prigioni alle Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). “Va varato un decreto carceri che deflazioni il sovraffollamento detentivo (sono oltre 14mila i detenuti in esubero), - ha spiegato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria -, che consenta l’assunzione straordinaria e accelerata di agenti del Corpo di polizia penitenziaria, cui mancano più di 18mila unità, e permetta il potenziamento dell’assistenza sanitaria, specie di natura psichiatrica”. Il sovraffollamento resta un problema consistente. A documentarlo le Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria relative al 2023 pubblicate la scorsa settimana: le carceri italiane sono al sesto posto in Europa per sovraffollamento. La politica si interessi di tutti i detenuti di Giunta e Osservatorio Carcere dell’UCPI camerepenali.it, 15 giugno 2024 Dal comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa un monito all’Italia per l’immediata adozione di efficaci interventi sulle disastrose condizioni delle carceri e per una maggiore trasparenza delle informazioni. Sebbene dall’inizio del 2024 si siano succeduti nelle carceri del nostro Paese 42 suicidi (l’ultimo questa notte a Biella), lo Stato e con esso la Politica non hanno ancora posto in essere alcun rimedio al dramma del sovraffollamento carcerario ed alle gravissime condizioni che ne derivano che appaiono violative dei diritti delle persone detenute. Le soluzioni prospettate dal Governo appaiono del tutto insufficienti ed inadeguate a fornire risposte immediate ed urgenti al dramma di una condizione detentiva priva di speranza e di risposte, nella quale le carenze dell’assistenza e del trattamento colpiscono inevitabilmente i soggetti più deboli e più fragili. Dopo il richiamo del Presidente della Repubblica e quello di Papa Francesco, oggi anche il Consiglio d’Europa ha espresso forte preoccupazione, facendo proprie quelle “espresse dalla società civile”, per l’alto numero di suicidi nelle carceri italiane e per la condizione detenuti che soffrono di disturbi psichici che attendono il trasferimento dalle prigioni alle Rems, chiedendo all’Italia interventi urgenti che garantiscano un miglioramento di questa drammatica situazione. Nel documento approvato dal Comitato dei ministri dell’organizzazione paneuropea che ha esaminato le misure prese in Italia per rispondere in modo adeguato a due condanne sulla situazione nelle carceri pronunciate dalla Corte di Strasburgo, si “constata con grande preoccupazione che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare l’allarmante tendenza negativa dei suicidi in carcere, osservata dal 2016 e proseguita nel 2023 e all’inizio del 2024”, ed “esorta le autorità ad adottare rapidamente ulteriori misure correttive e a garantire lo stanziamento di adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire i suicidi nelle carceri”. Il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa stigmatizza, inoltre, il silenzio delle autorità italiane nel rispondere e fornire informazioni alle questioni poste, nel giugno 2023, dallo stesso comitato, nonché, pur prendendo atto positivamente dell’annunciato aumento del bilancio 2024 per il rafforzamento dell’assistenza sanitaria psicologica e psichiatrica nelle carceri, segnala “l’impatto limitato” di tale misura ed esprime la preoccupazione - così come più volte denunciato dall’Unione delle Camere Penali Italiane - sul concreto utilizzo degli ulteriori stanziamenti e sull’effettivo aumento dell’assistenza psicologica e psichiatrica, ingiungendo al nostro Paese di fornirne, nei prossimi mesi, adeguate informazioni. Al fine di denunciare il fenomeno dei suicidi e di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla persistente crisi del sistema carcerario, è in atto da alcuni giorni davanti ai tribunali italiani e nelle piazze, una protesta che si sviluppa attraverso maratone oratorie organizzate dalle Camere Penali territoriali che si concluderà a Roma con una manifestazione nazionale alla quale saranno chiamate a partecipare tutta la società civile, tutte le forze politiche e le associazioni che hanno a cuore il sistema delle pene del nostro Paese ed il superamento dell’attuale stato di crisi. L’Unione Camere Penali Italiane rivolge, ancora una volta, un appello al Governo ed a tutte le forze politiche perché adottino al più presto una soluzione legislativa che consenta nell’immediato di eliminare il fenomeno del sovraffollamento, di migliorare le condizioni dei detenuti e di tutelarne la salute fisica e psichica e la dignità all’interno degli istituti di detenzione. La questione morale dello sciopero della fame in carcere di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 15 giugno 2024 Lo Stato, custode per legge dei corpi detenuti all’interno delle proprie carceri, può permettere che quegli stessi corpi decadano e muoiano? Una particolare forma di protesta pericolosa e allo stesso tempo nonviolenta è rappresentata dallo sciopero della fame. È pericolosa perché mette a rischio la salute psichica e fisica di chi lo attua e nonviolenta perché non lede l’incolumità di terzi e affronta il potere e le sue ingiustizie senza arrecare danni materiali a cose e a persone. Nel nostro Paese, in passato, la sospensione dell’alimentazione è stata una forma di mobilitazione promossa principalmente dal Partito radicale e da Marco Pannella; e da qualche decennio viene praticata di frequente nelle carceri in quanto unico strumento nonviolento di cui dispongono i detenuti. Ma si deve ricordare che settant’anni fa, a ricorrere al digiuno così come ad altre forme di disobbedienza civile, fu il movimento che si aggregò intorno a Danilo Dolci. Alla base di una scelta tanto radicale si trova la rivendicazione di un diritto, la richiesta di un cambiamento, una domanda di ascolto. Sono queste le ragioni che hanno indotto gli operai della fabbrica ex Gkn di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, a iniziare uno sciopero della fame che ormai è in corso da qualche settimana. Da tre anni quei lavoratori portano avanti una difficile mobilitazione contro i licenziamenti, la chiusura della fabbrica e la sua delocalizzazione. In questo caso è una forma di lotta che si combina con altre, anche molto diverse, praticate dagli stessi operai della ex Gkn. Una scelta estrema che, con modalità differenti, qualche settimana fa è stata promossa da alcuni studenti dell’università Sapienza di Roma per richiedere alla rettrice un dibattito pubblico sugli accordi tra l’accademia italiana e quella israeliana; e ancora da Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che per circa venti giorni ha condotto un digiuno per richiedere un intervento di legge al fine di contrastare il sovraffollamento carcerario e la crescita del numero dei suicidi tra i detenuti e gli agenti penitenziari. Ancora diverso e più delicato è lo strumento dello sciopero della fame quando praticato da reclusi. Un anno fa, per mesi, si è parlato dell’anarchico Alfredo Cospito e del suo sciopero contro il regime speciale del 41-bis cui era sottoposto. Una protesta durata 181 giorni, iniziata il 20 ottobre del 2022 e conclusa il 19 aprile dell’anno successivo. Lo ricorda bene un libro pubblicato di recente da Fandango: “Hunger Strike. Sciopero della fame e martirio politico”. L’autore, Alberto Nettuno, ricercatore di filosofia e studioso di bioetica, attraverso un’attenta analisi, traccia non solo la storia dello sciopero della fame come atto politico in cui il corpo diventa strumento di lotta, ma ripercorre alcuni casi significativi. Oltre alle vicende dei prigionieri politici dell’Irlanda e della Turchia riprende un pezzo di storia italiana spesso trascurato: lo sciopero della fame nel carcere di San Vittore, a Milano, nel 1981 e quello dei brigatisti rossi nella sezione speciale del carcere di Nuoro tra il 1983 e il 1984. A partire da qui Nettuno evidenzia la “natura biopolitica” di quelle azioni e, citando la vicenda di Cospito, spiega come la “scandalosa immagine di un corpo trasfigurato” che si mostra all’opinione pubblica “diventa uno “spettacolo” indegno di una società che si autodefinisce “civile”. La questione è proprio tutta qui: lo Stato, custode per legge dei corpi detenuti all’interno delle proprie carceri, può permettere che quegli stessi corpi decadano e muoiano? La storia di Alfredo Cospito insegna che il tempo per salvare una vita può ridursi a una manciata di giorni. E, ricordiamolo, l’anno scorso, nell’arco di pochi mesi, ben tre reclusi sono morti a seguito di digiuno, senza che le autorità intervenissero e che l’opinione pubblica ne fosse messa a conoscenza. In queste settimane due persone detenute hanno intrapreso, a loro volta, uno sciopero della fame. Il primo è Zaccaria Mouhib, conosciuto come Baby Gang, uno dei rapper più ascoltati in Italia. Il giovane, dopo la revoca degli arresti domiciliari cui era sottoposto, si trova nel carcere minorile di Lecco e ha iniziato a digiunare per denunciare le condizioni di detenzione. La seconda è Maysoon Majidi, non ancora trentenne, regista curdo-iraniana reclusa a Castrovillari, in Calabria. È accusata di aver guidato una barca dalla Turchia all’Italia con a bordo migranti che, come lei, fuggivano da regimi dispotici, da persecuzioni e da guerre. È accusata di essere una “scafista”; rischia tra i 6 e i 16 anni di carcere e il pagamento di 15.000 euro per ognuna delle persone sbarcate. È in custodia cautelare da sei mesi e venerdì scorso il tribunale di Crotone ha ancora una volta respinto la richiesta di arresti domiciliari. Maysoon ha intrapreso per tre volte lo sciopero della fame e ora, ridotta a 41 chili di peso, attraversa uno stato di profonda depressione. In queste ore si apprende che il giudizio immediato sarebbe fissato per il 24 luglio prossimo. C’è da augurarsi che, in quella sede, Maysoon abbia la possibilità di far sentire la propria voce e di opporsi a una impostura che rischia di trasformare lei, vittima, in una complice dei carnefici. Nordio incassa dall’Ue l’ok all’abolizione dell’abuso d’ufficio: legge al voto da lunedì di Errico Novi Il Dubbio, 15 giugno 2024 “Si è riconosciuto che l’Italia ha già molte armi contro il malaffare”, dice il guardasigilli. Carlo Nordio parla al Consiglio Giustizia europeo. È in conclave con i guardasigilli degli altri ventisei Stati dell’Unione, a Lussemburgo. Interviene su diverse questioni: dalle misure per il contrasto della pedopornografia all’ormai vexata quaestio della direttiva anticorruzione. Il ministro di Roma parla in italiano. Ma poi, quando arriva a citare la propria esperienza da inquirente - che lo ha portato a comprendere come “non sempre l’arma penale sia la più efficace” - si preoccupa di non affidare l’espressione “pubblico ministero” ai pur impeccabili interpreti, e preferisce dire direttamente, in inglese, “public prosecutor”, tanto per essere chiaro. Tiene ad essere ben compreso, Nordio, soprattutto a esser netto nel ringraziare i partner per l’accordo sulla lotta al malaffare, e sul testo definitivo della direttiva studiata per arginare i fenomeni corruttivi. Il ministro italiano è soddisfatto: nell’iniziale bozza del testo eurounitario, prodotta dal Parlamento di Strasburgo, la previsione del reato di abuso d’ufficio veniva indicata come “obbligatoria”. Dopo il vertice di ieri, si è invece deciso di tornare a quanto previsto dalla Convenzione Onu di Merida del 2005, secondo cui ciascun Paese avrebbe valutato se adottare o meno, nel proprio codice penale, la fattispecie dell’”abuso di potere”. I Paesi “shall consider adopting”, recitava la “Carta” delle Nazioni unite, non “shall adopt”: è la sfumatura che l’Europarlamento aveva deciso di forzare in senso restrittivo, al punto da mettere in difficoltà l’Italia, che negli stessi giorni - a luglio dello scorso anno - in cui la direttiva veniva sottoposta ai 27 Parlamenti nazionali affinché vi si esprimessero, aveva appena avviato l’iter della riforma penale di Nordio, in cui l’abuso d’ufficio viene abolito. Ma a Lussemburgo, come il guardasigilli di Roma spiega a margine dei lavori, “c’è stato il riconoscimento che l’Italia ha un arsenale normativo e organizzativo di lotta contro la corruzione che rende la riforma sull’abuso di atto di ufficio perfettamente compatibile con la lotta alla corruzione”. E così, osserva Nordio, la direttiva contro il malaffare, nella sua versione definitiva, concordata al vertice di ieri, prevedrà che “gli Stati non sono obbligati, come si era detto un tempo, a mantenere questo reato. Possono, a la loro discrezione, mantenerlo. Noi manterremo l’intenzione di abolirlo. E sarà abolito”. Una vittoria politica di Nordio. Notevole. Che mette fine a un anno di contumelie rivolte dall’opposizione, ma anche da settori della magistratura, nei confronti del governo. Colpevole, era l’accusa, di “fare un favore alla mafia” - e quando mai no - con la soppressione dell’abuso d’ufficio, prevista nonostante la direttiva Ue imponesse di adottare, in ciascuno degli ordinamenti nazionali, quel reato. Sarà un caso, ma proprio contestualmente all’accordo che riporta, nella direttiva Ue, l’”abuso di potere” fra i reati “facoltativi”, si sblocca anche l’iter della sopracitata riforma penale di Nordio: lunedì la commissione Giustizia della Camera provvederà finalmente a mettere in votazione gli emendamenti, presentati dalla sola opposizione, in vista di una calendarizzazione in Aula fissata per il 24 giugno. Se tutto andrà secondo i piani del centrodestra, la settimana prossima arriverà dunque il voto finale sul “ddl ordinario” di Nordio, con conseguente definitiva approvazione della riforma, già licenziata in prima lettura dal Senato a febbraio. Un’accelerazione che dovrebbe consentire al ministro di mettere in bacheca il risultato più importante tra quelli raggiunti in questi primi due anni di mandato. Nel provvedimento in 9 articoli sono previste misure che vanno dalla soppressione dell’abuso d’ufficio all’effettivo divieto di intercettare l’avvocato nell’esercizio della propria funzione, divieto rafforzato grazie alle modifiche proposte dal senatore di FI Pierantonio Zanettin. Arrivata sotto lo striscione dell’ultimo chilometro la riforma che abolisce l’abuso d’ufficio, di questo “effetto velocità” - prodotto dal superamento dello scoglio elettorale - beneficia anche la separazione delle carriere: come riportato sul Dubbio di ieri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha autorizzato la presentazione alle Camere del ddl costituzionale di Nordio. Immediatamente si è avuta conferma che la legge costituzionale sarà incardinata a Montecitorio. Il segnale sembra confermare la tesi sostenuta, tra reazioni stupite, lunedì scorso dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che aveva prefigurato la precedenza della giustizia rispetto al premierato. Il ddl Casellati, certamente caro a Meloni, otterrà il 18 giugno il via libera dell’aula del Senato. Ma a questo punto è plausibile che la commissione Affari costituzionali di Montecitorio, forse in congiunta con la Giustizia, avvii l’esame sulle carriere separate prima che le venga trasferito, da Palazzo Madama, il testo sul premierato. E a quel punto il ddl costituzionale di Nordio acquisirebbe un vantaggio, almeno rispetto al calendario della Camera. Proprio sulla separazione delle carriere, il “parlamentino” Anm dovrebbe lanciare oggi una campagna di “controinformazione”. Che parte certamente in salita, dopo la sconfessione che l’Ue ha appena inflitto, sull’abuso d’ufficio, al fronte più antigovernativo delle toghe. L’Anm si riunisce contro la separazione delle carriere, ma si scopre divisa di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 giugno 2024 I vertici dell’Anm si riuniscono oggi per decidere su come reagire alla presentazione del ddl di riforma costituzionale della magistratura. L’ipotesi sciopero perde quotazione: tra le toghe ci sono opinioni contrastanti (e si teme un nuovo flop). Scioperare o non scioperare? Questo è il dilemma che si porranno oggi i vertici dell’Associazione nazionale magistrati, riuniti a Roma in via straordinaria per decidere su come reagire all’approvazione in Consiglio dei ministri della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere tra giudici e pm, la creazione di due distinti Csm e l’istituzione di un’Alta corte per i giudizi disciplinari. Al momento l’ipotesi di un’astensione dall’attività giudiziaria sembra aver perso quotazione, per tre ragioni principali. Primo: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato proprio giovedì pomeriggio l’autorizzazione alla presentazione in Parlamento del ddl costituzionale elaborato dal governo. La firma è arrivata dopo oltre due settimane di attesa. Nel caso in cui il comitato direttivo dell’Anm decidesse di decretare lo sciopero, l’iniziativa potrebbe essere interpretata persino come uno sgarbo al capo dello stato, che ha effettuato una valutazione tecnica molto approfondita per escludere l’esistenza di palesi profili di incostituzionalità. Il sì di Mattarella, inoltre, ricorda a tutti che ci si trova ancora nelle fasi iniziali dell’esame della proposta di riforma, che verrà incardinata alla Camera. Uno sciopero delle toghe quando ancora il dibattito parlamentare deve ancora cominciare sarebbe visto come una scelta priva di senso logico. Il secondo motivo per cui lo sciopero sembra allontanarsi è legato alla presenza di opinioni contrastanti all’interno della magistratura. Nei giorni scorsi, diverse giunte locali dell’Anm si sono riunite in vista dell’appuntamento di oggi. I toni più battaglieri sono emersi, come da tradizione, dall’assemblea della sezione milanese dell’Anm. Il pm ed ex presidente del sindacato dei magistrati, Luca Poniz, ha parlato di “un regolamento finale dei conti” contro la magistratura, invocando una “resistenza” di borrelliana memoria. Anche la sezione toscana ha criticato la riforma della giustizia, che “incrina pericolosamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e il principio della separazione dei poteri, portando il pubblico ministero pericolosamente fuori dalla cultura di giurisdizione”. Se le critiche sono diffuse, diverse sono le posizioni sulle iniziative da adottare. L’Anm del Piemonte, per esempio, ha espresso forti perplessità sull’adozione dello sciopero, auspicando invece la realizzazione di eventi speciali, come l’apertura serale dei palazzi di giustizia per incontri con il pubblico, flash mob, iniziative simboliche e, su tutto, una “grande manifestazione nazionale” da tenersi a Roma. Insomma, l’idea dello sciopero non piace a tutti, soprattutto in questa fase. Spetterà al comitato direttivo e al presidente Giuseppe Santalucia definire una strategia in grado di non creare spaccature nella magistratura. Il terzo motivo è legato al secondo: l’ultimo sciopero tenuto dall’Anm, nel maggio 2022 contro la riforma Cartabia, si rivelò un clamoroso flop, con l’adesione di soltanto il 48 per cento dei magistrati. Il timore più grande è ripetere una figuraccia del genere. “Siamo pronti allo sciopero. La riforma è un pericolo per l’indipendenza” di Giulia Merlo Il Domani, 15 giugno 2024 Il magistrato progressista Stefano Celli, membro dell’Anm, spiega: “L’Anm deve mantenere i nervi saldi ed elaborare una strategia di ampio respiro. Lo sciopero funziona se “gli altri”, non solo la politica, ma soprattutto la società civile, ne comprende le ragioni e le condivide”. Oggi l’Anm si riunisce in una assemblea straordinaria per decidere quali iniziative intraprendere contro il ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Sul tavolo c’è l’ipotesi dello sciopero, come spiega Stefano Celli, toga di magistratura democratica eletto nel comitato direttivo centrale dell’associazione. Il ddl costituzionale sulla giustizia sarà un nuovo spartiacque tra toghe e governo. Md proporrà lo sciopero? Md vuole lo sciopero ed è pronta a farlo. Il punto, per noi, è però di farlo nel momento giusto, quando serve e può sortire l’effetto che speriamo. Ovvero, quello di ottenere il ritiro o la modifica del ddl costituzionale, oppure di mobilitare in modo sufficiente il paese per riuscire ad essere la maggioranza in un futuro referendum. Per questo tutta l’Anm deve mantenere i nervi saldi ed elaborare una strategia di ampio respiro. Lo sciopero funziona se “gli altri”, non solo la politica, ma soprattutto la società civile, ne comprende le ragioni e le condivide. Quali sono queste ragioni? La riforma che separa le carriere dei magistrati è inutile perché non accorcerà di un giorno i tempi dei processi. E’ anche dannosa perché diminuirà l’indipendenza dei giudici e minerà profondamente quella dei pubblici ministeri. Lei, da cittadina sottoposta a indagine, chi vorrebbe a condurre l’indagine? Il pm di oggi, interessato solo a far emergere la verità, o un avvocato della polizia, valutato in base al numero di condanne ottenute? Per quali ragioni ritiene che serva andare a una rottura così forte? La premessa è che qui non siamo davanti conflitto sindacale tradizionale, perché noi magistrati non stiamo difendendo posizioni di categoria. Lo sciopero serve a mettere in chiaro che questo disegno di legge demolisce l’architrave costituzionale del potere giudiziario: la distinzione dei magistrati solo per funzioni, mentre il ddl ci consegna due magistrature, una alta e una bassa; mina l’indipendenza del pubblico ministero, e quindi quella del giudice, che si occuperà solo di quel che un pubblico ministero controllato dalla maggioranza di turno vorrà sottoporgli; lede l’onore di tutto l’ordine giudiziario: saremo gli unici ritenuti incapaci sia di eleggere i propri rappresentanti, che saranno sorteggiati, sia di amministrare la giustizia disciplinare, nonostante i dati oggettivi riconoscano l’estrema severità della Sezione che se ne occupa. Quando accade tutto questo, è naturale chiedersi “se non ora, quando?”. L’ultimo sciopero, del maggio 2022, ha raggiunto appena il 48 per cento di adesioni. Non teme l’effetto boomerang? Sono più fiducioso. Le assemblee distrettuali tenute in questi giorni propongono all’Anm le iniziative che md proponeva di fare prima dello sciopero del 2022. Lo sciopero funziona se la magistratura saprà aprirsi verso la società civile, i sindacati, le associazioni. Non deve essere un autocompiacimento, ma il passo giusto per spiegare gli effetti devastanti della riforma. Noi magistrati sappiamo perfettamente che dobbiamo riguadagnare la fiducia dei cittadini che, non solo per colpa nostra, è scesa terribilmente. Come si riguadagna questa fiducia? Non è vero che tutto inizia e si esaurisce con il cosiddetto caso Palamara. La magistratura ha commesso l’errore di ritenersi portatrice di verità, infatti il maggiore difetto della categoria è l’autoreferenzialità: pensiamo sempre di sapere tutto e spesso rifiutiamo un rapporto sano con gli altri attori della giurisdizione. Per questo ora dobbiamo cambiare approccio. Confrontandoci di più e prima di ingranare la marcia, ma anche utilizzando forme di comunicazione al passo con i tempi, abbandonando metodi di comunicazione e linguaggio antiquati. Non è facile, perché la soluzione a problemi complessi non si presta alla semplificazione. Per questo insistiamo per un investimento serio dell’Anm, anche in questo campo con nuove risorse. È inutile avere ragione se non ti fai capire da chi te la deve dare. Ci sono anche voci più scettiche dentro l’Anm, alla riunione di sabato sarà possibile trovare una quadra tra tutti i gruppi associativi? Nei momenti più difficili l’Anm ha sempre ritrovato l’unità. È successo con la riforma Castelli nel 2006, confido che succederà con questa riforma. A proposito: vedo che nessuno sgomita per rivendicarne la paternità. Forse anche chi l’ha ideata non è poi così convinto della sua bontà. Spera che ci sia l’appoggio dell’opposizione? Il nostro gruppo, a dispetto di fantasiosi retroscena, non coltiva collateralismi. Noi rivendichiamo il diritto dovere di contribuire, come cittadini magistrati, al processo democratico che non può essere appannaggio di nessuna elite. Sono sicuro che in tutto il parlamento, non solo nell’opposizione, molti hanno compreso qual è la posta in gioco. Se ascolteranno e si confronteranno senza pregiudizi, anche con la magistratura associata, sarà il paese a guadagnarci. Separazione delle carriere, la crociata di un magistrato: “Diserterò i convegni con gli avvocati” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 giugno 2024 La toga ha fatto sapere che non prenderà parte agli eventi formativi organizzati dagli organi associativi forensi che si sono schierati a favore della riforma Nordio. Di certo l’iniziativa di un singolo magistrato non è rappresentativa dello spirito che anima l’intera categoria delle toghe. Però potrebbe apparire sintomatica di un sentimento crescente di frustrazione e rabbia che cresce all’interno dell’Associazione nazionale magistrati in merito al ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, sorteggio per i membri del Consiglio Superiore della Magistratura e Alta Corte disciplinare. L’occasione per questa interpretazione ce la offre la mossa del magistrato Nicola Scalabrini, sostituto procuratore a Bologna e componente di Area Dg della giunta distrettuale dell’Anm, che ha comunicato ai rappresentanti locali degli organi associativi degli avvocati (Consiglio dell’ordine, Fondazione forense e Camere penali) che non parteciperà più come relatore a convegni di formazione organizzati dagli stessi avvocati, anche quelli dove la sua presenza era già programmata. Benché abbia sempre creduto nel dialogo con gli altri operatori del diritto e non si sia mai sottratto al dibattito, ieri ha reso noto questo suo gesto di rottura e dal valore anche simbolico, che arriva dopo una presa di posizione di alcuni consigli dell’ordine (Bologna, Brescia, Lecce, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Venezia) in favore della riforma Nordio. Nel documento sottoscritto dai vari ordini si legge, tra l’altro, che “accolgono con interesse e soddisfazione l’avvio del dibattito sul tema della separazione delle carriere tra Magistratura giudicante e Magistratura requirente e intendono adoperarsi affinché il confronto prosegua in termini costruttivi e concreti” e “ l’impegno degli Ordini degli Avvocati è nella direzione di mantenere la separazione delle carriere tra i temi vivi di confronto e di approfondimento, sino al raggiungimento di una soluzione pienamente attuativa dei principi e dei valori posti dalla nostra Costituzione”. Poi un passaggio chiave: “Per molti anni non sono stati possibili né un adeguato confronto, né una franca discussione su una tale prospettiva. Troppo spesso la riflessione è stata impedita da polemiche che poco o nulla avevano a che fare con il merito delle proposte in campo, insinuandosi persino l’idea che la riforma, anziché avere a cuore i diritti dei cittadini, avesse finalità ostili alla Magistratura, o fosse mero terreno di scontro partitico”. Insomma gli avvocati vogliono portare le toghe su un piano di discussione giuridica e non politica, probabilmente perché il clima è cambiato dopo la morte di Berlusconi. Una prospettiva che potrebbe non essere accolta però dalle toghe che invece stanno incentrando il dibattito sulle argomentazioni politiche sottese alla riforma, ossia ridurre se non eliminare il controllo della magistratura sull’attività politico amministrativa. Da ciò la dura presa di posizione di Scalabrini: “Mi sento davvero sulla ‘irrinunciabile linea del Piave’“, ha scritto citando il famoso appello alla resistenza di Francesco Saverio Borrelli nel 2002, a Milano. “Quest’ultima presa di posizione del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Bologna - continua il magistrato - amplia e approfondisce un solco e impone alla mia coscienza di considerare che i tanti momenti comuni e la singola testimonianza da me portata sono stati del tutto inutili. Non basta più la stima personale che nutro per ciascuno di voi singoli avvocati nella altissima funzione da voi svolta a farmi credere che le iniziative di formazione siano state, o possano davvero essere, occasione rispettosa di arricchimento reciproco”. Con la presa di posizione in favore della separazione delle carriere verrebbe meno in sostanza, secondo Scalabrini, una visione comune sull’idea di giustizia. “Questa improvvida riforma - dice ancora - non risolve alcuno dei mali che affliggono la giustizia, ma scardina nel profondo i rapporti tra i poteri dello Stato e indebolisce le esigenze di garanzia dei cittadini”. Insomma, il clima è teso e verrà sicuramente fuori dalla riunione del parlamentino dell’Anm che si terrà domani, sabato 15 giugno, a Roma. Tra i vari aspetti critici sollevati dalla magistratura c’è proprio un profondo senso di delusione nei confronti dell’avvocatura. Le toghe, infatti, sostengono, come emerso anche da diverse interviste fatte su questo giornale, che l’avvocatura non riesce a capire che un pm separato è un danno per tutti a partire dagli avvocati e dai diritti dei loro assistiti e che questa riforma finirebbe per creare una figura di pubblico ministero completamente alienato dalla cultura delle garanzie e del giusto processo. Ma intanto non si è fatta attendere la risposta degli avvocati. “Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, assieme ad altri sette Ordini distrettuali, ha espresso soddisfazione per l’avvio del dibattito pubblico sulla separazione delle carriere ed ha affermato di volersi impegnare perché il piano del confronto sia informato, professionale ed equilibrato, avendo a riguardo i valori costituzionali ed ordinamentali, anche allo scopo di poter orientare il pensiero dei cittadini in una logica di consapevolezza democratica. A fronte di un impegno laico ed equilibrato che propone il metodo dialettico come luogo della formazione delle convinzioni, spiace leggere la presa di posizione immediata e pubblica del Dottor Scalabrini sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna. Nella sua lunga missiva la tesi sulla separazione delle carriere viene attribuita a Licio Gelli e non già a una parte significativa dei padri costituenti, e si vagheggia una resistenza sulla linea del Piave. È un peccato che tali impropri richiami finiscano per avere come conseguenza solo il piccato rifiuto a quei momenti di conoscenza, confronto e valutazione democratica che l’avvocatura istituzionale si è impegnata a garantire e che evidentemente sono vissuti da alcuni come un elemento di preoccupazione nei confronti dei quali esprimere ostilità e rigetto. Non può invece esservi pericolo nel dibattito e l’avvocatura Bolognese sarà sempre lieta di creare occasione di discussione con chiunque voglia ritenere che la dialettica sia la modalità corretta per assumere scelte democratiche”. Sulla separazione delle carriere il dibattito è solo ideologico: così diventa uno scontro sterile di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2024 Nel contesto delle moderne democrazie costituzionali, la figura del pubblico ministero non suscita dubbi circa la sua esistenza, ma piuttosto pone interrogativi riguardo il possibile impiego politico degli strumenti processuali penali. Questa critica è figlia di un’eccessiva ipertrofia legislativa, che mina la riserva di legge in ambito penale e propende per un suo utilizzo come strumento simbolico, piuttosto che come ultima ratio di protezione. Tale fenomeno espande in modo preoccupante la discrezionalità del Giudice e ancor più quella del pm, il quale viene talvolta percepito come un “decisore politico”. In tal senso, si osserva come il potere giudiziario tenda ad assumere un ruolo antagonista tanto nei sistemi anglosassoni quanto in quelli come il nostro. Tuttavia, se negli Stati Uniti tale tendenza si manifesta nell’ambito costituzionale e civile, in Italia si estende al diritto penale, tradizionalmente distaccato dalle conquiste sociali. Un elemento distintivo, nel confronto con altri ordinamenti democratici, è però la reazione significativa, da parte delle altre istituzioni, alla magistratura che è contrastata da tentativi di delegittimazione attraverso i media, dove si assiste a esempi di fallacie logiche. Dalla fallacia dell’equivalenza, per cui le riforme sulla giustizia ne peggiorano l’efficienza senza una correlazione causale diretta, alla fallacia dell’autorità - citando Giovanni Falcone - senza argomentazioni valide, alla fallacia della generalizzazione affrettata, equiparando il pm a una figura quasi deificata, senza considerare la varietà di responsabilità che ha nella giustizia penale; fino alla fallacia dell’ignoranza deliberata, dove si parla di giustizia indipendente ed efficace ma si propone una struttura che potrebbe compromettere l’indipendenza della magistratura. Questo scenario rafforza un’immagine di conflitto marcato all’interno del sistema istituzionale e una visione manichea del rapporto tra politica e giustizia, delegittimandole entrambe. Tale contrasto, naturale in ogni sistema basato sulla separazione dei poteri, in Italia assume toni ideologici che ostacolano la legittimazione reciproca e inducono gli operatori a schierarsi, sostituendo un’utile dialettica istituzionale con uno scontro sterile. A questa debolezza politica, caratterizzata da una crisi di identità e da un distacco dalla società, si contrappone una magistratura percepita come corporativa e incline a giustizialismi, talvolta vista come promotrice di una giustizia penalmente militante, intesa come strumento di “rigenerazione etico-politica”. Questa prassi, vista dai suoi detrattori come un tentativo di rispondere alle aspettative di una collettività indefinita, rischia di subordinare le garanzie dei cittadini a un’impostazione che confonde il diritto con la morale, e viene spesso percepita come un tentativo di sovvertire l’ordine sociale. In questa situazione, il pm è visto come un attore che può, se mal guidato, trasformare il processo penale in uno strumento di guadagno di prestigio e potere, piuttosto che di giustizia. Questi elementi patologici, secondo i critici, contraddicono l’idea di un sistema giuridico basato sul garantismo e violano il principio di legalità, producendo una situazione di illegittimità sistemica. È per tali motivi che, quando si parla del pubblico ministero come funzione di garanzia dei diritti dei cittadini, come nel mio caso, taluni reagiscono associandolo ad una visione “deificata” che può sembrare eccessiva e potenzialmente pericolosa, in quanto potrebbe portare a un accumulo di potere che sfugge al controllo democratico. Questo timore si intensifica pensando che alcuni pm, sfruttando la loro posizione centrale nel sistema giudiziario, possano apparire come arbitri supremi della giustizia. Invece, è essenziale ammettere che il pm, anche nel suo ruolo ideale, non è né un salvatore né un sovrano, ma un funzionario pubblico il cui compito principale è di agire entro i limiti della legge, garantendo l’imparzialità e la correttezza del processo giudiziario. D’altra parte, accettare senza critica le posizioni dei detrattori porta alla conseguenza della continua erosione delle sue funzioni, come dimostrano le recenti riforme nel sistema giudiziario italiano, inclusa la riforma Cartabia che, pur mirando a un’efficienza maggiore e a una riduzione della congestione dei tribunali, ha ridimensionato il ruolo del pm, concentrando in una sola fase carriere precedentemente più segmentate. Tale centralizzazione, acuita dal disegno di legge costituzionale recentemente approvato, limita la diversità di esperienze e prospettive all’interno della magistratura, potenzialmente riducendo l’efficacia del sistema giudiziario nel suo complesso. E tuttavia, non è questo il punto, bensì è la “signoria delle informazioni” il vero convitato di pietra delle riforme. L’accesso e il controllo delle informazioni sono fondamentali in ogni processo legale, e la concentrazione di tale potere nelle mani di un singolo ente o figura solleva preoccupazioni e spaventa. Questo è il motivo per cui alcuni poteri forti esprimono resistenza di fronte a ciò che potrebbe ulteriormente consolidare questo potere a loro scapito. Come ho sostenuto precedentemente, le proposte di riforma come la separazione delle carriere, con l’obiettivo di creare barriere e impedire conflitti di interesse, in realtà minano l’imparzialità del sistema giudiziario dove il pm diventa un “giudice e parte”. Al contrario, andrebbe affrontata l’urgente necessità di ripensare il suo ruolo riconfigurandolo come un’istituzione di garanzia fondamentale per la tutela dei diritti, che non è idealizzazione bensì comprensione approfondita delle diverse funzioni e modelli organizzativi. Formulare un concetto di pm efficace, imparziale e adeguato alle sfide delle democrazie costituzionali contemporanee è essenziale per preservarne il ruolo di difensore degli interessi della società e promotore di una giustizia equa e trasparente a partire dalla sua degerarchizzazione. Solo così si può assicurare che la funzione rimanga quella di un custode dei principi democratici e non quella di un potere incontrastato, che proprio nella separazione delle carriere potrebbe trovare spazio. Bisogna evitare di cadere in una delle più comuni fallacie ideologiche, quella etico-legalista, che confonde la giustizia delle norme con la loro validità, impedendo di riconoscere l’esistenza di norme ingiuste pur se valide. Il risultato di questa operazione razionale dovrebbe essere la formulazione di un archetipo minimo essenziale perché si parli di Stato democratico, oltre il quale si avrà sempre, perché no, ma solo successivamente, la sovrana libertà di concepire e organizzare a proprio modo tale funzione. *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Tutti ce le invidiano, però nessuno le vuole: basta misure di prevenzione! di Tullio Padovani* L’Unità, 15 giugno 2024 In Italia abbiamo una presenza sempre più invadente, sempre più pericolosa, e sempre più silenziosa, nel senso che se ne parla poco, troppo poco o non se ne parla affatto. Magari se ne occupano i giornali che curano di più gli aspetti della giustizia ma che sono letti da pochi. I grandi giornali non dedicano nessuno spazio a un problema che viceversa costituisce un vero e proprio cancro del sistema giuridico italiano. Parlo delle misure di prevenzione, soprattutto delle misure di prevenzione patrimoniali e delle cosiddette interdittive antimafia. Si tratta di un meccanismo diabolico che ha un carattere eversivo, del quale non percepiamo la portata perché agisce un po’ dietro le quinte. Ogni tanto emerge nelle cronache - hanno portato via il patrimonio di Tizio, di Caio, di Sempronio - però la cosa non fa scandalo. C’è stato un recente processo a Palermo a carico di un magistrato che operava nel settore delle misure di prevenzione e allora della cosa si è parlato. Ma la sostanza del fenomeno non è ancora percepita, sembra che non sia un problema. Eppure, in Sicilia, credo che la stessa economia dell’isola sia condizionata dall’esistenza delle misure di prevenzione. Non so se tutti hanno la nozione di che cosa siano e cercherò di riassumerlo brevissimamente. Sono uno strumento antico. In Italia non ci facciamo mancare mai niente, siamo buoni inventori di questi strumenti che dietro il paravento della legalità la violano e la tradiscono completamente. Figuratevi che le misure di prevenzione cominciano a esistere con il Piemonte Sabaudo, col Regno di Sardegna, prima che arrivasse l’Italia, per far fronte a una emergenza delle prime guerre d’indipendenza. C’erano gli esuli lombardi, masse di persone, necessità di controllarle. Erano misure legate alla possibile pericolosità di certi soggetti, quindi, alla necessità di particolari forme di sorveglianza di polizia, domicili vincolati in certe località. Di patrimoniale non c’era ancora niente d’importante, ma c’era anche questo e riguardava i cosiddetti furti campestri, che all’epoca erano una piaga nelle campagne. Allora, cosa succedeva? Succedeva che se a un contadino trovavano nella stalla degli attrezzi, dei materiali, delle merci di cui non riusciva a giustificare la provenienza in modo esauriente, glieli sequestravano perché sospetti di essere il frutto di un furto. Sospetto di essere provenienti da un furto, ma c’era il furto o no? Perché se c’era è certo che bisognava portarglieli via, ma se non c’era? C’era, non c’era: quanti problemi… Si sospetta che ci fosse e nel dubbio è meglio portarli via, così siamo sicuri. Siamo andati avanti così nel corso degli anni sempre con nuove emergenze. Perché dopo l’unità d’Italia abbiamo avuto il banditismo, il cosiddetto banditismo nell’Italia meridionale che era semplicemente una forma di grave disagio per una unità piuttosto problematica. Poi abbiamo avuto lo sviluppo industriale, quindi l’emergere di una classe pericolosa nuova, gli operai che si coalizzavano, i primi scioperi e, quindi, anche in questo caso, misure di prevenzione. Siamo andati avanti così fino alla Costituzione Repubblicana. La Costituzione non parla di misure di prevenzione, non ne parla. All’Assemblea Costituente il problema non fu affrontato. Però le misure continuavano a essere previste nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza emanato durante il fascismo. Entrata in vigore la Costituzione Repubblicana, la questione passò alla Corte Costituzionale: ma queste misure sono compatibili con la Costituzione Repubblicana? Siccome si trattava di misure solo personali, l’ammonizione, il soggiorno obbligato, nei confronti per lo più di soggetti recidivi che erano già stati condannati e che si poteva sospettare fossero pericolosi, insomma, misure ristrette in una nicchia di soggetti particolarmente qualificati, la Corte Costituzionale con due celebri sentenze le sdoganò chiedendo solo che ci fosse la garanzia del giudice, di un giudice che controlla. Ma controlla cosa il giudice? Se la base per applicarle è il sospetto poi il giudice come fa a verificare il sospetto? Se verificasse il sospetto, cioè scoprisse che hai commesso dei reati ti dovrebbe condannare, se no il sospetto si limita a ratificarlo sulla base di quello che gli dice il rapporto di polizia. E siamo andati avanti così. Poi, ci siamo accorti che in Sicilia c’era la mafia ed è intervenuta la legislazione antimafia. Con la legge del 65, abbiamo scoperto che in Sicilia c’era la mafia. Per la verità c’era già da almeno 150 anni come minimo, però noi arriviamo sempre in ritardo e introduciamo una legislazione che rafforza un po’ la legislazione precedente. Ma di misure patrimoniali ancora non si parla. Successivamente, passo dopo passo, passettin passettino, si arriva anche alle misure patrimoniali. Percorrere questa serie di passaggi sarebbe anche interessante ma diciamo che si dividono in due fasi. Una prima fase vede coinvolti soltanto i sospetti di appartenere ad associazioni mafiose. Già questo: visto che si era introdotto il reato di associazione mafiosa, se uno lo sospetti, allora, lo dovresti condannare, perché o hai le prove o non le hai. No, non ho le prove per condannarlo, però per sospettarlo sì. E quindi si comincia a entrare in una logica per la quale si dice: una volta che lo sospetto di appartenere ad associazioni mafiose, anche i soldi che ha vengono investiti dallo stesso sospetto. Fin lì rimaniamo in tema di lotta alla mafia sicura sia pure con strumenti che vengono definiti eccezionali, ma sapete com’è: la mafia, la mafia, la mafia, con la mafia si giustifica tutto. Poi, abbiamo fatto il salto della quaglia e le misure di prevenzione patrimoniale si applicano senza distinzione di appartenenza o non appartenenza alla mafia. Il problema è: questi soldi tu sei in grado di dimostrare da dove li hai presi? Perché se non sei in grado di dimostrarlo te li porto via. Te li porto via se ho qualche sospetto che non siano puliti. Si tratta del patrimonio, spesso può essere frutto dell’eredità… la misura di prevenzione si applica lo stesso, anche dopo la morte del sospettato, nei confronti degli eredi. Tu dimostrami che sono puliti, dimostramelo. Allora tu dici: noi viviamo in Italia, abbiamo evaso, abbiamo fatto i condoni fiscali, effettivamente non ci siamo comportati bene ma è un’evasione fiscale. E il legislatore dice: no, questo non vale, te lo scrivo nella legge. Non mi devi venire a raccontare che hai evaso perché questo non mi serve, l’evasione non esiste, non esiste come fonte di produzione del reddito. Se hai evaso non puoi dire che hai evaso perché io non ti ascolto e non mi interessa e a questo punto considero convalidati i sospetti per cui ti porto via tutto. In questo modo si sono rovinati interi compendi industriali. Qui l’alternativa è secca: se i soldi provengono da reato è chiaro che devono essere confiscati, ma bisogna provarlo. Se non si prova, non ci si può basare sul sospetto perché nel sospetto ci sta chi per avventura è effettivamente nella condizione di vedersi portare via tutto e chi invece non lo è affatto. Io personalmente ho conosciuto persone della cui integrità non dubito che sono state letteralmente rovinate da un meccanismo divoratore spietato. E se ti portano via tutto non ti lasciano neanche i soldi per difenderti. Io li difendevo gratis perché non avevano di che pagarmi in quanto gli avevano preso tutto e messi anche nella condizione di non difendersi. Non parliamo poi delle interdittive antimafia: se nell’azienda c’è qualcuno che è sospettato di avere collegamenti di qualunque tipo - un parente, un amico - con un sodalizio mafioso, scatta l’interdittiva antimafia. Allora, non lavori più, sei escluso da tutto, è la fine. Si è creato un comparto di economia che è gestito come una, io l’ho definita: “manomorta giudiziale”. Un tempo c’era la “manomorta ecclesiastica”, cioè il patrimonio dato agli ecclesiastici che serviva per mantenere ordini religiosi, congregazioni o quel che sia, ma che non era attività produttiva, era un’attività di mero sfruttamento parassitario dell’economia, cioè beni che non producevano ricchezza. E l’abbiamo ricostituita, la manomorta, perché su questi sequestri poi si sviluppa un’economia tossica, parassitaria, con burocrati che gestiscono patrimoni senza averne le competenze, senza averne la capacità, persone magari professionalmente anche serie - non sempre serie, il processo di Palermo ha dimostrato ampiamente che c’erano tante pecorelle nere, ma mettiamo che sono tutte pecorelle bianche, anche così, non basta essere onesti per fare l’imprenditore, bisogna essere imprenditori. Siccome questi non lo sono, quando alla fine si scopre - qualche volta si riesce persino a scoprirlo - che tutto sommato i sospetti erano infondati, ecco che allora si restituiscono le aziende cariche di debiti e pronte per il fallimento. Operazione di distruzione della ricchezza. In Sicilia ci sono degli esempi illustri, come quello dei fratelli Cavallotti, che ora per fortuna sono finiti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo che si accinge a decidere. E io mi auguro che la Corte Europea ci dia una bella scrollata perché noi abbiamo bisogno di una bastonata in testa, se no, non ci svegliamo dal torpore e spesso non basta neanche quella. Però ora il cittadino italiano ha un’arma visto che l’Europa è una sponda di legalità per noi. I sostenitori delle misure di prevenzione dicono che sono la cosa più bella del mondo, che tutti ce le invidiano, che è il modo migliore per affrontare i problemi della criminalità. Insomma, abbiamo la panacea di tutti i mali. Ma sta di fatto che nessuno si azzarda a introdurre simili istituti nel proprio ordinamento e, anzi, la Corte Europea ha cominciato a guardarle per quello che sono: dei mostri giuridici. Le misure di prevenzione sono una materia europea in quanto incidono sull’economia del nostro paese, sono fattori di alterazione della concorrenza, introducono elementi distorsivi, poderosi, ci intossicano. Le misure di prevenzione sono la violazione più manifesta, più conclamata, più intollerabile, più assurda, più vergognosa del diritto europeo. Mi auguro che il passaggio che dovrebbe essere alle porte sia quello di cominciare a eliminare questi mostri e ristabilire le condizioni di legalità nel nostro paese. *Presidente d’Onore di Nessuno tocchi Caino In ricordo di Enzo Tortora una stele nel luogo in cui l’odissea ebbe inizio di Francesca Spasiano Il Dubbio, 15 giugno 2024 Oggi l’inaugurazione davanti all’Hotel Plaza di Roma, 41 anni dopo il clamoroso arresto del conduttore a favore di telecamere. La compagna Francesca Scopelliti: “Un atto di memoria”. “Roma ricorda il giornalista e personaggio televisivo Enzo Tortora qui arrestato nel 1983 per accuse infondate poi assolto in via definitiva dopo anni di detenzione e di coraggioso impegno per una ‘giustizia giusta’”. È un tributo ma anche un monito quello che il Comune di Roma ha voluto dedicare al conduttore tv quarantuno anni dopo quel terribile 17 giugno 1983. Ovvero il giorno che ha dato inizio al “caso Tortora” con il clamoroso arresto a favore di telecamere all’Hotel Plaza di Roma. Per trasferirlo nel carcere di Regina Coeli, i militari aspettarono che fosse mattina, per garantire a cameramen e fotografi un posto in prima fila per riprendere il presentatore con i ceppi ai polsi, in quella “passerella della vergogna” che entrò nelle case di tutti gli italiani. Una giornata buia, per la giustizia italiana, la peggiori che si ricordi. Che ora resta incisa su una stele commemorativa inaugurata oggi davanti all’albergo dove il giornalista alloggiava. A svelarla ci sono Francesca Scopelliti, compagna di vita e presidente della Fondazione Tortora, l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli e, in rappresentanza del Comune, la presidente del primo municipio Lorenza Bonaccorsi e l’assessore alla cultura Miguel Gotor. “Se Tortora è morto giovane e inaspettatamente colpito da una malattia terribile è certamente per il dolore che ha avuto. E dunque che la capitale d’Italia oggi gli dedichi un’iscrizione che ricorda non solo la sua innocenza, ma il valore di questa battaglia che ha condotto in nome di tutti noi italiani, è un fatto di straordinario valore”, dice Rutelli dal palco allestito nella piazzetta davanti all’albergo. Il riferimento è alla dolorosa vicenda umana e giudiziaria che portò il conduttore a battersi per una giustizia migliore fino alla sua morte nel 1988. Insieme a Marco Pannella, con i referendum “traditi” sulla responsabilità civile dei magistrati e con ogni altro mezzo, denunciando ogni giorno la gogna e il massacro mediatico che lui ed altri avevano subito. Una “giustizia politica”, la definisce Rutelli, senza trascurare la responsabilità dei giornalisti che coprirono di fango un collega condannato prima di ogni verdetto. Enzo Tortora, passato in un attimo dall’essere l’amatissimo volto tv di Portobello a “delinquente certo”, il più “antipatico” degli imputati sul cui capo pendeva un’accusa infamante: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il suo nome lo avevano tirato fuori i pentiti, e per il resto era bastato un pizzico di immaginazione: troppo ghiotta l’occasione di mettere in “copertina” di inchiesta un personaggio tv. Da lì, il processo mediatico che anticipò quello vero. Con la condanna a 10 anni in primo grado nel 1985. Quindi il ribaltamento nel 1986, in Corte d’Appello a Napoli, con la sentenza di assoluzione resa definitiva un anno dopo dalla Cassazione. Nel mezzo la candidatura al Parlamento Europeo con i radicali, su proposta dello stesso Rutelli, che ne ripercorre la vicenda ricordando “la battaglia e la dignità cristallina” di chi come Tortora rinunciò all’immunità parlamentare per dimostrare la propria innocenza. “Quarant’anni sono tanti, sono molti perché sono stati muti”, scandisce Francesca Scopelliti. Che quei giorni della vergogna li ha vissuti uno per uno, accanto ad Enzo, dalla custodia in carcere, ai domiciliari, fino alla fine. “Se un paese non riesce a fare tesoro di una vicenda per correggere quelle distorsioni che l’hanno caratterizzato, vuol dire che tutta quella storia è stata inutile. Perché alla vicenda di Enzo Tortora non hanno saputo porre rimedio”, prosegue Scopelliti. Che quel “crimine giudiziario” avrebbe voluto farlo analizzare come si fa con un corpo sul tavolo dell’autopsia: per analizzare le cause e porvi rimedio. Invece questo non l’ha fatto nessuno, ribadisce Scopelliti. Che lunedì, in occasione dell’anniversario dell’arresto, prenderà parte alla maratona oratoria organizzata dall’Unione camere penali e dai penalisti romani insieme alla Fondazione Tortora. L’appuntamento è a Largo San Carlo al Corso, dalle ore 10.30. Parleranno avvocati, giornalisti, politici, amici. E anche l’ex giudice Tullio Morello, colui che con la sua relazione spianò la strada all’assoluzione. Saranno loro, ancora una volta, a dare voce a Enzo Tortora. Le cui parole risuonano ancora, tra le pagine del libro “Lettere a Francesca” che Scopelliti tiene stretto tra le mani. Ne legge un passo, prima di svelare la stele che da oggi resterà radicata nel cuore di Roma come un “atto di memoria”. Come una spina che sanguina ancora: “Qui è tutto infinitamente difficile, burocratico, lunare. Mi tiene in piedi solo la volontà di dimostrare a quelli che amo di essere innocente e di uscirne a testa alta. Ma è stato atroce, Francesca, uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella con altri cinque disperati, non so capacitarmi e trovare un perché, una ragione. Trovo solo un muro di follia. E se è possibile questo, Francesca, è possibile tutto”. Azione dimostrativa contro l’export di armi alla Turchia, pompiere accusato di terrorismo di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 giugno 2024 “In decenni di detenzione nel carcere speciale non avevano mai visto un Luigi Spera”. Chissà cosa hanno pensato i sette brigatisti all’ergastolo che, insieme a un anarchico, sono tumulati nella sezione di alta sorveglianza della casa di reclusione San Michele, ad Alessandria. Certo alcuni riflessi dello scorrere del tempo e dei cambiamenti globali arrivano anche in quelle celle singole da tre metri quadrati. Così negli ultimi tempi hanno visto passare soggetti accusati di jihadismo o terrorismo internazionale. Mai, però, uno che dicesse: “Sono un pacifista e voglio tornare a fare il vigile del fuoco”. Le parole le riferisce il deputato di Alleanza verdi sinistra Marco Grimaldi, che la scorsa settimana è entrato nella prigione piemontese per andare a trovare Spera. Il pompiere siciliano ci è finito il 13 aprile, accusato di “atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” e “istigazione a delinquere con finalità di terrorismo”. Parole grosse. I fatti, invece, dicono che la sera del 26 novembre 2022 nella sede della Leonardo di Palermo un gruppo di sette persone lancia un fumogeno e del materiale incendiario. Causando un piccolo incendio nella zona esterna all’edificio. Due giorni dopo Antudo, movimento indipendentista legato alla sinistra antagonista dell’isola, pubblica il video dell’azione sui suoi canali social, spiegandone le ragioni: è una protesta contro l’azienda italiana “produttrice di morte” perché vende le sue armi alla Turchia. Proprio in quel periodo Erdogan aveva ordinato di ricominciare a bombardare i curdi in Siria e Iraq, causando decine di morti e ingenti danni alle infrastrutture civili. Gli inquirenti si mettono subito al lavoro. Analizzano il contenuto di un sacchetto di plastica lasciato sul posto. Dentro trovano un contenitore con liquido infiammabile e tracce di dna. Passano in rassegna tutte le telecamere della zona e andando a ritroso vedono da dove è arrivato il gruppetto. Identificano un motorino e due macchine. Una ha dentro un dispositivo gps. Sarebbe partita da una strada adiacente al centro sociale Ex Carcere. La polizia risale la corrente dei canali social: dagli account all’indirizzo ip, fino al dispositivo che ha postato il video. Esamina i gruppi whatsapp e telegram che gli attivisti usano per comunicare tra loro. Alla fine nel registro degli indagati finiscono sei nomi. La posizione più complicata è quella del vigile del fuoco, contro cui depongono una serie di indizi: la proprietà dell’auto, alcune foto di un libro citato dal comunicato custodite nel telefono, il codice genetico. Questi elementi sono affiancati al profilo militante di Spera: è finito a processo per azioni antifasciste contro sedi ed esponenti di Forza nuova e alcuni reati di piazza. A giugno 2023 lui e gli altri indagati ricevono una perquisizione. La procura formula i reati e ipotizza l’aggravante terroristica perché, sostiene, l’azione ambiva a influenzare il comportamento della Leonardo e quello dell’Italia, oltre a intimidire la popolazione. Nel marzo 2024 il gip dispone due obblighi di firma e un arresto: il vigile del fuoco finisce nel carcere Pagliarelli di Palermo. Il magistrato ritiene che ci siano indizi di colpevolezza, contestati dalle difese, ma esclude la finalità eversiva: non basta la potenziale pericolosità dell’evento ma questo deve indurre timore e paura nel soggetto passivo. Evidentemente l’azione di Antudo non ha avuto questo effetto né sul dodicesimo produttore mondiale di armi e primo a livello europeo, né su uno degli Stati membri del G7. Così il reato viene riqualificato: escluso il terrorismo, resta l’articolo 423. Ovvero incendio, crimine che prevede comunque pene alte, tra tre e sette anni. Ricorrono sia la difesa che la procura. Una chiede la scarcerazione, l’altra contesta la riconfigurazione del reato. Il tribunale del riesame dichiara inammissibile la prima impugnazione, rispetto alla seconda si spinge oltre: conferma l’accusa di atto terroristico e aggiunge tale aggravante anche all’altra ipotesi di reato, quella di istigazione a delinquere. “Gli elementi probatori non sono tali da stabilire con certezza la compartecipazione all’evento, ma questo si vedrà nel dibattimento - afferma Giorgio Bisagna, difensore di Spera -. Ora il punto è la qualificazione giuridica dei fatti. C’è una granitica giurisprudenza della Cassazione, che ha riguardato anche i processi ai No Tav, che esclude possano essere considerati attentati terroristici quelli in cui manca l’idoneità a cambiare l’orientamento politico della struttura verso cui sono indirizzati”. La differenza, come è facilmente intuibile, non è di poco conto. Specialmente in Italia, con le leggi speciali introdotte a ondate negli ultimi 50 anni. “Quando entriamo nei reati di natura eversiva o terroristica si applica il doppio binario, sono equiparati a quelli di mafia - continua Bisagna, che questa settimana ha depositato il ricorso in Cassazione -. Si presume che il carcere sia l’unica misura applicabile. I termini della detenzione preventiva raddoppiano. Il regime peggiora”. Criptofonini, più snella l’acquisizione di chat di gruppo da autorità giudiziaria straniera di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2024 Per le S.U. della Cassazione, sentenza n. 23755 depositata oggi, l’Ordine europeo di indagine (O.e.i.) del Pubblico ministero non deve essere preceduto da una autorizzazione del giudice italiano. Importante e complessa decisione delle Sezioni unite (44 pagine) in materia di Ordine europeo di indagine (O.e.i.) con riguardo alla richiesta e trasmissione dei contenuti di comunicazioni attraverso i “critpofonini” (smartphone con un particolare software). Se esse sono già stata acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa - chiarisce la Cassazione, sentenza n. 23755 depositata oggi -, la richiesta di O.e.i. da parte del Pubblico ministero non deve essere preceduta da autorizzazione del giudice italiano. E la ragione è che una simile autorizzazione, nell’ordinamento italiano, non è richiesta per l’acquisizione del contenuto di comunicazioni telefoniche già acquisite in altro procedimento perché il vaglio giurisdizionale è comunque già avvenuto. Di conseguenza, nel nostro sistema processuale, il pubblico ministero può acquisire da altra autorità giudiziaria dati relativi al traffico o all’ubicazione, concernenti comunicazioni effettuate da un utente di un mezzo di comunicazione elettronica, senza dover chiedere preventiva autorizzazione al giudice competente per il procedimento nel quale intende utilizzarli, e ciò in forza dei principi generali dell’ordinamento e in difetto di regole o principi di segno diverso nella materia. La disciplina più restrittiva sulla acquisizione dei dati si applica invece alle richieste rivolte ai fornitori del servizio, ma non nei casi in cui sia un’altra autorità giudiziaria a detenerli. La loro utilizzabilità però deve comunque essere esclusa se il giudice italiano rileva una violazione dei diritti fondamentali. Tale non è però l’impossibilità della difesa di accedere all’algoritmo di criptazione utilizzato. Cosa sono i criptofonini - Inoltre, l’ordinanza di rinvio (n. 47798/2023) chiarisce cosa si intende per criptofonini, e cioè: dispositivi smartphone che utilizzano un hardware standard, in genere Android, BlackBerry o IPhone, al quale è abbinato un software contenente un sistema operativo dedicato, che disabilita i servizi di localizzazione (GPS, Bluetooth, fotocamera, scheda SD e porta USB). Precisa, poi, che, per effetto dell’attivazione del software in questione, le chiamate rimangono attive solo in modalità Voice over IP (VoiP), perché non si appoggiano alla rete GSM ed impiegano applicazioni proprietarie e criptate (ad esempio: Encrochat, Sky-ECC, Anom, Nolbc), le quali utilizzano reti diverse dalla normale rete telefonica e sono crittografate ad una cifratura a più livelli. Segnala, ancora, che le comunicazioni intercorse a mezzo dei criptofonini non sono salvate su un server pubblico: i backup vengono salvati sul dispositivo criptato e su di un server dedicato messo a disposizione degli utenti dalla compagnia che fornisce il servizio. Evidenzia, quindi, che anche la S.I.M. da utilizzare per attivare il software in questione è particolare e dedicata, in quanto si connette esclusivamente alla rete di server predisposta dal fornitore del servizio. Doglianze infondate - Sono state dunque considerate infondate le censure formulate dai ricorrenti, imputati in un procedimento per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, che contestavano l’utilizzabilità dei dati informatici relativi alle comunicazioni attraverso il sistema criptato Sky-Ecc. I ricorrenti infatti deducevano la mancata acquisizione degli originali dei file e delle chiavi di decifrazione, il difetto dei presupposti per l’emissione di un O.e.i., in particolare per la mancanza di un preventivo provvedimento del giudice italiano, la violazione dei principi fondamentali, anche per il carattere generalizzato ed indifferenziato delle attività di captazione e di apprensione dei dati effettuata dall’autorità estera. I prinipi di diritto affermati - La Suprema corte ha bocciato tutte le esposte doglianze affermando i seguenti principi di diritto: “La trasmissione, richiesta con ordine europeo di Indagine, del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 234-bis cod. proc. pen., che opera al di fuori delle ipotesi di collaborazione tra autorità giudiziarie, bensì nella disciplina relativa alla circolazione delle prove tra procedimenti penali, quale desumibile dagli art. 238 e 270 cod. proc. pen. e 78 disp. att. cod. proc. pen.”. “In materia di ordine europeo di indagine, le prove già in possesso delle autorità competenti dello Stato di esecuzione possono essere legittimamente richieste ed acquisite dal pubblico ministero italiano senza la necessità di preventiva autorizzazione da parte del giudice del procedimento nel quale si intende utilizzarle”. “L’emissione, da parte del pubblico ministero, di ordine europeo di indagine diretto ad ottenere il contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, non deve essere preceduta da autorizzazione del giudice italiano, quale condizione necessaria a norma dell’art. 6 Direttiva 2014/41/UE, perché tale autorizzazione, nella disciplina nazionale relativa alla circolazione delle prove, non è richiesta per conseguire la disponibilità del contenuto di comunicazioni già acquisite in altro procedimento”. “La disciplina di cui all’art. 132 d.lgs. n. 196 del 2003, relativa all’acquisizione dei dati concernenti il traffico di comunicazioni elettroniche e l’ubicazione dei dispositivi utilizzati, si applica alle richieste rivolte ai fornitori del servizio, ma non anche a quelle dirette ad altra autorità giudiziaria che già detenga tali dati, sicché, in questo caso, il pubblico ministero può legittimamente accedere agli stessi senza chiedere preventiva autorizzazione al giudice davanti al quale intende utilizzarli”. “L’utilizzabilità del contenuto di comunicazioni scambiate mediante criptofonini, già acquisite e decrittate dall’autorità giudiziaria estera in un procedimento penale pendente davanti ad essa, e trasmesse sulla base di ordine europeo di indagine, deve essere esclusa se il giudice italiano rileva che il loro impiego determinerebbe una violazione dei diritti fondamentali, fermo restando che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione grava sulla parte interessata”. “L’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo utilizzato nell’ambito di un sistema di comunicazioni per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, ed una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente”. Sardegna. Consiglio regionale, la seconda commissione effettuerà sopralluoghi in tutte le carceri La Nuova Sardegna, 15 giugno 2024 La decisione del parlamentino presieduto dalla consigliera Camilla Soru. La commissione Cultura e Lavoro del Consiglio regionale della Sardegna, presieduta da Camilla Soru (Pd), effettuerà sopralluoghi in tutte le carceri della Sardegna. È stato deciso nell’ultima seduta del parlamentino e condiviso con la Presidenza del Consiglio regionale. “Vogliamo verificare con i nostri occhi - ha affermato la presidente Soru - le condizioni in cui si trovano le strutture, i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. Vogliamo dare dignità alle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e capire in che modo sia possibile migliorare le loro condizioni di vita all’interno del carcere. Vorremo, inoltre, promuovere ogni iniziativa utile per la riabilitazione dei detenuti affinché, una volta scontata la pena, possano reinserirsi nella società”. “Le carceri - ha proseguito la presidente Soru - sono piene di detenuti che sarebbero dovuti essere gestiti dal servizio sociale e che non sarebbero mai dovute entrare nel sistema carcerario, come le persone con dipendenze o con problemi psichiatrici. Credo - ha concluso - che analizzare lo stato delle carceri ci aiuterà anche a capire in cosa possiamo e dobbiamo migliorare all’esterno, non solo all’interno delle strutture”. Nella prossima seduta la Seconda commissione sentirà in audizione la Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Irene Testa, sull’attività svolta nel 2023. Biella. Gli negano i colloqui con la famiglia e gli tolgono la potestà genitoriale, lui si impicca ilbiellese.it, 15 giugno 2024 Tragedia nel carcere di Biella. Un detenuto, un uomo di 46 anni, origini romene, marito e padre, si è tolto la vita impiccandosi alla finestra della sua cella. Il suo corpo è stato rinvenuto ieri attorno all’una durante un ordinario passaggio di controllo da parte del personale di polizia penitenziaria. Poche ore prima aveva ricevuto comunicazione chi gli era stato negato l’avvicinamento alla famiglia, in Lombardia, e quindi gli venivano negati i colloqui con i familiari. Di più, gli veniva tolta la potestà genitoriale. È l’ennesima tragedia che colpisce le carceri italiane. A Biella l’ultimo suicidio in via Dei Tigli risale allo scorso anno. Le associazioni del Tavolo del Carcere per il prossimo sabato organizzeranno un presidio in via Italia. La garante dei diritti delle persone private della libertà personale Sonia Caronni dichiara: “Nelle carceri sono troppo poche le figure qualificate, psicologi, criminologi, psichiatri in grado di intercettare il disagio delle persone che si trovano a vivere in quel contesto”. Sulla vicenda interviene Vincente Santilli, segretario per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Immediatamente sono scattati i soccorsi nel disperato tentativo di salvargli la vita, ma a nulla sono valsi gli sforzi profusi”. Santilli aggiunge: “Per quanto si è potuto apprendere, si tratta di un soggetto ristretto da un paio di anni circa, che non è mai stato protagonista di intemperanze ed ha sempre osservato diligentemente le regole penitenziarie. Pertanto, nulla poteva far presagire una condotta autolesiva da parte sua”. Il sindacalista evidenzia che “episodi simili, in un certo modo, portano con se il fallimento del sistema penitenziario, talvolta incapace di intercettare il disagio dei più fragili che vedono nell’estremo gesto l’unica via d’uscita. Siamo costernati ed affranti: un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta per lo Stato e per tutti noi che lavoriamo in prima linea”. Per il Segretario Generale Donato Copece, si rendono sempre più necessari gli invocati interventi urgenti suggeriti dal Sappe per fronteggiare la costante situazione di tensione che si vive nelle carceri italiane: “Si potrebbe ipotizzare un nuovo sistema penitenziario articolato su tre livelli: il primo, per i reati meno gravi con una pena detentiva non superiore ai 3 anni, caratterizzato da pene alternative al carcere, quale è l’istituto della “messa alla prova”; il secondo livello è quello che riguarda le pene detentive superiori ai 3 anni, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma in istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare. Il terzo livello, infine, è quello della massima sicurezza, in cui il contenimento in carcere è l’obiettivo prioritario”. Capece aggiunge: “Nell’ambito delle prospettive future occorre dunque che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere, ipotizzando sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema, anche perché il sovraffollamento impedisce di fatto la separazione dei detenuti. E la polizia penitenziaria, che riteniamo debba connotarsi sempre più come polizia dell’esecuzione penale oltreché di prevenzione e di sicurezza per i compiti istituzionali ad essa affidati dall’ordinamento, è sicuramente quella propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative”. Castrovillari (Cs). “Maysoon Majidi è depressa e pesa 39 chili” di Antonio Clausi lacnews24.it, 15 giugno 2024 “Continua a chiedersi perché si trovi qui incolpata di qualcosa che mal si coniuga con i principi che hanno sempre ispirato la sua vita e che l’hanno costretta alla fuga”. È sempre più provata Maysoon Majidi, l’attivista curdo iraniana detenuta nel carcere di Castrovillari con l’accusa di essere una scafista. È per questo che il consigliere regionale Ferdinando Laghi è tornato a farle visita. Sia per valutare le condizioni di salute, dopo averla trovata assai provata la scorsa volta, in occasione dello sciopero della fame - nonostante l’ottimo trattamento riservatole in carcere - e da rappresentante delle istituzioni, alla luce della prossima udienza con giudizio immediato che si terrà il 24 luglio prossimo e sancirà per la Majidi l’inizio del processo vero e proprio. “Maysoon ha difficoltà ad alimentarsi, basti pensare che ora pesa solo 39 kg - ha detto Laghi al termine della visita - ma ciò che maggiormente mi preoccupa è lo stato di ansia e depressione in cui si trova. La giovane, in effetti, non si rende conto del perché sia sottoposta al regime carcerario, considerato che era in fuga da un regime repressivo che minacciava proprio la sua libertà e la sua stessa vita”. “Questa ragazza, di etnia curda, attivista per i diritti umani in Iran, giornalista e regista, continua a chiedersi perché si trovi ora accusata di un crimine terribile e infamante - continua Laghi - un’accusa, quella di essere una “scafista”, che mal si coniuga con i principi che hanno sempre ispirato la sua vita e che l’hanno costretta alla fuga; fuga resa possibile dalle elevate somme di danaro pagate dalla sua famiglia, per consentire a lei e al fratello, oggi in Germania, una vita più sicura e migliore. Certo una vicenda piena di lati oscuri, che richiedono di essere - e certamente lo saranno - adeguatamente approfonditi e valutati per giungere ad una giustizia giusta, celere e umana”. Padova. Sconta 12 anni di carcere, esce disperato. “Sono finito” di Edoardo Fioretto Il Mattino di Padova, 15 giugno 2024 Ex detenuto ha iniziato uno sciopero della fame e della sete: “Non ho casa, non ho un lavoro, non ho più nessuno”. Nel 2012 a Noale uccise la moglie a coltellate. Ha commesso un terribile delitto, ha ucciso la sua compagna, ma ha ammesso le sue colpe e pagato il conto con la Giustizia. E adesso? “E adesso, dopo 12 anni in prigione, non riesco più a riprendere in mano la mia vita. Sono un uomo finito”. Incontriamo quest’uomo smilzo sotto i portici di Palazzo Moroni, lo sguardo spento e le mani tremanti. E ai suoi piedi un cartello con cui informa che fa lo sciopero della fame e della sete. “Mi chiamo Pashko Gjelaj”, ci racconta quando ci sediamo accanto a lui, “ho 66 anni, vengo dall’Albania e negli ultimi 12 anni sono stato al Due Palazzi per omicidio”. Il suo passato da galeotto non è un segreto - Su una delle borse che tiene strette a sé e che di notte usa come materassi, ha scritto di suo pugno queste parole: “Ex detenuto, sciopero della fame e sete”. Perché dopo essere uscito dal carcere il mese scorso, si è ritrovato in strada, senza nessuno - sostiene - a cui chiedere una mano. Dalla famiglia, chiediamo, non l’aiuta nessuno? “Hanno giurato sulla Bibbia che mi avrebbero disconosciuto e non mi avrebbero mai più rivolto la parola. Perché ho ucciso mia moglie”. Ha gli occhi lucidi. Si schiarisce la voce e prosegue: “L’unico modo per evitare una faida tra famiglie era che io non ne avessi più una. Per mio padre e i miei fratelli non esisto più”. I fatti risalgono al marzo 2012 - È notte, e in centro a Noale avviene un efferato omicidio. Per gelosia - dirà la Corte d’Assise d’appello - Pashko uccide la moglie in strada con cinque coltellate, quindi la colpisce alla testa con un sasso. La donna, Hana, 46 anni, muore dissanguata in strada. L’uomo ammette di avere perso il controllo e viene condannato a 14 anni di carcere anche per effetto di una perizia che lo valuta semi-infermo mentale. “Per quei 30 secondi in cui ho perso me stesso, ho fatto finire due vite. Quella di mia moglie e la mia”, ci racconta allora Pashko dal marciapiede. Ieri, la mattina di Sant’Antonio, resta fermo lì tutto il giorno. Si muove solo la domenica, per andare a firmare in Questura dei documenti. “Ho l’obbligo di firma, per ragioni di sicurezza. Mi hanno detto che non posso lasciare Padova per il primo anno”, spiega. Pashko è stato rilasciato il 25 maggio dal Due Palazzi, e per qualche giorno ha cercato di riprendere in mano la sua vita. “Mi avevano dato dei riferimenti per avere aiuto in questi primi passi in libertà”, spiega l’ex detenuto. “Sarei dovuto andare in Psichiatria - aggiunge - per delle visite, ma non riescono a trovarmi un appuntamento. Ho cercato dei posti dove dormire, mi hanno indirizzato a strutture come la Casa a colori, ma non ho il denaro nemmeno per prendere il tram e andare in ospedale a questo punto. Non ho nemmeno un cellulare, userei le cabine telefoniche ma ho girato la città e ho visto che non ce ne sono più”. Molte cose sono cambiate da quando per Pashko si sono aperte le porte del carcere. “Ovviamente la prima cosa che ho fatto è stata provare a cercare lavoro. Ma ho 66 anni, e dopo 12 in prigione sento che è impossibile”. I parenti a Trebaseleghe non sono raggiungibili. Pashko non ha più i numeri di telefono da tempo, e dal Due Palazzi non hanno mai risposto alle chiamate. Impossibile andare a trovarli, non gli aprirebbero nemmeno la porta. “Lo hanno giurato sulla Bibbia”, ripete l’uomo, “stargli lontano è l’unico modo per evitare spargimenti di sangue”. Oggi il 66enne dice di sentirsi chiuse tutte le porte. “Ho fatto un errore gravissimo, ma oggi fatico a trovare qualcuno che mi voglia o possa dare una mano. Credo di avere pagato il prezzo delle mie azioni. Vorrei solo una seconda opportunità”. Milano. Detenuti evasi dal carcere Beccaria, rintracciato uno dei due ragazzi di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 15 giugno 2024 I due giovani sono evasi venerdì pomeriggio approfittando delle carenze della sorveglianza. È stato rintracciato dai carabinieri verso le 2.30 di sabato, alla stazione ferroviaria di Garbagnate Milanese, uno dei due detenuti minorenni evasi venerdì pomeriggio dall’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria di Milano. Si trovava a bordo di un treno diretto a Milano Cadorna. Il giovane, di 16 anni, avrebbe opposto resistenza ma è stato bloccato e arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e per il ripristino della custodia in carcere. È stato anche denunciato per l’evasione. Prima è stato portato all’ospedale San Carlo di Milano perché lamentava dolori al petto, poi nuovamente al Beccaria. Gennarino De Fazio, segretario del sindacato della polizia penitenziaria Uilpa, fa sapere: “Sono ancora in corso le ricerche dell’altro fuggiasco, ma siamo ottimisti. Non altrettanto ottimismo possiamo esprimere, invece, sulle sorti delle carceri per minori e adulti, che continuano a essere abbandonate a se stesse”. L’ultimo avvistamento dei due detenuti risaliva alle 17 di venerdì, a due passi dalla fermata Bisceglie, capolinea della linea rossa del metrò milanese. I due hanno scavalcato un paio di recinzioni e corso a perdifiato per oltre mezzo chilometro. Probabilmente poi hanno infilato le scale che portano sottoterra, per sparire nella confusione della massa di pendolari. Il più piccolo ha 16 anni. È nato in Italia da genitori marocchini e risiede nel Comasco. Era al Beccaria da neanche tre giorni. Rapina in concorso, recidivo: un anno, cinque mesi e quattro giorni ancora da scontare. Il più grande va per i 17. È marocchino. Anche lui vive in provincia di Como. È stato arrestato il 14 maggio, e da allora era in carcere per lo stesso reato del compare di fuga. Per scappare, i due giovani detenuti avrebbero approfittato delle carenze nella sorveglianza. Mentre erano in cortile, durante un momento all’aria aperta, nessuno li ha notati avvicinarsi al muro di recinzione; nessuno ha provato a fermarli mentre lo scavalcavano, pare aiutandosi con un palo usato come scaletta di fortuna; nessuno s’è accorto di quelle sagome che s’arrampicavano per il portone carrabile principale che s’affaccia su una via laterale, via Giovanni Spagliardi. Quello di venerdì è l’ultimo episodio che coinvolge il carcere minorile di Milano. A metà maggio, un detenuto aveva tentato di evadere, ma era stato riacciuffato dagli agenti della Penitenziaria poco fuori le mura. Era andata diversamente il giorno di Natale di due anni fa. In quel caso, a scappare furono in sette: furono tutti rintracciati in una manciata di giorni. Ci sono poi i recenti casi di rivolta. Il più grave il 29 maggio, con una ventina di ragazzi che devastano le celle, fino all’intervento degli agenti con caschi e scudi che li convincono a rientrare. Poco più di un mese prima era scoppiata l’inchiesta sul presunto sistema di pestaggi e torture sui detenuti, con l’arresto di tredici agenti della polizia penitenziaria, altri otto sospesi, tra cui l’ex comandante, e due ex direttrici indagate. Torino. “Il mio inferno nel carcere”: a giudizio 22 agenti accusati di tortura e lesioni di Giuseppe Legato La Stampa, 15 giugno 2024 Il racconto di un detenuto: “Mi hanno preso a calci, pugni e cinghiate”. Il processo è delicatissimo e - al netto della doverosa presunzione di innocenza per i 22 agenti imputati di torture e lesioni avvenute nel carcere di Torino tra il 2018 e il 2019 - le parole sono pietre. Non vi è altro modo di inquadrare la testimonianza del signor Condor Carhuallanqui, papà di una delle presunte vittime dei pestaggi: “Mio figlio è arrivato al colloquio, si è seduto dove sono io adesso, su una sedia. Ha iniziato a piangere a dirotto. Mi ha guardato dritto negli occhi: “Portami via da questo inferno papà, aiutami”. Era spaventato. Anche mia moglie in quel momento ha iniziato a piangere, però visto che lui era scosso gli ho detto di calmarsi e di stare tranquillo”. Il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta che ha scosso la casa Circondariale Lorusso e Cutugno portando alla rimozione, il 28 luglio 2020 - una volta divenuta pubblica l’inchiesta - dei vertici dell’epoca, incalza il testimone: “Ci ha raccontato subito che l’avevano picchiato il giorno precedente”. Dettagli duri da ascoltare: “Con pugni, calci, con la cintura. Mi ricordo bene, perché lui diceva che cercava di ripararsi la testa perché ha subito un’operazione in passato a causa di un incidente stradale”. Il brutale pestaggio di questo detenuto, ristretto nel padiglione riservato ai “Sex offender” (cioè coloro che hanno commesso reati a sfondo sessuale) sarebbe avvenuto - sostiene il papà in aula “nel momento che gli stavano facendo il trasferimento dal settore B al C”. “Ci ha raccontato che c’era un corridoio buio ed è lì che hanno iniziato a picchiarlo. A causa delle botte è caduto per terra, si è rialzato”. Gli agenti, in quel frangente, lo avrebbero irriso: “Tu l’hai picchiato a tuo figlio, tu l’hai picchiato a tuo figlio” gli avrebbero detto. “Non lo lasciavano parlare e lo colpivano”. Nel momento in cui la visita stava per terminare, il giovane detenuto ha accennato ad alzarsi la maglietta: “Mi ha detto: “Guarda papà, guarda! Portami via”. Ho visto un livido verde, una macchia di sangue per la ferita che aveva sul costato. Ho visto che mentre parlava anche con me, sul gomito aveva escoriazioni. Diceva che tutto il corpo gli faceva male”. Per incoraggiarlo prima del rientro in cella il papà gli ha consigliato “di leggere la Bibbia e cercare di stare tranquillo. Ma di non dire niente in quel momento”. Domanda del pm: “Cioè gli avete consigliato di denunciare?”. Risposta affermativa. Perché? “Per paura”. Gli avvocati Antonio Genovese ed Enrico Calabrese, legali di alcuni imputati, sollevano contestazioni rispetto ai verbali redatti all’epoca delle indagini preliminari. Legittimo. Poi tocca alla signora Calderon Soto Marta Elisabeth, mamma del detenuto: “Ripeteva continuamente che voleva uscire. Aveva paura di guardarmi negli occhi. Quando è arrivato al colloquio, aveva una faccia... si è seduto accanto a me, ha iniziato a piangere e ha raccontato tutto quello che gli è successo mentre lo stavano trasferendo. Lo hanno aggredito in un corridoio buio perché sapevano che lì non c’erano telecamere. E hanno cominciato a picchiarlo. Gli davano pugni e calci. Prima ha cercato di coprirsi la testa, poi ha lasciato la borsa che nel frattempo era caduta e ha iniziato a correre, a scappare, diciamo per avvicinarsi al punto in cui c’era una telecamera per farsi vedere. Loro, gli agenti, hanno voluto che tornasse a prendere le sue cose per terra”. Il processo è in corso e ulteriori testimonianze si stanno delineando. Una, che appare più centrale di altre, riguarda un ex poliziotto della penitenziaria (non indagato) chiamato dal pm a raccontare cosa sapesse di presunte botte e violenze dietro le sbarre quando era ancora in attività. Ha prestato servizio fino al 2019. C’è voluta tutta l’insistenza del pm e i richiami perentori del presidente del Collegio della terza sezione penale Paolo Gallo per fargli ammettere che era al corrente dell’esistenza “di una squadretta di agenti”, che in prima battuta, però, per il teste “facevano comunella”. Domanda: cosa intende con questa parola? “Nel senso delle cose che lei contesta”. Quindi picchiavano i detenuti? “Sì”. Altre contestazioni dei legali seguono, altri dubbi vengono sollevati sulla testimonianza. Ma il dato resta. Reggio Emilia. “Torture in carcere”. Dieci agenti a processo con rito abbreviato di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 15 giugno 2024 Avranno lo sconto di un terzo della pena: a fine giugno gli interrogatori. Otto di loro offrono mille euro a testa per risarcire. La parte civile: “Acconto”. Otto agenti della polizia imputati (sui dieci totali) hanno offerto un risarcimento di mille euro a testa al detenuto, un 44enne tunisino che, secondo la Procura, avrebbero sottoposto a tortura nel carcere di Reggio, episodio datato 3 aprile 2023. L’intenzione era stata preannunciata in maggio, ma la cifra è stata concretizzata ieri durante l’udienza preliminare davanti al giudice Silvia Guareschi, una mossa delle difese che, con ogni probabilità, è volta a cercare di ottenere un’attenuante. Nell’inchiesta del pm Maria Rita Pantani, scaturita dalla denuncia del detenuto e dall’analisi delle telecamere interne, si contestano un incappucciamento con una federa al collo, aggressioni fisiche e il, denudamento. Lui era stato sanzionato con l’isolamento per aver violato il regolamento e aveva ricevuto rapporti disciplinari anche in altri penitenziari. Altra novità emersa è che gli imputati saranno giudicati con l’abbreviato ‘secco’ , rito che comporta lo sconto di un terzo di pena nel caso di condanna. Il giudice Guareschi ha infatti ritenuto non necessaria la domanda delle difese di condizionare l’abbreviato all’ascolto del comandante della polizia penitenziaria allora facente funzioni, che era già stato sentito. Il gup ha anche respinto la richiesta di perizia medico-legale che era stata avanzata dal pm. È stato fissato poi al 24 giugno il giorno in cui gli imputati potranno sottoporsi all’interrogatorio, passaggio al quale tutti sembrerebbero essere intenzionati. Un paio di imputati, difesi dagli avvocati Federico De Belvis e Alessandro Conti, hanno deciso di non risarcire: la loro posizione appare in ‘stand by’ sull’accusa più grave. All’inizio per loro e per altri colleghi, il pm aveva chiesto la misura cautelare per la tortura. Per i due agenti il gip Luca Ramponi aveva però ritenuto che i gravi indizi sussistessero solo per l’accusa di falso nelle relazioni su quanto accaduto in carcere, ma la sua ordinanza poi fu impugnata dalla Procura al Riesame. Quest’ultimo tribunale ha confermato la valutazione di Ramponi, ma non ha ancora depositato le motivazioni. In attesa di questo passaggio, il pm ha stralciato per loro due l’accusa di tortura: quindi al momento davanti al gup rispondono solo di falso. Altro passaggio decisivo è previsto il 5 luglio, quando si terrà la requisitoria del pubblico ministero e delle parti civili; poi l’8 luglio sarà la volta delle arringhe difensive, infine è attesa la sentenza. L’avvocato Luca Sebastiani, che tutela il detenuto costituito parte civile, ha chiesto 180mila euro di danni: “La circostanza che una parte degli imputati abbia formalizzato un’offerta risarcitoria davanti al giudice è sicuramente in sé un fatto apprezzabile da più punti di vista - dichiara -.Tuttavia, dato che riteniamo l’offerta talmente esigua da non apparire neanche simbolica, abbiamo formalizzato di trattenerla come acconto sull’eventuale maggior danno che contiamo sarà riconosciuto dal giudice”. Sono costituiti parte civile anche il Garante nazionale e quello regionale dei detenuti, le associazioni Antigone e Yairaiha. Milano. Suicidi in carcere, maratona oratoria degli avvocati milanotoday.it, 15 giugno 2024 Gli avvocati milanesi chiedono di applicare la Costituzione, che prevede la funzione rieducativa della pena, e risolvere il sovraffollamento delle carceri. Una “maratona oratoria” di sei ore per “dare voce a tutti coloro che non possono parlare” e per provare a fermare i suicidi in carcere. L’iniziativa, indetta dalle Camere penali italiane e alla quale ha aderito l’ordine degli avvocati di Milano, è andata in scena davanti al Palazzo di giustizia nella giornata di venerdì, quando più voci si sono alternate per discutere delle condizioni dietro le sbarre. “La nostra Costituzione ha 76 anni e sono gli anni in cui l’articolo 27 è sostanzialmente disapplicato”, ha detto Antonino La Lumia, presidente dell’ordine degli avvocati di Milano: “C’è necessità di rispondere a esigenze di sicurezza, ma c’è soprattutto una necessità di rispondere a esigenze di umanità e di civiltà. Non possiamo pensare che lo Stato abdichi alla sua funzione di rieducazione; il carcere non può essere l’unica risposta”. Dall’inizio del 2024, sono 42 i suicidi in carcere. Gli ultimi due ad Ariano Irpino giovedì sera e a Biella nella notte di venerdì. Erano stati 70 nel 2023, addirittura 85 nel 2022. “In questo momento c’è un’emergenza che si vede plasticamente con il numero di suicidi abnorme”, ha commentato Valentina Alberta, presidente della Camera penale di Milano: “Ma il dato dei suicidi ci spinge ad andare oltre e a mettere il naso negli istituti penitenziari che vivono un momento di massimo sovraffollamento, le condizioni interne sono disastrose con 61.500 detenuti a fronte di 47mila posti effettivi. In Lombardia il sovraffollamento medio è del 156%: dove dovrebbero stare due persone, ce ne stanno tre”. Padova. “Un solo psichiatra per i detenuti e il 40% di loro avrebbe bisogno di cure” di Matilde Bicciato Corriere del Veneto, 15 giugno 2024 La situazione nelle carceri italiane è drammatica e il ritratto dell’attuale sistema punitivo ancora non è favorevole per tutti coloro che in questa struttura devono rieducarsi al fine di ritornare in società: queste le premesse che hanno aperto il convegno “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, l’incontro formativo organizzato dalla Camera Penale di Padova e dedicato all’analisi delle criticità che investono il sistema carcerario. Iniziato con il menzionare Giuliano Amato che chiede il numero chiuso all’interno delle carceri, il convegno ha trattato del sovraffollamento e dei suicidi, nonché mancanza di costanza nell’offerta dei servizi di tutela della salute mentale dei detenuti, quali gli incontri con i relativi funzionari giuridico-pedagogici o le visite approfondite con psicologi e psichiatri, figure fondamentali tanto nel corso della pena quanto al momento dell’entrata nella struttura. “Dentro in carcere parliamo di persone vere e proprie”, spiega Paola Menaldo, presidente della camera penale di Padova e moderatrice dell’evento. “Così come si usa l’espressione “Lo stato siamo noi” in relazione alla lotta alla criminalità organizzata, così dovremmo affermare “Il carcere è casa nostra”. Ad intervenire, insieme agli avvocati Angelo Zambusi e Veronica Manca anche Lara Fortuna, magistrata coordinatrice dell’ufficio di sorveglianza di Padova: “Quello che constatiamo in carcere è che il disagio rimane un dato costante e ci scontriamo quotidianamente con la sensazione che le proposte al fine di garantire un servizio completo per la salute delle persone detenute non siano sufficienti. L’istituzione carceraria dovrebbe offrire un servizio individualizzato, al fine di poter prendere in considerazione i singoli bisogni delle persone che entrano per scontare una pena. Ogni persona è diversa”, continua Fortuna. “A Padova vi è un unico medico specializzato nel trattamento dei disturbi psichiatrici e circa il 40% dei detenuti soffre di patologie che necessiterebbero quella terapia. Tra le varie sofferenze che concorrono all’entrata in carcere di una persona, il disagio psichiatrico è spesso tra questi. Un problema che non può che peggiorare se all’interno delle strutture penitenziarie le persone non ricevono le cure ad personam”. Roma. Vitto scadente ai detenuti, la ditta fornitrice rischia il processo di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 15 giugno 2024 I finanzieri del Nucleo di polizia valutaria che hanno approfondito la questione hanno interrogato detenuti, prelevato campioni di cibo per le analisi e infine depositato una serie di informative ai pm. Latte annacquato, carne di scarto, caffè con i fondi e verdure guaste: in carcere il cibo è una pena accessoria. Peggio: una frode nelle pubbliche forniture, secondo la ricostruzione dei magistrati Giulia Guccione e Gennaro Varone. Ora però quei pm chiedono il processo per amministratore e socio della Società Ventura, che, un anno dopo l’altro, si è aggiudicata l’appalto per la fornitura dei pasti nei penitenziari di Roma. I finanzieri del Nucleo di polizia valutaria che hanno approfondito la questione e hanno interrogato detenuti, prelevato campioni di cibo, spedito a un laboratorio di analisi quei prelievi e infine depositato una serie di informative ai pm. Contro la Ventura, oggi, ci sono testimonianze (alcune toccanti: la pessima qualità del cibo ha influito pesantemente sulla salute di molti reclusi), riscontri scientifici, prove circostanziate. Dalla società si difendono dicendo che non potevano sapere: il vitto viene distribuito da addetti e nulla sanno i vertici della azienda. Al contrario magistrati e investigatori sono convinti di aver individuato l’origine di uno scandalo silenzioso e lunghissimo. L’avvio dell’inchiesta si deve a un esposto, integrato nel tempo, di Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti nominata dall’amministrazione pentastellata (e in seguito non rinnovata dai dem), che raccolse con metodo le proteste quotidiane trasformandole in segnalazioni. Ventura risulta assegnataria della fornitura complementare del cosiddetto sopravvitto, una sorta di spaccio interno a prezzi generalmente di mercato. L’effetto somiglia a un circolo vizioso: chi evita il vitto scadente distribuito dalla Ventura è però costretto, per cause di forza maggiore, ad acquistare i suoi prodotti allo spaccio. Colpa del ribasso applicato in gara? È un fatto che oggi la Ventura è incaricata di fornire pasti alla (modestissima) cifra di 3,86 euro a persona. Una tariffa che include colazione, pranzo e cena e che, in realtà, rappresenta un piccolo miglioramento rispetto agli stracciati 2,39 euro giornalieri in vigore fino a tre anni fa. All’epoca vi fu perfino un pronunciamento della sezione di controllo della Corte dei Conti (e in particolare del presidente Antonio Mezzera) che stigmatizzava il ribasso applicato nella gara d’appalto. In seguito la Procura regionale di via Baiamonti ha avviato un approfondimento, tuttora aperto, su possibili danni d’immagine derivati all’amministrazione pubblica da quell’impensabile bando. Se l’ipotesi formulata dai magistrati di piazzale Clodio fosse giusta, dietro le sbarre si starebbe consumando una violazione importante. Piccole e grandi ritorsioni della Ventura contro i detenuti che hanno segnalato lo scandalo vitto si sono consumate nei mesi scorsi (per tutte: la distribuzione di insultanti dolcetti di forma fallica recapitati per Pasqua). L’avvocato Vincenzo Maiello, che assiste la Ventura, si definisce sereno: “Affronteremo questa fase del procedimento forti delle nostre ragioni che ci vedono completamente estranei ai fatti”, spiega. Mentre l’ex garante Stramaccioni commenta: “Era tutto vero ciò che avevo denunciato e documentato in totale solitudine e rischiando in proprio. Una situazione opaca che va avanti da anni e che nessuno ha voluto affrontare”. Tocca ora al Tribunale fissare una data per la decisione. Potenza. Carcere, “la vera partita è fare la pizza con mamma e papà” basilicata24.it, 15 giugno 2024 L’iniziativa per garantire il diritto dei bambini a mantenere la relazione genitoriale anche in carcere. L’11 giugno scorso la Casa Circondariale di Potenza ha aderito, come ogni anno, all’iniziativa - unica in Italia e in Europa - della onlus “Bambinisenzasbarre”, che si batte per il diritto dei bambini a mantenere la relazione genitoriale anche in carcere. Questa è l’ottava edizione della “Partita con mamma e papà”, l’atteso incontro tra genitori detenuti e i loro figli che apre le porte degli istituti penitenziari alle loro famiglie e quest’anno segna il decennale della firma della “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”. La “Partita con mamma e papà” è organizzata in collaborazione con il Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e in occasione del decennale della Carta, la “Partita con mamma e papà” il prossimo autunno viene realizzata a livello europeo per il network Children of Prisoners Europe (COPE) di cui “Bambinisenzasbarre” è membro e siede nel Consiglio Direttivo. Anche quest’anno l’evento è coinciso con la Campagna europea di sensibilizzazione “Non un mio crimine, ma una mia condanna” attiva nel corso del mese di giugno. La “Partita con mamma e papà”, che nella Casa Circondariale di Potenza, su impulso della Direzione e dell’Area Educativa, ha visto l’introduzione di un elemento di novità: una originale e unica iniziativa dal titolo “la vera partita è fare la pizza con mamma e papà”. Una giornata in cui è stato possibile giocare e “impastare” con i papà e le mamme, normale per tutti gli altri bambini, ma che è risultato eccezionale per questi bambini e le loro famiglie, grazie alla collaborazione del personale di Polizia Penitenziaria, del maestro pizzaiolo Franco Lopez, di Annarita Marchionna dell’APS Officine Officinali e della Coop Centostrade che con il suo Ludobus ha fatto impazzire di gioia piccoli e grandi La “Partita con mamma e papà”, ideata da Bambinisenzasbarre, è nata nel 2015. L’iniziativa è partita con l’adesione di 12 istituti e la partecipazione di 500 bambini e 250 papà detenuti, e si è tenuta tutti gli anni fino al 2019. Interrotta per due anni a causa della pandemia, ha avuto un forte impatto nell’edizione di ripresa del giugno 2022 (76 istituti, 82 partite, 4100 bambini, 1900 genitori) che ha sancito la riapertura degli Istituti penitenziari alle famiglie. La settima edizione, giocata nel 2023, ha visto l’adesione di 79 istituti italiani dove si sono disputate 83 partite, coinvolgendo gli agenti della Polizia Penitenziaria, gli educatori, 4250 bambini, 2050 genitori detenuti e le loro famiglie. L’obiettivo è quello di sensibilizzare sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per tutti i bambini e ha lo scopo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi e dell’emarginazione di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere. “Questa iniziativa -ha dichiarato il Direttore della Casa Circondariale Paolo Pastena- rappresenta un forte richiamo alla corresponsabilità sociale una occasione per allargare lo sguardo e comprendervi le famiglie delle detenute e dei detenuti: i figli, i coniugi, i genitori, che non devono essere ingiustamente discriminati per qualcosa che non hanno commesso. Sappiamo che il tema del carcere genera qualche resistenza, ma possiamo cominciare a cambiare la nostra prospettiva dalla cura delle relazioni e dai diritti dei più piccoli.” Vercelli. Detenuti e figli si sfidano in campo: una partita di calcio per sentirsi più vicini di Francesca Rivano La Stampa, 15 giugno 2024 Organizzata sul terreno del carcere di Billiemme. E a ottobre tocca alle mamme con la proiezione di un film. Crimini non ne hanno commessi, ma ugualmente scontano una condanna. Crescono portandosi dentro il peso di un genitore carcerato e devono misurarsi con la necessità di creare, con il padre o con la madre, un rapporto affettivo diverso. Un legame complesso, per motivi psicologici e pratici. Anche per questo momenti di svago, come quelli offerti da una partita a calcio, possono regalare attimi di normalità, contribuendo a cementare i legami familiari. Lunedì, sul campo di calcio del carcere di Vercelli, si giocherà una partita tra la squadra dei papà detenuti e quella dei loro figli. È organizzata dall’associazione “Bambini senza sbarre”. “Anche un detenuto può essere un buon papà e anche il figlio di un detenuto ha bisogno di vivere momenti di normalità e svago con il proprio papà - dice Valeria Climaco, responsabile dell’area educativa della casa circondariale di Vercelli -. L’esperienza dimostra che il recupero e il cambiamento non si ottengono senza il mantenimento dei legami familiari”. Ad aver aderito all’iniziativa, per ora, sono un gruppo di sette detenuti insieme ai loro dodici bambini e ragazzi: scenderanno in campo indossando le magliette preparate per l’occasione e potranno godersi un momento di sport e socialità di certo divertente per tutti. Prima del covid, il progetto era già approdato diverse volte a Vercelli con incontri di calcio che coinvolgevano rappresentative di detenuti con e senza figli e, a bordo campo, c’erano le rispettive famiglie a fare il tifo. Quest’anno la novità è rappresentata dalla possibilità offerta ai più piccoli di essere protagonisti dell’evento. L’iniziativa si svolge a livello nazionale con due appuntamenti, uno a giugno e uno a ottobre. E siccome non è possibile far accedere al campo di calcio le detenute, gli organizzari hanno pensato di offrire un secondo momento di svago, a ottobre: la proposta sarà rivolta alle mamme che avranno la possibilità di godersi la proiezione di una pellicola cinematografica insieme ai loro bambini. A Vercelli, che insieme a Torino è il solo carcere piemontese ad avere una sezione femminile, non ci sono “bimbi dietro le sbarre”: il Billiemme non dispone del micronido e dunque le detenute con figli piccoli vengono inviate a Torino. Lunedì il fischio di inizio è alle 13: c’è da scommettere che l’emozione di papà a figli varrà ben più del risultato finale. Perugia. Un musical oltre le sbarre. Il Vangelo entra in carcere di Sofia Coletti La Nazione, 15 giugno 2024 I ragazzi della parrocchia di Ferro di Cavallo in scena con “Il figliol prodigo”. La direttrice di Capanne: “Momenti di grande valenza educativa per tutti”. “Ecco cosa manca alla mia vita: il perdono!”. La parabola del Figliol Prodigo, trasposta in musical, è una catechesi vivente portata dentro il carcere. Gli spettatori del tutto speciali di Capanne sono rimasti colpiti e coinvolti e anche le forze di polizia giudiziaria applaudono emozionate: segno forte che in questi luoghi di emarginazione i sentimenti passano al di là di sbarre, muri di recinzione, nazionalità, età. “Il debutto in carcere è stato un giorno molto particolare - ammette Federico Fiorucci, ideatore e motore del Musical- È questo il luogo dove si comprende il massimo significato di questo brano evangelico. Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere... ero in carcere e mi avete visitato”. A portare in scena la parabola, i ragazzi della Parrocchia di Ferro di Cavallo con musiche, balli e testi, tutti rigorosamente dal vivo ed inediti. Dopo un anno di repliche in varie piazze perugine e un’apparizione alla Domus Pacis di Assisi, questa volta è la Casa Circondariale di Capanne ad accogliere questo “Vangelo fatto Teatro”, che ha avuto la capacità di comunicare con passione argomenti, tra l’altro, seriamente legati alle storie degli ospiti. Insieme al vicario vescovile, don Simone Sorbaioli, in platea anche la direttrice del carcere Antonella Grella. “Sono occasioni di grande valenza educativa; creare ponti con la realtà esterna è fondamentale per chiunque si trovi in detenzione. Peccato che le regole ferree del penitenziario e la carenza di personale le facciano diventare piuttosto rare”. “Quei fratelli siamo tutti noi e quei genitori rappresentano la guida della Fede”, testimonia Michele Nani, attore professionista che ha dato un grosso aiuto nella regia. Applausi agli attori: Francesco Angelucci, Sara Angelucci, Tommaso Annibaldi, Filippo Anticaglia, David Cacianini, Lucia Biagetti, Emilia Cardoni, Enrico Cardoni, Gianni Cardoni, Giulia Cardoni, Anna Elisa Chisalita, Giuseppe Ciorba, Luigi Cira, Mauro Cozzari, Gabriele del Buon Tromboni, Anna Fanfarillo, Marta Fanfarillo, Federico Fiorucci, Maria Fiorucci, Ester Fringuelli, Giovanni Gialanella, Pietro Mastrodicasa, Tommaso Melloni, Giacomo Morettini, Aliki Nani, Matteo Nani, Michele Nani, Tommaso Patacca, Sara Pecetti, Anna Protani, Camilla Rossini, Francesco Schiavolini, Angela Settequattrini, Edoardo Svolacchia, Francesco Filippucci. Ilaria Salis è libera, il suo processo sospeso. Tolto il braccialetto elettronico. Oggi tornerà in Italia di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 giugno 2024 Il padre: “Non ce lo aspettavamo, vado a prenderla io. Lunedì festeggeremo il suo compleanno in Italia”. Alla neodeputata europea revocati gli arresti domiciliari in Ungheria. Ilaria Salis è libera: la polizia ungherese questa mattina si è presentata inattesa a casa sua e le ha tolto il braccialetto elettronico. Arresti domiciliari revocati e processo sospeso grazie all’immunità da europarlamentare che le è stata immediatamente riconosciuta. E già domani sarà di ritorno in Italia. La richiesta di scarcerazione era stata depositata dal suo avvocato ungherese Gyorgy Magyar subito dopo la sua elezione come eurodeputata con Avs e questa mattina è stata scarcerata dalla detenzione domiciliare. La 39enne ha chiamato i propri avvocati in Italia, Eugenio Losco e Mauro Straini, per avvisarli di aver ricevuto il provvedimento del giudice ungherese che l’ha liberata dagli arresti domiciliari dove si trovava dal 15 maggio, giorno in cui è stata scarcerata. Roberto Salis: “Vado a prenderla io” - “Facciamo i festeggiamenti del suo compleanno a casa, vado a prenderla e me la porto a casa io - dice raggiante Roberto Salis - sono molto contento, sto cercando di organizzare il rientro il più velocemente possibile. Ho lavorato in sordina ma non ci aspettavamo che venisse liberata già oggi. E invece mi ha chiamato l’avvocato Magyar per dirmi che la polizia stava andando a liberarla. E ora vado a prenderla”. Può lasciare l’Ungheria subito - Ilaria Salis può quindi ora tornare in Italia. L’eurodeputata di Avs è stata arrestata l’11 febbraio del 2023 con l’accusa di far parte di un’associazione criminale e di aver partecipato a due aggressioni nei confronti di tre militanti di estrema destra a Budapest. E’ rimasta in carcere per oltre 15 mesi fino a quando è stata accolta la richiesta avanzata dai suoi legali di poter scontare la misura cautelare ai domiciliari. La sua famiglia aveva già comprato i biglietti per raggiungerla per festeggiare lunedì i suoi 40 anni ma ora Salis potrà festeggiarlo in Italia. L’avvocato: “L’Ungheria chiederà autorizzazione a procedere” - L’avvocato Gyorgy Magya ha riferito che stando alle sue informazioni l’ambasciata italiana di Budapest ha preparato già i documenti per il viaggio dell’eurodeputata Avs in Italia. Magyar ha spiegato che Salis è libera da stamattina, in quanto il giudice della Corte municipale, Jozsef Sos, accettando la richiesta della difesa, ha sospeso il processo penale a suo carico e ha ordinato la scarcerazione. Prima, ha detto ancora l’avvocato, il giudice ha ricevuto dal ministero degli Esteri ungherese l’informazione ufficiale dell’elezione di Ilaria Salis al Parlamento europeo. Il ministero ungherese è stato informato, a sua volta, dal ministero degli Esteri italiano. L’avvocato Magyar è convinto che l’autorità giudiziaria ungherese chiederà al Parlamento europeo appena eletto l’autorizzazione a procedere contro l’eurodeputata, togliendo l’immunità scattata con l’elezione, per poter proseguire il procedimento sospeso al momento. Ora gli interrogativi sul processo e l’immunità - Ieri il padre di Ilaria, Roberto Salis, per il proseguo del processo paventava il problema della proclamazione dell’elezione della figlia che godrà dell’immunità parlamentare solo dal momento della sua proclamazione ad eurodeputata. Ma il giudice di Budapest intanto non ha battuto ciglio sulla revoca dei domiciliari e ha immediatamente accolto la richiesta dei suoi legali. La preoccupazione di Roberto Salis nasce dalle parole del portavoce del governo Orban Gergely Gulyßs secondo il quale “l’autorità ungherese competente dovrebbe chiedere al Parlamento europeo la revoca dell’immunità” per sua figlia Ilaria. Deve essere l’autorità nazionale competente (non il tribunale “che non può chiedere nulla ma deve rispettare le regole europee ed ungheresi”) a chiedere eventualmente la revoca dell’immunità che poi spetta all’aula del Parlamento Europeo votare a maggioranza. Se viene approvata, il processo continua altrimenti, ha ricordato Gulyßs, riprende a fine mandato. Bonelli e Fratoianni: “La aspettiamo” - “Finalmente! Siamo felici della notizia che giunge da Budapest, l’europarlamentare Ilaria Salis ora può tornare in Italia e potrà svolgere la sua nuova funzione a cui l’hanno indicata centinaia di migliaia di elettori”, dicono in una nota congiunta Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Avs. “Il nostro grazie va a tutti e a tutte coloro, che come noi, in questi mesi si sono indignati e non si sono rassegnati alla terribile condizione in cui era tenuta nelle carceri di Orban. Ora potrà difendere insieme a noi i diritti civili e sociali dei più deboli. La aspettiamo”, concludono. Stati Uniti. La startup che sta cambiando il mondo carcerario: un’opportunità anche per l’Italia? di Alessandro Piana* L’Unità, 15 giugno 2024 Nel 2020, una nuova realtà è emersa nel settore delle comunicazioni degli istituti penitenziari americani, con l’intento di innovare il modo in cui i detenuti si connettono con il mondo esterno. Ameelio, il primo fornitore americano senza scopo di lucro di servizi digitali per carcerati, offre gratuitamente servizi di comunicazione e strumenti educativi ai reclusi. Per anni, i costi delle comunicazioni tra detenuti e familiari hanno gravato pesantemente sulle famiglie americane, con una chiamata di 15 minuti che poteva costare fino a 25 dollari. Ameelio ha cambiato questo panorama, rendendo gratuite le chiamate vocali, le videochiamate e i messaggi elettronici per i detenuti. La loro piattaforma, operativa dal 2021, copre attualmente tre sistemi carcerari statali, con servizi attivi in 35 prigioni e per oltre 32.000 detenuti. Oltre alla comunicazione, Ameelio è attiva anche nel campo dell’istruzione carceraria. Grazie a un tablet appositamente pensato per l’utilizzo nelle carceri e a una biblioteca digitale completa, i detenuti possono accedere a ebook, corsi e opportunità di apprendimento virtuale. Questo accesso all’istruzione è fondamentale non solo per lo sviluppo personale, ma anche per ridurre i tassi di recidiva, dotando i detenuti delle competenze necessarie per un reinserimento di successo nella società. L’impatto dei servizi di Ameelio è stato immediatamente riconosciuto, e la no profit Ameelio è stata riconosciuta tra le 100 aziende più influenti del 2023 secondo TIME Magazine. Attualmente opera in Stati come Iowa, Colorado e Mississippi, a cui si aggiungerà anche il Massachusetts. In Italia, le problematiche degli istituti penitenziari sono simili a quelle statunitensi: suicidi, sovraffollamento, accesso limitato alle risorse educative e difficoltà di comunicazione. Secondo gli ultimi dati, solo nel 2024 ci sono già stati 40 suicidi. Inoltre, le condizioni di sovraffollamento impediscono spesso un supporto individualizzato e adeguate risorse educative. Per molte famiglie italiane, mantenere i contatti con i propri cari detenuti è una sfida significativa. Le telefonate e le comunicazioni digitali sono limitate o non presenti, costringendo le famiglie a lunghe e onerose trasferte per poter vedere i propri cari ristretti. La possibilità di un sistema sicuro e gratuito che permetta la comunicazione, potrebbe essere una soluzione vitale nelle carceri italiane, alleviando gli oneri finanziari di tutte le parti e rafforzando i legami familiari, essenziali per la riabilitazione e il reinserimento. Questo approccio innovativo all’istruzione carceraria, con tablet sicuri e risorse educative complete, potrebbe migliorare significativamente le opportunità nelle carceri italiane. Ciò permetterebbe a educatori, università e altri professionisti di fornire programmi di formazione professionale adeguati, colmando il gap di competenze necessario per un reinserimento efficace nella società. Inoltre, le videochiamate gratuite potrebbero facilitare consulti sanitari preliminari tra medici e detenuti, migliorando l’accesso alle cure mediche. L’implementazione della tecnologia di Ameelio in Italia potrebbe riformare in modo significativo il funzionamento degli istituti penitenziari, trattando l’istruzione e la comunicazione come diritti fondamentali e non come privilegi. Questo cambiamento è cruciale per ridurre i tassi di recidiva e favorire il reinserimento sociale. Fornendo piattaforme sicure e conformi agli standard di privacy come il GDPR, si garantisce che le comunicazioni siano sicure e rispettino i diritti e la dignità di tutte le parti coinvolte. Per l’Italia, adottare un modello analogo a quello statunitense significa non solo migliorare le condizioni carcerarie, ma anche impegnarsi per la riabilitazione e il trattamento olistico dei detenuti. Mentre Ameelio cerca di espandere il suo impatto a livello globale, gli istituti penitenziari italiani hanno l’opportunità unica di essere pionieri di queste riforme in Europa. Invitiamo i politici, i leader tecnologici e i sostenitori della giustizia sociale in Italia a considerare i vantaggi del modello di Ameelio. Collaborando con Ameelio, l’Italia può fare da apripista a servizi penitenziari innovativi, umani ed economici. Insieme, si può forgiare un percorso verso un sistema carcerario che riabiliti e reintegri veramente, trasformando le sfide di oggi nei trionfi di domani. *Rappresentante di Ameelio per l’Europa