40 suicidi e sovraffollamento al 130%. Ma sulle carceri il governo minimizza di Angela Stella L’Unità, 12 giugno 2024 Il Pd all’attacco: “Detenuti ammassati oltre i limiti per cui siamo stati condannati in sede europea. E l’esecutivo che fa? Nuovi reati e pene più alte. Quaranta: questo il numero dei detenuti che dall’inizio dell’anno si sono suicidati in carcere. Ieri, un detenuto 56enne, collaboratore di giustizia, si è tolto la vita nel carcere di Ferrara, probabilmente impiccandosi. Per questo l’Assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, riunita a Roma, ha osservato un minuto di silenzio. Intervenuto anche il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “Il suicidio è la manifestazione più evidente della intollerabilità di un sistema carcerario costruito in questi termini” mentre il Capo del Dap Giovanni Russo ha assicurato: “il Gruppo di intervento operativo della Polizia penitenziaria sarà dotato di webcam”. Per il presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli, “la deflazione non sarebbe comunque la soluzione di tutti i mali delle carceri italiane. È chiaro che questo deve essere il momento della rifondazione di una strategia complessiva e quindi di ripensamento dell’intera esecuzione penale e anche della magistratura di sorveglianza”. Nello stesso giorno è andato in scena nell’aula di Montecitorio uno scontro tra Governo e Partito Democratico per una interrogazione a prima firma Stefano Vaccari ed Anna Ascani, vice presidente della Camera. I due parlamentari nell’atto di sindacato ispettivo hanno chiesto, tra l’altro, cosa si intende fare per porre un rimedio al sovraffollamento. A rispondere per il Governo il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto: “risulta che alla data del 20 maggio 2024 presso gli istituti di pena sono presenti un totale di 61.522 detenuti, di cui 60.788 effettivamente presenti in istituto, rispetto a una previsione regolamentare pari a complessivi 51.208 posti, di cui 4.027, allo stato, non disponibili a vario titolo, rilevandosi una percentuale di affollamento pari al 130,46 per cento”. “Sebbene gli istituti penitenziari risultino essere al limite della capienza - ha proseguito il forzista - allo stato attuale non si ravvisano casi di allocazione di detenuti in sofferenza, ovvero al di sotto dei limiti di spazio previsti per ogni soggetto come stabiliti dalla CEDU. Il vigente meccanismo di riequilibrio delle presenze, infatti, che rientra nelle competenze dell’ufficio quarto della Direzione generale dei detenuti, favorisce la gestione delle procedure di riequilibrio su scala nazionale della popolazione detenuta appartenente al circuito media sicurezza, secondo i criteri stabiliti dalla circolare 355 del 2012, 3654/6104 del febbraio 2014”. Insoddisfazione per la risposta da parte dei proponenti che in una nota hanno stigmatizzato così: “Lo scorso 22 aprile come gruppo Pd abbiamo visitato oltre 30 istituti penitenziari e abbiamo riscontrato gravi carenze per molti versi drammatiche. La fotografia che emerge è quella di luoghi in cui le persone sono ammassate oltre ai limiti per i quali siamo stati condannati in sede europea. Da ciò ne consegue l’impossibilità di svolgere attività tese al reinserimento sociale del detenuto. Nelle carceri non si può studiare, non si può lavorare, non c’è una sufficiente copertura sanitaria, le infrastrutture sono fatiscenti e c’è carenza di personale. Aumentano i suicidi e il numero dei morti in carcere per cause diverse dal suicidio, che pure sono un fatto rilevante. In questo scenario inumano e degradante l’Italia si segnala per un altro aspetto di inciviltà: la reclusione di bambini e bambine all’interno delle carceri insieme alle loro mamme detenute. Di fronte a tutto questo cosa fa il governo? Aumenta pene e introduce nuovi reati su fattispecie che potrebbero essere diversamente trattate anziché operare sulle problematiche. Gli istituti penitenziari - hanno concluso Anna Ascani e Stefano Vaccari - non sono terra di nessuno ma luoghi dove tendere alla rieducazione del condannato, come recita la Costituzione. E su questo il governo continua a svicolare, irresponsabilmente”. Intanto Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, cinque giorni fa ha interrotto il suo sciopero della fame nonviolento, durato quasi un mese, perché la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale, proposta dall’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti, è stata calendarizzata in Aula per il 24 giugno. Suicidio a Ferrara: siamo a 40. Il Pd spinge per il decreto carcere di Francesco De Felice Il Dubbio, 12 giugno 2024 Il triste bilancio dei suicidi in carcere continua a crescere ogni giorno. L’ultimo detenuto si è tolto la vita ieri nel carcere di Ferrara: un collaboratore di giustizia che si è impiccato. Sono così 40 i suicidi dall’inizio dell’anno, si tratta di una cifra indicativa perché sono in corso gli accertamenti sulla morte di un egiziano, lo scorso 7 giugno a San Vittore, e senza considerare l’uomo che si è tolto la vita a gennaio 2024 nel Cpr di Ponte Galeria. Cifre che fanno rabbrividire se si considera che il trend ricorda la cifra record del 2022 (85 suicidi) e quella drammatica dello scorso anno con 70 persone che si sono tolte la vita. Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti della Regione Emilia- Romagna, sull’ultimo episodio di Ferrara, ricordando che il quarto suicidio nella regione da gennaio, ha chiesto uno “sforzo di tutti, anche delle istituzioni territoriali, per alimentare la speranza delle persone detenute”. “A questo detenuto mancava poco per chiedere la detenzione domiciliare, ma forse mancava un corretto sostegno per la costruzione di un progetto all’esterno - ha detto Cavalieri. L’amministrazione penitenziaria in Emilia-Romagna conduce un’azione capillare di attenzione al tema della prevenzione del suicidio in carcere, anche in coordinamento con la sanità regionale, ma il fenomeno mantiene aspetti di imprevedibilità soprattutto quando le persone ristrette non manifestano in modo palese un disagio”. E proprio dei problemi del sistema penitenziario e di sovraffollamento si è discusso ieri alla Camera, dopo il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha risposto a due interrogazioni del Pd, a prima firma Stefano Vaccari e Anna Ascani, vice presidente della Camera. Il viceministro Sisto a proposito del sovraffollamento ha dichiarato: “Risulta che alla data del 20 maggio 2024 presso gli istituti di pena del Paese sono presenti un totale di 61.522 detenuti, di cui 60.788 effettivamente presenti in istituto, rispetto a una previsione regolamentare pari a complessivi 51.208 posti, di cui 4.027, allo stato, non disponibili a vario titolo, rilevandosi una percentuale di affollamento pari al 130,46 per cento”. Sisto ha aggiunto che sebbene “gli istituti penitenziari risultino essere al limite della capienza, allo stato attuale non si ravvisano casi di allocazione di detenuti in sofferenza, ovvero al di sotto dei limiti di spazio previsti per ogni soggetto come stabiliti dalla Cedu. Il vigente meccanismo di riequilibrio delle presenze, infatti, che rientra nelle competenze dell’ufficio quarto della Direzione generale dei detenuti, favorisce la gestione delle procedure di riequilibrio su scala nazionale della popolazione detenuta appartenente al circuito media sicurezza”. Il viceministro ha anche spiegato che “viene realizzato un puntuale e costante monitoraggio dei dati relativi alle presenze detentive a livello nazionale, distrettuale e dei singoli istituti, degli indici di affollamento e della composizione della popolazione detenuta”. Risposte che non hanno convinto Vaccari, secondo il quale “il governo continua a fare da notaio prendendo atto della realtà, condividendo peraltro le tante criticità che a più riprese abbiamo evidenziato in Parlamento. È marginale farci dare ragione dal governo se poi non si assumono le conseguenti iniziative volte a dare soluzione alle problematiche in corso”. Ascani e Vaccari hanno anche aggiunto che “lo scorso 22 aprile come gruppo Pd abbiamo visitato oltre 30 istituti penitenziari e abbiamo riscontrato gravi carenze per molti versi drammatiche. La fotografia che emerge è quella di luoghi in cui le persone sono ammassate oltre ai limiti per i quali siamo stati condannati in sede europea. Aumentano i suicidi e il numero dei morti in carcere per cause diverse dal suicidio, che pure sono un fatto rilevante. In questo scenario inumano e degradante l’Italia si segnala per un altro aspetto di inciviltà: la reclusione di bambini e bambine all’interno delle carceri insieme alle loro mamme detenute. Di fronte a tutto questo cosa fa il governo? Aumenta pene e introduce nuovi reati su fattispecie che potrebbero essere diversamente trattate anziché operare sulle problematiche. Gli istituti penitenziari non sono terra di nessuno ma luoghi dove tendere alla rieducazione del condannato, come recita la Costituzione. E su questo il governo continua a svicolare, irresponsabilmente”. Garante nazionale e Camera penale di Roma: “Approvate la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 giugno 2024 Approvare la legge sulla liberazione anticipata speciale a prima firma Roberto Giachetti di Italia Viva: è questo l’appello rivolto al Parlamento dal Garante Nazionale per i Diritti delle Persone Private della Libertà e dalla Camera Penale di Roma. Lo hanno reso noto in un comunicato congiunto dove leggiamo che “all’esito all’incontro, tenutosi il 21 maggio 2024, in ordine ai contenuti della relazione inviata dal Garante alla Commissione Giustizia della Camera il 24 aprile scorso relativa agli interventi legislativi in materia di sovraffollamento carcerario” l’autorità garante e l’associazione politica dei penalisti “esprimono la richiesta congiunta che - nel quadro di una corretta previsione costituzionalmente orientata - si approvi la legge sulla liberazione anticipata speciale e anche altre opportune misure deflattive”. Nell’audizione del 24 aprile scorso dinanzi alla Commissione giustizia della Camera il presidente del Collegio, Felice Maurizio D’Ettore, aveva detto a proposito della pdl: “Considerato il crescente numero di detenuti all’interno delle nostre carceri, in linea di principio, si potrebbe guardare con favore ogni previsione che riducesse in concreto l’affollamento e la pressione sul sistema carcerario, all’evidente condizione di ricomprendere tali interventi all’interno di un disegno complessivo inteso ad affrontare in modo strutturale un problema”. Insomma per D’Ettore si trattava di una “misura tampone” che, da sola, “non risolve” i problemi che affliggono il sistema carcerario italiano perché avrebbe “un effetto deflattivo immediato, ma non rappresenta una risposta sistemica ampia”. Aveva poi sollevato delle criticità “a partire dalla soluzione, escogitata dalla proposta di legge in esame, dell’attribuzione al direttore d’istituto della competenza a disporre l’ordinaria concessione della liberazione anticipata”. Adesso invece, dopo l’incontro con i penalisti romani, la posizione del Garante si è rafforzata a favore della proposta di Giachetti, elaborata insieme a Nessuno Tocchi Caino. Ed è di qualche giorno fa che Rita Bernardini, presidente dell’associazione radicale, ha interrotto uno sciopero della fame di circa un mese perché la pdl è stata calendarizzata nell’aula di Montecitorio per il prossimo 24 giugno. Certamente è importante il risultato politico del documento ottenuto dalla Camera penale di Roma, come rivendica il presidente Gaetano Scalise: “È con soddisfazione che abbiamo licenziato il comunicato congiunto con il Garante Nazionale per le persone private della libertà personale perché con esso si chiarisce senza possibilità di equivoco una consonanza di intenti difficilmente immaginabile fino a qualche giorno addietro. All’esito di una virtuosa interlocuzione con la Camera Penale, infatti, l’Ufficio del Garante ha abbandonato ogni tentennamento e dichiarato chiaramente la necessità di approvazione della legge sulla liberazione anticipata speciale. È una presa di posizione importante e necessaria a fronte della tragicità dei 40 suicidi tra la popolazione detenuta che si inserisce a pieno titolo nel solco delle altre iniziative che la Camera Penale coltiva in coordinamento con la Unione Camere Penali Italiane e culminerà nella maratona oratorio per il carcere che, dopo aver interessato tutte le Camere Penali territoriali, si concluderà proprio a Roma probabilmente nella prima decade di luglio”. Intanto ieri, un detenuto 56enne, collaboratore di giustizia, si è tolto la vita nel carcere di Ferrara, probabilmente impiccandosi. Per questo l’Assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, riunita a Roma, ha osservato un minuto di silenzio. Intervenuto anche il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia: “Il suicidio è la manifestazione più evidente della intollerabilità di un sistema carcerario costruito in questi termini” mentre il Capo del Dap Giovanni Russo ha assicurato: “il Gruppo di intervento operativo della Polizia penitenziaria sarà dotato di webcam”. Per il presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli, “la deflazione non sarebbe comunque la soluzione di tutti i mali delle carceri italiane. È chiaro che questo deve essere il momento della rifondazione di una strategia complessiva e quindi di ripensamento dell’intera esecuzione penale e anche della magistratura di sorveglianza”. Don Grimaldi: “Grazie a Papa Francesco, accende i riflettori sul dolore nelle carceri” di Federico Piana vaticannews.va, 12 giugno 2024 Dopo l’annuncio di ieri del Papa che ha ricordato l’apertura della Porta Santa in un penitenziario nel Giubileo del 2025, l’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane spiega come questo gesto sia portatore di grande speranza: “È un atto di misericordia, un balsamo sulle ferite di persone spesso dimenticate dalla società”. Il sovraffollamento, primo problema ancora da risolvere. “Il Papa vuole spalancare le porte alla speranza”. Quando ieri ha ascoltato Francesco aggiungere a braccio al suo discorso in Campidoglio la frase con la quale il Pontefice ha ricordato al mondo intero di voler aprire la Porta Santa di un carcere nel Giubileo del 2025, don Raffaele Grimaldi si riempito ancora una volta di gioia e commozione. Non perché la notizia fosse una novità - è contenuta nella Bolla di indizione dell’Anno Santo diffusa il 9 maggio scorso - ma perché “ribadisce la grande attenzione della Chiesa nei confronti di coloro che vivono la privazione della libertà spesso nella sofferenza”. Un vero atto di misericordia secondo l’Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane che si concretizza con il lavoro senza sosta “degli operatori della pastorale carceraria come ad esempio i cappellani, i religiosi, i diaconi, i volontari che ogni giorno entrano nei penitenziari per sostenere e consolare i più esclusi dalla società”. Il Giubileo del 2025, dunque, potrà essere una buona occasione per ripensare il rapporto tra la società e la dimensione carceraria e quella della giustizia. “Sicuramente, anche perché lo stesso Papa Francesco invita i Capi di Stato al rispetto dei diritti umani e chiede l’abolizione della pena di morte considerata un provvedimento contro la fede che annienta ogni speranza”, spiega don Grimaldi. Che spera come l’apertura della Porta Santa in un luogo di detenzione e dolore possa accendere i riflettori su migliaia di persone “spesso totalmente dimenticate dalla società”. Al centro delle criticità del sistema carcerario italiano, l’ispettore generale dei cappellani individua come causa principale il sovraffollamento. “Non permette - sostiene- di stabilire un rapporto sereno con i detenuti. E poi quando manca il personale, quando la rieducazione non c’è, quando anche i medici non sono sufficienti nei nostri penitenziari si acuiscono le difficoltà, le incomprensioni, le violenze”. Riforma Nordio, Crosetto mette il turbo e riapre lo scontro con le toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 12 giugno 2024 Separazione delle carriere, l’Anm pronta a mobilitarsi contro il ddl costituzionale sulla giustizia. Che è sotto la lente di Mattarella. Ci si poteva aspettare che a riprendere il filo del discorso sulla separazione delle carriere sarebbe stato il guardasigilli Carlo Nordio. E invece stamattina, a riaprire il dossier, ha provveduto il ministro della Difesa Guido Crosetto, con un’intervista a Repubblica in cui, a sorpresa, ha annunciato che verrà data “priorità alla riforma della giustizia, perché quella sul premierato” va “spiegata meglio, visto che finora è stata presentata come il tentativo di distorcere la Costituzione, e invece non toglie alcun grammo di democrazia”. Crosetto ha quindi assestato una stilettata alla Anm: “Sulla giustizia, il confronto che il governo deve avere è parlamentare e politico, non certo con la magistratura. Che lo ricordo, in teoria, dovrebbe solo applicare le leggi”. Sembra di sentire l’eco della sua intervista al Corriere della Sera del 26 novembre 2023, quando il ministro della Difesa accusò le toghe di fare “opposizione giudiziaria” per affossare i governi di centrodestra. Quelle parole scatenarono infinite polemiche, che sembravano ricucite dall’incontro con il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, avvenuto qualche mese dopo. E invece adesso riemerge, dopo le critiche rivolte sempre da Crosetto all’inchiesta sul governatore della Liguria Giovanni Toti, una profonda ostilità del ministro nei confronti del “sindacato” delle toghe, che si prepara a mettere in campo iniziative per contrastare il ddl costituzionale sulla giustizia. È confermata per sabato in Cassazione la riunione del “parlamentino” dell’Anm. L’ordine del giorno, ovviamente, reca solo un punto: “Riforma costituzionale per la separazione delle carriere, la modalità di nomina dei componenti dei due Consigli superiori delle magistrature e per l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare”. Come è noto il ddl varato dal governo riguarda solo la magistratura ordinaria, in particolare nella parte relativa all’Alta Corte. Tuttavia, al “direttivo” Anm sono state invitate anche le associazioni della magistratura contabile, di quella amministrativa e della magistratura militare. I motivi sono due: tutte sarebbero contrarie alle previsioni del ddl Nordio e, sebbene la riforma si occupi solo delle toghe ordinarie, c’è il timore che successivamente il mutamento del disciplinare possa estendersi alle altre giurisdizioni. Se tutte accettassero l’invito, ci si troverebbe di fronte a un segnale di un certo rilievo: sarebbe la prima volta che tutte le diverse magistrature si riuniscono su temi del genere. L’assemblea del direttivo Anm sarà aperta anche alle sezioni locali dell’associazione: l’obiettivo è quello di organizzare iniziative sul territorio per sensibilizzare l’opinione pubblica sui presunti pericoli della riforma. Lo spirito che aleggia tra i magistrati rimane comunque di grande insofferenza, ma si allontana l’ipotesi dello sciopero: la discussione sulla riforma sarà lunga, e già i big di qualche corrente hanno fatto intendere che l’astensione andrà utilizzata al momento opportuno. Sta di fatto che l’intervista rilasciata ieri da Crosetto non ha suscitato reazioni ufficiali tra le toghe. “Ormai ci siamo abituati a non fare affidamento alle parole degli esponenti del governo. Nordio è venuto al nostro congresso di Palermo l’11 maggio a dire che non conosceva i tempi di arrivo della riforma in Consiglio dei ministri, che l’iter sarebbe stato dilatato a causa della campagna elettorale. Poi il 29 dello stesso mese il ddl viene approvato”: è il senso dell’analisi fatta da diversi rappresentanti dell’associazionismo giudiziario, che comunque aspirano, intanto, ad essere auditi non appena il provvedimento verrà incardinato in Parlamento: “Siamo ancora una democrazia partecipativa”. Ma la precedenza attribuita da Crosetto alla separazione delle carriere è un’idea condivisa? Fonti vicine al ministro Nordio fanno notare come l’affermazione appaia “sorprendente”. Quel che è certo è che il ddl è all’esame della Presidenza della Repubblica, alla quale il governo ha inviato il testo, anche se non si possono fare previsioni sui tempi della firma con cui Sergio Mattarella ne autorizzerà la trasmissione alle Camere. Ricordiamo che il ddl era stato posto all’attenzione del Capo dello Staro (che presiede anche il Csm) da parte di Nordio e del sottosegretario Alfredo Mantovano il 28 maggio, la sera prima del via libera in Cdm. Ma lo stesso testo subì modifiche nella successiva mattinata, prima di essere presentato in conferenza stampa. Ora occorre capire quanto il governo e la maggioranza vogliano spingere a favore della separazione delle carriere a discapito del premierato. Difficile che le due maxi riforme costituzionali possano viaggiare insieme. L’approvazione in Cdm del ddl, a pochi giorni dalle elezioni, fu raccontata, soprattutto da Forza Italia, come un grande risultato che si sarebbe a breve concretizzato nella discussione parlamentare. Ma fu la stessa Giorgia Meloni, nelle ore successive, a rivendicarne l’importanza. Forse perché consapevole che battere in questo momento su una riforma che accresce i poteri del premier può attrarre critiche di forzature pseudo-cesariste. La separazione delle carriere sarebbe invece più spendibile anche a livello comunicativo, e potrebbe trovare sponde tra le opposizioni. Ovviamente siamo sempre nel campo delle ipotesi, anche perché ancora non si conosce in quale commissione Affari costituzionali la riforma sarà incardinata: se a Palazzo Madama o a Montecitorio. Qualora il premierato passasse a breve al Senato, il passo successivo sarebbe quello di iniziarne la discussione nella prima commissione della Camera. Se lì si trovasse anche il ddl costituzionale di Nordio, si potrebbe creare un ingorgo. È pur vero che nella Affari costituzionali della Camera sono state già fatte audizioni in merito alle quattro pdl sullo stesso tema, quindi si potrebbero dare per assodate quelle riguardanti la parte sulla separazione delle carriere e farne di nuove sui soli articoli concernenti il sorteggio dei membri del Csm e l’Alta Corte disciplinare, così da accorciare i tempi. La separazione delle carriere aspetta la firma di Mattarella, ma rischia di incagliarsi alla Camera di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 giugno 2024 Dopo due settimane ancora non è arrivata la firma del capo dello Stato, Sergio Mattarella, al disegno di legge di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere in magistratura e sul Csm, approvato in Consiglio dei ministri lo scorso 29 maggio. Il provvedimento si compone di otto articoli, ma va a modificare sei articoli della Costituzione che per 76 anni hanno delineato l’impianto fondamentale della magistratura italiana. Logico che tutto ciò imponga una valutazione tecnica piuttosto approfondita del capo dello stato, che peraltro è presidente di diritto proprio del Consiglio superiore della magistratura (e lo rimarrebbe per i due Csm separati previsti dalla riforma), anche se fonti del Quirinale ricordano come in questo momento al presidente della Repubblica spetti soltanto il compito di rintracciare eventuali palesi profili di incostituzionalità. Nessuno si spinge ad avanzare previsioni su quando la firma di Mattarella arriverà. Il Parlamento, intanto, si prepara ad accogliere il testo, che però rischia di finire vittima di un intasamento di provvedimenti. Il ddl sarà incardinato presso la Camera dei deputati, per volontà dei partiti di maggioranza e soprattutto del presidente Lorenzo Fontana. Fino a oggi, infatti, tutte le principali riforme costituzionali e non, a partire dal premierato per arrivare all’autonomia differenziata e al primo pacchetto di riforma della giustizia, sono state esaminate partendo dal Senato. L’autonomia differenziata è stata approvata dall’Aula del Senato a gennaio, per poi passare alla Camera. Un mese dopo è toccato al primo “pacchetto Nordio” (quello che include l’abolizione del reato di abuso d’ufficio), di cui poi si sono perse le tracce. La prossima settimana, il 18 o al massimo il 19 giugno, l’Aula del Senato darà il primo via libera alla riforma del premierato. Risulta comprensibile, dunque, l’intento di incardinare - per correttezza istituzionale - la riforma costituzionale della magistratura alla Camera, se non fosse che la commissione Giustizia di Montecitorio si ritrova ad avere a che fare con un ingorgo di provvedimenti da esaminare: il cosiddetto ddl sicurezza (contenente “disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”), il primo pacchetto di riforma Nordio (che, oltre ad abrogare l’abuso d’ufficio, modifica la disciplina delle intercettazioni e prevede limiti alla carcerazione preventiva), la proposta di legge di riforma della giustizia contabile e delle funzioni della Corte dei conti. Il ritardo nell’esame delle proposte, riferiscono fonti parlamentari, sarebbe dovuto in alcuni casi all’assenza di indicazioni chiare da parte di Palazzo Chigi, ma in molti altri casi anche a problemi di organizzazione dei lavori della commissione. Nell’attesa, alcuni capigruppo di maggioranza hanno cominciato a usare la calcolatrice per capire se sarà possibile ottenere sulla riforma costituzionale della magistratura un consenso sufficientemente ampio per evitare il passaggio referendario. La soglia è quella nota dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. La maggioranza da sola (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati) non può contare su un numero di seggi sufficiente. Se Italia viva e Azione, però, decidessero - come sembra - di sostenere la separazione delle carriere e la riforma del Csm, sia alla Camera che al Senato si arriverebbe a sette-nove voti dalla maggioranza dei due terzi. Per raggiungere l’obiettivo basterebbe convincere alcuni esponenti del gruppo misto, o qualche senatore a vita, oppure - perché no - qualche parlamentare del Partito democratico. Andando a pescare, per esempio, fra i dem che nel 2019 firmarono la mozione Martina favorevole alla separazione delle carriere. Il caso del pompiere Luigi Spera, in carcere per aver attaccato l’industria di armi Leonardo di Valeria Casolaro L’Indipendente, 12 giugno 2024 Nel novembre 2022, alcuni attivisti lanciano oggetti incendiati all’interno del cortile di Leonardo spa, a Palermo. È notte e tutti i dipendenti sono a casa. Il resoconto di quanto accaduto lo restituiscono le immagini sgranate di un video che gira sui social di Antudo, realtà indipendentista siciliana: un paio di oggetti che volano, una fiammata di qualche secondo, poi più nulla. Gli attivisti corrono via. La protesta era volta a denunciare come le armi prodotte da Leonardo (società partecipata dal governo al 33%) fossero vendute alla Turchia e impiegate nell’etnocidio dei curdi messo in atto da Erdogan. Nessun dipendente di Leonardo è stato coinvolto nell’incidente, mentre i danni agli oggetti sono stati molto lievi. Eppure, per quella breve azione dimostrativa, alla fine dello scorso marzo alcuni attivisti di Antudo sono stati colpiti da alcune misure cautelari. Tra di essi vi è Spera, vigile del fuoco, l’unico ad essere detenuto in carcere con l’accusa di aver compiuto atti di natura terroristica. “Il pm aveva chiesto per Spera e un altro giovane la custodia cautelare per il reato incendiario di natura terroristica (art. 280 c.p.) - spiega l’avvocato di Spera, Giorgio Bisagna, a L’Indipendente - e aveva contestato a Spera anche l’utilizzo, sempre ai fini terroristici (art. 270 c.p.), di una molotov, congegno incendiario equiparato a un’arma da guerra, in quanto sarebbe stata rinvenuta una bottiglia rotta con uno stoppino dentro”. Spera è poi stato accusato, insieme ad un’altra attivista, di aver divulgato un comunicato stampa che spiegava le ragioni dell’atto dimostrativo, motivo per il quale il pm gli contesta anche l’istigazione a delinquere aggravata dal compimento di atti sovversivi (art. 414 c.p., comma 4). Nell’esaminare le richieste del pm, il giudice per le indagini preliminari (gip) ha confermato l’imputabilità per i fatti contestati, ma senza l’aggravante della valenza terroristica. “Perché ci sia una valenza terroristica di un atto occorre che si crei uno stato di intimidazione, di costrizione effettiva nel soggetto che viene minacciato. Una vampata avvenuta di notte, quando il personale non era presente, che non ha recato danni sostanziali ha una evidente finalità dimostrativa” dichiara Bisagna. “Pensare che Leonardo, la settima azienda al mondo nella produzione di armi, possa sentirsi influenzata al punto da recedere dalle proprie scelte finanziarie per una minaccia di questo tipo mi sembra da escludere”. Tuttavia, a causa di alcuni precedenti minori legati ad atti di contestazione, il gip ritiene vi sia il rischio di reiterazione del reato e dispone le misure in carcere. Sarà poi il tribunale di Palermo, nel corso dell’udienza di riesame (fissata dopo che l’avvocato ha contestato le misure cautelari) a riconfermare la natura terroristica degli atti e confermando dunque la custodia in carcere. Così, Spera viene trasferito nella prigione di Alessandria, dall’altra parte dell’Italia, in regime di Alta Sicurezza 2 (AS2), riservato a coloro accusati o condannati di atti di terrorismo. Secondo l’avvocato, qui si iniziano a delineare le prime incongruenze. “C’è sicuramente qualcosa di strano, perché l’allontanamento viene disposto quando il gip aveva escluso la finalità terroristica, prima che il tribunale rovesciasse tale posizione. Per i reati comuni, come quello di incendio, si dispone la misura del carcere solamente in extrema ratio. Eppure, il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP) non prende in considerazione ciò che ha detto il giudice, ma le accuse avanzate dal pm, mandandolo in carcere ancora prima che il tribunale del riesame riconfermasse le aggravanti per terrorismo. In pratica lui è indagato per terrorismo, ma è in carcere per incendio. Chiaramente c’era già qualcosa che non andava sin da subito”. Al momento, l’avvocato ha presentato ricorso in Cassazione, ma per l’esito si dovrà attendere. Nel frattempo, Spera si trova rinchiuso in una cella. Con la possibilità concreta che vi rimanga molto a lungo, in quanto per i reati di terrorismo, esattamente come per i reati di mafia, i termini di custodia cautelare sono raddoppiati. Secondo l’avvocato, che sostiene l’estraneità di Spera ai fatti (“è l’accusa che deve dimostrare la sua colpevolezza, non noi provare la sua innocenza”), basta il video a dimostrare l’evidente natura dimostrativa dell’azione. E nemmeno i pochi danni materiali che vi sono stati sarebbero sufficienti a dimostrare la matrice terroristica dell’atto. “È già stato stabilito per fatti accaduti in passato, come quelli avvenuti in Val di Susa con le proteste contro la TAV. In quei casi, la procura di Torino aveva contestato l’attentato terroristico, ma la Cassazione ha detto no. Accadde anche nel 2021, durante il Covid, quando fu lanciata una molotov contro un polo vaccinale nel bresciano non fu considerato un atto di terrorismo, perché il ministero della Salute non avrebbe certo smesso di somministrare le vaccinazioni per un episodio del genere”. “Luigi è molto sereno, perché è una persona molto solida” riferisce Bisagna. Intanto, però, a causa del sospetto che abbia lanciato una molotov di notte in uno spiazzo di cemento, senza che questo abbia recato danni a persone o oggetti, il vigile del fuoco si trova rinchiuso in una cella di tre metri quadri, da dividere con un altro detenuto. Il tutto per denunciare la complicità del nostro governo nelle azioni di un altro, che di morti e distruzione, quello sì, ne causa per davvero. Ferrara. Tragedia tra le mura del carcere. Detenuto si uccide in cella di Federico Malavasi Il Resto del Carlino, 12 giugno 2024 Un lenzuolo utilizzato come corda e il corpo senza vita tra le mura della cella. È la terribile scena che si sono trovati davanti agli occhi gli agenti della polizia penitenziaria nella notte tra ieri e lunedì. È l’ennesimo suicidio che si consuma in un carcere italiano. La vittima è un 56enne di origine campana, collaboratore di giustizia detenuto all’Arginone. Al momento non sono chiare le ragioni all’origine del gesto anche se, stando a quanto emerso, per il detenuto non sarebbe stato segnalato un rischio suicidario in quanto non erano mai emersi segnali premonitori. Sul posto è intervenuto il medico legale che ha confermato la natura autolesionistica del gesto. Quando ha deciso di togliersi la vita, il 56enne era solo nella sua cella. La procura ha aperto un fascicolo contro ignoti e disposto l’autopsia per ‘cristallizzare’ le cause del decesso. La tragedia ha suscitato sconcerto e scatenato la dura presa di posizione del Sappe, sindacato degli agenti di polizia penitenziaria. “Questa mattina - si legge in una nota diramata da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario nazionale - un detenuto si è tolto la vita all’interno della sua cella nel carcere di Ferrara. L’uomo è stato trovato dalla polizia penitenziaria che, nonostante sia intervenuta prontamente, non è riuscita a salvarlo come, il più delle volte, avviene in questi casi. Ricordiamo, infatti - affermano i sindacalisti - che ogni anno la polizia penitenziaria salva la vita a circa 1.700 detenuti che tentano il suicidio, a volte anche per mettere in atto gesti dimostrativi, volti ad attirare l’attenzione e che poi possono finire in tragedia”. Nonostante “le gravi carenze di organico”, concludono i vertici del Sappe, “la polizia penitenziaria, grazie alla professionalità degli agenti, il più delle volte, riesce a salvare la vita dei detenuti. Questi episodi, spesso, costituiscono un trauma anche per gli operatori che intervengono in quel momento. Da qui la necessità di un adeguato supporto psicologico”. Il segretario generale della Uilpa Gennarino De Fazio spiega che “con il suicidio del detenuto collaboratore di giustizia, avvenuto nel carcere di Ferrara, lo Stato ha perso due volte. La prima perché non ha saputo salvaguardare una vita umana che gli era stata affidata; la seconda perché non potrà più avvantaggiarsi di un collaboratore di giustizia nella lotta alla malavita organizzata. La crisi del sistema penitenziario è profondissima e molto risalente nel tempo, il governo prenda atto dell’emergenza”. Bergamo. Valentino si è ucciso a 69 anni quando ha saputo di dover tornare in cella di Federico Rota Corriere della Sera, 12 giugno 2024 Dopo il carcere s’era costruito una famiglia. Non ha sopportato l’idea di tornarci. La maratona oratoria degli avvocati penalisti per sensibilizzare sulle condizioni carcerarie: sovraffollamento, carenza di organici, restrizioni eccessive, suicidi. Le misure alternative per scontare una pena ci sono, ma il numero dei detenuti non diminuisce: in via Gleno sono 538 per 319 posti. L’aggiornamento, in questo caso drammatico, arriva per voce dell’avvocato Andrea Cavaliere, componente della giunta dell’Unione delle Camere penali italiane. Dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere “non sono più 39. Stamattina sono saliti a 40 perché a Ferrara si è tolto la vita un altro detenuto”. Un fenomeno diffuso in tutta Italia, non nuovo, ma le cui proporzioni assumono i contorni di “emergenza sociale”, sottolinea Enrico Pelillo, presidente della Camera penale di Bergamo “Roberto Bruni”. L’occasione è la speciale maratona “oratoria”, organizzata dai penalisti per denunciare i problemi delle carceri italiane. Dal sovraffollamento alla carenza degli organici, toccando anche aspetti che toccano da vicino la politica e l’amministrazione della giustizia. “È una situazione esplosiva - continua Pelillo -. Uno Stato di diritto non può permettersi di mantenerla tale. Nel momento in cui una persona viene privata della propria libertà e tradotta in una struttura carceraria lo Stato lo prende in carico. E quindi deve anche occuparsi di mantenere la sua salute e incolumità”. Criticità da cui il carcere di via Gleno non è esente. Rispetto al sovraffollamento i posti regolamentari sono 319, ma i detenuti oggi sono 538. Fortunatamente, segnala Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti, quest’anno nel carcere di Bergamo nessuno si è tolto la vita: “Finora non ci sono stati suicidi e questo ci consola. Non c’è stato neppure alcun decesso”. Diverso è il caso dell’anno scorso, quando erano avvenuti 3 decessi e 2 suicidi. L’anno prima le morti in carcere erano state 4, riferisce sempre Lanfranchi, ma senza alcun suicidio. Morti silenziose, così come quelle di chi si toglie la vita prima che alle sue spalle si chiudano le porte di una cella. È la storia di Valentino, suicidatosi a 69 anni prima di scontare una nuova condanna tra le mura di un penitenziario: “Il carcere lo conosceva, si era ricostruito una vita e cercava di rigare dritto. Non era più in grado di ricominciare una vita dietro alle sbarre alla soglia dei 70 anni - racconta il suo legale Daniela Serughetti -. Due giorni dopo ricevo la telefonata dal maresciallo della caserma del suo paese. Valentino non è mai rientrato nella statistica dell’associazione Antigone, è tra coloro nel 2022 si tolsero la vita nella società esterna. Dopo due anni mi chiedo ancora perché scelse di non chiamarmi, i figli o la compagna per spiegare almeno a loro cosa stesse vivendo”. Nel suo intervento, Cavaliere pone l’accento anche sulla necessità di approvare la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale: “Sarebbe una goccia nel mare, ma diminuirebbe il sovraffollamento che in alcune carceri è ingestibile. A Brescia ha superato il 200%, così come a San Vittore”. Pia Locatelli, già europarlamentare e oggi presidente della Fondazione Zaninoni, si concentra invece sulla circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che limita gli orari di apertura delle celle: “Così i detenuti devono restarci fino a 20 ore al giorno. La vita si è fatta ancor più pesante”. Questo perché a organici carenti e celle piene, si somma un’altra variabile: “Il 40% dei detenuti a Bergamo ha problemi psichici e dipendenze. Le restrizioni aumentano questo disagio e non mettono in sicurezza neppure la polizia penitenziaria”, evidenzia Fausto Gritti, presidente dell’associazione Carcere e territorio, ribadendo l’importanza delle pene alternative. “Nel 2023 cento persone hanno avuto un’occasione di lavoro fuori dal carcere. Non abbiamo bisogno di nuove carceri, ma di una giustizia veloce”. La Provincia di Bergamo l’anno scorso ha stretto una convenzione con il carcere dare la possibilità ai detenuti di effettuare ore di servizio sul territorio. “Ahimè da pochi mesi è stato congelato, non per volontà dell’amministrazione provinciale - osserva il presidente Pasquale Gandolfi -. Ci auguriamo che possa riprendere”. Ad oggi sono più di duemila gli utenti in carico all’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) di Bergamo: “Sono 744 gli affidati, 132 i detenuti domiciliari, più di 400 le messe alla prova, più di 350 i lavori di pubblica utilità e ora arrivano i programmi Cartabia - riferisce Lucia Manenti, responsabile dell’Uepe. Il ventaglio delle misure per scontare una pena si è decisamente ampliato”. Tuttavia, il numero dei detenuti non diminuisce. “Dobbiamo dare piena attuazione alle misure alternative - rimarca Giulio Marchesi, presidente dell’Ordine degli avvocati -. La detenzione deve essere usata solo quando è necessaria”. Accanto alle misure alternative, ci sono percorsi di reinserimento sociale che passano anche attraverso attività culturali. Ad esempio, attraverso laboratori teatrali: “Pochi lo sanno - cita Alessia Solombrino, Gip al tribunale di Bergamo -, ma i detenuti che partecipano a esperienze teatrali hanno un tasso di recidiva del 6%, a fronte del 60-70% della media nazionale”. Trento. La direttrice del carcere: “Specchio della società, aumentati insofferenza e irritabilità” di Roberto Conci lavocedeltrentino.it, 12 giugno 2024 Gli episodi di violenza e autolesionismo dentro il carcere di Trento sono ormai all’ordine del giorno. L’ultimo, ma solo in ordine di tempo, è successo venerdì 8 giugno 2024, quando un detenuto ha tentato di darsi fuoco insieme al materasso dentro la cella. Solo il pronto intervento della polizia penitenziaria ha scongiurato la tragedia. Per salvare il detenuto due poliziotti sono rimasti anche leggermente feriti. A fare le spese delle aggressioni non sono solo gli uomini della polizia penitenziaria ma anche medici, sanitari, insegnanti e volontari. C’è chi è stato preso a pugni oppure a schiaffi, chi ha rischiato anche di essere violentato. Quando si picchiano fra di loro diventano veri animali. Uno spettacolo sconcertante e uno scenario inquietante in uno delle carceri peggiori - a detta dei sindacati - del Triveneto. All’ordine del giorno anche aggressioni verbali, comportamenti di sfida, sputi, insulti, minacce continue mancanze di rispetto verso chi lavora per il loro benessere spesso in modo volontario. Una situazione secondo molti addetti ai lavori completamente fuori controllo. A peggiorare ancora di più le cose è stato il numero di detenuti in cella che è stato aumentato da 3 a 4 e l’affissione di una rete alle sbarre per cercare di contenere il lancio di rifiuti dalle finestre. Praticamente verso il calar de sole i detenuti non possono godersi il panorama da dietro le sbarre. Il compito del carcere è quello di educare o punire? Entrambe le cose. Lo scopo punitivo è ovvio: chi sbaglia, deve pagare. Deve pagare con certezza e commisurazione. Altrimenti le leggi rimangono lettera morta, senza effetto deterrente. Tuttavia è tassativo che il carcere sia anche (ri)educativo. Deve fornire al detenuto gli strumenti per capire di aver sbagliato e, soprattutto, per rifarsi una vita onesta una volta uscito di galera. Purtroppo però nelle carceri non avviene né l’uno né l’altro. Quindi ci troviamo davanti ad ulteriori sprechi di risorse umane ed economiche da rabbrividire. Per quanto riguarda il recupero del detenuto ci sono i dati che devono far riflettere. E a snocciolarli è Annarita Nuzzaci, la direttrice del carcere di Spini di Gardolo che conferma che il 69% dei detenuti è recidivo, cioè 69 detenuti su 100 che vanno in carcere per la prima volta ci tornano. “Va meglio invece per chi sconta la pena con soluzioni alternative al carcere - spiega la direttrice - in questo caso rivediamo solo il 19% dei soggetti”. La dottoressa Nuzzaci - sentita al telefono - smentisce categoricamente che la situazione sia fuori controllo. anche se conferma gli episodi di aggressione al personale della struttura. “Purtroppo noi cerchiamo di limitare questi episodi con gli strumenti che abbiamo a disposizione, con le normative che spesso non sono molto stringenti. In tutte le carceri italiane la situazione è identica”. “Il carcere - aggiunge la dottoressa Nuzzaci - è lo specchio della società, e dopo la pandemia, come all’esterno, anche nelle carceri si registrano sempre maggiori episodi di insofferenza, irritabilità e nervosismo”. Annarita Nuzzaci annuncia che sono in arrivo tre educatori nuovi: “Quindi diventeranno 8 e sarà una bella valvola di ossigeno. Poi sono in arrivo anche delle nuove unità penitenziarie ed è stato scelto il nuovo comandante pro tempore che arriverà forse già la prossima settimana”. L’aumento degli educatori garantirà dentro il carcere maggiori attività di tempo libero per i detenuti che forse allenterà la tensione. Si è già iniziato con una partita a calcetto tra Avvocati Giuristi e detenuti: per la cronaca è terminata 3 a 1 per i detenuti. Non c’è stato bisogno di nessun cartellino rosso. Speriamo sia un buon viatico anche per il resto. Cremona. Il cappellano del carcere: “Aiutiamo i detenuti a progettare un futuro” di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 12 giugno 2024 Parla di “ragazzi”, perché “nel carcere di Cremona ne abbiamo tanti tra i 18 e i 24 anni. Anche con loro, soprattutto con loro senti il dovere di agire per costruire il loro futuro”. Racconta di uno di loro che “in carcere non ci deve stare. Nel colloquio di alcuni giorni fa gli ho detto: ‘Ma tu noi hai una casa? Se hai un riferimento lo si può dire al magistrato’. Lui pagava 500 euro al mese per dormire su un materasso in un camper parcheggiato a Lambrate. E come lui ci sono un sacco di persone che non hanno domicilio, non hanno una struttura ospitante e allora si fanno la galera per cosa? Perché non hanno alternativa”. Da 15 anni don Roberto Musa è cappellano del carcere e “quello che ho visto io è il dopo carcere che non c’è. La speranza noi la alimentiamo o la soffochiamo?”. Risuona, potente, la sua domanda lanciata dal palco del cortile Federico II. L’occasione è la maratona oratoria a staffetta organizzata dalle Camere penali italiane per sensibilizzare sulle condizioni carcerarie e sui suicidi. Il tema: ‘Fermare i suicidi in carcere. Diamo voce a coloro che non possono parlare. Non c’è più tempo’. Oggi è toccato a Cremona. Alle 11,30, la maratona oratoria viene aperta da Micol Parati, presidente della Camera penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’. Legge i nomi di chi in carcere si è suicidato. Chiede un minuto di silenzio. Poi, sul palco si alternano avvocati, politici, professionisti che si occupano dei detenuti, Ludovica La Russa, studentessa di Giurisprudenza alla Bocconi. E chi in carcere ci entra ogni giorno. Come gli educatori. E come don Musa. “Mi sono chiesto perché una persona si toglie la vita, indipendentemente da dove è - dice il cappellano. Perché non ha più voglia di futuro, perché non si aspetta più niente. In carcere questa situazione è quotidiana. Il carcere di Cremona è molto altalenante come numeri: 535 ieri, 550 oggi, 570 domani. Siamo in balia dei trasferimenti. E fai fatica a costruire relazioni e rapporti quando non sei sicuro che quella persona potrà fare un percorso. Sai che inizi, ma non sai quando terminerai, perché può darsi che tra un mese quel ragazzo con cui stavi costruendo un progetto verrà trasferito in un altro istituto e si azzera tutto”. O perché “com’è successo in questi giorni a Cremona, per tre educatori arrivati tre mesi fa c’è stato l’interpello e sono stati trasferiti”. E, allora, “tutto si blocca per i ragazzi che stavano aspettando di iniziare tirocini o di lavorare nelle imprese. La speranza noi la alimentiamo o la soffochiamo? È questo il problema”. Parla delle misure alternative, don Musa. “Noi abbiamo a Cremona una marea di persone che in carcere non ci dovrebbero stare. Dove pero? Anche con residui di pena che di per sé non prevedrebbero più la carcerazione, però dove vanno? La speranza richiede un lavoro continuo, una presenza quotidiana, perché, sennò, si rischia con degli spot di fare più del male che del bene. Fai la bella iniziativa, vengono i giornalisti e poi ti saluto: noi ci dimentichiamo che quella gente in carcere ci rimarrà e non ci andrà poi nessuno. E poi magari, terminato il corso di cucina, di falegnameria, il collegamento esterno? Scopo lavorativo? Possibilità abitativa? Zero. Bisogna cercare di costruire ponti stabili con la realtà esterna. Gli eventi sono belli nel momento in cui segnano l’inizio di un qualche cosa di stabile, non un ponte di barche, ma un ponte stabile con il territorio, con le aziende, con le imprese, con le realtà commerciali, con le scuole, con tutto ciò che educa nel nostro territorio. Se noi vogliamo fermare gli atti estremi, dobbiamo cercare di fare in modo che il futuro abbia un senso per chi è in carcere. Dobbiamo aiutarlo a desiderare un futuro, a sognare, costruire, progettare. È quello che dà il sale, il senso alla nostra vita. Figuriamoci dentro là. Nel momento in cui sei rinchiuso, non hai più non solo la possibilità, ma nemmeno il diritto di sognare, di progettare il tuo futuro”. “Dall’inizio dell’anno, nelle carceri 39 suicidi, 91 decessi e 4 suicidi tra gli agenti della polizia penitenziaria. Questi numeri non ci possono lasciare indifferenti. In carcere ci si toglie la vita in percentuale 18 volte di più rispetto alla società civile esterna”, sottolinea la presidente Micol Parati, che ricorda anche gli atti di autolesionismo: 287 a Ca’ del Ferro nel 2023. “Questo ci fa capire quanto la situazione sia abnorme, inaccettabile”. Parla del sovraffollamento. “Le carceri sono sovraffollate: abbiamo celle in cui dovrebbero stare due detenuti, ma che, invece, ne accolgono quattro, sei, a volte anche otto con letti uno sopra l’altro, in una situazione così ristretta che è impossibile aprire le finestre per far cambiare aria alla cella”. La presidente Parati parla dei problemi di natura psichiatrica (molti detenuti ne soffrono) e sanitaria. “Lo Stato - prosegue - non riesce a fornire un’adeguata assistenza sanitaria alle persone detenute. Eppure, i detenuti sono affidati allo Stato. Per il periodo in cui devono scontare la pena, lo Stato li deve custodire e dovrebbe in quel periodo rieducarli. Però questo non succede. Eppure, questo è scritto nella nostra Costituzione”. Cita l’articolo 27: ‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’. “La pena deve essere giusta e rispettosa della dignità dell’uomo. Se così non fosse, lo Stato si abbasserebbe al livello di chi ha sbagliato e di chi ha commesso dei reati. Lo Stato che non rispetta la Costituzione è uno Stato che non dobbiamo accettare. Ci troveremmo, se così fosse, tutti consapevoli e in qualche modo correi, nel porre in essere comportamenti contro la legge”. Richiama l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: ‘Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti’. “Eppure - evidenzia - in Italia di pena si muore, anche se la pena di morte è stata abrogata”. Micol Parati, presidente della Camera Penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’, il sindaco Gianluca Galimberti, il consigliere regionale Matteo Piloni, l’avvocato Serena Manfredini dell’Associazione giovani avvocati, l’avvocato Caterina Pacifici, consigliera della Camera penale, l’avvocato Nadia Baldini, che ha portato i saluti del presidente dell’Ordine degli avvocati, Alessio Romanelli, e letto il suo intervento, Antonella Salvan dell’Uepe di Mantova, Paolo Carletti, presidente del Consiglio comunale, don Roberto Musa, cappellano del carcere, l’avvocato Elena Monticelli, le giornaliste Francesca Morandi (La Provincia) e Sara Pizzorni (Cremona Oggi), l’avvocato Andrea Daconto, Vanna Poli dell’Asst di Cremona, Dario Mor, educatore pedagogista e agente di rete presso l’Uepe di Cremona, l’avvocato Marilena Gigliotti, consigliera della Camera penale, l’avvocato Michele Ferranti, Francesca Salucci, coordinatrice del Centro diurno interno casa circondariale di Cremona, l’avvocato Raffaella Buondonno, consigliera della Camera penale- delegata carcere, un detenuto in affidamento provvisorio, Ludovica La Russa, studentessa in Giurisprudenza Università Bocconi; l’avvocato Chiara Tomasetti, l’avvocato Laura Negri, segretario della Camera penale, Annamaria Caporali di Amnesty International e l’avvocato Maria Luisa Crotti, presidente della Camera penale della Lombardia Orientale. Roma. Una cella nel cuore della città. Il Dubbio vi “sbatte” in carcere di Francesca Spasiano Il Dubbio, 12 giugno 2024 Domani mattina al Tempio di Adriano l’iniziativa sull’emergenza penitenziaria Greco (Cnf): “Dagli avvocati un appello per fermare la scia infinita dei suicidi”. “La nostra Carta Costituzionale traccia con chiarezza i principi di umanità e dignità che devono guidare il trattamento dei detenuti. Tuttavia, la realtà quotidiana delle nostre carceri evidenzia un quadro preoccupante di sovraffollamento, con condizioni di vita non sempre tollerabili e una scia di suicidi tra i detenuti”. A dirlo è Francesco Greco, presidente del Consiglio Nazionale Forense, che interverrà giovedì 13 giugno all’evento “Portare il carcere nella Costituzione” organizzato dal Dubbio presso il Tempio di Adriano a Roma, dalle ore 9.30 alle 14. “L’impegno del Cnf - aggiunge il presidente del Cnf - è da sempre quello di collaborare, insieme alle istituzioni preposte, a una riforma del sistema penitenziario che possa garantire diritti e umanità ai detenuti in un’ottica rieducativa, e assicurare alla magistratura di sorveglianza più risorse e organici”. “Gli avvocati, come custodi dei diritti costituzionali alla libertà e alla dignità - conclude Greco - vogliono fare un appello ai media italiani: impegniamoci tutti insieme per far conoscere la situazione delle carceri italiane e contribuire a creare condizioni di vita dignitose per i detenuti”. L’iniziativa prevede due attività in contemporanea: all’esterno, in piazza di Pietra, sarà ricostruita una cella di isolamento aperta a tutti i cittadini, ai quali Il Dubbio offrirà la possibilità di provare per cinque minuti cosa significa essere reclusi in un carcere. All’interno del Tempio di Adriano, negli stessi orari, si svolgerà un ciclo di dibattiti a cui prenderanno parte esponenti del governo, parlamentari, architetti, neuroscienziati, avvocati e magistrati, che dialogheranno sui nodi principali della questione penitenziaria. Tra gli altri, interverranno il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, il sottosegretario Andrea Ostellari, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, la deputata e responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, la senatrice dem Valeria Valente e il presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato Alberto Balboni. L’avvocatura sarà rappresentata, oltre che dal presidente Greco, dalla vicepresidente del Cnf Patrizia Corona e dal vicepresidente della Fai Vittorio Minervini. Il convegno sarà valido ai fini della formazione continua degli avvocati, esclusivamente per coloro che parteciperanno in presenza: per prenotarsi basta inviare una mail all’indirizzo segreteria@ildubbio.news. L’esperienza in cella sarà introdotta da Marco Sorbara, ex detenuto che ha trascorso 909 giorni in cella da innocente: i cittadini, che resteranno chiusi dentro, potranno sperimentare un’esperienza assolutamente realistica: troveranno una branda, un wc a vista e, a fianco, un fornelletto da cucina. “Raccogliamo in questo modo l’invito del Presidente della Repubblica e cerchiamo di dare una risposta alla strage dei suicidi dietro le sbarre, che sembra non avere fine: proprio in questi giorni abbiamo raggiunto il macabro primato delle 40 vittime”, spiega il direttore del Dubbio Davide Varì, richiamando l’attenzione sulla scia di sangue che continua ad allungarsi dall’inizio dell’anno. Un triste record destinato a crescere, soprattutto con l’estate, se non si agirà tempestivamente per riportare il carcere nei binari tracciati dalla Costituzione. Da tempo, infatti, l’esecuzione penale ha assunto connotazioni in palese violazione dell’articolo 27 della Carta, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mentre oggi il carcere è un luogo in cui l’umanità sprofonda, senza alcuna prospettiva per un rientro positivo nella società. Per questo è necessario agire subito. A cominciare dall’architettura penitenziaria, che deve muovere verso una visione umana e integrata, assicurando il diritto all’affettività in carcere sancito dalla Consulta con la sentenza dello scorso gennaio. Della “struttura carcere” e del suo impatto su chi la popola discuteremo in apertura dell’evento. A seguire parleremo di detenzione femminile: una minoranza penitenziaria di cui nessuno si cura, quella delle donne in carcere, condannate a scontare un doppio isolamento negli istituti pensati a misura di uomo. Anche per ciò che riguarda l’accesso all’istruzione e al lavoro, un altro tema al centro del nostro dibattito insieme alla questione dei minori in carcere. Ad animare l’evento, dalle ore 11, il monologo teatrale “Sbarre di solitudine. Vite spezzate in una prigione di ombre” a cura della compagnia “Attori & Convenuti”. Torino. Domani il presidio contro l’emergenza suicidi nelle carceri lettera21.org, 12 giugno 2024 L’Ufficio Garante dei diritti delle persone private della libertà personale invita a una mobilitazione pubblica in relazione al drammatico e continuo succedersi di suicidi e morti in carcere. Ad oggi, sono 39 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un luogo di privazione della libertà e 54 coloro che sono decedute per altre cause. L’iniziativa, fa seguito al precedente incontro promosso dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale nella giornata del 18 aprile e al Convegno dal titolo “I suicidi in carcere: una piaga da sconfiggere”, organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, tenutosi in data 23 maggio. Hanno aderito alla proposta di incontro le seguenti realtà del territorio che condividono con l’Ufficio Garante la forte preoccupazione in ordine al tema posto e alle insufficienti risposte delle autorità competenti: Camera Penale del Piemonte Occidentale e Valle D’Aosta “Vittorio Chiusano”, Associazione Antigone Onlus, ASGI Torino, Movimento Forense di Torino, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Giuristi democratici, Magistratura Democratica, Nessuno Tocchi Caino, Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, Crivop Italia Odv, Eta Beta Scs, Brothers Keeper Ministry, Comitato Mamme in Piazza, La Voce e il Tempo, Ristretti Orizzonti, Fratture Newsletter, Unione Culturale Franco Antonicelli, Associazione Santa Croce Odv, Associazione Terza Settimana Onlus, Fondo Alberto e Angelica Musy, Associazione Volere la Luna, Associazione Sbarre di Zucchero, Sermig - Arsenale della Pace, Associazione Nazionale Museo del Cinema. Nel corso della manifestazione che si terrà giovedì 13 giugno a partire dalle ore 17:00 presso i locali dell’Associazione Culturale Comala in Corso Ferrucci 65/a, verranno ricordate le persone detenute morte per suicidio, malattia ed altre cause ancora da accertare e gli agenti di polizia penitenziaria che quest’anno si sono tolti la vita. Saranno analizzate le cause del fenomeno e proposte misure di intervento volte a contrastarlo. Su questa base si aprirà un dibattito per raccogliere riflessioni e ulteriori indicazioni da offrire all’attenzione dei decisori politici e delle Istituzioni penitenziarie. Macerata. Due storie di detenzione e di rinascita in dialogo marchespettacolo.com, 12 giugno 2024 Lunedì 17 giugno alle ore 18.30 nel Cortile del Palazzo Comunale di Macerata, si terrà il progetto “La casa in riva al mare”, nato su impulso del Garante regionale dei diritti della persona Giancarlo Giulianelli che ha offerto a un gruppo di detenuti dell’istituto penitenziario di Ancona, l’opportunità di partecipare a laboratori musicali. Settimanalmente, la direzione artistica di Musicultura ha incontrato alcuni dei detenuti dell’istituto per creare, attraverso l’aiuto delle canzoni, un conforto aperto, uno spazio dove trasformare il tempo perso in opportunità e partecipazione, momenti importanti sul versante della rieducazione dei detenuti. La collaborazione con il Garante regionale ha permesso la nascita del Premio La Casa in riva al mare, dal valore di 2mila euro, che sarà conferito a uno degli otto artisti finalisti della XXXV edizione del festival nell’ambito delle serate finali del Festival. Il progetto si concluderà a luglio, quando l’artista vincitore della targa andrà a fare visita e conoscere, presso la Casa di reclusione di Barcaglione, i detenuti che lo avranno scelto e sarà protagonista di un happening musicale live. Milano. Alessio e Gloria: le loro vite tra carcere e lavoro esterno mentre scontano la pena di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 12 giugno 2024 La storia di due detenuti che stanno rialzando la testa grazie all’associazione “Seconda chance”. L’obiettivo è creare in ogni regione una rete di referenti che collaborano con le amministrazioni penitenziarie. Nel magistrale film “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore, il protagonista Virgil Oldman, solitario battitore d’aste tanto maniacale nel collezionare quadri di donna quanto terrorizzato dalla possibilità di affrontare le mutanti relazioni della vita vera, s’innamora di una misteriosa ragazza affetta da agorafobia. Ma alla fine del film, in un continuo cambio di prospettiva, niente è come avevamo pensato. “Non è facile accettare di avere sbagliato e mantenere comunque il coraggio di intrecciare rapporti con le altre persone” riflette Alessio, un cacciatore di teste di “Hunters group”: seleziona profili da presentare alle aziende e fa del rapporto con i candidati il fulcro del proprio lavoro. Ogni giorno torna a dormire a Bollate. Vive in carcere da quando, tanto tempo fa, si è macchiato di un reato molto grave. In tutti questi anni non si è mai tirato indietro rispetto alle proprie responsabilità e sta finendo di scontare la sua pena ma allo stesso tempo ha rialzato la testa: “Credo che l’Alessio di oggi non debba rinnegare quello di ieri per potere esistere”, cerca di spiegare. Quella professione lo aiuta: “Non l’ho scelta a caso. Dopo tanti anni in cella avevo bisogno di trovare qualcuno che credesse in me e mi assumesse, ma per riuscire a raccontarmi con fiducia ho dovuto cambiare prospettiva, guadagnare pian piano l’autostima. Gli altri ti vedono come ti vedi tu, è questo che cerco di trasmettere ai candidati che incontro”. E ancora: “Chi mi conosceva prima e mi incrocia nel paesino dove sono cresciuto, dice che ho cambiato sguardo. Sono sempre io ma allo stesso tempo non replicherei mai le azioni che ho commesso allora”. Come nel film, dove tutto quello che lo spettatore credeva di avere capito si ribalta in un finale completamente diverso da quello atteso, la storia di quest’uomo spiazza. “Il momento cruciale è quando riesci a chiedere a qualcuno di guardarti negli occhi e di provare a conoscerti per quello che sei ora invece che per quello che sei stato prima”, conferma Gloria. La sua vita è cominciata dall’altra parte del globo, in Perù. Cinque figli e tanti anni in carcere anche lei ma oggi, con l’”Articolo 21” che consente il lavoro esterno per motivi di merito, fa i turni nel laboratorio di pasticceria gelato di “Gusto 17”, al Tortona district. Il contratto di un anno le sembra lunghissimo: “Nel momento in cui ho iniziato a vedere il mio valore, hanno subito cominciato a vederlo gli altri. Oggi il mio più grande orgoglio è dire alla gente che di me si può fidare”. Per l’azienda è l’occasione di mostrarsi responsabile, sottolinea il deus ex machina di tutto, Flavia Filippi, che con la sua associazione “Seconda chance” ha trovato più di trecento offerte di lavoro per persone che stanno scontando la condanna; Filippi sta creando in ogni regione una rete di referenti che collaborano con le amministrazioni penitenziarie. Tre persone lavorano in Vaticano come elettricisti e banchisti e altri cinque sono in arrivo, alcuni sono da “Nespresso” e ancora da “Mc Donald’s” mentre Bosch ha finanziato corsi di formazione per meccanici di bici ed “Entain group” ha donato quasi cento computer. Difficile? Lei tira dritto: “L’importante è che questa domanda incontri la migliore offerta”. Pozzuoli (Na). Chiuse per terremoto Le Lazzarelle, che producevano caffè nel carcere femminile di Antonella Patete redattoresociale.it, 12 giugno 2024 Dopo oltre 10 anni sospese le produzioni e le detenute trasferite in altri istituti della Campania. “Siamo intenzionate a continuare nella nostra impresa, anche se non sappiamo ancora come”. Da oggi è ufficiale che il carcere di Pozzuoli chiude per i danni riportati nel terremoto del 20 maggio scorso. E così, “con una grande tristezza nel cuore”, dopo l’evacuazione di emergenza, le detenute della cooperativa sociale Le Lazzarelle, che produce caffè secondo l’antica ricetta napoletana, sono state costrette a sospendere la produzione per mancanza di agibilità. “Le donne che lavorano con noi, come tutte le altre detenute, sono state trasferite in altri istituti della Campania - fanno sapere dalla cooperativa -. Stanno bene, sebbene la paura e lo spavento siano stati grandi”. Forte ora è il disorientamento: “Noi siamo smarrite e provate, un progetto di oltre 10 anni è stato spazzato via nel giro di un giorno - scrivono le responsabili dell’impresa sociale in una nota -. Siamo intenzionate però a continuare nella nostra impresa, anche se non sappiamo ora dire come ci organizzeremo per il futuro. Sappiamo, di certo, che siamo costrette a sospendere la produzione e ci scusiamo con i nostri clienti. Vi informeremo singolarmente per gli ordini pregressi che siamo in grado di soddisfare e per quelli che invece non siamo in grado di accontentare. Abbiamo avuto tante testimonianze di affetto in queste ore, ne abbiamo bisogno. Confidiamo nel supporto e nel sostegno di tutte/i, vi aggiorneremo il prima possibile su come intendiamo proseguire”. Tra tante notizie brutte, ce n’è almeno una buona. Il Bistrot nel centro di Napoli continua a funzionare regolarmente e sarà la base operativa della coop nelle prossime settimane. “Se venite a trovarci ne siamo felici”, conclude la nota. Milano. “Il carcere infantilizza, il teatro in carcere restituisce umanità” di Patrizia Pertuso metronews.it, 12 giugno 2024 Christian ha 48 anni, 26 dei quali passati in diverse carceri italiane. Ora usufruisce dell’articolo 21 della Legge sull’ordinamento penitenziario che prevede la possibilità di lavorare all’esterno durante il giorno, seguendo regole ben precise, e di tornare la sera nell’istituto di reclusione dove si sconta la pena. Ha cominciato a fare teatro in carcere nel 2010, a Bollate, con la compagnia Estia fondata e diretta da Michelina Capato. “Ho iniziato a fare teatro fin da bambino - racconta -. Alle elementari avevo una maestra che è stata la mia prima Michelina, un’amante del teatro, ci faceva mettere in scena degli spettacoli. A 14 anni, dopo le medie, ho preso la mia strada e quella è diventata la mia storia. Tornare a fare teatro con Michelina in carcere mi ha dato la possibilità di riprendere quel sogno nel cassetto e di farlo diventare reale”. “Sono rimasto in quella compagnia - prosegue Christian - fino a gennaio 2018 quando purtroppo Miki, per sue vicissitudini personali, è andata via. Il suo impegno andava oltre il teatro: cercava di offrirci la possibilità di un lavoro perché per persone come noi, che spesso arrivano da contesti un po’ periferici e hanno conosciuto il “guadagno facile”, è difficile tornare alla vita “esterna” restando nelle regole. Si fa molta fatica mentalmente. Quello che manca principalmente sono le relazioni: uno ci può mettere tutta la volontà che vuole, può aver capito i propri sbagli, ma poi una volta che entra in difficoltà o va sotto pressione è come se si trovasse di fronte a una porta che ha già sfondato. L’ha chiusa, ma la chiave la conosce. Onde evitare di riprendere quella strada si ha bisogno di un sostentamento nelle relazioni perché senza si torna nel proprio circuito”. Lei ora è nel carcere di Bollate, definito un “carcere modello” per il bassissimo tasso di recidiva... “La media nazionale è intorno al 70%, a Bollate scende al 18%”. Secondo lei come mai? “Io, oltre a Bollate, ho avuto “la fortuna” di girare la catena alberghiera delle carceri italiane, ho avuto il “piacere” di visitare una ventina di istituti e quasi potrei scrivere una guida Michelin. Le posso dire che i punti di forza di Bollate sono stati il Provveditore, la Direttrice, il Comandante e il Responsabile della rieducativa oltre alla stessa Michelina per l’area artistica. Queste persone illuminate hanno compreso la potenzialità della distensione puntando sul lavoro, sulla cultura, sull’istruzione. Se si guarda l’ordinamento penitenziario sembrerebbe di aver scoperto l’acqua calda, ma, in realtà, dalla teoria alla pratica il passo è molto lungo”. Cosa intende precisamente con distensione? “La distensione è quella che istituzionalmente si chiama “responsabilizzazione del detenuto”. Io che parlo come mangio la vedo come un coinvolgimento attivo del recluso. Bollate viene definito un “carcere modello”. Scherzosamente aggiungerei che il modello adesso ha vent’anni e forse dovrebbe essere già stato esteso, ma non è così. Quella del coinvolgimento attivo del detenuto è stata la vera rivoluzione del sistema carcerario di Bollate con una sorveglianza cosiddetta dinamica, che consente cioè al detenuto di condividere gli spazi e di avere un contatto con il mondo esterno grazie alle attività laboratoriali e ai volontari perché ogni istituto è chiuso in sé. Si fa fatica ad avere rapporti con il territorio circostante che dovrebbe essere partecipe nell’opera di rieducazione, reinserimento, avvicinamento e accettazione. Nella maggior parte degli istituti purtroppo non è così tant’è vero che quelli nuovi ora li spostano in periferia per non avere fisicamente la loro presenza all’interno della città. Bollate ha una grande forza nella città di Milano che ha accolto la struttura carceraria nell’area metropolitana e ha dato anche all’esterno la possibilità di offrire questa risorsa. Perché il carcere può essere una opportunità e una risorsa come può essere una discarica. Dipende da come si usa”. I termini “rieducazione” e “responsabilizzazione” sono molto forti: fanno pensare ai reclusi come bambini piccolissimi e irresponsabili… “Nel sistema penitenziario esiste una cultura di infantilizzazione: c’è la domandina da compilare per qualsiasi cosa, c’è lo scopino che è l’addetto alle pulizie, c’è il cellino che è la cella singola peraltro molto ambita. L’atteggiamento infantilizzante si esplica anche nell’uso di questi termini”. Si tratta di infantilizzazione o sottomissione? Il detenuto-bambino è piccolo, inferiore rispetto a chi ha di fronte… “Qualcuno cerca di renderti piccolo. È un po’ come sottolineare sempre: “visto che fuori facevi il grande, adesso ti faccio diventare piccolo”. Credo che pensare di avere a che fare con presunti bambini faccia fare meno fatica piuttosto che pensare di avere a che fare con degli uomini”. Lei, da detenuto, si è sentito infantilizzato o sottomesso? “Personalmente non mi sono mai sentito infantilizzato forse perché ho sempre fatto il bambino ribelle e quindi si finiva sempre con un testa a testa. Però è proprio grazie a quegli strumenti di cui parlavo prima - la conoscenza, l’apertura della mente, il sapere, il teatro - che si può capire tutto questo. La mia prima carcerazione risale al 1994, ho trascorso 26 anni di carcere in diverse strutture. La mia vita l’ho passata dentro e ho i mezzi per fare una buona analisi che mi porti a comprendere determinate cose. L’infantilizzazione non riguarda solo il detenuto, ma anche il corpo di polizia penitenziario: anche gli agenti entrano nel merito di un’osservazione”. Anche alcuni di loro sono anche “reclusi” vivendo all’interno del carcere... “Assolutamente sì. Anche gli agenti penitenziari fanno la loro galera. La distensione in un istituto giova a tutti e, soprattutto, dà concretezza e strumenti alle persone che non ne avevano fuori perché possano conoscere se stessi, imparare dei mestieri, relazionarsi”. Torniamo al teatro. Dopo il ritiro di Michelina Capato lei ha fatto di tutto perché l’attività teatrale proseguisse… “Michelina si è ritirata nel 2018. Noi dovevamo andare al Piccolo Teatro con uno spettacolo che avevamo scritto durante l’estate perché le attività laboratoriali finivano a giugno. Siamo ripartiti da quello. Eravamo gli orfani di Michelina: lei non c’era più, ma avevamo preso questo impegno. Ed era come se con questo spettacolo, “Ci avete rotto il caos”, potessimo mostrare quello che ci aveva dato. Abbiamo fatto tutto noi: luci, regia, drammaturgia. Non potevamo disperdere l’eredità di Miki. Dovevamo mantenere vivo tutto e non potevamo buttare via ciò che avevamo creato in quel piccolo spazio di libertà. Quel teatro per noi era diventato un simbolo”. Così, gli orfani di Michelina sono diventati I figli di Estia... “Esattamente. Estia è la dea del focolare. Noi siamo I Figli di Estia, la compagnia teatrale che fa parte dell’associazione PrisonArt”. Il teatro si basa sull’uso del corpo: ascoltate alcune musiche e poi improvvisate movimenti che vengono montati poi in piccole coreografie... “Facevamo e facciamo teatro danza e il linguaggio del corpo ne era la base. La prima cosa che si presenta ad uno spettatore è il corpo. E la musica, che di per sé ti muove emotivamente, è un tappeto importante”. In una situazione di costrizione come quella della reclusione quanto è importante poter muovere liberamente il corpo sulle note di una musica? “La nostra particolarità è quella di essere persone ristrette. Il teatro ti muove e ti smuove, ti permette di esprimerti liberamente attraverso il corpo. Essendo tutto ristretto assume una connotazione ancora più potente. Per questo abbiamo quasi occupato lo spazio del teatro perché restasse nostro. È uno spazio di libertà senza condizionamenti. Quando sono lì, sono a teatro, non sono in carcere. Lì si evitano le discussioni perché ti senti tranquillo, libero, disteso. Vivi una connessione con gli altri completamente diversa”. Immagino che con voi in compagnia ci siano anche stranieri che non parlano bene l’italiano. Riuscite a comunicare attraverso il movimento? “Assolutamente sì. Quando si dice “stare in ascolto” lo si fa anche se ci si guarda negli occhi senza dire una parola. Per dire a qualcuno che gli voglio bene e che gli sono vicino, l’abbraccio e quell’abbraccio lì lo si sente. Si figuri cosa vuole dire condividere una cosa così forte in piena libertà di movimento, su una base musicale emotiva, all’interno di uno spazio in cui vige la sospensione del giudizio e dei convenevoli formali che esistono ovunque. Quello che si pensa è che facendo teatro ed essendo un attore si finga, si sia falsi. L’attore, invece, è proprio quello che non è falso perché in teatro è sempre buona la prima. Io in quel teatro non ho mai avuto bisogno di essere falso: fingo di essere in un posto che non è quello, fingo una situazione che non è la mia per illustrarla, ma questa non è falsità. Sono vero nella mia finzione”. Le è mai capitato di fingersi qualcun altro dentro o fuori dal carcere? “Francamente no. Non mi sono mai vergognato e non mi sono mai sentito falso nella mia vita quotidiana fuori dal carcere. Sono una persona abbastanza diretta e schietta e la falsità non è una mia attitudine. È ovvio che ogni tanto mi freno per quieto vivere o per educazione. Sono ateo, ma se c’è un prete non bestemmio per rispetto. A teatro può succedere. In quel teatro si è autentici. Lì spariscono tutte le sovrastrutture. Nel momento in cui noi detenuti riusciamo a capire che ci siamo giocati la vita con un lancio di dati grazie ad un arricchimento culturalmente, allora riusciamo anche a comprendere perché abbiamo sbagliato. Vede, io dico sempre che i reati non hanno il prezzo esposto. Non possiamo fare i moralizzatori di nessuno perché non è il caso. Però grazie al teatro in carcere si riescono a capire tante cose di noi e della nostra vita. Il teatro è uno strumento che ciascuno può usare come meglio crede”. Napoli. I detenuti-attori del penitenziario di Arienzo recitano Macbeth di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 12 giugno 2024 Lo spettacolo in scena al San Ferdinando è frutto di un laboratorio di teatro al penitenziario di Arienzo. Sul palco pure il magistrato di sorveglianza. Macbeth, pluriomicida assetato di potere, allucinato dalle profezie delle streghe e preda dei fantasmi, un uomo succube della moglie sanguinaria ed almeno in apparenza senza possibilità di redenzione, diventa invece opportunità di riscatto per i detenuti del penitenziario di Arienzo, nel Casertano. Detenuti che calcheranno questa sera dalle 20.30 il palcoscenico del Teatro San Ferdinando di Napoli insieme con il magistrato di sorveglianza Marco Puglia e con attori professionisti per la rappresentazione dello spettacolo “Macbeth - Cuore nero”, che si ispira alla celeberrima tragedia di Shakespeare ambientata nella Scozia del Medioevo. Lo spettacolo è la conclusione del percorso laboratoriale dedicato ai mestieri del teatro per il progetto “Officina dei Teatranti”, sostenuto dalla Regione Campania e ideato dall’associazione Polluce in collaborazione con Associazione Più A.R.I., Associazione Perzechella e Vico Pazzariello, Cif (Centro Italiano Femminile) di Avellino e Fondazione Opus Solidarietatis Pax onlus. Il regista della pièce si chiama Gaetano Battista ed è il presidente della associazione Polluce. “Macbeth-Cuore nero”, racconta, “è un percorso emotivo, un flusso di narrazione dove la tragedia di Shakespeare fa da collante con il suo linguaggio, con la sua chiarezza di intenti, con una messa in scena che non dà nulla per scontato”. Il progetto “Officina dei Teatranti” ha coinvolto, a vario titolo, tre istituti penitenziari campani. Quello di Arienzo, quello di Sant’Angelo dei Lombardi (provincia di Avellino), dove i detenuti hanno realizzato i costumi per “Macbeth - Cuore nero”, e il gruppo del carcere femminile di Pozzuoli, che è stato impegnato per diversi mesi in un laboratorio stabile all’interno del carcere con formatori professionisti. Le detenute hanno seguito corsi di recitazione, messa in scena, scrittura e drammaturgia, improvvisazione, canto popolare, lavoro sul corpo, drammaturgia corporea ed emotiva, ispirati al concetto d’amore nelle sue mille forme, partendo dai testi di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo seguace dello Stoicismo passando per le poesie di autori giapponesi e fino ad arrivare a testi proposti dalle stesse recluse. A margine dello spettacolo di stasera si terrà la mostra fotografica/installazione artistica “In luce, tra maschere e realtà” a cura di Paola Bruno: sedici ritratti ai quali sono stati sovrapposti altrettanti scatti che raccontano i ruoli di scena ed il dietro le quinte. Il backstage di “Macbeth Cuore nero” è diventato inoltre spunto per il documentario, a cura di Paola Beatrice Ortolani, prodotto dalla Sevenhalf Lab, che getta uno sguardo sulla vita quotidiana del carcere di Arienzo. Una comunità di persone con storie e percorsi diversi, seguite dalla telecamera anche durante le fasi delle prove dello spettacolo. Napoli. Teatro-carcere, Macbeth libera i detenuti di Donatella Stasio La Stampa, 12 giugno 2024 Quanto è nero il cuore del potere? Quanta rabbia c’è nel cuore del potere incapace di accettare il potere altrui? Quanta frustrazione, dolore e paura ci sono in quel cuore di tenebra ossessionato dal desiderio di riscattare la propria immagine underdog? E quanto è buio il cuore del potere che non teme le conseguenze delle proprie azioni perché “nessuno, a noi potenti, può chiamarci a dare conto?”. Non stiamo parlando del cuore nero delle destre che avanzano in Europa, anche se le assonanze sono forti. Stiamo parlando del cuore nero di Macbeth, l’innominabile della tragedia di Shakespeare, regicida mai sazio di potere, che insieme alla moglie alza più volte il coltello per uccidere i suoi possibili rivali al trono di Scozia. “Non vorrei averlo in petto, un cuore così, che fa indegno tutto il resto” dice Pasquale, detenuto nel carcere di Arienzo, giunti al quinto atto di questa tragedia, metafora del potere bulimico, intollerante ai limiti al proprio agire, tracotante e distruttivo perché incapace di guardare dentro a quel suo cuore nero. Una storia contemporanea, sebbene concepita nel 1600. Oggi va in scena al teatro San Ferdinando di Napoli, già sold out, e poi in tourné. Insieme a Pasquale, sul palco saliranno altri 7 detenuti del carcere di Arienzo, un bambino e 3 attori professionisti, tra i quali il giudice di sorveglianza Marco Puglia, nei panni di Macbeth. Siamo nei sotterranei di uno degli Uffici giudiziari di Santa Maria Capua Vetere, da mesi trasformati in una quinta teatrale per le prove di “Macbeth, cuore nero”. Mancano due giorni alla prima. I detenuti/attori sono in permesso e arrivano con un pulmino, puntuali, tutti vestiti di nero. Ho il privilegio di essere l’unica spettatrice di questa pre-prova generale, il loro primo pubblico dopo cinque mesi di lavoro serrato, all’inizio in una chiesa sconsacrata e poi qui, in questo sottoscala che sa di umido ma che con la canicola estiva è quasi un piacere. C’è grande fibrillazione. Ci presentiamo, poi ognuno al proprio posto. Il sipario si alza e per un’ora e mezza il tempo si ferma. I superstiziosi lo chiamano il “dramma scozzese” perché sostengono che pronunciare Macbeth porti sfortuna. Qui, però, nessuno sembra preoccuparsene. Non i cancellieri che faranno da comparse alla prima, insieme a qualche poliziotto penitenziario, né tanto meno il Gruppo di Teatro Polluce, da anni impegnato nelle carceri della Campania con progetti teatrali né, infine, i detenuti, 7 napoletani dai 23 ai 53 anni e un nigeriano, Marvallus, di 23, tutti alla prima esperienza di teatro. Portare in scena Macbeth è stato un progetto ambizioso e impegnativo, a cominciare dalla comprensione del testo, perché il regista Gaetano Battista voleva che i protagonisti entrassero “dentro” quel cuore nero, portato alla luce fin dal titolo, per cercare di capire l’origine della smania di potere e della furia distruttrice. E lì dentro hanno guardato i detenuti di Arienzo nel lungo lavoro preparatorio che ha preceduto le prove. Hanno allenato lo sguardo, e non solo, e sono stati capaci di rivivere i sentimenti - paura, rabbia, dolore, frustrazione - che li hanno portati, come Macbeth, a brandire il coltello sulle loro vittime. Un percorso catartico che hanno fatto insieme al “loro” giudice di sorveglianza Marco Puglia, figura di riferimento fondamentale per i reclusi della Terra dei fuochi. È lui Macbeth, intenso e drammatico, mentre un detenuto, Luigi, è Lady Macbeth, leggiadra e regale, perfida e poi divorata dal senso di colpa, fino a suicidarsi, ma fin dall’inizio la più determinata dei due. “La tua tempra impavida dovrebbe farti partorire solo maschi”, le sussurra Macbeth all’orecchio, cingendola da dietro e appoggiandole le mani sui seni, mentre lei/lui si lascia andare a spasmi di piacere. Non ci sono tabù, pregiudizi o pudori in questi uomini reclusi prestati alla libertà. L’arte e la vita si intrecciano e non sai più dove finisce l’una e cominci l’altra. Sono sulla scena anche per farti vedere il mondo non visto. Prima di cominciare quest’avventura, parlavano solo dialetto stretto, Marvellous parlava nigeriano e spiccioli di italiano; adesso eccoli padroni di una lingua raffinata, giocolieri delle parole, maestri delle pause, signori dei toni e delle sfumature vocali. “Hai sentito come cambio voce, alla fine, per fare il cattivo?”, mi chiede Franco, sicuro del proprio talento e orgoglioso di mostrarlo. Si muovono con leggerezza, precisione, e con assoluta simmetria quando montano e smontano le essenziali e straordinarie scenografie di Carmine Di Giulio o quando battono il tempo delle musiche di Aniello De Sena. In teatro indosseranno gli abiti di scena, realizzati con materiali di riciclo e cuciti da un detenuto congolese, Mushi Jeannot Mulango, che fa il sarto. Per un’ora e mezzo mostreranno quel che il loro cuore nero gli aveva rubato. E potranno tornare alla vita, sapendo che non è come la racconta Macbeth “un’ombra che cammina, un povero attorello susseguioso che si dimena sopra un palcoscenico per il tempo assegnato alla sua parte e poi di lui nessuno udrà più nulla”. No, la loro vita non sarà così, perché loro hanno avuto il coraggio di guardare dentro il cuore nero. Una grande lezione, per tutti. Applausi a scena aperta. Ferrara. Ogni prigione è un’isola: “Libertà e giustizia, ne abbiamo bisogno” di Francesco Franchella Il Resto del Carlino, 12 giugno 2024 Il volume di Daria Bignardi verrà presentato domani al Libraccio “Via Piangipane, mi facevo domande su chi fosse chiuso lì dentro”. L’intelligenza di chi sa scrivere tenendo testa ai contenuti, rendendoli chiari e tangibili, riproponendo temi - e testi - ormai antichi in formule attuali. Che questione complessa, quella del carcere, da sempre affrontato nei testi di scrittori, poeti, intellettuali. Dallo Stilnovo alla Seconda Guerra Mondiale. Dalla prigionia d’amore a Gramsci, fino al poeta greco Ghiannis Ritsos, in ‘Pietre Ripetizioni Sbarre’ (1970): “E se maldestri / dovessero sembrarvi un giorno i nostri versi, / ricordate solo che furono scritti / sotto il naso delle guardie, / la baionetta puntata sempre alle costole”. In modo diverso, alle costole di Daria Bignardi, giornalista ferrarese, c’era un libro che, prima di vederlo edito da Mondadori, era tanto un desiderio, quanto un’esigenza. Un libro sul carcere, sulla sua percezione del carcere. E non solo. Si intitola ‘Ogni prigione è un’isola’ e verrà presentato domani, 13 giugno, al Libraccio di Ferrara, alle 18. Daria Bignardi, Ogni prigione è un’isola. Il titolo è un richiamo a John Donne: Nessun uomo è un’isola? “Proprio così. E anche alla frase che mi dice a un certo punto del libro un agente di polizia penitenziaria”. Il libro l’ha scritto a Linosa. Perché proprio lì? Cosa ci ha trovato a Linosa? “Linosa è la mia ultima cotta in fatto di isole. La prima fu Hvar quando avevo 13 anni, ci andai coi miei genitori e capii che sulle isole trovavo qualcosa che a Ferrara mi sfuggiva. Le nostre prospettive infinite, i filari di pioppi, gli argini, sono struggenti. In un’isola ci si illude di essere protetti”. “Tutti noi passiamo la vita a liberarci da qualcosa che ci imprigiona: paure, ideologie, legami tossici. Tutti noi abbiamo bisogno di libertà e di giustizia”. Ha scritto che cerca di scrivere questo libro da parecchio tempo. Da quanto? “Da sempre forse. Da quando passavo da via Piangipane a Ferrara e mi facevo domande su chi fosse chiuso lì dentro. Il nostro maestro delle elementari Eros Benetti ci aveva raccontato che in quel carcere era stato rinchiuso anche Giorgio Bassani e io mi domandavo cosa c’entrasse uno scrittore con i cattivi, che a quell’epoca immaginavo fossero gli unici ospiti possibili di un carcere”. A Fanpage.it ha detto che il carcere è sessista. Spieghiamolo anche ai lettori del Carlino.. “Per le donne il carcere è ancora più doloroso che per gli uomini, che spesso hanno fuori una donna, madre, sorella, fidanzata, amica, che si prende cura di loro, li pensa, scrive loro, manda loro i pacchi, va a trovarli. Mentre le donne in carcere spesso sono abbandonate dalla famiglia. La sofferenza per la separazione dai figli poi per le donne è devastante”. Nel libro cita anche Ferrara e l’Arginone. La situazione di sovraffollamento dell’Arginone è stata denunciata da numerosi sindacati. Come si può risolvere? “Ci vorrebbe la volontà politica di farlo, e le risorse, ma il carcere non importa a nessuno perché non porta voti”. Quanto conta la cura del proprio carcere per una comunità? “Le carceri, come gli ospedali e le scuole, sono per tutti, e di tutti”. Bologna. Bergonzoni, spettacolo alla Dozza tra gli applausi. “Porteremo un pianoforte in carcere” di Paola Naldi La Repubblica, 12 giugno 2024 L’attore ha recitato davanti ai detenuti grazie al programma curato dalle compagnie del Pratello e dell’Argine. Alle standing ovation Alessandro Bergonzoni ci è abituato, raccolte nei tanti teatri italiani nella sua lunga e fortunata carriera. Ma l’ultima, arrivata ieri sera per lo spettacolo inedito “La pena non sia mai carcerogena!”, è stata diversa. Ad applaudirlo in maniera particolarmente calorosa è stato un pubblico composto dai detenuti della Dozza e da persone arrivate in carcere solo per assistere alla pièce, parte del programma “E state alla Dozza! Quattro giorni di teatro e musica” curato dalle compagnie del Pratello e dell’Argine. È il secondo anno che la manifestazione si svolge nel piccolo cortile di via del Gomito, ma ieri l’entusiasmo e le emozioni sono stati fortissimi. L’artista bolognese si è prodigato in un divertente monologo che con i consueti giochi di parole e scarti di significato ha fatto ridere ma anche riflettere sui temi della quotidianità: la vita, la morte, la giustizia, i rapporti con gli altri, i deboli, la guerra. E man mano che le parole si srotolavano dal palco il pubblico si lasciava andare, ridendo, applaudendo, partecipando calorosamente. Fino a quando Bergonzoni è arrivato alla conclusione tutta dedicata ai detenuti. “A voi dico grazie per la pazienza che avete ma dico anche scusa perché fino ad oggi noi non siamo riusciti a scalfire l’interesse della politica per il tema carcerario che viene affrontato solo quando ci sono dei problemi - sottolinea l’attore - Questa manifestazione è bellissima, perché la Dozza è parte della città, Bologna la Dozza è una delle caratteristiche di questa città. Ma non deve essere una concessione data dallo Stato. Questi momenti sono un diritto. Un diritto allo spazio, alla luce”. Dichiarazioni semplici che hanno scosso tutto il pubblico, in piedi ad applaudire. E da oltre il muro sono arrivate le voci dei detenuti che non hanno potuto partecipare all’evento, riservato a circa 150 persone, donne e uomini. Troppo entusiasmo che il personale di guardia al carcere ha smorzato educatamente, invitando tutti a tornare a sedere. “È la prima volta che mi tocca mettere a sedere una standing ovation - scherza Bergonzoni - Ma non smettete di applaudire perché questo è un suono che deve rimanere nella vostra mente a lungo. Quando pensiamo alla realtà carceraria pensiamo a un ammasso di persone indistinte, invece ognuno di voi è diverso come i coriandoli di una festa. Noi torniamo a casa ma lancio una proposta alla direttrice della Dozza, Rosa Alba Casella: compriamo un pianoforte da lasciare qui. Io trovo gli sponsor per comprarlo, perché forse tra queste persone c’è qualcuno che ha orecchio per la musica e potrà trovare un altro tempo”. Per circa un’ora si sono abbattuti i muri tra il dentro e il fuori, tra la città e la Dozza, in un rito che ha emozionato il pubblico. Un rito che si è concluso con un abbraccio, metaforico e reale, tra Alessandro Bergonzoni e chi è tornato nella propria cella. Questa volta, almeno, con il sorriso sulle labbra. Fine vita. Sostegni vitali e aiuto al suicidio, l’assurda disparità di Grazia Zuffa Il Manifesto, 12 giugno 2024 Tra pochi giorni la Corte Costituzionale si pronuncerà circa l’aiuto medico al suicidio e i suoi ambiti di legittimità. Per ricapitolare: la stessa Corte nel 2019, con sentenza 242, pur mantenendo valido il divieto di “aiuto al suicidio” (art. 580), aveva indicato un’area di “non punibilità” per chi presta aiuto, a condizione che il malato rientrasse in determinati criteri: l’essere affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che il malato stesso reputa intollerabili; ma anche “l’essere tenuto in vita da Trattamenti di Sostegno Vitali-Tsv”. La sentenza 242 riguardava il caso del Dj Fabo, che si trovava in situazione di dipendenza da ventilazione artificiale: sulla base di ciò, Marco Cappato non fu incriminato per l’assistenza in una clinica svizzera. Dal 2019 in avanti, di fronte alle concrete richieste di pazienti di essere aiutati a togliersi la vita, sono emerse difficoltà circa il ruolo, il significato, i possibili modi di intendere i “trattamenti di sostegno vitale” (Tsv). In mancanza di una legge per inadempienza del parlamento, i giudici si sono trovati di fronte a malati di pari gravità per condizioni di salute (malattia irreversibile), come pure di condizione soggettiva (sofferenze fisiche/psicologiche giudicate insopportabili): i quali però, sulla base di caratteristiche particolari delle loro patologie, non sono tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitali. Per cogliere appieno la drammaticità umana e al tempo stesso la delicatezza giuridica della questione, basti ripercorrere la vicenda di Massimiliano, il caso da cui è partita l’ordinanza del gip di Firenze, Agnese Di Girolamo, per il giudizio di illegittimità costituzionale. Il malato è affetto da sclerosi multipla, con progressiva invalidità fino ad arrivare a una pressoché totale immobilità degli arti superiori oltre che inferiori. Da qui la sofferenza descritta come il sentirsi ingabbiato con la mente sana in un corpo che non funziona e la richiesta di essere assistito nel suicidio. Massimiliano però non è tenuto in vita da Tsv. Ecco allora la questione sollevata dalla giudice: a parità di altre condizioni (irreversibilità della malattia, intollerabilità delle sofferenze), la liceità dell’aiuto al suicidio finisce per dipendere dal fatto che la persona sia tenuta in vita da Tsv. Ma questo requisito, nella sua accidentalità, determina una irragionevole disparità fra pazienti in situazioni concrete sostanzialmente identiche. E la questione non può risolversi attraverso una diversa individuazione dei tipi di trattamento, poiché ciò non elimina la discriminazione alla base. La giudice chiede allora alla Corte che sia dichiarata illegittima la parte della sentenza 242 che subordina la non punibilità di chi agevola il suicidio alla circostanza che l’aiuto sia offerto a “persona tenuta in vita” da Tsv. Nel procedimento di fronte alla Corte, la Società della ragione ha redatto una memoria come Amicus Curiae, a sostegno della tesi della gip di Firenze. Dalla particolare ottica della Società, impegnata a difendere i diritti (specie di uomini e donne più fragili), l’appoggio alla tesi di incostituzionalità del requisito dei Tsv procede in primo luogo dalla volontà di valorizzare le soggettività, questione tanto più eticamente pregnante trattandosi di persone in stato di grande sofferenza: la richiesta di ripensare il perimetro dell’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio va in primo luogo inquadrata in relazione alla salvaguardia dell’area di autodeterminazione del paziente (e di dignità nel morire), nello spirito originario della sentenza 242: ampliare l’area di autodeterminazione del paziente oltre quella già sancita dalla legge 219/2017, ossia il diritto della persona ad accettare/rifiutare qualsiasi trattamento. Il fenomeno dei bambini-influencer in rete incomincia a preoccupare di Costanza Oliva Avvenire, 12 giugno 2024 Boom di minori che pubblicizzano prodotti sui social. Lo psicologo e psicoterapeuta, Matteo Lancini, presidente della fondazione Minotauro: “È un sintomo del sovrainvestimento sui piccoli”. Sono giovani, in molti casi ancora bambini, che pubblicano video in cui pubblicizzano prodotti. In cui mostrano il proprio abbigliamento firmato in pose che imitano quelle degli adulti o in cui insegnano come truccarsi e quali creme e maschere usare per il viso. Lo fanno attraverso un profilo personale o quello dei propri genitori. Diventano virali e popolari. Generano visualizzazioni e introiti: lavorano. È il fenomeno sempre più diffuso dei baby influencer. Secondo i dati raccolti da “Save The Children”, in Italia 336mila minorenni tra i 7 e i 15 anni hanno avuto esperienze di lavoro. Se i settori principali riguardano la ristorazione e la vendita al dettaglio nei negozi, non è trascurabile l’emergere di nuove forme di lavoro online. Riguarda il 5,7% dei giovani impiegati nella realizzazione di contenuti per social o videogiochi, e nella rivendita di prodotti (specialmente sneakers, smartphone, sigarette elettroniche). “Quel fenomeno - spiega lo psicologo e psicoterapeuta, Matteo Lancini, presidente della fondazione Minotauro - che una volta era legato a qualche bambino prodigio, che fosse un calciatore o un pianista, ora si è diffuso enormemente e ha fatto sì che sempre più bambini, per capacità adatte al tempo e un po’ spinti dai genitori, diventino famosi con le loro performance online, rendendo più ricchi mamma e papà e diventando modelli di riferimento per altri bambini”. Lancini, esperto del mondo giovanile, sottolinea come questo avvenga in una società “in cui c’è una precocizzazione dei comportamenti - basti pensare ai concorsi di bellezza per bambine - e una spettacolarizzazione dei figli. È un sintomo del sovrainvestimento sui bambini, ma è un fenomeno che fuoriesce dai social”. Incentivare un ragazzino a stare davanti alla telecamera e creare contenuti per Instagram o TikTok non è molto diverso, insomma, dall’obbligarlo a fare nuoto a tutti i costi. Accentando la provocazione, la domanda di fondo è chiara: “Questo sovrainvestimento avviene, come ora si dice spesso, perché i bambini sono troppo amati o, come sostengo, perché oggi dei giovani non ce ne frega niente e servono solo a farci sentire genitori adeguati e insegnanti che stanno facendo il proprio mestiere?”. Lancini ritiene sia troppo presto per valutare l’impatto psicologico che avrà sui minori. “Bisognerà vedere poi che evoluzione avranno nella loro storia. Per alcuni questo tipo di eventi potrà portarlo a costruirsi un’identità futura. Una questione è: “Come saranno aiutati a gestire la frustrazione legata al fallimento così precoce di un successo conquistato ancora più precocemente?”“. Secondo il presidente di Assoinfluencer, il primo sindacato di categoria, Jacopo Ierussi, non è un fenomeno nuovo. “Le baby starlet nel mondo dell’intrattenimento e dello spettacolo ci sono sempre state. Basti pensare a Macaulay Culkin del film “Mamma ho perso l’aereo”“. Riconosce però che sia un fenomeno complesso con le sue peculiarità. “Dobbiamo garantire che chi mette piede da minorenne in questi contesti venga tutelato. C’è un problema che non riguarda solo la commercializzazione d’immagine, ma anche l’esposizione mediatica di questi giovanissimi, che si lega anche a questioni relative alla privacy e alla futura evoluzione della persona che potrebbe porre un problema in più rispetto a chi in passato era il volto della Kinder”. Si apre anche un tema economico. “C’è un modo diverso per apostrofare questo tipo di situazioni, se non con “cattiva genitorialità”? Quale padre, quale madre si approfitta del proprio figlio? Il fatto che un genitore abbia fatto sì che quel ragazzo sfruttasse un’opportunità non l’autorizza a gestire impunemente quei guadagni che, in alcuni casi, arrivano a superare i 100mila euro l’anno. Per luglio saranno conclusi i lavori che stiamo facendo con il tavolo tecnico Agcom per quanto riguarda nuovi codici di condotta per la tutela dei minori e i baby influencer”. E anche in Parlamento arrivano da più parti politiche le prime proposte di legge per regolamentare il fenomeno dei baby influencer. Spiega l’avvocata Valentina Fiorenza, esperta in diritti digitali: “Al momento a livello normativo non c’è nulla di “nuovo”. Il minore in una situazione ordinaria non può lavorare. Tra le eccezioni c’è lo spettacolo, ed è ciò che più si avvicina al fenomeno dei baby influencer. In quel caso, però, il minore, ad esempio, non può andare in onda dopo una certa ora, con i social c’è una connessione quasi continua”. A livello normativo c’è anche la questione dell’età consentita per l’uso dei social. “In Italia il minore può prestare consenso all’uso delle piattaforme dai 14 anni”, spiega Fiorenza. “Prima la “responsabilità” è del genitore. Diverso è il caso in cui sia il genitore stesso a mostrare le immagini del figlio, per cui si parla di sharenting. Dovrebbe fare l’interesse preminente del minore: va bene una foto ogni tanto, ma è problematico condividere in maniera ossessiva queste immagini, anche perché può mettere i bambini in condizioni di pericolo”. Ucraina. La guerra impazza, la Ue pianifica il business di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 12 giugno 2024 Conferenza per la ricostruzione a Berlino. Scholz in prima fila, ma i vincitori delle europee in Germania voltano le spalle a Zelensky. Il ministro Tajani annuncia un’intesa da 140 milioni per Kiev (e per le aziende italiane). “Uniti nella difesa. Uniti nel recovery. Più forti insieme”. Lo slogan ufficiale della Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, per la prima volta ospitata in un paese dell’Ue, stride non poco con la nuova realtà post-elettorale che ha sfigurato il volto dell’Europa. A partire dalla Germania, maggior contribuente dello sforzo bellico-finanziario per Kiev e paese-chiave per aprire all’Ucraina le due porte di Bruxelles, come chiedono insistentemente la presidente della Commissione Ursula von Der Leyen e il segretario Nato Jens Stoltenberg. Il cancelliere Olaf Scholz è reduce dalla più cocente sconfitta elettorale nella storia della Spd mentre la ministra degli esteri Annalena Baerbock si presenta come la leader dei Verdi quasi dimezzati dal voto Ue. Ciò nonostante, dentro la mega sala del centro-congressi CityCube di Berlino l’imperativo per gli alleati è ottimismo e avanti tutta come e più di prima, almeno sotto il profilo della valanga di armi e denaro imprescindibili per mantenere a galla l’Ucraina. “Non ci sarà alcuna vittoria militare russa, nessuna pace dettata da Putin”, scandisce Scholz aprendo i lavori del summit con duemila invitati di 60 paesi. Ricostruzione? “La migliore è quella che non deve mai iniziare. Per questo dobbiamo sostenere Kiev nella difesa aerea”, aggiunge il leader Spd ricordando la priorità più incombente del business delle imprese occidentali. Musica, per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: ha perdonato i vecchi attriti con Scholz e ieri per la prima volta non video-collegato ha parlato ai deputati del Bundestag in sessione straordinaria. Doveva essere la celebrazione della riconciliazione tra Berlino e Kiev, il miglior segnale di unità contro Mosca; è stata guastata dal boicottaggio dei due veri vincitori delle Europee in Germania. Sahra Wagenknecht, leader dell’Alleanza sovranista nata da una costola della Linke, forte di 2.450.000 voti incassati domenica scorsa, abbandona platealmente il parlamento accusando Zelensky di voler allargare il conflitto. “Voltandogli le spalle mostriamo solidarietà agli ucraini che vogliono il cessate il fuoco e non finire come carne da cannone. Condanniamo la guerra della Russia però oggi Kiev sta spingendo per l’escalation e l’entrata della Nato in una guerra a rischio nucleare”. Per opposti motivi lasciano l’aula i parlamentari di Afd definito da Verdi come “partito del Cremlino” ma pur sempre la seconda forza politica in Germania e zoccolo duro nella nuova delegazione tedesca all’Europarlamento, la più numerosa nell’Ue. Risultato: al Bundestag davanti a Zelensky c’erano 83 scranni vuoti. “Ringrazio la Germania. L’Ucraina non sia divisa da un Muro. Alcuni credevano che quello di Berlino sarebbe durato per sempre come oggi pensano che Putin sia eterno. Chiuderemo la guerra ma alle nostre condizioni”, tira dritto Zelensky con la metafora su misura. La montagna di miliardi di euro pronto-impiego immaginati da Stoltenberg alla vigilia del summit sono stati cassati dalla maggioranza dei governi Nato, però ieri gli alleati hanno spalancato non poco il portafoglio. Per il governo Meloni a Berlino c’era il ministro degli esteri Antonio Tajani, pronto a firmare il memorandum d’intesa con Kiev del valore di 140 milioni di euro - di cui 45 per la ricostruzione di Odessa con la partecipazione delle imprese italiane che il ministro ha incontrato lunedì nell’ambasciata italiana - e soprattutto in procinto di inviare la batteria di missili Samp-T. “Questione di settimane. Ho parlato con Zelensky, mi ha ringraziato per il nostro consistente pacchetto militare-finanziario. Vertice positivo per noi. Abbiamo raccolto il testimone per la prossima conferenza sulla ricostruzione ucraina che si terrà in Italia nel 2025”. In realtà il summit che conta sarà soltanto il vertice di Washington dedicato al 75esimo anniversario Nato in programma dal 9 all’11 luglio: formalmente la conferenza di Berlino è stata solo l’”evento preparatorio” per preparare il terreno comune e dare il tempo a ciascuno di sistemare i nodi scomodi. A riguardo, spicca l’assenza al vertice dedicato alla ricostruzione proprio del commissario ucraino che fino all’altro ieri se ne occupava, finito nell’ultima purga di Zelensky dopo aver denunciato i bastoni fra le ruote messi dal suo governo. “Ha sistematicamente minato l’attività della mia agenzia”. Così Mustafà Nayyem - l’uomo a cui è affidata la sovrintendenza del recovery civile ma anche il controllo sulla costruzione delle fortificazioni militari - si è dimesso dopo aver fatto emergere anche all’estero l’opacissimo sistema di appalti privati all’ombra alle nuove casematte. Con “sorpresa e disappunto” di gran parte dei delegati occidentali, tengono a precisare a Berlino, senza accusare nessuno. Medio Oriente. Il piano degli Usa si rafforza. Ora tutto dipende da Hamas di Vittorio Da Rold Il Domani, 12 giugno 2024 Secondo un funzionario, il gruppo è pronto ad accettare i termini della risoluzione votata all’Onu. Washington mette sul tavolo anche 404 milioni di dollari in aiuti umanitari per la Palestina. La bozza di risoluzione passata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu con 14 voti favorevoli e la sola astensione della Russia è un punto importante a favore di Antony Blinken e della sua tela diplomatica-Il segretario di Stato ha incassato un forte sostegno internazionale al piano Biden per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi a Gaza. Se Hamas dovese rifiutare il piano, a questo punto sarebbe isolata e potrebbe subire l’allontanamento della sua dirigenza dall’esilio dorato di Doha. I primi segnali, comunque, sembrano positivi. Hamas è pronto ad accettare la risoluzione di cessate il fuoco votata nella notte tra lunedì e martedì dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ed è pronta a negoziare i dettagli, dove, come è noto, si nascondo i problemi maggiori: lo ha detto alla Reuters Sami Abu Zuhri, alto funzionario di Hamas, aggiungendo che spetta a Washington garantire che Israele, ovvero Netanyahu, la rispetti. “L’amministrazione statunitense sta affrontando una vera e propria prova per portare a termine i suoi impegni nel costringere l’occupazione a porre immediatamente fine alla guerra in attuazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, ha aggiunto Zuhri. Per facilitare l’intesa gli Stati Uniti, sostituendo per una volta l’Ue come ufficiale pagatore, concederanno 404 milioni di dollari in aiuti di assistenza umanitaria ai palestinesi. Lo ha annunciato sempre il segretario di stato Blinken nel corso di una conferenza stampa in Giordania, terza tappa del suo ottavo viaggio in Medio oriente dall’inizio del conflitto. “Alcuni hanno espresso grande preoccupazione per la sofferenza dei palestinesi a Gaza, inclusi paesi che potrebbero donare molto” ma che hanno dato “poco o nulla”, ha sottolineato Blinken non dando altri particolari per individuare i paesi sotto accusa. Israele dopo aver dato un segnale di assenso di massima al piano di pace in tre fasi non scopre tutte le carte ma fa trapelare qualche segnale di incertezza e inquietudine. “Israele non metterà fine alla guerra prima di aver raggiunto tutti i suoi obiettivi di guerra: distruggere le capacità militari e di governo di Hamas, liberare tutti gli ostaggi e garantire che Gaza non rappresenti una minaccia per Israele in futuro. La proposta presentata consente a Israele di raggiungere questi obiettivi, e Israele lo farà”. Lo ha detto un alto funzionario israeliano, coperto da anonimato, in una nota dopo che l’esecutivo di Netanyahu ha perso l’appoggio del centrista Benny Gantz. “La parola che proviene dalla leadership di Hamas a Gaza è determinante” per le prospettive dell’accordo sulla tregua. È quanto osservato da Blinken rispondendo alla domanda di un giornalista, durante una conferenza stampa a Tel Aviv. La dichiarazione di Hamas di apertura rispetto i termini dell’accordo “è un segnale di speranza” ha ribadito Blinken ma “ciò che è determinante, almeno ciò che finora è stato determinante in un senso o nell’altro, è la parola che proviene dalla leadership di Hamas a Gaza”. Troppo spesso in passato la dirigenza di Hamas a Doha era pronta ad accettare piani di pace poi regolarmente bocciati dai vertici dell’organizzazione a Gaza. Per questo, sebbene Israele e Hamas sembrano siano aperti al piano di cessate il fuoco, il destino della tregua non è ancora chiaro. Soprattutto dopo le frasi del leader di Hamas a Gaza, Sinwar rese note al momento opportuno dal Wall Street Journal secondo cui “la morte dei civili a Gaza è un sacrificio necessario”. Una posizione quella di Sinwar che denota cinismo e volontà di sacrificare vite umane per raggiungere i propri obiettivi politici e di potere, ma che potrebbe ritorcersi contro la sua leadership se decidesse di far saltare il tavolo delle trattative e così dare nuovo vigore al conflitto con nuove vittime e sofferenze per la stremata popolazione palestinese. “È questo che conta, ed è questo che ancora non abbiamo”, ha affermato Blinken evidenziando anche che “se Hamas non dirà di sì, allora la responsabilità sarà chiaramente sua in termini di sicurezza, di benessere di centinaia di migliaia, di milioni di donne, di bambini e di uomini palestinesi a Gaza; in termini di sicurezza, di stabilità e di sicurezza di Israele; della regione nel suo complesso, perché più a lungo si andrà avanti, più ci sarà la possibilità che il conflitto si diffonda, che si verifichino problemi in altri luoghi”. “Stiamo lavorando ogni momento per evitare che ciò accada - ha affermato il responsabile della politica estera della Casa Bianca - finora ci siamo riusciti, ma più si va avanti, più il rischio aumenta”. Washington fin da subito ha voluto evitare che il conflitto a Gaza potesse deflagrare ulteriormente e che potesse coinvolgere altri paesi dell’area. Le famiglie dei soldati - Centinaia di genitori di soldati israeliani impegnati a Gaza chiedono ai loro figli di “deporre le armi e tornare a casa” in una lettera al ministro della Difesa Yoav Gallant e al capo di stato maggiore delle forze armate Herzi Halevi Nella lettera aperta - scrive Haaretz - criticano anche la decisione della Knesset di approvare la legge che esonera gli uomini ultraortodossi dal servizio militare, e hanno scritto che non sosterranno più la campagna militare a Gaza. Un segnale di come Netanyahu sia sempre più contestato da buona parte della popolazione israeliana nella sua ostinazione a condurre la guerra senza chiarire gli obiettivi finali della stessa e così garantire la propria sopravvivenza politica. Medio Oriente. Frasi shock di Sinwar: “Le vittime di Gaza? Sacrifici necessari” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 giugno 2024 Le migliaia di vittime civili a Gaza? “Sacrifici necessari”. Non che ci si aspettassero le ampie vedute e l’empatia di un umanista, ma le frasi rivolte dal leader militare di Hamas nella Striscia Yhaya Sinwar ai mediatori di Egitto e Qatar, potrebbero essere state pronunciate da Benjamin Netnayhu tanto sono pregne di cinismo e calcolo politico. E semmai ce ne fosse bisogno confermano quanto poco interesse nutra il movimento islamista per il benessere del proprio popolo. È stato il Wall Street Journal a pubblicare in esclusiva ampi stralci dei messaggi privati inviati da Sinwar ai negoziatori, messaggi in cui parla con grande disinvoltura della strategia del suo movimento e di quanto si stiano rivelando utili i morti palestinesi alla causa di Hamas. Come scudi umani, dietro cui proteggersi dall’offensiva dell’Idf e soprattutto come formidabile strumento di propaganda anti- israeliana: più aumentano le vittime dei bombardamenti di, più infatti aumenta l’odio verso Israele che è il vero carburante dell’organizzazione islamista. In uno scambio con un mediatore di Doha, Sinwar paragona il sacrificio della popolazione palestinese a quello degli algerini durante la cruenta guerra di indipendenza contro la Francia, sottolineando quanto il sangue versato alimenti la “causa” e garantisca la sopravvivenza stessa di Hamas. Il culto cieco del martirio è desiderabile anche per i suoi sodali più stretti, ovvero gli altri leader del movimento e in tal senso Sinwar parla della morte dei figli di Ismail Hanyeh, capo politico di Hamas “esiliato” in Qatar, uccisi in un raid di Tel Aviv: “La loro perdita ha infuso linfa vitale nelle vene della nazione palestinese, spingendola a risorgere e a raggiungere la gloria e l’onore”. Per mesi Sinwar ha comunicato ai mediatori e ai suoi scherani che non aveva alcun interesse a raggiungere il cessate il fuoco, in particolare, racconta il Wall Street Journal, verso metà febbraio quando l’esercito israeliano si preparava a entrare a Rafah dove erano asserragliati quattro batrtaflioni di Hamas i negoziatori hanno tentato di invano convincerlo a chiedere una pausa delle ostilità per il ramadan. Nulla da fare: Sinwar era convinto che i massacri di Gaza, condannati dalla comunità internazionale e dagli stessi alleati dello Stato ebraico, avrebbero aiutato Hamas molto più che la fine dei combattimenti, paradossalmente la stessa identica linea adottata dal governo nazionalista di Netanyahu che mai ha dato l’impressione di aprire il minimo spiraglio per la tregua. Come era già accaduto nei primi anni 2000 in chiave anti Olp, gli interessi di Bibi e dei suoi migliori nemici sono quasi sempre coincidenti. Le autorità sanitarie di Hamas a Gaza affermano che oltre 37.000 persone sono state uccise da Israele dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre. Il bilancio, che non può essere verificato e che comprende sia combattenti che civili, è comunque servito a aumentare il sentimento anti- israeliano a livello globale e da questo punto vista il calcolo di Sinwar si è rivelato giusto. Intanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la mozione presentata dagli Stati Uniti di Biden per un primo cessate il fuoco nella Striscia dopo oltre otto mesi di guerra. Secondo le prime indiscrezioni anche Hamas sarebbe pronta ad accettare i termini della mozione l’alto funzionario del gruppo palestinese Sami Abu Zuhri avrebbe acconsentito in linea di massima aggiungendo che spetta a Washington garantire che Israele la rispetti. “La parola che proviene da Gaza e dalla leadership di Hamas a Gaza è determinante” ha osservato dal segretario di Stato Usa Antony Blinken rispondendo alla domanda di un giornalista, durante una conferenza stampa da Tel Aviv. “Se Hamas non si dimostrerà disponibile allora la responsabilità sarà chiaramente sua (...) in termini di sicurezza, di benessere di centinaia di migliaia, di milioni di donne, di bambini e di uomini palestinesi a Gaza; in termini di sicurezza, di stabilità e di sicurezza di Israele; della regione nel suo complesso, perché più a lungo si andrà avanti, più ci sarà la possibilità che il conflitto si diffonda, che si verifichino problemi in altri luoghi. Stiamo lavorando per evitare che ciò accada, finora ci siamo riusciti, ma ancora una volta, più si va avanti, più il rischio aumenta”, ha concluso Blinken. Medio Oriente. Khalil Shikaki, l’uomo che dice al mondo cosa pensano i palestinesi di Francesca Caferri La Repubblica, 12 giugno 2024 Shikaki, 71 anni, nell’ufficio del Palestinian Center for Policy di Ramallah. Intervista al capo dell’unico istituto di sondaggi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza: come si fanno le interviste in tempo di guerra? E che cosa spera per il futuro la gente dei Territori? Per spiegare come è riuscito a intervistare 750 persone in 75 diversi punti della Striscia di Gaza in mezzo ai bombardamenti e agli attacchi dell’esercito israeliano, Khalil Shikaki prende foglio e penna e comincia a segnare linee e numeri con una velocità impressionante. “Abbiamo diviso la Striscia in quadrati e determinato in base a immagini satellitari e a dati raccolti sul terreno dove le comunità si erano spostate. A quel punto siamo andati a cercarle nelle tende o nei punti di raccolta, escludendo naturalmente i luoghi in cui si combatteva: in questo modo siamo riusciti a rispettare i criteri di diversità geografica e sociale che abbiamo sempre seguito. Ma visto che non potevamo garantire con certezza il rispetto dei canoni usuali, abbiamo aumentato il campione del 50 per cento: in questo modo, la forchetta di errore resta la stessa: il 3 per cento”. Di fronte allo sguardo meravigliato accenna un sorriso e poi, nel suo inglese con l’accento della West Coast americana, conclude: “And so, we did it again”. Dove la chiave di questa storia sta tutta lì, in quell’again, un’altra volta: a 71 anni, il signore dai capelli bianchi che ci riceve nel suo ufficio pieno di mappe nel cuore di Ramallah, capitale dei Territori, può essere definito, senza troppi timori di errore, “la voce dei palestinesi”. In una società in cui le autorità controllano ossessivamente lo scarno panorama mediatico e le parole di dissenso vengono represse con le buone (il governo) o le cattive (i movimenti armati), Shikaki è l’unico a poter dire cosa pensa davvero la sua gente. Nella Cisgiordania in cui ci troviamo così come a Gaza, dove è nato e dove vive ancora la sua famiglia.Potere dei numeri: Shikaki è il fondatore e il direttore del Palestinian Center for Policy and Survey Research, primo centro di ricerca indipendente del mondo arabo, unico istituto di sondaggi palestinese. Con una manciata di dipendenti e i tre membri del consiglio direttivo, coordina una squadra di decine di sondaggisti che, armati di questionari e di cellulari per controllarne la geolocalizzazione e per poterli rintracciare in caso di pericolo, negli anni ha tastato il polso dell’opinione pubblica palestinese con più di 300 sondaggi: nell’ultimo, realizzato a marzo, sono state intervistate, faccia a faccia, 800 persone in Cisgiordania e 750 nella Striscia di Gaza. Dopo il 7 ottobre - Un lavoro indispensabile. Quando, dopo il 7 ottobre, giornalisti, esperti, politici di tutto il mondo hanno citato l’ampio supporto di cui le azioni di Hamas godevano nella società palestinese, era ai numeri di Shikaki e dei suoi che facevano riferimento. Lo stesso ogni volta che si parla della scarsissima popolarità dell’attuale anziano presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas; o della sfiducia, di anno in anno crescente, nel processo di pace con Israele. “Una bussola”, lo ha definito sul New Yorker Shai Feldman, direttore del Crown center for Middle east studies della Brandeis university di Boston. “Un uomo che non piega le sue analisi alla volontà popolare”, gli fa eco Dahlia Scheindlin, la più famosa sondaggista israeliana, che con lui ha lavorato spesso ad analisi congiunte. Il fratello e la jihad - La storia di questo studioso è comune a tante persone da queste parti. Originaria della zona dove oggi sorge Rehovot, a Sud di Tel Aviv, la sua famiglia fu costretta a lasciare la casa e nel 1948, con la creazione dello Stato di Israele e la Nakba, l’allontanamento forzato dei palestinesi. Shikaki e i suoi sette fra fratelli e sorelle sono nati a Rafah, nella Striscia di Gaza, ora cuore dell’offensiva israeliana: molti sono ancora lì. Khalil e Fathi, il maggiore, se ne andarono all’estero, grazie a borse di studio, ma seguendo strade opposte.In Egitto, dove era diventato medico, Fathi finì per diventare uno dei fondatori di quella che oggi è la Jihad islamica ed è morto in un attentato a Malta nel 1995, probabilmente per mano di Israele. Per Khalil la svolta fu l’American university di Beirut prima e la Columbia a New York poi. Tornò in patria come insegnante, a Nablus. “Dopo tanti anni fuori, quando entrai in classe, nel 1986, capii subito il problema: non c’era dialogo, non c’era conoscenza. La metà degli studenti erano religiosi ed erano convintissimi di aver ragione loro su tutto. L’altra metà erano laici e neanche guardavano i compagni. Pensai di fare un sondaggio, per spiegare agli uni le ragioni dell’altro: mi chiamò il governatore e mi disse. “Credi di stare in America? Qui queste cose non si fanno”“. E la cosa finì lì. Ma poi vennero gli Accordi di Oslo nel 1993 e gli anni della speranza. Shikaki trovò il supporto e i finanziamenti per i primi sondaggi e da allora non si è più fermato, animato dalla certezza che solo la conoscenza reciproca può portare a una pace duratura. Un governo di inetti - Oggi, il Palestinian Center for Policy and Survey Research è riconosciuto a livello internazionale e il suo direttore è ospite fisso di università e think tank americani ed europei. Questo non significa che la sua vita sia semplice. “Non chiediamo autorizzazione a nessuno. Io e i miei colleghi stabiliamo le domande e i sondaggisti partono, seguiti a distanza dai coordinatori”. I problemi non mancano. Hamas ha più volte bloccato i suoi team a Gaza. A Gerusalemme Est a creare intralci spesso è la polizia israeliana. Qui in Cisgiordania, i coloni ebrei. E poi c’è l’Autorità nazionale palestinese: “Che ci detesta perché certifichiamo la sua inettitudine”. Il risultato è che i conti bancari del Centro sono stati bloccati e da mesi è Shikaki a pagare di tasca sua l’affitto dell’ufficio dove ci troviamo. Ma il lavoro va avanti. L’ultimo sondaggio, pubblicato ad aprile, consegna un quadro piuttosto interessante: se fra i palestinesi il supporto per la decisione di Hamas di lanciare l’attacco del 7 ottobre resta stabile (71 per cento contro il 72 di dicembre), l’appoggio è sceso dall’85 al 75 per cento in Cisgiordania e salito dal 52 al 62 per cento a Gaza: “Sono dati che riflettono prima di tutto quello che sta accadendo” spiega l’analista: “Il 93 per cento del campione non crede che Hamas abbia compiuto le atrocità di cui è accusato. Del 7 ottobre vede principalmente il fatto che ha riportato al centro dell’attenzione la questione palestinese. E questo spiega il supporto. In secondo luogo, i dati mostrano una correlazione fra i numeri di morti a Gaza e il sostegno ad Hamas: più vittime ci sono (il 78 per cento del campione a marzo ha dichiarato di aver perso un familiare, contro il 64 di dicembre) più cresce il sostegno”.Nonostante questi dati, Shikaki non crede che il sostegno ad Hamas sia destinato a durare: “Solo il 20 per cento dell’elettorato condivide la posizione ideologica di Hamas: il resto lo appoggia perché sente che è l’unico soggetto che si batte per la causa palestinese. Se ci fosse un’alternativa seria, i palestinesi lo abbandonerebbero immediatamente”. Ma al momento l’ipotesi è lontana, come mostrano i dati sul governo: il consenso al presidente Abbas è al 16 per cento. Se si votasse oggi, il 40 per cento degli elettori sceglierebbe Marwan Barghouti, (il leader laico da 22 anni in carcere in Israele) come presidente, il 23 Ismail Hanyeh (capo politico di Hamas) e l’8 Abbas. L’84 per cento del campione chiede al presidente (al potere dal 2005) di dimettersi.livelli di popolarità”Ogni volta che esce un sondaggio, vengono qui”, sospira Shikaki. Vengono chi?. “Tutti. Gli uomini del governo a minacciarci perché dai numeri emerge la sfiducia che c’è nei loro confronti. Quelli dell’intelligence a farci domande e a ringraziarci perché senza le nostre indagini non saprebbero come stanno veramente le cose. I potenziali successori di Abbas per capire perché la gente non li appoggia”. A tutti, Shikaki risponde con due certezze: il metodo scientifico e i numeri. È sulla base di questi elementi che proviamo a chiedergli come vede il futuro. “Le rispondo con un nome: Barghouti”, sorride. “Marwan Barghouti è da anni l’unico leader in cui i palestinesi hanno fiducia. Il suo livello di popolarità complessivo varia fra il 60 e il 67 per cento. E i motivi sono sempre gli stessi: non si è fatto corrompere e sta pagando un prezzo personale molto alto alla lotta per la liberazione”.Inutile provare a ribattere che dopo tanto tempo nessuno può davvero dire se Barghouti sarebbe in grado di prendere in mano il processo politico, se pure tornasse libero: “Ce n’è stato un altro, di uomo così. E se ci pensa bene, le verrà in mente”, dice Shikaki con il sorriso ironico. Il riferimento a Nelson Mandela è quello che qui fanno tantissime persone. L’uomo dei numeri, per un attimo, mette da parte la razionalità e diventa uno di loro.