Le carceri scoppiano ma il sottosegretario Ostellari dice no a premi e liberazioni anticipate di Francesco Grignetti La Stampa, 14 giugno 2024 In arrivo un decreto entro l’estate. Il carcere è sovraffollato, inumano, non rispettoso del dettato costituzionale, ma a chi interessa? Gli avvocati ci provano a parlarne. Dice il presidente del Consiglio nazionale forense, Francesco Greco, in apertura di una giornata dedicata al tema a cura del quotidiano Il Dubbio: “Il tema delle carceri non riceve un’attenzione adeguata - dice, con tono amaro - perché prevale nella collettività la convinzione diffusa che chi ha violato la legge debba scontare la pena nel modo più duro e nelle condizioni meno dignitose possibili. Ma questo non è degno di un paese civile. Un ordinamento giuridico che si ispira allo stato di diritto deve prevedere un sistema di sanzioni e di espiazione della pena, senza mai violare la dignità umana”. Proviamo a parlarne, allora. I giornalisti de Il Dubbio hanno allestito una cella-tipo in piazza, nel cuore di Roma, fuori dalla sala dove si tiene il loro convegno, e invitano tutti a provare che cosa significa trovarsi chiusi, almeno 5 minuti, in uno spazio ristretto di 4 metri per 2. Esperienza claustrofobica, non c’è altro da dire. Intanto nel convegno si parla di possibili soluzioni al sovraffollamento, ma anche di più. Ad esempio di come rispondere a una sentenza della Corte costituzionale, la n. 10 del 2024, che pochi mesi fa ha dichiarato “diritto inviolabile” anche l’affettività del detenuto, naturalmente se non vi siano motivi particolari di sicurezza. Per “affettività” si intende un rapporto di affetti in famiglia, con i figli e il partner, ma anche rapporti sessuali con la moglie o il marito. Molto avanzato, sulla carta. Ma nella realtà? “Abbiamo al lavoro una commissione ministeriale, diamogli il tempo di lavorare”, dice il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, Lega. “La sentenza è ineludibile”, conferma il viceministro Francesco Paolo Sisto, Forza Italia. Sì, ma in concreto, con 61 mila detenuti ristretti in spazi che ne consentirebbero 51mila - e un trend in peggioramento - il carcere sta andando in tutt’altra direzione. Che occorra qualche valvola di sfogo sono tutti consapevoli, governo incluso. E perciò viene annunciato un decreto entro l’estate. Allo stesso tempo, il 24 giugno la Camera affronterà in Aula un disegno di legge a firma di Roberto Giachetti, Italia viva, che prevede un più consistente premio per la buona condotta. Nel decreto ci sarà una moltiplicazione delle telefonate, ma non indiscriminata, bensì come forma di premio per la buona condotta. Gli sconti di pena, invece, non piacciono alla Lega e Ostellari lo ribadisce. “Il testo prevede una norma che disciplina il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta. Non saranno introdotti sconti di pena. L’obiettivo è alleggerire i tribunali di sorveglianza, gravati dalla necessità di evadere 200.000 richieste all’anno e, contemporaneamente, garantire ai detenuti i diritti già previsti dalla normativa vigente”. L’idea è di snellire le procedure, togliendo il secondo grado alle decisioni del magistrato di sorveglianza “salvo i casi di ricorso dell’interessato”. Dentro la maggioranza di destra-centro e nel governo hanno discusso fino all’ultimo, invece, sullo sconto di pena. Il viceministro Sisto fa capire Forza Italia avrebbe voluto una maggiore elasticità. “Ma come si sa - riconosce nel suo intervento al convegno - nella coalizione ci sono diverse sensibilità ed era indispensabile trovare un punto di caduta. Poi naturalmente il Parlamento è sovrano e può decidere”. Anche il sottosegretario leghista Ostellari ha ben presente il problema del sovraffollamento. Ma la “sua” soluzione è diversa da quella di Giachetti. “Ci sono al momento, su 61 mila ristretti, almeno 7mila che avrebbero già diritto ad uscire, ma siccome non hanno un domicilio, la magistratura di sorveglianza non può decidere una misura alternativa”. Per questo motivo il ministero della Giustizia sta preparando un elenco di comunità accreditate che dovrebbero “ospitare” questi detenuti a fine pena. “Noi, a differenza della sinistra, pensiamo che non sia sufficiente dargli un domicilio purchessia e fine lì. Noi crediamo in un sistema di diritti e di doveri. Il detenuto che andrà in queste comunità deve impegnarsi in un percorso di formazione e lavoro”. Stesso discorso vale per il carcere stesso. “Il carcere funziona se rieduca. Sì al lavoro e alla formazione, no a premi inutili che non fanno il bene né del detenuto né della comunità”. La vicepresidente del Senato Anna Rossomando, Pd, è visibilmente delusa: “Sui massimi principi siamo tutti d’accordo. Questa maggioranza però procede fin dal primo giorno ad aumentare i reati e aumentare le pene. E così il carcere diventa sempre più inutilmente afflittivo, e contraddice lo spirito della rieducazione della pena come vuole la Costituzione”. Ostellari: “No a sconti di pena, ma snellire il procedimento per la concessione dei benefici” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2024 “Siamo al lavoro su un decreto carceri. Il testo prevede anche una norma che disciplina il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta. Non saranno introdotti sconti di pena. L’obiettivo è alleggerire i tribunali di sorveglianza, gravati dalla necessità di evadere 200mila richieste all’anno e, contemporaneamente, garantire ai detenuti i diritti già previsti dalla normativa vigente”. Così il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari, partecipando al convegno sulla drammatica condizione delle carceri promosso a Roma dal quotidiano Il Dubbio, ha reso noto che il governo studia misure per deflazionare il sovraffollamento degli istituti dove sono recluse oltre 61mila persone a fronte di una capienza di 51.178 posti, con 13.500 detenuti in eccesso. Già 39, nel 2024, i casi di detenuti suicidi. Si sta discutendo, al ministero della Giustizia, di istituire un albo delle comunità per associazioni del terzo settore, già dotate di strutture di accoglienza, per consentire - a chi ha già i requisiti ma non dispone di una casa - di scontare la pena in regime di detenzione domiciliare, odi affidamento in prova purché svolga una attività lavorativa. La misura potrebbe dunque riguardare coloro che hanno un fine pena inferiore ai due anni, oltre a chi è inserito in uno specifico percorso trattamentale. Da Sisto e Ostellari uno spiraglio sul carcere: “Presto il decreto” di Errico Novi Il Dubbio, 14 giugno 2024 All’evento promosso stamattina dal Dubbio, viceministro e sottosegretario alla Giustizia annunciamo il provvedimento che “supera un’idea solo inframuraria della pena” e “assegna alle comunità chi altrimenti non può passare dalla cella ai domiciliari”. Il presidente Cnf Greco: “La detenzione non può mai mortificare la dignità”. Il filo è sottile. Lo nota Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia ed esponente della Lega, all’evento promosso dal Dubbio a Roma per “Portare il carcere nella Costituzione”. Ostellari, che interviene pochi minuti dopo l’introduzione del presidente Cnf Francesco Greco, nota l’immagine scelta per rappresentare la giornata al “Tempio di Adriano”: un filo, appunto, che si annoda nei grovigli di una gabbia (il sistema penitenziario) e poi ne fuoriesce, finalmente. “Non si deve guardare alla singola cella ma all’intero sistema, che deve avere una coerenza, funzionare, favorire il recupero, il reinserimento anche attraverso al lavoro”. E qui ad essere sottile è soprattutto lo spiraglio lasciato dal sottosegretario leghista per un provvedimento che dia sollievo alle carceri stracolme (oltre 61mila reclusi) e insanguinate dai suicidi, 40 dall’inizio dell’anno. È il sovraffollamento, la madre di tutte i guai da cui poi discendono la disumanità, l’invivibilità, l’insufficienza del personale educativo, degli psicologi, travolti da numeri che oggi è impossibile fronteggiare. “Nella liberazione anticipata speciale, negli sconti di pena, non vedo una vera risposta”, ribadisce ancora una volta Ostellari, “rischiamo di portar fuori persone che non sono in grado di reinserirsi”. Ma su un “decreto carceri”, assicura l’esponente della Lega e del ministero guidato da Carlo Nordio, “siamo al lavoro”. Lo conferma, di lì a poco, il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, il solo, oltre a Greco, a intervenire al di fuori dei quattro panel in cui si articola la giornata: “Un provvedimento del governo ci sarà, può darsi serva un compromesso, che comunque non sarà al ribasso. Dobbiamo semplicemente declinare l’articolo 27 in modo che al percorso di rieducazione si associ la disponibilità del detenuto ad aderirvi”. Ma lo spiraglio lasciato aperto da Ostellari e in cui Sisto invita a confidare non è altro che un passo di quel percorso che dovrebbe restituire all’esecuzione penale dignità, umanità, affettività come diritto irrinunciabile. Il presidente del Cnf Greco lo reclama nel discorso che introduce i lavori: “Noi avvocati siamo consapevoli che la pena deve essere eseguita, ma non è concepibile doverla scontare in una cornice irrispettosa del principio di umanità e finalità rieducativa”. Asse attorno a cui ruotano sia il dibattito del primo panel, in cui interviene Ostellari, dedicato a “Architettura penitenziaria e affettività”, sia il “tavolo” sulla diversità della detenzione femminile, animato Da Valeria Valente, Rita Bernardini e dall’avvocata Elisabetta Brusa, componente del dipartimento Pari opportunità di Ocf. A Greco non sfugge che il nodo in cui il filo della speranza si impiglia è il punto di vista prevalente nell’opinione pubblica, la “convinzione diffusa che chi ha violato la legge debba scontare la pena nel modo più duro e nelle condizioni meno dignitose possibili: ma questo non è degno di un Paese civile”, dice il presidente degli avvocati. Piuttosto, bisogna riflettere “su come la pena va scontata: non necessariamente in cella, ma anche attraverso misure alternative”. Sul punto, Sisto batte con convinzione: “Una nuova mentalità sul carcere che non è più punto di riferimento nell’espiazione della pena ha ancora necessità di farsi strada, nonostante il grande lavoro dei Tribunali di Sorveglianza”. Eppure, aggiunge il numero due di via Arenula, “c’è un nuovo corso di cui la politica e il ministero devono prendere atto, una nuova lettura del percorso rieducativo”. Il riferimento è anche alle novità sostanziali, già introdotte dalla riforma penale, di cui l’attuale viceministro è stato promotore ancor prima che si insediasse Nordio, quando cioè era sottosegretario con l’ex guardasigilli Marta Cartabia. Sisto parla, da una parte, di un “gioco di squadra tra architettura, politica, magistratura, avvocatura” per “provare a fare del carcere un luogo in cui la normalità possa regnare”. Dall’altra interpreta in modo persino sorprendente la sentenza costituzionale numero 10 del 2024 sull’affettività in carcere: “La Consulta non si è limitata a prevedere che la relazione affettiva debba essere assicurata senza il controllo visivo, ma ha lasciato trapelare persino una certa sfiducia nei confronti del legislatore: ha puntualizzato anche i dettagli, quasi per prevenire eventuali inerzie sull’introduzione delle successive, necessarie norme”. Ma resta la disponibilità del ministero di Nordio, rappresentato oggi, al Tempio di Adriano, da due figure politicamente importanti come Sisto a Ostellari, a presentare quel decreto che il sottosegretario leghista descrive così: “Il testo prevede anche una norma che disciplina il procedimento attraverso il quale vengono riconosciuti i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta. Non saranno introdotti sconti di pena. L’obiettivo è alleggerire i Tribunali di Sorveglianza, oggi gravati dalla necessità di evadere 200mila richieste l’anno e, contemporaneamente, garantire ai detenuti i diritti già previsti dalla normativa vigente”. Il riferimento è all’unica norma della proposta di legge Giachetti-Bernardini destinata ad essere “assorbita” dal provvedimento governativo: l’accoglimento delle istanze per la liberazione anticipata ordinaria già in vigore (che riduce la pena di 45 giorni ogni 6 mesi) da parte non più degli oberatissimi giudici di sorveglianza, appunto, ma del pm competente per l’esecuzione. Ostellari non considera le “misure alternative” come un tabù: semplicemente non ne caldeggia una concessione più estesa di quanto la disciplina già preveda: “C’è la necessità di individuare dei luoghi idonei per l’esecuzione della misura, anche alternativa, che siano capaci di fare formazione e rieducazione. Oggi, a occhio e croce e tolti gli ostativi, abbiamo settemila persone che potrebbero uscire domani”, e ottenere “i domiciliari”. E perché non escono? “Non perché il Dap si opponga o perché la politica non voglia, ma perché non hanno un domicilio idoneo”, ricorda Ostellari in uno dei passaggi chiave della mattinata. Così, nel decreto in arrivo ci sarà anche “un elenco nazionale delle comunità, che siano garanzia per tutti e capaci di accogliere il soggetto e svolgere l’attività di rieducazione”. Di fronte a queste pur limitate aperture, nel panel in cui interviene Ostellari si registra anche la reazione positiva di Anna Rossomando, vicepresidente del Senato che ha passato il testimone di responsabile Giustizia del Pd a Debora Serracchiani: “Sono parole che incoraggiano, diverse da quelle che abbiamo ascoltato finora. Noi vorremmo discutere anche della nostra proposta sulle case territoriali di reinserimento sociale”, soluzione non lontana, nella ratio, dalle comunità di cui parla Ostellari, perché destinata sempre a chi è prossimo al fine pena. “Riguardo l’attuazione della sentenza costituzionale sull’affettività, avevamo presentato un ddl già nelle ultime due legislature”, aggiunge la dem Rossomando, “e insistiamo anche sull’effettiva attuazione delle pene alternative”. Se si pensa al discorso di Sisto e Ostellari, incluso il passaggio del leghista sui domiciliari, un’insperata convergenza sembra possibile. Basterebbe rendersi conto che non passare dalle proposte agli atti concreti significa restare inerti dinanzi all’intollerabile scia dei suicidi dietro le sbarre. Lavoro e reinserimento: servono azioni concrete per ridurre la recidiva di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 giugno 2024 Serracchiani (Pd): “S’investa nella formazione, solo così si favorisce il recupero dei detenuti”. Le ultime due sessioni di lavoro dell’evento “Portare il carcere nella Costituzione” hanno acceso i riflettori su una serie di temi delicati: il lavoro in carcere, il reinserimento nella società degli ex detenuti, l’abbassamento della recidiva, la protezione e la rieducazione dei minori negli istituti penali. La prima tavola rotonda è stata moderata da Giovanni Negri, giornalista del Sole 24Ore. I dati, che poggiano su una base scientifica tutta da verificare, ma con una fonte autorevole, il Cnel, testimoniano un significativo abbassamento della recidiva per i detenuti che lavorano. Chi non ha, invece, un contratto di lavoro non rientra nel novero dei virtuosi e l’ ombra della recidiva incombe sempre più inquietante. Parlare di recidiva e di lavoro significa occuparsi di parti rilevanti del nostro ordinamento penitenziario. Gli “stati generali dell’esecuzione” penale hanno rappresentato, qualche anno fa, con l’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando (Pd), una base di partenza che però non è stata più presa in considerazione. Debora Serracchiani, deputata e responsabile Giustizia del Partito democratico, ha sottolineato quanto siano importanti alcuni interventi nei confronti di determinate categorie di detenuti. “Il carcere, per il Partito democratico - ha detto Serracchiani -, è una priorità. Non a caso abbiamo voluto intitolare una nostra iniziativa “Bisogna aver visto”, mutuando il titolo di un testo di Piero Calamandrei del secolo scorso. A fronte delle poche risorse, a fronte dell’aumento dei reati, a fronte del fatto che entrano in carcere detenuti che non dovrebbero essere ospitati lì, mi riferisco a chi ha problemi psichiatrici e ai tossicodipendenti, se si vuole abbattere la recidiva bisogna investire risorse nella formazione per agevolare l’inserimento sociale. È questa la strada per avviare percorsi di reinserimento e recupero sociale. Non ci possono essere solo dei ritocchi, come il beneficio premiale di liberazione anticipata. Serve una strategia che non può essere limitata a dei ritocchi”. Alessio Scandurra dell’associazione Antigone ha fatto riferimento all’altalena di dati che riguardano i detenuti coinvolti in attività lavorative e che rappresentano una minuscola parte della popolazione carceraria. “La situazione attuale - ha affermato è scoraggiante. Quando si parla di opportunità di lavoro in carcere, si citano alcuni dati che vanno considerati con cautela. Si fa riferimento a circa 2.500 detenuti in semilibertà che lavorano presso datori privati. Non è l’imprenditore in questo caso che entra in carcere”. La Lombardia e il Veneto sono le regioni in cui è più diffuso il ricorso ai lavoratori detenuti. Secondo Gaetano Scalise della Camera penale di Roma, occorre un “cambiamento di rotta a più livelli”. “Le nostre carceri - ha rilevato - non sono degne di un Paese civile. Per il recupero del reo e il reinserimento sociale la politica deve fare azioni concrete. Solo così si può evitare la recidiva”. Infine un appello alla politica: “Maggioranza e opposizione lavorino insieme per rendere il carcere un luogo di recupero”. Un altro penalista, Valerio Murgano (componente della giunta dell’Unione Camere penali) ha voluto ricordare la condizione di chi è recluso in attesa di giudizio. Murgaro ha invitato a riflettere e a non considerare l’universo carcerario un “mondo a parte”. La tavola rotonda è stata chiusa dall’intervento di Francesco Favi (consigliere Cnf), che ha lodato l’iniziativa del Dubbio per il livello degli interventi e la costante attenzione rivolta al sistema carcerario. “La foto del carcere che esce oggi - ha detto l’esponente dell’avvocatura istituzionale - è devastante. Allo stesso tempo, insistere sul lavoro come meccanismo di recupero consentirà di aprire nuovi scenari”. “Non è un sistema penitenziario a misura di detenute” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 giugno 2024 “Donne detenute due volte” è il titolo di uno dei panel della giornata sul carcere organizzata ieri dal Dubbio a Roma. Il dibattito, moderato dal direttore di Radio Radicale Giovanna Reanda, ha coinvolto la senatrice dem Valeria Valente, l’avvocata e responsabile dell’osservatorio Carcere di Ocf Elisabetta Brusa, della presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Valente ha sottolineato come “di carcere si parli ancora troppo poco” e “delle donne in restrizione ancora meno. Eppure proprio le carceri e la condizione di chi vi è recluso rappresentano, come si dice spesso, la cartina di tornasole di una democrazia e dello Stato di diritto”. Ecco perché, ha aggiunto la parlamentare “dobbiamo tenere accesa in modo stabile la luce sui nostri istituti penitenziari che soffrono, in particolare ma non solo, il sovraffollamento e che sono, purtroppo, distanti dal garantire quella finalità rieducativa della pena stabilita dall’articolo 27 della Carta”. Valente ha lanciato quindi una proposta: dare vita a “un ufficio del Dap dedicato alle detenute affinché siano garantiti i loro diritti e i loro bisogni: il carcere resta uno spazio pensato dagli uomini per gli uomini, le detenute pagano davvero una doppia discriminazione, sottovalutata e irrisolta. Rappresentando il 4% della popolazione carceraria, le detenute sono di fatto una minoranza all’interno di una minoranza”. E ha concluso: “Anche nel carcere, anche nelle modalità con cui si concedono le misure alternative, perfino negli obiettivi rieducativi che passano per il lavoro, per non parlare delle sanzioni relative alla condotta, tutto è determinato da stereotipi e pregiudizi maschilisti e patriarcali che vanno superati”. Eccetto i quattro istituti femminili, in Italia le detenute spesso si trovano in sezioni e blocchi ricavati nelle carceri maschili, pensate appunto per soli uomini. “Al 31 maggio”, ha ricordato Bernardini, “le donne detenute sono 2.663. Purtroppo l’impostazione del carcere è tutta al maschile. Basti pensare alle minori possibilità di studio, soprattutto universitario, che hanno le donne. Le classi poi non possono essere miste. E non dimentichiamo il tema della maternità: ci sono 24 figli al seguito di 21 mamme recluse. Quei bambini sono detenuti a tutti gli effetti”. “Ci sono migliaia di detenuti”, ha proseguito la presidente di Nessuno tocchi Caino, “che vengono risarciti perché subiscono trattamenti inumani e degradanti: lo Stato li risarcisce ma poi li lascia in quelle condizioni”. Bernardini, in conclusione del proprio intervento, ha polemizzato con l’Esecutivo. Il sottosegretario Ostellari, nel panel precedente, aveva bocciato la proposta di legge di Giachetti e della stessa presidente di Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale e annunciato un decreto carceri che non prevedrà sconti di pena (come riferito nel dettaglio in altro servizio, ndr). Ha replicato la leader radicale: “Al momento per ridurre il sovraffollamento non ci sono altre proposte a parte la legge Giachetti. Sulla proposta di Ostellari viene da chiedere di cosa si stia parlando. Sento che verranno aumentate le telefonate: in Romania ogni giorno un detenuto ha diritto a 90 minuti di telefonate verso più numeri. A sentire Ostellari siamo nel puro campo del poi vediamo. Abbiamo 80 istituti in cui il sovraffollamento va dal 130 al 240 per cento: voglio sapere che cosa vuol il governo oggi per le condizioni disumane in cui si trovano i detenuti. È come se qualcuno fuori venisse maltrattato e noi non facessimo nulla. È intollerabile che la maggioranza non si assuma la responsabilità di questa situazione”. L’avvocata Brusa ha evidenziato invece l’impegno delle rappresentanze forensi “nel riferire tempestivamente alla politica le esigenze delle donne detenute. Gli istituti, dal punto di vista architettonico, sono pensati solo per gli uomini. In molti istituti mancano gli specchi, gli assorbenti non sono tra i beni primari. Poi per le donne vengono pensate solo attività come il cucito o il ricamo, quando invece bisognerebbe immaginare lavori più spendibili per quando torneranno libere. E benché le donne restino, rispetto agli uomini, meno tempo in carcere, sono svantaggiate: se ci sono ad esempio 30 psicologi a disposizione, solo uno è assegnato alle detenute. E non bisogna dimenticare che per le donne è anche più lungo l’iter per chiedere le misure alternative”. Istituti per minorenni in affanno: il decreto Caivano sul banco degli imputati di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 14 giugno 2024 Corona, vicepresidente Cnf: inefficaci le risposte emergenziali Il capo dipartimento Sangermano: ci sono nodi irrisolti da anni. Il carcere è davvero la “soluzione rieducativa” per i minori che hanno commesso reati? Possono essere date ai minori delle opportunità di recupero, nonostante abbiano violato la legge, per evitare di finire dietro le sbarre? Il panel conclusivo dell’iniziativa del nostro giornale ha avuto anche queste domande come fili conduttori. I lavori sono stati introdotti da Gaia Tortora (giornalista La7), che ha fatto riferimento alla “situazione insostenibile” che vivono i giovani ospiti dell’Ipm di Casal del Marmo. Quello delle carceri minorili è un mondo a parte per tante ragioni. Il numero dei giovani detenuti - in aumento - ha toccato quota 550 (di cui 207 stranieri). Una condizione aggravata dalla chiusura degli istituti di Lecce e L’Aquila. Il capo Dipartimento della Giustizia minorile, Antonio Sangermano, ha sostenuto che i temi legati al carcere non possono essere affrontati con pregiudizio e con una impostazione ideologica. “Gli indirizzi politici - ha commentato - sono fondamentali e vanno inseriti all’interno della cornice della nostra Carta costituzionale con il supporto dei tecnici. Le criticità sono croniche e risalgono agli anni passati, sono persistenti e irrisolte. L’evasione dal Beccaria del dicembre 2022 è il segno di un sistema che non è in grado di garantire la sicurezza dei detenuti e l’impermeabilità dell’istituto”. L’intervento del rappresentante di via Arenula ha aperto uno spazio di discussione sul “decreto Caivano”. L’onorevole dem Michela Di Biase (componente della Commissione Infanzia e adolescenza) ha definito il provvedimento una “risposta politica sbagliata”. “Con il decreto Caivano - ha sottolineato Di Biase - è stato smantellato l’istituto della messa alla prova con conseguente previsione dell’aumento delle pene. L’emergenza legata ai minori è stata costruita secondo un approccio securitario. Il sistema penale minorile richiede sforzi maggiori e l’ingresso in carcere del minore deve essere l’extrema ratio. Le soluzioni offerte per gli Ipm sono del tutto inadeguate”. Molto critica nei confronti degli ultimi provvedimenti legislativi anche la vicepresidente del Cnf, Patrizia Corona, secondo la quale “gli interventi emergenziali non sono stati sempre coerenti con la situazione reale”. “La risposta punitiva - ha aggiunto - non ha una base oggettiva tale da poter essere giustificata. Credo che, quando si parla di minori, sia più opportuno soffermarsi sulla educazione e sulla responsabilizzazione. Il minore è un soggetto plasmabile con l’educazione e questo aspetto non può essere accantonato”. Infine, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, ha voluto dedicare attenzione nel suo intervento ai minori non accompagnati. Il più delle volte vengono abbandonati al loro destino e hanno ben poche strutture di riferimento, comprese quelle sanitarie, che possano farsi carico delle loro necessità. “Le emergenze - ha affermato Gonnella - esistevano anche prima del decreto Caivano e del governo di centrodestra. Va detto però che il pacchetto sicurezza al vaglio del legislatore rischia di provocare uno strappo con la cultura del diritto di cui l’Italia deve andare fiera. È impensabile che il nostro Paese faccia dei passi indietro”. Sulla stessa linea l’avvocata Maria Brucale: “Il carcere non è un luogo per i minori”. Se alla nonviolenza il governo oppone l’autoritarismo di Franco Corleone L’Espresso, 14 giugno 2024 Buoni a nulla, capaci di tutto. Questo aspro giudizio di Marco Pannella si attaglia perfettamente alla gestione del carcere di cui hanno la responsabilità il ministro Carlo Nordio e la sua corte. Il sovraffollamento è fuori controllo, oltre 61.000 detenuti, 10.000 in più della capienza regolamentare, ma il nodo intollerabile è che in molti istituti le presenze sono il doppio dei posti disponibili. I suicidi sono arrivati alla cifra di 39 con la probabilità di toccare un nuovo tragico record a fine anno. Di fronte a questo quadro agghiacciante, il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, invece di sostenere misure immediate per garantire condizioni di vita dignitose e il rispetto dei diritti previsti dall’Ordinamento penitenziario e dalla Costituzione, impone la creazione di un reparto speciale anti-rivolta (in verità anti-protesta). Dopo il Gom, il reparto destinato alla sorveglianza del 41bis, si creerà il Gio: un gruppo speciale di 275 agenti dislocati a Roma e pronti a raggiungere il luogo dell’operazione sul modello Sassari, dove si realizzò un maxi-pestaggio il 3 aprile del 2000 (allora ero sottosegretario alla Giustizia e denunciai le torture commesse), e gruppi di 25 agenti in ogni Provveditorato regionale. L’aspetto davvero sconcertante è che non vi è una emergenza di violenza nelle carceri, se non quella che si manifesta con atti di autolesionismo da parte dei prigionieri sul proprio corpo e i tanti casi di tortura avvenuti a San Gimignano e a Santa Maria Capua Vetere, a Biella e al “Beccaria”, il minorile di Milano. Sono in corso processi che rivelano una pesante realtà di violenza ingiustificata subita dai reclusi. Ma c’è di peggio. Il governo ha presentato un disegno di legge Sicurezza alla Camera dei deputati (n. 1660) che conferma una concezione repressiva e autoritaria con misure volte a colpire le fasce più deboli della società, La bulimia di misure di proibizione e punizione alimenta la scelta aberrante di inventare nuovi reati. Ad esempio, viene introdotto il nuovo delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario che, oltre agli atti di violenza o minaccia o ai tentativi di evasione, punisce con pena base da 2 a 8 anni di reclusione anche gli atti di resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. L’equiparazione delle proteste violente alla resistenza nonviolenta è davvero assurda. Se un detenuto si rifiuterà, sdraiandosi sul pavimento del corridoio, di rientrare in una cella stipata di otto corpi, con i letti a castello e un solo cesso, rischierà una pena spropositata e l’applicazione dell’articolo 4bis dell’Ordinamento, che preclude l’accesso ai benefici penitenziari. Non si comprende se anche il digiuno sarà oggetto di questo trattamento. In ogni caso è lecito definire questa norma come la misura anti-Gandhi e anti-Pannella. È la conferma che dio acceca chi vuol perdere! Nello stesso articolo viene introdotta l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi, se commesso all’interno di un carcere. Infine, le stesse norme sono previste per gli atti compiuti nei Centri di Accoglienza o nei Centri per i Rimpatri (Cpr). Altre norme meritano un’analisi severa, dalla carcerazione di donne in gravidanza o con figli/e di età inferiore a un anno alla persecuzione della canapa light, cioè una sostanza equivalente alla salvia. C’è del metodo in questa follia. L’indignazione non basta. La protesta contro i suicidi in carcere: costruita una vera cella, proprio dietro palazzo Chigi di Liana Milella La Repubblica, 14 giugno 2024 Eccola, la “provocazione”. Una vera cella come quelle che esistono nelle carceri italiane. Piccola, tre metri per due e mezzo. Pareti bianche piene di scritte che ricordano la vita “fuori”. “Ti amo Mimì”. E maledicono quella che si vive dentro. “L’Italia rovina la gente”. E poi una brandina per dormire. Un water. Un lavandino. Tutto qui. Siamo in piazza di Pietra a Roma. Giusto dietro palazzo Chigi. A ridosso della tomba di Adriano. Qui si appoggia la celletta. La “provocazione” del Dubbio, il quotidiano del Consiglio nazionale forense, che invita i cittadini a entrarci dentro, chiudere la porta, e “provare che significa essere reclusi”. Come dice il presidente del Cnf Francesco Greco: “Siamo convinti che chi ha commesso un reato debba scontare la pena sempre in condizioni di vita dignitose”. Dall’inizio dell’anno già 40 suicidi in carcere - Le cronache dalle carceri documentano invece ormai 40 suicidi dall’inizio dell’anno. E gli oltre 61mila detenuti. E pure l’ostinato no del governo alla “liberazione anticipata speciale”, la proposta di Roberto Giachetti di Iv, protagonista di uno sciopero della fame con Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino, per metterla in calendario. Sessanta giorni invece di 45 ogni sei mesi, solo per chi dimostra una buona condotta, e con il pieno via libera del magistrato di sorveglianza. Misura troppo “permissiva” per un governo che invece crea il Gio, il Gruppo di intervento operativo antirivolte, lanciato dal sottosegretario meloniano Andrea Delmastro. Un’altr’altra squadretta di picchiatori? Delmastro dice di no. Vedremo. Le cronache, tipo quelle del Beccaria, sembrano smentirlo. Il governo “presunto” garantista - Intanto, a ridosso della celletta, ecco l’altro sottosegretario, il leghista Andrea Ostellari che, come ormai fa da mesi, riannuncia la presunta misura “svuota carceri” del governo. La presenta così: “Una norma che disciplina i benefici, già previsti dalla legge, per i detenuti che aderiscono al trattamento e dimostrano buona condotta”. Cioè niente di più rispetto a quello che già esiste. Se, da detenuto, ti comporti bene, puoi ottenere dei benefici. E ci mancherebbe altro. Ma Ostellari ci tiene a sottolineare che “non saranno introdotti sconti di pena”. Figurarsi, dal governo “presunto” garantista nessuno se li aspetta. In calendario il 24 giugno - Tant’è che, nonostante le insistenze del Pd con Anna Rossomando e Debora Serracchiani che lo ripetono anche qui, la “liberazione anticipata speciale” è destinata a essere bocciata giusto la prossima settimana alla Camera dov’è in calendario il 24 giugno. “Condizioni disumane” - E cade nel vuoto l’ennesimo appello di Rita Bernardini, un mese di sciopero della fame proprio per la “liberazione anticipata” che insiste nel dire: “Voglio sapere che cosa intendono fare lo Stato e il governo adesso per le condizioni disumane in cui si trovano i detenuti perché è come se qualcuno fuori venisse maltrattato e noi non facessimo nulla. Questo è intollerabile”. L’abolizione dell’articolo 27 - Già. Ed è l’impressione che provano i romani entrando nella “celletta”. Mentre dentro Serracchiani ricorda le “indicazioni opposte del governo come il reato di rivolta in carcere”, mentre la premier Meloni “vuole abolire l’articolo 27 della Costituzione”. Quello che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E Rossomando ricorda come ci sia una sentenza della Corte costituzionale sull’affettività in carcere “del tutto disattesa dal governo”. È da lei arriva un’altra critica durissima: “Noi chiaramente insistiamo sulle pene alternative, ma il governo continua a produrre norme all’insegna del più carcere, come il decreto Caivano”. “Vuoto, angoscia, rabbia: in questa cella l’umanità scompare...” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 giugno 2024 Cittadini in fila per provare che vuol dire essere reclusi in carcere per cinque minuti: l’installazione del Dubbio a Roma- Angoscia, nausea, tristezza. E ancora: rabbia, oppressione, disperazione. Cinque minuti in cella bastano a riempire un intero catalogo di emozioni, anche se chi entra è libero di uscire in qualunque momento. Anche se quella cella di isolamento che Il Dubbio ha riprodotto nel cuore di Roma è solo un’imitazione della realtà. “Ma poi riaprite subito la porta, vero?”, esclama qualcuno accogliendo la sfida di una “detenzione” brevissima e volontaria. A prendere parola sono i cittadini che oggi hanno popolato piazza di Pietra, in pieno centro città, per la nostra iniziativa dedicata all’emergenza penitenziaria: un evento per scuotere le coscienze dell’opinione pubblica e della politica mentre nelle nostre prigioni si allunga ogni giorno la lista di chi si toglie la vita. Una strage senza fine, quella dei suicidi in cella, un’emergenza che non fa rumore. Muta, come l’espressione di chi è rimasto per qualche minuto chiuso in uno spazio di quattro metri per due. “È difficile spiegare cosa ho provato, non ci sono parole per questo”, dice chi partecipa. Passanti, turisti, giovanissimi. Avvocati, politici, giornalisti. Un campione di umanità variegato, che si è trovato a condividere un sentimento riflesso dentro uno sguardo comune: chi ritrova la “libertà” si sente smarrito. “Di sicuro hai tempo per startene coi tuoi pensieri. Ma è impressionante la mancanza di luce, in quello spazio che sembra impossibile condividere con altre persone. Un’esperienza claustrofobica”, ci racconta un ragazzo. Dentro non ha trovato nessun appiglio: la stanza è abitata da una piccola brandina, un water, un lavandino. E nient’altro, oltre a quelle scritte sul muro che raccontano la disperazione di chi ci è passato. Come Marco Sorbara, ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, che ha trascorso 909 giorni in custodia cautelare da innocente. È lui ad accompagnare per mano i nostri visitatori, mostrando loro che vuol dire essere reclusi in carcere. “Qualcosa di davvero angosciante, l’idea di dover condividere con qualcuno che non conosci uno spazio del genere e la tua intimità. Mi mancava il respiro. Lì dentro tutto sembra amplificato. E le cose che sono nella tua testa sembrano riecheggiare: le senti come se fossero a tutto volume”. Soli con i propri pensieri, così si raccontano i nostri “detenuti”. Che si prestano alla finzione ma danno voce a sentimenti verissimi, come dimostra la nostra “letteratura” sul carcere, quella raccolta nelle pagine che Il Dubbio dedica ogni giorno a chi è ristretto davvero. A chi racconta del tempo che non passa mai, chiuso tra mura strette mentre il mondo di fuori fluisce indifferente. “Per prima cosa ho preso il giornale che ho trovato sulla brandina e ho cominciato a leggere: un modo per evadere subito con i pensieri”, spiega una ragazza. Persino lei, come tanti nei nostri istituti di pena, si è aggrappata a un pezzo di carta. Un libro, una rivista, una lettera: tutto ciò che ti separa dalla disperazione quando intorno trionfa il nulla. “Il vuoto, ecco, una grande sensazione di vuoto. Con questi rumori indefiniti, il canto di un uccellino, che ti ricordano che fuori c’è la vita”. Ancora una volta chi passa dalla nostra cella traccia una linea. C’è il mondo di fuori, e il mondo di dentro, dietro le sbarre. Il pianeta carcere escluso allo sguardo della società, con una mandata di troppo. “Provo tanta rabbia. Questa non è giustizia, né rieducazione: troppo spesso dimentichiamo che chi è in carcere è prima di tutto una persona”, tuona una cittadina. Ha lasciato la cella dopo un istante, con le mani che ancora le tremano. Non riesce a convertire in parole la sua frustrazione, eppure dice: “Ma dov’è la Costituzione in questa cella, dov’è finita l’umanità?”. Ecco la domanda che ispira l’iniziativa del Dubbio: come riportare il carcere nella Costituzione? Da tempo l’esecuzione penale ha assunto connotazioni in palese violazione dell’articolo 27 della nostra Carta, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mentre oggi, il carcere, è un luogo in cui l’umanità sprofonda. A partire dalla sua architettura, che ha un impatto diretto sulla mente di chi vive i penitenziari, come hanno spiegato i relatori intervenuti al ciclo di dibattiti che si è tenuto in contemporanea all’interno del Tempio di Adriano. “Se questa cella è realistica? Manca la puzza: c’è un odore del carcere che è del tutto particolare”, spiega Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. La politica radicale racconta che un trattamento del genere è riservato ai nuovi giunti, coloro che hanno appena messo piede in carcere. “Immaginate una persona che è stata appena fermata - dice - che magari entra per la prima volta in carcere e si trova completamente isolata dal mondo: non per cinque minuti ma per ore. Se ha problemi di tipo psicologico o di dipendenza c’è da impazzare. E infatti sono in tanti a togliersi la vita per l’impatto con l’isolamento”. Cinque minuti sono solo un esperimento. Un “trucco” per guardare dentro, per una volta. Servirà a qualcosa? Dalla Caritas progetti di formazione e laboratori per il sostegno ai detenuti ansa.it, 14 giugno 2024 Da progetti di formazione a percorsi di ascolto, fino a laboratori di preparazione al lavoro. L’attività delle Caritas diocesane si svolge anche all’interno delle carceri italiane, sostenendo i detenuti, e le relative famiglie, per permettergli di reinserirsi nella società dopo aver terminato di scontare la pena. Con la collaborazione di cooperative, fondazioni e associazioni di volontariato, i progetti proposti hanno potuto concentrarsi su un ampio sistema di aspetti diversi, a cominciare dal sostegno allo studio. All’interno delle strutture detentive, infatti, l’azione delle Caritas si è concentrata sul sostegno di coloro che, dopo la pena, non avrebbero modo di completare i percorsi intrapresi, o di iniziarne di nuovi. Contemporaneamente, si sono attivati anche percorsi di alfabetizzazione e corsi per il rilascio di certificazioni ufficiali, riconosciute nel mondo lavorativo. Sono infatti numerosi i laboratori, realizzati sia all’interno delle strutture che all’esterno, che mirano al reinserimento lavorativo del detenuto tramite attività pratiche e teoriche: falegnameria, produzione agricola, produzione biologica, laboratori di ceramica e corsi di cucito, meccanica e ristorazione. Molte anche le borse-lavoro, con tirocini attivati proprio dalle Caritas. Sulla base di queste formule, alcuni progetti sono in fase di sviluppo. Ad Asti, ad esempio, è previsto un percorso di acquisizione delle competenze che vedrà alcuni volontari affiancare i detenuti per trovare un metodo di studio efficace all’interno di spazi ristretti e poco favorevoli alla concentrazione. Ad Agrigento, invece, alla luce dei dati relativi alla dispersione scolastica a livello nazionale, regionale e provinciale, sono in fase di organizzazione una serie di percorsi di supporto a favore di minori all’interno di un circuito scolastico e formativo. In Italia, altri progetti sono già stati sperimentati: nel 2021 è stato avviato un percorso formativo di panificazione all’interno di una struttura carceraria per imparare i processi di impasto, lievitazione e cottura; il progetto “Ripartiamo dalla nostra terra” ha permesso il reinserimento di dodici detenuti nel mondo del lavoro tramite l’agricoltura sociale; lo stesso è avvenuto con l’iniziativa “La bottega dell’artigianato”; il progetto del 2018 “Senza sbarre”, rivolto ai detenuti delle carceri in Puglia, ha promosso attività di rieducazione e inclusione sociale. Tra le altre attività realizzate dalle Caritas ci sono anche i punti di ascolto, veri e propri sportelli di orientamento rivolti anche agli stranieri e garantiti anche all’esterno, e progetti di sostegno economico alle famiglie più in difficoltà. Come sta il diritto all’istruzione universitaria nelle carceri italiane di Annachiara Mottola di Amato ltreconomia.it, 14 giugno 2024 Il sistema che permette a detenute e detenuti di frequentare i corsi con l’aiuto di docenti e tutor conta oggi quaranta Poli universitari penitenziari funzionanti per quasi 1.800 immatricolati. Seppur si tratti di meno del 3% della popolazione ristretta, negli ultimi anni i passi sono stati significativi. Ma gli ostacoli rimangono numerosi e le linee guida definite non sempre applicate. Il nostro viaggio, da Secondigliano a Opera. Antonio è uno studente di 25 anni da poco laureato in Giurisprudenza all’Università di Bologna. Al secondo anno, nel novembre 2020, ha fatto una scelta: diventare tutor. È il modo in cui vengono chiamati gli studenti universitari che scelgono, come volontari, di affiancare i detenuti che frequentano i Poli universitari penitenziari (Pup) nella preparazione degli esami. “In un periodo di reclusione come il lockdown -racconta Antonio-, dentro di me è nato il desiderio di entrare in contatto con chi recluso lo è tutto l’anno”. La sua esperienza non è un caso isolato, il sistema che permette a detenute e detenuti di frequentare i corsi universitari grazie all’aiuto di docenti e tutor conta oggi quaranta strutture funzionanti più quattro in fase di attivazione: i Pup appunto, presenti in tutte le Regioni di Italia. “Quello della pena non può essere un tempo sospeso, deve riempirsi di possibilità di lavoro e apprendimento per i detenuti. La Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari (Cnupp) è nata anche per questo”, spiega Franco Prina, fondatore della Conferenza nata nel 2018 dopo un lungo cammino partito negli anni Settanta, quando alcune università, come quella di Torino e di Milano, avevano iniziato a offrire servizi ai detenuti che ne facevano richiesta. “Allora la garanzia del diritto allo studio in carcere avveniva in modo casuale -spiega Prina, che ne è stato presidente fino a poche settimane fa, prima della nomina di Giancarlo Monina, docente all’Università di Roma Tre-. Da una parte c’era il background culturale che influiva molto nella volontà di continuare gli studi, dall’altra la fortuna di trovarsi in un istituto vicino ad un’università che offriva questo servizio”. In mancanza di quest’ultima condizione fare l’università in carcere era praticamente impossibile. Benché appena il 2,8% della popolazione carceraria risulti iscritto a un corso universitario, nell’arco di sei anni, da quando si è realizzato il coordinamento nazionale tra Conferenza dei rettori, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ministero, il sistema dei Pup ha prodotto risultati significativi. Dalla cifra iniziale di 796 iscritti nel 2018 si è arrivati a raggiungere il numero complessivo di 1.707 detenuti immatricolati all’università nell’anno accademico 2023/2024. La stragrande maggioranza (il 95,8%) è rappresentato da uomini, mentre le donne sono solo il 4,2%. Gli stranieri rappresentano invece il 10,4%. Un trend in crescita costante che corrisponde alla progressiva estensione del numero delle università aderenti, con l’apertura di nuovi poli in Regioni dove prima del 2018 queste strutture erano assenti come Sicilia, Basilicata e Puglia. Nonostante gli sforzi compiuti dalla nascita della Cnupp ad oggi, sono ancora molti gli ostacoli a una piena garanzia del diritto allo studio per le persone detenute o in condizioni di limitazione della libertà personale. Se è vero, infatti, che la Conferenza definisce un modello di come dovrebbe funzionare lo studio universitario in carcere delineando linee guida e procedure, spesso questi parametri non vengono rispettati. Come nel caso della necessità di predisporre spazi adeguati allo studio sia collettivo sia individuale, o la garanzia dell’accesso alle biblioteche, alle risorse informatiche e alla didattica a distanza. Le maggiori criticità sono legate infatti soprattutto al sovraffollamento di molti istituti penitenziari -il tasso di sovraffollamento è pari al 117% con 60mila detenuti, oltre 10 mila in più dei posti disponibili- e all’arbitrarietà del sistema di permessi e autorizzazioni che può rendere il lavoro di docenti universitari e tutor molto difficile. “Il rispetto dei parametri è lasciato alla buona volontà di coloro che lavorano in carcere -continua l’ex presidente Prina-, dal direttore dell’istituto al singolo agente di polizia penitenziaria, basta che uno soltanto si metta di traverso e il meccanismo si inceppa”. Su questo aspetto punta il dito Andrea Porciello, professore di Filosofia del diritto che per anni ha insegnato agli studenti del Pup dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. “Se uno studente fa richiesta di una penna, di un libro o della prenotazione di un esame e questa richiesta, per colpa o incuria non viene trasmessa o si ritarda appositamente la sua comunicazione, tutto il percorso universitario subisce continui blocchi”. A queste difficoltà si aggiunge la mancanza dei mezzi indispensabili per studiare: un luogo silenzioso dove concentrarsi, una luce che puoi accendere quando vuoi, libri gratuiti, uno sgabello dove sedersi e un tavolo. “Sembrano banalità -spiega Maria Rosaria Santangelo, docente di Architettura all’Università Federico II di Napoli-, ma sono condizioni necessarie. Se condivido una cella con altre quattro persone, a volte anche di più, la buona volontà per studiare non basta. Ci sarà sempre qualcuno che grida, che guarda la televisione o chiede di spegnere la luce per riposare”. Da anni insegna Progettazione architettonica agli studenti detenuti del Pup di Secondigliano, sono loro a raccontarle nel corso dei laboratori le difficoltà nel proseguire gli studi. Come nel caso dei libri di testo: in alcuni casi le spese vengono coperte dalle università, in altri sono a carico del detenuto stesso. “Chi si iscrive a un corso universitario in carcere desidera uscire dal vuoto pneumatico di uno spazio che lo comprime, che prosegua o meno fino alla laurea una volta scontata la pena è indifferente, noi come università dobbiamo offrire tutti gli strumenti necessari”. Prima che esistessero i Pup, nel 2014, un gruppo di docenti dell’Università Bicocca ha messo in piedi un’esperienza unica al carcere di Opera, a Milano. I professori hanno siglato una convenzione che rendeva possibile allestire all’interno dell’istituto penitenziario una vera e propria aula universitaria. “Ho insegnato per dieci anni a Opera in una classe mista, formata da studenti liberi, che venivano in carcere per tutte le ore del corso e studenti interni”, ricorda professore Roberto Cornelli che ora insegna Criminologia all’Università Statale di Milano. “È una modalità di insegnamento partecipativa che evita lo scambio a senso unico delle esperienze - continua Cornelli - non sono solo i detenuti a parlare e il focus non è solo l’esperienza detentiva, gli studenti interni ed esterni si relazionano tra loro da pari”. Il fatto che il numero di detenuti iscritti ai corsi universitari sia in aumento si iscrive nel contesto attuale delle carceri italiane, dove qualsiasi diritto, persino i più basilari, come quello a un trattamento dignitoso o alla salute, viene quotidianamente messo in discussione. Le criticità che delineano il quadro complessivo del mondo carcerario influiscono, quindi, anche in questo ambito. “Il carcere è un luogo dove lo scarto tra teoria e pratica è purtroppo la regola - afferma Alessio Scandurra, coordinatore per Antigone dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione degli adulti - il rispetto dei principi che hanno ispirato la nascita di questi spazi è sempre parziale, lo è per la presenza di riscaldamento e acqua calda che dovrebbe essere obbligatoria e invece non sempre c’è, figuriamoci per il diritto allo studio”. Ma in una situazione costantemente emergenziale, nel rapporto tra università e carcere sono stati fatti dei passi avanti. Anche se riguardano una piccola percentuale della popolazione carceraria (2,8%) e sono il prodotto di un sistema ibrido che parte dalle istituzioni ma fa molto affidamento sulle associazioni di volontariato. “Dalla fondazione della Cnupp la sensibilità è cambiata, si creano ponti tra il carcere e il mondo di fuori e questo contribuisce a formulare politiche informate - sostiene Scandurra - magari seguire un corso di Ingegneria in carcere non ti farà diventare per forza ingegnere, ma non vuol dire che abbia meno valore per uno studente interno che per uno libero. A quanti sono privati della libertà personale non devono essere automaticamente sottratti gli altri diritti”. Quanti occhi non ti hanno visto, ragazzo? di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2024 Sono ben più di vent’anni che entro in diversi istituti di pena da volontaria o con progetti culturali finanziati da Enti del Terzo Settore; dall’estrema punta nord del Paese e all’estrema punta sud e continuo a credere con forza nelle possibilità di riscatto di un’umanità che ha infranto le regole del vivere sociale in modo più o meno grave, più o meno consapevole. A patto che si possa ricostruire insieme un senso di reciproca responsabilità e di reciproco rispetto. A patto che l’istituzione stessa sia responsabile, che riconosca a tutti i livelli la piena dignità delle persone, in particolare di quelle di cui detiene il corpo, a cui sottrae gli affetti e il tempo, a cui applica la più penosa delle pene: il carcere. Ma, sempre più spesso, entrando nelle case circondariali, accade di incontrare persone che non dovrebbero stare lì, chiuse tra le sbarre per lunghissime, infinite inutili ore. L’altro pomeriggio a San Vittore insieme a Laura - anche lei volontaria di lunga esperienza - abbiamo incontrato un giovane uomo italiano, infinitamente sofferente e del tutto scollegato dal contesto e dalla situazione. Non si poteva non notare. Ho provato una fortissima indignazione e ho avuto voglia di scrivergli una lettera. Quanti occhi non ti hanno visto, ragazzo? Di certo non ti hanno visto quelle persone importanti e gli studenti riuniti nella Rotonda ad ascoltarle. Eppure dicevano parole sagge e serie, finalmente dopo essere state bloccate non si sa bene perché solo qualche mese fa. Forse non ti hanno visto bene gli occhi di quel giudice che ha firmato la custodia cautelare in carcere, non hanno visto il tuo sguardo lontano, confuso, spaventato e perso non si sa bene dove. Non hanno visto che giri con un sacchetto di plastica con dentro poche cose, le tue poche cose immagino, non hanno visto che hai paura, tanta paura che ti alzi lentamente per chiudere la porta della stanza dove stiamo parlando di un libro, tranquillamente in un piccolo gruppo. Ma tu hai paura. Di certo ti vedono gli occhi dei tuoi compagni. Allibiti e interrogativi cercano i nostri occhi, con una domanda silenziosa o appena sussurrata: - Ma cosa ci fa qui uno come lui? Anche i nostri occhi ti vedono, altrettanto allibiti e impotenti. Quando parli è soltanto per chiedere: - Ma quanti mesi mi daranno, lo sai tu quanti mesi mi daranno? - E la risposta è più patetica e surreale della domanda: - Ma non lo so, come posso saperlo? Tanti anni fa mi sono laureata in Lettere, non so nulla di Giurisprudenza -. Ma quanti occhi non ti hanno visto, ragazzo? E tu cosa ci fai qui dentro, chiuso in un carcere sovraffollato, con tanta paura addosso che si potrebbe quasi pesare? Ma è questo il carcere della dignità e della rieducazione? Per te che non sei ancora stato condannato e, quindi, sei ancora un cittadino innocente? Proprio come me. *Giornalista volontaria Avellino. Detenuto suicida ad Ariano Irpino, Ciambriello: “Nelle carceri strage silenziosa” avellinotoday.it, 14 giugno 2024 L’intervento del Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Un detenuto napoletano di 38 anni, A.L.B., si è suicidato nel carcere di Ariano Irpino, ieri sera. È il 6° in Campania e il 41° in Italia. Il corpo del detenuto si trova attualmente presso l’ospedale di Ariano Irpino per l’autopsia. Dalle prime ricostruzioni sembra un gesto dimostrativo finito male, considerato che è stato fatto davanti ad un altro detenuto e a un gruppo di agenti che non riuscivano ad entrare nella camera di sicurezza dove era stato tradotto, a seguito di una colluttazione, visto che si opponeva alla perquisizione della sua cella. Il detenuto morto suicida aveva manomesso la serratura di ingresso della camera di sicurezza. Sull’episodio è intervenuto il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello: “Nelle carceri si consuma una strage silenziosa. Un suicidio ogni tre giorni dall’inizio dell’anno! I suicidi sono sia il prodotto della lontananza della politica e della società civile dal carcere, sia dalla mancanza di figure sociosanitarie e di ascolto. Negli Istituti penitenziari abbiamo bisogno di più stato sociale e meno stato securitario a tutela della dignità umana. Le motivazioni sottese al suicidio sono varie e di diversa natura. In questo caso potrebbe essere stata una mera reazione ad uno scatto d’ira non contenuta”. “È indispensabile - prosegue Ciambriello - che il legislatore e il Governo individuino immediatamente misure, anche temporanee, volte ad alleggerire la tensione sulla popolazione carceraria. Comunico in qualità di Portavoce nazionale della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, che il 18 giugno in tutta Italia faremo manifestazioni pubbliche per ricordare l’appello del Presidente della Repubblica fatto al Parlamento e al Governo il 18 marzo. Sui suicidi e sul sovraffollamento delle carceri servono interventi urgenti e immediati, un messaggio chiaro e tradito fino ad oggi dalla politica”. Ferrara. Allarme suicidi in cella: “Carceri disastrose e carenza di cure. Affollamento record” di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 14 giugno 2024 “Le carceri vanno svuotate, non riempite”. La maratona oratoria della Camera penale sul tema delle difficili condizioni in cui versano le case circondariali arriva a 48 ore dall’ennesima tragedia in cella. Il suicidio di un collaboratore di giustizia di 56 anni tra le mura dell’Arginone rende dunque ancora più attuali le parole e gli allarmi lanciati ieri mattina sotto il Volto del Cavallo. “Noi magistrati - esordisce il presidente del tribunale Stefano Scati - dovremmo andare a visitare le carceri. È fondamentale per chi svolge il nostro lavoro vedere le condizioni in cui vivono le persone le cui pene sono state stabilite da noi”. Secondo Scati, le celle andrebbero “svuotate”. Invece vengono “sempre più riempite”. Il presidente del tribunale conclude con un pensiero al detenuto suicida, sottolineando che “qualcosa va fatto”. Il microfono passa poi all’arcivescovo Gian Carlo Perego che ha definito il carcere un “non luogo”. Il prelato ricorda come la Chiesa estense stia ultimando “una struttura da dodici persone dedicata a chi una casa non ce l’ha”, per poi focalizzare l’attenzione sul problema delle cure tra le mura dei penitenziari. Cure, analizza Perego, “che a volte mancano, soprattutto per chi presenta disagio mentale o tossicodipendenza. E questa carenza può portare ai suicidi”. In chiusura, l’arcivescovo lancia un appello: “L’Arginone non è un luogo al di fuori della città, ma deve farne parte”. Ad arrivare al cuore del problema carcere è l’avvocato Alessandra Palma, già presidente della Camera penale ferrarese e tesoriere dell’Unione Camere penali italiane. “Non c’è più tempo - scandisce al fianco dell’attuale presidente Cecilia Bandiera, che porta simbolicamente un paio di manette strette a un polso -. Serve una rapida assunzione di responsabilità per porre fine alla grave situazione di degrado delle carceri”. Poi i numeri: settanta suicidi nel 2023, quaranta solo nei primi sei mesi del 2024. L’ultimo proprio a Ferrara. “Significa - analizza Palma - un suicidio ogni tre giorni e mezzo. È evidente che in questo trend ha un ruolo il peggioramento della situazione delle carceri. Celle ammuffite, senza acqua calda. Detenuti stipati come sardine su letti ammucchiati uno sopra l’altro e senza accesso ai programmi trattamentali. Il sovraffollamento - conclude - ha poi raggiunto numeri raccapriccianti. Siamo al 120%”. La media è quella nazionale, ma Ferrara, con i suoi 400 detenuti a fronte di una capienza di 300, non sembra fare la differenza. Pescara. “In carcere condizioni inumane”. Appello dei detenuti al Garante regionale Il Centro, 14 giugno 2024 Le problematiche del carcere diventano ogni giorno più drammatiche e la situazione rischia di esplodere. Sovraffollamento, suicidi (sono già 38 dall’inizio dell’anno), storica carenza di personale, sono argomenti ormai di stretta attualità che segnano le cronache quotidiane. L’ultimo appello arriva dai detenuti del carcere San Donato che hanno scritto una lettera al Centro, per far conoscere “le condizioni inumane e degradanti” nelle quali i detenuti di Pescara si trovano a scontare la propria condanna a causa di un sovraffollamento esagerato e senza limiti, violando la Costituzione ma anche il nostro ordinamento penitenziario, nonché le direttive europee”. Una nota inviata anche all’ufficio di sorveglianza del tribunale, firmata da un gruppo di detenuti che si sono fatti portavoce degli altri compagni, per far conoscere le loro condizioni di vita all’interno della struttura. “I detenuti dormono a terra (sia nelle celle di pernottamento sia nelle salette degli educatori e salette di attesa colloqui), come se fossimo in un paese del Madagascar, lontani anni luce da una detenzione di sostanziale rieducazione”. Parlano anche dell’esiguo “numero di educatori che non può sopperire alle richieste individuali dei ristretti che vivono la pena senza speranza e con frustrazione”. E poi evidenziano un altro aspetto molto delicato: “Si tenga conto che ci sono numerosi casi psichiatrici che difficilmente il corpo di polizia penitenziaria riesce a gestire, trovandosi a loro volta a lavorare in condizioni altrettanto inumane e degradanti, subendo aggressioni ed offese quotidiane, in quanto il numero dei ristretti è superiore a 438, il 40% in più del consentito”. E quindi nel lanciare questo grido di allarme, anche a difesa degli stessi agenti, i detenuti concludono ponendosi un interrogativo: “Ma dov’è il garante Giammarco Cifaldi? Perché non viene a visitare il carcere di Pescara per riferire a chi di dovere ed aiutare anche chi ci lavora?”. “Il motivo di questa missiva”, concludono i detenuti, “è connesso al timore che possa accadere qualcosa di irreparabile, ma soprattutto evidenziare il rischio al quale vengono esposti i detenuti che intendono seguire un percorso impeccabile e che possono veder compromesso il reinserimento sociale”. Le lamentele sul carcere, e in particolare sulla sua gestione, sono peraltro all’attenzione del procuratore Giuseppe Bellelli che qualche tempo fa ha avviato una inchiesta sulla gestione del San Donato, che inevitabilmente coinvolge l’attuale direttrice della casa circondariale di Pescara, Armanda Rossi, da tempo nell’occhio del ciclone per comportamenti ritenuti poco limpidi in relazione, appunto, alla gestione della struttura. La procura sta lavorando su un’ipotesi di omissione di atti d’ufficio e l’inchiesta dovrebbe essere in dirittura d’arrivo. Il malcontento è ormai sempre più diffuso tanto che gli inquirenti nelle scorse settimane hanno proceduto ad acquisire una serie di testimonianze dagli addetti ai lavori, agenti, detenuti e persino da qualche avvocato. Sulla questione era intervenuta anche la Camera penale segnalando la “sussistenza di diverse criticità che spesso incidono negativamente sul diritto di difesa dei detenuti”. Si parla, in particolare, di una serie di omissioni in relazione a richieste legittime avanzate dai detenuti, ad esempio per permessi premio, gestione dei soldi degli stessi detenuti e via discorrendo: se queste richieste non vengono definite e restano invece chiuse nei cassetti, concretizzerebbero l’ipotesi di reato al vaglio del procuratore Bellelli, di omissione di atti d’ufficio. Mantova. Fare il pane in carcere per cambiare vita: il progetto della coop Sapori di Libertà di Monica Coviello lacucinaitaliana.it, 14 giugno 2024 Angelo Puccia racconta come, nei 2 laboratori mantovani, 12 detenuti producono pane e dolci artigianali per voltare davvero pagina e cominciare una nuova vita. Il pane si presta a diventare un perfetto “oggetto di lavoro” anche per chi non ha troppo tempo a disposizione per la formazione. Infatti, se per diventare un panificatore esperto servono anche vent’anni, per imparare le basi della panificazione può essere sufficiente un buon corso di un paio di settimane. Ce lo spiega Angelo Puccia, presidente e Ceo della società cooperativa Sapori di Libertà, che dal 2016 si occupa della produzione di prodotti salati e dolci attraverso un laboratorio di panificazione artigianale nato nella Casa Circondariale di Mantova. “Da noi c’è un grande turnover” dice. “Ci sono persone in attesa di giudizio o in misura cautelare, e c’è anche chi attende una sentenza d’appello: non sempre i detenuti rimangono a lungo con noi. Nel frattempo, però, possono imparare una professionalità che potrà risultare utile anche una volta tornati in libertà”. Sapori di Libertà ha aperto due laboratori, uno interno al carcere e uno a Levata, nell’hinterland. La fase di formazione viene svolta nella casa circondariale, e chi è in semilibertà e ha una condizione giuridica che lo consente, può lavorare anche nel laboratorio esterno. “Si tratta di un passaggio importante e difficile, in cui i detenuti si giocano la libertà e misurano la loro capacità di gestirla” ci spiega. Il laboratorio di panificazione - Sapori di Libertà si occupa di “giustizia riparativa”, e i suoi laboratori di panificazione, in cui lavorano 12 persone, sono parte di un percorso di “risocializzazione”, che dà l’opportunità ai detenuti di trasformare davvero la propria vita. “Si tende a credere che, una volta scontata la pena, i detenuti diventino persone nuove, ma la verità è che il carcere non funziona: è l’anticamera della ricaduta” dice Puccia, che lascia che a parlare siano i dati: “La recidiva è del 70% in 5 anni per chi sconta la pena totalmente in carcere, mentre si riduce al 5% fra chi ha opportunità lavorative e non perde i contatti con la famiglia e la comunità. Affinché ci siano meno reati e meno vittime e la società sia più sicura, mentre si sconta la pena bisogna arrivare a ricostruire un patto con la società che è stata danneggiata, riconoscendo la propria responsabilità e facendo qualcosa di utile per riparare, risarcire le vittime”. 300 kg di pane al giorno - Sapori di Libertà produce circa 300 kg di pane al giorno, principalmente per il punto vendita di Levata e per una serie di mense, scolastiche, aziendali, delle case riposo. La panificazione avviene durante la notte: alle 8 del mattino il pane è pronto per la distribuzione. Parallelamente, dalle 5,30 alle 14, comincia la produzione degli altri prodotti salati: grissini (con olio extravergine, ciccioli, olive, cereali, grana padano) e schiacciatine con vari tipi di impasto (mantovane classiche, alla farina di riso, integrali). Ma Sapori di Libertà prepara anche una ampia (e golosa) gamma di dolci: la sbrisolona mantovana (classica, con mandorle, con farina di riso e cioccolato), biscotti e baci di dama. Ma soprattutto la torta di rose - il prodotto più richiesto -, il bisulan tipico mantovano e il lingotto alle amarene o al cioccolato, “un’invenzione dei detenuti in carcere: una specie di plumcake lievitato, con un impasto simile a quello della colomba, una calata di amarene o cioccolato, glassa e zuccherini” aggiunge Puccia. Nel periodo natalizio e pasquale, poi, vengono sfornati 150 panettoni o colombe al giorno. “Non usiamo additivi e conservanti: puntiamo sulla qualità che può offrire solo un laboratorio artigianale”. Il mandato di Sapori di Libertà è quello di fornire più opportunità possibili a chi arriva dal carcere. “Credo nel lavoro che stiamo facendo, e se solo uno dei nostri 12 lavoratori dovesse riuscire ad avere una vita nuova, lontano dalle “scorciatoie” e dai soprusi, avremmo raggiunto il nostro obiettivo”. Pescara. Oggi il convegno “Pianeta carcere, problemi e prospettive” di Giulia Monaco infomedianews.com, 14 giugno 2024 Oggi pomeriggio, a partire dalle ore 15,30, nella sala del Consiglio Comunale di Pescara, una tavola rotonda dal titolo “Pianeta carcere, problemi e prospettive”, organizzata dalla sede pescarese dell’Associazione Nazionale Forense, che ha inteso dare risalto ad una realtà, quella del mondo carcerario, sconosciuta ai più e che merita invece migliori attenzioni non solo da parte della società quanto soprattutto dal legislatore. Il tema di cui si discuterà, quello della esecuzione della pena in ambito intramurario, riguarda l’intera società, non solo gli addetti ai lavori. Da oltre un decennio si è avviato un percorso finalizzato a ridurre il sovraffollamento negli istituti, onde evitare trattamenti inumani e degradanti, e si è messa in cantiere una legge di riforma dell’ordinamento penitenziario. Le riforme e misure strutturali risolutive però, nonostante le numerose sollecitazioni e denunce quotidiane, non ancora arrivano, mentre le condizioni di vita dei detenuti e di tutti coloro che operano nel circuito penitenziario soffrono un inarrestabile processo degenerativo. L’iniziativa si propone lo scopo di dare vita ad un dialogo-confronto tra le varie figure interessate allo specifico settore, e dunque magistrati dell’ufficio di sorveglianza, avvocati, direttori di istituti di pena, esperti dell’area trattamentale, garante dei detenuti, operatori sanitari, al fine di offrire un contributo propositivo nell’interesse della collettività ad una realtà di assoluto rilievo sociale oltrechè giuridico qual è quella del carcere. Parteciperanno alla tavola rotonda due direttori di case di pena, Franco Pettinelli, direttore della casa circondariale di Chieti e Stefano Liberatore, direttore della casa di reclusione di Sulmona, il prof. Gianmarco Cifaldi, garante dei detenuti per l’Abruzzo, la dott.ssa Paola Bussoli, comandante del reparto di polizia penitenziaria di Pescara, l’avv. Marina Vaccaro, e la dott.ssa Stefania Basilisco, responsabile dell’area trattamentale della casa circondariale di Chieti. A moderare l’incontro sarà la dott.ssa Marta D’Eramo, coordinatrice dell’Ufficio di Sorveglianza di Pescara. Interverranno per i saluti il Sindaco Carlo Masci, il presidente del Tribunale di Pescara Angelo Bozza, la presidente del tribunale di sorveglianza Maria Rosaria Parruti, il presidente dell’ordine forense di Pescara Federico Squartecchia. Taranto. Roberto Donadoni nel carcere per la settima edizione del progetto “Fuori… gioco!”. di Giulio Destratis* Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2024 Dopo il successo degli scorsi anni e la sospensione forzata causa Covid, ha preso il via la settima edizione del progetto di rieducazione dei detenuti denominato “Fuori…gioco!” che ha come obiettivo quello di trasmettere ai reclusi i valori tipici dello sport come il rispetto delle regole e dell’avversario e che ha ottenuto il prestigioso riconoscimento del patrocinio del Ministero della Giustizia. Il direttore dell’Istituto Penitenziario di Taranto dott. Luciano Mellone, ha accolto favorevolmente la riproposizione del progetto da parte del suo ideatore e coordinatore, l’avvocato Giulio Destratis, Presidente dell’A.P.S. Fuorigioco. Dopo un incontro preliminare in cui si è illustrato ai detenuti lo sviluppo delle attività progettuali tenutosi alla presenza dell’Ispettore Capo di Polizia Penitenziaria Domenico Madeo, del dott. Vitantonio Aresta e della dott.ssa Doriana De Gaetani dell’Area Trattamentale dell’Istituto, è partita la fase didattica che prevede lo svolgimento di una serie di lezioni di aula all’interno del carcere, in cui si trattano tematiche riguardanti le tecniche e le tattiche di gioco, la giustizia sportiva, gli aspetti civili e penali relativi alla pratica sportiva, l’ordinamento federale e la traumatologia sportiva. La seconda fase pratica prevede allenamenti di gioco e, soprattutto, un appuntamento unico in Italia: lo svolgimento del torneo di calcio quadrangolare tra le rappresentative di Magistrati, Avvocati, Agenti Penitenziari e detenuti, che si sfideranno all’insegna del Fair Play sabato 22 giugno 2024 con calcio di inizio alle ore 17.30 sul manto erboso dello Stadio Iacovone di Taranto. Nel corso delle attività didattiche sono già intervenuti anche volti noti del calcio italiano: Pierluigi Orlandini, Giampaolo Spagnulo e Antonio Di Gennaro hanno raccontato le loro esperienze di vita fornendo ai ragazzi reclusi interessanti spunti di riflessione. La conferenza stampa di presentazione dell’evento finale si terrà martedì 18 giugno alle ore 11.30 nel Salone degli Specchi del Comune di Taranto. Oltre alla presenza delle massime cariche istituzionali, sono previsti gli interventi di Roberto Donadoni ex calciatore del Milan e della Nazionale Italiana e di Renato Olive ex capitano di Perugia e Bologna, i quali nella stessa mattinata incontreranno i detenuti partecipanti all’iniziativa all’interno della Casa Circondariale. *Avvocato, referente del progetto “Fuori… gioco!” Gorgona: l’isola che c’è di Antonella Barone gnewsonline.it, 14 giugno 2024 Colline, pinete, lecceti, fioriture spontanee sorprendenti per bellezza e rarità, insenature, cale, calette e grotte dove un tempo trovavano rifugio le foche monache. Gorgona, la più piccola isola dell’arcipelago toscano, con i suoi 200 ettari di estensione è ancora un paradiso della biodiversità. A questa straordinaria caratteristica sono dedicate, ogni anno, le etichette del vino prodotto dall’Azienda Marchesi Frescobaldi e giunto alla dodicesima raccolta. Protagoniste, per il 2022, le orchidee selvatiche mentre per la vendemmia del 2023, presentata nei giorni scorsi, si è scelto di celebrare i venti che accarezzano i vitigni. Il progetto sociale nato nel 2012 grazie alla collaborazione tra l’azienda vinicola e il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, offre lavoro a tre detenuti, regolarmente assunti e retribuiti che partecipano, insieme agli enologi, anche alla produzione di un blend di Ansonico e Vermentino. Le vigne sono coltivate in un terroir di soli due ettari ma unico per la ferrosità del terreno e per l’esposizione. La raccolta è manuale con affinamento in barrique, in una cantina realizzata con metodi artigianali. In tutto 9000 bottiglie l’anno di Gorgona bianco, mentre Sangiovese e Vermentino nero sono destinati alle poche centinaia di bottiglie per il Gorgona rosso, in produzione dal 2015, che viene affinato in orci in terracotta. “Un vino inimitabile, simbolo di speranza e libertà - commenta Lamberto Frescobaldi, presidente della Marchesi Frescobaldi, che non si stanca di lodare a ogni vendemmia le caratteristiche del luogo - Il progetto porta nel bicchiere il dna di questi territorio e mare bellissimi”. Una produzione di nicchia e un valore che va ben oltre la qualità del vino, indiscutibile, e il costo di una bottiglia (attorno agli 80 euro). L’azienda offre, infatti, ai detenuti l’opportunità di apprendere le abilità enologiche e di investire nel proprio futuro. La formazione e l’attività alle dipendenze di un marchio prestigioso hanno già consentito, infatti, ad alcuni di loro, una volta terminata la pena, di continuare a lavorare all’interno della stessa ditta o di trovare un’occupazione in altre produzioni vinicole. Il valore dell’alta formazione in ambito enogastronomico è perseguito da molte altre iniziative promosse negli istituti penitenziari. Tra le più note, l’attività di ristorazione nata 21 anni fa all’interno del carcere di Milano Bollate, realizzata in collaborazione con la cooperativa “Abc - La sapienza in tavola” che ha dato vita al ristorante “In Galera”. Si trova all’interno delle prime mura del penitenziario lombardo e propone menù creativi e degustazioni raffinate, cucinate e servite da otto detenuti. Per la Festa della Vendemmia che ogni anno si tiene a Gorgona, sono stati proprio loro a cucinare il menù, guidati dallo chef stellato Marco Olivieri. Una collaborazione che mira a diventare stabile e proficua. “Quello che mi piace di questo evento - ha detto Giuseppe Renna, direttore della casa di reclusione - è l’idea di gemellaggio, parola scelta dal presidente Frescobaldi che ha creduto nella possibilità di produrre un vino d’eccellenza qui, su un’isola, insieme all’Amministrazione penitenziaria. Rappresentando così il nostro modo di lavorare, cioè il lavorare insieme per passare dall’io al noi”. L’esperienza della vigna Frescobaldi è quella con maggiore appeal mediatico ma è in realtà nella casa di reclusione che lavorano tutti i circa 90 detenuti, perlopiù nell’agricoltura. Si coltivano olivi (tra cui la “Bianca di Gorgona”, a rischio di estinzione), carciofi, peperoncini, fantasiose varietà di pomodori e insalate. Prodotti che vengono venduti in gran parte nello spaccio e destinati al consumo degli abitanti dell’isola (i generi mancanti sono trasportati da un traghetto). C’è anche un forno che assicura pane fresco ogni giorno agli abitanti di Gorgona ovvero ai detenuti, alla Polizia penitenziaria e alla signora Luisa Citti, unica cittadina stabile, che a 94 anni non ne vuole sapere di trasferirsi altrove insieme ai suoi gatti. Non si creda, però, che soffra di solitudine: uno dei detenuti si occupa dei lavori domestici ma tutti gli altri, operatori e polizia penitenziaria le vogliono bene. Il clima è mite, si sente protetta e può lasciare la chiave nella serratura. L’ultima isola-carcere, insomma, può permettersi di decorare una delle case sul porticciolo con il testo dell’articolo 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A sottolinearlo è Silvia Polleri, presidente della cooperativa “ABC- La sapienza in tavola” di Bollate, che ha collaborato alla realizzazione della cena per la vendemmia e che ha ricordato anche come il carcere milanese adempia pienamente al mandato istituzionale: “ha la recidiva più bassa e soprattutto colmiamo quel buco che genera la prigione nel curriculum di una persona. Così, quando loro escono, potranno spendere questi anni di reclusione utilizzati bene in un mestiere che è molto spendibile”. Più che un carcere ideale, Gorgona evoca l’idea di una comunità funzionante dove uomini liberi e non, paesaggio naturale e animali sembrano vivere in armonia. Fino al 2020 sull’isola c’erano allevamenti di vacche, capre e pecore, smantellati in seguito a un accordo tra ministero della Giustizia, Dap e Parco dell’Arcipelago Toscano che ne vietava la macellazione, in quanto ritenuta non rieducativa. Dopo averli allevati e curati a lungo e stabilito una relazione affettiva con gli animali, i detenuti si rifiutavano di accompagnarli alla macellazione. Gran parte delle bestie furono al tempo liberate, imbarcate e assegnate alla LAV. Le restanti vivono tuttora nell’ Isola Fenice, struttura a loro dedicata. Li chiamavano “Mostri di Ponticelli”: hanno scontato 32 anni di carcere da innocenti di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 giugno 2024 La prefazione di Roberto Saviano al libro di Giulio Golia e Francesca Di Stefano in uscita il 18 giugno per Piemme. Tre giovani furono accusati di aver ucciso due bambine a Napoli. In dubio pro reo: nel dubbio, giudica in favore dell’imputato. È un’indicazione al giudice, un invito messo per iscritto nel Digesto di Giustiniano, per la prima volta in una raccolta di questioni di diritto. In caso di incertezza, di mancanza di prove, di impossibilità di raggiungere un verdetto di inequivocabile colpevolezza, il giudice deve accettare il rischio di assolvere un reo piuttosto che condannare un innocente. Queste dovrebbero essere le basi non solo del diritto, ma anche del senso comune, perché potrà sembrare impossibile da credere oggi, ma le leggi altro non sono (altro non erano) che l’espressione del senso comune. Non di un senso comune spaventato, inquisitorio e complottista, ma di un senso comune che aveva la necessità di normare il vivere quotidiano tendendo all’equità. Giustiniano commissionò il Digesto non perché non vi fossero leggi, ma perché ve ne erano e andavano raccolte e ordinate. Francesca Di Stefano e Giulio Golia in questo libro (Mostri di Ponticelli, Piemme, ndr) raccontano la vicenda di tre ragazzi di un quartiere della periferia di Napoli arrestati, negli anni Ottanta, per il rapimento e l’omicidio di due bambine. Erano innocenti, ma sono stati condannati all’ergastolo. E da innocenti hanno scontato 32 anni di carcere. Non è tutto, perché la vicenda dei “Mostri di Ponticelli”, così la stampa ha sin da subito nominato il caso, va oltre il madornale errore giudiziario, quello in cui si poteva fare meglio quel che si è fatto peggio. No, qui c’entra il male della nostra quotidianità, il male che viviamo sulla nostra pelle, ma più spesso a distanza di sicurezza. Lo vediamo, lo notiamo, però finché non colpisce direttamente, si fa finta di niente. Il tormento, a cui forse avremmo dovuto prestare attenzione proprio quando non eravamo coinvolti, come un tarlo assale. Ma poi si passa oltre perché vincono la sete di vendetta (non di giustizia), l’ottusità dei media, l’inconsapevolezza, e direi l’incoscienza, con cui si rincorre una certa fama. A tutto questo si aggiunge il cancro atavico che ammala le nostre comunità, quella criminalità organizzata che passa su tutto e tutti, che usa tutto e tutti pur di salvaguardare i propri affari. Leggendo questo libro vi renderete conto di essere totalmente immersi in una tragedia, una tragedia della classicità. Non c’è luce. Non c’è speranza. Non c’è aiuto, se non quello che arriva da sofferenti. Ho conosciuto molte delle persone che si sono accostate ai ragazzi di Ponticelli - Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo - e tutte sentono un dolore dentro, un dolore misto a paura, per l’ingiustizia subita da tre colpevoli di nulla e per la consapevolezza che a ciascuno può capitare di rimanere intrappolati nel “processo”. Spero non starete pensando: “No, a me non può accadere, conosco tante persone che potrebbero testimoniare sulla mia buona condotta. No, decisamente a me non può accadere”. Ne siete certi? Lo sapete che nello stesso anno in cui Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo sono stati accusati di rapimento e omicidio è stato arrestato Enzo Tortora? Lo sapete che le indagini erano gestite dalla stessa Procura? Sapete chi è Enzo Tortora? Sapete chi era Enzo Tortora? Probabilmente, in quel periodo, uno dei volti più noti della televisione italiana, e quindi d’Italia. Uno degli uomini più conosciuti, ammirati, amati e invidiati del nostro Paese. Sapete quante persone avrebbero potuto testimoniare sulla rettitudine di Tortora? E credete davvero che, in un processo penale, quello che conta sia la considerazione che di voi ha chi vi conosce e vi stima? I ragazzi di Ponticelli ed Enzo Tortora, per vie diverse e diversi accadimenti, sono stati travolti dalla stessa giustizia iniqua, distratta, sbrigativa, superficiale e infine colpevole. Una giustizia che rispondeva nel modo sbagliato alla domanda sbagliata. Una giustizia, soprattutto, che agiva velocemente, perché il desiderio di vendetta andava alimentato, continuamente. Sono passati quarant’anni, ma le cose non sono cambiate. La velocità con cui ormai approcciamo tutto, dai rapporti con le persone che abbiamo intorno, alle modalità che scegliamo per informarci, spesso non ci consente di comprendere il momento presente. Abbiamo bisogno di fermarci, di immergerci in qualcosa di compiuto, che abbia basi solide, che esprima uno o più punti di vista, che abbia una finalità, che sia anche coraggioso. Fermarsi per ragionare, e l’unico modo per farlo davvero è leggere libri i cui autori, già nella scelta dell’argomento, nell’uso delle parole e della sintassi, restituiscono una lettura con cui confrontarci. E il senso critico matura attraverso il confronto in una dialettica che richiede tempo, non nell’adesione istantanea a un punto di vista. Tre ragazzi di un quartiere della periferia di Napoli arrestati, negli anni Ottanta, per il rapimento e l’omicidio di due bambine. Erano innocenti, ma sono stati condannati all’ergastolo. E da innocenti hanno scontato 32 anni di carcere. Punto. Storia finita. Quel che è stato è stato. Ma sarà davvero così? Ovviamente no, perché ci sono tre uomini che oggi pretendono che la loro innocenza sia scritta in una sentenza. E insieme a loro, a pretenderlo siamo in tanti. Scrivere sui “ragazzi di Ponticelli” è necessario e fondamentale, perché necessario e fondamentale è pretendere che chiunque possa intervenire per arrivare a una revisione del processo senta la necessità di farlo. Adesso. Ogni libro è testimonianza. Quando la nostra indignazione si sarà sedata, quando gli interventi di chi ha a cuore questo caso dovessero perdersi nel tempo o nel frastuono di un dibattito sempre distratto, resteranno le parole scritte. Proprio come quelle che state per leggere. Il libro e gli autori - Il testo pubblicato qui sopra è la prefazione di Roberto Saviano che apre il volume di Giulio Goria e Francesca Di Stefano “Mostri di Ponticelli. O vittime di un enorme errore giudiziario?” che esce in libreria martedì 18 giugno per Piemme (pagine 256, euro 18,90). La vicenda riguarda Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo, condannati all’ergastolo nel 1986 per un delitto efferato. Giulio Golia, nato a Napoli nel 1970, è conduttore e inviato del programma televisivo Mediaset Le Iene dal 1998. Negli ultimi anni si è specializzato in inchieste sulla criminalità organizzata, in particolare su camorra e ‘ndrangheta, e sulla cronaca nera. Francesca Di Stefano è nata a Roma nel 1988. Giornalista professionista, dopo quattro anni nei programmi di Michele Santoro, dal 2015 è autrice de Le Iene e del suo spin-off di inchieste Le Iene presentano Inside Bene la legge anti-bullismo. Ma con tanti dubbi di Carlo Rimini Corriere della Sera, 14 giugno 2024 Restano perplessità sulle “misure rieducative” contenute nella formulazione della legge. Entra in vigore oggi la nuova legge contro il bullismo. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni avrà il potere di chiedere nei confronti dei bulli l’”attivazione di un percorso di mediazione”, oppure “lo svolgimento di un progetto di intervento educativo”. Questo progetto potrà prevedere “lo svolgimento di attività di volontariato sociale… la partecipazione a laboratori teatrali, a laboratori di scrittura creativa, a corsi di musica e lo svolgimento di attività sportive, attività artistiche e altre attività idonee a sviluppare nel minore sentimenti di rispetto nei confronti degli altri e ad alimentare dinamiche relazionali sane e positive tra pari e forme di comunicazione non violente”. Prescindiamo dall’osservazione per cui non si comprende chi debbano essere i protagonisti del “percorso di mediazione” (il bullo e il bullizzato?); prescindiamo dal rilievo per cui l’imposizione di una attività di volontariato è un ossimoro che il Parlamento avrebbe dovuto risparmiarsi; prescindiamo dal rilievo per cui l’elenco esemplificativo delle attività alle quali il bullo può essere costretto poteva comprendere compiti meno piacevoli e menzionare invece l’attività di assistenza a favore degli anziani o la presenza attiva in un reparto di oncologia pediatrica. Prescindendo da tutto ciò, l’idea è buona: il ragazzo responsabile di atti di bullismo può essere punito con una sanzione meno traumatizzante della sanzione penale, che lo metta di fronte alla gravità del suo comportamento e, magari, alla durezza della vita. Vi è però un aspetto della nuova legge che suscita perplessità. Si prevede che un ragazzo possa essere sottoposto a “misure rieducative”. L’espressione è inquietante: il ragazzo rieducato viene elevato al rango di novello Winston Smith. Ma ancora più inquietanti sono i presupposti del processo rieducativo: non è necessario l’accertamento di specifici atti di bullismo, cioè condotte aggressive o lesive della dignità altrui. È invece sufficiente qualsiasi indefinita “irregolarità della condotta o del carattere”, irregolarità che non vengono in alcun modo ricondotte dal legislatore al fatto che la persona “rieducata” si sia resa responsabile di azioni concrete contro qualcuno o contro qualcosa. Che un ragazzo possa essere sottoposto a “misure rieducative” semplicemente perché “Dà manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere” è una cosa che avremmo preferito non leggere in una legge approvata in una democrazia occidentale, così come non la vorremmo leggere in alcuna parte del mondo. Migranti. “Status di rifugiato” per le donne che si identificano nella “parità” con gli uomini di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2024 Lo ha stabilito la Corte Ue, sentenza nella causa C-646/21 depositata oggi, con riguardo alla domanda di due adolescenti irachene che dopo aver vissuto nei Paesi Bassi hanno dedotto il rischio di essere perseguitate in patria per lo stile di vita acquisito. Le donne, anche minorenni, che condividono come caratteristica comune l’effettiva identificazione nel valore fondamentale della parità tra donne e uomini, maturata nel corso di un soggiorno in uno Stato membro, possono essere considerate, a seconda delle condizioni esistenti nel paese d’origine, come appartenenti a un “determinato gruppo sociale”, in quanto “motivo di persecuzione” idoneo a condurre al riconoscimento dello status di rifugiato. Lo ha stabilito la Corte Ue con la sentenza nella causa C-646/21 (Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid). Due adolescenti irachene che soggiornano ininterrottamente nei Paesi Bassi dal 2015, in seguito al rigetto delle loro domande di protezione internazionale iniziali, hanno presentato domande reiterate affermando di aver assimilato le norme, i valori e i comportamenti dei giovani della loro età nella società europea. In caso di ritorno in Iraq, ritengono di non essere in grado di conformarsi alle norme di una società che non concede alle donne e alle ragazze gli stessi diritti di cui dispongono gli uomini e temono di essere esposte a un rischio di persecuzione in ragione dell’identità che si sono forgiate nei Paesi Bassi. Dopo che anche tali domande reiterate sono state respinte dalle autorità dei Paesi Bassi, le giovani donne hanno adito un giudice dei Paesi Bassi che ha deciso di interrogare la Corte di giustizia sull’interpretazione della direttiva 2011/95 sulla protezione internazionale, che definisce i requisiti per la concessione dello status di rifugiato di cui possono beneficiare i cittadini dei paesi terzi. Tale status, ricorda la Corte, è previsto in caso di persecuzione di ogni cittadino di un paese terzo per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale. Nella sentenza odierna, la Corte ha dichiarato che le donne, di qualsiasi età, che si identificano nel valore della parità con gli uomini, a seguito di un soggiorno in uno Stato membro, possono essere considerate come facenti parte di un “determinato gruppo sociale” passibile di “persecuzione” e dunque idonee al riconoscimento dello status di rifugiato. La decisione poi precisa che, se il richiedente protezione internazionale è un minore, le autorità nazionali devono necessariamente tenere conto del suo interesse superiore nell’ambito di un esame individuale relativo alla fondatezza della sua domanda di protezione internazionale. Inoltre, per valutare una domanda di protezione internazionale fondata su un motivo di persecuzione quale “l’appartenenza a un determinato gruppo sociale”, può essere preso in considerazione un soggiorno di lunga durata in uno Stato membro, soprattutto quando coincide con un periodo nel corso del quale il minore richiedente ha forgiato la propria identità. Migranti. Chi scappa da Gaza ha diritto allo status di rifugiato per l’inoperatività dell’Unrwa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2024 Le zone operative dell’Agenzia Onu escludono di regola il riconoscimento della protezione internazionale che invece va riconsiderata quando le condizioni deteriorate impediscono le azioni di garanzia Unrwa. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha chiarito agli Stati membri che gli apolidi di origine palestinese per quanto registrati presso l’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente) hanno diritto - in linea di principio - a ottenere lo status di rifugiato se la protezione o l’assistenza dell’Agenzia Onu è da considerarsi di fatto cessata. Lo ha affermato con la sentenza sulla causa C-563/22 che promana da un rinvio pregudiziale del giudice bulgaro adito da una donna apolide di origini palestinesi che era approdata in Bulgaria illegalmente dopo essere scappata dalla zona di guerra nella striscia di Gaza con la propria figlia. La sua richiesta era stata respii| Zamestnik-predsedatel na Darzhavna agentsia za bezhantsite (Status di rifugiato - Apolide di origine palestinese) L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (in inglese United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East, in acronimo UNRWA) è un’agenzia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite dedita a soccorso, sviluppo, istruzione, assistenza sanitaria, servizi sociali e aiuti di emergenza per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Libano, Siria e nello Stato di Palestina. L’assistenza o la protezione dell’UNRWA deve in particolare essere considerata come cessata nei confronti del richiedente quando, per qualsiasi motivo, tale agenzia non è più in grado di garantire ad alcun apolide di origine palestinese, che soggiorni nel settore della zona operativa dell’UNRWA in cui detto richiedente aveva la dimora abituale, condizioni di vita degne o condizioni di sicurezza minime Nel luglio 2018 una madre e sua figlia minorenne, entrambe apolidi di origine palestinese, hanno lasciato la città di Gaza e hanno raggiunto illegalmente la Bulgaria, dopo essere transitate per l’Egitto, la Turchia e la Grecia. La loro prima domanda di protezione internazionale presso le autorità bulgare è stata respinta in via definitiva con la motivazione che esse non avevano dimostrato di aver lasciato la Striscia di Gaza per il fondato timore di essere perseguitate. Esse hanno presentato quindi una seconda domanda (cosiddetta “domanda reiterata”) facendo valere la loro registrazione presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA). Esse chiedono il riconoscimento dello status di rifugiato a seguito della cessazione, di fatto, della protezione dell’UNRWA nei loro confronti. Anche la domanda reiterata è stata respinta, sulla base del rilievo che le interessate avrebbero rinunciato all’assistenza dell’UNRWA lasciando volontariamente la sua zona operativa. Il giudice bulgaro adito dalle interessate chiede alla Corte di giustizia di interpretare la direttiva procedure 1per quanto riguarda la portata dell’esame nel merito di una domanda reiterata. Inoltre, esso chiede alla Corte di interpretare la direttiva qualifiche2. Secondo tale direttiva, le persone registrate presso l’UNRWA sono, di norma, escluse dallo status di rifugiato nell’Unione europea. Tuttavia, quando la protezione o l’assistenza dell’UNRWA cessi, per qualsiasi motivo3, tali persone devono vedersi riconosciuto in via automatica4 lo status di rifugiato. La Corte è chiamata a chiarire in che momento l’assistenza o la protezione dell’UNRWA debba essere considerata come cessata. La Corte risponde, anzitutto, che l’esame nel merito di una domanda reiterata deve estendersi all’insieme dei fatti presentati. Esso deve prendere in considerazione anche i fatti che erano già stati valutati nell’ambito della prima domanda. La Corte osserva poi che, nell’ipotesi in cui il giudice bulgaro dovesse concludere che, in considerazione delle condizioni generali di vita esistenti nella Striscia di Gaza al momento in cui esso statuisce, la protezione o l’assistenza dell’UNRWA in tale settore della sua zona operativa dev’essere considerata come cessata nei confronti delle due richiedenti di cui trattasi, ad esse dovrebbe essere riconosciuto in via automatica lo status di rifugiato. Tuttavia, tale status dev’essere loro negato qualora rientrino nell’ambito di applicazione di uno degli altri motivi di esclusione previsti dalla direttiva qualifiche. L’assistenza o la protezione dell’UNRWA deve in particolare essere considerata come cessata nei confronti del richiedente quando, per qualsiasi motivo, tale agenzia non è più in grado di garantire ad alcun apolide di origine palestinese, che soggiorni nel settore della zona operativa di tale agenzia in cui tale richiedente aveva la dimora abituale, condizioni di vita degne o condizioni di sicurezza minime. La Corte rileva a tal riguardo che tanto le condizioni di vita nella Striscia di Gaza quanto la capacità dell’UNRWA di adempiere la missione ad essa affidata hanno subito un deterioramento senza precedenti a causa delle conseguenze degli eventi del 7 ottobre 2023.