Le carceri al collasso e le soluzioni inascoltate di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 8 dicembre 2024 “Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza” ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, riecheggiando la Costituzione, che all’articolo 27 stabilisce che la pena deve avere una funzione rieducativa. Eppure i numeri presentati il 6 dicembre alla Commissione regionale in visita alla Casa circondariale don Fausto Resmini di via Gleno, numeri che riflettono la realtà del sistema carcerario italiano, non fanno intravedere, purtroppo, segnali di speranza. Tutt’altro. Indicano un collasso: in via Gleno ci sono 583 detenuti, con un tasso di sovraffollamento del 182,8%. Mai così negli ultimi 15 anni. In Italia i detenuti crescono al numero di 200/300 unità al mese. Al 1° dicembre erano 62.463 detenuti, 16.000 oltre la capienza regolamentare. Una tendenza, questa, che si riscontra con questi ritmi almeno dal 2022. C’è un altro dato, forse il più preoccupante, che riguarda i giovani: sono 46 i detenuti tra i 18 e i 24 anni reclusi in via Gleno e la loro presenza è in aumento. Il fenomeno è dovuto anche agli effetti del cosiddetto decreto Caivano, che dà maggiori discrezionalità agli istituti per minori di trasferire i giovani detenuti nelle carceri per adulti, una volta che abbiano compiuto i 18 anni (i minorenni possono scontare la pena negli istituti minorili fino ai 25 anni di età). Il personale sotto organico - Questa enorme pressione sul sistema carcerario ha un prezzo altissimo. Non solo perché con questi numeri e con il personale gravemente sotto organico (a Bergamo sono 170 effettivi su un organico teorico di 243), è impossibile anche solo sperare di erogare una pena sufficientemente rieducativa a ogni detenuto. Ma anche perché, con questi tassi di sovraffollamento, l’obiettivo cambia: diventa la sopravvivenza. Da inizio anno i suicidi negli istituti penitenziari sono stati 85, superando in questa tragica classifica, in 11 mesi, l’annus horribilis che era stato il 2022. Sette gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Ma tutti gli indicatori della soglia di allarme (ormai ampiamente superata) sono in crescita: gli atti di autolesionismo (+ 506), così come i ricoveri urgenti in ospedale (+685), così come le infrazioni disciplinari per inosservanza degli obblighi (+ 1.447) e le aggressioni fisiche contro il personale di polizia penitenziaria (+375). Infine, sono 198 i poliziotti penitenziari indagati per lesioni gravi e torture e decine le inchieste giudiziarie in corso. La possibilità di un atto di clemenza - È utile e rincuora che ci sia ancora chi, tra coloro che sono poi chiamati a decidere sugli investimenti destinati all’esecuzione penale, si prenda la briga di andare a vedere con i propri occhi, come hanno fatto i consiglieri regionali. L’impressione, purtroppo, è che la buona volontà ormai non basti più ad arginare un sistema che è regolarmente alimentato da un impianto normativo e da una condotta giurisprudenziale che ha radicalmente cambiato il suo approccio nei confronti della pena. Non è tutta responsabilità di questo governo, che pure ci ha messo del suo nell’invenzione di fattispecie punite con il carcere. Siamo invece di fronte a un generale cambio di paradigma che si è progressivamente imposto grossomodo alla svolta del millennio. Basti pensare, solo per fare un esempio, che gli ergastoli sono aumentati di 25 volte nel ventennio 2000-2019 rispetto al ventennio 1955-1974 (lo ha ricordato Alessandro Barbano su “Il dubbio”). La migliore sintesi l’ha offerta però, su Repubblica, Luigi Manconi, una delle poche voci a sostenere con gran forza la necessità di un atto di clemenza: prima di pensare a qualsiasi tipo di intervento sulle nostre carceri, va ridotto drasticamente e velocemente il sovraffollamento. E a chi avanza dubbi va ricordato che nel 2006, quando ci fu l’ultimo indulto, dei 27mila detenuti liberati anticipatamente, “solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato complessivo che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere”. Fuori da ogni logica polarizzatrice tra “buonisti” e “cattivisti”, si invoca il coraggio della razionalità, capace di analizzare con lungimiranza il rapporto tra costi e benefici. La forza di scegliere tra un carcere sempre più a rischio di diventare “scuola di crimine” e “incubatore di insicurezza sociale” (così Domenico Arena, direttore generale dell’Esecuzione penale esterna e Messa alla prova, su Avvenire) e un’istituzione di livello europeo, capace di incarnare quella “speranza” che, come ricorda Mattarella, deve essere alla base di ogni sistema della pena, almeno in uno Stato che vuole ancora considerarsi di diritto. Quei suicidi in carcere di Salvatore A. Bravo girodivite.it, 8 dicembre 2024 Sui suicidi in carcere cade la mannaia del “politicamente corretto”: sono uomini che hanno commesso reati, per cui, sembra, che le loro vite siano “esistenze di scarto”. Non hanno un volto, non hanno una storia, sono solo degli accidenti in una realtà socio-politica dominata dalla gerarchizzazione del dolore. La sofferenza di un uomo che ha commesso un reato, di cui non si conosce la storia, sembra evaporare come il senso di giustizia e di umanità che dovrebbe essere la struttura portante di una società democratica. Nel carcere di Marassi, a Genova, si è suicidato un giovane tunisino, Amir Dhouiou di 21 anni, si tratta dell’85 suicidio nel 2024. Si è impiccato. Nel carcere di Genova i posti disponibili sono 535, vi soggiornano 696 detenuti. Il numero dei suicidi in carcere nell’anno corrente è superiore a quello dell’anno precedente. I suicidi in carcere sono prevalentemente maschili e spesso sono giovani uomini, come le recenti indagini denunciano. Sono esistenze oscure che spesso compaiono nella cronaca come un lampo veloce che si perde nel chiacchiericcio dei media. In una democrazia “le vite tutte” dovrebbero essere tutelate e sostenute, invece constatiamo l’indifferenza strumentale generalizzata. Talune sofferenze sono usate “dall’industria politica del sistema” per autolegittimarsi, in quanto il consenso è immediato e facilmente spendibile nelle campagne elettorali e, specialmente, serve alla struttura economica per consolidarsi. I giovani carcerati che si suicidano sono, invece, occultati, poiché essi denunciano la verità del sistema capitalistico. I suicidi sono spesso persone di ambiente proletario, migranti e talvolta persone con fragilità psichica. Ad essi il sistema non offre nulla, poiché non sono veicolo di consenso. I loro solitari e disperati suicidi mostrano l’effetto dei tagli al sociale e delle condizioni fatiscenti delle carceri. Vivere ammassati significa essere solo un numero senza voce. Gli investimenti per il recupero sono praticamente nulli, in quanto puntare sulle spese sociali per giovani uomini che hanno commesso reato, si può ipotizzare, non troverebbe il consenso della popolazione. Quest’ultima negli ultimi decenni è stata addestrata al pensiero astratto e alla meritocrazia. I reati sono letti in modo semplicistico separando il reato e il colpevole dall’intero. La legge è infranta, perché il sistema non offre opportunità agli ultimi, li blandisce col mito della ricchezza facile per abbandonarli alla precarietà e allo sfruttamento. Le istituzioni deputate al recupero (scuola, consultori, case di recupero e famiglia) sono vissute come un insostenibile onere per i conti pubblici. Gli effetti dei tagli e delle opportunità negate entrano nelle vite dei più fragili, i quali, non poche volte, dopo aver commesso un reato, si ritrovano disperatamente soli e senza prospettive. Per i migranti il dolore è anche più cocente, poiché sono lontani dalla loro terra, sono persi in un mondo straniero ed estraneo che ha promesso e non ha mantenuto. Ogni suicidio in carcere ci racconta di una vita negata ed è lo specchio del darwinismo sociale in cui siamo caduti. I più deboli soccombono o escono dall’esperienza carceraria in condizioni psichiche peggiori. Il ciclo si autoalimenta e, naturalmente, è utilizzato dal sistema per giustificare il controllo del territorio e l’estensione del medesimo. Dinanzi ad ogni suicidio che si consuma nella patria di Beccaria dovremmo mettere in pratica un riorientamento gestaltico soffermandoci sul nome, sulla storia e sull’età del suicida. Non si tratta di vuota contemplazione del dolore, o di pietismo fine a se stesso, ma tali tragedie possono darci la motivazione per continuare a denunciare e ad operare, affinché vi sia il rispetto della Costituzione italiana, la quale afferma chiaramente che la punizione dev’essere rieducativa e non può mancare di umanità. L’articolo 27 lo rammentiamo afferma: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato [cfr. art. 13 c. 4]. Non è ammessa la pena di morte”. Siamo distanti da ogni umanità, pertanto spetta a noi il compito di riumanizzare le relazioni denunciando la violenza nelle sue forme polimorfiche. La condizione delle carceri rispecchia la verità del sistema neoliberale, che con il suo individualismo crematistico decreta “i salvati e i dannati”, solo in base al paradigma sociale del denaro. Coloro che non hanno mezzi economici con cui poter comprare formazione, salute e relazioni sono spesso destinati a cadere in un abisso anonimo di dolore. A tutto questo è necessario opporsi, per mostrare che siamo ancora semplicemente “umani”. “Lavoro in carcere e celle nuove”: le parole vane del capo del Dap di Nello Trocchia Il Domani, 8 dicembre 2024 Giovanni Russo, il responsabile dell’amministrazione penitenziaria, aveva promesso occupazione. Ma a un anno di distanza da quell’impegno la situazione dietro le sbarre è sempre più drammatica, mentre proprio questa settimana è stato superato il record di suicidi in cella in un anno. “Io nel giro di un anno sarò in grado di offrire a più della metà dei detenuti del nostro paese un’attività lavorativa”. Una promessa dal sapore del miracolo quella pronunciata, 14 mesi fa, da Giovanni Russo, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, magistrato in aspettativa e scelto dal governo delle destre per guidare il disastrato universo carcerario. Prima di entrare nel merito del roboante impegno assunto, più di un anno fa, bisogna svelare uno dei tratti distintivi di Russo: il silenzio. Quando succede qualcosa di rilevante tra i corridoi di via Arenula, sede del ministero, e tra gli addetti ai lavori si solleva una domanda: ma Russo perché tace? A distanza di oltre un anno da quella promessa il capo del Dap fa i conti con un record assoluto, quello dei suicidi in carcere, è stato superato il numero osceno del 2022 quando in 84 si erano tolti la vita. Morti mentre erano nelle mani dello Stato, Russo a questa e ad altre domande di Domani ha scelto di non rispondere. L’aria e Russo - Partiamo dall’ultimo scivolone del vero e unico riferimento del mondo carcerario, Andrea Delmastro Delle Vedove, esponente di spicco di Fratelli d’Italia, uno e trino, un poco ministro, un poco capo del Dap e anche sottosegretario di stato. Le parole del meloniano doc hanno suscitato diffuso disappunto. “L’idea di vedere sfilare questo potente mezzo che dà prestigio, con il Gruppo operativo mobile sopra, l’idea di far sapere ai cittadini (...) come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto una intima gioia”, ha detto Delmastro alla presentazione della SsangYong Rexton Dream e-XDi220, auto avveniristica che suscita ilarità a guardare le condizioni delle carceri italiane. “Una risata amara visto che nelle celle i detenuti si fanno la guerra per un materasso, quando entri in carcere la sensazione è di corpi ammassati, non ci arrivi a pensare alle necessità di quelle persone”, dice Susanna Marietti di Antigone, una vita a difesa dei diritti dei reclusi. Torniamo alle parole di Delmastro che hanno provocato un piccolo tsunami politico, anche se dalle parti del Gom, il gruppo operativo mobile, dalle parti degli operatori del carcere duro, sono state accolte con gratitudine, depurate dal tratto di disumanità e percepite come atto di attenzione rispetto a quel mondo. Ma la domanda è: mentre Delmastro si prende le sue responsabilità e piogge di critiche, Russo dove era? E cosa ne pensa di quelle parole? Non è dato sapere. Così come non è dato sapere cosa pensi sul recente calendario della penitenziaria presentato in pompa magna dove il carcere non si vede, ma ogni mese racconta di agenti in compagnia di caschi, scudi e manganelli. Nelle ultime settimane il nome di Russo è tornato d’attualità, e non per i successi ottenuti da capo del Dap, bensì per il pregresso ruolo di numero due della Dna, la direzione nazionale antimafia. Avrebbe, infatti, segnalato anomalie nelle condotte di Pasquale Striano, indagato dalla procura di Perugia nella cosiddetta inchiesta sugli accessi abusivi in banca dati (che coinvolge tre giornalisti di Domani, tra questi anche chi scrive, ndr). Segnalazioni fantasma sentendo, invece, l’ex capo della Dna, oggi deputato del M5s, Federico Cafiero De Raho. “Io quell’atto non l’ho mai visto”, ha raccontato quest’ultimo ai pm perugini. Negli ultimi mesi si è parlato di Albania e del trattamento riservato alla polizia penitenziaria, ma dal capo del Dap non sono arrivate parole o prese di posizione. Si inizia ad agosto con il lunare vademecum per gli agenti impegnati oltre confine. “Non corteggiate le donne e vestitevi in modo sobrio”, si leggeva nel prontuario, dove si davano consigli anche su come prendere il caffè. Si arriva a settembre quando proprio Domani pubblicava le foto degli alloggi delle forze dell’ordine, alberghi con sauna e piscina, mentre la penitenziaria era destinata a vivere nello stesso carcere prefabbricato costruito per ospitare migranti riottosi. Fino all’esito finale con l’istituto di pena trasformato in canile, uno scoop di questo giornale arrivato fino in Parlamento, e le stanze dell’istituto prive di antenna e con l’acqua razionata. Un disastro sul quale Russo non è mai intervenuto pubblicamente, gli stessi sindacati hanno più volte denunciato una caccia alle streghe per chi esprime criticità o rileva carenze nei servizi. Ma che fine ha fatto la promessa di lavoro per oltre la metà dei detenuti? Neanche su questo abbiamo ottenuto risposta, i dati raccontano il fallimento, gli ultimi disponibili indicano nel 33 per cento i reclusi impegnati in attività. Di accordi il ministero ne sottoscrive tanti, l’ultimo è con l’Ama, l’azienda di raccolta rifiuti capitolina, per l’attività di messa alla prova di indagati, imputati o condannati anche minorenni. “Nel recente passato sono stati annunciati diversi accordi, ma non hanno funzionato. I detenuti sono aumentati, i reati pure e il quadro è cambiato. Il lavoro è sempre quello, poco e dequalificato, il carcere è stato luogo sperimentale dei contratti più atipici possibili con tempi di lavoro creativi”, conclude Marietti. I detenuti hanno superato quota 62mila a fronte di una capienza ufficiale di 51mila posti, cifra dalla quale bisogna sottrarre oltre 4 mila non disponibili. Ci sono altri numeri da paese incivile. “Le carceri sono al collasso e portano alla morte: in un anno 232 decessi totali, di cui 85 suicidi e 1.133 tentativi di suicidi. Ho la percezione che i provvedimenti dell’ultimo anno utilizzano il diritto penale per allontanare il nemico. Nuovi reati che identificano nuovi nemici: mendicanti, protestanti, occupanti, detenuti, nomadi, immigrati, tossicodipendenti”, dice Samuele Ciambriello, portavoce nazionale dei garanti dei detenuti. Ma proprio su questo il Dap è intervenuto. “Sono 79 le persone detenute che a oggi si sono tolte la vita all’interno degli istituti penitenziari. Il dato si riferisce al numero dei casi per i quali le evidenze dei fatti hanno escluso la necessità di ulteriori accertamenti da parte dell’autorità giudiziaria”. Una precisazione accolta con disappunto da associazioni e garanti territoriali, poche ore da Verona è arrivata la notizia di un ragazzo di 24 anni che si è impiccato nella cella del carcere, lo hanno soccorso, ma non si è salvato. Anche la Uil parla di 86 suicidi ricordando anche i 7 agenti che si sono tolti la vita prima di attaccare duramente l’amministrazione penitenziaria: “Il Dap farebbe bene a sfruttare la tecnologia per prevenire e impedire queste morti e non solo per conteggiarle alla stregua dei necrofori, per di più malamente e per mera statistica”. Il segretario del sindacato della polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, ricorda una situazione ormai al collasso con gli agenti che dall’inizio dell’anno hanno subito almeno 3 mila aggressioni. “Sembra che a qualcuno sfugga che non si parla di semplici numeri, ma di vite umane spezzate da un sistema penitenziario assolutamente fallimentare, diffusamente illegale e che, a nostro parere, non risponde neppure ai presupposti giuridici per il suo mantenimento. Per quanto qualcuno si creda assolto, è già per sempre coinvolto”, conclude De Fazio. Silenti. Calendario della Polizia Penitenziaria: polemiche e necessità di umanità nella comunicazione di Patricia Iori ultimavoce.it, 8 dicembre 2024 La pubblicazione del calendario 2025 della Polizia Penitenziaria ha scatenato un acceso dibattito politico e sociale, portando alla luce questioni delicate relative alla rappresentazione delle forze dell’ordine e ai valori costituzionali che ne guidano l’operato. Al centro delle polemiche vi è il video promozionale del calendario, che ha suscitato perplessità e critiche da parte del Partito Democratico e di altre forze politiche, generando interrogativi sul messaggio trasmesso dall’iniziativa. Il video promozionale, pubblicato per accompagnare il lancio del calendario, mostra immagini incentrate su situazioni operative della Polizia Penitenziaria. Tra le scene evidenziate figurano agenti in assetto antisommossa, equipaggiati con manganelli, scudi e armi. La narrazione visiva sottolinea il carattere repressivo delle operazioni, suscitando reazioni di sconcerto tra gli osservatori. Secondo il Partito Democratico, tali immagini trasmettono un messaggio distorto che rischia di ridurre il ruolo della Polizia Penitenziaria a mera espressione di forza violenta, oscurando l’importanza della sua funzione rieducativa e sociale. “Abbiamo presentato un’interrogazione a risposta orale al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia”, scrivono i senatori del Pd Cecilia D’Elia e Filippo Sensi. L’obiettivo dell’iniziativa è sollecitare una riflessione istituzionale sulla coerenza del messaggio veicolato dal calendario rispetto ai principi sanciti dalla Costituzione italiana. Il ruolo della Polizia Penitenziaria: tra sicurezza e rieducazione - La Polizia Penitenziaria, componente fondamentale del sistema giudiziario italiano, svolge un compito delicato e complesso. Essa è incaricata non solo della sicurezza interna ed esterna degli istituti penitenziari, ma anche della gestione quotidiana dei detenuti, con l’obiettivo di favorirne il reinserimento sociale. La Costituzione italiana, all’articolo 27, sottolinea che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ponendo un forte accento sulla dimensione umana e sociale del sistema penitenziario. È proprio in virtù di questa missione che le immagini del video promozionale sono state ritenute problematiche. Secondo i critici, esse sembrano ignorare o quantomeno relegare in secondo piano il valore educativo e di supporto svolto quotidianamente dagli agenti penitenziari. Tale rappresentazione, osservano, potrebbe danneggiare l’immagine pubblica del Corpo, alimentando stereotipi e incomprensioni. Una visione parziale della realtà? - La questione sollevata dal video promozionale apre un dibattito più ampio sulla percezione pubblica delle forze dell’ordine. Mentre è innegabile che la Polizia Penitenziaria debba essere pronta a intervenire in situazioni critiche, altrettanto rilevante è il lavoro quotidiano, spesso silenzioso, volto a garantire il rispetto dei diritti umani e a promuovere percorsi di reintegrazione per i detenuti. La scelta di focalizzarsi esclusivamente sugli aspetti più “spettacolari” o repressivi rischia di offrire una visione parziale e fuorviante. Numerosi esperti e analisti hanno sottolineato che un messaggio equilibrato dovrebbe includere scene che rappresentano gli sforzi educativi e il dialogo costruttivo tra agenti e detenuti. Ciò consentirebbe di rendere giustizia alla complessità del ruolo svolto dalla Polizia Penitenziaria e di evidenziarne il contributo alla società nel suo complesso. Le reazioni politiche e sociali - Le critiche al calendario non si sono limitate all’ambito politico. Esponenti della società civile, esperti di diritti umani e rappresentanti del mondo accademico hanno espresso preoccupazioni simili. Secondo alcuni, il video riflette un’impostazione culturale che enfatizza la repressione a scapito della rieducazione, in apparente contrasto con i principi costituzionali. Di fronte a tali osservazioni, il Ministero della Giustizia e la Presidenza del Consiglio sono stati chiamati a rispondere, sia per chiarire la loro posizione sia per valutare eventuali interventi correttivi. In un contesto caratterizzato da crescenti tensioni sociali, il ruolo delle forze dell’ordine è spesso sotto scrutinio, e ogni messaggio veicolato assume un peso simbolico significativo. Il valore della comunicazione istituzionale - Il dibattito sul calendario 2025 della Polizia Penitenziaria evidenzia l’importanza della comunicazione istituzionale nel plasmare l’opinione pubblica. I materiali promozionali, soprattutto quando destinati a rappresentare enti pubblici, devono essere progettati con cura per evitare fraintendimenti e per rafforzare il legame di fiducia tra cittadini e istituzioni. In questo contesto, la scelta delle immagini è cruciale. Un video promozionale che si concentri esclusivamente sugli aspetti coercitivi rischia di compromettere il delicato equilibrio tra sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali. Una comunicazione efficace dovrebbe invece puntare a trasmettere un messaggio positivo, evidenziando la professionalità, l’umanità e la dedizione degli agenti penitenziari. Proposte per il futuro - Alla luce delle polemiche, alcuni osservatori hanno avanzato proposte per migliorare la rappresentazione del Corpo della Polizia Penitenziaria nei materiali istituzionali. Tra queste, l’inclusione di immagini e storie che mettano in risalto il lavoro rieducativo e le iniziative volte a favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Un approccio più equilibrato potrebbe anche contribuire a migliorare la percezione pubblica delle carceri, riducendo lo stigma associato ai detenuti e promuovendo una cultura del dialogo e del rispetto reciproco. Questo sarebbe in linea con le indicazioni delle organizzazioni internazionali sui diritti umani e con gli obiettivi del sistema penitenziario italiano. Conclusioni - La polemica sul calendario 2025 della Polizia Penitenziaria rappresenta un’occasione per riflettere non solo sulla comunicazione istituzionale, ma anche sul ruolo stesso delle forze dell’ordine nella società contemporanea. La rappresentazione delle loro attività deve essere coerente con i principi costituzionali e capace di valorizzare il loro contributo al bene comune. “Macché calendario violento: la sinistra odia le Forze dell’ordine” di Luca Fazzo Il Giornale, 8 dicembre 2024 Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, difende la Polizia penitenziaria: “Ci hanno lavorato docenti della Cattolica. Accuse demenziali”. “La verità è che a questi della sinistra le divise stanno antipatiche, tutto qui. È più forte di loro. E hanno una idiosincrasia inguaribile per la parola sicurezza”. Andrea Delmastro delle Vedove, sottosegretario FdI alla Giustizia con delega alle carceri, è da venerdì nel mirino delle opposizioni per il calendario 2025 della Polizia penitenziaria. Calendario, dice il Pd, “violento e machista”. Onorevole: fucili, pistole, scudi, manganelli, passamontagna, giubbotti antiproiettile. A guardare il calendario, gli strumenti di lavoro della Polizia penitenziaria sembrano solo questi... “Ma quando mai! Stiamo parlando di un calendario dedicato alla formazione della Penitenziaria, ai futuri agenti ai quali stiamo insegnando ad usare gli strumenti in dotazione al corpo. Sono gli strumenti che consentono quotidianamente agli appartenenti alla Penitenziaria di operare nella migliore sicurezza sia per se stessi che per le persone che hanno in custodia” Il Pd dice che il calendario trasmette un “approccio repressivo”... “È lunare, è allucinante. Per l’ennesima volta infangano un corpo di lavoratori dello Stato. Non riescono ad accettare che la penitenziaria sia una forza dell’ordine, perché odiano l’idea stessa di forza dell’ordine. Vorrebbero una debolezza dell’ordine. Non verranno accontentati”. Resta il fatto che quelle immagini non sembrano ispirate al dialogo con i detenuti... “È nell’interesse dei detenuti avere davanti dei professionisti che sanno usare la forza, quando è necessaria e legittima, nel modo più corretto. È questo che noi insegniamo a fare e che il calendario racconta, se insegno all’agente una tecnica Mga impara a disarmare un detenuto senza torcergli un capello. Ma non c’è niente da fare, non ci arrivano. Hanno detto persino che è un calendario machista: bene, vada a contare e scoprirà che ci sono più donne che uomini. D’altronde sono gli stessi che hanno iniziato a gridare al patriarcato quando per la prima volta è diventata premier una donna”. Lei le aveva viste le foto per il calendario? “No, io l’ho visto solo quando era finito e stampato. A lavorarci, voglio sottolinearlo, sono stati anche i docenti dell’Università Cattolica. Violenti e machisti anche loro? Le polemiche di queste ore sono così demenziali che sono riuscite a compattare tutti i sindacati della penitenziaria, e assicuro che non è facile. Stanno difendendo tutti non solo il calendario ma l’intera immagine del corpo”. Lei è recidivo. Il mese scorso presentando una nuova auto per i trasporti di massima sicurezza disse che voleva togliere il respiro ai detenuti... “Anche mio figlio di otto anni ha capito che era una metafora. Loro ce l’hanno su con me solo perché io difendo la Penitenziaria. Non hanno capito che è lì, nella Penitenziaria, che ci sono i veri figli del popolo. Pasolini lo aveva scritto cinquant’anni fa, loro non ci sono ancora arrivati”. Dicono che lei preferisce reprimere che rieducare e recuperare... “Lo dicono quelli che quando erano al potere hanno creato voragini negli organici degli educatori, e come rieduchi senza educatori? Io per la prima volta ho saturato gli organici, sto combattendo contro i danni epocali fatti dalle sinistre, abbiamo trovato una situazione in cui non c’erano più neanche le scuole di formazione, in cui mancavano diecimila posti in cella. Come al solito, c’è chi parla e chi fa”. Dicono che dalla repressione agli abusi il passo è breve. A Trapani hanno arrestato undici agenti della penitenziaria per torture. “E sa chi ha fatto le indagini? Il Nic, uno dei reparti ritratti nel calendario. I problemi ci sono in ogni organismo, noi abbiamo dimostrato di avere gli anticorpi. Io sono orgoglioso della polizia penitenziaria”. La separazione dei poteri non se la passa bene: l’intoccabile magistratura e il giustizialismo ottuso di Michele Magno Il Riformista, 8 dicembre 2024 La democrazia italiana è malata? Diciamo che il suo fondamento - la separazione dei poteri - non se la passa bene. Discutiamo di Parlamenti e governi, elezioni e partiti come se fossero ancora i pilastri della vita pubblica. Non è così, o non è più solo così. In Italia il gioco democratico è ormai vistosamente condizionato da un potere di corpo che trascende il circuito del voto: la magistratura. Intoccabile - Insieme ai media e al web, oggi costituisce l’architrave di una costituzione silenziosa in grado di trasformare le organizzazioni più solide in una cricca di malfattori. Essa, al contrario, resta intoccabile. Pena il timore che venga messa in discussione la sua autonomia, nonostante un recente e clamoroso scandalo che ha rischiato di travolgere proprio l’organo che doveva garantirla. Anche in questi giorni, mentre con la separazione delle carriere si intravede una luce nel tunnel della riforma della giustizia, non mancano accorate considerazioni sulle lungaggini e sulle inefficienze dell’iter giudiziario. Senza però che i loro costi - sociali, economici, umani - varchino mai la soglia del piagnisteo impotente a cui si contrappone un giustizialismo ottuso. Se non intervengono le manette, il politico, l’amministratore o il manager sotto accusa entrano nel cono d’ombra di un calvario processuale di cui si perderanno presto le tracce. Salvo tornare, ma molto più marginalmente, sui giornali nel momento dell’archiviazione o del proscioglimento. Un innocente in galera a un colpevole libero. Ne sanno qualcosa, solo per citare alcuni tra i casi più noti di un elenco sterminato, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Antonio Bassolino, Ottaviano Del Turco, Matteo Renzi e, da ultimo, il senatore del Pd Stefano Esposito (nomi i quali dimostrano che è ridicolo parlare di “toghe rosse”). Di fronte a risultati così deludenti, non sorprende che qualche procura tenda a privilegiare - nella scelta dei suoi obiettivi - personalità di maggior calibro istituzionale o legate a personaggi di rilievo nazionale. Del resto, siamo in un’epoca in cui intercettazioni e documenti coperti dal segreto istruttorio vengono pubblicati ad horas dalla stampa, e in cui l’apertura di un fascicolo o un avviso di garanzia non si nega a nessuno, soprattutto se ricopre o si candida a una poltrona di sindaco, di governatore, di ministro, di leader politico. In questa palude melmosa sguazzano il populismo penale e i verdetti emessi dal tribunale della Rete. Da quando un manipolo di aspiranti giacobini si vantava senza pudore di una legge chiamata “spazzacorrotti”, è in buona misura questa l’odierna realtà repubblicana. “Coraggio, il meglio è passato”, recita un celebre aforisma di Ennio Flaiano. Infatti, il peggio è sempre dietro l’angolo in un paese in cui c’è ancora chi preferisce un innocente in galera a un colpevole libero. Il Grande Fratello, l’incubo delle intercettazioni di massa è già realtà: siamo già tutti dentro Minority Report di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 dicembre 2024 Questa storia dei cripto-telefonini, della quale sembra non interessare granché a nessuno (nella politica, nel mondo della giustizia, nell’accademia, nel giornalismo), può essere -forse già lo è - la porta di ingresso nel mondo del Grande Fratello. Non c’è un filo di retorica in quello che sto dicendo, e vi basterà leggere con attenzione questo numero di PQM per comprenderlo. Il terremoto silenzioso - È accaduto nel 2020 un terremoto di grado altissimo, epicentro a Lille, piccola cittadina francese, poi rovinosamente propagatosi già in tutta Europa; ma è un terremoto silenzioso, del quale solo ora ci stiamo rendendo conto. Il Giudice di Lille dispone, come se niente fosse, non intercettazioni di persone sospettate di commettere gravi reati, ma direttamente l’inoculazione di un trojan nel server di una società che produce e gestisce (senza autorizzazione) telefonia criptata. Se qualcuno usa telefoni criptati per non essere intercettato - questo è il ragionamento velenoso - beh vuol dire che ha qualcosa da nascondere; e dato che i clienti di quella società di telefonia sono quasi duecentomila, faccio una bella cosa, intercetto direttamente il server. Me li ascolto tutti (in realtà sono soprattutto chat). Poi convoco le Polizie di tutta Europa, e ci mettiamo a selezionare le cose brutte, un cherry-picking, come direbbero gli inglesi: traffico internazionale di stupefacenti, pedopornografia, omicidi, e così via. Ma che roba è questa porcheria? - Poi le Procure territorialmente interessate mi mandano una bella letterina (OIE, ordine di investigazione europeo), “mi mandi quella roba su quelle cose brutte che abbiamo insieme selezionato?”, e io gliele mando (si chiama cooperazione internazionale), così loro ci impacchettano bei processi, con la prova comodamente pronta e servita per essere utilizzata. In Europa qualche giudice insorge, ma non vi starete mica illudendo spero, la nostra Magistratura non ha formazione, indole, riflessi di tipo garantista. Reagisce il Tribunale di Berlino che dice: ma che roba è questa porcheria, siete impazziti?! E chiede alla Corte di Giustizia Europea (sì, proprio quella della vicenda Paesi Sicuri, che però qui da noi diventa un oracolo o carta straccia a seconda di come ci torna comodo) di dire preventivamente la sua. E la CGUE dice: teoricamente e a condizioni rigorosissime - per esempio in materia di allarme terrorismo - si può anche fare, ma naturalmente occorre che siano rispettate le regole di acquisizione della prova fissate dagli ordinamenti degli Stati nazionali. La soluzione pilatesca - Allora siamo salvi, pensiamo noi poveri ingenui, visto che in Italia (e in tutta Europa grosso modo) le intercettazioni preventive a strascico non sono processualmente utilizzabili, ma solo quelle disposte su persone già raggiunte da gravi indizi di reato. Si, buonanotte. Ci pensano le Sezioni Unite della Cassazione, che trovano una bella soluzione pilatesca tipicamente italica - sono documenti, non sono intercettazioni, e poi se anche fossero, guardate bene che le preventive in Europa non sono vietate, quindi distinguiamo, valutiamo, e bla bla bla - e tra tante belle parole e riflessioni, alla fine della fiera danno il via libera. Ed infatti cominciano a fioccare condanne a go-go, dove i soliti avvocati rompiballe invocano inutilmente la Corte di Giustizia Europea, ricevendone sonore pernacchie. Abbiamo per le mani tutta questa bella roba per condannare comodamente, senza sforzo, senza indagini, dei criminali, e voi mi tirate fuori queste chiacchiere sui princìpi e sulle regole? Suvvia! Nel frattempo, sempre in Francia (una volta patria della rivoluzione contro la tirannia) scoppia il caso Telegram (leggete la nostra Quarta Pagina). Se - come si dice a Roma - non ci diamo tutti una svegliata, mentre discettiamo serafici del limite dei 45 giorni di durata delle nostre intercettazioni, siamo già tutti dentro Minority Report. La solitudine della legalità di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 8 dicembre 2024 L’amarezza dei testimoni di giustizia (figura ben diversa dai “pentiti”), imprenditori e non, entrati nel programma di protezione dello Stato per aver denunciato mafia e corruzione. “Noi, abbandonati”. La legge che istituisce i testimoni di giustizia è la n. 45 del 2001. Prima questi coabitavano in un percorso giuridico-legislativo e in un programma di protezione nato per i pentiti di mafia. Importante (ma a tutt’oggi inapplicata) la legge istituita dal governo Letta nel 2013 con la quale si permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione come avviene per le vittime del terrorismo e del crimine organizzato. Si stima che oggi i testimoni di giustizia siano almeno quaranta. Basta poco e rivivono il trauma. Lo scorso ottobre un incendio s’è portato via il capannone degli attrezzi di Tiberio Bentivoglio, l’imprenditore sanitario di Reggio Calabria che ha denunciato le pretese delle ‘ndrine e perciò è finito sotto scorta. Indignazione e rammarico sono affiorati, allora, nella chat dell’associazione che riunisce alcuni tra i circa quaranta testimoni di giustizia di tutta Italia. “Vigliacchi...” mormora Ignazio Cutrò che presiede l’associazione e intanto fronteggia le nuove, continue emergenze dal suo domicilio riservato. L’imprenditore di Bivona, nell’agrigentino, ha denunciato estorsioni nei suoi confronti a partire dal 1999. Anni di segnalazioni che hanno portato condanne per oltre cento anni di carcere e a lui un quarto di secolo da sorvegliato speciale. Indignazione. Rammarico. Rabbia. Stati d’animo ricorrenti assieme a una variazione sul tema dell’abbandono. La psicologa e criminologa che segue alcuni di loro (e che non può essere identificata per analoghe ragioni di sicurezza) descrive quel vissuto così: “I testimoni spesso si sentono fraintesi. La loro scelta, per quanto nobile, quasi mai viene apprezzata dalle persone che li circondano. Amici e parenti, per paura di ritorsioni o per incapacità di comprendere la portata del gesto, tendono ad allontanarsi. E se i parenti, malgrado tutto, riescono, poi, ad accettare una scelta simile, gli amici se ne vanno. Un rifiuto che intensifica il senso di solitudine”. Uno di loro, che ha denunciato il massiccio ricorso a tangenti da parte di alcuni imprenditori del centro Italia, puntualmente arrestati e condannati, è scivolato un giorno dopo l’altro in una cupa spirale emotiva scandita da alti e bassi spesso ingovernabili. Dalla sua località segreta, tutelato da una nuova identità, quel testimone di giustizia, forse inconsapevole di avere tagliato un nuovo traguardo - fin qui la categoria era appendice del fenomeno mafioso; per la prima volta, invece, c’è un testimone per reati di pubblica amministrazione, lontano da terre tradizionalmente interessate alla criminalità organizzata - si lascia andare a un lungo sfogo: “Avevo una vita ricca di interessi ed emozioni, affetti, autonomia, stabilità. Tutto sfumato - confida -. Questo è ciò che accade a un cittadino onesto che decide di combattere l’illegalità e viene affidato al programma di protezione. Vieni calpestato e annullato. La tua vita dipende esclusivamente dal servizio centrale di protezione. Si è costretti a sopravvivere ricevendo un contributo mensile di 1.600 euro...”. La realtà bussa con i suoi aspetti concreti alla porta di ciascuno di loro. Il silenzio li offende. La burocrazia li maltratta. C’è chi non ha i soldi per le bollette, per i farmaci, per le urgenze quotidiane. Abbandono affettivo ma anche abbandono istituzionale. Una legge dei primi anni Duemila, oggi in gran parte inapplicata, stabilisce una corsia preferenziale per l’ingresso dei testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione: “Ma ora tutto è in discussione”, commenta Cutrò, consapevole delle enormi difficoltà. Oggi le parole di Giuseppe Carini, l’uomo che contribuì a far condannare i fratelli Graviano per l’omicidio di don Pino Puglisi, il parroco del quartiere Brancaccio di Palermo freddato nel 1993, trasudano malinconia: “È finita la stagione in cui lo Stato chiedeva una mano. Oggi le denunce sono ritenute delle seccature. Meno dura il programma di protezione meglio è per lo Stato”. I testimoni sono a tempo determinato, infatti. Usciranno dal programma prima o poi. Spesso poi... dopo avere perso lavoro, reddito, casa, affetti. Ma come racconterebbe la sua storia Carini? “Per quanto mi riguarda ho lottato con le unghie e con i denti per cercare di capire dove stessi andando con le mie azioni. Oggi sono osteggiato. Qualche tempo fa mi hanno diffidato a partecipare al premio Joe Petrosino dove avrei dovuto ricevere una menzione speciale perché non volevano che parlassi con i giornalisti”. Lui, testimone da oltre un decennio, il Mephisto calato in volto a proteggere i lineamenti, dopo aver conquistato lo status di senior sottolinea un aspetto fondamentale: i testimoni di giustizia, cittadini perbene che si trovano a testimoniare reati, sono usciti dall’agenda di governo e da quella della politica. Diversa la questione dei collaboratori, criminali pentiti sempre più impiegati dallo Stato nell’attività investigativa. Tra loro, confusi da narrazioni politico-mediatiche spesso trasandate, c’è un’incolmabile distanza etica. Per gli uni la testimonianza è l’exit strategy più indolore, per gli altri è una scelta essenzialmente morale. Una legislatura fa Carini è entrato in rotta di collisione con un senatore pentastellato, accusato “senza mezzi termini” di non aver fatto nulla per riportare la questione, loro paladini della legalità, al centro della scena politica. Cutrò, però, va perfino oltre: “Oggi non è tutelato il nostro diritto al lavoro. Non sono tutelati i nostri familiari. Non è tutelata, nel vero senso della parola, la nostra vita. L’interlocuzione con le istituzioni è ormai inesistente. Rappresentiamo un problema anziché una soluzione. Serve un nuovo scatto. Crediamo, ad esempio, che i nostri familiari debbano essere considerati vittime del dovere”. Cutrò è riuscito dove altri hanno fallito, ha ricucito il rapporto con la sua terra d’origine, ha messo al servizio di altri la propria esperienza. Malgrado ciò è ancora ostaggio di una burocrazia senza mezzi né strategia che stenta ad affrontare con strumenti adeguati singoli atti di coraggio. Talvolta c’è una sorta di approssimazione istituzionale. Racconta un altro imprenditore siciliano sottoposto al programma di protezione per aver denunciato il “pizzo”: “Fra il 2005 e il 2014 sono stato pestato, sequestrato e mi sono stati uccisi tre cani. Faccio, allora, un tentativo di spostarmi in un’altra città nella quale, mi dicevano, la pressione mafiosa era minore. Invece mi raggiungono: “O ci dai 80 mila euro o ti spariamo nella testa” mi minacciano. Nel 2014, allora, entro nel programma di protezione. Quattro mesi di purgatorio in località protetta, lontano dalla famiglia, sotto una nuova identità. Dormivo sul divano di un appartamento del ministero e ricevevo 160 euro a settimana di contributo economico”. Oggi, trascorso quel purgatorio, l’imprenditore è entrato stabilmente nel programma. Vive sotto scorta con tutte le difficoltà che questo comporta: “Siamo una seccatura anche per loro, il personale delle forze dell’ordine, e qualche volta non fanno nulla per mascherarlo”. Per la psicologa c’è un tema che sfiora il rimpianto: “Pur consapevoli di aver fatto la cosa giusta, il peso dei sacrifici richiesti li porta a interrogarsi su quanto la loro scelta sia valsa davvero. Il rimpianto del “prima”: la vita precedente, anche se imperfetta, viene idealizzata. I momenti di normalità, gli affetti perduti e le abitudini quotidiane diventano un ricordo doloroso, qualcosa di irrimediabilmente spezzato”. L’imprenditore siciliano che denunciò il “pizzo” oggi confida: “Bisogna avere spalle molto larghe e una grande forza d’animo. La società mi isola, la mafia mi vuole ammazzare e lo Stato mi sopporta a fatica. Ci sono giorni in cui pensi di farla finita”. Tollerati. Abbandonati. Testimoni di (in) giustizia. I sette anni di Stefano Esposito nel buco nero di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 dicembre 2024 L’ex senatore racconta il suo lungo calvario giudiziario, tra accuse infondate, intercettazioni illegali, gogna e sofferenze umane: “Il magistrato che sbaglia deve pagare”. La rinascita nel nome di Bruce Springsteen. La premessa è netta: “Se qualcuno pensa che dopo il mio proscioglimento io abbia stappato bottiglie di champagne è completamente fuori strada. Non c’è veramente nulla di cui festeggiare. Certo, c’è la soddisfazione di veder riconosciute le proprie ragioni, ma questo aumenta in maniera esponenziale l’amarezza. Ti chiedi: ma perché tutto questo?”. Il questo, a cui fa riferimento Stefano Esposito, parlamentare per due legislature nelle file del Pd, sono i 2.589 giorni trascorsi dentro un incubo giudiziario. Un “buco nero”, come lo chiama Esposito, iniziato nel 2017 e terminato martedì scorso con il suo proscioglimento da parte del gip di Roma dalle accuse di corruzione, turbativa d’asta e traffico di influenze. Quella che l’ha travolto è ben più di un’indagine giudiziaria: è uno scandalo in cui a essere protagonista è paradossalmente una procura, quella di Torino, che pur di mettere sotto inchiesta Esposito è giunta a violare la Costituzione e alcune delle norme basilari che regolano il processo. Ma facciamo un passo indietro. “Scopro di essere indagato il 2 novembre 2017 da una telefonata dell’allora assessore all’Ambiente del comune di Torino, Enzo Lavolta”, racconta Esposito. “Mi chiama e mi chiede: ‘Scusa Stefano, ma chi è l’avvocato che hai nominato?’. Mi fa il nome di un avvocato che non conoscevo. Gli rispondo: ‘Guarda, non so di cosa stai parlando’. E lui: ‘Ma come Stefano, sei indagato con me e Muttoni per turbativa d’asta per il Forum del Terzo settorè. ‘Non so di cosa stai parlando’, gli ripeto. Da quel momento comincia il countdown dei 2.589 giorni”. Esposito si rivolge a un avvocato e si fa pure interrogare dal pm titolare dell’indagine, Gianfranco Colace: “Il pm mi spiega sommariamente quale sarebbe l’intuito investigativo e mi dice che nasceva da intercettazioni dove io ero uno dei colloquianti. Mi fa ascoltare due intercettazioni, premettendo che, se le indagini fossero andate avanti, essendo io parlamentare avrebbe chiesto l’autorizzazione al Parlamento per il loro utilizzo. Ascolto le intercettazioni e spiego che l’idea che io avessi fatto una turbativa d’asta era del tutto fantasiosa. Firmo il verbale e vado via”. Poi Esposito si butta nella campagna elettorale per le politiche del marzo 2018, dalle quali però esce sconfitto. “Pochi giorni prima che io decada da parlamentare ricevo la telefonata che mi getta definitivamente nel buco nero. È Giulio Muttoni. Mi avverte che i Carabinieri stavano facendo perquisizioni ai suoi danni e che gli era stato notificato un avviso di garanzia, in cui ero compreso anche io, per corruzione e traffico di influenze”, dice Esposito. L’ex senatore del Pd viene accusato, nell’ambito dell’indagine “Bigliettopoli”, di aver svenduto la sua funzione di parlamentare in cambio di utilità da parte di Giulio Muttoni, patron di Set Up, società organizzatrice di grandi eventi musicali, e amico di lunga data di Esposito, tanto da fare da padrino al battesimo di una delle figlie di quest’ultimo. La colpa di Esposito è di essersi interessato all’interdittiva antimafia ricevuta da Set Up nel 2015 da parte della prefettura di Milano (alcuni soci di Muttoni avevano ceduto biglietti omaggio a soggetti che poi si erano scoperti essere esponenti della ‘ndrangheta locale). “Mi sono semplicemente mosso per avere consigli su quale fosse la via migliore che Muttoni potesse seguire per provare a far rivedere la decisione della prefettura”, spiega Esposito. Non era la prima volta, prosegue Esposito: “Mi ero occupato di altri casi di applicazione di interdittive antimafia. Dal momento in cui avevo fatto ingresso in commissione parlamentare Antimafia nel 2014 avevo avviato un dibattito, anche molto acceso, proprio su questo strumento. Perché ho sempre ritenuto aberrante il principio giuridico che sta alla base dell’interdittiva antimafia: se sei un imprenditore ti viene rifilata un’interdittiva antimafia anche se hai un parente di terzo grado che magari viene coinvolto in un’inchiesta antimafia, sulla base del principio giuridico assurdo secondo il quale ‘è più probabile che non’ che tu possa avere un’infiltrazione mafiosa. Nessuno si rende conto che le interdittive uccidono le aziende, il tutto sulla base di un labile sospetto”. La procura di Torino, però, è drastica e sostiene che Esposito ha messo a disposizione la sua funzione di senatore a Muttoni in cambio di utilità. La prova regina sarebbe costituita da un prestito ricevuto da Esposito dal suo amico per aprire un mutuo per l’acquisto di una casa. Peccato che il prestito sia stato ricevuto da Esposito cinque anni prima della vicenda dell’interdittiva antimafia e sia stato pure interamente restituito a Muttoni: “Ricordo sempre un mio amico magistrato che, quando lesse le carte, mi disse: ‘Vabbè ma tu sei veramente un cretino, sei il primo corrotto della storia che prende una tangente e la restituisce, con gli interessi’. Che poi è ciò che sette anni dopo hanno notato gli stessi pm di Roma”, dice Esposito. La macchina della gogna mediatica, però, nel frattempo si è innescata. “Sui giornali vengo rappresentato come il corrotto. In un attimo tutto quello per cui avevo lavorato, la mia reputazione, la mia onorabilità, viene buttato nel cesso”, racconta Esposito. “Questo mi ha profondamente ferito ed è stata la ragione per la quale ho passato due anni, non dico in uno stato di depressione, ma di grande prostrazione. Mi vergognavo di uscire di casa”. “Contemporaneamente - prosegue l’ex senatore - la vicenda ha un impatto devastante su mia moglie e i miei tre figli. Sono passati dall’essere degli individui, con una propria identità, all’essere figli e moglie di un corrotto. Vedere la loro sofferenza, vedere il fatto che per colpa mia stavano pagando delle conseguenze, mi ha strappato il cuore. È una cosa che ancora oggi dipana i suoi effetti, e che non sarà facile riassorbire”. Il 19 ottobre 2020 arriva l’ennesimo colpo di scena. A Esposito viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini: in allegato sono depositate 126 intercettazioni che lo coinvolgono e che sono state ritenute “rilevanti” dal pm Colace. Esposito scopre di essere stato intercettato complessivamente 500 volte nel corso dell’ultima parte del suo mandato di senatore (dal 2015 al 2018), senza però alcuna autorizzazione del Parlamento, come richiesto dall’articolo 68 della Costituzione. E questo nonostante fosse stato identificato chiaramente, già dopo sole tre settimane di indagini, in un’annotazione della polizia come “senatore della Repubblica italiana” e interlocutore abituale di Muttoni. Alcune intercettazioni vengono subito pubblicate sui giornali, nell’intento di dimostrare la colpevolezza dell’ex senatore. “Una cosa indegna. Basti pensare che io le ho ricevute soltanto dieci giorni dopo e ho impiegato tre giorni interi per ascoltarle”, ricorda Esposito. “Dopo aver ascoltato le intercettazioni vado dal mio avvocato, Riccardo Peagno, e gli dico che per quanto mi riguarda possiamo andare a processo con le intercettazioni perché non ho nulla da nascondere. Lì ho avuto uno scontro piuttosto acceso con il mio legale. Peagno, che oltre a essere un fine giurista è stato per me anche una vera stampella sul piano umano in tutti questi anni, mi disse: ‘Lei la può fare questa scelta, ma con un altro avvocato’. E aggiunse: ‘Guardi che la Costituzione non tutela lei, ma l’istituzione. Io sono un avvocato, ho fatto un giuramento, e sono tenuto a segnalare una violazione così palese della Costituzionè. Compresi e ci accordammo che avremmo sollevato la questione davanti al gup. Ma nessuno di noi immaginava ciò che sarebbe successo”. Il 1° marzo 2022, infatti, il gup di Torino Giulia Minutella accoglie le richieste del pm e dispone il rinvio a giudizio per Esposito per tutte le accuse, senza decidere di rivolgersi prima al Senato per chiedere l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni. Un fatto mai avvenuto prima, che ha spinto il Senato a sollevare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello stato di fronte alla Corte costituzionale. Un conflitto che nel dicembre 2023 la Consulta ha ritenuto fondato, dichiarando l’illegittimità (e dunque l’inutilizzabilità) delle intercettazioni realizzate ai danni di Esposito: le captazioni nei confronti di Muttoni erano infatti “in realtà unicamente preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare senza aver mai richiesto alcuna autorizzazione al Senato della Repubblica”. I giudici, di conseguenza, hanno annullato il rinvio a giudizio nei confronti di Esposito, mentre Colace e Minutella sono finiti sotto procedimento disciplinare al Csm per le palesi irregolarità riscontrate. Esposito ha però dovuto aspettare quasi un altro anno prima che il gip di Roma, al quale erano stati trasmessi gli atti dell’indagine per competenza territoriale, stabilisse l’archiviazione di tutte le accuse mosse nei suoi confronti, accogliendo la richiesta dei pm romani. Anziché chiedere l’archiviazione delle accuse in virtù dell’inutilizzabilità delle intercettazioni, questi hanno demolito nel merito le accuse rivolte dalla procura di Torino contro l’ex senatore, parlando di assenza di prove e sottolineando l’esistenza di mere “congetture”, di tesi “irragionevoli” e persino di errori dei colleghi torinesi nella configurazione delle fattispecie penali. Esposito viene prosciolto dopo sette anni. Vittoria? “Io non ho vinto, io ho retto - risponde Esposito - Non mi sono spezzato, mi sono solo piegato. Ho tenuto botta. Ma non ho vinto. In realtà, la vittoria l’ha ottenuta la procura il giorno in cui mi ha indagato e il giorno in cui ha chiuso le indagini”. “Questa vicenda, oltre a massacrarmi sul piano personale e famigliare, ha prodotto dei danni enormi anche sul piano economico. Non mi riferisco solo alle spese legali. Per lavorare ho fatto una fatica mostruosa. Devo dire grazie a quei pochi imprenditori che non si sono fatti influenzare da tutto ciò che veniva scritto su di me e mi hanno fatto lavorare. Senza il loro sostegno non so se avrei retto”. Al massacro mediatico-giudiziario si è aggiunto anche l’isolamento sociale e politico. “Mi sono ritrovato a combattere questa battaglia nella quasi totale solitudine”, afferma Esposito. “I primi a sparire sono stati quelli del mio partito, il Pd”. “Ciò che rimprovero al Pd è di non avermi processato. Mi sarei aspettato di essere chiamato, di essere chiuso in una stanza e che mi avessero chiesto la mia versione dei fatti. Invece non è avvenuto niente. Sono spariti tutti, o quasi. Qualcuno ha anche festeggiato. So benissimo di chi si tratta e provo per loro soltanto pena. In questi giorni, dopo sette anni, mi sono persino arrivati messaggi del tipo ‘non abbiamo mai dubitato della tua onestà’. Un’ipocrisia assoluta. C’è persino stato un esponente grillino che mi ha chiamato per esprimermi la sua vicinanza e solidarietà. Gli ho detto ‘ma sarai mica cretino, ma cosa mi stai telefonando a fare?’. Preferisco quelli coerenti agli incoerenti, ed è la ragione per la quale non posso tornare a fare politica”. Mentre racconta la sua incredibile storia, notiamo che Esposito non nomina mai il nome e il cognome del pm autore dell’indagine che lo ha massacrato. “Per me non ha la dignità di essere nominato”, spiega Esposito in maniera secca. “Dopo aver vissuto due anni di buio, ho cominciato a reagire - racconta - Ho iniziato a leggere gli atti giudiziari di altre persone coinvolte in inchieste dello stesso pm, e ho cominciato a seguire le udienze di questi processi che non mi riguardano. Come gli umarell che guardano i cantieri, io vado a seguire le udienze. L’idea che mi sono fatto, leggendo gli atti e assistendo agli interventi in aula di questo pm, è che nella migliore delle ipotesi abbia un livello di superficialità molto alto, visti anche i tanti insuccessi da lui ottenuti. Ma quando si indossa una toga non si fa l’impiegato al catasto. Si dispone di un potere che può distruggere la vita delle persone”. “È proprio questo che mi fa dire che, anziché pensare a epocali riforme della giustizia, sarebbe meglio riflettere su una riforma semplice, che è quella della responsabilità del magistrato: chi sbaglia paga”, dice Esposito. “Non voglio un pm impaurito o assoggettato. Voglio un maggior senso di responsabilità, proprio per la delicatezza dell’incarico che i magistrati rivestono e gli effetti che la loro attività genera sulle persone”. Le toghe le risponderebbero che compito del pm non è ottenere condanne. “Non penso che se un pm fa un’indagine e questa viene archiviata debba risponderne - replica Esposito - Io mi riferisco a vicende, come la mia, caratterizzate chiaramente da gravi errori e palese ignoranza delle norme. Se poi un pm su dieci procedimenti se ne vede archiviare cinque, quanto meno qualcuno dovrebbe dirgli: ‘Scusa, forse questo non è il tuo lavoro’. Come avviene in qualsiasi settore”. Su queste pagine mesi fa elencammo le tante inchieste condotte dal pm Colace finite nel nulla: quella sullo smog a Torino, quella contro il deputato leghista Molinari, quella contro i vertici del Salone del libro di Torino, quella sulla cosiddetta “Sanitopoli”, e tante altre. L’Associazione nazionale magistrati del Piemonte emise un comunicato contro il Foglio, sostenendo che nell’articolo avessimo attaccato il pm in questione e oltrepassato il diritto di critica. “Una vicenda incredibile - commenta Esposito - I magistrati si sentono incriticabili e infallibili. Io avevo capito che infallibile era solo Dio, e forse neanche lui. Ovviamente io non penso che la magistratura sia composta soltanto da incapaci, anche perché nel mio percorso ho incontrato giudici che hanno fatto bene il loro lavoro. Ma il buon lavoro viene screditato dal cattivo lavoro”. “In questa vicenda poi - aggiunge l’ex senatore - non è mai stato evidenziato un fatto molto grave: il pm ha operato avendo sopra di lui un procuratore aggiunto che ha controfirmato tutte le sue azioni, ma soprattutto si sono susseguiti vari procuratori capo che avevano il compito di controllare la sua attività. Un’altra responsabilità gigantesca ce l’ha la polizia giudiziaria e chi la comandava. Le informative sono zeppe di opinioni personali e morali. Ho sempre creduto che l’Italia non fosse l’Iran, e che da noi non ci fosse la polizia morale. Dopo aver letto le informative mi sono fatto qualche domanda”. Uscito da questo buco nero, Esposito esclude l’ipotesi di un ritorno alla politica (“non ci penso minimamente”). Cosa farà? “Vorrei innanzitutto curare, per quanto possibile, le ferite dei miei cari e ridare loro un po’ di orgoglio per il loro padre e marito, ma anche per loro stessi. Spero poi di poter cogliere qualche opportunità di lavoro che in questi anni mi è stata negata. Vorrei poi provare sul piano culturale a costruire una serie di appuntamenti in giro per l’Italia per raccontare cosa significa vivere vicende giudiziarie come questa. Per provare a ridare un minimo di base al garantismo che oggi è in grave via di estinzione, a sinistra come a destra”. Esposito si ferma. Riflette per qualche secondo e poi riprende: “Spero soprattutto di recuperare un po’ di serenità e di spensieratezza. Mi piacerebbe fare un bel viaggio in moto con mia moglie, cosa che ho smesso di fare. E magari riuscire ad andare ai concerti rock”. C’è un’anima rock dietro Stefano Esposito? “Sì, sono un fan accanito di Bruce Springsteen. Ho assistito a decine di suoi concerti e ho deciso di portare tutta la mia famiglia al concerto di Milano del prossimo giugno. Spero che quello sarà il momento in cui veramente riuscirò a chiudere questa gigantesca sofferenza che mi sono portato dietro e che ho ancora dentro di me”. “Mi ero poi promesso anche di fare una cosa”, aggiunge Esposito, col sorriso timido di un ragazzino. “Mi farò un piccolo tatuaggio con una canzone di Springsteen che mi ha accompagnato in questi anni: No Surrender. Sono sempre stato una persona poco avvezza a queste cose, infatti non ho tatuaggi, ma questa è una cosa che farò. Avevo fatto una promessa con me stesso. Lo farò sulla parte interna del braccio sinistro, piccolo però”. Diciamo che, dopo questi sette anni, di segni addosso già ne ha parecchi. “I segni addosso me li hanno fatti gli altri, almeno questo me lo faccio io”. Verona. Suicida in cella a 24 anni: chiesta l’autopsia per Robert di Angiola Petronio Corriere di Verona, 8 dicembre 2024 La mamma, con lui in ospedale, ha dato il permesso di staccarlo dalle macchine. È stata chiesta l’autopsia per Robert Octavian Radion, il 24enne che si è tolto la vita nella Casa circondariale di Montorio impiccandosi. La sua morte ha riaperto la questione dei suicidi in carcere. “Un carcere sovraffollato, senza occasioni di studio e lavoro per le persone detenute, per definizione non può rispondere alle finalità di rieducazione e reinserimento sociale che la Costituzione assegna alla pena. Finalità dimenticate da un governo che sta a guardare il perpetuarsi di una condizione detentiva inumana, che non è spiegabile se non con logiche punitive e di vendetta”. Marco Vincenzi, coordinatore di Verona Radicale ha commentato così il quarto suicidio del 2024 nel carcere di Montorio. Quello di Robert Octavian Radion, 24 anni compiuti de una vita tra reati, galera e quel male di vivere che spesso tramutava in rabbia. Ma che mercoledì sera ha incanalato nel lenzuolo con cui si è impiccato in cella. Un’agonia di due giorni, la sua. Fino a venerdì. Fino a quando sua madre ha dato l’approvazione per staccarlo dai macchinari che lo tenevano in vita. Verrà eseguita l’autopsia sul corpo di Robert. Ma la sua storia, lui, l’aveva già scritta. Aveva tentato più volte di farla finita. Mercoledì ha chiesto come se nulla fosse una sigaretta all’agente di polizia penitenziaria che stava facendo il solito giro di controllo. Lui gliel’ha data. Il tempo di passare dalle altre celle, tornare indietro e trovarlo impiccato. Robert, che chiunque lo conoscesse definisce un ragazzo con “seri problemi psichiatrici, che non doveva stare in un carcere ma in una struttura di cura”. Da Venezia era stato trasferito perché, diceva, era stato picchiato. E quando è arrivato a Verona, in una visita in ospedale gli è stata riscontrata una lesione alla milza. Viveva, Robert, quella “incompatibilità” con il carcere che è il comun denominatore tra molti degli oltre 600 detenuti della casa circondariale di Montorio. Sovraffollamento del 140%, il penitenziario veronese. “C’è una percentuale elevata di tossicodipendenti e malati psichiatrici - conferma Maurizio Mazzi, volontario de La Fraternità e presidente della conferenza regionale volontariato e giustizia. È una situazione intollerabile, anche perché non ci sono segnali dal governo. Anzi, ha aumentato anche il numero dei reati. A Montorio c’è carenza di servizi sanitari e anche di lavoro per i detenuti”. Un’”alienazione” che aveva avviluppato anche Robert. “Voleva morire con tutte le sue forze. E quello del carcere non era il luogo dove doveva stare”, ribadisce simone Bergamini, suo avvocato e referente dell’osservatorio giustizia della Camera Penale veronese. “Persone con problemi psichiatrici come lui dovrebbero stare in strutture dedicate. Nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. Ce n’è una sola, per tutto il Triveneto. È a Nogara. E anche quella è stipata. “Sarebbe stata - riflette l’avvocato Bergamini - la soluzione ottimale, per Robert. Come per molti altri detenuti. Ma è sovraffollata. O sottodimensionata, che dir si voglia. La lista d’attesa è di oltre un anno. E questo è un altro gravissimo problema dell’attuale situazione carceraria”. Genova. La morte di Amir Dhouiou: l’ennesimo suicidio in carcere di Patricia Iori ultimavoce.it, 8 dicembre 2024 Il sistema penitenziario italiano si trova a fronteggiare una crisi sempre più drammatica, sottolineata da un dato inquietante: 86 suicidi tra i detenuti dall’inizio del 2024. Questo numero, il più alto mai registrato da quando l’organizzazione Ristretti Orizzonti ha iniziato a monitorare il fenomeno a livello nazionale, evidenzia una situazione critica che non può più essere ignorata. Tra questi tragici episodi, quello di Amir Dhouiou, un giovane di 21 anni che si è tolto la vita nel carcere Marassi di Genova il 4 dicembre, il quale rappresenta un ennesimo campanello d’allarme per le istituzioni. Il contesto di una tragedia - Amir Dhouiou, poco più che ventenne, rappresenta uno dei volti più giovani di questa drammatica statistica. Le circostanze specifiche che hanno portato al suo gesto estremo non sono state chiarite in modo esaustivo, ma la sua morte è stata accolta con sgomento e dolore sia dentro che fuori dalle mura del carcere. Amir, come molti altri detenuti, si trovava in una condizione di isolamento e sofferenza, elementi che spesso si intrecciano in un circolo vizioso difficile da spezzare. Il carcere Marassi di Genova, dove Amir era detenuto, è stato più volte al centro di denunce riguardanti il sovraffollamento e le condizioni di vita precarie. Questi fattori, uniti alla fragilità psicologica che molti detenuti già portano con sé al momento dell’ingresso in carcere, creano un terreno fertile per episodi di autolesionismo e suicidio. Una statistica che pesa come un macigno - Il dato fornito da Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova impegnata nel monitoraggio delle condizioni dei detenuti, fotografa una situazione allarmante. Gli 86 suicidi registrati nel 2024 rappresentano non solo un record negativo, ma anche un chiaro sintomo di un sistema incapace di garantire il benessere minimo dei suoi ospiti. L’aumento di questi tragici eventi rispetto agli anni precedenti pone interrogativi profondi sulla capacità del sistema penitenziario italiano di rispettare la dignità umana e il diritto alla salute psicofisica dei detenuti. La situazione è ancora più preoccupante se si considera che molte delle vittime erano giovani o persone in attesa di giudizio, quindi potenzialmente innocenti secondo il principio di presunzione d’innocenza. Sovraffollamento e carenze strutturali - Uno dei fattori che contribuiscono maggiormente alla tragedia dei suicidi in carcere è il sovraffollamento. Con oltre 57.000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di circa 50.000 posti, le prigioni italiane vivono una condizione di emergenza cronica. Celle progettate per ospitare due persone ne accolgono spesso tre o più, riducendo al minimo lo spazio vitale e aumentando il livello di stress e conflitto tra i detenuti. Le carenze strutturali non si limitano però alla mancanza di spazio. Molte strutture soffrono di degrado, mancanza di servizi essenziali e personale insufficiente. Gli operatori penitenziari, spesso sottoposti a turni massacranti e privi di adeguata formazione psicologica, non sono in grado di fornire il supporto necessario ai detenuti in difficoltà. A ciò si aggiunge la scarsità di programmi di riabilitazione e reinserimento sociale, che lasciano molti reclusi senza prospettive per il futuro. La dimensione psicologica della detenzione - L’impatto della detenzione sulla salute mentale è un altro aspetto cruciale. Molti detenuti entrano in carcere con preesistenti fragilità psicologiche, spesso aggravate dalle condizioni di vita carcerarie. L’isolamento, la mancanza di contatti con l’esterno e l’assenza di attività significative contribuiscono a creare un ambiente oppressivo, che può portare anche i più forti a cedere. Gli interventi di supporto psicologico sono spesso insufficienti o del tutto assenti. La carenza di psicologi e psichiatri all’interno delle strutture penitenziarie è una problematica ben nota, ma raramente affrontata con decisione. Di fronte a questa carenza, molti detenuti rimangono abbandonati a loro stessi, senza strumenti per affrontare le difficoltà emotive e psicologiche che la detenzione comporta. Le responsabilità delle istituzioni - La gestione delle carceri è una responsabilità diretta dello Stato, che ha il dovere di garantire non solo la sicurezza della società, ma anche il rispetto dei diritti fondamentali di chi si trova recluso. Il tasso di suicidi tra i detenuti rappresenta un fallimento collettivo che coinvolge tutte le istituzioni, dalla politica alle amministrazioni locali e nazionali. Le denunce delle associazioni per i diritti umani e degli osservatori indipendenti sono numerose, ma spesso cadono nel vuoto. Interventi legislativi e piani di riforma si succedono senza mai affrontare radicalmente le cause profonde della crisi. Nel frattempo, le vite spezzate come quella di Amir Dhouiou continuano ad accumularsi, aggiungendo dolore e indignazione. Possibili soluzioni - Per affrontare questa crisi, è necessario un approccio sistemico che coinvolga tutti gli attori in campo. Tra le misure più urgenti vi sono l’aumento delle risorse destinate al sistema penitenziario, l’ampliamento degli spazi detentivi e il potenziamento del personale, con particolare attenzione alla formazione psicologica degli operatori. Parallelamente, è fondamentale sviluppare programmi di supporto psicologico e di reinserimento sociale per i detenuti. Progetti di educazione, lavoro e formazione professionale possono contribuire a ridare speranza e dignità a chi si trova in carcere, riducendo al contempo il rischio di recidiva. Infine, una riforma del sistema giudiziario potrebbe contribuire a limitare l’uso della detenzione preventiva, una delle principali cause del sovraffollamento. Promuovere pene alternative, come i lavori socialmente utili o la detenzione domiciliare, potrebbe rappresentare una soluzione efficace per ridurre la pressione sulle carceri e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. Una responsabilità collettiva - La morte di Amir Dhouiou e degli altri 85 detenuti che si sono tolti la vita nel 2024 è un richiamo urgente all’azione. Non si tratta solo di numeri, ma di vite umane, ciascuna con una storia e una dignità che meritano rispetto. Affrontare questa crisi richiede un impegno collettivo, che coinvolga non solo le istituzioni ma anche la società civile nel suo complesso. Il carcere non può essere un luogo di abbandono e disperazione. Deve diventare uno spazio di recupero e rinascita, in cui chi ha sbagliato possa trovare gli strumenti per ricostruire la propria vita. Venezia. Parlano i detenuti di Santa Maria Maggiore: “Situazione al collasso” di Ilaria Marchiori antennatre.medianordest.it, 8 dicembre 2024 Tante le denunce sulla situazione al collasso nel carcere di Santa Maria Maggiore. Questa volta, però, il grido d’allarme arriva direttamente dai detenuti, in esclusiva ai nostri microfoni. || Le grida arrivano da una delle finestre sbarrate del carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia. In una mattinata qualunque, con la testa tra le sbarre per riuscire a farsi sentire, alla vista delle nostre telecamere, alcuni detenuti ci chiedono di raccontare, attraverso la loro voce, le condizioni in cui si vive nella struttura. L’ultimo suicidio, lo scorso 5 novembre, il terzo a Venezia dall’inizio dell’anno, il 79esimo in Italia. Una situazione al collasso, quella di Santa Maria Maggiore, che da tempo è sotto gli occhi di tutti con le tante, troppe denunce, soprattutto nell’ultimo anno, di sindacati, politici, ma anche agenti di polizia penitenziaria, a loro volta in condizioni al limite con turni di servizio e carichi di lavoro massacranti, oltre alle aggressioni. Marco, usiamo un nome di fantasia, ha 26 anni, poco meno di un anno e potrà tornare libero, ci racconta che così non è umano scontare una pena, e lancia un appello. L’ennesimo. Un grido disperato con la speranza che non resti tra quelle mura e prima di rientrare, un pensiero dal carcere veneziano va a Giulia Cecchettin. Lucca. Bufera al carcere, si dimette lo psicologo: “Umiliato come persona, non potevo più lavorare” luccaindiretta.it, 8 dicembre 2024 Il dottor Cornacchia: “Mi è stato imposto di ‘uscirè dal carcere alle 18 anche in prossimità e durante colloqui con soggetti a grave rischio suicidario”. Bufera nel carcere San Giorgio di Lucca, dove dopo 30 anni di servizio lo psicologo Vito Michele Cornacchia ha dato le dimissioni. Una lettera infuocata, con il quale il professionista fortemarmino, 67enne, anche professore universitario a contratto nell’Ateneo pisano, ha elencato una serie di vicende che lo hanno fatto decidere a lasciare, con dispiacere, l’incarico. “Mi sono sentito umiliato come persona, non potevo più lavorare. E allora ho detto basta”, ha spiegato alla nostra redazione, precisando anche l’ultimo episodio: “Mi è stato impedito di parlare con un detenuto ad alto rischio di suicidio”. “Da tempo riflettevo sulla mia posizione, sentita sempre più precaria e poco valorizzata, ormai frantumata e calpestata senza alcuna difesa - prosegue -. L’assurda imposizione di non poter svolgere colloqui in un setting terapeutico adeguato mi ha profondamente amareggiato, ledendo non solo la mia professionalità ma anche il diritto dei detenuti a un trattamento dignitoso”. “Lo scorso marzo - scrive nella missiva inviata al Provveditore Amministrazione Penitenziaria Toscana - quando accedevo alla Casa Circondariale di Lucca per svolgere l’attività di cui all’incarico, venivo a conoscenza, per il tramite degli agenti di polizia penitenziaria, che non potevo più usufruire della stanza/ufficio colloqui in quanto era stato disposto il ricollocamento dello spazio in favore dell’ufficio matricola per registrare i nuovi giunti. Documenti o altro materiale (schede detenuti, relazioni, test ecc.) dell’ufficio da me presieduto è stato movimentato, in mia assenza, per essere depositato in contenitori. Da quel momento posso avvalermi di scrivanie e computer “in appoggio” presso altri uffici del Presidio Sanitario, chiedendo di volta in volta il benestare dei colleghi, non avendo più a disposizione uno spazio consono per l’espletamento delle mie funzioni. Il tutto, spiega lo psicologo, “senza informare preventivamente il sottoscritto” e chiedendo se “dopo tre decadi di lavoro nel carcere sia da ritenersi fondata nella liceità questa condotta di decidere, inaudita altera parte e d’emblèe, di sottrarre uno spazio di lavoro. Considerando l’attuale allarme relativo ai suicidi e alle richieste pressanti di molti esperti del settore di incrementare il sostegno psicologico, è possibile svolgere tale funzione essendo “accampato” provvisoriamente, senza la possibilità di effettuare colloqui in ambienti e spazi adeguati al delicato ruolo professionale”? Da diversi mesi, poi, aggiunge Cornacchia, “mi è stato imposto di ‘uscirè dal carcere alle 18 anche in prossimità e durante colloqui con soggetti a grave rischio suicidario, con il divieto di chiamare i detenuti anche presso il Presidio Sanitario. Questo è, a mio avviso, un gravissimo errore e il motivo consta nel fatto che è proprio al termine delle attività, e quindi verso sera, che si può avere un dialogo aperto con i detenuti, che si può realizzare il trattamento di cui l’operato dello psicologo è una parte attiva ed irrinunciabile. Circostanza ben nota a chi opera nel settore e pur anche alle direzioni avvicendatesi negli anni a Lucca, tanto che mai è stato posto un vincolo di questo tenore. Forse alle 18 si esaurisce il rischio del suicidio? Nonostante il senso di umiliazione provato per le circostanze subite, continuo e persevero nella mia attività speranzoso che ci sia sempre, da tutte le parti, voglia di dare un senso vero alla rieducazione e alla prevenzione dal rischio suicidario. Ho sempre creduto, come sono certo ci abbiano creduto molti direttori, operatori, agenti e volontari nei tanti anni di servizio non solo a Lucca ma a Massa, Prato, Gorgona, Pisa, Livorno, Pistoia, Grosseto, San Gimignano e Volterra”. “Le continue umiliazioni, come l’essere “cacciato” dall’ufficio alle 18 come un cane bastonato, un ladro, hanno inciso profondamente sulla mia dignità e sulla mia motivazione - conclude. Pur essendo un dipendente Asl e parte della sanità penitenziaria, a seconda del capoposto in servizio, arrivava puntualmente un agente a “cacciarmi” indicando con il dito l’orologio. Ogni volta la ferita si riapriva e il dolore avanzava”. Di qui l’addio, ma in attesa di risposte. Milano. “Prima” alla Scala, nel carcere di San Vittore tra sovraffollamento e freddo di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2024 Le presenze nel penitenziario sono 1.077 per 700 posti. La direttrice Palù: “Imprese al nostro fianco”. Applausi, poi risotto e panettone. Il libretto in mano, lo sguardo sul maxischermo. Seduti nella rotonda, gruppi di detenuti di San Vittore seguono le storie di Leonora e Alvaro, “gettati nel mondo - per dirla con uno di loro - dalla forza del destino”. Parla dei protagonisti de “La Forza del destino”, l’opera di Giuseppe Verdi - che apre la stagione scaligera di quest’anno - ma Antonio, recluso qui già da qualche anno, parla anche di sé e di tanti che come lui si sono “ritrovati in carcere, per una catena di errori, di casualità, di scelte sbagliate e per l’assenza di una rete intorno. Quasi non comprendi fino in fondo quello che stai facendo - racconta - fino a che non realizzi di essere qua”. Hanno frequentato dei corsi e hanno studiato la storia dell’opera di Verdi e ora i detenuti che hanno avuto la possibilità di seguire la Prima alla Scala sono tra gli spettatori più attenti. Accanto a loro, un centinaio di altri ospiti, rinnovando la tradizione che da anni ormai inserisce questo carcere nei 38 luoghi della “Prima diffusa”. Messaggio e memoria di quel pezzo di città - e di Repubblica - che vive e lavora dietro le alte mura ottocentesche della casa circondariale. E partecipa della grande festa di Milano nel giorno di Sant’Ambrogio. In questo momento, le condizioni di San Vittore sono particolarmente critiche. “Oggi i detenuti sono 1.077 per 700 posti”, conferma la neo-direttrice Elisabetta Palù, che da pochi giorni ha sostituito Giacinto Siciliano, divenuto provveditore degli istituti penitenziario in Lazio, ma che non ha voluto mancare al tradizionale appuntamento milanese del 7 dicembre. E anche per comunicare il forte sovraffollamento, le presenze dei detenuti sono significativamente aumentate (73) in questa serata alla rotonda. “Non potevamo non tenerne conto”, conferma la direttrice. Molti altri detenuti sono stati coinvolti nell’organizzazione della serata lavorando nelle cucine. Le personalità presenti - Accanto a loro, volti noti del foro milanese, la presidente del Tribunale di Sorveglianza, Giovanna Di Rosa, insieme ad un paio di magistrati di sorveglianza; qualche politico, come Andrea Giorgis, Pd, (“In momenti come questi emerge, con ancora più evidenza, quanto il carcere abbia bisogno di non essere un luogo di mera privazione della libertà. Il destino di ciascuno non è mai un destino puramente individuale”), Maria Stella Gelmini, Noi Moderati, (“La musica allevia l’angoscia: le condizioni del carcere ci devono responsabilizzare tutti sul da farsi. In assenza di nuove risorse, lavoro formazione e cultura aiutano a costruire una speranza”), Giusy Versace di Azione; l’assessore alla sicurezza del Comune, Marco Granelli, molti più volontari che ogni giorno entrano per fare dono del proprio tempo. Tutti concordano sulle “condizioni divenute ancora più critiche” in molti istituti. Anche qui, a San Vittore, al di là dei grandi cancelli della rotonda, quando ci si inoltra nei diversi raggi, da cui giunge corrente di aria gelida. Piccolo assaggio dell’emergenza freddo avvertita in modo particolare in alcune zone dell’istituto. Ferrara. Il fuoco e i dubbi di Prometeo, dal carcere al palco: è “Fegato” Il Resto del Carlino, 8 dicembre 2024 Oggi, alle 19, per la prima volta verrà presentato “Fegato” al di fuori dell’istituto penitenziario, presso il Teatro Julio Cortazar di Pontelagoscuro (Via della Ricostruzione 40 - Pontelagoscuro), con il coinvolgimento di due ex attori detenuti.”Fegato”, drammaturgia e regia di Marco Luciano. Con Luigi Marietti, Rimi Mezami, le attrici e gli attori di Teatro Nucleo. In greco antico Prometheus è “Colui che pensa prima”. Ma se Prometeo avesse saputo cosa l’umanità sarebbe diventata, avrebbe comunque rubato il fuoco agli dèi e subito il martirio eterno sui monti del Caucaso con il suo fegato dilaniato ogni giorno dall’aquila Aithon? Ispirati dalla lettura dell’operetta morale di Giacomo Leopardi intitolata “La scommessa di Prometeo” è stato intrapreso questo viaggio creativo intorno allo spettacolo Fegato, lavorando sul sogno premonitore, sull’incubo che probabilmente Prometeo ha avuto la notte prima di andare a rubare il fuoco agli dei per poi donarlo agli uomini. “In questo primo studio, con la compagnia di attori detenuti - spiegano gli organizzatori - abbiamo voluto lavorare sul sogno premonitore, sull’incubo che probabilmente Prometeo ha avuto la notte prima di andare a rubare il fuoco per donarlo agli uomini”. Lo spettacolo ha debuttato nell’ambito del Festival Trasparenze di Teatro Carcere martedì 19 e mercoledì 20 dicembre 2023 presso la Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara davanti a un pubblico di spettatori esterni e detenuti. Ringraziamo la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Ferrara e del Coordinamento Regionale di Teatro Carcere Emilia. Arienzo (Ce). pranzo di Natale con i detenuti: “Basta odio” di Gabriella Cuoco Il Mattino, 8 dicembre 2024 È stato il primo di nove pranzi, tutti in agenda nel periodo natalizio nelle carceri campane, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio nella casa circondariale di Arienzo. I prossimi nel Casertano si terranno il 16 a Carinola e il 27 a Santa Maria Capua Vetere. Trentanove detenuti, tra i più poveri all’interno della struttura di via Appia, che accoglie 92 reclusi a fine pena che provengono soprattutto dal carcere di Secondigliano, hanno potuto condividere un momento di gioia, degustando un pranzo preparato per l’occasione dallo chef Peppe Daddio della scuola di cucina Dolce & Salato di Maddaloni, affiancato da un detenuto al quale, per l’occasione, ha fatto confezionare un grembiule personalizzato, in collaborazione con le aziende Basilicata, La Guardiense, caffè Kimbo, pasticceria Lombardi e la Caritas Arcipretura Sant’Andrea Apostolo di Arienzo. Assente il vescovo della Diocesi di Acerra, monsignor Antonio Di Donna, per un impegno improvviso, presenti, invece, don Raffaele D’Addio e don Mario De Lucia, parroco e vice della chiesa di Sant’Andrea Apostolo, oltre all’organizzatore dell’evento, il responsabile della comunità di Sant’Egidio, Antonio Mattone, che, come da tradizione, da quattro anni organizza queste iniziative, i sindaci di Arienzo e San Felice a Cancello, Giuseppe Guida ed Emilio Nuzzo. A fare gli onori di casa, la direttrice della struttura, Annalaura de Fusco, che ha dato l’ok affinché il pranzo venisse servito nei due piani-reparti. Il momento più commovente è stato quello della lettura della letterina a Babbo Natale, scritta da un detenuto e consegnata nelle mani della direttrice. Nella parte finale, una confessione emozionante: “Se tornassi indietro non ti chiederei più una pistola giocattolo, ma un libro da leggere e una penna per poter scrivere il mancato successo della mia vita”. Intanto, da qualche giorno, nel carcere della Valle c’è nuovo amico a quattro zampe, che si aggiunge ad altri già presenti. Il suo nome è Leo ed è il cane di un clochard detenuto. Ritrovato in un canile da un poliziotto, ha potuto raggiungere così il suo padrone. Giustizia e ingiustizia. Il carcere, la sofferenza, la pena (e la pena di morte) in Dostoevskij di Stefano Maria Capilupi huffingtonpost.it, 8 dicembre 2024 Leggere il pubblicista, che può essere oggetto di studio, ma non di grande ammirazione. E leggere il romanziere, che è motivo di catarsi per tutte le nazioni. Nei Demòni è scritto: “Se vuoi conquistare il mondo intero, conquista te stesso”. Dostoevskij ha sempre mostrato una ricerca e definizione di sé da parte dell’individuo che conoscesse e allo stesso tempo fuggisse l’inclinazione a dominare o ad essere dominati. Lo scrittore ha così conquistato e liberato sé stesso in ogni romanzo, come un novello Dante, ma con tutta la sensibilità della compassione, della ragione e della teodicea dell’epoca moderna. Vediamo ora in che contesto nazionale e storico il grande romanziere ragionasse sulla giustizia durante gli ultimi anni della sua vita. Il 20 febbraio 1880, Ippolit Mlodeckij cerca di sparare al conte Mikhail Loris-Melikov per strada, ma non ci riesce. Il 21 febbraio 1880 il tribunale del distretto militare di San Pietroburgo condanna Mlodeckij a morte per impiccagione. Il granduca Konstantin Konstantinovi?, dal suo diario del 26 febbraio, scrive: “...Dostoevskij è andato ad assistere all’esecuzione di Mlodeckij, non mi è piaciuta questa cosa, io sarei disgustato di assistere a un caso così disumano; ma mi ha spiegato che lo preoccupa e quindi lo occupa tutto ciò che riguarda l’uomo, tutte le posizioni della vita, gioie e tormenti. Infine, forse, desiderava vedere un criminale che veniva portato via per essere giustiziato, per rivivere nella sua mente la propria personale esperienza. Mlodeckij si è guardato intorno ed è sembrato indifferente. Dostoevskij mi ha spiegato questo con il fatto che in un momento del genere un uomo cerca di allontanare il pensiero della morte, ricorda soprattutto immagini felici, si porta con la mente in un giardino di vita, pieno di primavera e di sole. E più ci si avvicina alla fine, più l’idea della morte imminente diventa vincolante e angosciante. Il dolore che incombe, la sofferenza pre-morte non è terribile: terribile è il trapasso in un’altra percezione sconosciuta…” (“Diario del Granduca Konstantin Konstantinovi?. 1911-1915”). La scrittrice Sofia Smirnova-Sazonova racconta nelle sue memorie su Fëdor Dostoevskij: “... ? venuto da me Dostoevskij. Mi ha raccontato che all’esecuzione di Mlodeckij il popolo ha applaudito e gridato. Ha molto impressionato che Mlodeckij abbia baciato la croce. Hanno cominciato a dire da tutte le parti: ‘L’ha baciata! Ha baciato la croce!’”. Mikhail Loris-Melikov divenne in seguito, nel 1881, ministro degli Interni e proprio durante la sua guida del ministero viene assassinato a San Pietroburgo il capo dello Stato in persona, secondo circostanze che mostrarono una mancanza di misure sufficienti a proteggere la sicurezza personale dell’Imperatore (questa fu, almeno, l’opinione del procuratore capo Pobedonoscev e del nuovo Zar Alessandro III). Già dopo l’attentato al conte Mikhail Loris-Melikov del 21 febbraio 1880, i giornali stranieri avevano scritto della caduta della dinastia, quelli russi avevano rimproverato la polizia per la sua lentezza. Cosa pensò Dostoevskij dell’evento? “L’attentato alla vita del conte Loris-Melikov gli crea un grande disagio”, raccontò il giornalista Aleksej Suvorin, “e aveva paura della Reazione. ‘Dio ci salvi se si riportano sulla vecchia strada’”. La testimonianza, se ci si pensa, è significativa. Mostra ciò che Dostoevskij temeva in primo luogo. Naturalmente non approvava i tentativi di assassinio, ma in questo caso la sua indignazione era rivolta non tanto all’autore, quanto all’evidente inopportunità in sé del suo gesto. Temeva le conseguenze. Temeva azioni di ritorsione - sanguinose - da parte delle autorità. Pensava al ruolo provocatorio che l’estremismo politico - vero preludio della reazione più violenta - può svolgere (e, come sappiamo, può svolgere tuttora: gli anni 70 del XX secolo in Germania e in Italia hanno dato anche la formulazione forse più corretta, ossia quella degli opposti estremismi e della strategia della tensione). Le testimonianze biografiche su Dostoevskij qui riportate vengono innanzitutto dal libro di Igor Volgin, L’ultimo anno di Dostoevskij, dove sono illustrate in modo convincente tutte le esperienze e le riflessioni di Dostoevskij di fronte alle repressioni ed esecuzioni che ebbero luogo nella Russia zarista durante la sua vita. L’esecuzione di Mlodeckij fu l’unica che l’ex “petraševskij” - riferimento al circolo rivoluzionario cui Dostoevskij aderì in gioventù, pagando con quella nota pena di morte revocata un attimo prima dello sparo - poté osservare: si trovava a Mosca il 3 settembre 1866 e a Staraja Russa il 28 maggio 1879, e quindi non poté essere presente agli ultimi momenti di Dmitrij Karakozov e Aleksandr Solov’ëv. Dostoevskij scrive: “La Chiesa è tutto il popolo …”. “Tutto il popolo”, cioè non un’istituzione, non un’istituzione separata dal popolo e posta al di sopra di esso, ma una certa comunità spirituale che coincide pienamente con il popolo. In questo senso, “il popolo” e “la Chiesa” sono sinonimi. Quest’ultima diventa il nome collettivo della coscienza del popolo. Nel suo “Diario di uno scrittore” Dostoevskij afferma che il principale errore degli intellettuali russi è “quello di non riconoscere nel popolo russo la Chiesa”: “non parlo ora di edifici ecclesiastici e di parrocchie” - aggiunge Dostoevskij, “parlo ora del nostro ‘socialismo’ russo (e prendo questa parola, che è l’opposto di Chiesa, proprio per chiarire il mio pensiero, per quanto strano possa sembrare), - il cui scopo e risultato è la Chiesa nazionale e universale, realizzata sulla terra nella misura in cui la terra può accoglierla…”. Certo spaventa che nell’anima russa, anche in alcuni suoi massimi rappresentanti, ci sia non di rado questa congiunzione non chiarita fra universalismo e nazionalismo. Quindi, il “socialismo russo” è la “Chiesa universale”, in altre parole, il raggiungimento di un tale stato morale, quando tutti agiranno secondo coscienza. Ma ecco un vagabondo, un emarginato - l’Aleko, il “pellegrino russo” del Discorso in onore a Puškin del 1881 dello stesso Dostoevskij - perché anche egli “ha bisogno della felicità universale per riposare: non si riconcilierà più a buon mercato”. Questo Aleko non ha forse anch’egli il desiderio di diventare membro di una certa “‘Chiesa universalè? Forse sì, ma finora non ci è riuscito molto bene... gli dicono, che anche le sue mani sono macchiate di sangue: ‘Lasciaci, uomo orgoglioso. / Noi siamo selvaggi, non abbiamo leggi’. Noi non torturiamo, non giustiziamo”. Gli zingari, i vagabondi non hanno “nessuna esecuzione” - perché essa è innanzitutto affare di Stato. Anche la Chiesa non ha “nessuna esecuzione”, perché è metastatale. ? proprio lo Stato in quanto tale che “tormenta e giustizia” - e sorge quindi spontanea la domanda: non è forse lo Stato quell’”uomo orgoglioso” al quale è rivolto quel grido di umiltà? Il 1° settembre 1866, Dmitrij Karakozov, condannato all’impiccagione, decise di chiedere la grazia allo zar. La sua lettera terminava così: “E ora, Sire, vi chiedo perdono come cristiano a cristiano e come uomo a uomo”. Alessandro II, sorridendo docilmente, ascoltò queste parole, lette dal ministro della Giustizia, e - rammaricato - agitò le mani come in un gesto di sconcolata impotenza. Il giorno dopo, il 2 settembre, il presidente della Corte suprema penale, il settantasettenne principe Gagarin (lo stesso, per inciso, che nel 1849 aveva condotto le indagini sul caso di Dostoevskij e degli altri del circolo Petrašev) convocò il condannato e disse: “Karakozov, l’Imperatore mi ha ordinato di annunciarti che Sua Maestà ti perdona come cristiano, ma come sovrano non può perdonarti. Devi prepararti alla morte”. Il 3 settembre Karakozov fu impiccato. Il “Discorso Puškiniano” fa esplicito riferimento ai “pellegrini russi” che “si allontanano verso il socialismo” e, di conseguenza, come se si configurasse una nuova incarnazione sociale e politica per Aleko e Onegin, personaggi di Puškin. E la polizia non tardò ad approfittare di questa involontaria e preziosa indicazione. Il fatto è che la formula di Dostoevskij è a doppio taglio. Notando che Aleko viene “ferocemente squartato e giustiziato per il suo reato”, Dostoevskij improvvisamente aggiunge: “...essendosi ricordato di appartenere a una delle quattordici classi, griderà egli stesso, forse (perché anche questo è accaduto), alla legge che tormenta e giustizia, e la invocherà, solo per avere vendicata la sua offesa personale”. Per Dostoevskij proprio lo Stato è quell’”uomo orgoglioso” quanto Aleko. E anche la monarchia russa, divisa in quattordici classi da Pietro il Grande, un “nichilista” (come lo definisce Dostoevskij), è uno dei vagabondi storici. Essa è altrettanto “fantasiosa”, nonostante la sua storica e fatale letalità, e di certo non può incarnare l’ideale autentico del popolo. Le ricerche di Volgin e di alcuni altri studiosi russi dimostrano quanto complesso e critico fosse l’atteggiamento di Dostoevskij non solo nei confronti del crescente malcontento della società civile nella seconda metà degli anni 60 e durante tutti gli anni 70 (la cui apoteosi fu l’assoluzione da parte di una giuria popolare, il 31 marzo 1878, di Vera Zasuli?, che aveva tentato di assassinare il governatore di San Pietroburgo), sia nei confronti della crescente repressione da parte di quello stesso zar, che nei primi anni Sessanta era stato definito “liberatore” (nel 1861 aveva abolito la plurisecolare servitù della gleba). Il 4 novembre 1880 il ventiquattrenne Andrej Presnjakov e il ventisettenne Aleksandr Kvjatkovskij furono impiccati nella fortezza di Pietro e Paolo, la stessa dove il giovane Dostoevskij aveva vissuto la nota esperienza della condanna a morte revocata all’ultimo. Lo stesso Dostoevskij aveva ora davanti a sé meno di tre mesi di vita. Scrive in alcuni dei suoi ultimi appunti: “Esecuzione di Kvjatkovskij, Presnjakov e grazia degli altri. Come lo Stato non poteva perdonare (se non per volontà del monarca). Che cos’è un’esecuzione? Nello Stato, sacrificio della coscienza all’altare di un’idea. Ma se si tratta della Chiesa - non può esserci nessuna esecuzione”. Ma la Chiesa in quegli anni non chiese mai la grazia per nessuno. Quindi, ancora una volta, Dostoevskij sta parlando di un’altra personificazione della Chiesa. Dostoevskij è diventato oggi in Russia una figura di grande rilevanza politica. Se torniamo al testo de I fratelli Karamazov, l’attenzione è spesso rivolta al seguente frammento: “Voglio andare in Europa, Alëša, ci andrò da qui; e so che andrò solo in un cimitero, ma nel cimitero più prezioso, ecco cosa! Ci sono carissimi defunti che giacciono lì, ogni pietra sopra di loro racconta di una vita passata così fervida, di una fede così appassionata nelle proprie imprese, nella propria verità, nella propria lotta e nella propria scienza, che so in anticipo che cadrò a terra e bacerò quelle pietre e piangerò su di loro, allo stesso tempo convinto con tutto il cuore che tutto è ormai da molto un cimitero, e niente di più”. L’idea di un’Europa “morta” è stata spesso presente anche in certi discorsi sovietici sull’”Occidente marcio e in decadenza” e negli ultimi due decenni nella nuova risonanza del saggio di Oswald Spengler Il declino dell’Europa. Tuttavia, chi interpreta Dostoevskij solo in termini nazionalisti e anti-occidentali, dando peraltro troppo significato al Dostoevskij pubblicista rispetto allo scrittore, dimentica come minimo un altro passaggio de I fratelli Karamazov: “Non passerò naturalmente in rassegna tutti gli assiomi moderni dei ragazzi russi su questo argomento, tutti derivati da ipotesi europee; perché qualsiasi ipotesi è immediatamente un assioma per un ragazzo russo, e non solo per i ragazzi, ma forse anche per i loro professori, perché i professori russi sono molto spesso gli stessi ragazzi russi che abbiamo ora”. Il “profeta” Dostoevskij, che vede il massimalismo innato e “adolescenziale” del suo popolo, così come lo squallore, la povertà e l’ingiustizia di certo capitalismo “selvaggio” ovunque e anche in Russia, è lo stesso Dostoevskij che apparentemente era pronto, come alcuni altri scrittori, a chiedere allo zar la grazia per alcuni giovani rivoluzionari, se non fosse stato lui stesso un ex galeotto, una volta graziato, e allo stesso tempo non avesse sentito e scritto che per la realizzazione della stessa giustizia superiore, che è la grazia, era necessaria un’autorità superiore e divina, cioè quella “Chiesa-popolo” che non aveva ancora nulla a che fare né con la Chiesa, né con lo Stato realmente esistenti. Anche per questo motivo, lo stesso Dostoevskij non era favorevole a generali amnistie e nel suo Diario di uno scrittore del 1879 scrive: “Lo dirò senza mezzi termini: con una pena severa, con la reclusione, con i lavori forzati, si potrebbe salvare la metà di loro”. Ma, secondo Dostoevskij, la pena severa - quel “castigo” che risuona nel celebre romanzo su Raskol’nikov di Delitto e castigo, ma che in realtà è nell’originale russo proprio la stessa “pena” (“nakazanie”) dell’opera del Beccaria tradotta in russo e ben noto a Dostoevskij - era necessaria non come vendetta sociale e punizione, ma come “prerequisito per la purificazione attraverso la sofferenza”, e quindi per un possibile nuovo inserimento del punito-penitente-pentito nella società. E mai Dostoevskij ha chiesto o giustificato la pena di morte. Lo scrittore ci dice con il principe Myškin dell’Idiota che la pena di morte è assolutamente inaccettabile. “Uccidere per un omicidio è un delitto sproporzionatamente più grande del crimine stesso. L’omicidio per condanna è sproporzionatamente più orribile dell’omicidio per rapina. (...). Di questa agonia e di questo orrore ha parlato anche Cristo. No, non si può fare questo a un essere umano!”. Dostoevskij fu nel suo contesto storico sempre lontano sia da certa retorica liberista, che dal desiderio di repressione dei conservatori. Dostoevskij morì un mese prima dell’assassinio di Alessandro II, avvenuto dopo numerosi tentativi di omicidio iniziati nel 1866. Il filosofo Vladimir Solovëv, amico intimo di Dostoevskij, scrisse una lettera ad Alessandro III chiedendogli di perdonare i terroristi. Le attività pubbliche di Solovëv furono sempre coraggiose e benefiche: lotta al nazionalismo “zoologico” e all’intolleranza religiosa, condanna indignata della pena di morte, giustificazione convincente di una soluzione veramente “cristiana” della “questione ebraica”. Il suo appello al giovane imperatore Alessandro III sul perdono cristiano degli assassini di suo padre lo privò della possibilità di insegnare oltre all’università e di parlare pubblicamente. La morte di Dostoevskij interrompe la continuazione e la vera conclusione del romanzo I fratelli Karamazov, in cui probabilmente sarebbe emersa una nuova riconciliazione tra padri e figli, tutt’altro che scontata e tradizionalista. “La letteratura russa, - scrive Vladimir Kantor, - è chiamata letteratura delle domande. L’opera di Dostoevskij ne è la più chiara conferma. Come è potuto accadere un parricidio, quasi il peggior peccato che l’umanità conosca ..., chi è il colpevole? La società, per così dire, l’ambiente, o le persone stesse? I padri o i figli? O forse entrambi ... È stato Mitja, che ha creato intorno a sé un’atmosfera di licenziosità, ludopatia e violenza? È Ivan con la sua teoria del ‘tutto è permesso’? È stato Karamazov stesso, il vecchio, che ha indotto l’avvocato difensore a chiedersi se fosse possibile processare l’omicidio di un uomo del genere? O anche Alëša, che la sera prima dell’omicidio si recò al monastero e lasciò i fratelli alle loro passioni? Affrontando tali questioni, Dostoevskij cercò di mostrare quale strada la Russia non dovrebbe seguire, su quale strada l’attendono la decadenza e l’impoverimento spirituale, e dove si trova invece la strada, l’eroe che supererà questa decadenza, questa decomposizione del Paese e quest’alienazione, quest’isolamento, come disse lo scrittore, delle persone tra di loro e con sé stesse”. Come concordano Gurij Š?ennikov e Vladimir Kantor, il giudizio presente alla fine de I fratelli Karamazov è un giudizio su tutta la Russia, e i caratteri degli eroi mostrano i caratteri fondamentali dei padri e dei figli del popolo russo del XIX secolo. Dmitrij Karamazov e Arkadij Svidrigailov, noti personaggi dostoevskiani, esclamano: “L’uomo è vasto, troppo vasto. Io lo restringerei!”. Ciascun uomo può essere richiamato da questo grido di sfida, che risuona come una nuova interpretazione dell’antico “Conosci te stesso e non considerarti più in alto di Zeus!”. L’”altezza” e l’”ampiezza” sono sempre una tentazione per ogni nazione. Allo stesso tempo bisogna ricordare che ogni “profeta” in quanto tale non si rivolge prima di tutto agli altri, ma al proprio popolo; e forse proprio per questo spesso nessuno è un vero profeta nella propria patria. Una certa propaganda fa talvolta di Dostoevskij un mero stigmatizzatore dei peccati altrui, annullando l’universalismo dello scrittore in virtù dell’accentuato nazionalismo del pubblicista. È una sorta di nazionalizzazione di Dostoevskij e di ogni altra “verità”, letteraria, storica e filosofica. Certo, la sua sensibilità, talvolta spinta al limite, portò Dostoevskij anche a qualcosa che risuona nelle parole pronunciate nel famoso “Discorso su Puškin”, in cui, oltre a riconoscere Puškin come superiore a Cervantes, Shakespeare e Schiller, lo scrittore pronunciò, sì, parole belle e responsabili, ma anche altre piuttosto pericolose per il futuro della sensibilità russa. In esse, oltre alla meravigliosa aspirazione dell’anima del “pellegrino russo” a essere felice solo quando lo saranno tutti gli altri (l’aspirazione dell’anima cosmopolita che prega e desidera la salvezza per tutti), troviamo anche la presunzione che il russo, sull’esempio di Puškin, sappia essere francese, inglese, tedesco, italiano più profondamente degli stessi rappresentanti di queste nazioni - mentre questi ultimi non sapranno mai del tutto cosa significhi essere russi. Chi vuole interpretare l’intera opera di Dostoevskij alla luce di questa sua affermazione non tiene conto che la profondità filosofica e teologica, la forza antitotalitaria e la novità estetica del grande scrittore risuonano nel cuore e nelle menti dei lettori di tutto il mondo da più di un secolo - lettori per i quali Dostoevskij pubblicista può essere oggetto sì di studio, ma non di grande ammirazione, e tanto meno può diventare un mezzo e un percorso di grande catarsi, come invece accade regolarmente a ciascun lettore grazie al Dostoevskij romanziere, amato da tutte le nazioni. La chitarra più strana del mondo (e amata da Sting) percorrerà la Terra di Lucia Bellaspiga Avvenire, 8 dicembre 2024 Creata nel carcere di Secondigliano con i legni colorati delle barche dei migranti, suonerà nelle parrocchie di tutto il pianeta. La staffetta di pace parte oggi da Milano e raggiungerà ogni nazione. Una strana chitarra colorata. Apparentemente. In realtà un messaggio così potente che tutto il mondo già richiede la sua presenza e lei, di mano in mano, da oggi viaggerà tra i continenti, di chiesa in chiesa, e poi nei monasteri e nelle missioni più lontane, nell’intimità delle clausure o nelle piazze, nelle scuole e nelle carceri, nelle metropoli affollate o nei deserti dove solo gli eremiti ascolteranno la sua voce, tra le favelas e nelle chiese di montagna. Ancora non ha mai suonato - lo farà la prima volta oggi, giorno dell’Immacolata Concezione, alla Messa delle 10 nella chiesa milanese del Sacro Cuore di Gesù alla Cagnola - ma già la chiamano “la chitarra del mare”, costruita con i legni gialli, rossi, azzurri delle barche arenate a Lampedusa con il loro carico umano di speranza e disperazione, di vivi e anche di morti. La Chitarra del mare, insomma, è una barca che suona. Trasformata in strumento dentro al carcere di Secondigliano (Napoli), è nata dalle mani di Tommaso, Marco, Paolo, diventati a loro volta liutai sotto la guida del maestro Vincenzo Romano. “Dall’incontro di queste due povertà, i migranti e le persone detenute, nasce oggi una staffetta inarrestabile che parla di speranza e libertà - spiega Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, che ha ideato il progetto - e ne parla a tutti, come dice Gesù, “andate fino ai confini del mondo”. Non c’è confine al messaggio di Cristo e la chitarra è lo strumento più popolare, arriva ovunque e chiunque la può suonare. L’idea mi è venuta proprio nella chiesa milanese da cui questa mattina partirà il tutto, durante la Messa suonava una chitarra e lì ho pensato: se una “chitarra del mare” girasse le chiese del pianeta portando con sé il messaggio che incarna, cioè la voce degli ultimi? Ogni sacerdote dovrà raccontare con quale legno e da quali mani è stata costruita, ma poi porrà al centro della Messa le specifiche povertà del contesto in cui la sua chiesa si trova... Sembrava un sogno, una follia, ma non ho fatto in tempo a scriverla che in meno di mezz’ora aderivano sacerdoti da tutto il mondo”. Dopo la Messa dell’Immacolata di oggi, dove i primi a suonarla saranno due giovani milanesi, Dario e Alice, la Chitarra del mare prenderà dunque il largo, di volta in volta portata da messaggeri di ogni tipo, “un amico giornalista che parte per Gaza, un missionario che torna in Africa, un turista in partenza per l’India... la chiave del progetto è la totale semplicità, nessun problema, si colgono le occasioni. Se anche la chitarra dovesse perdersi o andare distrutta, ne faremmo un’altra - dice Mosca Mondadori, ormai avvezzo al fatto che l’utopia diventa realtà (a febbraio un’intera “Orchestra del mare” fatta nel carcere di Opera con le barche dei migranti ha suonato al Teatro alla Scala) - l’importante è che non dovrà mai fermarsi, come la Chiesa deve sempre camminare. Gesù, appena resuscitato, dice a Pietro “seguimi”, e tra l’altro è su una spiaggia, davanti al mare, scalzo. Prima per tre volte gli ha chiesto “mi ami?” e poi quel “seguimi”: questo è la Chiesa, va incontro a tutti. Anche la Chitarra del mare inizierà dalle parrocchie ma poi andrà a chiunque la chiederà, anche ai non credenti, ai fedeli di altre religioni, nei luoghi sconosciuti come sui palcoscenici dei massimi artisti. Non a caso tutto questo accade nell’anno del Giubileo della Speranza”. Il progetto è condiviso con la Fondazione San Gennaro di padre Antonio Loffredo e con l’ensemble giovanile “Tornaccantà”, che suona i mandolini usciti dalla liuteria del carcere napoletano. “Ed è bello che proprio da Napoli, durante l’anno giubilare, la chitarra abbia iniziato il suo lungo viaggio”, sottolinea padre Loffredo. “Nella Bibbia è scritto che in passato ogni Giubileo obbligava la società a livellare le disuguaglianze, chi era diventato povero tornava in possesso delle sue terre, chi si era venduto perché non aveva nulla tornava libero... il Giubileo veniva annunciato dal suono di un corno, che proclamava la libertà e la gioia in tutta la terra: ora la Chitarra del mare suonerà ovunque la liberazione dei prigionieri e la gioia della speranza. Coloro che ascolteranno le sue melodie, così come gli speciali artigiani che l’hanno realizzata, possano cogliere i primi fiori della speranza, il cui profumo è identico a quello del futuro”. Significativa ad esempio sarà la tappa alla cattedrale di Saint Patrick a New York, “occasione unica per riflettere sul significato profondo di questa città che è da sempre simbolo di accoglienza e di speranza”, afferma don Luigi Portarulo. “New York è una metropoli costruita dai sogni, dalle speranze e dalle lotte di milioni di persone provenienti da ogni angolo del mondo, e questa chitarra è un simbolo potentissimo di sofferenza, trasformazione e infine rinascita. Non è solo un oggetto ma un messaggio, come il legno delle barche non è solo materia ma custode di storie: in una città come la nostra, da sempre crocevia di culture diverse, la Chitarra del mare ci ricorda che la vera forza di New York non risiede solo nelle luci e nei grattacieli, ma nel suo spirito di apertura e solidarietà”. Gli fa eco padre Stefano Mosca, missionario del Pime nelle periferie di Manila: “Accogliere questo speciale strumento nelle Filippine, dove ancora tanti poveri soffrono le ingiustizie di politiche economiche di sfruttamento a favore di pochi ricchi, ci rammenta con forza straordinaria che grazie a Gesù ogni morte ha sempre in sé una sorgente di vita nuova. Anche il legno con cui la chitarra è fatta sa di dolore e distruzione, eppure ha in sé la forza di una metamorfosi, nella stessa logica della croce del Signore: Gesù, nella sua tragica e innocente sofferenza in croce, schiacciato dalle logiche di potere del mondo, quando tutto sembra finito fa esplodere il canto della Pasqua. Così questo legno, testimone di violenze e di morte, ora suona il trionfo della vita nuova e della libertà tanto desiderata, anche dai detenuti di Secondigliano che con le loro mani l’hanno trasformata in un segno di gioia per molti nel mondo”. È come se in quelle assi smangiate dal Mediterraneo si riconoscessero ovunque gli uomini, tutti in modo diverso viandanti su questa terra: “La nostra comunità martire e in diaspora, che vive in Turchia, è in buona parte costituita da rifugiati e detenuti - medita da Istanbul il vicario apostolico Massimiliano Palinuro - e il suono di questo strumento nelle nostre assemblee ricorderà che c’è sempre una via di riscatto che spalanca le porte a un futuro. Il dolore può diventare musica e la musica un grido d’aiuto rivolto al Signore”. Così come nella Terra Santa, oggi più che mai martoriata dalla follia della guerra, “il suono della Chitarra del mare a Messa o nella nostra scuola di musica darà un po’ di sollievo a chiunque la ascolterà”, spiega padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa. “In questo momento tormentato è uno spiraglio di luce che ci collega con il resto del Mediterraneo e ci ricorda che non siamo soli”. Particolarmente accorata è la richiesta da parte del Magnificat Institute di Gerusalemme: “Qui viviamo in un contesto geo politico di estrema fragilità - spiega il direttore, il francescano frate Alberto Joan Pari -, la nostra scuola musicale dà l’occasione a cristiani, ebrei e musulmani di crescere insieme, uniti dal linguaggio universale della musica che supera ogni barriera”. In Brasile Tatiana Faria de Souza è la direttrice della FBAC, Fraternità brasiliana di Assistenza ai Condannati, e considera “il suono di questa chitarra come una preghiera per un mondo più giusto”. Attende con fervore che “il suo viaggio, iniziato in una chiesa di Milano, arrivi a Itaùna come testimonianza vivente del Vangelo in azione, richiamo universale alla fraternità: durante la celebrazione della Messa, non è solo uno strumento musicale, ma una voce che narra di storie dolorose trasformate dalla misericordia di Dio in melodie di speranza”. Ancora dal Brasile, ma dal cuore dell’Amazzonia, padre Sisto Magro, da 34 anni missionario del Pime, si commuove: le popolazioni amazzoniche sono minacciate, defraudate della loro terra, calpestate da ottuse politiche di sfruttamento del suolo, cacciate via da un giorno all’altro dalle foreste con cui hanno sempre convissuto, “eppure, nonostante questi drammi, vengono alla Messa con ore di cammino o di barca, per vivere la loro fede ma anche per condividere sofferenze e dolori, e lo fanno con il canto: qui la musica consolida il senso di comunità. Per questo accogliere la Chitarra del mare ci farà sentire in comunione con tutte le altre persone in difficoltà della Terra, che però tengono viva la speranza”. “Quando risuonerà a Kibera, il grande slam nel cuore di Nairobi dove mezzo milione di persone vivono con mezzo dollaro al giorno, sarà un canto di rinascita e di liberazione”, promette dal Kenya padre Kizito Sesana, “un suono che scaturisce da un legno così carico di umanità, come lo è il legno della croce di Cristo, attira tutti a sé e redime il dolore del mondo”. La Chitarra del mare sarà a Kibera segno e voce della grande profezia dei poveri, ovvero “di coloro che a mani vuote condividono e a cuore sanguinante amano, di quelli che nulla possiedono ma sono i figli prediletti del Padre: sono loro che ci apriranno le porte del paradiso perché il Padre li ha proclamati padroni di casa”. Nella Messa di Nairobi - conclude padre Kizito - il suono delle sue corde accompagnato dal canto delle madri che faticano a nutrire i neonati, dei giovani che sognano una vita migliore, degli anziani scartati, sarà “un grido di dignità”. È molto più vicina, Lamezia Terme (Catanzaro), ma non meno drammatica. Lamezia non ha il porto ma piccole navi in anni recenti hanno scaricato stranieri in fuga, fatto contrabbando di armi, occultato sul fondo del mare bidoni di veleni chimici, “trattato” persone come merci, denuncia Giacomo Panizza (Comunità Progetto Sud). “Certi barconi restano invisibili, ma le onde ne conservano traccia nei corpi esanimi che restituiscono, mai registrati, come quello del piccolo Anàs, avvistato di recente al nostro pontile... È nobile che frammenti di legno dei natanti finiti tragicamente vengano trasformati in Chitarra del mare, come nobili sono le persone carcerate che hanno trasformato quelle assi in strumenti musicali”. Nel Comune di Lamezia Terme, sciolto tre volte per mafia e definito dalla Direzione distrettuale antimafia “l’area più instabile della Calabria per la presenza delle famiglie di ‘ndrangheta”, “la chitarra suonata durante una Messa accorderà allegria con pianto, tragedia con speranza”. Ad Hong Kong padre Gianni Criveller e padre Franco Mella (Pime) la Messa la celebrano per le strade, nei quartieri più poveri. “È una città di mare, di immigrazione e di rifugiati”, raccontano. Negli anni 70 e 80 arrivavano i profughi vietnamiti, oggi i rifugiati economici e politici da varie parti del mondo. Ma Hong Kong ormai ha tradito la sua storica vocazione all’accoglienza e “per questo migliaia di fratelli e sorelle sono oggi in carcere, per aver creduto all’accoglienza e alla democrazia di questa meravigliosa città. Nella celebrazione della santa Messa suoneremo quindi la chitarra unendoci idealmente ai nostri fratelli in carcere e a tutti coloro che nei lidi di Hong Kong cercano la salvezza”. La metafora più bella della barca che suona la pronuncia don Giorgio, parroco a Predazzo, in Trentino: “La chitarra naviga sulle onde del mare, le trasforma in onde sonore e in note viventi, scritte sul pentagramma di un’umanità oppressa. Le onde musicali compongono gli accordi per progetti di vita nuova, più fraterna e più giusta... E se poi il maestro è Cristo Crocifisso-Risorto sicuramente ne uscirà una composizione di armonie sublimi: le onde del mare in sintonia con le onde sonore della chitarra facciano vibrare le corde dei nostri cuori, perché possano eseguire l’incompiuta sinfonia dell’Amore!”. Dalle periferie di Buenos Aires, in Argentina, padre Adrian Bennardis, che negli Hogar de Cristo ospita i ragazzi schiavi della droga, vede negli scartati di oggi le ferite ancora aperte nel costato di Cristo in croce. “Quante nuove piaghe nelle ingiustizie del mondo attuale, quanti nuovi crocefissi... Ma, guardando al Signore, questo costato aperto si convertì in un popolo nuovo, il popolo di Dio. La chitarra fatta dalle mani dei carcerati è il costato aperto del Signore che si fa musica, poesia, vita e speranza. La “Guitarra del mar” è potente perché obbliga all’umiltà di non dimenticare da dove veniamo: con grande desiderio la attendiamo qui alla fine del mondo, nel suo canto ci faremo uno con tutti i poveri della terra”. Ad accoglierla sarà anche don Luigi Verdi alla Fraternità di Romena, perché “nella nostra realtà, che abbiamo sempre definito un “porto di terra”, consegni il suo messaggio di consapevolezza ai tanti viandanti che passano da qui: la sua musica si farà largo nelle nostre coscienze, portando un’inquietudine sana e una bellezza viva. Per raggiungere la terra dell’umanità, c’è da attraversare un mare: vasto, profondo, rabbioso, spesso nemico, e la Chitarra del mare ci mostra tutte le difficoltà di questa traversata, ma allo stesso tempo la necessità di compierla. Ciascuno di noi può essere una nota che nasce da quelle corde, e tutti insieme possiamo essere musica di vita e umanità”. Il progetto ha colpito profondamente soprattutto le donne recluse nel penitenziario di Reggio Calabria: “Le note di una chitarra sono in carcere brezza marina che ammorbidisce rughe di tristezza e sorrisi spenti dal dolore - ci dicono attraverso suor Rosetta -. Il suo suono in una angusta cella può avere lo stesso potere del volo ardito di un gabbiano che respira in pieno la bellezza della libertà e la potenza dell’amore vero. Si può navigare nel mare dei nostri progetti se si ha il coraggio di guardare oltre l’orizzonte crudo delle sbarre, verso un punto dell’infinito dove convergono i sogni dell’umanità intera, senza distinzioni di razza o credo... Il mare da sempre unisce e oggi deve farlo più che mai. Al ritmo di questa chitarra virtualmente danziamo tutti insieme tenendoci per mano intorno al fuoco della solidarietà fraterna”. Dalla Fondazione Arché di Milano, dove la chitarra farà la sua seconda tappa, padre Giuseppe Bettoni accosta i suoi accordi all’armonia delle Beatitudini: “Mi piace pensare che anche Gesù amasse la musica e cantare, che cosa sono le Beatitudini se non la musica della speranza? Far ascoltare alle donne e ai bambini che accogliamo nelle nostre comunità la melodia che arriva trasformata dal dolore, così come far suonare nella cappella del carcere la chitarra del mare, è invito per tutti a cantare la speranza!”. E tutto questo partirà questa mattina, dalla parrocchia milanese di don Marco Magnani. La staffetta, ci dice, inizia non a caso nella festa dell’Immacolata, “perché Maria attraverso la musica gioiosa di questa chitarra possa infondere un briciolo di speranza nel cuore dell’umanità”. Don Marco ricorda bene l’istante in cui giorni fa Arnoldo Mosca Mondadori, dopo una Messa, ebbe l’intuizione e gliela comunicò, come fosse la cosa più semplice al mondo: “Da qui poi la chitarra prenderà il largo, mi propose Arnoldo, come faceva quando navigava. Girerà per tante chiese piccole e grandi ovunque nel mondo, un viaggio della speranza nell’anno del Giubilo che ci vuole tutti pellegrini di speranza. È la speranza di Cristo che si fa vicino ad ogni uomo, che si fa visibile nei volti di tanti volontari che nei nostri quartieri si adoperano con instancabile amore per dare una mano ai “piccoli del Vangelo”, attraverso gli oratori, i doposcuola, i centri di ascolto, le raccolte alimentari, lo sport e mille altre idee che nascono dall’amore”. Ogni parrocchia, monastero, scuola, centro culturale, associazione, ospedale può scrivere a casaspiritoarti@gmail.com e proporre che la chitarra faccia tappa nella loro realtà. “Noi chiediamo solo che in ogni occasione si racconti da dove viene e che ogni sacerdote metta al centro le povertà del proprio territorio - dice Mosca Mondadori -. Non deve essere un concerto, ma il modo concreto di parlare degli ultimi e riportarli alla luce, renderli protagonisti per davvero. Spesso la chitarra suonata in chiesa banalizza la liturgia con canti distratti, ma le due sofferenze da cui nasce il messaggio della nostra chitarra - migrazione e carcere - la nobilitano. Come dice Francesco, la speranza è la virtù più piccola, ma è anche la più forte, quella che sostiene tutto”. Per questo, la Chitarra del mare non conoscerà frontiere e non rifiuterà nessuno, “ci piacerebbe che suonasse anche nelle case di persone come Omar Turati, maestro di chitarra malato di Sla, o Max Tresoldi, risvegliato dopo dieci anni di stato vegetativo. E la passeremo anche nelle mani di artisti noti in tutto il mondo, come Sting o Vasco Rossi”, conclude Arnoldo. Sting possiede già una “chitarra del mare”, la prima uscita dalla liuteria di Secondigliano. È venuto a prendersela personalmente e l’ha suonata lì, tra i detenuti. Da allora non se ne separa mai, “ne è innamorato per il suo suono inimitabile”. L’unica chitarra che per cassa di risonanza ha il cuore degli uomini. Censis. L’Italia “galleggia”: paura dei migranti e ceto medio in affanno di Igor Traboni Avvenire, 8 dicembre 2024 Il Rapporto 2024 fotografa una società turbata. Aumenta il divario città/campagne e preoccupa l’istruzione. Aumenta la paura nei confronti degli immigrati. Una società italiana turbata e in profondo cambiamento, con l’acuirsi della crisi del ceto medio e preoccupazioni crescenti per i flussi migratori: è questa la fotografia che il Censis scatta per il Rapporto 2024, diffuso oggi. Un Paese che non cresce, ma “galleggia”: gli Italiani sono infatti affetti da “sindrome da galleggiamento”, con il ceto medio “sfibrato” mentre i redditi reali sono calati del 7% in 20 anni. Tanti gli elementi che emergono, ma alcuni, come accennato, preponderanti, ad iniziare dal capitolo migranti: il 57,4% degli italiani “si sente minacciato - scrive e argomenta il Censis - da chi vuole radicare nel nostro Paese regole e abitudini contrastanti con lo stile di vita italiano consolidato, come ad esempio la separazione di uomini e donne negli spazi pubblici o il velo integrale islamico”. Un 38,3% di italiani si sente minacciato anche da chi vuole facilitare l’ingresso nel Paese dei migranti; un 29,3% vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale; il 29,3% degli italiani “vede come un nemico chi è portatore di una concezione della famiglia divergente da quella tradizionale”. Si tratta, a detta dei ricercatori Censis, di differenze che possono trasformarsi “in fratture e potrebbero degenerare in un aperto conflitto”. “Sono dati -prosegue il Censis- che rivelano il pericolo che il corpo sociale finisca per frammentarsi dentro la spirale attivata dalla costruzione di rigidi confini identitari, in cui le differenze si trasformano in fratture e potrebbero degenerare in un aperto conflitto. Un solido ceto medio poteva neutralizzare le divergenze identitarie, stemperandole per mezzo di un’agenda sociale largamente condivisa. Il suo indebolimento rende oggi il Paese non più immune al rischio delle trappole identitarie”. Tutto questo a fronte del fatto che l’Italia si colloca al primo posto tra tutti i Paesi Ue per quantità di cittadinanze concesse (213.567 nel 2023). Con un numero molto più alto di Spagna, Germania, Francia. Da sottolineare anche il capitolo istruzione, con la definizione impietosa che il Censis dà: “fabbrica degli ignoranti”, considerato l’emergere della mancanza di conoscenze di base che “rende i cittadini più disorientati e vulnerabili”. In termini di apprendimento, il 24,5% degli alunni al termine del ciclo di scuola primaria non raggiungerebbe l’auspicato traguardo per la lingua italiana; il 39,9% al terzo anno della scuola media e il 43,5% all’ultimo anno della scuola superiore (dato che negli istituti professionali sale addirittura all’80%). Sempre più notevole anche la spaccatura tra città e campagne, soprattutto sotto il profilo dei servizi, sia pubblici che privati: se in media in Italia le famiglie hanno difficoltà a raggiungere una farmacia (13,8%, pari a 3,6 milioni) o per accedere a un Pronto soccorso (50,8%, circa 13 milioni), nel caso dei comuni fino a 2mila abitanti le difficoltà salgono rispettivamente al 19,8 e al 68,6% dei nuclei familiari. Coltelli e pistole, le nuove protesi dei ragazzini fragili di Francesco Grignetti La Stampa, 8 dicembre 2024 Breve riassunto di un mese di cronaca nera impazzita. A Latina scoppia una rissa in discoteca: tre giovani tra 16 e 18 anni feriti a coltellate, di cui uno molto grave. A Lucca, un signore sgrida due giovani vandali che si accanivano contro la recinzione della sua casa: lo aggrediscono con due fendenti all’addome. A Napoli tre giovanissimi sono stati uccisi da altri giovanissimi nel giro di pochi giorni, per vendette, liti, e per un assurdo gioco con una pistola. A Siracusa, sempre in una discoteca, un sedicenne accoltella un diciannovenne perché aveva offerto una sigaretta alla sua fidanzatina. A Milano, un capotreno ferma una coppia di ventenni che non avevano il biglietto, e lo accoltellano. La lama era nella borsetta di lei, ma l’ha usata lui. È inevitabile porsi la domanda: ma che succede tra i giovanissimi? Perché hanno sempre un’arma a portata di mano? Attenzione, i numeri dicono che non c’è una gran crescita di reati compiuti con armi da giovanissimi. Sono fenomeni sempre esistiti, ora più enfatizzati dai social. “Però è innegabile - dice Andrea Olivadese, dirigente del Servizio centrale operativo - che s’è abbassata l’età. Il quattordicenne di oggi non è lo stesso di venti anni fa”. Lo Sco della polizia, che in passato si occupava esclusivamente di criminalità organizzata, adesso si dedica anche ai giovanissimi. Qualche settimana fa ha realizzato una maxi-operazione coordinando trenta questure per controlli sul territorio in aree problematiche e monitoraggio di siti che inneggiavano alla violenza. Dice Olivadese: “Cresce la percezione del fenomeno delle aggressioni”. Ma questa scatena a sua volta effetti negativi. “Può essere che un giovane, se vive in un determinato contesto, faccia a sua volta la scelta di armarsi. E il coltello è la soluzione più facile. Molti ragazzi magari sono malavitosi e quindi si armano perché intendono fare un reato. Altri per status symbol. Altri lo fanno di rimando. Ho personalmente parlato con vari ragazzi. Gli ho chiesto: ma tu perché giri col coltello? Rispondono: “Se voglio una possibilità di difesa anche minima, mi serve”“. Che l’aggressività dei giovani sia cresciuta, insomma, è sotto gli occhi di tutti. Ma perché? “I fattori in gioco - commenta Massimo Cotroneo, psicologo della polizia - sono tanti. È un fenomeno che si inserisce nel cambiamento storico culturale psicologico emotivo e sociale in corso. Basti pensare al Covid e all’impennata di aggressività degli adolescenti, i cui effetti sul medio e lungo periodo non sono affatto conclusi. Ora, chi è più vulnerabile mostra maggiormente la sintomatologia del disagio”. Il tasso di violenza fa parte di questa sintomatologia. Dice ancora lo psicologo in divisa: “Lo chiamiamo “acting out”. Mi spiego: il soggetto non riesce a capire una situazione, la vive male emotivamente e psicologicamente perché povero dal punto di vista delle possibilità, della gestione interna, delle risorse personali, anche familiari e sociali, e si sente così arrabbiato che agisce e dà un pugno all’amichetto. È una classica dinamica psicologica: il fallimento della mentalizzazione e il passaggio all’atto. Una dimensione primordiale. Accade nel bambino, ma diventando adolescente e poi adulto subentra una capacità di mentalizzazione”. Però c’è una intera generazione di adolescenti e giovani a rischio. E tanti, anzi tantissimi, non si limitano a dare pugni, ma portano coltelli in tasca, tirapugni, qualcuno addirittura la pistola. Conclusioni del dottor Cotroneo: “Il soggetto sente di non essere all’altezza e si affida a un’arma. Tanto maggiore è il senso d’inefficacia di sé stessi, tanto più si cerca aiuto in una protesi”. Il problema attraversa l’Italia trasversalmente, da Nord a Sud, dal centro alla periferia. E non solo l’Italia. Qualche tempo fa, il presidente onorario del Gruppo Abele, lo psicologo Leopoldo Grosso, scriveva: “In Inghilterra la ricomparsa delle armi da taglio usate dai giovani aveva cominciato a mietere un preoccupante numero di vittime già prima della pandemia. Il fenomeno chiama in causa l’aumento della povertà; la crescita delle disuguaglianze che ha penalizzato l’ascensore sociale; le lacerazioni dei figli dei migranti, contesi tra gli obblighi tradizionali e familiari e le sollecitazioni libertarie e individualistiche dei compagni italiani”. Ma la violenza giovanile non può essere liquidata con le sole dimensioni socio-economiche. “C’è innanzitutto una componente narcisistica, inevitabile mediatrice nell’innesco di sofferenze e percorsi di devianza, tappa obbligata dell’adolescenza: è stata caricata di un’ansia sociale e di un peso psicologico inediti, che alimentano inadeguatezze e tensioni insostenibili per molti ragazzi”. Si torna così al senso di inadeguatezza e chi se lo risolve con una lama in tasca. Non basterà inventarsi un nuovo reato per risalire la china. “Io sto bene soltanto con la cocaina”. Nella notte sballata della 20enne Ginevra di Alessio Gaggioli Corriere della Sera, 8 dicembre 2024 L’incontro in un locale nel centro storico di Firenze. Le sue parole, i nostri rimorsi: “Abbiamo solo questo da offrire? Ride, seduta, quasi sdraiata, sulle ginocchia del ragazzo con cui sta passando la serata. Capiremo dopo in realtà che è come se ridesse per non piangere. Che entrambe le cose sono forse solo un sintomo, seppur opposto, di una corsa sfrenata. Come se stesse correndo per non cadere. Ride, ride, ridono nell’angolo del locale, a un passo dal bancone. Un drink, un altro ancora per non arrestare la corsa, per non fermare lo sballo. Il down, la caduta, è sempre dietro l’angolo, lì dove ci sono i cattivi pensieri, le tristezze, la presa di coscienza che non ne puoi ormai fare a meno se vuoi divertirti, se non vuoi pensare. Di colpo però l’euforia finisce. La ragazza che non ha certo i 28 anni che dice di avere si alza, corre in bagno e si chiude la porta dietro. Sono le 23, per raggiungere il locale, nel centro storico di Firenze, si deve passare attraverso un tunnel di fumo di marjuana che avvolge la strada stretta fra i palazzi. Prima del tunnel, c’è un rione avvolto dall’odore acre della carne alla griglia. Non ci sono i turisti dell’alta stagione e le voci in tutte le lingue del mondo: sono giorni di tregua in centro ed è arrivato il freddo. La città è nuda. Ma odori e immagini - come una sorta di cappa - sono ancora più evidenti. Bistecche, panini già imbottiti e traboccanti esposti nelle vetrine. Pinse, pizze, gelati. Tavoli, tavolini, tabelloni di menu e drink. Bevi-mangia-bevi, promozioni, shottini, spritz consumati anche durante i pasti. Non c’è musica, non ci sono alternative o scappatoie, non c’è altro. La strada è a senso unico: consumare e consumarsi. È tutto qui quello che sappiamo offrire? Bisogna alzare lo sguardo, come diceva un nostro vecchio professore di filosofia al liceo, per continuare a stupirsi di qualcosa in questa notte d’inverno col cielo terso e l’aria frizzante. Occhi verso l’alto per scoprire qualcosa di nuovo della bellezza di Firenze che non abbiamo fatto noi, ma solo custodita perché la sfruttassimo, rosicchiandola sotto, tutto intorno, fino a ridosso del monumento, fino all’ultimo centimetro possibile. Un fischio interrompe l’attimo: “Zio, vuoi qualcosa?”. Più avanti un altro ragazzo, un altro cenno con il capo: “Serve fumo, coca, sei a posto?”. Tutto si compra, 20 euro una dose di cocaina, oppure hashish e chissà cos’altro. Bevi-mangia-bevi. E poi la droga con i pusher che non si nascondono, che fischiano, che litigano per il primo che passa a cui vendere qualcosa. Forse anche la ragazza dentro al bagno del locale ha attraversato quel tunnel. Siamo fuori, in attesa che la toilette si liberi. Lei esce, sta piangendo. Gli sguardi si incrociano. “Tutto bene, posso fare qualcosa?”. “Tutto bene? Ho gli occhi sfatti, sono sfatta, si vede?”. “Si vede soltanto che stai piangendo, cos’è successo?”. Lei non riesce a rispondere. Farfuglia e con l’indice indica il mondo fuori dalla toilette: “Sono con quel tipo, di là…”. È preoccupata di tornare dal ragazzo seduto a ridosso del bancone. Di rientrare nella corsa dello sballo, delle risate - che ora sì appaiono solo un inganno di alcol e droga - dell’euforia. Come se quella fuga in bagno fosse soltanto un inciampo nella serata che si può rimediare alla svelta. Con un pezzetto di carta igienica si asciuga le lacrime e pulisce il nero della matita che le cola sulle guance. Tira fuori dalla borsa il collirio. “Me lo metti?”. Il collirio diventa una scusa per provare a parlarle. “Quanti anni hai, come ti chiami?”. “Mi chiamo Ginevra, ne ho 28”. Sembrano al massimo 20. “Io ne ho quasi più del doppio, puoi dirmi se hai bisogno”. “Io ho bisogno della coca, tu ne hai? Dove la trovo? Io sto bene solo con quella”. Sto bene solo con quella, sto bene solo con quella. Una frase che non smette di rimbalzare nella testa. Di colpo ci si sente fuori luogo, inadatti. “No, mi dispiace”. La conversazione finisce qui. E si ricomincia. Lei torna da lui, si siede, le gambe sdraiate sopra le sue. Un drink. Tornano a ridere, a correre nello sballo per non inciampare di nuovo. Sono le 23 e 30, è presto, ma basta, il disagio è troppo. La serata per noi è finita, il tempo di raccontare agli amici cos’è successo dentro quel bagno e congedarsi. Fuori, lungo la strada, un’altra ragazzina, straniera, probabilmente spagnola, si avvicina chiedendo dove si può comprare “qualcosa”. Sembra quasi di non essere svegli, o forse è stato un brusco risveglio nella realtà che di solito leggiamo o raccontiamo. In testa rimbalza solo quella frase di Ginevra e per descrivere il nostro stato d’animo il passo di una vecchia canzone di Fabrizio De André (perché non hanno fatto/delle grandi pattumiere/per i giorni già usati/per queste ed altre sere). Sono trascorsi un po’ di giorni da quell’incontro, ma il rimorso di non aver saputo rispondere a Ginevra è un tarlo. Che poi perché avrebbe dovuto ascoltare? Cosa? La predica di uno che si è sentito inadeguato? Le avremmo potuto dare solo qualche consiglio confuso: perché ridevi? Perché piangevi? Pensa che domani non ti ricorderai nulla, che negli anni, di questi anni, avrai solo un ricordo confuso e che forse, poi patirai il rimpianto di aver bruciato il tuo tempo. Quello che c’è là fuori, fuori da quella toilette è solo un grande inganno. Cerca le cose vere che poi ti fanno stare bene, anche le più piccole. Non ti fare confondere. Non sei sola, lasciati aiutare da chi ha gli strumenti per aiutarti perché un modo esiste. Ma ferma ora la corsa. Fermati. Migranti. In Albania e nelle regioni Cpr avanti tutta di Alice Dominese L’Espresso, 8 dicembre 2024 Per gestire richieste di soggiorno e rimpatri il governo non intende solo delocalizzare i centri di permanenza. Ma farne sorgere di nuovi e riaprire quelli chiusi. Tra le proteste. Delocalizzarli si?, modello Albania. Ma anche costruirne di nuovi. Per il governo, la soluzione Cpr, centri di permanenza per il rimpatrio, resta una priorita?, malgrado le comunita? locali, anche con amministrazioni di colore politico diverso, si contrappongano all’idea di avere questi luoghi di prigionia nel proprio territorio. Accanto a chi li rifiuta per motivi di sicurezza e ordine pubblico, per altri il cuore del problema e? la gestione securitaria dell’immigrazione e la persistente violazione dei diritti umani documentata dentro ai Cpr. I centri attualmente attivi in Italia sono otto, ma l’obiettivo dichiarato e? di realizzarne uno in ogni regione. Tra le nuove sedi, come annunciato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, una delle citta? individuate e? Falconara Marittima, nelle Marche. Non e? la prima volta che se ne parla. I tentativi di aprire un Cpr nella regione sono iniziati oltre vent’anni fa e ogni volta i cittadini si sono mobilitati contro. La struttura dovrebbe sorgere in un’ex zona militare collocata in un triangolo tra aeroporto, raffineria e stazione ferroviaria, ovvero la stessa area interessata da un’indagine per disastro ambientale. Secondo Valentina Giuliodori dell’Ambasciata dei diritti delle Marche, “questa collocazione serve a togliere i problemi davanti agli occhi delle persone. Dall’aeroporto, poi, il trasferimento in Albania dei migranti potrebbe essere rapido”. Proprio come potrebbe accadere a Falconara, l’elemento che accomuna la maggior parte dei centri di permanenza per il rimpatrio gia? esistenti e? che sono nascosti alla vista. Collocati spesso ai margini della citta?, tra le loro mura centinaia di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno vivono in stato di detenzione e abbandono. Fuori, le mobilitazioni per chiedere la chiusura di questi centri si stanno moltiplicando. L’ultima in ordine di tempo a Torino, dove circola da mesi l’ipotesi di riaprire il centro di corso Brunelleschi, che a differenza degli altri Cpr sorge in una zona abitata e commerciale. Chiuso a marzo 2023 per le proteste dei reclusi che avevano danneggiato i locali, non manca affatto a chi vive nel quartiere: “Li sentivamo urlare, sbattere le pentole. Poi quando incendiavano i materassi vedevamo il fumo salire”, racconta un commerciante della zona. Non e? solo una questione di fastidi e potenziali rischi. Da quando tre anni fa il 23enne Moussa Balde si e? tolto la vita nel Cpr, l’attenzione del territorio nei confronti del centro e dei diritti delle persone detenute e? cresciuta. L’intera citta? ha reagito con manifestazioni e presidi, ripresi anche quest’anno, quando centinaia di cittadini hanno protestato per le vie del quartiere. Istituzioni, terzo settore, sindacati, medici e pastorale migranti si sono uniti in un appello per opporsi alla riapertura. “Abbiamo convissuto con questa struttura provandone vergogna, una vergogna incancellabile dopo la morte di Moussa Balde. Ora abbiamo creato una rete perche? questo non debba piu? succedere”, dice Francesca Troise, presidente della circoscrizione torinese in cui si trova il guscio vuoto dell’ex Cpr. A Milano, il centro di detenzione di via Corelli sorge verso l’uscita della citta?, in prossimita? dell’aeroporto di Linate. La sua struttura di cemento esiste da 26 anni, ha ospitato prima un centro di identificazione ed espulsione per persone migranti, poi un centro di accoglienza. La memoria storica di molte persone che abitano il quartiere e? legata a questo luogo militarizzato e inaccessibile. Per tanti il Cpr in quanto tale e? inaccettabile a Milano e altrove. L’ultima manifestazione, organizzata ad aprile dalla rete No ai Cpr, ha portato in strada cinquemila cittadini. Spesso sono le proteste di chi vive all’interno a diventare un drammatico catalizzatore di attenzione. “L’unico modo in cui i trattenuti si manifestano all’esterno avviene dando fuoco ai materassi. Il loro e? un grido di aiuto per dire che esistono”, osserva Teresa Florio, attivista della rete Mai più Lager - No ai Cpr. Quando accade, gli abitanti si attivano, segnalano l’emergenza e creano un tam tam che si propaga fuori dal quartiere. “La tendenza diffusa pero? e? quella di colpevolizzare le persone detenute che protestano, perché l’idea comune e? che se sono li? qualche reato lo hanno commesso - continua Florio - Questo perché il Cpr viene associato al carcere, anche se non e? cosi?”. Anche attorno al Cpr romano di Ponte Galeria e? difficile rendersi conto che al suo interno vivono delle persone. Unico centro in Italia ad avere una sezione femminile, il centro sorge sulla via per l’aeroporto di Fiumicino, sconosciuto alla maggior parte dei passanti. Oltre le mura, gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Dopo il suicidio del giovane guineiano Ousmane Sylla a febbraio, un presidio di cittadini si e? radunato davanti al Cpr e l’Assemblea capitolina ha chiesto di chiuderlo. Far scoprire l’esistenza di questo luogo lontano per molte associazioni e? difficile. Una maggiore consapevolezza c’e? soprattutto tra i più giovani. “Quando andiamo nelle scuole a fare sensibilizzazione sul tema, troviamo molta partecipazione - dice Federica Borlizzi, avvocata della Coalizione italiana per le liberta? e i diritti civili, che in un recente report ha denunciato le pessime condizioni igienico-sanitarie e il sovraffollamento nel Cpr di Ponte Galeria - Ragazzi e ragazze italiani di seconda generazione hanno parenti che sono passati dai Cpr e parlano di quell’esperienza con i propri compagni. Cosi? questi luoghi, mantenuti volutamente nascosti, diventano reali”. Migranti e riforme: tutti gli stop delle toghe di Pasquale Napolitano Il Giornale, 8 dicembre 2024 La giudice di Vibo vanifica il decreto Piantedosi: solo l’ultimo atto di un braccio di ferro tra poteri. L’ultimo atto, esclusivamente per una questione cronologica, è stato scritto due giorni fa al Tribunale di Vibo Valentia, in Calabria: il giudice Ida Cuffaro ha disapplicato la norma, contenuta del decreto Piantedosi del 2023, che prevede il sequestro amministrativo di 20 giorni per le navi Ong che si rifiutano di adempire agli ordini della Guardia Costiera. La norma è “cassata”, lo Stato deve pagare 10mila euro all’Ong Sea-Eye. È solo l’ennesimo capitolo della lunga guerra portata avanti dalle toghe contro l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. E non c’entra l’immigrazione o il diritto internazionale. L’offensiva, aperta da un pezzo della magistratura, colpisce tutti i provvedimenti: riforme, giustizia, sicurezza, sanità, Pnrr. E ovviamente, l’immigrazione. La sentenza del giudice, Iolanda Apostolico, del Tribunale di Catania, appena dimessa dalla magistratura, fece scuola. Poi sono arrivati i magistrati del Tribunale di Roma, Silvia Albano e company, che hanno demolito a colpi di sentenze (già scritte) il protocollo tra Italia e Albania sui migranti. Ma la verità e che non c’è atto del governo che non incontri sulla propria strada l’alt della magistratura. Altro che Schlein, Conte e Calenda. La vera opposizione al governo Meloni l’hanno fatta i giudici in questi primi due anni. “La magistratura si pone sempre di più come una controparte dell’esecutivo. Da Bologna a Vibo Valentia, vediamo di tutto e di più. Vediamo la giudice Albano fare sentenze contro le espulsioni dei clandestini e poi sedere accanto a Landini ai 60 anni di magistratura democratica. L’ uso politico della giustizia da parte di gruppi di sinistra che nessuno contrasta, nemmeno il presidente del Csm, che sappiamo bene chi sia, sta avvelenando la vita pubblica. È una vergogna. Anche la giovane Cuffaro (giudice di Vibo Valentia) segue questa direzione. Mi permetto di esprimere tutte le mie riserve sull’ultima decisione” tuona al Giornale il capogruppo al Senato di Forza Italia Maurizio Gasparri. Capitolo giustizia. Il centrodestra ha approvato una legge che cancella il reato dell’abuso d’ufficio. Ecco che subito si è messa in moto la macchina delle toghe. Al Tribunale Firenze la terza sezione penale ha accolto la richiesta di una parte civile in procedimento per abuso d’ufficio, portando il caso all’attenzione della Corte Costituzionale. Le toghe si preparano a una nuova guerriglia contro una legge varata dalla maggioranza di centrodestra. Il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera e ispiratore della norma che cancella l’abuso d’ufficio offre al Giornale un’analisi quanto mai lucida: “Per anni le toghe, con i governi grillini e della sinistra, hanno diretto le riforme. Con il centrodestra al governo la musica è cambiata. Il Parlamento si è riappropriato della propria funzione, cioè quella di legiferare, e la politica del proprio ruolo. È chiaro che un pezzo della magistratura si ribelli e provi in tutti i modi a neutralizzare le riforme. Esiste un tentativo sistematico di bloccare le leggi. I giudici devono applicarle, non possono travalicare i propri confini entrando nel campo della politica. Domani (lunedì) approda in Aula la riforma sulla separazione delle carriere e i giudici già minacciano lo sciopero prima ancora che il provvedimento sia esaminato. Siamo all’assurdo”. Quando si parla di riforme, si pensa all’autonomia differenziata. Anche in questo caso il giudice ha provato a svuotare il pacchetto di leggi varato del ministro Calderoli. Le Regioni rosse hanno promosso un ricorso in Corte Costituzionale contro la legge sull’autonomia differenza. I magistrati hanno accolto i rilievi e obbligato il governo a modificare il testo. Ancora, i giudici costituzionali, tre giorni fa, hanno accolto il ricorso della Campania sui fondi destinati alla sanità in Manovra. Sempre contro il governo Meloni. Che novità! Migranti. La “dolce vita” degli agenti in Albania riaccende le accuse sugli sprechi di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 8 dicembre 2024 Una tv albanese mostra i poliziotti italiani assegnati ai Centri, che ammettono di fare “i turisti” perché le strutture sono vuote. Le opposizioni: uno spreco assurdo. L’imbarazzo del Governo. Non c’è pace per i due controversi Centri per migranti costruiti dal governo italiano in Albania. In attesa delle decisioni della Cassazione e della Corte di giustizia europea sui cosiddetti “Paesi sicuri”, a riaccendere le polemiche è un’inchiesta del canale tv albanese Syri. Con una telecamera nascosta, una inviata del programma Piranjat (“I piranha”, servizi nello stile delle “Iene”) ha ripreso il soggiorno di alcuni agenti delle forze dell’ordine italiane a Shengjin, località dove si trova una delle due strutture, vuote da giorni nelle more dei pronunciamenti giudiziari. “Colazione, cena, spa. Paga il governo italiano” - Fingendosi una turista, la giornalista Luela Gaxhjaha ha interpellato alcuni fra i 100 agenti ospitati in un resort, l’hotel a 5 stelle Raffaelo. “Abbiamo visto Tirana, Scutari” e “Durazzo, bellissima”, dicono. “Polizia o turisti? Siamo entrambe le cose. Siamo qui per i migranti, ma l’accordo non è andato bene. È stata una perdita di soldi”, ammettono. “Colazione, cena, spa: tutto pagato dal governo italiano”, racconta un altro, mentre si discute di come trascorrere una giornata in un centro benessere. Il trattamento, in caso di missione internazionale, sarebbe pari a cento euro al giorno più vitto e alloggio. E l’impressione, a guardare il filmato, è che ci sia tempo per bighellonare, perché i centri da monitorare sono vuoti. L’affondo delle opposizioni: “Uno spreco assurdo” - Il video, rilanciato dai media italiani, ha sollevato subito un vespaio politico, con le opposizioni pronte a ribadire le accuse sugli sperperi dell’operazione albanese. “Abbiamo visto sui giornali le notizie che riportano lo spreco di soldi del governo Meloni in Albania”, lamenta la leader del Pd, Elly Schlein, ritenendo “assurdo che ci dicano che non ci sono i soldi per la sanità pubblica, ma hanno 800 milioni per costruire centri dove deportare persone innocenti” e poi “doverle portare indietro ai sensi della legge europea e delle leggi italiane”. Per la segretaria dem si tratta di uno “spreco assurdo di denaro fatto sulla pelle dei cittadini”. Il leader di Italia viva Matteo Renzi cita il video su X (“Ci pagano per fare i turisti, dicono gli agenti italiani nel centro per migranti vuoto in Albania”) e incalza: “Perché dobbiamo buttare via così i soldi degli italiani? Perché lasciare le Forze dell’ordine in vacanza in Albania, quando avremmo bisogno di personale nelle nostre periferie e nelle nostre stazioni? Ma davvero chi ha votato Giorgia Meloni può accettare in silenzio uno scandalo del genere?”. Toni analoghi dal Movimento 5 stelle: “Centinaia di milioni buttati via per costruire centri rimasti vuoti trasformati nei canili più costosi del mondo e per pagare le vacanze forzate di centocinquanta agenti di Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza”, attacca il deputato pentastellato Alfonso Colucci, osservando che “non è certo colpa degli agenti, mortificati da un governo che li ha mandati a far nulla. La colpa è di Meloni e del suo fallimentare e inutile progetto propagandistico. Dovrebbe chiedere scusa agli italiani”. E Filiberto Zaratti, di Avs, rincara la dose, parlando di un “progetto demenziale, cinico e sprecone”, confermato da un “video che rende ridicolo il nostro Paese” e dando la “responsabilità a Giorgia Meloni e al suo governo”. Mentre il segretario di +Europa, Riccardo Magi, invoca l’intervento della “Corte dei conti per valutare se esista un grave danno erariale”. Il silenzio (imbarazzato) del centrodestra - Sul morale della maggioranza, salito dopo la conversione in legge del Decreto Flussi, il filmato ha un effetto deprimente. Con lo scontro con la magistratura sempre latente (per via delle mancate convalide dei trattenimenti di migranti), la presidente del Consiglio preferisce non entrare nella polemica. Per ore, le agenzie di stampa non battono alcun commento di membri dell’esecutivo. A livello mediatico, lo “scivolone” è evidente e la cautela comunicativa può servire a contenere il danno. Sul piano strategico, per ora il Governo non intende fare retromarcia sui Centri. “Il procedimento in Cassazione è iniziato, aspettiamo”, aveva detto nei giorni scorsi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, osservando che in questo periodo “non c’è necessità impellente d’attivazione” dei due centri perché “gli sbarchi sono molto ridotti”. E a sera, il capogruppo di Forza Italia in Senato Maurizio Gasparri, senza menzionare il video, assicura che “faremo funzionare la scelta dell’Albania, nonostante i giudici di sinistra che contrastano il governo con un uso politico della giustizia. Non li faremo prevalere”. Democrazie legislative addio: la partita è tra Governi e Corti di Mariano Croce* Il Domani, 8 dicembre 2024 Ciò che è accaduto in Romania, con l’intervento della Corte che ha annullato il voto, stupisce solo chi non vuol riconoscere il nodo cruciale delle straordinarie trasformazioni in atto: il conflitto tra un modello di governo a trazione giurisprudenziale e uno a trazione esecutiva, a tutto danno della tradizionale “democrazia legislativa”. Quanto accaduto in Romania lo scorso venerdì è segno di una transizione epocale con tutta l’eclatanza del caso: la Corte costituzionale ha annullato l’esito del voto popolare alle elezioni presidenziali. È l’ennesima, vivida incarnazione del crescente conflitto tra i poteri dell’esecutivo e quelli del giudiziario, tipico delle attuali transizioni di sistema. A due giorni dal ballottaggio tra C?lin Georgescu, indipendente filorusso con posizioni ultranazionaliste e antieuropee, e la liberal-progressista Elena Lasconi, il presidente uscente, Klaus Iohannis, ha divulgato alcuni documenti dell’intelligence. Un ampio numero di account TikTok, creati da uno “stato straniero” nel 2016, sarebbero stati improvvisamente riattivati il mese scorso a sostegno di Georgescu. Con una sentenza netta e concisa, la Corte spiega che l’equità e la legalità del processo elettorale sono state compromesse in misura tale da determinare la nullità dell’intero suffragio. Nella rituale compulsione sovranista, Georgescu ha gridato a un golpe che tacita e nega l’espressione della volontà del popolo sovrano, principio fondativo della democrazia. Un organo non eletto interviene con poteri non legittimati dal crisma popolare per sospendere la legittima decisione del popolo romeno. Eppure, di contro al vieto copione delle lagnanze anti-giudiziarie, sempre troppo miopi rispetto alla complessità dei processi di legittimazione politica, l’intervento della Corte stupisce solo chi non vuol riconoscere il nodo cruciale delle straordinarie trasformazioni in atto: il conflitto tra un modello di governo a trazione giurisprudenziale e uno a trazione esecutiva, a tutto danno della tradizionale “democrazia legislativa”. Quest’ultima s’incentra sul rapporto tra elettori ed eletti, con gli eletti che, nel parlamento, rappresentano e articolano la volontà di chi affida loro il mandato di rappresentanza. Tuttavia, proprio come cento anni fa - vuoi per il senso di maggiore sicurezza promesso dai programmi elettorali della destra, vuoi invece per effetto di efficacissime attività di propaganda - le democrazie legislative si stanno trasformando in democrazie esecutive, nelle quali il governo assume preminenza rispetto alle attività del parlamento sino a svolgere funzioni sia esecutive che legislative. Proprio come cento anni fa, nel giro di pochi anni (e non solo in Italia e Germania), gli elettori e i loro rappresentanti si consegnano mani e piedi a esecutivi che promettono un indirizzo chiaro e deciso per la ricostruzione della nazione e il rafforzamento dei legami sociali entro un progetto di comunità di destino. Persino nelle più evolute democrazie contemporanee, la capillare capacità d’infiltrazione della propaganda nella vita quotidiana dei cittadini conferisce slancio e vigore al messaggio delle forze illiberali circa l’alternativa che dicono di promettere - un’alternativa, non importa quanto realizzabile, ma che risulta assai più efficace che le armi spuntate delle forze progressiste, le quali, come ricordava qualche giorno fa Rosi Braidotti a Otto e mezzo, non sanno suscitare quelle passioni attive che mobilitano all’azione e cementano il legame tra cittadinanza e istituzioni democratiche. Rispetto a cento anni fa, però, da metà Novecento è venuta emergendo l’incomparabile forza d’interdizione delle Corti più alte. Queste si profilano oggi come le tutrici di una “superlegalità costituzionale”, ossia del valore non negoziabile di alcuni principi fondativi, considerati persino più rilevanti che non il diritto positivo di produzione parlamentare. Una legalità che appunto “sta sopra” alle leggi positive e alla stessa Costituzione, perché di queste ispirazione vitale e chiave interpretativa. È in forza di questo tacito assunto che la Corte costituzionale romena è tempestivamente intervenuta a protezione dell’equità e della legalità del processo elettorale. Ma al di là della presa di parte per la “militanza democratica” delle Corti o per il diritto di un popolo che, se lo desidera, può legittimamente mettersi nelle mani di un esecutivo illiberale, brilla inequivoco il dato di un conflitto tra modelli di democrazia - giurisprudenziale ed esecutiva - che accelerano il pensionamento delle democrazie legislative. I parlamenti sono o esautorati da esecutivi che di fatto legiferano o da corti supreme che fanno loro da protettrici e precettrici. Insomma, la democrazia che conoscevamo sta morendo. E sarà bene elaborare il lutto per tempo e con un poco di cognizione, prima che ad esso debba badare un tutore, che vesta la toga oppure l’uniforme. *Filosofo Un italiano su due teme la guerra mondiale. Ma il 70% dei giovani snobba i missili di Putin di Alessandra Ghisleri La Stampa, 8 dicembre 2024 Il 48% degli intervistati ha paura che il conflitto tra Russia e Ucraina si allarghi e coinvolga l’Europa. Nella fascia 18-24 anni la percezione cambia: il 50% pensa che le minacce di Mosca siano solo propaganda. I conflitti internazionali stanno scuotendo e agitando gli animi delle persone in tutto il mondo. È un periodo turbolento che preoccupa per la situazione delle guerre e dei conflitti internazionali che stanno minando non solo la sicurezza nazionale, ma anche i sistemi economici, sociali e le stabilità politiche dell’intero globo. Le continue ostilità in Ucraina, iniziate nel 2022 con l’invasione russa, continuano a essere una fonte significativa di angoscia per l’opinione pubblica, che in maggioranza (con una media negli anni tra il 48,0% e il 52,0%) fin dall’inizio del conflitto non ha mai gradito l’invio di armi a Volodymyr Zelensky. La guerra, iniziata interessando solo una parte di territorio nel cuore dell’Europa, oggi ha generato un impatto globale con ripercussioni su energia, economia e sicurezza. In tutto questo l’Italia, come parte della Nato e dell’Unione Europea, ha supportato l’Ucraina con sanzioni contro la Russia e aiuti militari e umanitari, ma questo nel tempo ha sollevato preoccupazioni riguardo a possibili escalation e impatti economici. Ad ogni comunicazione di Vladimir Putin l’opinione pubblica italiana sussulta. In parte lo “zar” russo ci ha abituato alle sue minacce nucleari, tuttavia, ad ogni suo richiamo si ha il tempo di riflettere sui diversi avvertimenti e comunque sempre un brivido percorre i nostri pensieri. Dopo il suo ultimo annuncio televisivo sull’utilizzo di altri razzi Oreshnik, un cittadino italiano su 2 (47,0%) ha affermato di essere molto preoccupato - sondaggio Euromedia Research per Porta a Porta -. L’uso di queste armi, con un sistema di lancio multiplo che possono ferire simultaneamente più obiettivi a lunga distanza, ha sollecitato molte paure per i potenziali danni collaterali e indiscriminati alle popolazioni civili. Per il 15,5% si tratta di semplice propaganda e per il 12,2% non è il primo missile - e non sarà l’ultimo - utilizzato in questo conflitto. Il 10,3% sente che la minaccia è lontana, mentre il 6,0% trova esagerati gli allarmismi e le enfatizzazioni sull’accaduto. Appare uno spaccato curioso dove il 44,0% della popolazione ostenta una certa indifferenza, a tratti beffarda verso gli avvenimenti, come se fosse ormai assuefatta o disconnessa dalle cruente cronache che giornalmente pervadono la nostra informazione. In questo target si concentra il 76,2% della generazione Z. Molti giovani oggi tendono a percepire i temi della guerra nel mondo come più lontani e distanti dai loro interessi, dal loro “raggio di azione”. Sebbene le informazioni sui conflitti siano facilmente accessibili, la loro trasmissione avviene attraverso una serie di filtri mediatici che spesso enfatizzano gli aspetti più sensazionalistici, senza farli passare come esperienze dirette deflagranti e immediate. Sui social, ad esempio, la frammentazione e la brevità delle notizie veicolate possono distorcere la percezione della realtà lontana non fornendo una connessione emotiva forte, rendendo più difficile l’associazione con una comprensione più profonda delle dinamiche della guerra. Dalla generazione boomer in poi (i nati dopo il 1946), la guerra è un concetto che, nella maggior parte dei casi, non è mai stato sperimentato in prima persona, se non “per sentito dire”. Non vivendo in un Paese in guerra e non essendo mai stati direttamente minacciati da conflitti - se non da terrorismi interni -, risulta molto complicato apprendere appieno la realtà e le sofferenze che le guerre comportano. Sono appunto gli Over 65 i più sensibili alla preoccupazione (52,3%). Dall’ultimo rapporto Censis, presentato nella giornata di venerdì 6 dicembre, emerge come il 66,3% degli italiani incolpa l’Occidente (Usa in testa) dei conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente e solo il 31,6% è d’accordo con il richiamo della Nato sull’aumento delle spese militari fino al 2,0% del Pil. L’opinione pubblica nazionale prende le distanze dalla guerra e dalle responsabilità, accusando le guerre di sottrarre risorse importanti alla nazione che potrebbero invece essere investite in maniera diversa e più utile per i cittadini. In merito a quanto sta accadendo, secondo i dati di Euromedia Research per Porta a Porta, un italiano su 2 (48,0%) teme che gli eventi dei diversi conflitti nel mondo si stiano indirizzando verso una guerra Globale-Mondiale. Lo stesso Papa Francesco disse: “Viviamo in una Terza Guerra mondiale combattuta a pezzi”. In generale, la preoccupazione della gente riguarda la possibilità di un allargamento dei conflitti o di una loro intensificazione con coinvolgimenti maggiori anche per l’Italia e per l’Europa, il che potrebbe portare a nuovi sfollamenti, maggiore insicurezza, e impatti negativi non solo sull’economia. Tuttavia, anche in questo caso la percezione dei più giovani è distante dal dato nazionale. Infatti il 69,5% di coloro che hanno un’età tra i 18 e i 24 anni, a differenza di tutti gli altri, si dimostra più ottimista relegando i conflitti entro i loro limiti nazionali. La loro percezione è sicuramente influenzata dalla distanza geografica, dalla mediazione delle informazioni, dalla mancanza di esperienze dirette e da una sensibilità emotiva che può essere ridotta dalla saturazione informativa, tuttavia è necessario ricordare che non si può generalizzare perché molti sono i giovani coinvolti attivamente in movimenti per la pace e per i diritti umani. Tutti noi tendiamo a concentrarci su temi che percepiamo come più urgenti o rilevanti per la nostra vita e siamo convinti che le guerre nel mondo non ci appartengano perché “non le possiamo controllare”. Così, anche le nostre paure e preoccupazioni sono mosse esplicitamente da quelle che potrebbero essere - solo - le ricadute sulla nostra quotidianità e tutto questo ci porta “a nostra insaputa”, ad una totale lontananza dalla realtà della guerra, come se fosse un problema che non ci appartiene e a cui partecipiamo “per procura”.