L’affettività è un diritto, anche per chi sta in cella: la nuova rotta segnata dalla Consulta di Valentina Stella Il Dubbio, 10 giugno 2024 La Corte costituzionale con una sentenza storica ha cancellato il divieto di svolgere colloqui intimi con i propri cari in carcere ma la strada è ancora lunga per adeguare le nostre strutture penitenziarie. La Consulta cancella il divieto di fare l’amore in prigione: si potrebbe riassumere così la sentenza numero 10 del 26 gennaio 2024, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Dunque la Consulta con questa decisione (Presidente Barbera, relatore Petitti) va a garantire il diritto all’effettività in carcere. Il caso - La questione era stata sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi. Il caso riguardava un detenuto, recluso dall’11 luglio 2019, attualmente con posizione giuridica di definitivo, con fine pena al 10 aprile 2026, nella cui prospettiva non c’è la concessione dei permessi premio. Inoltre, i locali del carcere di Terni destinati ai colloqui con i familiari appaiono inidonei ad assicurare l’esercizio della affettività, ivi compresa la sessualità, in condizioni di privacy. “L’ordinamento giuridico - ha affermato la Corte in una nota - tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. Colloqui riservati, no al controllo a vista: il modello francese - La norma censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l’affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, per la irragionevole compressione della dignità della persona e per l’ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena. I giudici costituzionali hanno rilevato “un ulteriore profilo di irragionevolezza” dei limiti della norma censurata ossia “il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni. Si tratta di persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto”. La Corte ha poi rammentato che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell’affettività intramuraria: “Si ricordano i parlatori familiari (parloirs familiaux) e le unità di vita familiare (unités de vie familiale), locali appositamente concepiti nei quali il codice penitenziario francese prevede possano svolgersi visite di familiari adulti, di durata più o meno estesa, “sans surveillance continue et directe”; con funzione analoga si segnalano le comunicaciones íntimas, disciplinate dal regolamento penitenziario spagnolo, e le visite di lunga durata (Langzeitbesuche), ammesse dalla legislazione penitenziaria di molti Länder tedeschi”. Le nuove regole della Consulta sulle visite familiari - La Consulta dà delle indicazioni rispetto a come dovrebbe applicarsi ora il nuovo diritto: “La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un’espressione piena dell’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude. In quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva”. Ad esempio “può ipotizzarsi che le visite a tutela dell’affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico”. Tuttavia la Corte “è consapevole dell’impatto che l’odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento” pertanto “nell’indicare alcuni profili organizzativi implicati dalla propria pronuncia, la Corte ha auspicato un’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, con la gradualità eventualmente necessaria”. Infine, la Corte ha precisato che la sentenza non riguarda i detenuti al 41 bis né quelli sottoposti alla sorveglianza particolare. Il parere dei giuristi - “Il riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’affettività-sessualità inframuraria - aveva ricordato sulla rivista Giurisprudenza penale il costituzionalista Andrea Pugiotto - è anche l’approdo auspicato da atti sovranazionali in materia penitenziaria: originariamente ignorato, il problema emerge nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 1997 ed è oggetto di precise linee guida in quelle approvate nel 2006. Ma già il Parlamento europeo nel 2004 annoverava tra i diritti da riconoscersi ai detenuti quello ad “una vita affettiva e sessuale, attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi”. Nel tempo, dunque, le fonti europee hanno progressivamente riconosciuto come la tutela dei rapporti familiari necessiti della possibilità di relazioni intime inframurarie (conjugal visits). Pertanto “il valore della pronuncia - ha commentato su Questione Giustizia l’ex magistrato di sorveglianza Riccardo De Vito, attualmente giudice a Nuoro - è senza dubbio non comune, sia sotto il profilo giuridico sia dal punto di vista politico”. Nel campo della penalità penitenziaria, “la sentenza contribuisce in maniera rilevante ad accrescere la guardiania che i diritti inviolabili esercitano sulla pretesa punitiva dello Stato o, detto con le parole di Massimo Pavarini, a ridisegnare, in senso favorevole ai detenuti, il margine di disumanità del castigo. C’è da augurarsi un effetto moltiplicatore: colloqui riservati, come visto, comportano anche una nuova concezione di alcuni ambienti penitenziari - il sogno di Alessandro Margara (tra gli ispiratori della riforma penitenziaria del 1986 nota anche come “legge Gozzini”, ndr): un luogo che libera le relazioni invece di opprimerle -, ma presuppongono anche un maggiore rispetto del principio di territorialità della pena, vale a dire di prossimità dell’espiazione ai centri degli affetti”. Verso una legge sull’affettività in carcere: la proposta di Magi e il Gruppo di lavoro istituito da Nordio - A dicembre 2023 era stata presentata una proposta di legge, a prima firma il deputato di +Europa Riccardo Magi, proprio in materia di tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute: “l’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità - si legge nella pdl - potrà essere effettuato da tutte le persone autorizzate ai colloqui senza distinzione tra familiari, conviventi e “terze persone”“. Proprio a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, il parlamentare ha interrogato a fine marzo, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che così aveva risposto al question time: “bisogna tener conto innanzitutto del comportamento della persona detenuta in carcere, delle ragioni di sicurezza, ovviamente, e delle esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. “Dovranno essere create - e stiamo già iniziando a farlo, ma non è una cosa che si possa fare dall’oggi al domani - all’interno degli istituti penitenziari degli appositi spazi. Ovviamente anche il personale deve essere addestrato su questo, perché anche questa è una novità”. “Quello che posso dire - ha aggiunto il Guardasigilli - è che il governo, e chiaramente questo ministero, è perfettamente consapevole dell’importanza della questione ed è deciso a dare pienissima attuazione a quella che è la sentenza della Corte costituzionale”. Nordio ha poi spiegato che è stato “istituito un gruppo di lavoro multidisciplinare, che prevede come componenti degli appartenenti del nostro ministero, del Garante nazionale per i detenuti, della magistratura di sorveglianza, dell’architettura penitenziaria. E questa direi che è più importante di tutti perché senza strutture, dovremmo convenire che questa novità sarebbe ancora più difficile realizzare. Ci saranno anche appartenenti del Consiglio nazionale forense e del consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, anche questa è una presenza estremamente importante”. “Con la mia matita disegno un carcere più umano e civile” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 10 giugno 2024 La rivoluzione passa dall’architettura. Cesare Burdese, esperto di edilizia penitenziaria, si è messo all’opera per trasformare il verdetto della Consulta sull’affettività dietro le sbarre in un diritto: un’utopia che può diventare realtà. Una sentenza si può anche disegnare? Sembra un’idea bizzarra ma non lo è. Anzi, senza i disegni in questione, alcune sentenze non avrebbero alcun effetto reale. Così, la matita di Cesare Burdese, architetto esperto di edilizia penitenziaria, si muove sempre seguendo il filo di norme e determinazioni giudiziarie per trasformare il carcere in un luogo più umano. È andata così anche quando Burdese ha letto la sentenza numero 10 del 2024 della Consulta - che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto all’affettività (e quindi anche alla sessualità) in carcere - e si è messo subito all’opera, su mandato dell’associazione Ristretti Orizzonti, per trasformare quel verdetto in un diritto a Padova. Ma in cosa consiste l’affettività in carcere? “Nella dimensione carceraria per affettività si intende quell’attività rivolta ai propri congiunti, alle persone care, che si realizza attraverso incontri, ma si realizza anche attraverso telefonate, si realizza attraverso scrittura”, spiega l’architetto Burdese. “L’affettività, però, proprio in carcere, è anche considerata nella dimensione di un rapporto con un animale o addirittura con un vegetale, cioè la possibilità di prendersi cura di una pianta o di un animale”. Partendo dal bisogno dell’affettività che ha l’individuo, ancorché detenuto, Burdese pensa subito alla ricaduta architettonica di ogni attività umana. Il diritto all’affettività si estende fino alla sfera della sessualità, ma riguarda anche i rapporti col proprio nucleo familiare, con i propri bambini. È questa la rivoluzione scritta nero su bianco dalla sentenza della Corte costituzionale, che riconosce il diritto all’intimità al riparo dallo sguardo indiscreto dell’agente penitenziario. Un’utopia che per diventare realtà ha però bisogno di progettazione. “In termini generali, io sono solito leggere il documento ufficiale che può essere una sentenza ma anche una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione che dà delle indicazioni di comportamento, di gestione, della vita detentiva”, spiega ancora l’architetto Cesare Burdese. “Ne analizzo la ricaduta spaziale, perché qualsiasi attività, anche in carcere, si svolge in uno spazio fisico, in uno spazio costruito. Il mio metodo è molto semplice: se dobbiamo, nella fattispecie, consentire rapporti intimi, allora dobbiamo immaginarci i luoghi dove poter svolgere questi rapporti intimi”, dice ancora Burdese, prima di passare in rassegna tutte le possibilità architettoniche realizzabili in Italia. “Noi identifichiamo sostanzialmente tre tipologie di spazi. Abbiamo la camera con annesso servizio igienico, un luogo molto spartano: due tavolini da notte, un letto matrimoniale, un servizio igienico, niente di più. Poi abbiamo il monolocale che è un spazio un po’ più articolato perché comprende una zona giorno con un angolo cottura, ancora un letto matrimoniale e un servizio igienico. Abbiamo poi il cottage: piccole costruzioni dotate di un piccolo giardino, dove possiamo rilevare una dimensione assolutamente domestica e una unità abitativa. Praticamente un piccolo alloggio addirittura dotato di una o più camere da letto”. Non una stanza, dunque, ma un appartamento con più spazi, dove è possibile trascorre del tempo con tutta la famiglia e ricreare una naturale dimensione domestica: cucinare, fare i compiti, guardare la televisione insieme, conversare, giocare. Nessun secondino, nessuna telecamera, nessun controllo all’interno. In altre parole: vita. Anche all’interno di un’istituzione totale. Ed è proprio a questa terza tipologia di struttura, il cottage, che Burdese ha pensato per disegnare il suo progetto destinato al carcere di Padova. “La sentenza dice che i luoghi dell’affettività devono essere previsti, possibilmente all’ingresso dell’istituto, per non portare i parenti a zonzo per il carcere, troppo dentro l’area detentiva. Allora, quando io ho incominciato a ragionare, ho pensato soprattutto alle strutture più recenti che hanno delle vaste superfici ancora inutilizzate dentro l’area di cinta”, argomenta Burdese, che per Padova ha immaginato due moduli circondati da attività florovivaistiche, “così impegniamo anche il detenuto a curare le rose”. “Ho chiamato il progetto “Il roseto”, perché il roseto sarà quell’elemento aggiuntivo dove il detenuto potrà curare le rose, ma nello stesso tempo, quando si incontrerà con i familiari, sarà in un ambiente gradevole e profumato”. Vogliamo l’amore ma anche le rose, si potrebbe dire parafrasando un vecchio film di Ken Loach. “Viene fuori un’opera architettonica che ha delle forti connotazioni estetiche ma anche forti valori simbolici e forti valori funzionali”. Diritto all’intimità e diritto alla bellezza in un disegno solo. E ancora, diritto al lavoro: giardinieri, muratori, elettricisti, idraulici, falegnami. Tutti detenuti. Un sogno che potrebbe diventare realtà. Il progetto definitivo del cottage verrà presentato a giorni. Nella speranza che l’umanizzazione del carcere non si areni nelle sabbie della burocrazia, dei legacci politici e delle diffidenze culturali. “La mia matita si muove per portare umanità, valori culturali risposte concrete ai bisogni”, conclude Burdese. “Col roseto spero di portare in quella struttura una scintilla di umanità che potrà poi innescare altre scintille in altri carceri. È questo che noi dobbiamo fare come architetti”. Quelle celle pensate a misura di uomo: per le donne anche la pena è al quadrato di Francesca Spasiano Il Dubbio, 10 giugno 2024 Ridefinire i penitenziari secondo una prospettiva di genere: la sfida dell’avvocata Elisabetta Brusa per quella “minoranza” di cui nessuno si occupa. Una specie di confino su un’isola straniera, dove chi vi soggiorna è condannato a un doppio isolamento. Ecco cos’è il carcere delle donne. Un carcere ancora più invisibile dell’altro, quello degli uomini. Perché le donne in carcere sono poche, e allora sono poche le norme, i fondi e le risorse di cui possono usufruire. Come sa bene l’avvocata Elisabetta Brusa, già presidente dell’Ordine degli avvocati di Varese e componente della commissione carcere dell’Organismo congressuale forense (Ocf), che le sezioni femminili le vede ogni giorno con i propri occhi. “Quando vado a fare i colloqui non posso portare dentro niente. I vestiti sì, perché se non hanno nessuno gli fai un borsone e lo lasci lì in matricola. Ma non è che io possa entrare con gli assorbenti. Quindi diventa veramente un problema di reperimento delle cose minimali. Prendiamo i francobolli: generalmente la Caritas ne porta un po’ ogni settimana per permettere anche a chi non ha soldi di spedire la lettera a casa. E il francobollo per scrivere è paragonabile a una questione che ti serve, sennò come fanno queste donne?”. La risposta dovrebbe arrivare dalle istituzioni. Ma il primo nodo riguarda proprio la mancanza di regolamentazione della detenzione femminile. “L’ultima norma, quella che la disciplina nel migliore dei modi, è la legge Gonnella e risale al 2015. Dopo c’è stato un regolamento di esecuzione che però si limita a dare delle indicazioni su temi molto pratici come l’igiene personale e il vestiario, che poi vengono ripresi all’interno di ciascun carcere con regolamenti propri”. Alcuni di questi prevedono che si possa tenere con sé la fede o una catenina, piccoli simboli della propria affettività. Nel carcere di Vercelli, ad esempio, è possibile conservare in cella creme depilatorie, smalti, deodoranti e addirittura un kit per l’igiene personale. Compresi gli assorbenti, che non rientrano nel vitto: bisogna comprarli allo spaccio. Ma con quali soldi? “Sembreranno cose “strane”, ma riguardano la dignità della persona. Stiamo parlando di donne che hanno necessità di ricevere attenzione rispetto alla propria salute ginecologica, con la possibilità di effettuare come tutte le donne normali degli esami di screening, e alla propria cura psicologica nel periodo detentivo”. Ma le donne restano un numero ininfluente in ogni statistica, una minoranza penitenziaria di cui nessuno si cura, come confermano i dati dell’ultimo report di Antigone. “Da questo rapporto abbiamo dei dati certi - spiega Brusa - e il dato certo è che al 31 gennaio del 2023 vi erano detenute nelle carceri italiane 2392 donne, delle quali 15 madri con 17 figli. Purtroppo in Italia ci sono solo 5 carceri femminili su 190 strutture penitenziarie: Trani, Pozzuoli, Roma, la Giudecca di Venezia e Empoli. In queste carceri vengono ospitate ad oggi 599 donne, quindi un quarto del totale della popolazione di detenuti. Oltre a queste cinque carceri prettamente femminili, ci sono poi 52 sezioni femminili, di cui aperte solo 44, dove attualmente sono ospitate 1779 donne. Vi sono poi sei sezioni all’interno degli istituti maschili che sono state adibite per le detenute trans, che per lo Stato italiano sono a tutti gli effetti detenuti di sesso maschile, ma chiaramente hanno bisogno di attenzioni diverse proprio per il loro orientamento sessuale”. Oltre alle carceri femminili e alle sezioni femminili, ci sono gli Icam, ovvero gli istituti a custodia attenuata, dove possono soggiornare le donne incinte o le madri con figli sotto i sei anni. Un tema perennemente al centro del dibattito politico, quelle delle madri detenute, al grido dello slogan “mai più bimbi dietro le sbarre”. “Quando si pensa alle donne detenute in carcere vorrei che non si pensasse più solo alle madri in cella, ma anche a quelle quasi 3mila detenute che devono poter lavorare in carcere”. Imparare un mestiere in carcere dovrebbe essere il primo passo verso il reinserimento sociale, come predica la Costituzione. Ma resta un miraggio. L’avvocata Brusa pensa a laboratori di cucina, cosmesi o sartoria, attività spendibili all’esterno una volta uscite. Come succede nella casa circondariale Giudecca di Venezia, dove le detenute lavorano all’orto nell’azienda agricola interna all’istituto. Ma lo abbiamo detto: le donne sono poche, e per questo viene sottratta loro anche la scuola. “Si vuole evitare chiaramente la promiscuità e quindi alle donne, soprattutto quando si tratta di sezioni femminili all’interno delle carceri, è negato l’accesso alle strutture comuni per esercitare l’attività sportiva, lavorativa o formativa. Penso alla decisione di esprimere il proprio culto: anche la messa deve essere divisa tra uomo e donna e questo ci fa riflettere sul fatto che dobbiamo andare verso una nuova dimensione”. Un’alternativa al carcere in un sistema carcerocentrico che non immagina misure alternative. “Che cosa ha come caratteristica la detenzione carceraria femminile? Di avere pene brevi. Non sono donne che generalmente vivono la detenzione carceraria in via definitiva per un lungo periodo di tempo. Ma il passaggio in carcere aumenta sicuramente per le donne la loro marginalità sociale. Ci si pensa da molto tempo, anche a livello legislativo, e si ritiene che si debba aumentare l’attenzione che le normative sulla giustizia riparativa sono state poste in essere proprio per diminuire il sovraffollamento carcerario e permettere soprattutto alle detenute donne di trovare una soluzione diversa per l’espiazione della propria pena”. Insomma, le carceri sono pensate ad uso esclusivo degli uomini. A cominciare dall’architettura. E per questo, come suggerisce Brusa, che bisognerebbe immaginare un’unità specifica all’interno del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che sia orientata a una politica di genere. Così che le donne non sia condannate due volte, come vittime di abusi o come autrici di reato. “Come gli uomini esistono anche le donne maltrattanti. Ma se per i detenuti maschi è previsto un percorso trattamentale con l’ausilio di uno psicologo per prendere coscienza di ciò che si è fatto, per le donne non esiste niente del genere. Dunque vi è una disparità tra gli uomini e le donne come autori di reato, e ancora di più per le donne che scoprono in carcere di essere state abusate, violentate, di aver avuto maltrattamenti in famiglia. Anche in questo caso bisognerebbe creare dei percorsi di supporto per affrontare il trauma, tutto ciò che la Convenzione di Istanbul impone alle vittime di violenza anche all’interno del carcere”. La tortura bianca della reclusione: spazio estremo che modifica il cervello umano di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 10 giugno 2024 A colloquio con la neuroscienziata che ha studiato gli effetti nefasti della detenzione sulla psiche. Federica Sanchez, ricercatrice in neuroscienze applicate all’architettura presso la società Lombradini 22, ha studiato a fondo gli effetti nefasti che gli spazi detti ‘estremi’ hanno sulla nostra psiche, quanto la prigionia e l’isolamento modifichino le funzioni del nostro cervello, i nostri comportamenti, la nostra stessa identità. E il carcere, nella nostra società, è lo spazio estremo per eccellenza. Come funziona il vostro lavoro? “Siamo impegnati, sia nella ricerca teorica che nell’applicazione sperimentale, sugli effetti dello spazio nelle persone, è dimostrato scientificamente che vivere in luoghi estremi varia la funzionalità e l’anatomia del cervello umano. Parliamo di ambiente estremo quando una o più caratteristiche spaziali vengono fortemente ripetute, esasperate o ridotte, mi riferisco alla luce o alla mancanza di luce, alla profondità visiva disponibile, i colori, le forme, la prossemica, la distanza del corpo dalle pareti. Sono stati condotti diversi studi sulle conseguenze neurofisiologiche e psicologiche subite dai membri di spedizioni nello spazio, in Antartide e nelle attività di esplorazione sotterranea, allo stesso modo esistono evidenze sugli effetti della prigione. L’ambiente architettonico e quello sociale sono aspetti fondamentali per il benessere mentale delle persone, nell’universo carcerario la salute viene danneggiata per diverse ragioni: l’allontanamento della persona dalla società, la mancanza di scopi e significato della vita, le condizioni spaziali estreme come il sovraffollamento, l’isolamento, l’esposizione alla violenza. Gli effetti tendono a sparire quando si ritorna in libertà? Al contrario perdurano. È stato teorizzato dai ricercatori che la reclusione può provocare la cosiddetta post incarceration syndrome, una sindrome simile al Ptsd, ovvero il disturbo da stress post traumatico, infatti anche dopo aver scontato la loro pena molti ex detenuti continuano a subire gli effetti negativi della detenzione. Cosa cambia concretamente nel nostro cervello in un ambiente naturalmente “ostile” come il carcere? Dal punto di vista neuroscientifico è stato dimostrato come l’esperienza prolungata dell’isolamento può modificare la struttura anatomica e le funzionalità del cervello. Uno dei casi più noti è quello di Robert King, un ex detenuto statunitense che ha trascorso 29 anni in un cella di isolamento. Una volta uscito di prigione King ha accusato la perdita delle proprie capacità di orientamento spaziale e di coscienza del proprio posizionamento tridimensionale nello spazio. Il caso ha interessato la neuroscienziata Huda Akil la quale ha ipotizzato che l’isolamento protratto abbia innescato modifiche anatomiche nel cervello di King, in particolare nella zona dell’ippocampo che è un’area fondamentale per la memoria, per il riconoscimento spaziale. La mancanza di relazioni sociali può trasformare l’anatomia del cervello e ridurre la massa di alcune regioni critiche per il pensiero e il controllo delle emozioni e alterare la connettività tra amigdala e lobi frontali a cui si associa un aumento dei disturbi del comportamento. Quanto possono diventare gravi queste patologie? L’assenza di luce solare, la mancanza di sincronia con il ritmo circadiano causano molti problemi di regolazione metabolica di produzione di ormoni e di regolazione delle emozioni che insieme alla condizione restrittiva del carcere può causare depressione. La depressione grave o cronica in assenza di trattamento ha un impatto profondo sul cervello a livello anatomico, si genera così un circolo vizioso: ci si sente male il nostro corpo produce stress, lo stress danneggia il cervello e questo di nuovo ci fa sentire male. Le conseguenze negative della reclusione valgono anche per il personale di custodia? Gli agenti di polizia penitenziaria sono particolarmente colpiti da queste forme di stress, questo si manifesta attraverso la tensione psicologica, l’ansia, la preoccupazione, la paura, alcuni dei fattori a causare stress sono i rapporti con i superiori, la scarsa partecipazione alle decisioni, il contatto con detenuti aggressivi e il rischio di aggressioni. È necessario in tal senso elaborare un piano di gestione a favore della salute mentale degli abitanti delle carceri, dei detenuti e del personale di sorveglianza, progettare lo spazio per favorire il benessere anche del personale di custodia. Le componenti architettoniche che caratterizzano l’esperienza spaziale sono simili per entrambi i gruppi: l’illuminazione naturale, la qualità dell’aria e dell’acustica, la profondità delle visuali, gli aspetti cromatici, i materiali. Avete realizzato un esperimento in un penitenziario della Lombardia tramite realtà virtuale. In cosa consiste? Come Lombardini 22 abbiamo lavorato al progetto di riqualificazione di alcune zone di una casa circondariale in sinergia con l’architetto Cesare Burdese. Per via dei limiti del regolamento carcerario con il dipartimento di psicologia dell’Università del Sacro cuore di Milano abbiamo deciso di imbastire degli esperimenti volti a isolare le componenti architettoniche che gravano maggiormente sull’esperienza dei detenuti. Abbiamo immerso detenuti e operatori in un modello di realtà virtuale che rappresenta il carcere esistente monitorando alcuni parametri come la temperatura corporea o il battito cardiaco per evidenziare le zone di maggiore criticità. Dai risultati abbiamo poi avviato la progettazione architettonica concentrandoci sui colori, sull’organizzazione spaziale e l’arricchimento dell’esperienza sensoriale nel cortile per poi replicare l’esperimento sul nuovo modello. In questo memento siamo ancora nell’analisi dei dati. L’obiettivo è osservare un miglioramento nella percezione dinamica degli spazi. Suicidi, un’infinita scia di sangue. In carcere ci si toglie la vita ben 18 volte più che da liberi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2024 Da settembre era nel carcere romano di Regina Coeli, ancora in attesa di giudizio per rapina e lesioni. Ha deciso di impiccarsi la notte del 4 giugno scorso. Eppure, aveva già dimostrato di essere fragile, compiendo atti di autolesionismo; per questo, almeno sulla carta, era a regime di massima sorveglianza. Ma in un carcere altamente sovraffollato, come il resto delle patrie galere, è praticamente impossibile garantire una sorveglianza adeguata. Come hanno spiegato Stefano Anastasia e Valentina Calderone, rispettivamente Garante dei detenuti del Lazio e di Roma, “la sorveglianza, grandissima o no che sia, ormai a Regina Coeli nel turno di notte è affidata a un numero di agenti che si contano sulle dita, mentre la conta dei detenuti arriva a 1.150 per 628 posti effettivamente disponibili, per un tasso di affollamento del 180%, il più alto nel Lazio e tra i più alti in Italia”. Siamo giunti a 40 suicidi nelle carceri italiane (più uno in un Cpr) dall’inizio dell’anno. Un numero abnorme a cui però il governo rimane inerme. Chi dice che anche fuori le persone si suicidano, non valuta un parametro che prova la natura emergenziale del fenomeno. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il tasso di suicidio in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10.000 persone. Nello stesso anno, il tasso di suicidi in carcere era pari a 8,7 ogni 10.000 persone detenute. Mettendo in relazione l’ultimo dato disponibile relativo alla popolazione detenuta (tasso di suicidi pari a 12 nel 2023) con quello della popolazione libera (tasso di suicidi pari a 0,67 nel 2019), vediamo l’enorme differenza tra i due fenomeni: in carcere ci si toglie la vita ben 18 volte di più rispetto alla società esterna. Quando si concluderà l’anno in corso, il dato potrebbe risultare ancora maggiore. Parlare, quindi, di ecatombe carceraria, non è un’esagerazione. Dunque, che fare? Ci viene in aiuto l’ultimo dossier dell’associazione Antigone, che propone una serie di interventi concreti, che spaziano dalle misure alternative al miglioramento della vita all’interno degli istituti, all’apertura verso l’esterno, con particolare attenzione alle fasi più delicate della detenzione. Per contrastare il senso di isolamento e marginalizzazione, è essenziale incrementare le attività lavorative, formative e culturali disponibili per i detenuti. Un altro passo fondamentale è garantire una maggiore libertà di comunicazione con l’esterno, aumentando il numero di telefonate e prevedendo colloqui intimi, come stabilito dalla Corte Costituzionale. Antigone propone di liberalizzare le telefonate, permettendo ai detenuti di mantenere un contatto più frequente e libero con i propri cari. Inoltre, è cruciale favorire il reinserimento sociale attraverso percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per coloro che presentano problematiche psichiatriche o di dipendenza. Per i ‘nuovi giunti’, è necessario creare reparti ad hoc che garantiscano un’accoglienza graduale, informazioni sui diritti e le regole, colloqui con psicologi e psichiatri e maggiori contatti con l’esterno. Investire risorse per umanizzare la detenzione significa anche migliorare le condizioni degli spazi e fornire un adeguato supporto psicologico. Un servizio di preparazione al rilascio è fondamentale per accompagnare i detenuti nel rientro in società, dotandoli degli strumenti necessari. È altresì importante garantire contatti umani significativi con il personale, anche per coloro che si trovano in isolamento o sottoposti a regimi più rigidi. Antigone sottolinea che è stato sicuramente importante incrementare gli stipendi degli psicologi che operano nelle carceri, ma c’è la necessità di integrare il loro lavoro in una più ampia programmazione riformatrice, volta a creare un sistema penitenziario più umano ed efficace. Le proposte di Antigone rappresentano un passo fondamentale per affrontare l’emergenza suicidi in carcere. Un impegno concreto da parte delle istituzioni è indispensabile per garantire il diritto alla vita e alla dignità anche a chi si trova ristretto. Solo attraverso un sistema penitenziario attento ai bisogni individuali e aperto verso l’esterno sarà possibile ridurre il numero di queste tragedie. Abbiamo visto che il sovraffollamento non aiuta. Da qui la proposta di legge a firma del deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, volta a intervenire con la liberazione anticipata speciale, cioè prevedere un temporaneo e ulteriore sconto di pena per ogni singolo semestre di pena espiata, anziché i 45 giorni previsti dalla liberazione anticipata disciplinata dall’articolo 54 della legge sull’ordinamento penitenziario. Ha subito un iter lentissimo tanto da aver avuto una battuta d’arresto, per poi essere calendarizzata in aula alla Camera per il 24 giugno. Sempre all’orizzonte il rischio di essere affossata, e una mano forte l’hanno data alcuni magistrati che, sentiti in audizione, hanno erroneamente definito “indulto” questa misura. Sulle carceri la soluzione non può che essere interna di Massimo Lensi Il Domani, 10 giugno 2024 “Il carcere è illegale” è una chiara proposizione apofantica. “Illegale”, tuttavia, è un aggettivo pesante e dovrebbe essere maneggiato sempre con cura. Il carcere come tale, infatti, non può essere colpévole (responsabile, “illegale”), perché non ha personalità giuridica; il sovraffollamento, ancora meno. Potrebbe essere colpevole al massimo lo stato, e, in effetti, l’Italia è stata condannata più volte dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per comportamenti inumani e degradanti. Le sanzioni della Corte Edu, è bene ricordare, si articolano in semplici multe per lo stato colpevole, e rimborsi compensativi e sconti di pena per il ricorrente in caso di vittoria. La Carta, tuttavia, pone l’accento più sugli effetti di un distorto sistema carcerario che sulle cause che danno origine alla distorsione: questo, infatti, è lo spirito delle sentenze c.d. pilota della Corte. Rimossi gli effetti “illegali”, tutto torna a posto e si rientra per incanto nella “legalità”, con buona pace dell’articolo 27 della Costituzione e del modello individuato come sistema funzionale di carcerazione. Dopo appena sei mesi, però, il sovraffollamento torna più intenso di prima. E nessuno è più colpevole fino a una nuova sentenza Cedu. Il gioco dell’oca, detenuta e recidiva. Il problema che vorrei sollevare è semplice. La Corte Edu, su ricorso di un detenuto o di un portatore legittimo di diritti soggettivi violati, può giudicare colpevole solo lo stato e non i suoi responsabili. I diritti fondamentali dell’individuo, invece, sono pienamente tutelati dall’ordinamento interno. La Corte Edu per di più è una giurisdizione volontaria, non ha natura penale, ha tempi di risposta biblici, e si attiva soltanto su ricorso. Mi chiedo, allora: se davvero si considera per mille ottime ragioni “illegale” il nostro sistema carcerario, perché non individuare azioni giuridiche di diritto interno nei confronti dei responsabili, e cioè degli individui che ricoprono le cariche istituzionali preposte al funzionamento del sistema detentivo? La questione sta tutta qui. La responsabilità di uno stato è roba antica, obsoleta e contraddittoria, e non risolve i tanti problemi aperti sul tavolo. La via è quella della responsabilità individuale, da sempre la strada maestra di chi ritiene la giustizia, il criterio principale di ricerca della verità relativa come valore supremo, non assoluto. Ed è materia di diritto costituzionale, amministrativo e penale interno. Un diritto quest’ultimo che naviga spesso nelle tumultuose acque del mar della colpa e del dolo. E della logica modale. Giustizia, la riforma e gli obiettivi del Pnrr di Stefano Passigli Corriere della Sera, 10 giugno 2024 Le riforme proposte dal governo sembrano piuttosto discendere da un lato da temi ereditati dallo storico scontro tra Berlusconi e la magistratura, e dall’altro avere come obiettivo non tanto una maggiore funzionalità della nostra giustizia quanto una sua disarticolazione. La vera sfida portata dal PNRR al governo italiano è l’aver legato l’utilizzo dei finanziamenti concessi alla realizzazione di effettive riforme della legislazione regolante i vari settori. La riforma di numerosi aspetti della giustizia civile, penale e amministrativa; una definitiva messa a punto del codice degli appalti e del ruolo dell’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione); una progressiva estensione della normativa in materia di crisi d’impresa con conseguente adeguamento del diritto fallimentare; sono tutti, ad esempio, momenti essenziali di una politica tesa a facilitare il ritorno di investimenti esteri nella nostra economia. Non sono queste, però, le priorità contemplate dalle riforme proposte dal governo, che sembrano piuttosto discendere da un lato da temi ereditati dallo storico scontro tra Berlusconi e la magistratura, e dall’altro avere come obiettivo non tanto una maggiore funzionalità della nostra giustizia quanto una sua disarticolazione che si tradurrebbe inevitabilmente in una minore indipendenza della magistratura, specie se contemporaneamente vi fosse - attraverso l’introduzione del Premierato - un ulteriore rafforzamento dell’Esecutivo. Il complesso delle proposte avanzate dal ministro Nordio non può lasciare dubbi in proposito. Porre limiti all’utilizzo delle intercettazioni e limitarne la diffusione; comprimere l’informazione obbligando i giornalisti a riassumere la sostanza di atti depositati nel processo, e quindi pubblici, anziché permetterne una integrale diffusione; introdurre l’obbligo di decisioni collegiali anziché monocratiche per l’adozione di provvedimenti cautelari giungendo sino al progetto di vietare la comunicazione della loro avvenuta esecuzione; sono tutti provvedimenti che rispondono ad una logica strettamente politica cara alla coalizione di governo, ma che ben poco hanno a che vedere con l’obiettivo di accelerare l’iter della giustizia come ci chiede il PNRR. Ancor più devastante per la funzionalità della nostra giurisdizione sarà l’effetto della proposta separazione delle carriere, con la creazione di due distinti CSM e di una Alta Corte di Giustizia cui assegnare il controllo disciplinare dei magistrati, presumibilmente formata in misura preminente da non togati (avvocati, professori, etc.). Una simile innovazione andrebbe ovviamente introdotta con legge costituzionale, seguita con ogni probabilità da un referendum confermativo, e quindi con tempi molto lunghi. Da più parti si è affermato che una simile riforma si tradurrebbe in una minore indipendenza della magistratura, venendo così a ledere quella separazione dei poteri che è un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale e di ogni liberal-democrazia. Da parte di vari giuristi si è già prospettata l’ipotesi che i principi fondamentali del nostro ordinamento non possano essere modificati nemmeno con legge costituzionale, ma solo con il ricorso ad una Costituente. Quale che sia la posizione corretta su questo punto, è evidente che una riforma quale quella preparata dal ministro Nordio, anziché snellire il funzionamento della giustizia civile e penale e rispondere agli impegni assunti con il PNRR, porterebbe ad ulteriori aggravi nei tempi e nel clima della nostra giurisdizione. Se a questo aggiungiamo lo scontro politico - non solo tra governo e opposizione ma anche all’interno di ciascuno dei due schieramenti - determinato dalla volontà di trattare più o meno contemporaneamente non solo la riforma della giustizia ma anche il Premierato e l’Autonomia differenziata, è inevitabile concludere che il governo non sta rispondendo in maniera adeguata all’impegno preso di procedere di pari passo tra investimenti consentiti dal PNRR e riforme ad esso correlate. Percorsi rieducativi e riparazioni per i minori con comportamenti irregolari o aggressivi di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2024 In vigore da venerdì i nuovi interventi attivabili dalla procura minorile. Possibile costruire progetti con attività di volontariato e coinvolgendo le famiglie. che la procura e il tribunale per i minorenni possono mettere in campo per chi tiene condotte “irregolari” o aggressive. A introdurli è la legge in materia di prevenzione e contrasto del bullismo e del cyberbullismo (legge 70 del 2024), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 maggio e in vigore da venerdì”, giugno. L’articolo 2 della nuova legge riscrive infatti l’articolo 25 della legge istitutiva del tribunale per i minorenni (regio decreto 1404 del 1934), ora rubricato “Misure rieducative”. Sono misure coercitive di intervento non penale. A differenza degli interventi penali, possibili solo se il minore ha almeno14 anni e se ha commesso un reato, per applicare queste misure non è prevista un’età minima e non sono tipizzate le condotte devianti che possono farle scattare. Con la nuova formulazione si concentra nelle mani della procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni l’attività di impulso (mentre finora erano vari i soggetti che potevano riferire le condotte irregolari al tribunale minorile). D’ora in poi, in pratica, il Pm minorile “quando abbia acquisito la notizia che un minore degli anni 18” dia “manifeste prove di irregolarità della condotta o del carattere”, oppure tenga “condotte aggressive, anche in gruppo, anche per via telematica, nei confronti di persone, animali o cose ovvero lesive della dignità altrui”, una volta assunte le informazioni necessarie, “verifica le condizioni per l’attivazione di un percorso di mediazione”. Oltre a questo primo rimedio, è ora riconosciuta al Pm minorile la facoltà di chiedere al tribunale per i minorenni, con l’avvio di un procedimento nel quale resta salva l’assistenza del difensore e si procede (nei casi previsti dal Codice di procedura civile) alla nomina di un curatore speciale del minore, l’emissione di un decreto motivato, previo ascolto del minore e dei genitori, o degli altri esercenti la responsabilità genitoriale, con cui disporre lo “svolgimento di un progetto di intervento educativo, con finalità rieducativa e riparativa, sotto la direzione e il controllo dei servizi sociali”. Le possibilità si allargano, quindi, rispetto alle due dettate finora dalla norma: l’affidamento del minore ai servizi sociali o il collocamento in una struttura. La nuova disposizione punta su un intervento del Pm minorile che si articola diversamente a seconda dei casi: un primo intervento diretto, che consiste in un percorso di mediazione penale minorile (Dpr 448 del1988); nei casi più difficili, la possibilità di chiedere al tribunale per i minorenni di emettere un decreto che preveda, in modo più articolato “gli obiettivi e la durata del progetto di intervento educativo, che può prevedere anche lo svolgimento di attività di volontariato sociale”. Non solo, ma per “sviluppare nel minore sentimenti di rispetto nei confronti degli altri” e “alimentare dinamiche relazionali sane e positive tra pari e forme di comunicazione non violente”, il progetto di intervento educativo può prevedere “la partecipazione a laboratori teatrali, a laboratori di scrittura creativa, a corsi di musica e lo svolgimento di attività sportive, attività artistiche e altre attività”. In concreto, il contenuto del progetto deve essere definito dal servizio sociale, che deve coinvolgere anche i genitori del minore, “salvo che ciò sia assolutamente impossibile”. Il progetto può anche prevedere la partecipazione del nucleo familiare con un percorso di sostegno all’esercizio della responsabilità genitoriale. Del percorso e degli esiti del progetto deve dare conto una relazione che i servizi sociali devono trasmettere (dieci giorni prima della conclusione del progetto o annualmente) al tribunale per i minorenni, il giudice, sulla base della relazione, può dichiarare concluso il progetto, oppure disporre la sua continuazione o adottare un nuovo progetto. Bartolomeo Romano: “I governi cambiano, un controllo politico dei pm non avrebbe senso” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 giugno 2024 Riforma costituzionale della separazione delle carriere, del Csm e dell’Alta Corte: ne parliamo con il professor Bartolomeo Romano, consigliere giuridico del ministro della Giustizia Nordio. Si tratta di una riforma contro la magistratura? Assolutamente no. È una riforma a favore di tutti i cittadini e in senso più largo di tutti coloro i quali sono coinvolti in qualsiasi posizione in una vicenda giudiziaria: siano essi italiani, comunitari, extracomunitari. È una riforma di civiltà che non è contro nessuno, ma è a favore di tutti. Il suo riferimento agli “stranieri” fa venire in mente il fatto che il Governo invocò la separazione quando la giudice Apostolico disapplicò il decreto Cutro. Ma lì stavamo parlando di una sezione civile. Non fa male alla riforma essere strumentalizzata in maniera sbagliata? Sono abituato a parlare del merito delle riforme, non di argomentazioni che possano eventualmente distrarre dal cuore del dibattito giuridico. Se è vero che questa è una riforma molto attesa dall’avvocatura, c’è però il risvolto della medaglia da taluno indicato: ossia un pm trasformato in un prosecutor statunitense... Non vedo nessun pericolo in tal senso: si tratta, semplicemente, di rendere più stabile, più professionale, una funzione che già viene svolta dai pm italiani. Con la riforma si mette in chiaro quello che già è delineato dall’articolo 111 della Costituzione e dal processo accusatorio del 1989. Ma sono gli stessi pm ad ammettere: va bene, fateci un Csm tutto per noi, separateci dai giudici e vedrete quanto potenti possiamo diventare... Se alcuni pubblici ministeri dicessero una cosa del genere sarebbe veramente paradossale, perché riconoscerebbero - loro stessi - di non sapersi autodeterminare e di superare i limiti della prudenza. Penso proprio che sia una posizione dialettica a cui non credono neanche loro. Una posizione rafforzata del pm non potrebbe essere controbilanciata dall’inserimento dell’avvocato in Costituzione? Questa era una ipotesi che lo stesso ministro Nordio aveva pubblicamente annunciato più volte. Il punto è verificare se potrà, durante i lavori parlamentari, essere inserita in questo ddl o se farà un percorso autonomo e parallelo. Certo è che il riconoscimento dell’avvocato in Costituzione è una misura assolutamente ragionevole e concretamente possibile. Molti magistrati dicono: in primo grado si hanno il 50% delle assoluzioni, quindi non c’è alcun appiattimento del giudice sul pm... Penso che ci siano troppe azioni penali non sorrette da indagini approfondite e serie e che questo sia frutto dell’idea che nessuno ne risponde poi successivamente. Il fatto che ci siano un pm specializzato e un giudice autonomo, terzo e imparziale, probabilmente indurrà ad una maggiore prudenza nella valutazione che i pm oggi fanno della possibilità di sostenere l’accusa in giudizio. Così probabilmente diminuirà il numero di procedimenti coltivati senza un adeguato approfondimento. Perché non è stato toccato il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, considerato che spesso Nordio ha detto che si è trasformata in arbitrio? Evidentemente non c’è stata una convergenza da parte di tutte le forze politiche. Si tratta, però, probabilmente di un aspetto diverso da quello che oggi viene toccato nel disegno di legge costituzionale. A proposito di iter della riforma. Se viene abbinata in Commissione Affari Costituzionali della Camera insieme al premierato non rischia l’affossamento? Sono due riforme molto diverse che è giusto camminino su binari paralleli. Bisogna scongiurare il rischio che si sottoponga ai cittadini, se ci dovesse essere il referendum, un unico quadro complesso. Quindi confido che entrambe le riforme proseguano su due strade parallele. Un altro pilastro della riforma è il sorteggio puro per i togati. Se in fase di discussione parlamentare si dovesse andare verso quello temperato, il risultato di depotenziare il potere deviato delle correnti sarebbe comunque raggiunto? Entrambi i tipi di sorteggio sarebbero soluzioni che superano l’attuale situazione. Io sono stato quattro anni e mezzo al Csm e ho potuto avvertire che, al di là del valore delle singole persone, l’organo era assolutamente governato dalle correnti. Quindi cercare di recidere nel Csm (organo di rilievo costituzionale) questo legame, che pur sopravviverà ovviamente all’interno dell’Anm, mi sembra assolutamente opportuno. I favorevoli alla separazione da un lato dicono altresì che occorrono valutazioni di professionalità più stringenti perché non tutti i magistrati sono all’altezza, dall’altro lato però appoggiano il sorteggio per il Csm, dove potrebbe quindi andare una toga “scarsa”. Non le pare contraddittorio? Innanzitutto, sotto il primo versante della domanda, sono convintissimo che la separazione delle carriere comporterà una valutazione di professionalità più rigorosa e seria di quanto non avvenga attualmente, perché ci saranno due percorsi paralleli, uno per i pm e uno per i giudici. Sotto il secondo profilo, penso che qualora per il Csm fosse sorteggiato un magistrato non particolarmente bravo è chiaro che in un organo collegiale questo rileverebbe assai poco. Se tra decine di magistrati, di avvocati e professori ci fossero due o tre componenti non all’altezza non sarebbero in grado di fare gran danno. Ricordo che non c’è nessuna decisione al Csm che venga presa in modo monocratico. Un’altra obiezione che fanno è: tutti gli organi costituzionali vengono eletti - il Parlamento, la Corte costituzionale, ad esempio - e solo il Csm, che è anch’esso un organo di rilevanza costituzionale, deve essere sorteggiato... Come è noto la Corte costituzionale ha una composizione mista: un terzo è nominato, su scelta assolutamente discrezionale, dal Presidente della Repubblica e quindi non interviene un’elezione dell’organo nella sua interezza. Sotto il secondo profilo il sorteggio è una soluzione possibile, tanto più se fissato in Costituzione. Ci saranno due concorsi separati? La riforma lascia aperto questo punto, vedremo nel dibattito parlamentare; ma non mi sembra una questione decisiva. Alta Corte disciplinare: perché è stata prevista solo per la magistratura ordinaria? Perché la riforma riguarda la magistratura ordinaria. E nel Csm attualmente c’è una sezione disciplinare composta da membri che allo stesso tempo sono anche componenti delle commissioni e del plenum e decidono della carriera ordinaria del magistrato. Ciò non va bene. Del resto, per quanto riguarda gli avvocati da anni si è fatta una riforma che prevede una separazione fra il Consiglio dell’ordine degli avvocati e chi si occupa invece del profilo disciplinare. Sarà possibile costruire un dialogo costruttivo con l’Anm? Solo evitando di fare confusione, come talvolta accade. Innanzitutto la riforma non tocca in alcun modo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, né di quella giudicante né di quella requirente. In secondo luogo, il pm non è né sarà in alcun modo sottoposto a un controllo dell’esecutivo, come è giusto che sia già dal punto di vista culturale. Ma anche per una ragione pratica. Quale? Ogni governo non è, per fortuna, eterno e quindi si rischierebbe di mettere il pm sotto il controllo del governo che verrà, magari di diversa coloritura politica: non converrebbe a nessuno. Quindi, se sgombriamo il campo da paure che non sono in alcun modo legate alla riforma e parliamo dei contenuti concreti, credo che lì un possibile confronto tecnico ci possa essere. Naturalmente con la consapevolezza che è il Parlamento che fa leggi. Pavia. La denuncia di Antigone: “Qui detenuti fragili senza sostegno” di Maria Fiore La Provincia Pavese, 10 giugno 2024 La visita al carcere di Torre del Gallo dell’associazione che si occupa di reclusi: “Inaccettabili le condizioni igienico-sanitarie trovate in alcuni reparti, le autorità intervengano”. Sovraffollamento, ma anche condizioni igienico-sanitarie al limite in alcuni reparti e una situazione definita “drammatica” soprattutto tra i detenuti più fragili. È l’esito della visita annuale di Antigone per monitorare le condizioni nel carcere di Torre del Gallo. Gli osservatori hanno trovato, nel reparto osservazione al piano terra del carcere, un detenuto affetto da sclerosi multipla “che dorme in una cella con il letto con le spondine, assistito dal compagno su base volontaria”. “La struttura - aggiungono gli osservatori dell’associazione che tutela i detenuti - si trova in una situazione di sovraffollamento con 680 presenze a fronte di una capienza regolamentare di 515, ma effettiva di 453, vista la chiusura del primo reparto e di parte dell’articolazione di salute mentale, con un tasso di sovraffollamento reale del 150%”. Nel corso della visita gli osservatori si sono soffermati in particolare sulle condizioni igienico-sanitarie nell’istituto, “rimaste invariate rispetto alla visita precedente, del 5 ottobre 2023 - spiega Valeria Verdolini, presente alla visita -. Provvederemo a inviare una relazione della visita al garante, al Provveditorato e ad Asst Pavia”. Già nella precedente visita era presente un’infestazione di cimici del letto (non del tutto debellata nel padiglione C e nella biblioteca, chiusa per infestazione). “Al primo piano il reparto “isolamento” presenta una scarsa illuminazione e aerazione - spiegano ancora gli osservatori di Antigone -. Un detenuto nell’ultima cella si trova in una stanza in cui sono state rotte le pareti della sala bagno. Dalla cella, da cui già perveniva un forte odore di urina, durante la visita il detenuto ha rotto il wc con un calcio. Le condizioni dell’intero reparto, dove si trovano 17 persone, sono inaccettabili”. Preoccupazioni anche per il padiglione dei detenuti con problemi psichiatrici: “Le 12 persone presenti sono assistite ma non quotidianamente sul piano della manutenzione della cella e l’igiene personale. In una delle sezioni destinate ai cosiddetti “protetti” abbiamo incontrato un detenuto che presentava bruciature sulle braccia. In questi reparti le persone con gravi fragilità psichiche non sono assistite dal punto di vista della cura personale. Chiediamo una verifica delle autorità e se necessaria una chiusura del reparto di isolamento”. Pisa. Maratona oratoria dei penalisti per denunciare la grave situazione delle carceri italiane La Nazione, 10 giugno 2024 Gli avvocati chiedono interventi urgenti per migliorare il sistema penitenziario e garantire i diritti fondamentali delle persone. Il direttivo della Camera Penale di Pisa “A. Cristiani”, aderendo all’iniziativa assunta dalla Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane, organizza per mercoledì 12 giugno una ‘maratona oratoria’ in piazza Vittorio Emanuele, dalle 18 alle 21 “per denunciare e dare voce a coloro che non possono parlare, perché si focalizzi l’attenzione sulla drammatica ed intollerabile situazione delle carceri italiane”. “Da inizio anno - spiegano dalla Camera Penale pisana - 39 persone detenute, sia in corso di pena che ancora in custodia cautelare, hanno scelto di togliersi la vita e questi dati allarmanti non possono essere più ignorati. “Non c’è più tempo!” gridano le camere penali di fronte all’indifferenza della politica, che non affronta il problema in alcun modo ed omette da sempre di intervenire in modo efficace per migliorare un sistema penitenziario anacronistico e che rappresenta la negazione di tutti i diritti, oltre che il palese fallimento della nostra società”. “Il nostro sistema penitenziario - continuano i penalisti pisani - per come strutturato è contrario ai diritti fondamentali della persona, la permanenza in carcere in Italia è una pena di morte velata e i dati relativi a questi suicidi lo dimostrano. Non possiamo dimenticarci di queste persone solo perché indagate o condannati per un reato, la politica deve intervenire e non permettere più questo scempio”. Si prevedono numerosi interventi da parte di tanti avvocati penalisti (e non) del foro di Pisa, operatori del diritto, rappresentanti di associazioni che si alterneranno ai microfoni. Gli interventi saranno intervallati dall’ascolto di alcuni frame selezionati di brani musicali a tema, commentati dall’avvocato Fabrizio Bartelloni, associato alla Camera penale di Pisa ed esperto di musica di autore. Milano. Renato Vallanzasca rivuole i permessi per uscire dal carcere e frequentare una comunità di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 10 giugno 2024 Legali e familiari: “Ha una malattia degenerativa, non ragiona più”. Renato Vallanzasca torna in tribunale. Sarà presente anche lui, il prossimo 19 giugno, all’udienza davanti ai giudici del tribunale di Sorveglianza di Milano chiamati a decidere sul reclamo presentato dai suoi avvocati - Paolo Muzzi e Corrado Limentanti - contro la decisione di revocare i permessi all’ex protagonista della mala milanese negli anni Settanta e Ottanta, che una volta a settimana poteva lasciare il carcere di Bollate per frequentare una comunità terapeutica. Le immagini di repertorio che lo ritraggono dietro le sbarre sono un lontano ricordo: René soffre di una malattia degenerativa, un “decadimento cognitivo” che spinge da tempo chi gli è vicino a chiedere misure alternative alla detenzione. Il 4 maggio Vallanzasca ha compiuto 74 anni. Da mezzo secolo è in carcere per scontare quattro ergastoli frutto di rapine, omicidi e sequestri di persona. E pensare che l’ultimo reato, commesso il 14 giugno 2014 - esattamente dieci anni fa - fu di tutt’altra caratura criminale ma gli costò comunque la semilibertà: all’Esselunga di viale Umbria aveva messo in borsa due paia di boxer, un paio di cesoie e del concime per piante. Processo per direttissima, un’altra condanna, perdita dei benefici. “Nessuno si è chiesto, al contrario di quello che si fa per altri, perché un uomo che ha riconquistato con tanta fatica la luce del sole rubi un paio di mutande, vanificando gli sforzi di anni. Nessuno si è chiesto se fosse già malato”, ha detto all’Ansa nei giorni scorsi l’ex moglie Antonella D’Agostino, che ha fatto un appello affinché il (fu) bandito possa uscire dal carcere ed essere curato in una struttura idonea. “Lasciamo che muoia in pace e non da solo. Io non sono più sua moglie, ma non sopporto saperlo così, come non lo sopporterei per nessun essere umano”. Il 19 giugno si gioca comunque un’altra partita: quella per fargli ottenere di nuovo almeno i permessi. “Perché così potremmo cercare di introdurlo in altri ambiti - ragiona l’avvocato Limentani -. Sì, anche lui sarà all’udienza”. Anche l’anno scorso si presentò: “Per me è stato faticoso venire qua oggi - disse Vallanzasca al giudice - ho le mani a pezzi per le manette, mi procurano dolore ai polsi”. Prosegue il legale: “In questo anno è peggiorato. Il problema è che siccome in carcere non sono in grado di seguirlo nella maniera corretta, gli danno anche tranquillanti, psicofarmaci che lo buttano giù. A volte è difficile capire come sta. Anche per noi che lo andiamo a trovare. Non è in grado di fare un ragionamento, un discorso compiuto, ha difficoltà nell’eloquio e nella scrittura. È seguito da un detenuto assegnato dal carcere, che gli fa da assistente e lo aiuta per i bisogni quotidiani, dal vestirsi al lavarsi. È chiaro che non può migliorare, la malattia degenerativa può essere soltanto rallentata. Con questa udienza ci giochiamo molto: speriamo di convincere il tribunale a ripristinare i permessi che un altro magistrato, per la seconda volta, ha tolto”. Nel frattempo, prosegue la ricerca di una struttura alternativa alla quale chiedere in futuro di ospitarlo. “Renato sta male, malissimo. Ha pochi momenti di lucidità. Chi va a colloquio con lui mi racconta che la malattia degenerativa di cui soffre avanza. Cosa aspettano a farlo uscire? Di lui resta ormai solo il nome”, le parole all’Agi di Tino Stefanini, vecchio componente di quella che fu la banda di Vallanzasca. Roma. “Da volontario a sacerdote, accompagnato da un ex brigatista” di Angelo Picariello Avvenire, 10 giugno 2024 Al seminario Caritas sulla giustizia riparativa il racconto di don Enrico Perlato: l’incontro con Franco Bonisoli lavorando con i Salesiani ad Arese, poi la vocazione, oggi è “mediatore” a Oristano. La Caritas punta sulla giustizia riparativa come strumento educativo di riconciliazione e prevenzione dei conflitti, la politica meno. Nella due-giorni organizzata dalla Caritas italiana alla Casa Bonus Pastor a Roma, per fare il punto sul progetto sperimentale nazionale che coinvolge 8 diocesi è emersa una realtà a due facce. Da un lato il coinvolgimento ampio di scuole, parrocchie, associazioni, che ha coinvolto quasi 7mila persone e dall’altro una situazione di incertezza denunciata dagli operatori e definita “pericolosa” dall’ex magistrato di Manipulite Gherardo Colombo, che da presidente della Cassa delle ammende ha scelto di finanziare alcuni progetti di sensibilizzazione sul tema. Ma, a due anni dalla riforma Cartabia, mancano ancora i decreti attuativi, negli istituti di pena prevale l’incertezza, e segnano il passo vecchi e nuovi progetti. Dalla giustizia riparativa alla vocazione sacerdotale e ritorno. C’è anche la storia, semplice e un po’ incredibile, di don Enrico Perlato, sacerdote della Sardegna di origini brianzole, a illuminare il progetto Caritas sulla giustizia riparativa. Una sorta di alleanza fra Vangelo e principi della Costituzione, sulla centralità della persona in nome della conciliazione e della prevenzione dei conflitti. Don Perlato, ex responsabile della pastorale giovanile della Sardegna, si è diplomato il mese scorso al master di giustizia riparativa promosso all’università di Sassari dalla professoressa Patrizia Patrizi, referente scientifica del progetto Caritas che coinvolge 8 diocesi italiane, e diventerà ora responsabile della giustizia riparativa della Caritas di Oristano. Al suo fianco, nel suo cammino vocazionale - ed è la singolarità di questa storia - don Perlato è stato accompagnato da un ex della lotta armata. Le parti si invertono, dal male può nascere il bene. Franco Bonisoli, uno dei componenti del commando di via Fani, da anni impegnato nella promozione di percorsi di riconciliazione nel gruppo dell’”Incontro” - è quello che più lo ha incoraggiato quando, da volontario impegnato con i salesiani di Arese, ha scoperto la sua vocazione. “Mi accompagnò personalmente in seminario, il primo giorno, mi fece lui il letto - ricorda con affetto don Perlato -. Ed è sempre lui che mi ha messo in contatto con la professoressa Patrizi, dal momento che sentivo il desiderio di approfondire la giustizia riparativa, che ha segnato la mia vita, in modo da poter diventare un mediatore”. “Scherzosamente mi definisce il suo “consigliere spirituale laico”, conferma Bonisoli, che è stato anche testimone alla sua ordinazione sacerdotale, insieme ad Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Br, altro punto di riferimento nella sua vita. “Nella vita di ciascuno arriva sempre il momento di intraprendere il cammino alla ricerca della verità di sé stessi e della propria vocazione”, racconta don Perlato. “Questo mio cammino è iniziato nell’oratorio della mia parrocchia (a Varedo, in Brianza): lì ho avuto modo di scoprire la mia passione educativa e per l’impegno in ambito caritativo, iniziando - nel mentre - un cammino di discernimento vocazionale. Lavorando da educatore con i Salesiani di Arese, con i giovani in difficoltà (dal 2001 al 2008) mi hanno insegnato a dare davvero a dare la vita per questi ragazzi. In questo contesto ho incontrato Franco Bonisoli, è stato don Luigi Melesi già direttore del centro di Arese e cappellano di San Vittore, a mettermi in contatto. Franco nel sostegno a quei ragazzi, segnati da percorsi tortuosi con la legge, era un esempio di come si possono riconoscere gli errori e ricominciare: li ho avuto modo, crescendo, di scoprire la mia passione educativa e l’impegno in ambito caritativo, iniziando - nel mentre un cammino di discernimento vocazionale. Con Franco è nata una grande amicizia e mi ha fatto conoscere la Sardegna, dove il suo percorso di riconciliazione ebbe inizio, grazie all’allora cappellano del carcere di Sassari, don Salvatore Bussu, che un giorno si inventò lo “sciopero” della Messa di Natale per denunciare le condizioni disumane in cui erano reclusi i detenuti in massima sicurezza”. E qui inizia l’aspetto più straordinario della storia: “Confrontandomi con Franco, ho trovato in lui un sostegno fraterno e uno stimolo a guardare avanti con speranza e determinazione, ho deciso nel 2008 di intraprendere il cammino verso il sacerdozio, in questa realtà inedita: la Sardegna. La sua continua a essere una presenza sicura, discreta e preziosa. Da 10 anni sono presbitero nella diocesi di Oristano, l’impossibile è diventato possibile e la speranza generativa. E in questo nuovo cammino con la giustizia riparativa in diocesi so di avere sempre al fianco Franco e Agnese. La loro testimonianza - conclude don Perlato - è “profezia” e fonte di speranza in questo tempo in cui nel cuore dell’uomo rischia di prevalere, nelle piccole come nelle grandi vicende del mondo, il desiderio di cercare il “nemico” a ogni costo”. Meno famiglia, poca città: lo sguardo dei giovani su un futuro non scritto di Enzo Risso Il Domani, 10 giugno 2024 Nella dimensione percettiva delle persone la relazione tra l’individuale e il collettivo subirà un’evoluzione nei prossimi 10 anni. Per il 58 per cento degli italiani conterà sempre di più la collettività, l’essere insieme. Come cambierà nei prossimi anni la nostra società, il nostro modo di vivere e relazionarsi? Nessuno ha la sfera di cristallo e le variabili sono molteplici, ma le scelte che fanno le persone sono basate sulle sensazioni che aleggiano sul futuro prossimo e nel giorno in cui si va alle urne per le elezioni europee è interessante vedere quale idea di futuro hanno le persone. La società di domani è un divenire complesso e articolato. “Il futuro è aperto. Non è predeterminato”, diceva Agnes Heller, esso non è più caratterizzato da identità fissate e da una struttura ordinata, ma ha assunto sempre di più una dimensione di flusso costante, di mutamento perpetuo, di divenire non lineare. Il processo di cambiamento sembra destinato a intaccare alcuni paradigmi relazionali e individuali consolidati da tempo. Nella dimensione percettiva delle persone la relazione tra l’individuale e il collettivo subirà un’evoluzione nei prossimi 10 anni. Per il 58 per cento degli italiani conterà sempre di più la collettività, l’essere insieme. Di fronte ai cambiamenti epocali in corso la società avverte l’esigenza di serrare le fila, di riconnettere relazioni, di rafforzare i legami. A sottolineare maggiormente la spinta verso il collettivo sono i giovani della Generazione Z (65 per cento), accompagnati dai residenti al sud (66 per cento) e da quelli che vivono nelle isole (68 per cento), nonché dalle persone che appartengono ai ceti popolari (61 per cento). Se la dimensione comunitaria e le relazioni dense saranno più ricercate e auspicate, al contempo, in una logica ossimorica della complessità, scenderà l’importanza della vita familiare. Per il 56 per cento degli italiani la dimensione familiare conterà di meno rispetto a oggi. Una percezione che è omogenea non solo nelle diverse coorti di età, ma anche nelle differenti classi sociali. A livello territoriale ci sono poche differenze, anche se il maggior calo dell’importanza delle relazioni familiari lo troviamo al sud (60 per cento) e nel centro Italia (59). Un altro aspetto che subirà alcune evoluzioni è quello legato allo stile di vita. Le persone proiettano sul futuro una sensazione di crescita della complessità esistenziale (67 per cento). La quota di italiani che prevede un ritorno a una maggiore semplicità esistenziale e a una maggiore connessione con l’ambiente e la naturalità è, invece, una minoranza risicata (33 per cento). La crescita della complessità esistenziale è avvertita dai giovani (69 per cento), dai residenti al sud (73) e dei ceti medio bassi (70) ed è trainata dalla dimensione delle trasformazioni tecnologiche. Per il 77 per cento del paese la tecnologia sarà sempre più importante e invasiva nella vita quotidiana delle persone. Su questa visione troviamo alcune differenze interessanti. Più freddi sull’importanza e l’invasività della tecnologia nella vita quotidiana sono i giovani della Generazione Z (65 per cento; 12 punti in meno della media), mentre immaginano una maggior pervasività i baby boomer (86 per cento), i residenti al nord (81 per cento a nord ovest e 83 a nord est), nonché il ceto medio (80 per cento, mentre i ceti popolari si fermano al 68 per cento). L’opinione sulle città - Ulteriori mutamenti significativi potrebbero cogliere altri due aspetti: la dimensione metropolitana e la relazione con l’autorità. Le percezioni proiettive dell’opinione pubblica spingono verso una direzione di riduzione sia del rispetto delle autorità, sia del valore di vivere nelle aree metropolitane. Per il 52 per cento degli italiani vivremo sempre di meno nelle grandi città. Un’opinione su cui non concordano i giovani, per i quali invece si vivrà di più nelle grandi città (54 per cento), mentre è particolarmente sospinta dalle generazioni più adulte (56 per cento dei baby boomer propende per l’abbandono delle metropoli). Sul fronte del rispetto verso l’autorità due terzi del paese ne prevede un netto calo (73 per cento). Una riduzione particolarmente avvertita tra i ceti popolari (76 per cento) e nelle regioni del mezzogiorno (75 per cento al sud e 76 nelle isole). La società che si paventa davanti agli occhi delle persone è una realtà in mutamento, in cui al crescere dei bisogni di legami e comunanza, fa da contraltare lo sfilacciarsi dei legami familiari; in cui lo stile di vita, sotto l’effetto della tecnologizzazione dell’esistenza, si incammina su una via sempre meno naturale e più complessa; in cui il riconoscimento dell’autorità sarà sempre più flebile e lo scontro tra vita rurale e metropolitana si divaricherà sempre di più. Una società, per dirla con Bauman, che si trova ad affrontare “sempre di più la sfida dell’incertezza, del vivere in un mondo di opportunità e rischi, piuttosto che in un mondo lineare e determinato”. Caporalato, più inchieste al Centro Nord. Tra gli sfruttati anche gli italiani di Antonio Maria Mira Avvenire, 10 giugno 2024 Il Rapporto dell’Altro Diritto, insieme all’Osservatorio Placido Rizzotto, sfata molti luoghi comuni: il lavoro sottopagato non riguarda solo i campi e le vittime non sono solo straniere. Sono ben 834 le inchieste avviate da 66 procure, circa la metà del totale, sullo sfruttamento dei lavoratori dopo l’approvazione dell’importantissima legge 199 del 2016, conosciuta come “legge anticaporalato”. Lo rivela il “Quinto Rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime” elaborato dal Centro di ricerca interuniversitario l’Altro Diritto, insieme all’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. Nella ricerca, coordinata dal professor Emilio Santoro, emerge un fortissimo aumento di queste inchieste. Nel precedente Rapporto erano, infatti, 458. Dei 376 nuovi casi di sfruttamento individuati, 249 sono relativi al biennio 2022-2023 e 127 agli anni precedenti. Illegalità diffusa in tutto il Paese, non solo al Sud. Più della metà delle inchieste riguardano, infatti, il Centro-Nord: 229 al Nord, 227 al Centro e 378 al Sud. Con una progressiva riduzione della forbice almeno a partire dal 2020. Non l’unico luogo comune da sfatare. Lo sfruttamento non colpisce solo gli immigrati e non riguarda solo il comparto agricolo. Infatti il 14% delle inchieste vede coinvolti lavoratori italiani. Su 834 notizie di sfruttamento complessive è stato possibile risalire al settore economico in 784 casi, così distribuiti: 432 nel settore primario (agricoltura, allevamento, pesca), 197 nel terziario (servizi) e 155 nel secondario (industria e edilizia). Se il settore primario conta al Sud il numero più elevato di casi, con 252 (il 58,3%), nel secondario, specie nel manifatturiero, lo sfruttamento si concentra al Centro, con 65 su 155 (il 41%), mentre nel settore dei servizi spicca il Nord, con 74 (il 38%). Molto importante è l’aumento delle inchieste nate da denunce dei lavoratori sfruttati. Si tratta di 33 denunce in più rispetto al precedente Rapporto, 29 relative agli ultimi due anni. E anche questo è merito della legge 199. Prima erano pochissime, poi tra il 2016 e il 2020 salgono al 10% dei procedimenti penali, fino al 18% del 2022, mentre il dato del 2023, sicuramente sottostimato, è comunque già superiore al 13%. Il Rapporto sottolinea come “i provvedimenti in cui si riscontra una denuncia dei lavoratori si concentrano in territori ove sono presenti sistemi di collaborazione tra le Procure ed altri attori o enti del territorio” che “dà ai lavoratori una prospettiva concreta di protezione e inserimento socio-lavorativo che rappresenta la molla capace a spingerli a raccontare le prevaricazioni subite”. Altri dati smentiscono la convinzione che i lavoratori sfruttati siano immigrati irregolari. In 116 delle 338 inchieste in cui sono coinvolti cittadini stranieri, lo sfruttamento ha riguardato solo lavoratori regolari, mentre in 151 erano sia regolari che irregolari: quindi in quasi il 79% delle inchieste le vittime sono titolari di un permesso di soggiorno. Di queste ben 114 (il 42%) coinvolgono cittadini stranieri il cui permesso è per richiesta di protezione internazionale o rilasciato per ragioni umanitarie. Questo dato, sottolinea il Rapporto, “conferma la tendenza a quella che è stata definita “profughizzazione” dello sfruttamento lavorativo”. Si tratta degli ospiti dei Cas, richiedenti asilo, che pur godendo di vitto, alloggio e una piccola somma giornaliera (il pocket money), avverte una condizione di bisogno che li spinge a farsi sfruttare, pur di mandare 400/500 euro alla famiglia. Ma con un grosso rischio. Infatti la legge prevede che deve essere allontanato dall’accoglienza chi ha un reddito superiore all’importo annuo dell’assegno sociale, pari ad euro 5.953,87 euro. “Questa situazione crea un cortocircuito, una situazione ideale per lo sfruttamento: sfruttatore e sfruttato hanno entrambi interesse a nasconderlo”. Uno sfruttamento che, come detto, non riguarda solo l’agricoltura. Così troviamo 17 inchieste sullo sfruttamento di lavoratori in attività di volantinaggio, 7 negli autolavaggi, 6 per vigilantes in centri commerciali o locali notturni. Crescono i casi di sfruttamento di commessi e addetti alle vendite, con 54 casi (26 al Sud e 17 al Centro), dove spesso lo sfruttamento è mascherato da formali contratti di lavoro che riportano condizioni di lavoro difformi da quelle effettivamente praticate. Appare invece “fortemente sottostimato” lo sfruttamento nel settore dei servizi di cura alla persona e di assistenza personale, appena 14 inchieste (4 al Nord, 4 al Centro e 6 al Sud) “dove l’emersione è resa quasi del tutto impossibile dalle mura domestiche in cui si svolge l’intera prestazione lavorativa”. Con casi di vera e propria “tratta di persone gestiti da organizzazioni criminali” che accertato, ad esempio, da un’inchiesta della Procura di Potenza sullo sfruttamento di più di ottanta donne moldave. Ultimo dato importante è che in ben 357 casi è stato indagato solo il datore di lavoro, senza il coinvolgimento del caporale, e di questi ben 153 riguardano il settore agricolo. Suicidio assistito. La Consulta decide che cosa può considerarsi “sostegno vitale” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 10 giugno 2024 Segnatevi questa data: 19 giugno 2024. Quel giorno la Corte costituzionale riprenderà fra le mani un argomento che aveva trattato nel 2019, dopo il caso del suicidio assistito in Svizzera di Dj Fabo. All’epoca scrisse una sentenza epocale per il nostro Paese. In sostanza i giudici dissero che sì, chi lo avrebbe richiesto avrebbe potuto spegnere il cuore con dolcezza, ma a quattro precise condizioni. Si stabilì che avrebbe avuto accesso alla dolce morte la persona tenuta in vita da trattamento di sostegno vitali; affetta da una patologia irreversibile; con una patologia fonte di sofferenze intollerabili e, infine, soltanto se pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. A quel punto i parlamentari avrebbero dovuto legiferare sul tema del fine vita, come la stessa Corte si era augurata che succedesse. Ma sono passati cinque anni e siamo ancora al palo, anche se ricordiamo tutti Mario, il primo in Italia a ottenere l’ok per il suicidio assistito dopo le verifiche (lunghissime) sui requisiti richiesti dalla Consulta. Mario morì a casa sua, nelle Marche, due anni fa. Ma ci sono ancora persone costrette a chiudere gli occhi in una stanza anonima e sconosciuta in Svizzera. E qui veniamo a quella data: il 19 giugno. Stavolta la Corte costituzionale si pronuncerà su uno dei requisiti della vecchia sentenza: il trattamento di sostegno vitale. I fatti risalgono all’8 dicembre 2022 quando Marco Cappato - volto dell’Associazione Luca Coscioni - aiutò un uomo di 44 anni, Massimiliano, a raggiungere la Svizzera per morire. Massimiliano era affetto da sclerosi multipla che lo aveva paralizzato quasi del tutto fra mille sofferenze. In Italia (assistito dall’avvocata Filomena Gallo che coordina il team legale della Coscioni) non avrebbe avuto diritto al suicidio assistito perché non legato a un trattamento di sostegno vitale in senso stretto (ad esempio la ventilazione meccanica). Ed è proprio questo l’argomento che la Corte affronterà. 11 gip di Firenze chiamato a decidere sulla sorte giuridica di Cappato ha chiesto prima la pronuncia della Consulta. Che cosa può considerarsi sostegno vitale? Essere totalmente dipendente da altri per sopravvivere (come lo era Massimiliano) equivale o no a un trattamento di sostegno vitale? Lo è la chemioterapia per i malati oncologici? Mercoledì 19 sapremo. Noi tutti e Marco Cappato, che rischia 12 anni di carcere. Ungheria. Ilaria Salis al Parlamento Europeo: scarcerazione e processo sospeso di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 10 giugno 2024 In base al “Protocollo 7” sui “Privilegi e le immunità dell’Unione Europea” l’attivista milanese lascerebbe i domiciliari in caso di vittoria. Se fosse confermata l’elezione di Ilaria Salis a europarlamentare, la 39enne andrebbe scarcerata e il processo a suo carico sarebbe sospeso. Ad annunciare la vittoria dell’attivista milanese, ai domiciliari a Budapest, con braccialetto elettronico, è stato Nicola Fratoianni, dal comitato di Avs, partito che aveva candidato la donna. È in base al “Protocollo 7” sui “Privilegi e le immunità dell’Unione Europea” che Salis lascerebbe il carcere in caso di vittoria. L’articolo 9 prevede che i membri dell’Europarlamento “beneficiano, sul territorio nazionale, delle immunità riconosciute ai membri del Parlamento del loro Stato” e “non possono, sul territorio di ogni altro Stato membro, essere detenuti né essere oggetto di procedimenti giudiziari”. Secondo il collegio difensivo di Salis la norma è retroattiva e valida anche per i fatti avvenuti prima dell’elezione. Non varrebbe solo in caso di arresto in flagranza di reato o sentenza definitiva come prevede anche la Costituzione italiana per deputati e senatori. L’articolo 7 sancisce che “nessuna restrizione di ordine amministrativo o di altro genere è apportata alla libertà di movimento dei membri del Parlamento europeo che si recano al luogo di riunione del Parlamento europeo o ne ritornano”. Se eletta, dopo la proclamazione ufficiale, godrebbe dell’immunità parlamentare e di conseguenza dovrebbe essere scarcerata. Medio Oriente. La Cisgiordania punita: disoccupazione e chiusure di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 giugno 2024 La crisi economica è esplosiva. I manovali palestinesi privati dei permessi, l’Anp dei fondi necessari ai servizi. Si rischia il collasso. Abu Ahmed da otto mesi si adatta a tutto pur di sopravvivere. Per anni, ogni mattina alle 5, ha lasciato il suo villaggio a qualche chilometro da Betlemme, ha raggiunto il “posto di blocco 300” dell’esercito israeliano e, dopo una lunga attesa in fila con altre migliaia di pendolari, è entrato a Gerusalemme per raggiungere il suo posto di lavoro in una grande pasticceria che rifornisce caffè, hotel e ristoranti della zona ebraica della città. Ora non più. “Dopo il 7 ottobre mi è stato sospeso il permesso di lavoro e non posso più uscire dalla Cisgiordania - ci dice - Quel lavoro a Gerusalemme era molto importante per il sostentamento della mia famiglia. I proprietari della pasticceria sono pronti a riprendermi ma c’è un divieto (del governo Netanyahu, ndr) che riguarda tutti i palestinesi della Cisgiordania. Ora faccio ciò che capita pur di guadagnare almeno quanto serve per mangiare”. Abu Ahmed è uno dei 130mila palestinesi ai quali dopo l’attacco di Hamas, Israele non permette più di lavorare nel suo territorio e a Gerusalemme. Una punizione collettiva che si aggiunge all’enorme difficoltà che questi e tutti gli altri lavoratori nei Territori occupati incontrano da sempre nel trovare un lavoro stabile. La debolezza dell’economia palestinese e gli elevati livelli di disoccupazione sono in gran parte il risultato di 57 anni di occupazione militare israeliana. Le restrizioni limitano la crescita del Pil palestinese e la creazione di sufficienti posti di lavoro. Una valvola di sfogo è l’impiego in Israele, principalmente nei cantieri edili e in agricoltura, dei manovali della Cisgiordania, ma Netanyahu e i ministri dell’estrema destra appaiono determinati a confermare le ritorsioni decise nei giorni successivi al 7 ottobre. Dopo otto mesi, solo pochi palestinesi cisgiordani sono tornati ai loro impieghi in Israele. Non sorprende che la disoccupazione nei Territori occupati sia oggi superiore al 50%, secondo il rapporto presentato giorni fa dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) sull’impatto della guerra. Anche se questo dato è la conseguenza soprattutto dell’80% che si registra a Gaza devastata dall’offensiva militare israeliana, non passa inosservato il 32% di disoccupati in Cisgiordania. “La situazione in realtà (in Cisgiordania) è molto peggiore, perché i nostri dati non includono i palestinesi che hanno rinunciato a cercare un lavoro”, ha avvertito durante un briefing Ruba Jaradat, direttore regionale dell’Oil. “Con questo livello elevato di disoccupazione, le persone non saranno in grado di garantire il cibo alle loro famiglie - ha aggiunto Jaradat - Ciò ha un impatto negativo anche sulla loro salute, non spenderanno per curarsi e inoltre (a Gaza) anche se hanno soldi, non ci sono ospedali che possano far fronte a una situazione catastrofica”. I centri sanitari in Cisgiordania hanno visto calare progressivamente le prenotazioni per le visite specialistiche. “La sanità pubblica in Cisgiordania non può garantire molto oltre al pronto soccorso e alla chirurgia d’emergenza a causa della mancanza di fondi e tanti palestinesi si rivolgono ai centri privati per gli esami clinici. Al nostro ora ne vengono sempre meno. La gente non ha lavoro e non può pagare per la salute. Spesso curiamo gratuitamente i malati cronici e i bambini”, ci dice un medico di Betlemme. Le famiglie, nelle città e nei villaggi, si aiutano tra di loro. Associazioni religiose musulmane e cristiane assicurano cibo e medicine a quelle più in difficoltà, ma il bisogno è enorme e cresce con il passare delle settimane. Dall’inizio della guerra il Pil palestinese si è contratto di quasi il 33% - in prevalenza a Gaza, ovviamente - secondo i dati dell’Oil. E l’eventuale collasso finanziario dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) metterà a rischio decine di migliaia di impiegati pubblici che già fanno i conti con stipendi pagati irregolarmente e solo in parte. L’Agenzia di stampa palestinese Wafa scrive che “la soffocante crisi finanziaria che affligge il governo palestinese (in Cisgiordania, ndr) ha gettato pesanti ombre su settori vitali, sia governativi che privati, con pericolose ramificazioni che minacciano il collasso di alcuni”. La situazione dell’Anp - con debiti per miliardi di dollari - è peggiorata ulteriormente da quando il ministro delle finanze israeliano e uno dei leader dell’estrema destra, Bezalel Smotrich, ha ordinato il blocco all’origine dei fondi trasferiti dal governo palestinese alla Striscia. Questa decisione, insieme alle precedenti detrazioni unilaterali dalle entrate fiscali palestinesi e ai tagli alla fonte dei fondi per i sussidi alle famiglie dei prigionieri politici, ha esacerbato la crisi. Smotrich ha bloccato sino a oggi sei miliardi di shekel dell’Anp - un miliardo e mezzo di euro - con la motivazione della lotta ai “finanziamenti per i terroristi”. Una misura che sta aggravando, tra le altre cose, il debito del ministero della salute palestinese che non riesce più a pagare le aziende fornitrici di medicinali, attrezzature mediche, materiali per i laboratori e le dialisi. Se Israele continuerà a bloccare i fondi derivanti da dazi doganali e altre tasse che costituiscono il 70% delle entrate pubbliche palestinesi, non collasserà solo la sanità ma l’intera Anp, ha avvertito a fine maggio la Banca mondiale. Tunisia. Sonia Dahmani e gli altri: il bavaglio alla libertà d’espressione è sempre più stretto di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2024 Nei mesi che precedono le prime elezioni presidenziali, previste in autunno, da quando nel luglio 2021 il presidente tunisino Kais Saied avocò a sé gran parte dei poteri, stiamo assistendo a una repressione sempre più forte nei confronti della libertà d’espressione. Il principale strumento del bavaglio è il decreto-legge 54 sui reati informatici, entrato in vigore nel settembre 2022. L’articolo 24 del decreto prevede cinque anni di carcere e multe fino a 15.000 euro per chi usa le reti delle telecomunicazioni per produrre, inviare, diffondere “notizie false” o “dicerie” allo scopo di danneggiare, diffamare o istigare alla violenza contro altri, di minacciare la sicurezza pubblica o la difesa nazionale o di diffondere paura o per incitare all’odio. Le pene sono raddoppiate se la persona colpita è “un pubblico ufficiale o una figura equivalente”. Secondo i calcoli di Amnesty International e Human Rights Watch, dalla sua introduzione sono stati avviati procedimenti giudiziari nei confronti di oltre 70 oppositori, giornalisti, avvocati, difensori dei diritti umani e utenti dei social media. Alla fine di maggio, 40 di loro si trovavano in carcere. Le vicende del mese scorso sono assai preoccupanti. L’arresto in diretta tv dell’avvocata Sonia Dahmani, l’11 maggio, ha fatto scalpore. Quel giorno decine di agenti in borghese hanno fatto irruzione nella sede dell’Ordine degli avvocati, a Tunisi, arrestandola mentre i giornalisti Maryline Dumas e Hamdi Tlili, corrispondenti di France 24, stavano riprendendo la scena. Dopo aver rotto la loro videocamera, gli agenti della sicurezza hanno picchiato Tlili e l’hanno tenuto per qualche ora in stato di fermo. L’avvocata Dahmani è accusata di aver fatto commenti sarcastici, durante un programma televisivo, sulle dichiarazioni del presidente Saied secondo il quale i migranti provenienti dall’Africa subsahariana intendono stabilirsi in modo permanente in Tunisia. A suo carico sono aperte altre due indagini sempre per dichiarazioni critiche fatte in pubblico. Il 15 maggio, in una riunione col suo ministro della Giustizia, il presidente Saied ha dichiarato che “coloro che, attraverso i mezzi d’informazione, denigrano il loro paese non possono restare impuniti”. Un chiaro riferimento all’arresto dell’avvocata Dahmani e un chiaro preavviso di cosa sarebbe accaduto nei giorni successivi. Infatti, il 22 maggio il tribunale di primo grado di Tunisi ha condannato i giornalisti Bohren Bsaises e Mourad Zeghidi a un anno di carcere. Bsaises, noto volto televisivo e altrettanto nota voce radiofonica, è stato accusato di aver criticato le politiche del presidente Saied, in particolare lo scioglimento del Consiglio superiore della magistratura. A Zeghidi sono state addossate una serie di dichiarazioni e un post su Facebook in favore di un giornalista investigativo, Mohamed Boughalleb, che sta scontando una condanna a sei mesi di carcere per aver fatto domande a un ministro in merito alla spesa pubblica. *Portavoce di Amnesty International Italia Algeria. Vietato ai neri prendere i mezzi pubblici: l’apartheid ha un futuro brillante davanti a sé di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2024 Buongiorno Mauro, è vero, da due mesi è vietato agli africani (neri) di prendere i bus delle grandi distanze e i treni. All’interno delle città ciò è più o meno tollerato. Quanto ai taxi in città e fuori, ciò resta un pericolo. Infatti l’autista rischia il ritiro della patente e il passeggero l’arresto e la deportazione alla frontiera col Niger. È da Algeri, il 5 giugno scorso, che un vecchio amico impegnato nell’accoglienza dei migranti ha inviato la mail trascritta sopra. Scorrendo il suo messaggio la prima idea che mi è venuta in mente è stata quella di un nuovo ‘apartheid’. Si tratta di una parola afrikaans che significa letteralmente ‘separazione’ o ‘partizione’. Era il nome dato alla politica di segregazione razziale istituita nel 1948 dal governo al potere nel Sudafrica. Rimase in vigore fino al 1991 ed è stata attualizzata, come denunciato proprio da questo Paese, tra l’altro da Israele nei confronti del popolo palestinese. In molte altre parti del mondo è tornato senza vergogna. Nel Nord Africa, non da oggi, si pratica spesso con disinvoltura una politica di disprezzo per gli africani di origine subsahariana. Le testimonianze ricevute dai migranti di ritorno sono in questo senso inesorabili e precise. L’arco della cosiddetta ‘Africa bianca’, dal Marocco sino all’Egitto, si distingue per applicare forme anche estreme di stigmatizzazione nei confronti dei migranti o rifugiati ‘neri’ che cercano in quell’area lavoro, protezione o semplicemente una riva per andare in Europa. Insulti, minacce, ruberie, sfruttamenti e accuse di propagazione di tutti i mali possibili sono quanto più i migranti, con tristezza, raccontano. C’è chi ricorda, con amarezza, che molti di loro erano considerati puramente e semplicemente schiavi o cose. Nulla di nuovo sotto il sole, direbbe il saggio che si intendeva di umane vicende nella storia. La separazione o partizione si trova anzitutto dentro il cuore umano ogni qualvolta si esclude o mutila la coscienza e lo spirito che lo lega a se stesso, agli altri e alla trascendenza che lo spinge all’altrove. Seguono poi, e di conseguenza, le altre ‘partizioni’ o esclusioni. Quelle tra popoli, continenti, culture e immaginari simbolici. All’interno stesso delle società si sviluppano fenomeni violenti e discriminanti tra chi rivendica la pienezza dell’umano e chi si trova, suo malgrado, ad essere considerato uno scarto, superfluo e, talvolta, come i poveri, ‘pericoloso’ per l’ordine pubblico. L’apartheid ha probabilmente un futuro brillante dinnanzi a sé perché le società, nel loro insieme, non sembrano disposte a mettere in pratica quanto suggerito dal prezioso e disatteso articolo 3 della Costituzione italiana: ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese’. Finché le varie forme di organizzazione politica al potere, quali esse siano, saranno lontane o ostili a questo orientamento civico, l’apartheid troverà un terreno propizio per svilupparsi e creare società ogni volta più escludenti. Col rischio che, in definitiva, gli africani saranno i peggiori nemici degli africani. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia Stati Uniti. Dopo quasi 50 anni di carcere Leonard Peltier potrebbe ottenere la libertà di Chiara Catone La Discussione, 10 giugno 2024 Leonard Peltier, attivista nativo americano e prigioniero federale, continua a proclamare la propria innocenza per gli omicidi di due agenti dell’FBI avvenuti quasi 50 anni fa. Lunedì affronterà la sua prima udienza per la libertà condizionale in 15 anni. L’avvocato di Peltier, Kevin Sharp, ha affermato che il suo cliente, 79 anni, è “di buon umore” in vista dell’udienza presso il Federal Correctional Complex Coleman in Florida. Tra coloro che ne hanno chiesto il rilascio, Papa Francesco, il Dalai Lama, Nelson Mandela e Desmond Tutu. Sharp sottolinea che l’età avanzata di Peltier, il suo comportamento non violento in prigione e le sue condizioni di salute peggiorate dovrebbero essere considerati nella decisione sulla libertà condizionale. Durante l’udienza per la libertà condizionale del 2009, un funzionario dell’FBI ha sostenuto che il tempo non ha attenuato “la brutalità dei crimini” e che Peltier ha distorto i fatti. L’opposizione - Il direttore dell’Fbi, Christopher Wray, ha dichiarato che l’agenzia “rimane ferma” nella sua opposizione al rilascio di Peltier, citando i suoi appelli respinti e la sua fuga da una prigione nel 1979. Il 26 giugno 1975, gli agenti dell’FBI Jack Coler e Ron Williams si trovavano nella riserva di Pine Ridge per arrestare un uomo su mandato federale. Entrambi furono uccisi da colpi sparati a distanza ravvicinata. Peltier, membro della Turtle Mountain Band degli indiani Chippewa e attivista dell’American Indian Movement, è stato identificato come l’unica persona con un’arma capace di sparare i proiettili che uccisero gli agenti. Tuttavia, lo scontro a fuoco coinvolse decine di persone e due coimputati furono assolti. Durante il processo di Peltier nel 1977, non fu presentato alcun testimone che potesse identificarlo come l’assassino. Inoltre, il governo federale nascose un rapporto balistico che indicava che i proiettili mortali non provenivano dalla sua arma. Nonostante ciò, l’FBI ha sostenuto che la sua condanna è stata “giusta”.