Noi imam in 25 carceri italiane: per confortare, aiutare e prevenire il radicalismo di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 dicembre 2024 Chi sono e cosa fanno i ministri di culto che offrono servizio ai detenuti musulmani. Hamdan Al-Zeqri, delegato nazionale Ucoii per i rapporti con il Dap e gli istituti penitenziari: “Cerchiamo di dare un’assistenza spirituale ma anche sociale, orientativa, di prevenzione del suicidio, dell’autolesionismo, del fanatismo”. Nel 2015 è stato attivato un Protocollo d’intesa tra il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii) “con l’obiettivo di migliorare il modo di interpretare la fede islamica in carcere fornendo un valido sostegno religioso e morale ai detenuti attraverso l’accesso negli Istituti di pena di persone adeguatamente preparate”. L’ultimo rinnovo “è scaduto lo scorso ottobre, stiamo aspettando la conferma”, dice Hamdan Al-Zeqri, consigliere e delegato nazionale Ucoii per i rapporti con il Dap e gli istituti penitenziari. “Le carceri nelle quali noi guide religiose (uomini e donne) offriamo servizio ai detenuti di fede musulmana sono, al momento, 25: Brescia, Milano Bollate, Varese, Torino (adulti e minori), Vercelli, Genova, La Spezia, Parma, Modena e Castelfranco, Reggio Emilia, Piacenza, Terni, Verona, Sassari, Pesaro, Arezzo, Firenze (adulti e minori), Pisa, San Gimignano, Siena, Teramo, Viterbo, Caltanissetta”. Tra i detenuti più giovani la percentuale di stranieri, soprattutto provenienti da Paesi di religione islamica sta crescendo, don Luigi Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, si è fatto portavoce della richiesta di essere affiancato da un imam nella cura spirituale di questi ragazzi. “Ne siamo contenti, non è stato ancora individuato il ministro di culto che prenderà questo incarico. Siamo tutti volontari e non è facile”, dice Al-Zeqri, guida spirituale islamica per i detenuti nel carcere di Sollicciano, a Firenze. Si stimano circa 10mila detenuti di religione musulmana - “Nell’istituto penale Sollicciano, dove vado il venerdì, sono 150-200, la stima è di circa 10mila persone di religione musulmana detenute in carcere in Italia. Ma questo numero è più basso di quanti sono nella realtà, molte persone non dichiarano la loro appartenenza religiosa. Oltre allo stigma di essere stranieri, di essere detenuti, a volte hanno paura di essere etichettati ancora di più, per il loro essere musulmani”, continua Al-Zegri. “Noi imam interveniamo quando c’è un caso da seguire per prevenire certi fenomeni, come per esempio i conflitti etnici, l’autolesionismo e, a volte, per individuare problemi di radicalizzazione e di estremismi. Cerchiamo di coprire, per quanto possiamo, tutte le carceri, e di garantire una presenza costante”. L’imam di Sollicciano racconta che, in un programma radiofonico, che si chiama Liberi dentro, nato per creare un ponte “tra le carceri dell’Emilia-Romagna e il fuori, ogni venerdì c’è una trasmissione nella quale io ed un prete rispondiamo alle domande delle persone detenute musulmane su temi religiosi, sociali, sulla ricerca di riconciliazione, di perdono. È un progetto che è nato dalla pandemia, da aprile 2020, per cercare di essere accanto alle persone in carcere”, spiega. Prevenire la religione “fai da te” - “La nostra non è soltanto un’assistenza religiosa e spirituale, la nostra presenza ha un aspetto educativo molto forte. Tante persone riscoprono la fede dentro il carcere, quindi bisogna orientarli, prevenire non lasciarli alla religione “fai da te”. Noi imam cerchiamo di dare un’assistenza sociale, orientativa, di prevenzione del suicidio e del fanatismo. Molte persone in carcere sono disperate, c’è in qualche modo una radicalizzazione nella disperazione. In questi casi si perde la speranza, non si ha più niente da perdere, si diventa pericolosi sia per se stessi sia per gli altri”, continua Al-Zeqri. I ministri di culto di religione musulmana offrono consulenza anche negli istituti penali minorili. “Purtroppo nei minori musulmani c’è un’alta tendenza al suicidio e all’autolesionismo”. E spiega che “nell’Islam è assolutamente vietato l’autolesionismo, è uno dei peccati peggiori, e anche il suicidio è proibito”. “Collaboriamo con tutte le altre confessioni religiose” - In carcere “la solitudine è molto amplificata, c’è un rischio maggiore che ci si chiuda in se stessi, questo va affrontato con tutti gli strumenti a disposizione. Oltre alla preghiera in quello che definiamo il “venerdì della speranza”, noi dialoghiamo, ascoltiamo le domande e richieste, dal tappetino per pregare al rosario, dalla creazione di legami fino alla riconciliazione. Da quando ho iniziato, nel 2014, a frequentare le carceri, spesso mi è capitato di raccogliere richieste di riconciliazione con la persona ferita e la ricerca di ricostruire il legame con la propria famiglia. A volte”, dice l’imam, “i genitori non vogliono più saperne di un figlio che è stato arrestato perché se ne vergognano. Cerchiamo di accogliere una persona detenuta nel suo complesso, collaboriamo con tutte le altre confessioni e con tutte le figure all’interno del carcere: la collaborazione è molto importante per salvare una persona”. L’autostima “viene distrutta all’interno del carcere. C’è un alto analfabetismo sia culturale sia religioso. C’è una tendenza a non vedere più nella vita una luce. Inoltre, molti sono giovanissimi, senza documenti, non hanno mai avuto e non hanno una residenza. Certamente la collaborazione con la Chiesa Cattolica è importante, ad esempio, quando cerco un posto letto per ottenere la misura alternativa per una persona. Io sono a Sollacciano e don Gerardo, l’attuale vescovo, quando era il cappellano del carcere a volte mi sostituiva nei colloqui con i ragazzi quando non ci potevo andare. I ragazzi detenuti apprezzano la bellezza del dialogo interreligioso, hanno fiducia in noi, il fatto di vederci spesso entrare ed uscire insieme fa capire loro che lavoriamo per gli stessi obiettivi”. La riconciliazione tra il detenuto e la sua famiglia - Il pericolo della radicalizzazione “c’è sia per se stessi sia per gli altri. Quando una persona si trova in carcere, il suo progetto migratorio viene dichiarato fallito e spesso perde il legame con la propria famiglia, i suoi cari non vogliono accoglierlo per la misura alternativa per la vergogna, preferiscono proteggere il resto della famiglia e abbandonare lui che ha scelto questa strada: non vogliono più saperne. Una delle nostre più grandi sfide è la riconciliazione fra la persona detenuta e la sua famiglia. Continuiamo a lavorare su una teologia islamica delle carceri, dove usiamo solo un certo linguaggio molto semplice, raggiungibile a tutti. Normalmente noi usiamo l’arabo e l’italiano, la lingua che accomuna tutti. Abbiamo a che fare con persone provenienti dal Marocco, dall’Egitto, dalla Tunisia, dal Senegal, dalla Somalia, dal Pakistan”. Carenza di luoghi per il culto - Spesso non ci sono luoghi dignitosi per il culto all’interno degli istituti. “Solo alcuni hanno allestito un luogo solo per la preghiera per i musulmani, come quelli di Ferrara e di Prato”, conclude Al-Zeqri. “A Sollicciano si usa la palestra per pregare, sono anche più di 80 le persone che partecipano alla preghiera del venerdì. I nostri ministri di culto quel giorno lasciano il loro lavoro per andare in carcere da volontari. Forse andrebbe un po’ strutturato questo servizio, da parte dello Stato, per permettere loro di andare non solo il venerdì, ma anche altri giorni. Abbiamo riscontrato dei risultati molto positivi dove sono presenti gli imam”. A parlare è Izzedin Elzir, imam di Firenze. “Le nostre carceri sono cimiteri aperti” - “In carcere siamo un punto di ascolto e i detenuti hanno bisogno di essere ascoltati più di ogni altra cosa. Durante il ramadan cerchiamo di condividere un pomeriggio con loro portando cibo da fuori, per farli sentire parte integrante della comunità. Uso una parola forte: le nostre carceri sono cimiteri aperti, cimiteri per i vivi purtroppo. Dobbiamo mirare al recupero di queste persone: è un bene per loro e per la società”, continua Elzir. Chi non ha una casa non può scontare la pena ai domiciliari - “A volte si sente dire da qualche politico che gli immigrati sono più criminali degli italiani. Dentro il carcere c’è una percentuale altissima di immigrati perché molti di loro, non avendo una casa, non possono scontare la pena ai domiciliari: devono scontarla tutta nell’istituto penitenziario”. Per quanto riguarda la radicalizzazione, “nei momenti più difficili, nel 2015-2016, abbiamo visto che la maggior parte delle persone che hanno fatto gli attentati in Europa erano passate dal carcere e non dalle moschee, perciò abbiamo fatto dei programmi speciali anche per questo, che proseguiamo tuttora ma in misura minore: la situazione, fortunatamente, è migliorata rispetto a 10 anni fa. Avere un punto di riferimento per le persone detenute di religione islamica è importante per vari motivi: le fa sentire meno sole, possono parlare di temi legati alla religione e, infine, è importante per la sicurezza”. Smontare Csm e Corte dei conti: la vendetta del governo contro le toghe di Giulia Merlo Il Domani, 9 dicembre 2024 Lunedì 9 dicembre in Aula alla Camera la riforma della separazione delle carriere e di sorteggio dei consiglieri togati. Magistrati contabili sulle barricate per evitare di venire trasformata in un organo ausiliario. Procede a grandi passi il disegno del centrodestra per ridimensionare la magistratura, sia ordinaria che contabile. Per una concomitanza di date, infatti, oggi arriva in aula alla Camera la riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario - la cosiddetta riforma Nordio - e dovrebbe concludere l’iter in commissione la proposta di legge di riforma della Corte dei Conti. L’approvazione della riforma costituzionale in commissione Affari costituzionali è stata accolta dal giubilo di Forza Italia, che si è intestata la norma più caratterizzante - la separazione delle carriere giudicante e requirente - come battaglia storica di Silvio Berlusconi. Nonostante il progetto porti il nome del ministro Carlo Nordio, infatti, la riforma è da sempre legata agli azzurri e ora sta correndo in modo insperato, superando anche il presidenzialismo (“madre di tutte le riforme” secondo Meloni e ora silenziosamente accantonato). La seconda, invece, è frutto di un lavoro soprattutto di Fratelli d’Italia e della sua testa a palazzo Chigi. La riforma della magistratura contabile, infatti, porta le impronte del consigliere giuridico di Giorgia Meloni e in aria di Corte costituzionale, Francesco Saverio Marini. L’ispirazione, poi, verrebbe dal sottosegretario Alfredo Mantovano e non a caso la prima firma con cui la proposta di legge è stata depositata è stata quella del capogruppo alla Camera Tommaso Foti, oggi promosso ministro agli Affari europei proprio in virtù della sua indiscussa fedeltà alla linea. Secondo quanto risulta dalla capigruppo, la riforma arriverà in aula a gennaio così che ci sia tempo per la presentazione di un emendamento che dovrebbe addolcirne i connotati dopo i durissimi rilievi della magistratura contabile e i rilievi che sarebbero informalmente arrivati anche dal Colle. Un disegno unitario - Anche se avranno decorsi diversi, il disegno che le due riforme perseguono è unitario: tramutare due organi di rilevanza costituzionale come il Consiglio superiore della magistratura e la Corte dei conti in organi di alta amministrazione, riducendone invece l’impulso autonomo di discrezionalità. Se la misura bandiera della riforma Nordio è la separazione delle carriere, sono infatti anche gli altri articoli a impensierire le toghe: la creazione conseguente di due autonomi Csm, a cui però verrà sottratta la potestà disciplinare per affidarla a un’unica Alta corte, e la nomina dei consiglieri togati attraverso il meccanismo del sorteggio puro e non più dell’elezione tra magistrati. “Così scardineremo il correntismo”, è il ritornello degli esponenti del governo, che considerano la riforma la risposta compiuta allo scandalo Palamara del 2019, che fece emergere il meccanismo delle nomine pilotate dai gruppi associativi. In realtà, l’esito politico dell’iniziativa è duplice. La separazione ordinamentale delle carriere (dovranno svolgersi due concorsi separati per giudici e pm, separandoli quindi nella giurisdizione) è sì un modo di rendere effettivo “il sistema accusatorio previsto dal codice Vassalli”, come dice Nordio, ma rischia di aprire la strada anche alla sottoposizione del pm all’esecutivo, tramutandolo in un superpoliziotto molto più vicino alla polizia giudiziaria che ai colleghi giudicanti. La riforma della legge elettorale del Csm con il sorteggio, invece, è un modo per depotenziare il Consiglio nel suo peso politico-istituzionale: non sarà più l’organo di governo autonomo della magistratura in cui le toghe scelgono i loro rappresentanti, ma diventerà un luogo di amministrazione in cui le toghe sorteggiate si muoveranno senza alcun riferimento rispetto alla base. Scelta simile verrà fatta anche per la magistratura contabile. La proposta di legge Foti, infatti, punta a riformare le funzioni di controllo e consultive della Corte dei conti e a modificare la responsabilità per danno erariale. La paura della firma - Nella relazione al progetto si legge il senso della proposta: “Attribuire alla Corte dei Conti un nuovo ruolo di supporto agli amministratori, affinché questi possano trovare in via preventiva una concreta assistenza nella articolata gestione del denaro pubblico e non debbano più incorrere in processi per danno erariale che troppo spesso, almeno nel 60 per cento dei casi, si risolvono con assoluzioni determinate dalla infondatezza delle accuse; processi che, inoltre, hanno ripercussioni negative sulle carriere e alimentano a livello generale il circuito della paura”. Tradotto: la Corte dei conti non deve più essere un controllore, ma assistere gli amministratori pubblici e, in seguito al suo intervento, sospendere poi nuovi giudizi di responsabilità erariale. La proposta, infatti, prevede anche che “qualora l’atto abbia superato il controllo preventivo di legittimità e quindi sia stato vistato e registrato, non sarà più possibile sottoporre a giudizio per responsabilità erariale gli amministratori che lo abbiano adottato”. Oggi, invece, la Corte dei conti può sottoporre a giudizio gli amministratori, anche se hanno adottato atti vistati dalla stessa Corte. Non solo, il governo avrebbe in animo anche di “razionalizzare” - come ha detto Mantovano - la Corte, accorpando le sezioni territoriali “sulla base della loro produttività”. Del resto, la Corte dei conti rischia di essere un problema per l’esecutivo soprattutto nella sua funzione di controllo sulla spendita dei fondi Pnrr e di ispezione sulle modalità con cui ciò avverrà. Di qui la decisione - parallelamente all’abrogazione dell’abuso d’ufficio - di ridurre anche la portata del danno erariale per gli amministratori pubblici così da ridurne la “paura della firma”, proprio nel momento in cui il piano deve essere messo a terra in tempo per la chiusura dei lavori nel 2026. Le reazioni - Davanti alle rispettive riforme, le due magistrature si sono immediatamente mobilitate in senso contrario: l’Associazione nazionale magistrati si è espressa parlando di “riforma improvvida” e anche la solitamente meno esplicita Associazione Magistrati della Corte dei conti è salita sulle barricate, proclamando lo stato di agitazione. L’Amcc ha parlato di “riforma frettolosa e fuori sistema che introduce uno scudo tombale sulla responsabilità amministrativa” e che allontana l’Italia “dalla cornice europea, snaturando il controllo preventivo di legittimità che non è idoneo a misurare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa”. Secondo fonti interne alla magistratura contabile, infatti, l’effetto che si rischia è quello di “far sì che i funzionari siano liberi di sbagliare anche con errori grossolani, senza poi rispondere dei loro errori”, con effetti negativi anche sul Pnrr, perché il soggetto controllato potrà decidere quali e quanti atti sottoporre al controllo, anche solo con lo scopo di ottenere uno scudo erariale sulle attività connesse al piano europeo. Eppure, il governo non ha mostrato l’intenzione di voler arretrare in modo sostanziale sulla strada intrapresa. La separazione delle carriere è ormai diventata bandiera unificante, anche se il viceministro Francesco Paolo Sisto ha aperto a possibili lievi modifiche d’aula. Secondo fonti interne, ci sarebbe margine per ridimensionare almeno parzialmente la portata della legge Foti, ma non nell’impianto generale di ridurre i poteri delle toghe contabili. Anche perché, come è stato fatto notare da fonti di governo, soprattutto la riforma del Csm è uno dei punti su cui i litigiosi partiti della maggioranza hanno trovato una quadra senza distinguo e di cui anche Giorgia Meloni, dopo gli ultimi scontri con le toghe sulle questioni legate ai migranti, si è convinta della bontà. Bisogni (Unicost): “Così il Csm continuerà ad avere troppa discrezionalità sulle nomine” di Giulia Merlo Il Domani, 9 dicembre 2024 Secondo il togato del Csm, che sosteneva la proposta B - non approvata dal plenum - che prevedeva dei punteggi per valutare i profili dei candidati, “il sorteggio dei consiglieri e la separazione delle carriere non c’entrano proprio niente con il modo in cui il CSM sceglie i dirigenti degli uffici”. Consigliere Bisogni, il suo gruppo ha promosso la proposta di riforma del testo unico sulle nomine con un meccanismo a punteggi. È stata definita “cervellotica” dai proponenti della proposta che infine ha prevalso. Secondo loro, però, entrambe le soluzioni garantiscono minor discrezionalità e più prevedibilità negli esiti delle nomine, è così? Parto dall’aggettivo “cervellotico” per riportare la citazione di Rino Gaetano che ha fatto in plenum Michele Forziati, relatore della proposta con i punteggi insieme a Mimma Miele: “Mio fratello è figlio unico perché non ha mai criticato un film senza prima vederlo”. Ebbene, i punteggi sono stati criticati prima ancora di vedere come li avevamo articolati nel testo della proposta, c’è stata, rispetto ad essi, una chiusura quasi “estetica”, preconcetta. Eppure, a un osservatore esterno, la previsione “a monte” di punteggi distinti per ciascuno dei parametri attitudinali e di merito indicati dal legislatore non può che apparire tutt’altro che “cervellotica”: è, più semplicemente, chiara e oggettiva. Questo sì che costituisce espressione “alta” della discrezionalità del Consiglio e che ne rende prevedibili e trasparenti le decisioni. Non è vero, invece, che anche il testo approvato riduca la discrezionalità “a valle” del Consiglio. In primo luogo perché, limitando l’accesso alla comparazione ai soli candidati con la più duratura esperienza in un settore specifico, mortifica la previsione di legge che impone al Consiglio di attribuire rilievo anche alla pluralità di esperienze che i candidati possano vantare in carriera. In secondo luogo, perché, nella successiva fase della comparazione, continua a prevedere criteri selettivi del tutto generici e indeterminati. Il voto ha visto due schieramenti contrapposti e lei stesso ha criticato l’accordo tra i due gruppi associativi maggiori, Area e Magistratura indipendente. Ritiene davvero che sia una sorta di pactum sceleris? No, non lo penso. In Consiglio si trovano legittime convergenze su visioni comuni di politica giudiziaria. In questo caso Magistratura Indipendente ed Area hanno condiviso una riforma che, a mio avviso, premia i magistrati fuori ruolo (addirittura quelli di squisita nomina politica), esaspera la separazione tra funzioni giudicanti e requirenti, premia l’iperspecializzazione, penalizza la molteplicità delle esperienze e mantiene, infine, una eccessiva discrezionalità consiliare nell’individuazione in concreto dei dirigenti. Tutte queste scelte sottendono una legittima idea di magistratura, lontana da quella della rinnovata Unicost, ma evidentemente condivisa dai due gruppi principali che credevo, invece, portatori di sensibilità culturali più distanti: è questa la circostanza che mi ha sorpreso e stupito. Area sostiene che voi proponenti dei punteggi non abbiate voluto trovare una soluzione mediana, come invece ha fatto Mi… Questo davvero non si può dire, specie da parte di chi ha, almeno fino all’inizio di ottobre, discusso ampiamente sul nostro testo e proposto modifiche, alcune delle quali pure accolte. Del resto, lo stesso consigliere Cosentino, nel suo intervento in plenum, ha sentito il bisogno di spiegare le ragioni del lungo empasse dei consiglieri di Area. In commissione, invece, le due opzioni erano state oggetto di ampie e approfondite discussioni, anche finalizzate a verificare la possibilità di convergere su una soluzione unica. Quando poi, dopo alcune settimane di attesa rispetto al momento in cui le due bozze di proposte della commissione erano state presentate, abbiamo visto la proposta “mediana” elaborata da Area e MI, è risultato di immediata evidenza che essa nulla aveva della nostra proposta, proprio nulla. Non si trattava, dunque, di una proposta mediana ma, in sostanza, dell’originaria proposta di MI con l’introduzione della fascia iniziale di selezione di cui ho detto, della cui opportunità siamo in molti a dubitare fortemente. Con voi hanno trovato convergenza invece i laici di centrodestra. Come è stato possibile? In realtà la proposta con i punteggi ha trovato una convergenza molto più ampia, di tutte le componenti consiliari diverse da Area e Magistratura Indipendente. La proposta di delibera è stata, infatti, votata da noi, da Magistratura Democratica, dagli indipendenti Fontana e Mirenda, dai progressisti laici Roberto Romboli e Michele Papa e dai laici di centrodestra. La narrazione di chi vuole obliterare questo dato enfatizzando l’appoggio di una sola di queste componenti omette di confrontarsi con la richiesta di rinnovamento che è giunta dalle diverse sensibilità culturali e professionali che siedono in Consiglio. Il professore Romboli, ad esempio, è uno dei più autorevoli difensori dell’attuale assetto costituzionale del Consiglio, eppure ha votato per i “punteggi” condividendo l’esigenza di un cambio di passo anche nel settore delle nomine. Analogo discorso può essere fatto per il professore Papa che, nel suo intervento in plenum a favore della nostra proposta, ha rivendicato l’esigenza di recuperare autorevolezza e credibilità proprio nella prospettiva di tutela delle prerogative costituzionali del CSM. Secondo i laici di centrodestra, la proposta coi punteggi va nella direzione culturale della riforma della giustizia con sorteggio dei consiglieri del Csm e della separazione delle carriere. Condivide? Assolutamente no. Il sorteggio dei consiglieri e la separazione delle carriere non c’entrano proprio niente con il modo in cui il CSM sceglie i dirigenti degli uffici. Anzi dal mio punto di vista (e da quello degli altri componenti che hanno appoggiato la proposta punteggi) è vero l’esatto contrario: una seria autoriforma anche nel settore delle nomine avrebbe consentito di presentarci con ancora maggiore autorevolezza ai cittadini in occasione di un eventuale referendum sulle riforme costituzionali. Devo dire, peraltro, che soltanto uno dei laici di centrodestra ha speso questo argomento. Gli altri consiglieri intervenuti hanno, piuttosto, evidenziato la grande discrezionalità a valle mantenuta dal testo senza punteggi e la singolarità della convergenza di MI e Area solitamente su posizioni distanti. E ora che succede? Questi due schieramenti spuri sono un una tantum o avranno effetti sul consiglio? Credo sia molto difficile un consolidamento del fronte eterogeneo e trasversale che ha appoggiato la proposta punteggi. Per il resto è veramente troppo presto per fare altre previsioni vedremo cosa succederà a partire dal plenum di mercoledì prossimo. La caccia al reo è finita, il pm ammette: “Non ho trovato il reato” di Paolo Persichetti L’Unità, 9 dicembre 2024 1.186 giorni dopo il sequestro integrale del mio archivio storico e familiare, il sostituto procuratore Albamonte chiede l’archiviazione. I miei comportamenti erano privi di rilevanza penale. Allora perché tanta ostinazione? Mille centottanta sei giorni dopo la lunga perquisizione (era l’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte. Comportamenti privi di rilevanza penale - Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che “non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti”, in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che “tanto meno si può ritenere probabile” in base agli elementi raccolti “l’esito positivo di un eventuale giudizio”. Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché “la natura delle informazioni” (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a un altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, “non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate”. Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione. Reati prescritti - Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che “il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione”. Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del “favoreggiamento”, aveva proposto - senza successo - la “rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione” (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era. Le ragioni dell’inchiesta - Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica? Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: “emergevano - scrive Albamonte - numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono”. L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare. Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani. Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti “genuini” dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta. Cosa era successo? - L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la “riservatezza” delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna “concreta offensività” era emersa - come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: “elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi”. Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti. Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine. La velenosa insinuazione - Durante la sua deposizione Fioroni elabora un “movente” che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo - a suo dire - ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti. Un grave precedente - Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo. Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori, ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro. Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno. La decisione finale spetta al Gip - Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse “una formulata incolpazione anche provvisoria” e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che - scriveva - “ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai”. Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene a chi, se alla procura o alla stessa polizia di prevenzione. Musica su cd negata al detenuto in regime di 41bis: “si dica perché non si possono fare controlli” di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 9 dicembre 2024 È stato accolto dalla Cassazione uno dei ricorsi per cui è noto alle cronache più recenti il detenuto al 41 bis Giovanni Di Giacomo, 70 anni, dietro le sbarre da 33, che sta scontando a Mammagialla l’ergastolo per due omicidi commessi all’inizio degli anni 80. Per gli ermellini il ricorso è fondato, il provvedimento impugnato è stato annullato con rinvio “affinché il tribunale dì sorveglianza di Roma, attenendosi ai principi indicati, proceda, libero nel merito, a un nuovo giudizio”. “Il fatto - si legge nelle motivazioni della cassazione - che le norme di ordinamento penitenziario facciano espresso riferimento all’impiego di lettori cd solo per le esigenze di lavoro e studio, ovvero per la consultazione di materiale giudiziario, non consente di ritenere che vi sia una preclusione assoluta all’utilizzo dei medesimi dispositivi e strumenti per finalità diverse, ciò anche considerato che la possibilità di ascoltare musica per mezzo dei cd rientra, a pieno titolo, nel contesto di quei ‘piccoli gesti di normalità quotidiana’ che la corte costituzionale oggi ascrive ai legittimi ambiti di libertà residua del soggetto detenuto”. Viene quindi spiegato come la sottoposizione dei detenuti a regole speciali come quelle imposte dal 41 bis non escluda il diritto del detenuto quanto, piuttosto, “impone di indirizzare le varie attività interne verso soluzioni operative idonee, iscritte in specifici protocolli organizzativi, che contemperino il diritto al trattamento del ristretto con le esigenze che stanno alla base del regime differenziato”. “In questa prospettiva l’amministrazione penitenziaria, al fine di riconoscere il diritto del detenuto a utilizzare i dispositivi di lettura e i cd a uso ricreativo, è tenuta a verificare la salvaguardia delle esigenze di sicurezza e controllo e a illustrare le ragioni poste a fondamento del provvedimento, sia esso di accoglimento che di diniego. Nella motivazione sul punto, infatti, si deve dare conto della valutazione effettuata in concreto poiché, accanto alla astratta praticabilità o meno degli interventi finalizzati al controllo, devono essere apprezzate sia l’effettiva attuabilità che, anche, la loro diretta incidenza sull’organizzazione del carcere, in termini di risorse umane e materiali da destinare ai relativi compiti, anche nelle loro dimensioni quantitative”. “Il magistrato e il tribunale, cioè, prima di riconoscere ovvero negare il diritto del detenuto a utilizzare cd a uso ricreativo, dovranno verificare se l’amministrazione ha reso sul punto una congrua ed effettiva motivazione evidenziando se tale impiego, pur in assoluto non precluso dalla normativa vigente, possa essere effettivamente esercitato ovvero se questo comporti degli adempimenti che sono in concreto inesigibili da parte dell’amministrazione penitenziaria in relazione agli indispensabili interventi su dispositivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione di istituto, di non autorizzarne l’ingresso nei reparti ove vige il regime penitenziario differenziato. Scelta che, implicando un apprezzamento della possibilità di soddisfare le esigenze ricreative dei detenuti alla luce delle risorse disponibili, rientrerebbe in un ambito di legittimo esercizio del potere di organizzazione della vita degli istituti penitenziari”. “La stessa, infatti, costituita dalla generica affermazione che un tale adempimento ‘non può essere posto a carico dell’amministrazione, soprattutto quando si tratti di un istituto di medie dimensioni come quello di Viterbo’, non contiene alcun riferimento alla situazione specifica dell’istituto di detenzione, non espone le ragioni per le quali presso la casa circondariale di Viterbo non sarebbe possibile procedere ai necessari controlli e neanche rinvia a una verifica effettuata dal carcere in relazione a tale aspetto”. “Le considerazioni esposte impongono l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio affinché il tribunale dì sorveglianza di Roma, attenendosi ai principi indicati, proceda, libero nel merito, a un nuovo giudizio”. Non fate come me, ho sbagliato e ho perso tutto: godetevi la vita di Salvatore S.* Il Mattino, 9 dicembre 2024 La lettera dal carcere di Secondigliano. Vi racconto la mia storia: sono recluso da quattordici anni, e mi rimangono altri dieci anni per poter rivedere il cielo senza strisce, e abbracciare i miei cari senza udire una voce in sottofondo che dice di sedersi al proprio posto. Cari ragazzi, ci vuole più coraggio per vivere nella legalità che per impugnare una pistola! Cari ragazzi, chi vi scrive è un recluso dell’Alta Sicurezza del penitenziario di Secondigliano. Spero che questo mio sfogo vi possa far riflettere, e magari farvi affrontare la vita diversamente. Vi racconto la mia storia: sono recluso da quattordici anni, e mi rimangono altri dieci anni per poter rivedere il cielo senza strisce, e abbracciare i miei cari senza udire una voce in sottofondo che dice di sedersi al proprio posto. Non ho paura di dirvi che io ho fatto tutto il male possibile e immaginabile che un essere umano può fare, anche se di umano non c’è niente. Anzi, ero diventato un animale feroce, subito pronto ad attaccare quando mi sentivo minacciato, anche perché al mio fianco c’erano i miei fratelli. Aveva ragione mio nonno: i fratelli sono quelli che ti ritrovi dalla nascita, oppure quelli del convento. Aveva ragione, ma solo dopo anni di detenzione me ne sono reso conto, perché molti di quei fratelli acquisiti me li sono trovati contro. Oggi sono un’altra persona, e sono consapevole del male che ho fatto, e lo sto pagando. Tuttavia, la cosa che mi fa più male è di aver negato un padre alle mie figlie, perdendomi tutto di loro. Non c’ero durante la loro infanzia, la prima comunione, i loro 18 anni, ed ho infranto il loro sogno, che è quello di ogni ragazza: essere accompagnata dal genitore all’altare. Oggi, poi, mi sto perdendo la nascita e la crescita dei miei nipoti. Quindi, mi voglio rivolgere a voi con la pistola: credetemi, ci vuole più coraggio per vivere nella legalità che per impugnare una pistola! Uscite da questo mondo dove niente è per sempre, e riprendetevi la vostra vita, insieme alla famiglia. *Detenuto nel carcere di Napoli Secondigliano-Reparto Ionio Genova. Aperta un’inchiesta sulla morte di un detenuto, ma la Uilpa non ci sta Il Dubbio L’indagine riguarda il decesso di un 21enne nell’istituto penitenziario di Marassi. Il sindacalista Pagani: “La polizia penitenziaria non può continuare a essere lasciata sola con i suoi appartenenti costretti, loro malgrado, ad affrontare procedimenti penali e disciplinari andando incontro di tasca propria a spese legali”. La notizia dell’apertura di un fascicolo per omicidio colposo da parte della Procura di Genova nei confronti di due poliziotti penitenziari, in relazione al suicidio di un detenuto di origine magrebina di 21 anni, avvenuto nel pomeriggio del 4 dicembre scorso presso il carcere di Marassi, nel centro clinico reparto SAI, “ripropone, ove mai ve ne fosse bisogno, il tema della tutela di quanti vivono e lavorano in carcere. I primi poiché dovrebbero scontare la pena e le misure cautelari in un contesto di legittimità e sicurezza, che nella realtà pare molto prossimo all’utopia, i secondi perché a loro volta dovrebbero avere gli organici e gli strumenti per poter assolvere alle loro funzioni in maniera efficace, dignitosa e senza dover essere costretti a difendersi per lo sfacelo delle carceri di cui dovrebbe essere indagata tutta la politica che ha governato almeno negli ultimi 25 anni”. Così Fabio Pagani, segretario della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Riponiamo totale e incondizionata fiducia negli organi inquirenti e siamo i primi a volere che si faccia piena luce sull’accaduto - aggiunge il sindacalista - Di certo, però, la polizia penitenziaria non può continuare a essere lasciata sola con i suoi appartenenti costretti, loro malgrado, ad affrontare procedimenti penali e disciplinari andando incontro di tasca propria a spese legali unite a ripercussioni negative sullo stipendio e sulla carriera, anche quando dopo molto tempo, in una sorta di inversione della presunzione d’innocenza, riescano a dimostrare la correttezza del loro operato”. Nel carcere di Genova si contano quest’anno 4 suicidi; nelle case circondariali ci sono 14mila detenuti in più, 18mila unità del Corpo di Polizia penitenziaria in meno, omicidi, risse, rivolte, aggressioni, traffici illeciti, disorganizzazione imperante. Cagliari. Detenuto in sciopero della fame ricoverato in ospedale La Nuova Sardegna, 9 dicembre 2024 La sorella: “Deve andare in clinica riabilitativa”. I familiari del 49enne rinchiuso nel carcere di Uta attendono che il magistrato autorizzi il trasferimento. Alessandro Atzeni, il 49enne detenuto in carcere a Uta è stato trasferito al Santissima Trinità di Cagliari per essere alimentato. Diversi giorni fa aveva iniziato lo sciopero della fame per chiedere il trasferimento in una clinica riabilitativa. A raccontarlo è la sorella Arianna, che insieme a lui combatte questa battaglia. “Alessandro sta protestando per ottenere un suo diritto”, dice Arianna Atzeni. La sorella del 49enne aggiunge anche che suo fratello sarebbe stato “sottoposto a pressioni psicologiche, come il sequestro delle sigarette, per smettere lo sciopero della fame. È inaccettabile che una persona in condizioni di vulnerabilità venga trattata in questo modo. È fondamentale intervenire con la massima urgenza per tutelare Alessandro, garantire il rispetto dei suoi diritti e porre fine a queste pressioni psicologiche”. Atzeni era stato rinchiuso nella colonia penale di Isili perché giudicato pericoloso a causa di problemi psichici. Dalla struttura era però uscito solo per essere ricoverato in ospedale a seguito, secondo i familiari, di una aggressione e poi in una cella in carcere, a Uta. La sorella si è rivolta a un legale, all’avvocata Armida Decina, per chiedere che venga fatta chiarezza su quanto successo al fratello e per ottenere il trasferimento in una struttura riabilitativa idonea alle sue condizioni di salute. Secondo i familiari Atzeni sarebbe stato vittima di un incidente o di una aggressione all’interno della colonia penale di Isili il 4 luglio scorso. “Con le dimissioni i medici avevano previsto il ricovero per riabilitazione neuromotoria a regime intensivo - aveva scritto in una lettera Arianna - Tuttavia, anziché essere trasferito in una struttura riabilitativa specializzata, mio fratello è stato condotto presso l’infermeria di un carcere, una struttura inadeguata a fornire le cure richieste per il suo recupero. A causa del trauma subito, mio fratello è ora affetto da emiparesi che gli impedisce di camminare”. Presentata anche una denuncia per quanto accaduto nella colonia di Isili. Secondo la struttura detentiva Alessandro Atzeni sarebbe caduto, secondo i familiari sarebbe stato aggredito. Prato. Detenuto tenta il suicidio durante la visita degli avvocati nel carcere di Paolo Nencioni Il Tirreno, 9 dicembre 2024 Il racconto dei legali e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”: “Alla Dogaia c’è anche chi fa la fame perché il cibo non basta”. Finestre rotte da quattro mesi, lenzuola cambiate ogni tre mesi, cimici nei materassi, cibo che scarseggia. La visita dei rappresentanti della Camera penale di Prato e dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” nel carcere della Dogaia ha confermato quanto di brutto si sapeva sulla casa circondariale, teatro di cinque suicidi in meno di un anno. Venerdì sera, 6 dicembre, un detenuto ha tentato di impiccarsi in cella e un altro ha inscenato un tentativo di suicidio addirittura durante la visita di avvocati e volontari. Insomma: cartoline dall’inferno. Ne hanno parlato ieri pomeriggio, 7 dicembre, nella sede della Provincia i membri dell’Osservatorio carcere della Camera penale e Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”. “Lo schifo che abbiamo visto - ha detto Rita Bernardini - riguarda entrambe le sezioni di media sicurezza della Dogaia. Chi ci lavora è messo dallo Stato nella condizione di violare i più elementari diritti umani. Comandante e direttore stanno facendo il possibile, però il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria manda gli ispettori e poi non manda le risorse per risolvere problemi”. Uno dei temi è da sempre il sovraffollamento, che in teoria alla Dogaia non c’è (615 detenuti su 586, roba da poco), ma in certe sezioni, come ha ricordato Bernardini, il sovraffollamento c’è e fa danni. E fosse solo quello. “Molti detenuti non hanno parenti che portino loro le lenzuola, quelle che ci sono hanno un colore indescrivibile perché gliele cambiano ogni tre mesi. Alcuni hanno sulle braccia i morsi delle cimici. Il direttore ci ha detto che sono stati spesi 12.000 euro per debellarle e sono ancora lì”. In compenso stavolta, come ha ricordato l’avvocato Gabriele Terranova, non si sono visti gli scarafaggi, sarà merito del freddo. Sì, perché molte finestre del corridoio della media sicurezza sono rotte da mesi e non sono state ancora sostituite. In alcune celle piove e in molte non c’è il secchio della spazzatura. Nel 2024 c’è chi ancora soffre la fame in carcere. “Ho incontrato tre detenuti pachistani - racconta Rita Bernardini - Mi hanno detto che oggi il pranzo non è arrivato perché il cibo è finito durante la distribuzione, a metà della sezione”. Bergamo. Carcere in agonia: “Affollamento al 183% e mancano gli agenti” Il Giorno, 9 dicembre 2024 In via Gleno il momento di maggiore sofferenza da 15 anni a questa parte. Intanto nelle celle aumentano i giovani adulti (18-24 anni) con nuovi bisogni. Un carcere in agonia. Si fa sempre più drammatica la situazione della casa circondariale di Bergamo, alle prese con il momento di maggiore sofferenza da 15 anni a questa parte, come raccontano i numeri diffusi periodicamente dal ministero della Giustizia. Prendendo a riferimento la situazione al termine di ogni anno dal 2010 in poi, ora si è vicini a toccare un nuovo picco: a oggi la struttura di via Gleno ospita 583 detenuti a fronte di 319 posti regolamentari, il tasso di affollamento ha raggiunto il 182,8 per cento. A fine 2023 i reclusi erano invece 562, a fine 2019 “solo” 486. In cinque anni, dunque, si sono aggiunti quasi 100 detenuti in più. La situazione attuale è avviata così a battere il primato precedente - sempre guardando agli ultimi 15 anni, quelli per cui sono disponibili dati puntuali - rappresentato dai 572 ristretti del 31 dicembre 2016. Un altro problema che affligge la casa circondariale è la carenza di uomini che da tempo affligge la Polizia penitenziaria: a fronte di un organico teorico di 243 unità, il Corpo conta solo 170 effettivi. Nel mosaico delle cifre si distende l’immagine dei bisogni penitenziari. Dei 583 reclusi, 290 sono stranieri; le donne sono in tutto 37. Una problematica emergente è quella dei 46 “giovani adulti”, cioè i detenuti tra i 18 e i 24 anni, fascia d’età in crescita e con nuove criticità. Sono complessivamente circa 300 i detenuti con dipendenza da sostanze. Il futuro passa da formazione e lavoro: 284 detenuti frequentano il Cpia - l’istruzione per adulti che consente di ottenere la licenza media - Venti sono iscritti all’Istituto alberghiero, tre a quello per la moda, 11 all’Università. Nei giorni scorsi la Commissione carceri del Consiglio regionale lombardo ha fatto tappa a Bergamo con una delegazione guidata dal presidente Alessia Villa (Fratelli d’Italia) per visitare reparti, celle, laboratori e parlare dei diversi problemi con il direttore Antonina D’Onofrio (nella foto). “Il sovraffollamento è significativo - sottolinea Alessia Villa - E anche il personale è in sofferenza. Abbiamo tracciato il quadro delle criticità per cercare di risolvere i problemi più urgenti”. Monza. McDonald’s a fianco dei detenuti con “Seconda Chance” primamonza.it, 9 dicembre 2024 Un progetto di inclusione lavorativa per chi è a fine pena. La società che gestisce i McDonald’s di Monza, Concorezzo, Biassono e Vimercate ha avviato una collaborazione con l’associazione “Seconda Chance”, per l’integrazione lavorativa di detenuti meritevoli e a fine pena. A partire da questo mese, saranno infatti 4 i nuovi inserimenti all’interno dei team dei ristoranti. Seconda Chance, associazione no profit del Terzo Settore, è stata fondata nel 2022 dalla giornalista Flavia Filippi per far conoscere alle imprese la legge Smuraglia (193/2000) che offre agevolazioni a chi assume, anche part time o a tempo determinato, detenuti ammessi al lavoro esterno. Partita dal carcere di Opera a Roma, questa realtà coinvolge oggi diverse carceri in tutta Italia e rappresenta un ponte tra queste e le imprese disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena. “Siamo estremamente orgogliosi di aver intrapreso questo nuovo percorso a fianco di Seconda Chance. Un’esperienza preziosa con cui vogliamo offrire una seconda possibilità a chi ha scontato il suo debito con la giustizia, nella convinzione che, attraverso il lavoro, ciascuno possa trovare la propria dignità” - dichiara Antonio Scanferlato, Licenziatario dei McDonald’s di Monza e della Brianza. “La nostra è una realtà che da sempre ha scelto di concentrare le proprie risorse a sostegno di progetti che mettono al centro la persona e l’inclusione e che possono avere una reale ricaduta sulla vita di ciascuno, offrendo un lavoro e un luogo in cui sentirsi accolti e accompagnati in un percorso di integrazione sociale e crescita professionale. Un investimento che porta grandi benefici, sia alla persona che all’azienda”. Antonio Scanferlato, che ha fondato la sua azienda - ASC Srl, licenziataria McDonald’s Italia - nel 2014, ha da subito intrapreso un percorso di crescita puntando sul valore dell’inclusività. Oggi l’azienda conta 290 dipendenti, di cui il 52% donne e il 35% stranieri, di 34 diverse nazionalità provenienti dai 5 continenti. Fin dai primi anni di attività, l’azienda ha promosso progetti a sostegno dei più fragili, offrendo opportunità lavorative e di crescita professionale. Ne sono una testimonianza gli 85 inserimenti lavorativi per richiedenti asilo avvenuti dal 2016 ad oggi, 16 dei quali tutt’ora parte dello staff dei ristoranti. Un impegno che, da tre anni a questa parte, viene riconosciuto ai McDonald’s di Monza e della Brianza dal programma “Welcome Working for refugee integration” di UNHCR - Agenzia ONU per i rifugiati - attraverso l’assegnazione del premio “Welcome - working for refugee integration Italy”, riservato alle aziende dedite all’integrazione lavorativa dei beneficiari di protezione internazionale. Negli anni, inoltre, ASC srl ha attivato 62 tirocini che hanno coinvolto 50 persone fragili, raggiungendo quasi il doppio del numero di assunzioni di persone che fanno parte delle categorie protette previste dalla legge. Per l’inserimento delle persone con fragilità, Antonio Scanferlato ha aderito al progetto TikiTaka, sostenuto dalla Fondazione Cariplo, in connessione con la Fondazione della Comunità di Monza e Brianza. Si tratta di un tavolo tematico tra imprenditori, volontari, persone con fragilità, famiglie e professionisti del lavoro nel settore pubblico e privato del sociale, uniti al fine di promuovere e renderne possibile l’inclusione in attività lavorative e di volontariato. L’impegno dei ristoranti McDonald’s di Monza verso chi ha bisogno oltrepassa i confini del ristorante, attraverso l’adesione all’iniziativa nazionale del brand “Sempre aperti a donare” in collaborazione con Banco Alimentare, donando circa 2.100 pasti all’anno ai bisognosi del territorio. Vallo della Lucania (Sa). Nel laboratorio di ostie nato all’interno del carcere di Stefania Marino Corriere del Mezzogiorno, 9 dicembre 2024 A Vallo della Lucania i detenuti preparano le particole per le parrocchie. Presto il sito e-commerce. Si chiama “Pane Quotidiano-Carlo Acutis” il laboratorio di ostie nato all’interno della casa circondariale “Alfredo Paragano” di Vallo della Lucania. Un progetto solidale, frutto della sinergia dell’istituto penitenziario con le Diocesi di Vallo della Lucania e di Teggiano-Policastro e con la Cooperativa sociale “Al tuo fianco”. Un progetto intriso di quell’articolo 27 della Carta costituzionale che sottolinea il principio della rieducazione dei detenuti. A spiegarlo è Caterina Sergio, direttore della Casa circondariale: “Oggi il laboratorio Carlo Acutis è una realtà produttiva”. Uomini a cui sono state date competenze e formazione e che sono oggi protagonisti di tutte le fasi della produzione, dall’impasto, alla cottura, all’asciugatura, al taglio fino all’impacchettamento. Le ostie e le particole sono destinate alla vendita alle parrocchie della Campania ma in prospettiva, come anticipato da Pietro Botte, presidente della Cooperativa sociale “Al tuo fianco”, c’è anche la realizzazione di un sito e-commerce. Il vescovo della Diocesi di Vallo della Lucania monsignor Vincenzo Calvosa ha voluto collegare l’iniziativa al tema della speranza e del Giubileo 2025 ricordando che il prossimo 26 dicembre Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel carcere di Rebibbia. Monsignor Antonio De Luca vescovo della diocesi di Teggiano -Policastro e delegato Caritas della Conferenza Episcopale Campania fa riferimento alla pastorale carceraria e alla crescente povertà delle famiglie dei detenuti in Campania. “Questo progetto di produzione ostie rientra nelle opportunità di inserimento nel mondo del lavoro dei detenuti”. Grazie al laboratorio Carlo Acutis - dedicato al beato che sarà proclamato santo il prossimo 25 aprile - e grazie al ricavato della vendita delle ostie, due detenuti hanno ottenuto un contratto di lavoro. Monsignor De Luca tocca però anche il tema dei suicidi in carcere. “Sono una ferita” Coinvolti nell’iniziativa anche il condirettore della Caritas di Vallo della Lucania don Giuseppe Sette e il direttore della Caritas di Teggiano-Policastro don Martino De Pasquale. Parole di grande conforto giungono infine da Lucia Castellano, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria: “Progetti come questi mi riaprono alla speranza” dice ricordando come in Campania ci siano 14 istituti penitenziari e oltre 7.000 detenuti. Latina. Conversazione sul carcere tra giustizia, perdono e misericordia latinatoday.it, 9 dicembre 2024 Si parlerà di carcere martedì 10 dicembre nell’incontro organizzato dall’associazione Articolo 21 in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani. L’evento sarà l’occasione per la presentazione del libro “Come è in cielo, così sia in terra. Il carcere tra giustizia, perdono e misericordia” di padre Vittorio Trani che dialogherà con Stefano Natoli e Agnese Pellegrini con l’obiettivo di fare luce sull’aspetto umano dell’esperienza detentiva e sulla necessità di approcciarsi ai temi della pena e dell’esecuzione penale, nel solco tracciato dalla nostra Costituzione. Padre Trani è un sacerdote francescano conventuale e cappellano penitenziario nella casa circondariale Regina Coeli. Da ormai cinquant’anni, è un vero e proprio testimone vivente delle trasformazioni avvenute - e di quelle mancate - in un mondo, quello del carcere, che per tanti resta, purtroppo, un luogo ancora misterioso. “Il libro - spiegano i promotori dell’iniziativa - è un dialogo dal carcere e sul carcere scritto attraverso l’incontro quotidiano con le persone recluse e con le loro storie intrise di sofferente umanità. Attraverso queste storie, attraverso i ricordi di fatti apparentemente insignificanti e di eventi epocali, padre Vittorio s’interroga e interroga il lettore sulle tante questioni che quel mondo richiama: il senso della pena, la funzione della pastorale carceraria, l’importanza delle misure alternative, la fede e la religione tra le sbarre, il valore del volontariato, i diritti dei carcerati, la cura verso chi esce dal carcere”. Dialogheranno con l’autore Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio e Presidente dell’Associazione Antigone (che da oltre 30 anni si occupa di carcere, giustizia, diritti umani e prevenzione della tortura), il presidente della Camera penale di Latina Maurizio Forte e Stefano Vanzini in rappresentanza dell’Associazione pontina “Parliamo di carcere” che ha portato nel dibattito politico e sociale della città il tema della vita in detenzione. L’appuntamento è alle ore 18 in via Cattaneo 5 a Latina. Massa Carrara. Un convegno sulla giustizia che guarda al recupero, non solo alla pena ecodellalunigiana.it, 9 dicembre 2024 Il 6 dicembre, presso “Il Pungiglione - Villaggio dell’Accoglienza” di Mulazzo, si è svolto il convegno “Dall’esecuzione intramuraria alle misure alternative”, promosso dalle Camere Penali di Massa Carrara e della Spezia, con il patrocinio dei Comuni di Pontremoli e Mulazzo, e il supporto della Diocesi di Massa Carrara e Pontremoli e del Rotary Lunigiana. L’evento, partecipato da circa 150 persone, tra cui il magistrato Cosimo Ferri, ha trattato temi legati alle misure alternative alla detenzione carceraria, con focus sull’esperienza della Comunità Educante con i Carcerati (CEC) proposta dall’Associazione Papa Giovanni XXIII. Il convegno è stato ospitato in un contesto significativo: “Il Pungiglione”, una struttura multietnica che accoglie persone in misura alternativa, vittime di tratta e migranti, promuovendo integrazione e sostenibilità economica. Durante l’evento, i partecipanti hanno visitato i laboratori della cooperativa, nota per la produzione di miele biologico DOP. Gli avvocati penalisti sono stati descritti come un punto di riferimento fondamentale per i detenuti. Fabio Sommovigo, presidente della Camera Penale della Spezia, ha sottolineato l’importanza dell’avvocato nell’aiutare i condannati a intraprendere percorsi di revisione e riflessione, riducendo le sofferenze derivanti da un sistema carcerario in crisi. Nel 2024, si contano 85 suicidi tra detenuti e 7 tra agenti penitenziari, un dramma ignorato dalla politica. Le misure alternative, come evidenziato dalla dott.ssa Cristina Necchi, non devono servire solo a ridurre il sovraffollamento carcerario, ma devono essere programmi educativi credibili. Secondo i dati, la recidiva per chi sconta pene in carcere è dell’80%, ma scende al 20% per chi beneficia di percorsi alternativi. Il carcere, come esperienza rieducativa, è considerato un fallimento, soprattutto per chi vive in condizioni di emarginazione sociale. Bartolomeo Barberis, esponente dell’Apg23, ha denunciato una “mentalità carcerocentrica”, mentre Marco Pellegrini, responsabile del CEC Rinascere a Mulazzo, ha proposto le Comunità Educanti come modello alternativo. Questi percorsi, che uniscono sicurezza e reintegrazione sociale, non ricevono attualmente finanziamenti statali, ma si basano sulla collaborazione di reti territoriali. Durante il convegno, la dott.ssa Michela Mencattini, magistrato di sorveglianza, ha evidenziato la carenza di risorse umane e materiali che affligge il sistema penale. Ha ribadito che l’efficacia delle misure alternative dipende dalla sinergia tra magistrati, avvocati, operatori sociali e istituzioni. Il Vescovo Mario Vaccari ha definito “Il Pungiglione” una perla della Lunigiana, dove si cerca di trasformare la sofferenza in speranza, un obiettivo condiviso da Don Oreste Benzi, fondatore dell’Apg23, che ha ispirato la “Società del Gratuito” come contrapposizione al profitto. Il convegno si è concluso con un minuto di silenzio per la morte di un giovane di 21 anni nel carcere di Genova, l’86° suicidio tra detenuti nel 2024. Giorgio Pieri, responsabile del progetto CEC in Italia, ha sottolineato che il carcere non deve essere l’unica risposta ai reati e che le comunità educative rappresentano un’alternativa concreta per curare non solo il male fisico, ma anche quello interiore. Modena. La “Trilogia dell’Assedio” del Teatro dei Venti nelle carceri modenatoday.it, 9 dicembre 2024 Dal 9 al 16 dicembre nell’ ambito di Trasparenze di Teatro Carcere, il Festival del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna organizzato dal Teatro del Pratello, a Castelfranco Emilia e Modena andranno in scena gli studi dei tre capitoli della Trilogia dell’Assedio che compongono un unico progetto drammatico: Edipo Re, Sette contro Tebe e Antigone. Ecco gli appuntamenti: Edipo Re - studio sarà il 9 e 10 dicembre nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, Sette contro Tebe - studio il 12 e 13 dicembre e Antigone - studio il 14 e 16 dicembre nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena. L’accesso agli studi è riservato a un pubblico già autorizzato. Gli studi sono i primi preziosi incontri con il pubblico, non uno spettacolo finito, ma un’importante fase del lavoro, un esperimento, un’occasione per prendere appunti e per testare tutte le componenti dello spettacolo che sarà. Le sale teatrali delle Carceri sono state allestite per lavorare in uno spazio teatrale funzionale, nel quale poter sperimentare una relazione con il palcoscenico e poter dare forma a un’esperienza teatrale autentica, dove esplorare linguaggi, emozioni e dinamiche sceniche in un contesto capace di generare nuove prospettive e relazioni umane. La Trilogia dell’Assedio inizia con lo studio di Edipo Re da Sofocle, in cui si narra la vicenda del re di Tebe nel momento in cui scopre che i suoi tentativi di evitare il funesto destino previsto da un oracolo sono stati vani. Il suo fallimento e la sua disgrazia daranno origine alle vicende seguenti, inerenti i suoi quattro figli: la battaglia tra Eteocle e Polinice nei Sette contro Tebe da Eschilo, e il dilemma delle sorelle Antigone e Ismene di come comportarsi verso la sepoltura di un fratello considerato traditore nell’episodio conclusivo, tratto da Antigone di Sofocle. La Trilogia - creata nell’ambito di AHOS All Hands on Stage, progetto cofinanziato dal programma Creative Europe - debutterà all’interno della Stagione di ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione, dall’11 al 23 febbraio del 2025 presso il Teatro delle Passioni di Modena. Gli under 25 raccontano il teatro in carcere - La Konsulta, il gruppo il gruppo aperto a ragazzi e ragazze under 25, per progettare, accompagnare e raccontare Trasparenze Festival e altri progetti artistici e socio-culturali del Teatro dei Venti, è in trasferta per Trasparenze di Teatro Carcere. In occasione delle tappe del festival in Emilia-Romagna, si è messa in viaggio per raccontare le storie che nascono dentro e fuori dalle mura del carcere. Nelle prime quattro tappe, il gruppo ha visitato la Casa Circondariale di Parma, di Ravenna, Forlì e la Chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna, raccogliendo testimonianze da attori, operatori e protagonisti del Coordinamento Teatro Carcere. Tutto questo lavoro confluirà in un podcast speciale dedicato agli spettacoli e alle esperienze uniche di questa rete. Il festival proseguirà fino a dicembre, e la Konsulta sarà presente anche per le tappe successive a Bologna, Reggio Emilia, Ferrara, Forlì, Ravenna e per la Trilogia dell’Assedio - studi, del Teatro dei Venti nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia per il primo capitolo Edipo Re. Corsi di formazione e professionalizzazione - Grazie al progetto AHOS All Hands on Stage sono stati attivati da ottobre a novembre dei corsi di formazione di illuminotecnica, a cura di Marcello Marchi, all’interno delle carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Corsi propedeutici ai tirocini formativi, volti a sviluppare competenze per la professionalizzazione dei detenuti in ambito teatrale, che verranno attivati da gennaio 2025 presso Teatro dei Venti, ERT - Emilia Romagna Teatro Fondazione (Teatri Storchi e Teatro delle Passioni), Teatro Pavarotti-Freni Modena, Ater Fondazione (Teatro Magnani di Fidenza). Questa iniziativa si affianca ad attività analoghe realizzate nei paesi europei coinvolti nel progetto AHOS All Hands on Stage, tra cui Germania, Polonia, Serbia e Grecia. AHOS si concluderà nel luglio del 2025 e tra gli output prevede anche la scrittura di un Manuale di buone pratiche di teatro in carcere a livello europeo a cura di Oliviero Ponte Di Pino e Giulia Alonzo di Ateatro. Storie bastarde di periferia di Francesco Musolino La Stampa, 9 dicembre 2024 “Questa è la storia di Davide, Zampettone, er Gufo, il Tonno, il Pagliaccio, il Frappa e di tanti altri amici cresciuti a Ostia e diventati uomini più in fretta dei loro coetanei”. Questa è la storia di Davide Desario, cresciuto nella periferia romana fra le partite a pallone, le risse in strada, gli scherzi (anche crudelissimi), i bulli, le risate e alcuni momenti indimenticabili. Lui ha visto i suoi amici salvarsi o finire male, diventando negli anni uno dei cronisti di nera più apprezzati e dal 2023 dirige l’agenzia di stampa Adnkronos. Altri hanno preso strade diverse, alcuni non ci sono più e un giorno, facendo il giro delle telefonate in Questura, Desario scoprì casualmente che era stato trovato il cadavere di un ragazzo con la siringa in vena, “il solito tossico morto in pineta”. Quel ragazzo era Giustiniano, uno dei suoi più cari amici d’infanzia. “Storie bastarde. Quei ragazzi cresciuti tra Pasolini e la Banda della Magliana” (pubblicato da Avagliano editore, con la prefazione di Francesca Fagnani) è un libro che puzza maledettamente di vita e di strada, bello in modo quasi crudele. L’ambientazione è l’estrema periferia di Roma, riunendo un collage di storie vere - “una umanità “de lama e de fero”“ - dando conto del lato oscuro della metropoli, mettendo al centro della pagina un gruppo di ragazzini, “una nutrita banda di pischelli brutti, sporchi ma buoni” ancora ingenui ma desiderosi di sentirsi adulti, in quel fazzoletto di Roma sgualcito e senz’anima. Sono esistenze all’ombra dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto il 2 novembre 1975 all’Idroscalo che aveva trasformato agli occhi dei romani quella propaggine nel Bronx. “Piazza Gasparri era e resta - scrive la giornalista Fagnani - il centro nevralgico di quella mala che unisce glorie locali, esponenti della Banda della Magliana e boss che arrivano da dentro e fuori la città, ben consapevoli del peso strategico di questa estrema propaggine urbana”. Ostia, il mare low-cost dei romani, fra bombe fritte, birre ghiacciate e gavettoni, ma dagli anni ‘80, “piazza Gasparri è stato il regno dell’eroina, a cui negli anni successivi si è aggiunto tutto il resto”. Lo scenario è questo, le storie narrate da Desario sono vere, alcuni dei personaggi incontrati sono destinati a diventare “boss temuti e riveriti” che riempiranno le pagine della cronaca di morti ammazzati; ma, parafrasandolo, i medesimi fatti potrebbero accadere anche oggi alle Vele di Scampia, nello Zen di Palermo, alla Barriera di Torino o fra le strade di Quarto Oggiaro: lo sfondo è quel mondo grigio e reale in cui affondano le speranze, lì dove una vita vale meno di una scarpa di marca pestata per sbaglio o di uno sguardo di troppo alla ragazza del boss. Affronti che devono essere puniti con la morte e un post sui social, urlando al mondo intero il valore della parola “rispetto”. Ventisette storie firmando un romanzo criminale visto dagli occhi di un bambino, così Desario racconta del giorno in cui ha scoperto il cadavere di un impiccato, incrociando inconsapevolmente la strada dei “bravi ragazzi” della Banda della Magliana e della primula rossa delle Br, Barbara Balzerani. Scippi e rapine, motorini rubati e furtarelli, poi l’irruzione del sesso mentre il futuro è qualcosa che sfugge in quel mondo di bambini che diventano adulti troppo presto, perdendo per strada pezzi, fra overdose e morti ammazzati. “In quegli anni a Ostia le pistole sputavano fuoco a più non posso. Le pistole dei neri. Le pistole dei rossi. Le pistole dei giovani spacciatori e dei vecchi usurai. E le pistole della polizia e dei carabinieri che all’epoca sembravano molto più sceriffi e non sempre buoni” ma leggendo Desario si ha l’impressione che quel mondo perduto era un mondo di pericoli consapevoli. Oggi le pistole pesano ancora meno e per diventare adulti in fretta basta poggiare il dito sul grilletto e fare fuoco, fra una sniffata e una botta offerta dal boss di turno. Giocando alla roulette russa con la propria vita senza alcuna responsabilità, quasi come prigionieri di un videogioco, senza alcun futuro in cui poter sperare. Vince solo il più forte. E perdiamo tutti insieme, facendo la conta dei morti. Roberto Saviano, il nuovo romanzo per Einaudi: “Una storia del 1981 che mi tormenta” di Cristina Taglietti Corriere della Sera, 9 dicembre 2024 L’autore passa a Einaudi: nel 2025 uscirà “L’amore mio non muore” su Rossella Casini, uccisa dalla ‘ndrangheta. Un nuovo romanzo e un nuovo editore: Roberto Saviano tornerà in libreria a maggio del prossimo anno con L’amore mio non muore per Einaudi Stile libero. Lo scrittore rientra dunque nel gruppo di Segrate che, con il marchio Mondadori, aveva dato alle stampe il suo esordio, Gomorra, nel 2006, quando aveva 26 anni. Da allora Saviano ha pubblicato con diversi editori, da Feltrinelli (ZeroZeroZero, La paranza dei bambini, Bacio feroce), a Bompiani (Solo è il coraggio) per cui ha anche curato la collana Munizioni, a Fuoriscena, da cui quest’anno è uscito Noi due ci apparteniamo. Con Einaudi Stile libero non è la prima volta: del 2010 è La parola contro la camorra (con dvd). Gomorra, che ha venduto nel mondo dieci milioni di copie ed è stato tradotto in 52 lingue (sottotitolo: Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra) entrerà, come gli altri titoli dello scrittore, nel catalogo dello Struzzo. Verrà riedito da Einaudi, in prossimità del ventennale, con una nuova introduzione in cui Saviano ripercorre la storia di un bestseller che ha avuto significative ricadute sulla sua vita (da allora è sotto scorta) ma anche nella società e nella cultura italiane. Con “L’amore mio non muore” Saviano torna a occuparsi di una tragica storia di criminalità organizzata, questa volta legata alla ‘ndrangheta: quella di Rossella Casini, studentessa fiorentina, scomparsa a Palmi (Reggio Calabria) il 22 febbraio 1981, a 24 anni. “Ho incontrato questa storia - spiega Saviano al “Corriere” - molti anni fa. Ho iniziato a inseguirla, mi ha tormentato, e ora ho deciso di raccontarla. Di raccontare quel che è accaduto a una ragazza ammazzata nel più feroce dei modi, una ragazza di cui non abbiamo che una foto, una sola. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e i colpevoli dell’omicidio non sono mai stati condannati. È una storia senza giustizia, che ho deciso di far rivivere attraverso il romanzo”. Come recita la targa commemorativa posta sulla sua abitazione fiorentina, Rossella “per amore infranse la regola criminale del silenzio” firmando così la sua condanna. Studia Pedagogia all’Università di Firenze, quando si innamora di uno studente calabrese, Francesco Frisina. Rossella scopre che la famiglia di Francesco è affiliata a una ‘ndrina di Palmi quando il padre del ragazzo viene ucciso da due killer del clan rivale. Anche Francesco rimane ferito gravemente durante una spedizione punitiva. Rossella lo convince a collaborare con i magistrati e racconta lei stessa alla procura di Firenze che cosa ha visto nei suoi viaggi in Calabria. La famiglia convince Francesco a ritrattare, ma Rossella non si rassegna e continua a fare la spola tra Firenze e la Calabria. Il 22 febbraio 1981 telefona al padre dicendogli che sarebbe rientrata presto a Firenze, poi sparisce. Il corpo non è mai stato ritrovato. Il processo d’appello si è chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove. Saviano spiega la scelta del romanzo: “Soltanto così potevo disegnare le scelte e restituire il coraggio di una giovanissima toscana persuasa di poter fermare una faida di ‘ndrangheta in nome dell’amore; animata dall’illusione di mutare il corso degli eventi avendo come unica risorsa il voler bene”. Quella di Rossella, però, precisa Saviano, non può essere scambiata per una storia di ingenuità: al contrario “è una scelta di fede. Di fede nel “congegno” dell’amore, a cui affida ogni possibilità di salvezza. La sua fede verrà infranta, spezzata, tradita. Ma la verità che custodiva rimarrà intatta”. Le Destre invocano più libertà, ma chi la sta limitando? di Francesco Battistini e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 9 dicembre 2024 Quando i leader della destra usano la parola “libertà”, e la usano spesso per dire che viene minacciata, la contrappongono alla parola “comunisti”. Ma di quali libertà parlano? E a quale comunismo si riferiscono? Negli Usa, Donald Trump ha ripetuto per mesi che la sua elezione “non era una scelta fra democratici e repubblicani, ma una scelta fra comunismo e libertà”. E il presidente argentino Javier Milei ha salutato così la vittoria del nuovo presidente americano: “Oggi uno spettro diverso s’aggira per il mondo: lo spettro della libertà, per mettere fine al modello di servitù che regna nel mondo libero”. Nel resto d’Europa non va diversamente. Per il leader ungherese Viktor Orbán, che pure strizza l’occhio alla Russia rifondata da un ex del Kgb come Vladimir Putin, “i progressisti non sono altro che comunisti con un diploma”. Anche in Italia, da trent’anni, il berlusconismo definisce la sinistra italiana “comunista”, nonostante il Pci si sia dissolto nel 1991. Giorgia Meloni dice che “è incredibile come la visione comunista si sia rafforzata da quando il comunismo è stato sconfitto”. E l’ex comunista padano Matteo Salvini considera i suoi contestatori “zecche rosse, comunisti”, senza ricordare che il Pci ha provato a governare solo insieme alla Dc col famoso compromesso storico, e senza riuscirci, quand’era un partito ormai ben lontano da Mosca. Non importa andare troppo per il sottile, l’etichetta di comunista si porta un po’ con tutto. “Uccideremo i comunisti del cambiamento climatico” promette Herbert Kickl, leader dell’ultradestra austriaca, ritenendo comunista ogni liberale o centrista che dia retta ai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), a cui partecipano gli scienziati di 195 Paesi membri. Cento partiti, quattro al governo - Attenti ai comunisti, allora. Ma che cosa s’intende oggi per “governo comunista”? Quelli di stretta osservanza, e che comandano da soli in un regime di dittatura, li troviamo soltanto in quattro Paesi: Cina, Cuba, Laos e Vietnam. Poi esistono i comunisti che regnano senza dirsi più comunisti: nella Corea del Nord, dove il marxismo-leninismo è stato cancellato dalla costituzione nel 2012 e s’è trasformato nel culto della personalità di Kim Jong-un; in Nicaragua, dove il sandinismo ha deviato verso una specie di nazionalismo. Putin è un leader post-comunista e la Russia è diventata un’autarchia con altri connotati. Oggi, i partiti comunisti hanno un ruolo di comando in Angola, Congo, Mozambico, Ecuador, Brasile, Cambogia e Mongolia. In molti altri casi sono partiti che non contano nulla, neppure rappresentati nei parlamenti: sono minuscoli e irrilevanti come in Italia e nemmeno s’ispirano al marxismo leninismo. In Europa, degli oltre 40 partiti esistenti, nessuno è al governo. Quali libertà sono minacciate? - Chi evoca falce e martello, non pensa affatto a concetti ormai fuori dalla storia come la dittatura del proletariato, visto che dai cinesi ai cubani si sono convertiti all’economia di mercato. Il termine “comunista” in realtà è usato dalle destre per indicare quei governi progressisti e di sinistra che ucciderebbero le libertà individuali. “Voi in Italia e noi in Francia siamo impegnati nella stessa lotta - ha detto Marine Le Pen a Pontida, il 17 settembre scorso -: la lotta per le libertà, per la patria”. Il sovranista olandese Geert Wilders: “È necessario tutelare la libertà di coloro che dicono la verità e sono odiati per questo”. In agosto, dopo l’arresto in Francia di Pavel Durov, il creatore del social Telegram (utilizzato anche per attività criminali), Salvini ha avvertito che “in Europa siamo ormai alla censura, alla puzza di regime. Chi sarà il prossimo a essere imbavagliato? Il grande Elon Musk?”. Anche il leader spagnolo di Vox, Santiago Abascal, è convinto che la vittoria sulla “tirannia” delle sinistre passi per “la difesa dei diritti di Musk”. Entrambi ignorano quanto sia improbabile negarli a uno che è il principale consigliere della Casa Bianca, è proprietario di X, di satelliti militari e civili e del più grande patrimonio finanziario mondiale. “Forze oscure vogliono togliervi la libertà” ha avvertito Donald Trump in un comizio a Butler il 20 ottobre: “E io sono l’unico ostacolo”. Ma le destre sono imbavagliate? - Dunque quali sono le libertà invocate dalle destre? Quelle di potersi esprimere contro idee considerate dominanti come il Green Deal, il cambiamento climatico, l’Unione Europea, la cultura woke, il politicamente corretto. Libertà di espressione che però nessuno nega e nessun organismo giuridico, in Occidente, ha mai segnalato restrizioni al diritto d’esprimersi su questi temi. Lo stesso Musk possiede la piattaforma con 368 milioni di utenti, dove proliferano le fake news, dove s’insulta la Commissione europea, dove si chiede il licenziamento dei nostri giudici quando applicano la legge sui migranti. A proposito di avversione al “politically correct”, Confindustria (che è apartitica) finanzia Radio24 che trasmette un programma come “La zanzara”, con libertà di turpiloquio e giudizio offensivo. Nessuno s’è mai sognato di censurare il generale Vannacci, col suo best seller contro il “pensiero mainstream”. Quella agitata dalle destre è la libertà di non pagare le tasse che non piacciono, come se un singolo cittadino potesse scegliere; d’avere un’istruzione cristiana, come se l’ora di religione a scuola fosse vietata; di negare il cambiamento climatico. Anzi, in tutta Europa, dall’Olanda alla Polonia, le destre hanno portato le rivolte dei trattori in Parlamento con gli striscioni contro le politiche green della Ue. In realtà i contadini protestavano contro il rialzo dei prezzi del gasolio, gli accordi commerciali con il Sud America (Ue-Mercosur) e lo strozzinaggio della grande distribuzione, poiché le politiche della Pac (Politica Agricola Comune) erano state già state rinegoziate nelle sedi competenti. Lo scorso maggio Giorgia Meloni ha detto: “In questi anni, l’Europa ha messo in atto una limitazione della libertà degli Stati nazionali da cui si deve tornare indietro”. È il caso di ricordare che l’Italia è un Paese fondatore dell’Unione e che, a Bruxelles, ogni decisione viene adottata solo con l’approvazione all’unanimità o a maggioranza dei Paesi membri. Bernard Carr, nominato da Trump presidente della Commissione federale per le comunicazioni, sostiene che “dobbiamo ripristinare il diritto degli americani alla libertà di parola”, nel Paese che l’ha inserita al Primo Emendamento della sua Costituzione. Ed è Musk a sostenere che “la più grande minaccia alla civiltà moderna” è l’attenzione alle ingiustizie sociali e razziali, di cui dovremmo liberarci. Le simpatie per i censori - È curioso che il modello di ispirazione, non solo d’idee, venga proprio da regimi liberticidi. Marine Le Pen, il leader di Vox Abascal, Matteo Salvini e Giorgia Meloni simpatizzano per l’Ungheria di Orbán. Nella risoluzione del Parlamento Ue contro il leader ungherese per violazione dello stato di diritto, la Lega e FdI hanno votato contro. Eppure, nell’Ungheria di Orbán il concetto di libertà è variabile. Libertà per le famiglie: la Costituzione vieta i matrimoni fra persone dello stesso sesso. Libertà d’istruzione: alcune minoranze, come i rom, devono frequentare scuole separate. Libertà d’espressione: esiste l’Authority dei media, nominata dal premier, che di fatto controlla l’informazione. Libertà di linguaggio: è vietato chiamare “rifugiati” i migranti. Libertà nel processo: i giudici ungheresi dipendono dal governo che ne decide le carriere. Putin, Xi Jinping e l’idea di libertà - Matteo Salvini ha sempre detto di voler “cedere due Mattarella in cambio di mezzo Putin”. L’inchiesta sui fondi russi alla Lega è stata archiviata, ma ha accertato che l’obiettivo del partito era comunque quello d’ottenere “un finanziamento politico” dal Cremlino. Il partito Rassemblement National di Marine Le Pen, fra i primi a riconoscere l’invasione di Putin in Crimea, ha ricevuto 9 milioni di euro da banche di Mosca per finanziare le campagne elettorali. Lo stesso Trump guarda alla Russia di Putin: un Paese dove chi critica l’invasione dell’Ucraina rischia fino a 15 anni di carcere, che considera spie tutte le ong internazionali e indipendenti, che blocca gli accessi a siti internet senza l’obbligo di fornire spiegazioni, che ha chiuso definitivamente giornali scomodi come la Novaja Gazeta di Anna Politkovskaja, assassinata nel 2006, e sopprime fisicamente gli avversari politici. Simpatizza per Putin anche Orbán che, al tempo stesso, ammira la Cina dell’”amico di lunga data” Xi Jinping e il suo stato di polizia. In Cina la legge sulla sicurezza nazionale (2015) vieta la libertà d’espressione, associazione e riunione; la legge sulla sicurezza dei dati (2021) dà al partito unico l’accesso illimitato a qualsiasi informazione dei cittadini; la legge sulla cybersicurezza (2016) impone una sorveglianza video e digitale completa; la legge sulle ong straniere (2016) proibisce la difesa dei diritti umani e nel Paese continua la persecuzione delle minoranze. “Abbiamo filosofie simili ed entrambi stimiamo l’indipendenza e l’agire di propria iniziativa” ha detto cinque mesi fa il leader ungherese al presidente cinese. Un bel complimento all’unico, grande Paese comunista del mondo. Perché i controlli di carabinieri e polizia stradale sul consumo di droghe daranno esiti diversi di Antonella Soldo Il Domani, 9 dicembre 2024 Con le nuove norme del Codice della strada non servirà più dimostrare lo stato di alterazione alla guida, basterà solo aver assunto sostanze, anche giorni prima. Ma se hai assunto THC e ti fermano i carabinieri è più probabile che tu risulti positivo rispetto a se ti ferma la polizia: i test in dotazione ai due corpi hanno soglie diverse. Dovremmo prendere spunto dalle regole introdotte nei paesi che hanno legalizzato la cannabis. Il 14 dicembre entrerà in vigore il nuovo codice della strada voluto dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini e una delle novità che più fanno discutere è quella che riguarda il ritiro della patente a chi risulti positivo a una qualche sostanza stupefacente, con l’eccezione dell’alcool. Le modifiche introdotte all’articolo 187 del codice della strada, infatti, prevedono che sia punibile con ritiro immediato della patente per tre anni (oltre che con l’arresto fino a un anno e la multa fino a 6mila euro) il conducente che risulti positivo a un test antidroga. Mentre per l’alcool bisognerà continuare a dimostrare lo stato di ebbrezza (ovvero di avere un tasso di alcolemia oltre lo 0,5 g/l), per le altre sostanze bisognerà dimostrare la mera positività. Cosa cambia - Qual è la differenza con quanto accadeva prima? Che la norma in precedenza stabiliva che bisognasse dimostrare lo stato di alterazione. La mera positività, infatti, non dimostra da sé l’incapacità di mettersi alla guida in sicurezza e ciò vale in particolare per i cannabinoidi. La cannabis, infatti, in consumatori abituali è rilevabile nella saliva anche 80 ore dopo l’ultima assunzione, e dopo 13 ore per i consumatori occasionali. E addirittura la cannabis light (quella con THC, la molecola psicotropa, sotto lo 0,3 per cento) resta nella saliva anche 5-6 ore. Si tratta di parametri estremamente variabili che dipendono da molti fattori: il peso, il sesso, il metabolismo, eccetera. Raggiungere il livello zero nella saliva è dunque molto problematico. Il problema dei test - Ma a questa utopia repressiva si aggiunge un altro problema: ovvero quello dei metodi di rilevazione in dotazione alle forze dell’ordine. Intanto: la disponibilità di drug test ai posti di blocco è sempre stata molto limitata in Italia: nel 2022 i test salivari fatti su strada sono stati 3.400 in tutto il paese. Generalmente in presenza di un sospetto stato di alterazione le forze dell’ordine avevano - e hanno - la facoltà di accompagnare la persona fermata presso una struttura sanitaria per sottoporti ad analisi cliniche. È con il governo Meloni che si arriva, nel dicembre 2023, a un accordo interistituzionale tra presidenza del Consiglio, Arma dei Carabinieri, Polizia di stato e Guardia di finanza, che stanzia 9,8 milioni di euro per l’acquisto di “materiali, attrezzature e mezzi per implementare le attività di controllo dell’incidentalità notturna”. Per comprare i drug test, insomma, oltre che per “attività di sensibilizzazione e di formazione degli utenti della strada” per prevenire gli incidenti droga-correlati. Impegnati i fondi, i vari corpi si organizzano per acquistare i test. Peccato che ognuno scelga una tipologia diversa, con diversi cut-off, ovvero limiti di rintracciabilità della sostanza. L’Arma dei Carabinieri acquista per 1,5 milioni di euro dalla Forensic Lab Service, società con sede a Roma, 51mila test salivari del tipo “DrugWipe 5S”. Si tratta di un tampone salivare che, grazie all’uso di un reagente, è in grado di rilevare l’assunzione di cinque sostanze stupefacenti, specificando quale tra: cannabis, oppiacei, cocaina e anfetamine/metanfetamine (compresi MDMA ed ecstasy). Il risultato del test è visibile in otto minuti ed è positivo se la concentrazione nella saliva di THC è pari a 10 ng/ml o superiore. La polizia stradale invece sceglie un altro metodo: dei rilevatori portatili prodotti da Abbott che rilevano la positività a sei tipi diverse di sostanze (anfetamina, benzodiazepine, cannabis, cocaina, metanfetamina, oppiacei). Il limite di rilevabilità per ogni sostanza è diverso, quello per la cannabis è 25 ng/ml. Per capirci: se hai consumato cannabis e ti fermano i carabinieri è più probabile che tu risulti positivo rispetto a se ti ferma la polizia. In entrambi i casi, comunque, la positività al test non corrisponde allo stato di alterazione. Il test salivare, infatti, può rappresentare certamente un indizio di un eventuale consumo di THC, ma allo stato attuale non risulta rappresentativo né di un rischio stradale concreto, né di un consumo recente. Per concludere due cose. La prima: in Italia non c’è un’emergenza di incidenti stradali causati dalle sostanze e tantomeno dalla cannabis. I dati del dipartimento delle politiche Antidroga ci dicono che il 3,3 per cento degli incidenti stradali con lesioni è droga-correlato (la prima sostanza è la cocaina) e il 9,1 per cento è alcol-correlato. Ma sull’alcool gente come il senatore Claudio Borghi si è affrettata a rassicurare gli elettori sul fatto che possono continuare a mettersi al volante dopo “essersi scolati una bottiglia di vino”. La seconda cosa: come si regolano nei paesi che hanno legalizzato la cannabis? Semplicemente hanno stabilito una soglia: per esempio in Germania l’hanno fissata a 3,5 ng/ml, in Canada a 5 ng/ml. Un criterio certo e trasparente che permette a tutti di regolarsi. Il Papa: concedere la grazia ai detenuti che negli Usa sono nel braccio della morte di Devin Watkins vaticannews.va, 9 dicembre 2024 Il Papa, nei saluti del dopo Angelus, ha chiesto preghiere per coloro che sono in attesa di esecuzione nelle carceri statunitensi, sollecitando la commutazione della pena. Nei giorni scorsi la Catholic Mobilizing Network, rete che si batte per l’abolizione della pena capitale, aveva lanciato un appello al presidente Joe Biden affinché converta la sentenza di 40 uomini che rischiano la morte nelle carceri federali. “Mi viene al cuore chiedere a tutti voi di pregare per i detenuti che negli Stati Uniti sono nel corridoio della morte”. Il Papa, subito dopo l’Angelus, chiede preghiere perché la pena di chi si trova in attesa di esecuzione venga commutata. “Pensiamo a questi fratelli e sorelle nostre - dice Francesco - e chiediamo al Signore la grazia di salvarli dalla morte”. Nei giorni scorsi, un appello a commutare la condanna alla pena capitale per 40 persone attualmente detenute nelle carceri federali era stato lanciato da Catholic Mobilizing Network (Cmn), l’organizzazione cattolica nazionale che si batte per l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. A poche settimane dalla scadenza del suo mandato, secondo Krisanne Vaillancourt Murphy, direttore esecutivo del Cmn, il Presidente Joe Biden ha l’opportunità unica di abbracciare l’insegnamento cattolico e salvare le vite di quei detenuti. “Siamo in un momento urgente e sensibile - spiega ancora Vaillancourt Murphy - perché il presidente ha l’autorità e il potere costituzionale di agire per abolire il braccio della morte federale”. Nel 2018, Papa Francesco ha modificato il Catechismo della Chiesa Cattolica, un compendio dell’insegnamento cattolico, per affermare l’opposizione della Chiesa alla pena di morte sulla base della dignità umana, che non viene meno nemmeno quando una persona commette un grave crimine. La Chiesa, si legge nella nuova versione del paragrafo 2267 del Catechismo “insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”,[1] e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”. Nel giugno 2021, il presidente Biden aveva imposto una moratoria temporanea sulle esecuzioni federali, una pausa che il presidente eletto Donald Trump ha promesso di annullare. “Sappiamo concretamente - è convinzione del direttore esecutivo del Cmn - che il presidente che entrerà in carica alla fine di gennaio ha una storia di esecuzioni ed è impegnato a espanderle e accelerarle ancora una volta, il che rende tutto questo piuttosto urgente”. L’ultimo mese di mandato del presidente Biden si sovrapporrà all’inizio del Giubileo della Speranza del 2025, un Anno Santo che affonda le sue radici nell’Antico Testamento e che prevede un periodo speciale per ristabilire un rapporto corretto con Dio e con gli altri. “Ci stiamo avvicinando all’anno storico del Giubileo del 2025, una tradizione biblica la cui storia è legata alla liberazione dei prigionieri, alla liberazione degli oppressi e al riequilibrio della società - prosegue Vaillancourt Murphy - è un anno storico che può avere una particolare rilevanza per un presidente la cui fede cattolica è molto importante per lui. Questo anno giubilare sottolinea un momento di riequilibrio e di ripresa della giustizia e della misericordia”. Papa Francesco ha lanciato un appello speciale per l’abolizione della pena di morte nella Bolla di indizione del Giubileo del 2025 chiedendo ai credenti di ogni angolo della terra, e specialmente i Pastori, di farsi interpreti della richiesta di formare “una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento”. Vaillancourt Murphy, sottolinea quindi che la fine del mandato del presidente Biden rappresenta un’opportunità unica per gli Stati Uniti di offrire al mondo un segno tangibile di speranza verso la fine della pena di morte. “Se il presidente Biden dovesse fare questo passo - è la sua conclusione - avrebbe un riverbero non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo e l’anno del Giubileo è il momento perfetto per questo presidente cattolico per fare questa mossa storica”. Arabia Saudita. Più di 300 esecuzioni nel 2024 mentre il Paese ospita eventi a tutela dei diritti di Nicoletta Labarile Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2024 Ha presieduto la commissione Onu sullo status delle donne nel corso della 68esima sessione annuale delle Nazioni unite. Ma nel suo territorio le donne vengono informate del loro divorzio tramite sms. Si candida ad accogliere i Mondiali di calcio del 2034 nel rispetto dei diritti umani. Ma, come sottolineano Amnesty International e Sport & Rights Alliance in un rapporto di 91 pagine, non affronta la grave repressione della libertà di espressione esercitata dal suo governo. Ospiterà il Forum annuale sulla governance di Internet dal 15 al 19 dicembre. Ma nelle sue carceri ci sono persone minacciate, imprigionate e sottoposte a sparizione forzata solo per aver reso noto sul web il proprio dissenso. Tutto questo sta accadendo in Arabia Saudita. Mentre da anni il Paese cerca di “ripulire” la sua reputazione promuovendo eventi a livello globale, i diritti umani continuano ad essere calpestati. E per le donne la situazione peggiora. La contraddizione tra l’immagine che il Paese sta cercando di costruire a livello internazionale e la situazione reale emerge chiaramente dai dati: nel Global Gender Gap Index 2024, il rapporto introdotto per la prima volta dal World Economic Forum nel 2006 per valutare i progressi nella parità di genere nel mondo, l’Arabia Saudita occupa la 126esima posizione sui 146 Paesi analizzati. Dalla nascita fino alla morte, passando per gran parte delle scelte della vita quotidiana, in Arabia Saudita la vita di una donna è controllata da un uomo. Ogni donna saudita ha un tutore - il padre, il marito o il fratello e in alcuni casi il figlio - che acquisisce il potere di decidere su tutte le sfere della sua vita: è il “sistema del guardiano” (in arabo welayah), per cui le donne sono dipendenti dal wali, ovvero un tutore “protettore”. La prima legge codificata dell’Arabia Saudita sullo status personale, emanata in occasione della Giornata internazionale della donna del 2022, sancisce formalmente la tutela maschile sulle donne, come ha affermato la ong Human Rights Watch. La legge contiene disposizioni discriminatorie nei confronti delle donne in merito a matrimonio, divorzio e decisioni sui loro figli. La legge sullo status personale richiede alle donne di ottenere il permesso di un tutore maschio per sposarsi, codificando la prassi consolidata nel Paese. Le donne sposate sono tenute a obbedire ai loro mariti in “maniera ragionevole”. Il sostegno finanziario di un marito è subordinato all’obbedienza di una moglie che può perdere il diritto a tale sostegno se rifiuta senza una “giustificazione legittima” di fare sesso con lui, trasferirsi o vivere nella casa coniugale o viaggiare con lui. La legge stabilisce inoltre che nessuno dei coniugi può astenersi da relazioni sessuali o convivenze senza il consenso dell’altro coniuge, implicando un diritto coniugale al rapporto sessuale. Inoltre, mentre un marito può divorziare unilateralmente dalla moglie, una donna può presentare istanza a un tribunale per sciogliere il contratto di matrimonio solo per motivi limitati e deve “dimostrare il danno” che rende la continuazione del matrimonio “impossibile” entro tali motivi. La legge non specifica cosa costituisca “danno” o quali prove possano essere presentate a sostegno di un caso, lasciando ai giudici ampia discrezionalità. I padri rimangono i tutori predefiniti dei loro figli, limitando la capacità di una madre di partecipare pienamente alle decisioni relative al benessere sociale e finanziario del figlio. Una madre non può agire come tutrice del figlio a meno che non venga nominata da un tribunale: diversamente avrà un’autorità limitata per prendere decisioni per il benessere del figlio, anche nei casi in cui i genitori non vivono insieme e le autorità giudiziarie decidono che il figlio debba vivere con la madre. Il potere decisionale del padre resta prioritario: può cercare di porre fine alla custodia del figlio da parte della madre sostenendo che è “incapace”. O richiederne la sospensione o nel caso in cui la donna dovesse risposarsi con qualcuno che non conosce il bambino, a meno che non sia nel “miglior interesse del bambino”. Come riporta Amnesty International, una corte d’appello ha ribaltato un precedente verdetto che aveva concesso alla cittadina statunitense Carly Morris la custodia di sua figlia. La sentenza si era basata sull’art. 128 della legge sullo status personale, in base al quale un custode perde la custodia se sposta la sua residenza in un altro luogo dove gli interessi del minore non sono tenuti in considerazione. Carly Morris non aveva ricevuto alcuna notifica delle sessioni di tribunale che si sono svolte in sua assenza e il suo ex marito da allora non le ha più permesso di comunicare con la figlia. In aperta opposizione a quello che gli standard internazionali definiscono, appunto, “il miglior interesse del bambino”. Alcune riforme del sistema di tutela maschile negli ultimi anni hanno permesso alle donne qualche importante progresso come andare al cinema e negli stadi, entrare nelle forze armate, richiedere passaporti, aprire attività senza il consenso maschile e guidare con la patente senza la presenza di un tutore maschio. Tuttavia, quelli che dovrebbero essere diritti garantiti rimangono deboli concessioni che migliorano la vita delle donne ma non la liberano totalmente dall’autorità maschile. È il caso del divorzio: nel 2019 una direttiva del ministero della Giustizia ha messo fine ai cosiddetti “divorzi segreti”, ovvero quei casi in cui il marito metteva fine al matrimonio senza informare la moglie. Con la modifica introdotta dalla direttiva, i tribunali sono tenuti a informare le mogli sulle sentenze di divorzio che le riguardano attraverso l’invio di sms sui loro telefoni. “Saranno avvertite di qualsiasi cambiamento del loro stato civile attraverso un messaggio” ha reso noto il ministero della Giustizia, aggiungendo che con la nuova disposizione potranno anche “visualizzare i documenti relativi alla risoluzione dei loro contratti di matrimonio attraverso il sito web del dicastero”. Una piccola breccia nel rigido sistema di tutela maschile per cui gli uomini potevano ripudiare le mogli a loro insaputa: bastava che il marito pronunciasse la formula di rito (“Tu (nome della donna) sei divorziata”) e registrasse il divorzio in tribunale, senza alcuna comunicazione alla consorte, perché questo diventasse effettivo. La notifica via sms è quindi un passo avanti perché, come ha sottolineato l’avvocato divorzista Somayya Al-Hindi, citato dalla Saudi Gazette, “questo metterà fine a ogni tentativo di imbrogliare o impadronirsi dell’identità delle donne per assumere il controllo dei loro conti bancari e proprietà, usando procure precedentemente emesse”. Se nella sfera privata le donne stentano ad avere diritti, in quella pubblica la situazione peggiora: chi ha provato a esprimere dissenso o a rivendicare il proprio spazio è in carcere o è stato ucciso. Secondo i calcoli dell’agenzia di stampa Afp, l’Arabia Saudita ha superato la soglia delle 300 esecuzioni nel 2024. La pena di morte è stata eseguita contro tre persone condannate per traffico di droga e un’altra condannata per omicidio, ha riferito l’agenzia di stampa ufficiale saudita, citando dichiarazioni del ministero degli Interni, portando il totale per l’anno a 303. Un dato che non arriva all’improvviso: già lo scorso 28 settembre la Saudi Press Agency aveva dato notizia dell’esecuzione numero 198 dall’inizio dell’anno. Nei soli primi nove mesi del 2024 le autorità saudite avevano superato anche il macabro record delle 196 esecuzioni del 2022. Le 198 esecuzioni da gennaio a settembre sono il numero più alto mai registrato dal 1990. È in questo contesto che la capitale saudita Riyadh ospiterà nei prossimi giorni il Forum annuale sulla governance di Internet: durante l’evento si incontreranno i rappresentanti di oltre 160 Paesi e avranno la parola mille relatori durante più di 300 sessioni e workshop. Il forum, che durerà cinque giorni, prevede il lancio di piattaforme, progetti e la firma di accordi di cooperazione tra governi, privati e ong: 40 organizzazioni non governative e per i diritti umani hanno diffuso una dichiarazione congiunta nella quale hanno sollecitato le autorità saudite a scarcerare immediatamente tutte le persone condannate solo per aver espresso le loro opinioni online. Le 40 organizzazioni hanno fatto notare quanto sia ipocrita che l’Arabia Saudita ospiti l’evento mentre continua a minacciare, imprigionare e sottoporre a sparizione forzata chi, utilizzando la rete, rende noto il proprio dissenso o promuove i diritti umani. Molte persone attiviste che difendono i diritti - e che solitamente prendono parte all’incontro annuale - hanno espresso forti preoccupazioni quest’anno rispetto alla propria partecipazione, temendo di essere minacciate, poste sotto sorveglianza o arrestate. Nel comunicato ufficiale con cui ha annunciato l’evento, l’Autorità saudita per la governance digitale ha parlato di un futuro promettente, sottolineando i recenti successi del regno nel settore digitale. Ma evitando di menzionare le criticità del proprio sistema autoritario anche in relazione alla libertà di espressione: l’attivista per i diritti delle donne Salma al-Shehab è stata arrestata nel gennaio 2021. Due anni dopo, al termine di un processo gravemente iniquo, è stata condannata a 27 anni di carcere - seguiti da altri 27 anni di divieto di viaggio - per false accuse di terrorismo derivanti da alcuni suoi tweet a sostegno dei diritti delle donne. Per lo stesso motivo, nel gennaio 2024, una corte antiterrorismo ha condannato a 11 anni di carcere un’altra donna, Manahel al-Otaibi: la sua ulteriore colpa sarebbe stata quella di condiviso delle sue foto scattate in un centro commerciale senza indossare l’abaya, il vestito tradizionale saudita. Abdulmajid al-Nirm, un vigile urbano in pensione, è stato messo a morte il 17 agosto per “sostegno a proteste contro il governo” nella provincia orientale a maggioranza sciita. Arrestato nel 2017, tenuto in isolamento per un mese e mezzo e impossibilitato a vedere un avvocato per due anni, nel 2021 era stato condannato a nove anni di carcere per “tentativo di destabilizzare la fabbrica sociale e l’unità nazionale attraverso la partecipazione a manifestazioni, sostenendo rivolte, cantando slogan contro lo stato e i suoi regnanti”, “opposizione all’arresto e al processo di persone ricercate”, nonché per aver fatto parte di una chat di gruppo su whatsapp in cui c’erano anche alcuni dei ricercati. Abdulrahman al-Sadhan, un operatore dell’associazione internazionale Mezzaluna rossa, è stato condannato nell’aprile 2020 a 20 anni di carcere seguiti da altri 20 anni di divieto di viaggio per aver pubblicato dei tweet satirici. Nasser al-Ghamdi, un insegnante in pensione, è stato condannato a morte nel luglio 2023 per aver criticato le autorità saudite su X e aver pubblicato video su YouTube. Questi sono alcuni dei casi emersi che già basterebbero a sottolineare quanto avanzato dalla lettera congiunta delle associazioni: “L’Arabia Saudita deve liberare tutti gli individui detenuti arbitrariamente solo per la loro espressione online prima di ospitare l’Internet Governance Forum (IGF) delle Nazioni Unite a Riyadh”. Si chiama “sportswashing” ed è il tentativo di ripulirsi la reputazione ospitando eventi sportivi di grande richiamo mediatico. L’Arabia Saudita lo fa da anni: ha ospitato la Supercoppa spagnola, ospiterà la Supercoppa italiana dal 2 al 6 gennaio e la Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (Fifa) l’ha valutata positivamente per i mondiali di calcio 2034. L’Assemblea generale straordinaria della Fifa procederà con l’assegnazione ufficiale dei mondiali di calcio 2034 all’Arabia Saudita il prossimo 11 dicembre: essendo l’unica candidata, non ci sarà suspense. La sua candidatura è appoggiata da ben 170 federazioni e si lega alla valutazione messa a punto da Fida e da AS&H Clifford Chance, partner di uno dei più grandi studi legali al mondo, il londinese Clifford Chance, che si vanta di “collaborare con le più grandi ong sui diritti umani e associazioni della società civile al mondo”. Il rapporto valutativo non contiene alcuna sostanziale analisi delle gravi e diffuse violazioni dei diritti umani denunciate dalle organizzazioni per i diritti umani. A riguardo Amnesty International e altre dieci organizzazioni hanno espresso grande preoccupazione: “È chiaro da oltre un anno che la Fifa ha intenzione di rimuovere tutti i possibili ostacoli che si frappongono alla decisione di assegnare al principe della Corona saudita Mohammed bin Salman i mondiali di calcio del 2034. Producendo un rapporto clamorosamente insufficiente, il partner di uno dei più grandi studi legali al mondo la cui fama è per lo più nota per la sua competenza nel campo dei diritti umani, ha contribuito a rimuovere l’ultimo impedimento fondamentale” ha commentato James Lynch, condirettore di FairSquare, che ha guidato l’azione comune nei confronti di AS&H Clifford Chance. Lo scorso maggio, difensori dei diritti umani, attivisti e intellettuali sauditi hanno presentato il documento “A Peoplès Vision for Reform in Saudi Arabia” articolando una serie di principi e riforme che dovrebbero essere alla base di un’Arabia Saudita che rispetta i diritti umani. Ma invece di aprire il dialogo con la società civile, le autorità saudite reprimono ogni forma di dissenso. La mancanza di confronto arriva anche dai vertici sportivi: sono passate ormai diverse settimane e il presidente della Fifa Gianni Infantino non ha ancora risposto alla lettera aperta inviata da 133 calciatrici professioniste da tutto il mondo affinché il governo del calcio mondiale receda dall’accordo di sponsorizzazione con Saudi Aramco, il colosso degli idrocarburi saudita partner dei mondiali di calcio maschili del 2026 e di quelli femminili del 2027. Come si può sposare la causa ambientalista ed essere sponsorizzati da uno dei maggiori colossi petroliferi mondiali? Come si possono conciliare i valori di tolleranza e rispetto delle diversità facendosi supportare da un Paese che non garantisce i diritti umani? È questo che si chiedono le giocatrici, mettendo nero su bianco i loro interrogativi e interpretando le perplessità diffuse sulla la situazione attuale in Arabia Saudita dove, sui diritti, ci sono troppe domande e pochissime risposte. Siria. Si apre l’inferno delle prigioni: ora inizi il capitolo della giustizia di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2024 Lasciamo ad altri giudicare se Israele e Usa abbiano inferto un altro colpo al cosiddetto “asse della resistenza” (anche se molti dimenticano gli anni in cui Bashar al-Assad si mise a disposizione della “guerra al terrore” della Cia). Lasciamo ad altri valutare se la Turchia abbia dato le carte e le sia sfuggito il mazzo dalle mani o se la Russia fosse troppo distratta a compiere crimini di guerra in Ucraina per farne altri in Siria. Lasciamo ad altri paragonare le statue abbattute a Damasco con quelle di Baghdad “e sappiamo bene lì com’è finita”. Lasciamo alle cancellerie occidentali le preoccupazioni su quanti siriani lasceranno nuovamente il paese, ignorando che sono moltissimi quelli che, fuggiti a partire dal 2011, vedono ora la possibilità di rientrarci. Lasciamo alla Storia la possibilità di sbagliare e che, come sempre accaduto in passato, questa volta a pagare per tutti non saranno i curdi. Lasciamo che siano altre persone, magari quelle direttamente interessate, a immaginare la Siria di domani. La Siria di oggi sono le carceri che si aprono, come quella famigerata di Saydnaya, dalle quali escono fiaccati e piegati dalla tortura uomini (imprigionati persino nel secolo scorso), donne e bambini coi loro racconti di altri detenuti che dalla tortura sono stati uccisi. A proposito di tortura e di molto altro come le sparizioni, sarebbe bene che la giustizia si mettesse in moto, perché oltre mezzo secolo di crimini di diritto internazionale commessi dalla dinastia Assad non può restare impunito. Non è chiaro cosa sarà della denuncia presentata nel 2023 da Canada e Paesi Bassi alla Corte internazionale di giustizia, mentre è noto che la Corte penale internazionale, a causa dei veti russi, non ha mai potuto aprire un’indagine. Resta la giurisdizione internazionale che chiama in causa soprattutto i tribunali europei: se proprio dalla Siria fuggiranno in tanti, tra questi ci saranno gli aguzzini già al servizio di Assad. Andranno indagati, processati e condannati. *Portavoce di Amnesty International Italia