Adesso riportiamo la nostra Costituzione in carcere di Davide Varì Il Dubbio, 13 giugno 2024 Una cella di quattro metri per due nel cuore di Roma. Un monito, un grido silenzioso che il Dubbio lancia a nome di chi non ha voce. Parliamo delle oltre 60mila persone detenute che sono ammassate nelle fatiscenti carceri italiane, lì dove si consuma nel modo più evidente il tradimento dei principi costituzionali, a cominciare dall’articolo 27 che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quella cella di isolamento che installeremo domani mattina a piazza di Pietra sarà a disposizione di chi vorrà provare, per 5 minuti, a capire cosa significa passare uno, due, dieci anni in condizioni del genere. Perché, come ricordava Piero Calamandrei - resistente, costituente, avvocato e storico presidente del Consiglio nazionale forense - “bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto”. Eppure parlare di carcere è da folli, perché a nessuno, o quasi, interessa la sorte di chi vive lì dentro. Che siano detenuti o operatori. Il carcere non porta voti, non dà visibilità. E prendersi cura dei diritti dei “carcerati”, come spiegano i sociologi, è controintuitivo. Molto più facile e immediato lo slogan cattivista del “buttiamo la chiave e lasciamoli marcire in cella”. Insomma, il carcere rappresenta la nostra cattiva coscienza e come tale deve rimanere ai margini del dibattito pubblico. C’è solo un momento in cui il carcere riesce a rompere il muro del silenzio: accade quando il numero dei suicidi diventa talmente alto da riuscire a scuotere, anche solo per un istante, le nostre coscienze distratte. E allora vi aspettiamo a piazza di Pietra per raccogliere l’appello del Capo dello Stato e di Papa Francesco, che da giorni, settimane, mesi, lanciano allarmi inascoltati sulla strage di suicidi dietro le sbarre. Ci vedremo lì per provare, per vedere e riflettere insieme nella sala del Tempio di Adriano, dove parleremo di come riportare il carcere nella “legalità” costituzionale. Vi “sbattiamo” in cella per ritrovare l’umanità persa dietro le sbarre di Francesca Spasiano Il Dubbio, 13 giugno 2024 Una manciata di metri quadri. All’interno una brandina, un water a vista e un piccolo fornelletto da cucina. Non ci sarà altro a separarvi dalla libertà nella cella di isolamento che Il Dubbio ha costruito nel cuore di Roma. Dove questa mattina tutti i cittadini avranno la possibilità di provare per cinque minuti che significa essere reclusi in carcere. L’appuntamento è dalle ore 9.30 alle 14 in piazza di Pietra a Roma per l’iniziativa “Portare il carcere nella Costituzione”, promossa dal nostro giornale per rompere il silenzio sulla strage senza fine dei suicidi tra i detenuti: 40 dall’inizio dell’anno, a cui si aggiungono i nomi dei cinque agenti penitenziari che si sono tolti la vita in questi ultimi sei mesi. L’esperienza in cella sarà introdotta da Marco Sorbara, ex detenuto che ha trascorso 909 giorni in cella da innocente. I cittadini, che resteranno chiusi dentro da soli, potranno sperimentare un’esperienza assolutamente realistica. Nella stessa piazza, nel “Tempio di Adriano”, si svolgerà in contemporanea un ciclo di dibattiti a cui prenderanno parte esponenti del governo, parlamentari, architetti, neuroscienziati, avvocati e magistrati, che dialogheranno sui nodi principali della questione penitenziaria. Tra gli altri, interverranno il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, il sottosegretario Andrea Ostellari, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, la deputata e responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, la senatrice dem Valeria Valente e il presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato Alberto Balboni. L’avvocatura sarà rappresentata dal presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco e, tra i vertici, dalla vicepresidente del Cnf Patrizia Corona e dal vicepresidente della Fai Vittorio Minervini. L’ingresso è libero e il convegno sarà valido ai fini della formazione continua degli avvocati, esclusivamente per coloro che parteciperanno in presenza. “L’impegno del Cnf è da sempre quello di collaborare, insieme alle istituzioni preposte, a una riforma del sistema penitenziario che possa garantire diritti e umanità ai detenuti in un’ottica rieducativa, e assicurare alla magistratura di sorveglianza più risorse e organici”, sottolinea Greco, che con il suo intervento darà il via al dibattito. “Gli avvocati, come custodi dei diritti costituzionali alla libertà e alla dignità - conclude il presidente del Cnf - vogliono fare un appello ai media italiani: impegniamoci tutti insieme per far conoscere la situazione delle carceri italiane e contribuire a creare condizioni di vita dignitose per i detenuti”. Da tempo, infatti, l’esecuzione penale ha assunto connotazioni in palese violazione dell’articolo 27 della nostra Carta, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mentre oggi il carcere è un luogo in cui l’umanità sprofonda, senza alcuna prospettiva per un rientro positivo nella società. Per questo è necessario agire subito. A cominciare dall’architettura penitenziaria, che deve muovere verso una visione umana e integrata, assicurando il diritto all’affettività in carcere sancito dalla Consulta con la sentenza dello scorso gennaio. Della “struttura carcere” e del suo impatto su chi la popola discuteremo nel primo panel con l’architetto Cesare Burdese e la neuroscienziata Federica Sanchez. A seguire parleremo di detenzione femminile con Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino e l’avvocata Elisabetta Brusa. Con l’obiettivo di orientare il sistema penitenziario verso una prospettiva di genere, così che le donne in carcere non siano condannate a scontare una doppia pena, abbandonate e isolate negli istituti pensati a misura di uomo. Anche per ciò che riguarda l’accesso all’istruzione e al lavoro: un altro tema al centro del nostro dibattito insieme alla questione dei minori in carcere. Di reinserimento sociale e recidiva discuteremo con Francesco Favi (consigliere Cnf), Alessio Scandurra (Antigone), Valerio Murgano (giunta Ucpi), Gaetano Scalise (Camera penale di Roma). E ancora, di giustizia minorile, con Antonio Sangermano (capo del dipartimento di Giustizia minorile), Michele Di Biase (Commissione Infanzia e adolescenza), Maria Brucale (avvocata) e Patrizio Gonnella (presidente Antigone). Tutti i dibattiti, moderati dai giornalisti Francesco Grignetti (La Stampa), Giovanna Reanda (Radio radicale), Giovanni Negri (Sole 24 ore) e Gaia Tortora (La7), prevedono la partecipazione degli esponenti politici e dei rappresentati del Cnf citati sopra. Infine, un tocco teatrale con il monologo “Sbarre di solitudine. Vite spezzate in una prigione di ombre” a cura della compagnia “Attori & Convenuti”. Suicidi in carcere, la strage silenziosa. Ecco la lista della vergogna di Davide Varì Il Dubbio, 13 giugno 2024 Quaranta detenuti si sono tolti la vita in soli sei mesi. Un’emergenza senza fine destinata a crescere con l’estate se non si agirà in fretta per riportare la nostra Costituzione nelle carceri. Nelle carceri italiane si consuma una strage silenziosa. È la strage dei suicidi in cella: dall’inizio dell’anno, in soli sei mesi, si sono tolte la vita quaranta persone. Un dato senza precedenti. Ecco la lista degli invisibili. (Fonte Ristretti Orizzonti, dossier “Morire di carcere”) Matteo Concetti, Ancona, 6 gennaio, 23 anni Il suo è il primo suicidio del 2024: si è impiccato in cella di isolamento, a soli 23 anni. Soffriva di problemi psichiatrici da anni. Dopo aver beneficiato di una misura alternativa, era tornato in carcere perché aveva “bucato” di poco l’orario di rientro da lavoro. Sarebbe tornato in libertà dopo qualche mese. Sua madre, allarmata dallo stato di malessere del figlio, si era rivolta anche alla senatrice Ilaria Cucchi per chiederle aiuto. Ma ormai era troppo tardi. Stefano Voltolina, Padova, 8 gennaio, 26 anni Era detenuto nel penitenziario Due Palazzi di Padova da pochi mesi e ci sarebbe rimasto fino al 2028. In carcere era seguito dai medici perché soffriva di depressione. “Scriveva bene, era sveglio, curioso, buono… Abbiamo fallito, come altre volte”, scrive in una lettera all’associazione Ristretti Orizzonti una volontaria del carcere che aveva riconJordan Tinti, trato Stefano a distanza di anni, dopo averlo avuto come alunno alle scuole medie. Alam Jahangir, Cuneo, 10 gennaio, 40 anni Si è impiccato nella sua cella con un lenzuolo. Originario del Bagladesh ma residente in provincia di Cuneo, si trovava in carcere da pochissimi giorni. Fabrizio Pullano, Agrigento, 12 gennaio, 59 anni Ristretto nel padiglione di alta sicurezza del carcere di Agrigento, il 59enne di Isola di Capo Rizzuto si è impiccato con un lenzuolo nella sua cella. Inutili i soccorsi del personale penitenziario che ha trovato il corpo. Andrea Napolitano, Poggioreale, 15 gennaio, 33 anni Era stato condannato all’ergastolo per il femminicidio della sua compagna Ylenia Lombardo. Già in cura presso il centro di igiene mentale, era a rischio suicidario da un anno, come ha sottolineato il Garante campano Samuele Ciambriello. Mahmoud Ghoulam, Poggioreale, 15 gennaio, 38 anni Il corpo senza vita del 38enne di origini marocchine è stato ritrovato nella sua cella, dove l’uomo si sarebbe tolto la vita impiccandosi. Detenuto senza fissa dimora, era entrato da poco a Poggioreale. Luciano Gilardi, Poggioreale, 22 gennaio, 34 anni È il terzo suicidio nel carcere Poggioreale di Napoli nel giro di una settimana. Il 34enne si è impiccato nella sua cella, sarebbe tornato in libertà dopo un mese. Antonio Giuffrida, Verona, 23 gennaio, 57 anni Detenuto dallo scorso novembre nel carcere di Montorio, il 57enne di origini siciliane si è impiccato nella cella dello stesso istituto già teatro di diversi suicidi. Jeton Bislimi, Teramo, 24 gennaio, 34 anni Di nazionalità macedone, il 34enne, residente in Italia, era stato arrestato dopo aver tentato di uccidere la moglie colpendola con dieci coltellate. Dopo l’aggressione aveva provato a togliersi la vita ingerendo dei farmaci, e un nuovo tentativo di suicidio c’era stato subito dopo l’ingresso nell’istituto di Teramo. Ahmed Adel Elsayed, Rossano Calabro, 25 gennaio, 34 anni Avrebbe finito di scontare la sua pena tra un anno. Gli agenti hanno trovato il corpo senza vita nel bagno della cella: il detenuto egiziano si sarebbe impiccato con un cappio ricavato dalle lenzuola. Ivano Lucera, Foggia, 25 gennaio, 35 anni Il giovane originario dei Monti Dauni si sarebbe impiccato nella sua cella con un lenzuolo. Michele Scarlata, Imperia, 28 gennaio, 66 anni L’uomo di origini siciliane era in carcere da pochi giorni dopo aver tentato di uccidere la compagna. Si è impiccato nella sua cella. S. Carmine, Carinola (Ce), 3 febbraio, 58 anni Era un detenuto disabile di 58 anni, l’uomo è stato trovato impiccato nella propria cella nella notte tra il 3 e il 4 febbraio, Purtroppo sono stati inutili i i tentativi di soccorso del personale sanitario e di polizia penitenziaria. Alexander Sasha, Verona, 3 febbraio, 38 anni Era ucraino, aveva un lavoro regolare, una figlia e una moglie che lo aveva denunciato per maltrattamenti. Sasha era incensurato e ci aveva già provato a togliersi la vita, tagliandosi la gola, l’8 gennaio, ci è riuscito dopo neanche un mese: impiccandosi. Hawaray Amiso, Genova, 8 febbraio, 28 anni Dopo tre mesi avrebbe finito di scontare la pena nel carcere di Marassi, ma non ce l’ha fatta il ragazzo marocchino, morto all’ospedale San Martino di Genova. Due giorni prima nella sua cella del carcere di Marassi aveva tentato l’impiccagione non senza aver prima manomesso la serratura del cancello per ritardare l’intervento della Polizia penitenziaria. Singh Parwinder, Latina 10 febbraio, 36 anni Era un bracciante agricolo, accusato di violenza sessuale nei confronti della moglie, era detenuto da otto mesi. Il cittadino indiano è stato trovato impiccato nel bagno di una cella del carcere di Latina, tra i più sovraffollati d’Italia. Cittadino albanese, Terni, 11 febbraio, 46 anni Era in carcere per tentata rapina, poi trasferito ai domiciliari e di nuovo in cella per violenze in famiglia. Rocco Tammone, Pisa, 13 febbraio, 64 anni Era in semilibertà. La sua pena sarebbe terminata nel 2027. Era uscito per andare al lavoro, poi era tornato in carcere ed è stato ritrovato senza vita nel cortile del penitenziario. Matteo Lacorte, lecce, 14 febbraio, 49 anni L’uomo, originario di Ostuni, si è tolto la vita all’interno della propria cella, dove è stato trovato impiccato. Cittadino Marocchino, Prato, 26 febbraio, 45 anni Il 45enne, da poco il detenuto era stato trasferito a Prato, si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre della finestra della sua cella. Jordan Tinti, Pavia, 12 marzo, 27 anni Era conosciuto come Jordan Jeffrey Baby, il trapper colpevole di rapina aggravata dall’odio razziale, ai danni di un operaio di 42 anni originario della Nigeria. Aveva già tentato il suicidio a fine gennaio, poi purtroppo ci è riuscito impiccandosi. Andrea Pojioca, 13 marzo, Secondigliano, 31 anni Era un senza fissa dimora, in carcere per omicidio. Era balzato agli onori della cronaca nell’agosto del 2019 per essere stato l’unico detenuto evaso da Poggioreale in cento anni di storia Patrick Guarnieri, 13 marzo, Teramo, 20 anni Si è ucciso nella cella dove era rinchiuso, proprio nel giorno del suo compleanno. Era da due giorni in carcere, ma una storia difficile alle spalle, anche sua madre è detenuta. Amin Taib, 14 marzo, Parma, 28 anni Era di nazionalità italiana, padre marocchino e madre italiana, con problemi di tossicodipendenza, era in carcere da dicembre e si è tolto la vita impiccandosi nella cella di isolamento. Alica Siposova, 21 marzo, Bologna, 55 anni Si è uccisa nel carcere della Dozza, mentre era in corso una visita del cardinale Matteo Zuppi, dopo aver inalato il gas della bomboletta che i detenuti utilizzano per cucinare. Alvaro Fabrizio Nuñez Sanchez, 24 marzo, Torino, 31 anni Si è impiccato alla finestra della cella. Aveva problemi psichiatrici e da novembre doveva essere trasferito in una Rems. Ad agosto 2023 aveva tentato di uccidere il padre ed era finito in carcere. Cittadino italiano, 27 marzo, Sassari, 52 anni Il 52enne si è impiccato al cancello della cella con il laccio dei pantaloni. Era rientrato la sera prima da un ricovero in ospedale. Pare che soffrisse di problemi suicidari. Karim Abderrahim, 7 aprile, Vibo Valentia, 37 anni Si è impiccato nella cella in cui era detenuto insieme a un’altra persona, nonostante l’immediato intervento non è stato possibile salvargli la vita. Massimiliano Pinna, 1 aprile, Cagliari, 32 anni Arrestato per furto si è impiccato dopo due giorni di carcere. Ahmed Fathy Ehaddad, 10 aprile, Pavia, 42 anni Il detenuto egiziano è morto in ospedale, dopo qualche giorno di agonia. Nei prossimi giorni avrebbe dovuto essere processato con il rito abbreviato davanti al Gup di Monza, per un caso gravissimo di violenza sessuale commesso il 27 settembre 2023 ai danni di un’anziana di 89 anni a Sesto San Giovanni. Nazim Mordjane, 17 aprile, Como, 32 anni È morto inalando il gas di una bomboletta da campeggio il detenuto che, il 21 settembre dello scorso anno era evaso dall’ospedale San Paolo lanciandosi da una finestra e provocando il grave ferimento di un agente di polizia che tentava di bloccarlo. Yu Yang, 22 aprile, Roma Regina Coeli, 36 anni Si ètolto la vita durante la visita del Garante dei detenuti. All’inizio di marzo uccise con una coltellata la moglie 37enne davanti alla figlioletta di cinque anni. Giuseppe Pilade, 4 maggio, Siracusa, 33 anni Era affetto da disturbi psichici, si è impiccato in cella, anche se gli restava poco tempo da scontare. Santo Perez, 16 maggio, Parma, 25 anni Originario di Palermo, il detenuto si è impiccato nel padiglione di media sicurezza nel carcere di Parma. Maria Assunta Pulito, 23 maggio, Torino, 64 anni Era accusata assieme al marito di aver violentato il loro padrone di casa, un uomo di 65 anni Cogne. Era in custodia cautelare dal 26 marzo. Si è soffocata con un sacchetto di plastica in testa e legato attorno al collo con un laccio. Mustafà A., 2 giugno, Cagliari, 23 anni Il ragazzo extracomunitario ha tentato il suicidio impiccandosi: è stato tratto inizialmente in salvo dagli agenti di custodia, ma dopo due giorni di agonia è morto in ospedale. George Corceovei, 2 giugno, Venezia, 31 anni Era un cittadino rumeno, in carcere da due mesi per tentato omicidio. Lascia la compagna e tre figli. Si è impiccato in cella quando gli altri detenuti che condividevano con lui la stanza erano fuori. Mohamed Ishaq Jhan, 4 giugno, Roma Regina Coeli, 31 anni Di origini pakistane, in carcere dallo scorso mese di settembre con l’accusa di rapina e lesioni, era ancora in attesa del primo grado di giudizio: si è impiccato in cella. Cittadino italiano, 11 giugno, Ferrara, 56 anni Era un collaboratore di giustizia, aveva 56 anni. L’amministrazione non ne ha ancora reso pubblico il nome. Gli restavano da scontare 3 anni e mezzo. Amato: “Numero chiuso contro il sovraffollamento. Si creino presupposti per amnistia e indulto” di Ilaria Carra La Repubblica, 13 giugno 2024 Il presidente emerito della Corte Costituzionale Giuliano Amato presenta il suo libro “Storie di diritti e democrazie” tra i detenuti di Milano dopo che a febbraio la visita fu annullata dal Dap. “Non si può vivere in un carcere sovraffollato: in altri Paesi non si entra finché non si libera un posto”. “Un carcere sovraffollato è un carcere in cui non si può vivere: si pensa che la fine della dignità dell’essere umano è quando perde le possibilità della riservatezza e in un carcere sovraffollato questa è un’esperienza quotidiana”. Nella sua visita tra i detenuti di San Vittore il presidente emerito della Consulta, Giuliano Amato, parte da questa considerazione per mettere sul piatto la sua proposta, “l’unica soluzione possibile”, contro il sovraffollamento carcerario. Che è “il numero chiuso: non si entra in carcere se non c’è un posto dove andare, questo succede già in altri Paesi dove, finché non si libera un posto, non si entra”. L’occasione per parlare dei problemi delle carceri è la presentazione del libro “Storie di diritti e democrazie - La Corte Costituzionale nella società” di Giuliano Amato e Donatella Stasio. A febbraio lo stesso appuntamento era stato annullato all’ultimo momento dal ministero della Giustizia. Durante l’incontro di oggi, con i detenuti tra il pubblico, vengono diffusi gli ultimi dati: al 31 maggio scorso i detenuti sono 61.547 con un tasso di sovraffollamento medio nazionale del 129%. Gli istituti con un tasso che supera il 130% sono 103. Amato sostiene la necessità di “visite quotidiane dei parlamentari nelle carceri” e “tirocini” al suo interno per i giudici. E richiama il concetto di “affettività intramuraria”, così come scritto nella sentenza 10 del 2024 della Corte Costituzionale. E denuncia che “la compressione dell’intimità mette alla prova le persone in carcere e i congiunti fuori. La nostra Costituzione abbraccia l’utopia che chiunque finisca in carcere continui a essere un essere umano. La Corte - aggiunge il presidente emerito - parla di residuo di libertà non cancellabile anche per chi deve scontare una pena: chi entra in carcere non è il reato che ha commesso ma la persona”. Così Amato ricorda che era al governo quando nel 2006 l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, concesse amnistia e indulto per l’ultima volta alla popolazione carceraria: “Cercammo di fare tutto per bene col ministro Mastella, fummo molto attenti a studiare i tagli delle pene ma venimmo lo stesso sommersi da critiche ferocissime. Mastella non se le aspettava e ci restò malissimo. Ci furono reazioni isteriche propagandistiche del tipo ‘fuori tutti i delinquenti’ e da quella volta nessuno ha più avuto il coraggio di parlare di amnistia e indulto. Invece si dovrebbero creare i presupposti per darli. Quante persone stanno dentro anche per reati minuscoli? Esiste la possibilità di ridurre il carico delle carceri senza aumentare il tasso di criminalità. È preoccupante che amnistia e indulto, previsti dalla Costituzione, siano stati di fatto cancellati”. Il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano descrive le sue difficoltà quotidiane: “Abbiamo 20-25 nuovi ingressi al giorno, qui arriva di tutto, persone da curare, che sono sotto sostanze, e non basta la visione: qui ci sono persone invisibili che assumono diritti solo quando entrano in carcere, e che quando escono tornano invisibili. E che se fossero agganciate dai servizi prima, forse non ci entrerebbero nemmeno. Il carcere finisce per essere la soluzione più facile ed economica per gente che non riesce ad accedere ad alcun servizio e che un medico e uno psichiatra lo vede per la prima volta solo quando entra in carcere”. Mattarella: “Salvaguardare l’indipendenza della magistratura per garantire lo Stato di diritto” di Liana Milella La Repubblica, 13 giugno 2024 Il presidente incontra la Rete Europea dei Consigli di Giustizia e mette in guardia “dalle gravi conseguenze” qualora “le nomine e le carriere dei magistrati siano influenzate politicamente” proprio mentre è chiamato a inviare alle Camere il ddl costituzionale sulla separazione delle carriere. Un discorso breve, ma fortissimo, ancora una volta, quello di Sergio Mattarella sull’indipendenza dei giudici. Proprio mentre, sul suo tavolo, c’è la proposta di legge costituzionale del governo sulla separazione delle carriere che richiede la sua firma per essere inviata alle Camere e che ha già creato, due settimane fa, un forte contrasto tra il Quirinale e palazzo Chigi per via di un incontro dello stesso Mattarella col Guardasigilli Nordio e il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano “venduto” politicamente come una sorta di via libera anticipato. E oggi il capo dello Stato è pronto a ribadire, con grande fermezza e come ha già fatto tante volte, quanto sia importante l’indipendenza dei giudici a tutela della democrazia. Eccolo pronunciare queste parole davanti alla delegazione della Rete Europea dei Consigli di Giustizia, i Csm dei singoli Stati della Ue: “Recenti vicende di alcune democrazie occidentali dimostrano quanto possano essere gravi le conseguenze di un’erosione dei pilastri dello stato di diritto qualora vengono sottratti spazi di indipendenza alla giurisdizione ovvero siano influenzate politicamente le nomine e le carriere dei magistrati”. Ed è inevitabile pensare a quanto è avvenuto in Israele, con una riforma della giustizia duramente contestata anche in piazza dai cittadini, e prim’ancora ai casi della Polonia, dell’Ungheria, della Turchia dove lo stato di diritto è stato sovvertito. Al Quirinale, ad ascoltarlo, c’è anche il vice presidente dell’attuale Csm, l’avvocato leghista Fabio Pinelli che ha cercato di ridimensionare proprio il suo Csm a mero organo di alta amministrazione e più volte ha contestato o cercato di limitare il diritto di valutare le leggi del governo fermato dallo stesso Mattarella. Le considerazioni del capo dello Stato sul ruolo dei giudici sono chiarissime: “Alla magistratura compete la tutela dei diritti e la garanzia di giustizia ad essa connessa. Senza questa lo Stato di diritto fondato sull’uguaglianza e sulla dignità della persona ne sarebbe gravemente incrinato”. E di seguito: “Va quindi salvaguardata l’indipendenza della magistratura che, allo stesso tempo, costituisce una prerogativa di ogni singolo appartenente all’ordine giudiziario e insieme un diritto di ciascun cittadino”. Impossibile non ricordare, mentre Mattarella parla, i continui attacchi di tutto il centrodestra di governo proprio contro l’autonomia delle toghe e il lancio della separazione delle carriere a pochi giorni dal voto europeo che, in un’intervista a Repubblica il titolare della Difesa Guido Crosetto, annuncia come “prioritaria” anche rispetto al premierato, mentre al contempo assegna alla magistratura un ruolo subalterno perché “in teoria dovrebbe solo applicare le leggi”. E poi aggiunge: “Se invece assorbe anche il potere esecutivo o legislativo diventa altro”. Mattarella ovviamente parla della magistratura in tutt’altro modo, esaltando proprio la funzione dei giudici quali interpreti della legge in chiave europea. Quando dice che “la prospettiva in cui il magistrato è chiamato a muoversi non è più soltanto nazionale, ma si colloca in un orizzonte più ampio entro il quale garantire i diritti”. Inevitabile non pensare alle accuse lanciate dalla stessa premier Meloni alla giudice di Catania Iolanda Apostolico, vittima di una delegittimazione a colpi di video sulla sua vita privata, per aver “disapplicato” il decreto Cutro sui migranti a seguito delle direttive della Corte di giustizia del Lussemburgo. Ed ecco ancora Mattarella: “La tradizione giuridica nazionale non ne risulta dispersa, bensì sviluppata in una dimensione europea, attraverso l’interlocuzione con la Corte di giustizia e con la Corte europea dei diritti dell’uomo, per assicurare una tutela sempre più completa ed efficace”. Per questo il presidente insiste “sull’indipendenza della magistratura come elemento costitutivo dello Stato democratico” e ricorda come sia la Corte di giustizia che la stessa UE abbiano “sottolineato come il requisito dell’indipendenza dei giudici attiene al contenuto essenziale del diritto fondamentale a un equo processo”. Guai dunque a toccare proprio “l’indipendenza della magistratura che allo stesso tempo costituisce una prerogativa di ogni singolo appartenente all’ordine giudiziario e insieme è un diritto di ciascun cittadino”. Toghe, il richiamo del Quirinale: “Grave quando la politica le influenza” di Andrea Bulleri Il Messaggero, 13 giugno 2024 Il capo dello Stato: l’indipendenza dei giudici è essenziale per un equo processo ma ogni potere è soggetto alla legge. Non lo dice, il capo dello Stato. Ma il pensiero di chi ascolta le sue parole al Quirinale è lì che va: all’Ungheria di Viktor Orban. E quindi, alla vicenda di Ilaria Salis. Per rimarcare l’importanza di una magistratura che sia - e che rimanga - indipendente dal potere politico. “Recenti vicende di alcune democrazie occidentali - suona l’avvertimento di Sergio Mattarella - dimostrano quanto possano essere gravi le conseguenze di una erosione dei pilastri dello Stato di diritto qualora vengano sottratti spazi di indipendenza, ovvero siano influenzate politicamente, le nomine e le carriere dei magistrati”. Detto in altre parole: le toghe, per il delicatissimo e fondamentale ruolo che ricoprono in una democrazia, non devono subire i condizionamenti della politica. E al tempo stesso, sempre per il loro alto compito, devono garantire “la propria opposizione a qualsiasi atto che possa compromettere l’indipendenza dei singoli giudici, della magistratura e dei consigli di giustizia”. Perché neanche chi giudica può agire al di sopra delle regole, per il “fondamentale e irrinunciabile principio della soggezione del potere, di ogni potere, alla legge”. Ad ascoltare il capo dello Stato - che parla in veste presidente del Consiglio superiore della magistratura - ci sono il vicepresidente e i consiglieri del Csm, il presidente del Consiglio di Stato, il primo procuratore della Cassazione e i delegati europei dei Paesi aderenti alla rete dei Consigli di giustizia. Ed è a loro che Mattarella torna a indirizzare un monito che il presidente ha fatto suo più volte, rivolgendosi alla magistratura. Ovvero: da una parte, il dovere di tutelarne l’indipendenza dal potere politico (e qui qualcuno ci legge anche un avvertimento al governo al lavoro sulla riforma della giustizia). Dall’altra, però, c’è l’invito a chi indossa la toga ad agire soltanto in base al rispetto della legge: a non sottostare, insomma, alle possibili pressioni, ma neanche a logiche correntizie, di credo politico o di altra natura. “Alla magistratura - avverte Mattarella - compete la tutela dei diritti e la garanzia di giustizia a essa connessa. Senza questa lo stato di diritto fondato sull’uguaglianza e sulla dignità della persona sarebbe gravemente incrinato”. Per questo ne va “salvaguardata l’indipendenza”, che “allo stesso tempo costituisce una prerogativa di ogni singolo appartenente all’ordine giudiziario e insieme un diritto di ciascun cittadino”. E ancora: “L’indipendenza della magistratura” è “un evento costitutivo dello stato democratico”. Un requisito che per la corte di Giustizia e per l’Ue “attiene al contenuto essenziale del diritto fondamentale ad un equo processo”. Che non può essere equo, e quindi giusto, se i giudici non sono imparziali e immuni dai condizionamenti politici. Un dovere che essi per primi devono rammentare, pare suggerire in coda Mattarella, che cita la Dichiarazione di Atene della Rete dei consigli di giustizia in cui “si afferma il principio in base al quale “esiste un dovere collettivo per la magistratura europea di dichiarare in modo chiaro e convincente la propria opposizione a qualsiasi atto che possa compromettere l’indipendenza dei singoli giudici”. Toghe (e politica) avvisate. Il ruolo costituzionale dell’avvocatura di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno L’Opinione, 13 giugno 2024 Fin da quando ero studente in Giurisprudenza mi accorsi subito, nell’affrontare la preparazione dell’esame di diritto costituzionale, quanto esistesse una anomala, se non ingiusta, disparità di tutele e garanzie da parte della Carta costituzionale nei confronti di coloro, ossia gli avvocati, tramite i quali i cittadini possono sia agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, sia esercitare il diritto inviolabile alla difesa in ogni stato e grado del procedimento (ex articolo 24 della Costituzione), in rapporto a quelle statuite dalla Costituzione a favore dell’Organo della magistratura. Prima di tutto, dalla lettura della parte seconda (Ordinamento della Repubblica), Titolo IV, della Costituzione emerge come l’Organo della magistratura ha ricevuto un riconoscimento diretto da parte del costituente, mentre per quanto riguarda l’avvocatura sussiste solo indirettamente e quindi non in modo esplicito. Ictu oculi, sembra come se per l’amministrazione della giustizia esista una sola priorità costituzionale, ossia quella rappresentata dalla magistratura da un lato e dal diritto alla difesa dall’altro, senza considerare che non esplicitando costituzionalmente il ruolo dell’avvocatura, perché escluso formalmente e quindi anche sostanzialmente, dalla semantica costituzionale, non si fa altro che determinare la non legittimazione dell’unico ordine grazie al quale il cittadino può difendere e rappresentare i propri diritti e interessi legittimi. Una disparità rimarcata anche in ambito penale, quando, a causa della mancanza della divisione delle carriere dei magistrati, l’avvocato in udienza si misura con un pubblico ministero che appartiene allo stesso ordine del magistrato giudicante, potendo determinare, anche solo ipoteticamente, un conflitto di interessi e una consequenziale disparità fra accusa e difesa. La politica ha sempre cercato di affrontare la succitata disparità cercando di proporre delle riforme costituzionali che non hanno mai visto la luce. Con l’attuale Governo, tramite il ministro della Giustizia Carlo Nordio, è stata affrontata, per la prima volta in assoluto, la questione della costituzionalizzazione dell’avvocatura. Invero, il ministro Nordio, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, svoltosi lo scorso aprile, ha annunciato il completamento degli organici della magistratura entro il 2026 e, parlando a braccio, ha concluso affermando: “Vorrei auspicare che, se un domani dovessimo arrivare a una riforma costituzionale, nell’ambito della Costituzione fosse inserito il ruolo fondamentale degli avvocati”. Per poi aggiungere: “L’avvocato indossa una toga, esattamente come il giudice, e in questo senso rappresenta quasi una funzione sacerdotale. Come giustamente ha detto il presidente del Cnf Francesco Greco la giustizia non è un servizio, è la forma più nobile, o una delle più nobili, dell’esercizio dello spirito umano. Ma è anche vero che la giustizia se non è assistita da un servizio è una giustizia impotente e sterile”. A riprova del ruolo costituzionale dell’avvocatura, il ministro ha tenuto ad evidenziare che, per la prima volta, un membro dell’avvocatura è stato assunto nell’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, definendolo a sua volta: “Un fatto epocale”. Aggiungendo: “Per anni si è detto che il Ministero era una sorta di fortezza di una casta privilegiata di magistrati. Posso dirvi che, se il nostro ufficio legislativo è stato fino ad ora carente di avvocati, dipende anche da una ragione economica, perché purtroppo le retribuzioni sono scarse e mentre il magistrato si trascina il proprio stipendio, che è più che decoroso, un bravo avvocato deve rinunciare a degli emolumenti e deve addirittura deve timbrare il cartellino”. In sostanza, credo che finalmente sia stata formalizzata un’attenzione verso l’Ordine degli avvocati, che anche a causa dell’assenza di un suo riconoscimento all’interno della Carta costituzionale non ha ancora ricevuto quella legittimazione di tutele sia dal punto professionale che economico. L’avvocato, attualmente, già si misura con delle stringenti regole deontologiche che, inquadrandolo come prestatore di opera intellettuale, lo costringono a non poter svolgere liberamente un’attività di promozione della propria professione, pur essendo inquadrato fiscalmente come detentore di Partita Iva e quindi come un imprenditore. La storia dell’umanità insegna che il progresso è irrefrenabile, anche di fronte ad annose resistenze, le quali possono solo ritardare il suo arrivo, ma giammai il suo realizzarsi. Oramai i tempi sono maturi e per quanto riguarda il riconoscimento esplicito del ruolo dell’avvocato nella nostra tanto decantata Costituzione credo che si sia oltrepassato il cosiddetto “Rubicone”, almeno dal punto di vista dell’interesse politico, del Governo e dell’opinione pubblica, tanto da concludere che non sarebbe utopistico poter finalmente affermare: Alea iacta est. “Le norme ci sono, ma non si rispettano: neanche le assoluzioni cancellano la gogna” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2024 Inchiesta della Dda di Reggio Calabria su un presunto scambio politico- mafioso. I politici - Giuseppe Falcomatà, Giuseppe Neri, Giuseppe Francesco Sera - sono stati scagionati dal gip, ma ieri le prime pagine della stampa cartacea e online hanno dato spazio esclusivamente alla tesi accusatoria. Ne parliamo con Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, sempre in prima fila per denunciare le distorsioni del processo mediatico. Come giudica l’appiattimento della stampa sulla visione colpevolista? È un copione noto. Due giorni fa ho aperto il sito di un noto quotidiano, ho visto la notizia dell’inchiesta e le immagini di atti di indagini preliminari, girate da una forza di polizia, con il logo ben in vista. Come al solito... Certo, assistiamo alla pubblicazione dei video delle operazioni di polizia praticamente in quasi tempo reale, come assistiamo al battesimo delle inchieste con nomi ad effetto. Mi chiedo: è previsto da qualche norma di legge che le forze di polizia possano trasferire gli atti d’indagine in tempo reale alla stampa correlati dai video con i loghi della forza dell’ordine che ha condotto l’indagine? E poi come vengono selezionati questi atti, come vengono montati, ci sono delle regole? Questo attiene complessivamente al tema della presunzione d’innocenza. La presunzione d’innocenza riguarda l’immagine di chi è chiamato a rispondere di un reato, perché in caso di assoluzione non porti una cicatrice irrimediabile. Non basta scrivere al termine di un comunicato della procura o della Pg che quella persona è innocente fino al termine del terzo grado di giudizio. Oggi vengono costruite una serie di tessere di mosaico mediatico- colpevolista che non si scompone più neanche con una sentenza di assoluzione. Quindi quella espressione ripresa anche alla fine degli articoli è diventato un puro esercizio stilistico? Esatto, la sostanza non cambia rispetto alla narrazione colpevolista dell’indagato. Ma quindi che bilancio fa della legge sulla presunzione di innocenza? La cultura non è cambiata... È cambiato il punto di vista normativo perché il legislatore ha cominciato a prendere atto che ci sono questi principi da declinare, ma il punto è chi fa rispettare queste norme. Faccio un esempio: quante azioni disciplinari sono state fatte per inosservanza della legge sulla presunzione di innocenza? Noi abbiamo introdotto una norma proprio per il disciplinare ma quanti sono stati sanzionati? Mi dica lei... A me pare che il procuratore generale della Cassazione archivi il 95% delle segnalazioni disciplinari. Il ministro Nordio in teoria potrebbe ribartarle ma, paradossalmente, ha imposto l’azione disciplinare contro dei giudici che hanno previsto dei domiciliari per un indagato. Questo è il colmo: da garantista dovrebbe vigilare sulla violazione della norma e invece si impegna a chiedere una sanzione per chi ha una visione non carcerocentrica. Come lei ben sa, io ho chiesto al ministero della Giustizia il monitoraggio di tutti questi procedimenti, a me non risulta che sia stato fatto assolutamente niente, ma poi chi vigila sono i magistrati e i magistrati hanno una naturale posizione corporativa. Sull’inchiesta di Reggio l’ordinanza è arrivata prima ai giornali che agli avvocati. A che punto è la norma da lei proposta per il divieto della pubblicazione? Essendo una legge delega, il governo dovrebbe elaborare i decreti attuativi, ma al momento non si è mosso nulla. Non vorrei che a via Arenula qualcuno remasse contro. Alla questione della presunzione di innocenza è legato anche il tema delle intercettazioni, dei sequestri dei dispositivi, ma al momento è tutto fermo in Parlamento... Con tutto il rispetto per la discussione sui reati contro gli animali, credo che le priorità della giustizia dovrebbero essere altre. Non si può mettere in secondo piano, ad esempio, la norma che abroga l’abuso di ufficio. E mi auguro che il ddl sulla separazione delle carriere parta dalla Camera per non buttare a mare tutto il lavoro fatto fino ad ora in Commissione. Partire dal Senato sarebbe una follia. Per quanto riguarda le intercettazioni ed i contenuti delle chat, devono esserci regole rigorose circa la pubblicazione. Oggi esce di tutto, ma non si indaga mai su chi l’abbia fatta trapelare in maniera illecita. Anche quelle irrilevanti vengono pubblicate sulla stampa perché occorrono, secondo i magistrati, a spiegare il contesto, invece servono ad ottenere i titoli dei giornali. Ultima questione: voto di scambio... Il tema della consapevolezza è importante. Non si può conoscere l’identità e il casellario giudiziario di qualsiasi persona a cui si chiede il voto. Di questi tempi poi fioccano le indagini per il voto di scambio semplice. La controprestazione è il consenso elettorale, il voto. Quando il voto è un giudizio sano sull’operato di chi si candida e quando è un reato? Si tratta di un crinale sottile, che la legge dovrebbe delineare in modo più puntuale. Il Capo del Dap: “Così Delmastro mi chiese notizie su Cospito” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 giugno 2024 “Su richiesta del sottosegretario Delmastro, gli inviai due relazioni sul caso del detenuto Cospito, entrambe con la clausola ‘a limitata divulgazione’, che quindi sarebbero dovuti rimanere all’interno dell’amministrazione. L’intento era fornire al soggetto politico, su un tema così caldo, gli elementi più idonei” a prendere eventuali decisioni politiche. Così ieri, davanti ai giudici dell’ottava sezione penale del Tribunale penale di Roma, il Capo del Dap Giovanni Russo, che ha deposto come testimone al processo in cui è imputato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Secondo i pm di Roma, l’esponente di Fratelli d’Italia si sarebbe procurato e avrebbe fatto in modo che il suo amico e compagno di partito Giovanni Donzelli rendesse pubblici gli atti “a limitata divulgazione” su Cospito e sui rapporti in carcere tra quest’ultimo e i boss mafiosi. “Non era consuetudine ricevere telefonate dal sottosegretario”, ha aggiunto Russo, “ma mi ero insediato da poco al Dap, nel gennaio 2023: in quel periodo c’era fibrillazione sul caso Cospito, che portava avanti uno sciopero della fame, c’erano possibili rischi da parte della galassia anarchica, e chiesi relazioni al Nic, il Nucleo investigativo centrale, e al Gom, Gruppo operativo mobile”. Il Capo del Dap ha ricordato la telefonata di Delmastro, avvenuta il 29 gennaio 2023, nella quale il sottosegretario “chiese informazioni su Cospito”. E in altre due occasioni Delmastro e Russo avevano parlato del caso Cospito. “Sicuramente mi chiese informazioni prima del 29 gennaio. Cospito era il tema di quelle settimane, e ne iniziammo a parlare la settimana precedente, quando ci siamo incontrati un paio di volte e ci siamo parlati”, ha ricordato in aula il Capo del Dap. Sono due gli appunti che, la mattina del 30 gennaio, vengono portati all’attenzione di Russo. Il primo è il documento del Gom “a firma di D’Amico”, composto da due pagine, e “per le esigenze di comunicazione che mi aveva chiesto Delmastro”, ha spiegato Russo, “ho ritenuto essere sufficiente mandare solo le prime due pagine”. E l’altro documento, del “Nic”, “più corposo e selezionabile: io faccio una selezione di 6, 7, 8 pagine”, ha ricostruito il vertice delle carceri. “Avevamo già da qualche giorno attenzionato il caso Cospito, e veniva inviata al Gabinetto tutta la documentazione, sempre a ‘limitata divulgazione’”, ha aggiunto il Capo del Dap, che ha dichiarato di non essere stato stupito dalla chiamata di Delmastro quella domenica 29 gennaio. “Non mi sono meravigliato per la chiamata di domenica pomeriggio a casa”, dice, “Non c’era consuetudine, anche perché avevo preso le funzioni da 10 giorni, poi, con la consuetudine, mi sono reso conto che il sottosegretario non ha orari, quindi è stato molto naturale”. All’udienza di ieri era prevista anche l’audizione del deputato di FdI Giovanni Donzelli, il quale però non si è presentato in aula per un legittimo impedimento. Nel procedimento sono parti civili i parlamentari del Pd che incontrarono in carcere l’anarchico Cospito: Andrea Orlando, Silvio Lai, Debora Serracchiani e Walter Verini. Donzelli, nel riferire in aula a Montecitorio il colloquio di Cospito con i mafiosi avvenuto nello stesso giorno in cui l’anarchico incontrava i parlamentari dem, chiese: “Voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi”, scatenando durissime polemiche. “La scheda sintetica Nic non rileva né disvela contenuti sottoposti al segreto investigativo o rientranti nella disciplina degli atti classificati”: così rispose Nordio a una interrogazione dei deputati Magi (+ Europa) e Bonelli (Verdi). Risposta in parte in contrasto con una replica successiva di via Arenula rivolta a Magi e Bonelli quando i due parlamentari chiesero di poter accedere agli stessi documenti e il ministero fu costretto ad ammettere che “l’istanza di accesso agli atti - con relativa richiesta di copia - non può essere esitata da questo Ufficio ai sensi degli artt. 22 e 24 della legge n. 241/ 1990 nonché del D. M. 25 gennaio 1996 n. 115”. Ai due parlamentari vennero consegnate solo tre pagine ripulite dai dati sensibili. Magi rilevò una contraddizione: “Questi documenti sono a limitata divulgazione. Se non sono secretati, perché ci vengono fornite solo tre pagine?”. “Quegli atti erano riservati alla pubblica amministrazione, ma furono divulgati” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 13 giugno 2024 La testimonianza di Bonelli (Avs) che effettuò una richiesta di accesso agli atti al ministero e se la vide rifiutare: “Ci chiedemmo come mai sapessero delle conversazioni fra detenuti e deputati dell’opposizione”. Al processo nei confronti di Andrea Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia accusato di rivelazione del segreto d’ufficio sulle conversazioni riservate tra detenuti nel carcere in cui era rinchiuso l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni capi di organizzazioni criminali, parla il deputato Angelo Bonelli (Alleanza Sinistra Verdi) che effettuò all’epoca una richiesta di accesso agli atti al ministero e se la vide rifiutare: “Ci chiesero (Giovanni Donzelli, in aula, ndr) se fossimo schierati dalla parte dei mafiosi e dei terroristi e ci chiedemmo come mai sapessero di quelle conversazioni avvenute in carcere tra i deputati dell’opposizione e alcuni detenuti. Era evidente che si riferiva a fonti del ministero della Giustizia. Feci un accesso agli atti per conoscere le conversazioni tra Cospito e i parlamentari. Chiedevo se potevo avere copia degli atti per poi divulgarli. Lo chiesi al ministero di Giustizia”. Russo: “Richieste da Delmastro sulla salute di Cospito” - Bonelli risponde alle domande del procuratore aggiunto Paolo Ielo: “Ricordo che ai sensi della legge 241 del 1990 quegli atti non mi potevano essere messi a disposizione. Ma mi venne dato un estratto della conversazione tra Cospito e i detenuti”. Tocca poi al capo del Dap Giovanni Russo testimoniare sulla vicenda: “Il 13 gennaio 2023 ho assunto il ruolo di capo del Dap e il 29 gennaio è iniziato tutto. Ci interessavamo allo sciopero della fame del detenuto Alfredo Cospito. Ricevo una telefonata da parte del sottosegretario Delmastro che mi chiede informazioni sullo sciopero della fame e sui possibili rischi per la sua salute. Un’iniziativa di protesta che era divenuta di grande attrattiva per la galassia anarchica. Delmastro mi chiede un appunto per poter valutare la situazione. Gli chiedo di formalizzare questa richiesta per iscritto e chiedo ai miei collaboratori di farmi avere una relazione”. La mail “da riservata, a di limitata divulgazione” - Le arrivò poi la mail del sottosegretario Delmastro chiede il pm? “Si, dispongo che sia trasmesso nella forma della limitata divulgazione. Solo dopo apprenderò che il declassamento da riservato a limitata divulgazione fu determinato dal fatto che la nota fu trasmessa non utilizzando la rete cifrata. Quel documento non era destinato a circolare liberamente. Mi richiamò un collaboratore di Delmastro. In questa telefonata mi fu rappresentata l’esigenza di avere informazioni più corpose. Voleva più dettagli e gli inviai un’altra nota. Si trattava di un atto destinato a persone che devono decidere l’indirizzo politico in base all’incarico che svolgono. Tu destinatario devi leggerla nell’ambito delle funzioni che ti sono proprie. Non poteva circolare liberamente”. Nicoletta Dosio: “Disobbedire all’ingiustizia è un dovere” di Linda Maggiori Il Manifesto, 13 giugno 2024 Parla la storica attivista del movimento No Tav, da inizio giugno di nuovo ai domiciliari a seguito di una condanna a un anno e nove mesi per “evasione”. Aveva già passato tre mesi in carcere nel 2020, seguiti dai domiciliari dati per il Covid, come misure preventive a seguito di episodi di disobbedienza civile risalenti al 2012 e poi al 2015-2016. Ai domiciliari ora si aggiunge l’ingiunzione del foglio di via, arrivata da pochi giorni, che vieta alla Dosio il permesso di visitare o sostare nei comuni di Venaus, San Didero, Bruzolo, Chiomonte, Giaglione (abituali luoghi di assemblea e riunione del Movimento No Tav) in quanto “persona socialmente pericolosa”. L’accanimento giudiziario su Nicoletta è ancora più incomprensibile perché la donna, 78 anni, è alle prese con la malattia terminale di suo marito. La raggiungiamo al telefono Come ti senti? È un momento buono per parlare? Non c’è mai un momento buono quando hai un familiare morente da accudire. Ma volentieri parlo e dico che rifarei tutto da capo e non mi pento. Non ho mai usato violenza su nessuno, ho partecipato a manifestazioni contro i cantieri Tav, siamo entrati nei cantieri tirando giù i Jersey per fermare la devastazione ambientale. Ci siamo presi manganellate e lacrimogeni. Purtroppo la tendenza a usare le misure preventive per reprimere la resistenza è sempre più diffusa. Questa ultima condanna è dovuta alla mia disobbedienza agli arresti domiciliari che mi erano stati dati in seguito a una manifestazione No Tav. Avevo deciso di oppormi in tal modo, pubblicamente, al tentativo di silenziare il dissenso. D’accordo con il movimento, infatti, andavo a testimoniare la nostra situazione ovunque mi chiamassero. Hanno contato fino a 130 evasioni che ho sempre fatto senza mai nascondermi, ho sempre reso pubblici i miei spostamenti. Lo stesso procuratore capo dell’epoca, Armando Spataro, nel corso del procedimento prese atto del carattere politico delle mie azioni e parlò di “innocuità della condotta”. Nessuna forza dell’ordine mi ha mai fermato in queste volutamente visibili “evasioni”. La Cassazione infine ha derubricato la condanna mia e di altri per la manifestazione Exilles-Chiomonte del 2015 all’origine dei provvedimenti, da violenza privata a danneggiamenti, con una multa da 800 euro da pagare tra 17 persone. Visto che il reato di danneggiamento non prevede misure cautelari, quelle che ci sono state comminate erano chiaramente un abuso. Eppure, invece di riconoscere l’abuso, ora mi puniscono perché ho disobbedito a queste misure. Questa è una logica assurda, militare, che richiede obbedienza cieca, ma noi sappiamo da sempre che disobbedire all’ingiustizia non è solo diritto, ma dovere. Cosa vogliono dire per te ora questi domiciliari? Io ero già da mesi ai domiciliari per la malattia di mio marito, i giudici lo sapevano e sapevano che non mi sarei potuta comunque muovere o allontanarmi. Ora nelle ultime settimane di vita che restano a mio marito, a causa di queste misure, non possiamo ricevere visite di amici, solo personale sanitario, parenti stretti e i miei avvocati. Questa è una punizione inflitta anche a mio marito morente, un carcere allargato alla mia famiglia. I lavori per la Tav stanno andando avanti. Sono stati trovati Pfas nei comuni della Val di Susa. I comitati di donne che vengono da altri territori contaminati hanno lanciato un appello in tua solidarietà. Hanno aderito anche il Collectif des Mères Solidaires di Parigi e le Madres Contra la Represion di Madrid... Questa solidarietà mi ha molto commossa. In ogni zona d’Italia ci sono lotte per tutelare salute e ambiente contro opere inutili e dannose che vengono costruite per interessi militari, economici, senza rispetto della vita e della natura. Eppure dalla natura noi donne abbiamo imparato la tenacia, l’irriducibilità. Per i prossimi tre anni non potrai andare nei comuni simbolo della protesta no Tav, dove abitualmente ci sono riunioni, assemblee... Mi dipingono come pericolosa ma in realtà a spaventarli sono le buone, tenaci, irriducibili ragioni della resistenza collettiva che sola, può garantire un domani vivibile per tutti. Ora per me la barricata è qui, tra queste mura, ma la lotta continua. Voglio ringraziare tutti quelli che ci sostengono. Ribellarsi è giusto, bello, carico di futuro. Maltrattamenti, la “tossicodipendenza” non mina l’attendibilità della vittima di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2024 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 23627 depositata oggi, chiarendo che la dipendenza la rende “vittima vulnerabile”. In un giudizio per maltrattamenti la condizione di tossicodipendente della persona offesa non incide sulla sua attendibilità ma, al contrario, la rende “vittima vulnerabile”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 23627 depositata oggi, dichiarando inammissibile il ricorso di una donna contra la sentenza della Corte di appello di Bologna che aveva confermato la condanna per maltrattamenti e lesioni aggravate ai danni della compagna. Nel ricorso, l’imputata aveva chiesto l’annullamento dell’ordinanza impugnata per vizio di motivazione in quanto nell’atto di appello erano stati puntualmente enunciati tutti i profili attinenti: “all’incidenza della condizione di tossicodipendenza sulla credibilità della persona offesa; alla riferibilità delle aggressioni dell’imputata all’abuso di stupefacenti della compagna e non ad intenti vessatori; all’assenza di abitualità, attesa la brevità della convivenza la presenza di due soli episodi violenti”. Per la Suprema corte però la ricorrente, come già rilevato dal giudice distrettuale, ha soltanto “stigmatizzato la condizione di tossicodipendenza della persona offesa” che però come visto non ne mina l’attendibilità ma ne determina piuttosto la vulnerabilità. “Il ricorso - si legge nella sentenza -, con argomenti fondati su mere asserzioni, non si confronta, in nessun passaggio, con il nucleo della sentenza del Tribunale di Modena costituito dalle gravi violenze fisiche e psicologiche imposte dall’imputata, alla compagna, a cui per mesi aveva impedito di uscire da casa e che più volte aveva picchiato anche con un bastone o con un portacenere, come comprovato da due referti medici attestanti “trauma cranico e facciale con poli secondari a violenza di genere”, con prognosi di quindici giorni, e “frattura scomposta delle ossa nasali e frattura della IX costa sinistra” con prognosi di ventidue giorni”. A fronte di “tali univoci elementi di fatto”, ammessi peraltro in un primo momento anche dalla stessa imputata nel corso del dibattimento, prosegue la Cassazione, l’atto di appello si è invece limitato: a) a prospettare aprioristici difetti di credibilità della dichiarante in base a pregiudizi discriminatori, fondati sulla condizione di tossicodipendenza della vittima, come tali inidonei ad incidere sulla prova del fatto contestato e, comunque, non rilevanti per la sua valutazione complessiva; b) a ricondurre a mera conflittualità, priva di dolo, le gravissime violenze e le forme di abituale controllo ai danni della convivente; c) a censurare, infine, come severo il trattamento sanzionatorio che il giudice di primo grado aveva puntualmente argomentato. Da tutto ciò consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Lombardia. Casa e lavoro, la ricetta anti-recidiva funziona di Andrea Gianni Il Giorno, 13 giugno 2024 La ricerca di Icrios-Bocconi valuta l’impatto dei Fondi europei investiti in progetti per l’inserimento lavorativo di detenuti o di accoglienza abitativa: gli interventi hanno evitato nuovi reati. Progetti per l’inserimento lavorativo di detenuti o persone in esecuzione penale esterna, percorsi di accoglienza abitativa temporanea fuori dal carcere e interventi educativi, uniti alle terapie per tossicodipendenze e problemi psichici, riducono il rischio di recidiva. L’81,1% delle persone che hanno svolto un tirocinio, sei mesi dopo la fine del percorso ha conservato un impiego, per il 75% nello stesso settore. Sul fronte della casa, l’accoglienza temporanea è stata un trampolino per trovare una soluzione abitativa indipendente per il 41% dei partecipanti ai progetti, mentre solo il 12% ha perso l’alloggio al termine del servizio. Un sistema scandagliato da una ricerca, unica in Italia, condotta da Icrios Bocconi per Regione Lombardia, per misurare l’impatto delle risorse regionali ed europee spese (28.580.000 euro dal 2016 per la presa incarico di 22.627 persone, adulti e minori) per finanziare un centinaio di progetti conclusi nel 2023 e rivolti al reinserimento sociale, proprio per ridurre il rischio di recidiva e di ricaduta nella spirale della criminalità. Investimenti che, in sostanza, sono stati utili per evitare la commissione di nuovi reati. “L’impatto è stato positivo - spiega il professor Filippo Giordano, che con il collega Francesco Perrini ha condotto la ricerca Icrios Bocconi - e per questo a nostro avviso le risorse, di fronte a un aumento delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, andrebbero incrementate. Cresce il bisogno, ma i fondi sono rimasti invariati. Ad esempio gli interventi per l’housing, tra i più costosi, si sono rivelati fondamentali e abilitanti. Quelli per l’inserimento lavorativo hanno avuto successo, in maggior misura per persone partite in condizioni di svantaggio, come gli stranieri e le donne, livellando le differenze iniziali”. Un tema che sarà al centro di un convegno, con docenti e magistrati, organizzato dalla Bocconi. Come è stato misurato l’impatto dei progetti e delle risorse spese? L’analisi d’impatto si è focalizzata sugli interventi del periodo 2021-2023 che hanno riguardato 7.767 beneficiari, di cui il 71,1% adulti e il 28,9% minori. Il 45,9% dei destinatari si trovava in esecuzione penale esterna, il 43,7% erano stranieri, mentre le donne rappresentavano il 13,2% del totale. I ricercatori hanno scelto di focalizzarsi su un periodo relativamente breve, monitorando attraverso questionari anonimi, raccolta e analisi dei dati, la vita dei partecipanti a sei mesi dal termine del programma. “La massima efficacia del percorso lavorativo si rileva sotto i 40 anni - evidenzia la ricerca - d’altro canto, non sono i giovanissimi a trarne i più grandi benefici ma le classi d’età intermedie. I soggetti affetti da dipendenza ottengono particolari benefici lavorativi (il tasso di miglioramento è del 20,7% più alto che per i non tossicodipendenti), rappresentati dalla riduzione del gap nel tasso di assunzione a 6 mesi dalla misura. Si tratta di una misura che favorisce l’equità, andando a eliminare differenze strutturali preesistenti”. Per ogni mese di tirocinio in più, la probabilità di mantenere un impiego al termine aumenta del 7,4%, come anche i benefici penali conseguenti alla frequenza dei percorsi. Di coloro che hanno beneficiato dell’assistenza abitativa, il 34,6% ha avuto accesso a interventi di carattere lavorativo, il 39% a percorsi terapeutici, mentre addirittura l’82,4% ha partecipato a interventi educativi. “Queste statistiche mettono in luce uno degli aspetti fondamentali dell’housing temporaneo - spiega Giordano - ovvero la sua natura abilitante: la casa è il punto di partenza per l’accesso a qualsiasi percorso riabilitativo offerto in misura esterna, la sua efficacia dipende soprattutto dall’associazione con un pacchetto di interventi completo”. Sul capitolo della giustizia minorile, finita sotto la lente anche dopo il caso Beccaria, tra gli aspetti più efficaci dei percorsi c’è “la capacità di ristabilire legami positivi con la famiglia nei più giovani”. Anche le attività di supporto alla genitorialità producono effetti positivi, aumentando il tasso di completamento del percorso (+24,6%). Al contrario, i lavori di pubblica utilità “sembrano produrre risultati avversi sulla condizione di esecuzione della pena dei soggetti a cui sono rivolti (-8,9%)”. Trantino Alto Adige. Approvato piano d’azione per il reinserimento sociale dei detenuti lavocedibolzano.it, 13 giugno 2024 È stato approvato il Piano d’Azione 2024-26, documento di pianificazione delle azioni da proseguire o avviare nel prossimo futuro, nell’ambito del Protocollo d’intesa “per il reinserimento sociale, per promuovere la salute e il benessere dei detenuti e per l’attuazione di misure volte all’umanizzazione della pena e al reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute e in esecuzione penale esterna, anche minori di età, dei dimittendi nel momento del reingresso nella società, delle persone sottoposte alle misure di sicurezza e per promuovere lo sviluppo di percorsi di mediazione penale e di giustizia riparativa, anche in fase esecutiva” sottoscritto ancora nel 2020 tra la Provincia Autonoma di Trento, Regione e Ministero della Giustizia. Le azioni del Gruppo Tecnico Operativo sulla Giustizia riparativa, coordinato dal Centro per la Giustizia Riparativa della Regione, sottoposte all’approvazione della Giunta regionale, prevedono in primo luogo la prosecuzione della formazione e del confronto per il personale della Casa Circondariale, il Terzo settore e le persone detenute, con la finalità di creare un contesto favorevole allo sviluppo di programmi di giustizia riparativa e mantenere un dialogo con magistratura e avvocatura. Verrà poi consolidato lo sportello informativo sulla giustizia riparativa alla Casa Circondariale, che ad oggi conta già 30 accessi, che hanno portato all’avvio di 3 programmi di giustizia riparativa per persone detenute. È inoltre prevista la creazione di uno spazio interno alla Casa circondariale in cui sia possibile accogliere persone che partecipano a programmi di giustizia riparativa e, infine, la sperimentazione di dialoghi riparativi tra persone detenute e le loro famiglie. Il Centro per la Giustizia Riparativa della Regione collabora inoltre con il Gruppo Tecnico Operativo “Minori e giovani adulti”, che a sua volta prevede una serie di azioni in vari ambiti, fra cui quello della giustizia riparativa. Per quanto riguarda la giustizia riparativa, che può contare su una prassi ormai consolidata, è prevista una formazione congiunta per gli operatori della giustizia minorile dedicata all’implementazione delle novità della riforma Cartabia, e la sperimentazione di programmi dialogici che coinvolgono la comunità. Un’attenzione particolare sarà dedicata all’ambito dei programmi in caso di reati contro la libertà sessuale. “Questo piano rappresenta un impegno concreto per un sistema penale più umano e inclusivo - ha commentato il Presidente della Regione Arno Kompatscher - vogliamo garantire dignità e speranza a tutti, anche a chi ha sbagliato. Le iniziative previste mirano a costruire un ponte tra il carcere e la società, promuovendo il reinserimento e la giustizia riparativa come strumenti fondamentali per la coesione sociale e, più nel lungo termine, per una maggiore sicurezza della società stessa.” Calabria. Il Garante dei detenuti Muglia: “Rimuovere le barriere in plexiglass dalle finestre” rainews.it, 13 giugno 2024 Incontro a Roma alla presenza dei massimi rappresentanti istituzionali. Si è tenuta a Roma nell’aula consiliare G. Fregosi di Palazzo Valentini l’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Alla riunione hanno partecipato anche il presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Francesco Petrelli e il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe Santalucia. L’assemblea ha osservato un minuto di silenzio, in memoria del detenuto di 56 anni che durante la notte si era tolto la vita nel carcere di Ferrara. Ad annunciare il quarantesimo suicidio del 2024 nelle carceri italiane è stato il Portavoce della Conferenza dei Garanti, Samuele Ciambriello. I lavori sono proseguiti con le sollecitazioni dei coordinatori dei forum dei garanti regionali, provinciali e comunali, cui ha dato risposta il Capo del Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria Giovanni Russo, intervenuto nel corso della mattinata. Il Garante dei diritti delle persone detenute della regione Calabria, Luca Muglia ha segnalato le diverse criticità del sistema penitenziario e del territorio calabrese, dal sovraffollamento alle difficili condizioni di detenzione, dalle carenze di organico agli eventi critici. Presente anche il Garante dei diritti delle persone private della libertà della Provincia di Cosenza, Francesco Cosentini. A seguire ha avuto luogo l’incontro con il Presidente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Felice Maurizio D’Ettore, il quale ha illustrato all’assemblea dei garanti territoriali i contenuti della bozza di un protocollo d’intesa che prevede lo svolgimento di attività comuni e le modalità di collaborazione relative al monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà personale. Nel suo intervento il Garante della Calabria, membro del Coordinamento nazionale della Conferenza, ha segnalato al Capo Dipartimento Russo la delicata questione delle schermature in plexiglass collocate in alcuni padiglioni degli istituti penitenziari calabresi. “Attesi gli effetti nocivi delle barriere in plexiglass apposte sulle finestre di molte camere detentive” - ha affermato il Garante Muglia - e l’urgente necessità di rimozione delle stesse in ragione delle temperature estive, ho informato il Dipartimento che in assenza di riscontro fattivo attenzionerò la questione al Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio di Europa. Ho ribadito, infatti, che laddove sussistano contestualmente fattori negativi, quali la mancanza di aria e/o di luce naturale, la cattiva aereazione, una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali e le cattive condizioni igienico-sanitarie, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la sussistenza di trattamenti disumani e degradanti e la violazione dell’art. 3 della Convenzione. “L’aumento vertiginoso delle temperature nelle camere detentive in cui sono presenti le schermature - ha concluso il Garante regionale - sta mettendo a dura prova le già difficili condizioni di vivibilità delle persone private della libertà. Mi auguro si ponga fine a tale incresciosa situazione”. Bolzano. Giustizia riparativa, un nuovo sportello in via Dante Corriere dell’Alto Adige, 13 giugno 2024 Siglato il piano d’azione tra Regione e ministero. Kompatscher: verso un carcere più umano. Via libera al Piano d’azione 2024-2026, documento di pianificazione delle azioni da proseguire o avviare nel prossimo futuro, nell’ambito del Protocollo d’intesa sottoscritto nel 2020 tra la Regione e il ministero della Giustizia “per il reinserimento sociale, per promuovere la salute e il benessere dei detenuti e per l’attuazione di misure volte all’umanizzazione della pena e al reinserimento sociale e lavorativo e per promuovere lo sviluppo di percorsi di mediazione penale e di giustizia riparativa, anche in fase esecutiva”. Le azioni del Gruppo tecnico operativo sulla giustizia riparativa, coordinato dal Centro per la giustizia riparativa della Regione, prevedono in primo luogo la prosecuzione della formazione e del confronto per il personale della Casa circondariale, il terzo settore e le persone detenute, con l’obiettivo di creare un contesto favorevole allo sviluppo di programmi di giustizia riparativa e mantenere un dialogo con magistratura e avvocatura. Altro obiettivo è quello di consolidare lo sportello informativo presso la Casa circondariale, che ad oggi conta 30 accessi, e che ha portato all’avvio di tre programmi di giustizia riparativa per persone detenute. È inoltre prevista la creazione di uno spazio interno in cui sia possibile accogliere persone che partecipano ai programmi e, infine, la sperimentazione di dialoghi riparativi tra persone detenute e le loro famiglie. Il Centro collabora anche con il Gruppo tecnico operativo “Minori e giovani adulti” che a sua volta lavora in vari ambiti, compreso quello della giustizia riparativa. Ambito che può contare su una prassi ormai consolidata, e che prevede una formazione congiunta per gli operatori della giustizia minorile dedicata all’implementazione delle novità della riforma Cartabia, e la sperimentazione di programmi che coinvolgano la comunità. Un’attenzione particolare sarà dedicata ai programmi per i casi di reati contro la libertà sessuale. “Questo piano - commenta il presidente della Regione, Arno Kompatscher - rappresenta un impegno concreto per un sistema penale più umano e inclusivo. Le iniziative previste mirano a costruire un ponte tra il carcere e la società, promuovendo il reinserimento e la giustizia riparativa come strumenti fondamentali per la coesione sociale e, più nel lungo termine, per una maggiore sicurezza della società stessa”. Milano. Torture nel carcere Beccaria, altre 20 vittime tra i giovani detenuti di Marianna Vazzana Il Giorno, 13 giugno 2024 Ci sarebbero altri minorenni vittime di pestaggi e violenze, oltre agli 8 già sentiti dagli inquirenti. Agli atti d’indagine ci sono immagini delle telecamere, verbali di testimoni e denunce degli avvocati dei ragazzi. Non finisce l’orrore legato al sistema di violenze che sarebbe stato perpetrato per anni nel carcere minorile Beccaria di Milano. Ci sarebbero una ventina di presunte nuove vittime di pestaggi e torture da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Questi si aggiungono agli otto casi di violenze contro minorenni già emersi. L’indagine aperta dalla procura milanese ha già portato, lo scorso 22 aprile, all’arresto di 13 poliziotti e alla sospensione di altri 8 colleghi. Nel nuovo filone di indagine, sempre coordinato dall’aggiunto Letizia Mannella e dai pubblici ministeri Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena e condotto dalla Squadra mobile e dalla Polizia penitenziaria, sono stati già ascoltati a verbale, infatti, alcuni ragazzi e altri saranno sentiti entro la fine di questa settimana, per un totale di una decina in tutto. Nelle prossime settimane, poi, inquirenti e investigatori dovrebbero fare audizioni su altri dieci casi già individuati. A riprova di questi nuovi casi ci sono già una serie di elementi, tra immagini delle telecamere, verbali di testimoni, denunce dei legali dei ragazzi che si sono fatti avanti dopo il blitz e referti medici. Alcune vicende trasparivano pure dai racconti degli altri ragazzi, i cui pestaggi sono documentati nell’ordinanza cautelare. Dai nuovi verbali di questi giorni, poi, sono venuti a galla altri episodi da approfondire. Successivamente le indagini si concentreranno sulla tranche delle presunte omissioni valutando le posizioni degli ex vertici del Beccaria (due ex direttrici sono indagate), del personale educativo e sanitario. Nel frattempo, nei giorni scorsi i pubblici ministeri hanno impugnato davanti al Riesame la decisione del giudice per le indagini preliminari che aveva, poi, limitato al solo carcere minorile Beccaria le misure delle sospensioni dal servizio per alcuni degli agenti e sostituito il carcere coi domiciliari per altri poliziotti. Roma. Carcere di Rebibbia, i vescovi italiani donano 80 ventilatori alle detenute di Clarida Salvatori Corriere della Sera, 13 giugno 2024 L’iniziativa “Semi di tarassaco volano nell’aria” del Vaticano. Il cardinale Zuppi alle detenute: “Un piccolo gesto, un soffio d’aria per vivere meglio la detenzione”. Donati ottanta ventilatori al carcere femminile di Rebibbia. A consegnarli il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana. Un gesto di solidarietà per rinnovare la vicinanza della Chiesa ai detenuti e che si ripeterà in altri trenta istituti penitenziari italiani nell’ambito del progetto “Semi di tarassaco volano nell’aria”, coordinato dal Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica e dall’Ispettorato generale dei cappellani delle carceri, con il supporto della presidenza della Cei, che è impegnato nella consegna di 2mila ventilatori in tutto. “Un gesto per vivere meglio il periodo di detenzione” - “È la carezza di una madre che vi sta vicino - ha detto Zuppi durante l’incontro con le detenute -. Un piccolo gesto, ma l’amore è nelle cose semplici. Le attenzioni le ritroviamo nelle buone parole, nell’ascolto paziente; altre volte in gesti grandi o piccoli, come questo. Talvolta, infatti, un semplice e lieve soffio d’aria può aiutare a vivere meglio il periodo di detenzione”. “Un dono simbolico - lo ha definito così Nadia Fontana, direttrice della casa circondariale di Rebibbia - che dice l’attenzione per questa nostra comunità, dove si tocca con mano la povertà”. Rischio di malori e colpi di calore - Il pensiero, consegnato ieri, mira ad alleviare le precarie condizioni, più volte denunciate, di chi trascorre le sue giornate nell’istituto di pena notoriamente sovraffollato, e a migliorarne quindi la vivibilità. Specie nell’ottica dell’arrivo del caldo torrido che in estate attanaglia stretta la Capitale. Una condizione resa ancora più precaria e pericolosa alla luce del fatto che tanti detenuti sono ultrasessantenni, che le finestre del carcere sono schermate e lasciano quindi passare poca aria. E che dove dovrebbe respirare una persona, ne respirano in realtà almeno due. Tutti fattori che espongono gli “ospiti” a rischio di malori e colpi di calore, la cui gestione e cura è demandata alla struttura complessa di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini (nella Asl Roma 2). Le prime denunce già sette anni fa - Né, a guardare indietro, quella della prospettiva di un’estate soffocante tra le mura del carcere di Rebibbia sembra essere ipotesi legata agli ultimi anni, quando cioè il cambiamento climatico ha fatto maggiormente sentire i suoi effetti. Già sette anni fa, era il 2017, Marcello Dell’Utri - in un incontro con il senatore di Fi Francesco Giro ai tempi della valutazione sulla compatibilità della detenzione in carcere con il suo stato di salute - si era lamentato del “caldo torrido” che imperversava nelle celle di Rebibbia e del “sistema di climatizzazione rotto”. Alessandria. Studenti e detenuti portano gli Argonauti in Prefettura Il Piccolo, 13 giugno 2024 Opere inaugurate nella sede distaccata in via Piacenza 31. Nella sede distaccata della Prefettura, in via Piacenza 31, si è tenuta l’inaugurazione dell’opera pittorica ‘Gli Argonauti’, realizzata dal Laboratorio Artiviamoci della Casa di reclusione San Michele e dal nuovo Laboratorio Umani dell’Istituto superiore Umberto Eco. È un lavoro notevole sul piano artistico e, contemporaneamente, di grande valore sociale. Si tratta di un’opera pittorica originale a olio costituita da due riquadri di 228×228 cm ciascuno. Protagonisti di questa operazione detenuti e studenti, insieme nel segno dell’arte. Non va inoltre dimenticato l’importante riferimento costituito dall’associazione Ideale 2050 in via Alessandro III, la cui sede è stata la base per le attività del laboratorio Umani dell’Istituto superiore Umberto Eco. I due gruppi, coordinati dal maestro di bottega Piero Sacchi, hanno incominciato a lavorare fin da gennaio a questa opera. Il tema rappresentato è quello degli Argonauti e della conquista del Vello d’Oro, inteso come allegoria sia del viaggio fisico del migrante sia di quello interiore che ogni persona affronta nel perseguimento di un obiettivo difficile da raggiungere, soprattutto quello della libertà responsabile. Le due opere che compongono il lavoro rappresentano l’una il viaggio e l’altra l’approdo. L’inaugurazione non ha riguardato solo la nuova pittura in via Piacenza, ma anche una mostra nella sede di Ideale con una trentina di disegni decisamente originali di Desirèe Truisi, studentessa dell’istituto superiore Umberto Eco. Varese. “Partita con mamma e papà”, gioco in carcere con i figli di Adriana Morlacchi La Prealpina, 13 giugno 2024 Un detenuto: “Essere qui è un dolore pesante ma andrò a letto felice”. L’iniziativa europea si è svolta nello Spazio Giallo dei Miogni. Cinque detenuti-papà, di cui due già nonni, ieri, mercoledì 12 maggio, hanno trascorso un pomeriggio di giochi con i loro figli e nipoti nell’ambito della “Partita con mamma e papà”, iniziativa europea organizzata in collaborazione con il Ministero della Giustizia, allo scopo di portare in primo piano il tema dei pregiudizi e dell’emarginazione di cui spesso sono vittime i 100mila bambini in Italia (2,2 milioni in Europa) che hanno il papà o la mamma in carcere. La casa circondariale dei Miogni, diretta da Carla Santandrea, ha aderito all’iniziativa nell’ambito di Spazio Giallo, progetto di supporto alla genitorialità alla seconda edizione portato avanti dalla ong Bambinisenzasbarre, con le associazioni Lotta contro l’emarginazione e la Casa del giocattolo solidale. Nella maggior parte delle carceri, per l’occasione, viene organizzata una partita di calcio. Ma a Varese la casa circondariale è ricavata in un ex convento del 1893 e gli spazi sono molto piccoli. Il format è stato dunque declinato in un pomeriggio di giochi di ginnastica artistica con Cristina e Martina di GiocoSport di Jerago con Orago. I giochi, seguiti da una merenda, si sono svolti nella sala dei colloqui, che è la stessa dove è stato istituito lo Spazio Giallo, uno spazio fisico voluto dalla ong Bambinisenzasbarre per favorire la genitorialità. Sono stati gli stessi detenuti ad imbiancare la sala per renderla più accogliente. “Lo Spazio Giallo è un luogo fisico, ma principalmente emotivo - spiega Alessia Boldetti della cooperativa Lotta contro l’emarginazione -. Abbiamo creato un atrio per l’accoglienza esterno alla sala colloqui, in cui diamo un supporto psicologico ai bambini. È faticoso, infatti, incontrare il papà in un luogo condiviso, a cui si accede passando sotto uno scanner, rimanendo sempre sotto gli occhi di qualcuno. Momenti destrutturati ludici e ricreativi sono fondamentali per creare serenità e vicinanza”. Il pomeriggio è trascorso tra abbracci, sorrisi, qualche sguardo triste e qualche lacrima. I papà - detenuti per reati comuni, tre stranieri e due italiani - si sono fatti trascinare nei giochi, si sono divertiti a fare imitazioni e hanno aiutato i bimbi più piccoli nei percorsi. È stato festeggiato il compleanno di due gemellini di due anni. “Mi piace giocare con i miei figli, è stato come essere al parco o a casa - racconta un detenuto -. È stato un giorno di gioia e felicità. Nella vita ho fatto alcuni errori, lo riconosco. Ho attraversato momenti difficili a cui ho trovato le risposte sbagliate. Essere qui è un dolore pesante, oggi però andrò a letto soddisfatto”. La giornata non ha solo una valenza affettiva. “I momenti con la famiglia sono fondamentali per vedere i detenuti in un contesto diverso e pensare ad un reinserimento nel tessuto sociale che sia dotato di senso educativo e pedagogico, ed evitare la recidiva” è il commento di Serena Pirrello, funzionario giuridico-pedagogico. Ma il tempo per stare insieme ad un certo punto finisce. I bambini hanno voluto firmare la maglietta dei papà, per lasciare loro un ricordo. “Assistere a questi incontri è un’esperienza molto forte - conclude Cinzia Premoli, volontaria della Casa del Giocattolo Solidale - Nonostante il contesto, rimane una sensazione di intimità e di serenità”. Nuoro. Gli Istentales suonano in carcere: emoziona il “ponte” tra città e detenuti di Gianfranco Locci L’Unione Sarda, 13 giugno 2024 L’esibizione nell’istituto di Badu e Carros e la donazione da parte della band barbaricina. “L’obiettivo è sempre uno: cercare di portare un po’ di distrazione. Vogliamo fare in modo che chi è “dentro” possa avere un po’ di sollievo, di felicità, sebbene stia scontando una pena, purtroppo”. Il leader degli Istentales, Gigi Sanna, ha rotto il ghiaccio così nel singolare concerto che si è svolto in mattinata nel carcere di Badu ‘e Carros. Emozioni in musica. Numerosi detenuti hanno passato una giornata spensierata, come avrebbe voluto l’indimenticata direttrice del penitenziario di Nuoro, Patrizia Incollu. Dalla band barbaricina è arrivata pure una donazione di 4mila euro: cifra raccolta lo scorso 29 dicembre durante la manifestazione Voci di maggio. Un concerto che ha dispensato solidarietà e vicinanza. Un virtuoso ponte tra la città e il suo carcere. “Queste iniziative sono importanti perché creano un forte collegamento tra l’esterno e l’interno - afferma la garante dei detenuti, Giovanna Serra -. Abbiamo bisogno di queste iniziative ricreative, culturali: sono previste dall’ordinamento penitenziario”. Serra aggiunge: “Le persone si devono avvicinare al carcere. Questo aspetto è fondamentale. Vorrei ringraziare i volontari che operano nell’istituto e la direttrice Marianna Madeddu”. Un libro su Matteotti? Di più: un’antologia dell’etica antifascista di Andrea Pugiotto L’Unità, 13 giugno 2024 Franco Corleone evita la trappola celebrativa con una raccolta di scritti sul leader socialista, da Gobetti a Rosselli, selezionati in base a un’urgenza politica legata al presente, più che al passato. Nel nome dell’intransigenza. “Il rischio degli anniversari è che si riducano a mera celebrazione o a strumentalizzazione fuori contesto”. Per evitare la trappola - di cui si mostra consapevole - Franco Corleone ha progettato con grande intelligenza un’antologia di scritti su “Matteotti (10 giugno 1924, il fascismo uccide la democrazia”, Edizioni Menabò, 2024, pp. XXV168). Corleone non è uno storico di professione, ma un militante politico (e appassionato bibliofilo) che guarda alla storia quale maestra per le battaglie di scopo del presente. Lotte politiche che combatte, spesso da trincee poco presidiate, all’insegna di un motto (“Non mollare”) ricalcato dall’omonima testata clandestina, fondata nel 1925 da un gruppo di intellettuali antifascisti: i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini. La raccolta di scritti selezionati risponde, dunque, a un’urgenza politica più legata al presente che al passato. E, proprio per questo, privilegia una chiave di lettura precisa dei fatti narrati e del loro contesto storico. Quale? Corleone è un gobettiano negli ideali e un cultore di tutto ciò che ha a che fare con Piero Gobetti (libri, riviste, ritratti). Non stupisce che la parabola, esistenziale e politica, di Giacomo Matteotti venga ricostruita attraverso alcune preziose riflessioni del giovane intellettuale torinese: dalla riproduzione anastatica del suo volume Matteotti (pubblicato nel 1924) a una serie di articoli da lui firmati, tra il 10 giugno e l’11 novembre 1924, sul giornale di cui era direttore, La Rivoluzione liberale. Né stupisce che - tra gli altri testi dell’epoca qui riproposti - giganteggino tre articoli di Carlo Rosselli, pubblicati tra il 1930 e il 1934, fra le analisi più lucide del fascismo e degli errori compiuti dagli aventiniani. Completa il volume la riproduzione di alcuni testi di Matteotti (incluso il suo ultimo intervento in aula, il 30 maggio 1924). Tra questi, l’articolo postumo pubblicato su English Life nel giugno 1924, che reca tracce delle autentiche ragioni del suo assassinio. Come accertato sul piano storiografico, infatti, Matteotti viene sequestrato e ucciso per impedirgli di svolgere (l’11 giugno 2024) un intervento parlamentare in cui, carte alla mano, avrebbe denunciato - correlandoli politicamente - l’esistenza di un buco di bilancio (smentendo l’intervento del Re nella solenne seduta di inizio legislatura) e le tangenti petrolifere versate dalla statunitense Sincler Oil al PNF e al fratello del duce, Arnaldo Mussolini. Così costruito, il volume antepone al martire il politico invitto, la cui postura molto insegna ancora oggi: Matteotti “non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive. Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore. Egli è un giudicatore. Egli è un vindice […] di tutte le cose grandi, che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere”. Sono parole della commemorazione (riprodotta nel libro) che Filippo Turati svolge, il 27 giugno 1924, alla riunione degli aventiniani. Sono anche la traduzione fedele dell’operazione editoriale concepita da Corleone. ben 115 volumi (tra il 1923 e il 1926), in un panorama editoriale quasi integralmente fascistizzato. La scelta etica alla base dell’intransigenza politica di Matteotti è incarnata nel suo temperamento, che i contributi riproposti nel volume permettono di conoscere. Scrive Rosselli: “Matteotti possedeva in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari: il carattere. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci credeva, e con ostinazione le applicava”. “Non era eloquente; o per lo meno la sua eloquenza era tutto l’opposto dell’oratoria tradizionale socialista. Ragionava a base di fatti, freddo, preciso, tagliente”. Scrive Gobetti: quando prendeva la parola in aula, Matteotti “non si esaltava mai. Cominciava pedestremente. Poi l’argomento - preparato sempre con accuratezza su un foglietto di carta - lo prendeva e la voce urlante, irritante, energica e rude squillava come per dominare. Allora parlava da padrone, come chi non improvvisa mai”. “La sua voce precisa e nervosa, un poco velata, pareva fatta per le denunce specifiche, per le accuse inesorabili”. Matteotti, insomma, era un “personaggio sovranamente antipatico e nient’affatto suggestivo” (Corleone). Il suo antifascismo era innanzitutto antropologico, come emerge dal confronto tra la descrizione della tempra del deputato socialista (fatta da Gobetti) e quella del duce (fatta da Rosselli): “Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo “sovversivismo”, le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità”. Quanto a Mussolini, invece, “la sua forza, la sua volontà, la sua energia sono un mito: egli è il buon romagnolo spavaldo coi timidi, bellicoso in tempo di pace, ma nelle bufere pacifista e sempre preoccupato del suo destino, e della sua sicurezza. L’avventuriero perde la testa durante il pericolo: la sua ossessione è di essere retrocesso”. È questa istintiva incompatibilità a spiegare il verbo coniato dalla gazzarra fascista: “smatteottizzare” l’Italia. Come annota Gobetti, “Matteotti non fu mai popolare”. La cifra di fondo della parabola politica di Matteotti, infatti, va ricercata nella sua solitudine. Matteotti è solo perché, prima e meglio di altri, intuisce le peculiarità del fascismo non riducibile a mero braccio armato degli elementi più reazionari del capitale finanziario (secondo la vulgata della III Internazionale). Matteotti è solo nelle sue battaglie parlamentari, condotte con metodica acribia e studio scrupoloso che rendevano difficilmente contestabili le sue parole: “Metodo salveminiano. Quando affermava, provava” (Rosselli). Matteotti è solo anche dentro la sua parte politica: “social-traditore” per i comunisti; espulso dal PSI massimalista; in rapporti difficili anche con il padre del riformismo socialista, Filippo Turati. La fine è nota: Matteotti si troverà solo contro Mussolini, che era anche lui solo: solo al comando. Al termine della lettura, la documentazione selezionata da Corleone rivela in Matteotti un autentico leader della socialdemocrazia europea, tra i primi a parlare (già nel 1923) di Stati Uniti d’Europa per superare “la frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali”. Ecco perché - come ha osservato Aldo Cazzullo (“Il capobanda”, Mondadori, 2022, 117-118) - “tra le sue molte responsabilità, Mussolini ha anche quella di aver privato il Paese di figure che avrebbero contribuito a costruire un’Italia migliore”: vale per Matteotti, come per Gobetti, Rosselli, Gramsci, Leone Ginzburg, Giovanni Amendola. Uno dei meriti di questo libro è di restituirci la loro intransigenza, doverosa sempre quando è dato vivere in anni “torbidi” (aggettivo gobettiano di grande attualità). Suicidio assistito legale, i requisiti irragionevoli: non puoi morire perché (forse) non hai sofferto abbastanza di Andrea Pugiotto L’Unità, 13 giugno 2024 La Corte costituzionale è chiamata dal Gip di Firenze a valutare se ciò è irragionevole e discriminatorio, negando ai malati la libertà di scelta se non hanno percorso tutte le tappe del loro calvario. 1. Facciamo un test. Immaginate di essere imprigionati in un corpo piegato da una malattia irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili, e di maturare - in piena coscienza e assoluta libertà - la scelta di porre fine a una vita che, per voi, non è più tale. La vostra volontà è di morire dignitosamente, circondati dagli affetti più cari. Eppure, non potrete farlo se la patologia non vi costringe ancora a ricorrere a trattamenti di sostegno vitale. Dovrete attendere, infatti, il progredire della malattia fino alla totale inautonomia, quando sarà la ventilazione assistita o l’idratazione artificiale o l’alimentazione forzata a tenervi in vita. O quando - ma l’ipotesi è giuridicamente incerta - la vostra sopravvivenza dipenderà direttamente da terapie farmacologiche o dall’assistenza di personale medico o paramedico. Solo allora, potrete chiedere l’accesso alla procedura di morte assistita che il Servizio sanitario è tenuto a prestarvi. Non prima. Rassegnatevi: dovrete salire tutto il vostro penosissimo calvario, stazione dopo stazione, fino a quando finalmente la dipendenza da un supporto vitale sarà il “passo obbligato tra la vita e la morte”. Vi sembra ragionevole? Non serve l’aruspice per sapere la risposta che i più darebbero per sé stessi. In questo caso, il buon senso coincide con il senso comune, a dimostrazione che le scelte di fine vita (chi deve decidere, e quando) sono un tema divisivo per la politica, ma non per la gente in carne e ossa. 2. Proprio di ciò si discuterà, il 19 giugno, a Palazzo della Consulta, per impulso del Gip del Tribunale di Firenze: è costituzionalmente legittimo che la non punibilità di chi agevola il suicidio altrui sia subordinata alla circostanza che la persona aiutata a morire sia “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”? Questo, infatti, prescrive l’art. 580 c.p., dopo la sentenza n. 242/2019, pronunciata nel noto caso “Cappato-DJ Fabo”. La nuova quaestio nasce da una vicenda in cui la persona aiutata a morire, colpita da sclerosi multipla in stadio avanzato, non dipendeva da alcun supporto salvavita. Il che non consente di scriminare penalmente la condotta di Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese che, avendo cooperato e partecipato al trasferimento del malato in una clinica elvetica (dove poi si è tolto la vita), sono imputati per il reato di agevolazione al suicidio. È il loro giudice, cui si sono autodenunciati, a sollevare i dubbi di costituzionalità. 3. Dipendere da un trattamento di sostegno vitale per poter accedere al suicidio medicalmente assistito è, nel panorama comparato, un unicum legislativo e giurisprudenziale. E si capisce bene il perché. Tale condizione, infatti, abbandona all’arbitrio del caso il destino del malato condannato da una prognosi infausta. Discrimina, nelle possibili scelte “ultime”, tra chi è mantenuto in vita artificialmente e chi, malato terminale, non lo è (o non lo è ancora). Induce quest’ultimo ad accettare trattamenti sanitari invasivi, al solo scopo di poter poi accedere legalmente al suicidio assistito. Pone al medico, davanti a simili richieste, un vertiginoso dilemma etico e deontologico. Dunque, per coloro che rifiutino l’alternativa sempre possibile della sedazione profonda, non esistono vie d’uscita, salvo non decidano - ottenendolo - di farsi intubare. Discriminati due volte, dalla sorte e dal diritto, non resta loro che la soluzione, crudele, del suicidio in completa solitudine. O quella, illegale, di pietire un’eutanasia clandestina. O quella, impervia, di darsi la morte in esilio (purché siano in grado di viaggiare oltreconfine e abbiano disponibilità di denaro e di tempo di vita sufficienti), esponendo a gravi conseguenze penali chi fosse disposto ad accompagnarli. Scopriamo così che la Consulta, circoscrivendo con eccessiva prudenza il divieto assoluto dell’art. 580 c.p., ha inserito nell’ordinamento una norma irragionevole. 4. È un’irragionevolezza confermata dalla prassi successiva alla sua sent. n. 242/2019. In ambito scientifico, infatti, non esiste condivisione su cosa sia un “trattamento di sostegno vitale”. Accade così che l’accertamento di tale requisito da parte delle Asl - e, talvolta, della medesima Asl - dia esiti opposti a discrezione della commissione medica interpellata. Una discrezionalità che si fa arbitrio, quando differenzia situazioni cliniche analoghe. L’incerta categoria di “trattamento di sostegno vitale” si ripercuote anche sull’esatta definizione dell’area di punibilità per l’aiuto al suicidio, ridefinita dalla sent. n. 242/2019. Qui ad essere violata è la legalità dei reati, che esige una precisa descrizione delle condotte penalmente rilevanti, a evitare l’incertezza del diritto e l’arbitrio dei giudici in sede applicativa. Di più. Nella rilettura della Consulta, l’art. 580 c.p. svolge il compito di tutelare le persone vulnerabili, scongiurando il pericolo che la decisione di togliersi la vita sia presa sotto interferenze di qualsiasi natura. A tale scopo, però, decisivi sono gli altri requisiti introdotti dalla sent. n. 242/2019: l’irreversibilità della patologia, l’intollerabilità delle sofferenze, la libera autodeterminazione del malato, l’ottemperanza alle procedure per il loro accertamento. Rispetto a ciò, la dipendenza da un supporto vitale è un “di più” sproporzionato (perché incongruo alla ratio della tutela penale) e contraddittorio (perché antepone un evento incerto e futuro al requisito già attuale delle sofferenze del malato, obbligato a una prolungata e penosissima attesa della fine). Torno a chiedere: vi sembra ragionevole? 5. Eppure, a difesa della norma censurata, si è schierato in giudizio un plotone di amici curiae. Sono ben dodici le associazioni che hanno depositato memorie in replica all’ordinanza del Gip di Firenze. Daranno man forte al Governo il quale - c’era da dubitarne? - chiede che la quaestio venga respinta al mittente. Ho avuto modo di leggerle, traendone un senso di inquietudine. Fossi recluso in un corpo malato, sofferente, senza speranza, proverei autentica collera davanti ad alcuni lapsus rivelatori. Come l’affermata necessità di ancorare l’accesso al suicidio assistito “a un giudizio oggettivo di gravità delle condizioni di vita del malato e di prossimità naturale alla morte” e non alla “mera percezione soggettiva dell’aspirante suicida”. O l’idea secondo cui si debba essere certi che, per il malato, “non esistono altre possibilità che la vita di quest’ultimo possa svolgersi in modo che la società ritiene accettabile”. O l’affermazione secondo cui essere obbligati a far ricorso ai trattamenti salvavita “non lede la dignità umana ma, al contrario, la preserva” nella sua oggettività. O il denunciato pericolo di un “allargamento incontrollato” dell’aiuto al suicidio (quasi fosse un futile desiderio edonistico, oggi di moda). Il tutto - va da sé - in nome del “diritto “sacro” e indisponibile della vita” (degli altri). Si chiama paternalismo giuridico: categoria che dovrebbe essere estranea a una democrazia liberale, di cui contraddice il pluralismo etico e la pari dignità sociale tra le persone. Un paternalismo che si mostra privo di empatia laddove si spinge a dire che la necessità di un sostegno vitale serve “a qualificare in peius la patologia ed a denotare la vicinanza di chi ne è afflitto alla morte”. Non importa che ciò acutizzi le sofferenze già insopportabili del malato, costretto così a prolungare il suo inferno terreno. Cosa sarà mai? Dovrà soltanto pazientare un pochino. 6. In tema di fine vita, da anni il Parlamento rinvia ogni decisione. La Corte potrebbe emularlo, dichiarando inammissibile l’iniziativa del Gip di Firenze, come richiedono Governo e diversi amici curiae. Qui entrano in gioco le regole del processo costituzionale, adoperabili come via di fuga per scansare il merito di una quaestio giuridicamente e politicamente spinosa. È un nodo decisivo: meriterà su queste pagine una riflessione ad hoc, prima dell’udienza del 19 giugno. Vertice G7. “Con il 3% delle spese militari dei sette Paesi si sfama il mondo” di Giovanna Branca Il Manifesto, 13 giugno 2024 Intervista a Paolo Pezzati, di Oxfam Italia: “Tagliare le armi e tassare i super ricchi: più della metà dei super ricchi vengono dai paesi G7, tassarli potrebbe generare più di mille miliardi l’anno. Anche questa non è nient’altro che una questione politica”. 31,7 miliardi - quanto sarebbe necessario secondo Oxfam per contribuire a eliminare la fame - a fronte di 1.200 miliardi: quelli stanziati complessivamente dai paesi del G7, ogni anno, in spese militari. Con questo parallelo Oxfam lancia la sua “provocazione” ai sette grandi alla vigilia del primo giorno del vertice. Ne abbiamo parlato con il portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia Paolo Pezzati. Il vostro appello a fare fronte alla fame che affligge in modo grave oltre 281 milioni di persone, tagliando la spesa militare, arriva paradossalmente proprio nel momento di maggiore pressione della Nato per aumentare gli investimenti in armamenti nei paesi membri. Abbiamo voluto usare l’esempio delle spese militari per rendere evidente quello che si cerca di nascondere: l’eradicazione della povertà è una scelta politica. Noi chiediamo un cambio di paradigma ai paesi del G7, siamo in un momento storico in cui serve multilateralismo, diplomazia. Serve politica, non le armi, perché la china potrebbe diventare pericolosa e irreversibile. C’è una responsabilità che i paesi del G7 non stanno prendendo, né per sconfiggere l’insicurezza alimentare, né per annullare il debito. Facciamo nostro anche l’appello di papa Francesco affinché venga cancellato il debito ai paesi che non sono in grado di pagarlo. Siamo debitori - di 15mila miliardi - per non aver mai versato gli aiuti promessi per lo sviluppo e la transizione ecologica ai paesi a basso e medio reddito. Però continuiamo a ricevere quasi 300 di milioni al giorno di rimborsi del debito, per un totale di 106 miliardi. Un’altra strategia che suggerite è quella della tassazione dei super ricchi. Più della metà dei super ricchi, miliardari e multimilionari, vengono dai paesi G7. Tassarli potrebbe generare più di mille miliardi l’anno. Anche questa non è nient’altro che una questione politica. Crediamo che sia il momento storico per farlo: ridurre le diseguaglianze. Il vostro comunicato interviene anche sulla necessità che venga raccolto l’ordine di cessate il fuoco a Gaza della Corte internazionale di giustizia. La cosa più importante per noi è che la comunità internazionale si faccia carico di trovare un meccanismo, che nelle bozze viene discusso, affinché si prevenga l’occupazione militare israeliana di Gaza. Può avvenire solo se la comunità internazionale gioca una parte importante nel processo: deve accompagnare il cessate il fuoco, dando tempi e fasi certe. E deve sbloccarsi immediatamente la questione dell’accesso degli aiuti umanitari. Da maggio non stanno più entrando camion di aiuti, la popolazione sta letteralmente morendo di fame. Manca solo la formalizzazione, ma a Gaza nord, a Gaza City la carestia c’è, i bambini muoiono di fame, ci sono meno di 250 calorie al giorno pro capite quando ne servirebbero 2.100 per la normale sopravvivenza. È fondamentale che il G7 non evidenzi solo la necessità del cessate il fuoco e dell’accesso umanitario, ma che metta in atto le azioni diplomatiche necessarie affinché Israele sia resa responsabile delle proprie azioni. Nel G7 degli esteri il testo conclusivo, in alcuni suoi passaggi, era anche buono. Ma da allora sono già morte migliaia di persone. E fondamentale è anche il tema della regionalizzazione del conflitto: Libano e Yemen sono una polveriera. In Libano la situazione umanitaria è gravissima. La coalizione angloamericana ha colpito infrastrutture e fatto morti civili in Yemen. Tra le conseguenze c’è un consolidamento del consenso nei confronti degli Houthi, e questo non può che alzare la temperatura. Migranti. Canarie rotta mortale, 5.054 vittime in 5 mesi di Marco Santopadre Il Manifesto, 13 giugno 2024 Spagna, la denuncia di una Ong. Trentatré vittime al giorno, 5054 nei primi cinque mesi del 2024. È l’incredibile bilancio di una strage silenziosa, che non genera particolare clamore mediatico se non quando i naufragi delle imbarcazioni di fortuna utilizzate dai migranti per approdare sul suolo spagnolo avvengono vicino alle coste iberiche. Il macabro conteggio è stato reso noto dall’associazione Caminando Fronteras che ieri ha pubblicato i risultati di un’inchiesta che dà conto di un forte aumento, negli ultimi mesi, del numero di persone che dal continente africano tentano invano di arrivare sul territorio europeo utilizzando soprattutto la “ruta Canaria”. Nel rapporto, intitolato “Monitoraggio del diritto alla vita nella frontiera occidentale Euroafricana”, l’ong spagnola conferma quanto è evidente ormai da anni: la rotta che dalle coste dell’Africa nord-occidentale conduce all’arcipelago atlantico spagnolo delle Canarie è di gran lunga la più letale, con 4808 morti registrate da gennaio a maggio. La maggior parte delle vittime, spiega Caminando Fronteras, salpano dai porti della Mauritania, seguiti da tentativi intrapresi da Senegal, Gambia e Sahara occupato. Altre 175 morti si sono invece verificate sulla rotta algerina, che dal paese africano conduce alle isole Baleari e alla costa levantina, mentre 47 persone hanno perso la vita nel Mar di Alborán - che congiunge Andalusia e Marocco - e altre 24 nello Stretto di Gibilterra. In totale sono state 47 le imbarcazioni scomparse nel nulla insieme ai loro occupanti. Una di queste è stata ritrovata addirittura sulle coste brasiliane, lo scorso aprile, con nove cadaveri a bordo. Le terribili cifre, che comprendono anche i migranti dispersi in mare in seguito ai naufragi, includono anche 154 donne e 50 bambini. La stragrande maggioranza delle vittime sono africane, con anche una presenza significativa di persone provenienti dal Pakistan. Si tratta di un aumento esponenziale, considerando che durante tutto il 2023 l’ong aveva documentato 6000 vittime, un bilancio tra l’altro già più alto rispetto all’anno precedente. Il mese peggiore è stato aprile, con un saldo di 1197 vittime. Incrociando i dati con quelli forniti dal Ministero degli Interni di Madrid sul numero di migranti sbarcati sulle coste delle Canarie - che nei primi cinque mesi del 2024 sono stati 17.117 - si evince che il rapporto tra morti e sopravvissuti è di 1 a 3,5, quasi raddoppiato rispetto al 2023. “Negli anni scorsi si osservava una drastica riduzione delle partenze d’inverno ma recentemente queste sono avvenute anche con condizioni meteorologiche proibitive” spiega l’ong, secondo la quale spesso, in nome del contrasto all’immigrazione illegale, le autorità dei paesi coinvolti - Spagna compresa - rallentano le operazioni di ricerca e salvataggio delle imbarcazioni e dei superstiti. Per non parlare della scarsità di mezzi a disposizione delle autorità di paesi come la Mauritania, che pure ricevono una consistente assistenza tecnica e finanziaria da Madrid ma al solo scopo di bloccare le partenze. “Non possiamo considerare normali queste cifre, per questo chiediamo ai diversi Paesi di anteporre il rispetto dei protocolli di salvataggio in mare e la difesa del diritto alla vita alle misure di controllo dell’immigrazione” denuncia Helena Maleno, coordinatrice del team che ha redatto il rapporto. “Non è così complicato, basta semplicemente non lasciare morire le persone lungo le frontiere”. Migranti. Un popolo in fuga: salgono a 120 milioni i rifugiati nel mondo di Marina Della Croce Il Manifesto, 13 giugno 2024 Raddoppiati rispetto a dieci anni fa. A incidere sul numero la guerra in Sudan. La Siria rappresenta la crisi più grave: con i suoi 13,8 milioni di profughi non rappresenta solo uno dei conflitti più lunghi ancora in corso, ma è anche la più grande crisi di rifugiati al mondo. Una guerra civile che va avanti da 13 anni costringendo la popolazione a scappare da bombe, violenze, persecuzioni o violazione dei diritti umani. Ma la crisi siriana, e l’incapacità di trovare una soluzione che porti alla pace, non è l’unico caso di conflitti che si accaniscono contro uomini, donne e bambini. Ogni anno una nuova guerra va allungare un elenco già fin troppo nutrito aggiungendo nuova disperazione a quella già esistente. Solo per citare gli ultimi: dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia (2022), nel 2023 il conflitto scoppiato in Sudan ha privato della propria casa 10,8 milioni di sudanesi, 1,9 milioni dei quali ha cercato salvezza fuori dai confini del paese. Mentre alla fine dello scorso anno si contavano in 1,7 milioni i palestinesi sfollati nella Striscia di Gaza (fonte Unwra). Numeri che, per quanto drammatici, rappresentano però solo una piccola parte del la marea di rifugiati che ogni anno è costretta a cercare salvezza lontano dal proprio paese di origine. Un popolo in fuga che l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, ha documentato nel nuovo Rapporto Global Trends 2024 che viene presentato oggi a Roma e in cui si denuncia come a maggio di quest’anno sia salito a 120 milioni il numero delle persone n fuga nel mondo (erano 117,3 alla fine del 2023), un numero raddoppiato negli ultimi dieci anni e in crescita per il dodicesimo anno consecutivo. “La popolazione globale in fuga - spiega l’agenzia dell’Onu - equivarrebbe al dodicesimo paese al mondo per ampiezza della popolazione, quasi come quella del Giappone”. Per Filippo Grandi, Alto commissario Onu per i rifugiati, “dietro questi numeri si nascondono innumerevoli tragedie umane. Questa sofferenza deve spingere la comunità internazionale ad agire con urgenza per affrontare le cause profonde degli sfollamenti forzati”. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, la principale fonte mondiale di dati e analisi sugli sfollati interni a un paese, l’aumento più consistente del numero di persone in fuga riguarda quelle che abbandonano le proprie case ma rimangono nel proprio paese cifra che raggiunge i 68,3 milioni di persone, con un incremento di quasi il 50% in cinque anni. Tra i principali paesi di origine dei rifugiati ci sono Afghanistan, Siria, Venezuela, Ucraina e Sudan, ce da soli raggruppano il 73% di quanti si trovano sotto il mandato Unhcr. Cinque sono anche i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati, e sono nell’ordine: Iran (3,8 milioni), Turchia (3,3), Colombia (2,9), Germania (2,6) Un dato smentisce poi la retorica di quanti vedono l’Europa costantemente messa a rischio da presunte invasioni: “La stragrande maggioranza dei rifugiati - registra infatti il rapporto dell’Unhcr - è ospitata in Paesi limitrofi a quelli della crisi (69%) e il 75% risiede in paesi a basso e medio reddito che insieme producono meno del 20% del reddito mondiale. I 45 paesi meno sviluppati che insieme rappresentano meno dell’1,4% del prodotto interno loro globale, ospitano oltre il 21% d tutti i rifugiati a livello mondiale”. Infine i dati che riguardano l’Italia: alla fine del 2023 le persone titolari di protezione internazionale erano circa 138 mila, i richiedenti asilo 147 mila ente i cittadini ucraini titolari di protezione temporanea erano oltre 161 mila. Tremila, infine, le persone apolidi. Stati Uniti. “Bronx Defenders”, gli avvocati che lavorano gratis contro le discriminazioni di Elena Molinari Avvenire, 13 giugno 2024 Runa Rajagopal ricorda il suo primo stage ai Bronx Defenders come un momento d’illuminazione. “I miei colleghi arrivavano presto, restavano fino a tardi ed erano sempre in movimento - dice. L’entusiasmo e l’adrenalina erano al massimo, respiravo davvero la possibilità di rendere il sistema giudiziario più umano. Era emozionante, motivante e coinvolgente. Come figlia d’immigrati appena diventata avvocato avevo trovato il mio posto ideale”. I Bronx Defenders sono un’associazione non profit che dal 1997 rappresenta ogni anno più di 27.000 indigenti, offrendo gratuitamente i suoi legali (ma anche i suoi assistenti sociali) al posto dei difensori d’ufficio nominati dai giudici, che spesso sono meno qualificati, sovraccarichi di casi o semplicemente non disponibili. Poiché negli Stati Uniti, per ogni cinque imputati in processi penali, quattro non sono in grado di pagare un avvocato, i difensori pubblici scarseggiano. In alcuni Stati, come l’Oregon, la carenza è così grave che a centinaia di persone viene negato un avvocato. A una giovane come Runa, che aveva appena passato l’esame di Stato dopo la laurea in legge, un gruppo come i Bronx Defenders offriva sia un’opportunità unica di farsi le ossa in cause penali, civili, di diritto di famiglia e immigrazione, sia di cercare di sradicare le ingiustizie del sistema giudiziario. “Essere un avvocato d’ufficio o pro bono richiede la capacità di entrare nel mondo di ogni cliente - spiega Runa, che dopo lo stage è stata assunta dai Bronx Defenders -. Oltre alla competenza legale è questo che conta: il rapporto umano. Occorre essere in grado di raccontare al giudice una storia che susciti empatia, andando ogni giorno ben al di là dei fatti. Se il procuratore distrettuale fa notare che il tuo cliente ha 50 piccoli furti sulla fedina penale, il tuo compito è scavare più a fondo e far sapere al giudice quali sono le difficoltà del tuo cliente, per dargli un’immagine più sfaccettata della persona. È un lavoro che richiede un forte investimento personale”. I difensori pubblici rappresentano infatti clienti che, a causa del loro svantaggio sociale e della scarsa conoscenza del sistema, rischiano pene dalle conseguenze devastanti e vivono sulla loro pelle gli effetti della criminalizzazione della malattia mentale, dell’uso di sostanze stupefacenti e della povertà. Non a caso, uno studio del 2020 sui difensori pubblici in tutti gli Stati Uniti ha concluso che gli avvocati sono esposti a forte stress a causa del fatto di “lavorare in un sistema penale con leggi e pratiche che prendono di mira i più svantaggiati”. Runa non lo sapeva e all’inizio ha sottovalutato il prezzo emotivo di un incarico che amava profondamente. “Si lavora spesso insieme, penalisti, civilisti, assistenti sociali e investigatori - racconta Runa -, si è tutti nella stessa barca ed è estremamente stimolante. Ma la responsabilità è enorme”. Per Runa la parte più difficile, quella che ha finito con il farla ammalare, è stata il contatto quotidiano con la discriminazione. “Il sistema legale penale non ha molte sfumature, è bianco o nero - afferma -. Le persone con le quali avevo a che fare invece avevano vite davvero, davvero complicate”. Dopo tre anni di lavoro, Runa ha cominciato ad avere attacchi di panico, a non dormire la notte e ad avere terribili mal di testa. Ha ignorato i sintomi, fino al giorno in cui è svenuta in tribunale. Un esaurimento che l’ha costretta a sei mesi di malattia e ad abbandonare la professione legale per un anno. “È stata una grossa lezione di umiltà”, spiega la 32enne, che nel 2022 ha deciso di tornare ai Bronx Defenders. Ma con un nuovo ruolo. “Ora mi occupo della formazione dei neoassunti e dei tirocinanti. Spiego che non è un motivo d’orgoglio fare un pisolino sotto la scrivania perché sei stravolto. Quando faccio supervisione agli avvocati, dico loro che il nostro è un lavoro duro che richiede comunicazione costante, istruzione continua e molta umiltà. Solo se lo ammettono, riconoscono i loro limiti e sanno quando chiedere aiuto, potranno trasformare in meglio molte vite: quella dei loro clienti e anche la loro”.