Nel 2024 si sono uccise 86 persone in carcere, non erano mai state così tante di Laura Fasani ilpost.it, 7 dicembre 2024 Il 4 dicembre un uomo di 21 anni, Amir Dhouiou, si è ucciso nel carcere Marassi di Genova, dove era detenuto. Secondo Ristretti Orizzonti, storica rivista del carcere di Padova, dall’inizio del 2024 a oggi le persone detenute in Italia che si sono suicidate sono 86: è il numero più alto da quando Ristretti Orizzonti raccoglie i dati a livello nazionale. Allo stesso tempo il numero è leggermente difforme rispetto a quello diffuso dal Garante dei detenuti, per via dei criteri adottati (ci torniamo). Secondo il conteggio di Ristretti Orizzonti nel 2023 i suicidi furono 69, nel 2022 84. Dieci anni fa si suicidarono 43 persone, la metà rispetto a oggi. Sono dati complessi da interpretare, perché ogni storia è singola e ha quindi le sue specificità. Questi numeri si inseriscono però in un contesto in cui le condizioni di detenzione sono sempre più degradanti, come denunciano da tempo le associazioni che si occupano di diritti delle persone detenute. Il sovraffollamento, la mancanza di personale e servizi, gli spazi chiusi e la difficoltà di gestire le persone con fragilità hanno provocato negli scorsi mesi diverse proteste nelle carceri italiane. E incidono anche sui suicidi degli agenti della polizia penitenziaria, sette dall’inizio dell’anno. Sofia Antonelli, ricercatrice dell’associazione Antigone che fra le altre cose si è occupata del dossier sui suicidi in carcere, dice che non è solo il numero così alto di suicidi del 2024 a preoccupare, ma “tutto il sistema che è in enorme difficoltà”. Pur specificando che ogni vicenda è singola e non si può generalizzare, Antonelli osserva che il sistema carcerario italiano spesso non riesce ad affrontare in modo adeguato le fragilità delle persone detenute: chi entra in carcere con problemi di salute mentale o situazioni di marginalità sociale alle spalle rischia di non essere gestito come ne avrebbe bisogno. Mancano le risorse e il personale è insufficiente. In carcere oggi “le persone sono sempre più rinchiuse e sempre più sole”, dice. Amir Dhouiou era nato in Tunisia ed era detenuto nel reparto di Servizio assistenza intensificata del Marassi perché nelle scorse settimane aveva già commesso atti di autolesionismo. Era quindi considerato una persona fragile e a rischio. La procura di Genova ha aperto un’inchiesta per capire se Dhouiou fosse stato sorvegliato nel modo corretto. Il suicidio di Dhouiou non è conteggiato nell’ultimo rapporto sui suicidi in carcere del Garante nazionale dei detenuti, che è aggiornato al 2 dicembre. Rispetto al conteggio di Ristretti Orizzonti fino al 2 dicembre, il Garante conta comunque sei suicidi in meno, dunque si ferma a 79. Le ragioni sono legate sia ad alcuni accertamenti ancora in corso (nell’analisi del Garante nazionale sono indicati 19 decessi in carcere “per cause ancora da accertare”) sia al modo con cui le associazioni calcolano i suicidi in carcere. Nel rapporto di Ristretti Orizzonti si trovano per esempio il nome di Sylla Ousmane, 22 anni, che si impiccò il 4 febbraio nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) Ponte Galeria di Roma, e quello di Mailon D’Auria, 21 anni, che morì il 27 giugno nel carcere di Frosinone dopo avere inalato del gas da una bomboletta. Nessuno dei due è nella relazione del Garante. O ancora, a differenza del Garante, Ristretti Orizzonti inserisce nel suo rapporto Cristian Francu, 51 anni, morto il 27 novembre dopo essersi gettato dalla finestra dell’ospedale di Perugia. Era stato portato lì dal carcere di Terni perché le sue condizioni di salute erano state dichiarate incompatibili con la detenzione in carcere. Ristretti Orizzonti spiega che le differenze nei conteggi con il Garante potrebbero essere dovute a criteri diversi nel considerare alcuni suicidi come suicidi avvenuti in carcere. Per esempio, Ristretti Orizzonti reputa sistematicamente tali anche le morti in ospedale dopo atti di autolesionismo compiuti in carcere, o persone che si sono uccise mentre erano in permesso “premio”, dunque quando non erano fisicamente in carcere ma erano comunque detenute. “Noi parliamo di morti di carcere, dunque per tutto ciò che la detenzione implica o provoca, anche se le persone detenute non erano in carcere al momento della morte”, fa sapere l’associazione. Il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Riccardo Turrina Vita spiega che i numeri dei suoi rapporti arrivano dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e sono quindi quelli “ufficiali”. Turrina Vita dice comunque di aver disposto una verifica ulteriore. Il 3 dicembre il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere conto delle discrepanze sui numeri. Nella relazione del Garante nazionale ci sono diversi elementi significativi per capire di cosa parliamo quando parliamo di suicidi in carcere in Italia. Le persone che si sono uccise dall’inizio dell’anno erano quasi tutti uomini (77 su 79) e avevano un’età media di 40 anni (una sola persona aveva più di settant’anni, 34 persone avevano tra i 26 e i 39 anni). 33 erano state giudicate in via definitiva e condannate, altre 30 erano invece in attesa del primo giudizio, mentre 9 avevano una posizione detta “mista con definitivo”, cioè avevano almeno una condanna e altri procedimenti penali in corso. Oltre la metà si è suicidata nei primi sei mesi di detenzione: 8 entro le prime due settimane, sei dopo 5 giorni dall’ingresso. Nella relazione si parla delle condizioni di fragilità in cui si trovava buona parte delle persone che si sono uccise. Sulle 79 contate dal Garante nazionale, 43 persone erano già state coinvolte in “eventi critici”, cioè avvenimenti che mettono in pericolo la sicurezza delle persone detenute e del personale penitenziario o delle strutture dell’istituto. Tra queste 19 avevano già provato a suicidarsi. Inoltre 14 persone erano già state sottoposte alla misura di “grande sorveglianza”, cioè una sorveglianza rafforzata: cinque lo erano ancora quando si sono suicidate. Un altro dato importante riguarda gli spazi in cui vivevano le persone detenute che si sono suicidate. 67 di loro si trovavano nelle sezioni a “custodia chiusa”, dove le celle restano aperte solo per le otto ore previste dal regolamento generale nazionale e la partecipazione ad attività lavorative è prevista solo all’interno della stessa sezione. La “custodia aperta” invece prevede l’apertura delle celle fino a 14 ore al giorno e la possibilità di partecipare ad attività sportive, lavorative e di formazione anche al di fuori della propria sezione. Secondo Antigone le custodie chiuse sono aumentate negli ultimi anni. Secondo l’ultimo aggiornamento del ministero della Giustizia, al 30 novembre nelle carceri italiane c’erano 62.427 persone detenute, a fronte di 51.165 posti disponibili. È un dato in crescita rispetto al 2023: complessivamente al 31 dicembre dello scorso anno erano detenute 60.166 persone, a fronte di una capienza massima degli istituti penitenziari di 51.179 posti. Nonostante la mancanza di spazio, la popolazione carceraria non sta diminuendo e negli ultimi dieci anni si è sempre mantenuta tra le 50mila e le 60mila persone. Ciambriello: “Le carceri sono al collasso e portano alla morte” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 7 dicembre 2024 “In un anno 232 decessi totali, di cui 85 suicidi e 1133 tentativi”. Il Portavoce nazionale dei Garanti dei detenuti incontra gli studenti universitari dell’Unical e visita il carcere di Cosenza. Incontri con gli studenti dei corsi di laurea in giurisprudenza, servizio sociale e scienze dell’educazione: il portavoce della conferenza nazionale dei garanti dei detenuti territoriali ha partecipato ad incontri dibattiti organizzati all’Università della Calabria su minori, detenzione e pena come punizione o (ri)educazione. Il portavoce Ciambriello: “Le carceri sono al collasso e portano alla morte: in un anno 232 decessi totali, di cui 85 suicidi e 1133 tentativi di suicidi. Il tragico record apparteneva al 2022 quando in un anno si erano tolti la vita 84 detenuti. Ho la percezione che i provvedimenti dell’ultimo anno utilizzano il diritto penale per allontanare il nemico. Nuovi reati che identificano nuovi nemici: mendicanti, protestanti, occupanti, detenuti, nomadi, immigrati, tossicodipendenti. Come si fa a tenere anche in carcere una popolazione di 8mila persone che devono scontare meno di un anno di carcere? Questo stride con l’art. 27 co. 3 cost., ma impone un lavoro di squadra tra la comunità penitenziaria, la politica, il terzo settore, gli enti locali. Credo che sia arrivato il momento di un provvedimento di amnistia e indulto che ponga le condizioni per una più generale riforma del sistema penitenziario. Agli studenti universitari ho ricordato che i diritti generano diritti, che l’indifferenza è un proiettile che uccide lentamente. Dobbiamo ritornare ad invoca un diritto penale come extrema ratio, prima che di pene dobbiamo parlare di prevenzione, accudimento ed inclusione sociale”. Nella giornata, ancora, si è recato in visita nella casa circondariale di Cosenza insieme al consigliere regionale Pietro Molinaro, presidente della commissione anti ‘ndrangheta. “Un carcere con 278 detenuti, sia di alta che di media sicurezza, molti di loro campani”. Appalti a trasparenza zero: le carceri a rischio corruzione di Delia Cascino e Titti Vicenti Il Domani, 7 dicembre 2024 I penitenziari stipulano centinaia di contratti di affidamenti diretti per voli, medicinali, manutenzioni ordinarie. Una prassi che rischia di alimentare truffe e corruzioni, come a Taranto. Il giudice Sabella: “Problema serio”. Il dispendioso modello Albania usato per realizzare i centri per migranti ha seguito una regola soltanto: l’assenza di regole, o meglio la deroga al Codice degli appalti, quindi affidamenti diretti a pioggia, con minore possibilità di controlli adeguati sulle procedure. Una modalità, in realtà, che nel sistema penitenziario italiano è prassi consolidata. Domani ha infatti scoperto che sono centinaia gli appalti senza gara nelle carceri, che oggi sono una polveriera pronta a esplodere a causa del sovraffollamento e del record di suicidi, 85 solo quest’anno. La maggior parte delle commesse senza gara riguarda l’acquisto di materiali edili, elettrici e arredi. Tanti altri invece fanno riferimento a lavori di manutenzione ordinaria: si va dalla tinteggiatura alle riparazioni di tetti e caldaie. Tutti sono stati assegnati nell’ultimo anno con affidamento diretto, procedura veloce senza confronti competitivi. Come successo, appunto, per la realizzazione dei centri per migranti in Albania, nessuna gara, solo lavori a chiamata diretta, che, come ha calcolato questo giornale tramite i documenti ufficiali, sono stati pari a 60 milioni di euro. Cifre che per le carceri sono inferiori, ma anche nei penitenziari l’affidamento senza gara sotto soglia sembra essere la regola. Dai voli al gas - Il ministero della Giustizia pubblica gli atti sugli appalti senza gara. In alcuni elenchi figurano anche i biglietti per voli aerei. È il caso di San Vittore a Milano, dove questa voce di spesa, a giugno scorso, superava i 9mila euro. I costi più esosi riguardano le forniture di gas. I direttori di Cremona e San Vittore, per esempio, hanno firmato l’affidamento con la stessa società, il gruppo Hera Comm. Cambiano gli importi, che sfiorano i 500mila euro per il carcere milanese. Rebibbia, invece, aderisce alla convenzione per la fornitura di gas a inizio anno. La spesa ammonta a 800mila euro. Tramite affidamento diretto avviene anche l’acquisto di medicinali. L’istituto di pena per minorenni ad Acireale, in Sicilia, compra più volte “farmaci non dispensati dal Sistema sanitario nazionale” e dà l’incarico a una ditta del luogo. Molti istituti penitenziari individuano le società sul Mepa, il mercato elettronico dove le amministrazioni pubbliche acquistano beni e servizi: consultano più preventivi o si rivolgono a un solo operatore economico. Spesso, però, non sono attive le convenzioni Consip, la società che fa capo al ministero delle Finanze. Succede soprattutto in due casi: l’acquisto di attrezzature generiche e la manutenzione ordinaria. Altre volte i direttori delle carceri procedono autonomamente. Ne è un esempio Pesaro, che non ricorre al Mepa per comprare il materiale per la lavanderia. “Il nuovo Codice degli appalti semplifica gli affidamenti di importo inferiore a 40mila euro. I requisiti delle aziende sono verificati tramite un sorteggio a campione, ma sotto la soglia dei 5mila si dà addio al principio di alternanza a diverse imprese e cade l’obbligo di consultare il Mepa”, spiega l’avvocato Giulio Delfino. In teoria l’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) e la Corte dei conti, tramite la Ragioneria di Stato, effettuano i controlli. “Gli affidamenti diretti sono ovviamente monitorati, perché possono gonfiare i costi all’amministrazione anche per migliaia di euro”, afferma Delfino. Di solito però la Corte dei conti interviene su “cose più specifiche e rilevanti, come i mega contratti fatti dai provveditori regionali per il vitto e sopravvitto nei penitenziari”, sostiene Mauro Palma, ex garante nazionale delle persone detenute. Sugli appalti in affidamento diretto con un importo basso è raro che vigili un ente esterno. I direttori delle carceri sono responsabili unici del progetto (Rup), “emanano la determina e controllano tutte le fasi”, afferma Palma, che fa notare la contraddizione, cioè il controllore è allo stesso tempo il controllato. Rischio irregolarità - A volte questo tipo di procedure, però, può nascondere un rischio, e portare a irregolarità. A Taranto, per esempio, nel 2022, secondo la Guardia di finanza, una funzionaria della Casa Circondariale, che ricopriva il ruolo di direttrice dei lavori, avrebbe favorito l’affidamento diretto a un’impresa dietro compenso in denaro. L’incarico riguardava “l’impermeabilizzazione di alcuni locali”. Secondo Palma, i lavori edili però in quanto attività del Mof (manutenzione ordinaria fabbricato) dovrebbero essere eseguiti dalle persone detenute, anche se spesso sono “fatti fare a ditte esterne”. Sul caso di Taranto è intervenuta anche l’Anac. L’oggetto della contesa, un “possibile conflitto d’interesse”: l’allora direttrice del carcere aveva stretto un accordo con una cooperativa, di cui faceva parte il cognato, per realizzare un laboratorio di pasticceria a scopo educativo. La convenzione fu annullata poco dopo. Inizialmente la Finanza nella sua informativa di aprile 2024 contestava l’abuso d’ufficio, poi però abolito dal governo. In ogni caso la direttrice è estranea alla vicenda degli appalti truccati. “Di solito”, sottolinea Palma, “nessuno vigila né sui lavori di manutenzione ordinaria né sugli accordi con le cooperative, che offrono un piano formativo per i detenuti”. I direttori delle carceri possono assegnare gli incarichi tramite affidamento diretto alle cooperative, scegliendole sul Mepa. È il caso di Pavia, che ha stipulato una convenzione per un importo di 16mila euro circa, scegliendo una cooperativa su quella piattaforma con l’obiettivo di proporre un’offerta formativa ai detenuti. “Sarebbe importante che i direttori attuassero dei controlli a valle sia per gli accordi con le cooperative sia per i lavori di manutenzione ordinaria”, suggerisce Palma. L’avvocato Delfino riscontra “opacità” nelle procedure senza gara: “Gli enti e le istituzioni pubbliche possono assegnare in maniera fiduciaria i contratti, ma a danno della concorrenza. Gli attori dell’affidamento diretto sono unicamente la stazione appaltante e l’operatore economico. Non c’è nessun altro che rivesta il ruolo di arbitro”. Il magistrato antimafia Alfonso Sabella, quando lavorava al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sollecitò un’indagine sulla gestione anomala degli appalti. Sul caso la procura di Roma aprì un’inchiesta. “Con la secretazione e il frazionamento era facile orientare le gare. Volevano superare la normativa europea che consente di assegnare i lavori a più di un’impresa”, racconta Sabella. “Se parliamo dei piccoli appalti negli istituti penitenziari, ce ne sono di vari tipi. Lì ci possono essere imbrogli in qualunque modo, ma sono importi sotto la soglia dei 40mila euro, che vengono dati in affidamento diretto. Questo è un problema serio in tutta Italia, non solo nelle carceri”. “Amnistia e indulto per i detenuti per crimini meno gravi” websicilianews.it, 7 dicembre 2024 La richiesta della Democrazia Cristiana. “La Democrazia Cristiana chiederà, nell’anno giubilare 2025, l’amnistia e l’indulto per i detenuti, ad esclusione di chi ha commesso reati più gravi come i crimini legati a terrorismo, mafia, nonché i reati aggravati dal favoreggiamento alle associazioni mafiose, omicidi, violenze alle persone, associazione a delinquere finalizzata a traffico di stupefacenti e di immigrazione clandestina”. Lo annuncia Vita Ippolito, responsabile nazionale per la Giustizia della DC. “I dati relativi ai suicidi in carcere sono in costante aumento. Dal 2022 ad oggi il numero di chi ha deciso di togliersi la vita in Italia, all’interno degli Istituti penitenziari, è giunto purtroppo ad 85, a cui vanno aggiunti 7 agenti di polizia penitenziaria. A questi dati - spiega- si sommano i 1.842 tentativi di suicidio, gli 11.503 atti autolesionistici, i diversi trattamenti inumani e degradanti generalizzati di cui sono vittime i detenuti, come avvenuto all’interno del carcere di Trapani dove, al termine delle indagini, 11 agenti penitenziari sono stati arrestati e 14 sospesi con l’accusa di torture e abusi posti in essere nei confronti di detenuti vulnerabili. “Tale drammatica situazione - prosegue Vita Ippolito - richiederebbe da parte della politica una risposta organica, energica ed immediata, perché dietro questi freddi numeri, vi sono persone che, sebbene prive della libertà personale, sono portatrici di diritti che, non possono, in alcun modo, essere sacrificati. È necessario, ma non sufficiente, pensare di aumentare le strutture carcerarie ciò che, appare, indefettibile è, invece, garantire all’interno delle strutture già esistenti condizioni umane dignitose. Per fermare questa strage di vite e di diritti bisogna garantire percorsi di formazione umana integrale, corsi di formazione-lavoro sia per contrastare il pericolo delle recidive sia per dare compiuta applicazione al principio di rieducazione del reo sancito dall’art 27 della Costituzione”. “Occorre, inoltre, provvedere per i detenuti affetti da problematiche complesse, percorsi riabilitativi differenziati rispetto ai tossicodipendenti in generale, in associazione con interventi diagnostici-terapeutici che integrino l’approccio psico-sociale con quello medico-farmacologico. La politica - dichiara Vita Ippolito - non dovrebbe fare a meno, altresì, di favorire la nascita di comunità che possano ospitare, in alternativa al carcere, soggetti affetti da doppia diagnosi. Insieme a questi atti di ordinaria politica carceraria, le forze politiche, unitariamente, attese anche le qualificate maggioranze parlamentari richieste, dovrebbero confrontarsi su un provvedimento di clemenza generale”. “Ecco perché la DC, accogliendo la richiesta del Sommo Pontefice rivolta ai governi di prevedere forme di amnistia o condono di pena a chi si trova in carcere, chiederà di concedere l’amnistia e l’indulto per chi ha commesso alcuni reati, eccetto, come detto, quelli legati a determinati crimini”, conclude. “Violento e machista”: bufera sul calendario della Polizia penitenziaria di Irene Famà La Stampa, 7 dicembre 2024 Il Pd chiede a Nordio di ritirarlo: “Racconta le carceri come esclusivo teatro di conflitto”. Delmastro: “Polemica allucinante e allucinogena, da sinistra un pregiudizio ideologico”. Il carcere dovrebbe essere luogo di riscatto. E gli agenti i custodi di quel luogo così complesso dove quest’anno 86 detenuti si sono tolti la vita. Eppure il calendario 2025 della polizia penitenziaria è un susseguirsi di foto che fanno sfoggio di forza e muscoli. Dodici scatti con manganelli in pugno, pistole spianate e scudi antisommossa, tecniche per immobilizzare una persona a terra e azioni di contenimento, agenti al poligono e con il volto coperto o giubbotti antiproiettile. “Raccontano la formazione attraverso le varie sfaccettature: lo studio, l’addestramento, l’aggiornamento e l’allenamento”, è stato detto durante la presentazione. “È violento e machista”, tuonano dal Partito Democratico. “Chiediamo al governo il ritiro immediato”. I messaggi che trasmette, sottolineano, “rappresentano le carceri come esclusivo teatro di conflitto e violenza”. Così “si rischia di legittimare approcci repressivi, in netto contrasto con il ruolo che il sistema penitenziario dovrebbe svolgere: favorire il reinserimento sociale delle persone detenute e garantire il rispetto della loro dignità”. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro va all’attacco: difende il calendario, parla di “cieco furore ideologico”, di “pregiudizio per le divise”. E questa è la seconda polemica che, in poche settimane, investe il ministero della Giustizia sul tema delle carceri, dopo la bufera che si scatenò sullo stesso Delmastro. Era stato proprio il deputato di Fratelli d’Italia, durante la presentazione a Roma di un mezzo blindato della penitenziaria, a dire: “È un’intima gioia l’idea di veder sfilare questo potente mezzo e far sapere ai cittadini come noi sappiamo trattare e incalziamo chi sta dietro quel vetro e non lo lasciamo respirare”. In quel caso, travolto dalle critiche, Delmastro aveva aggiustato il tiro. “Ci mancherebbe altro che diamo respiro alla mafia e alla criminalità organizzata”, aveva dichiarato. In questo caso, almeno per ora, resta fermo sulla sua posizione. “La polemica sollevata dal Partito democratico è allucinata, allucinante e allucinogena”. E aggiunge: “Credo che gli italiani potranno rotolarsi per terra dal ridere”. Infine ricorda che l’intero ricavato dalla vendita del calendario verrà devoluto all’Ente assistenza per il personale “per provvedere all’assistenza degli orfani e dei figli con disabilità degli agenti della penitenziaria”. Il gruppo parlamentare del Pd annuncia un’interrogazione a prima firma della deputata Michela Di Biase e sottoscritta dalla responsabile giustizia Debora Serracchiani: “Invitiamo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, a cui chiediamo se ha visto e condiviso il video e il calendario prima della loro pubblicazione, a riferire con urgenza in Parlamento”. Sulla stessa linea il senatore Ivan Scalfarotto, capogruppo in commissione giustizia di Italia Viva: “Un’immagine, quella del calendario 2025 della polizia penitenziaria, inutilmente muscolare e totalmente sbagliata”. Il calendario “da paura” della Polizia penitenziaria: il carcere è solo repressione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2024 Le immagini selezionate sono concentrate su una rappresentazione muscolare e intimidatoria, piuttosto che illustrare le reali competenze e la complessità del lavoro degli agenti. Armati fino ai denti, in tre che bloccano una persona distesa sul pavimento, gruppo di divise in assetto antisommossa. No, non stiamo parlando di un filmato che documenta un’azione militare in una zona di emergenza, ma del nuovo calendario istituzionale della Polizia Penitenziaria. Che bisogno c’era di rappresentarla esclusivamente attraverso la loro forza muscolare, e soprattutto senza che appaia il carcere, nemmeno sullo sfondo? Il calendario per il 2025, presentato mercoledì scorso nell’aula magna della Corte di Cassazione, solleva interrogativi profondi sulla rappresentazione della realtà penitenziaria italiana. Nonostante le dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che sottolinea la capacità di “miscelare continuamente l’uso legittimo della forza con il trattamento rieducativo dei detenuti”, il prodotto finale appare come un manifesto unilaterale e fortemente militarizzato. Le immagini selezionate per il calendario raccontano esclusivamente un volto repressivo della Polizia Penitenziaria. Agenti in assetto antisommossa, operatori che bloccano con una modalità quasi schiacciante una persona distesa sul pavimento, uomini in passamontagna armati: l’unica narrazione sembra essere quella dell’emergenza e del controllo. Per l’edizione di quest’anno si è scelto il tema della “formazione” per “evidenziare l’impegno messo dall’Amministrazione penitenziaria e dal Corpo di Polizia penitenziaria in questi ultimi due anni nel darsi solide basi di addestramento”, ha spiegato il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Russo durante la presentazione. Pur riconoscendo l’importanza della preparazione professionale, questa dichiarazione stride con l’impostazione visiva del calendario. “L’uso difensivo e contenitivo della forza e l’impiego delle migliori tecnologie sono ciò che consente al nostro Corpo di polizia di eccellere in Europa, per esempio per il Laboratorio per la banca dati del dna o di partecipare con crescente puntualità alle più importanti investigazioni anche di criminalità organizzata”, ha aggiunto Russo che non ha mancato di ricordare l’operazione che ha portato all’arresto di 14 persone collegate all’evasione del boss Raduano dal carcere di Nuoro. Se l’intento era valorizzare la formazione e la professionalità, il calendario sembra paradossalmente smentire questo obiettivo. Le immagini selezionate appaiono più concentrate su una rappresentazione muscolare e intimidatoria, piuttosto che illustrare le reali competenze e la complessità del lavoro degli agenti penitenziari. L’eccellenza tecnologica e investigativa di cui parla Russo rimane quasi del tutto assente, ed emerge una narrazione che privilegia l’aspetto repressivo. Quel che più colpisce è l’assenza totale del carcere come luogo di vita quotidiana. Nessuna foto documenta l’ambiente penitenziario, le celle, i corridoi, gli spazi comuni. Spariscono del tutto quegli agenti che ogni giorno, nonostante condizioni difficilissime di sovraffollamento, svolgono un lavoro complesso di custodia, mediazione e supporto umano. Il sottosegretario Delmastro Delle Vedove ha definito questo calendario come uno sguardo su un Corpo “lontano dai riflettori, eppure prezioso nella lotta alla criminalità”. Eppure le immagini sembrano suggerire più una guerra che un servizio pubblico, più una repressione che un percorso di recupero e reinserimento. La scelta comunicativa appare profondamente sbagliata. Riduce il lavoro dei 37mila appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria a mere funzioni di contenimento fisico, cancellando la complessità, la professionalità e l’umanità che ogni giorno questi operatori sono chiamati a esprimere. Un calendario dovrebbe raccontare, documentare, far comprendere. Questo invece nasconde, semplifica, alimenta paure. Soprattutto in questo periodo dove siamo giunti a un numero spaventoso di suicidi, sovraffollamento che aggrava sempre di più. Dove, anche gli agenti penitenziari stessi si sono suicidati. E si trovano a dover far fronte alla tensione, e infatti sono in aumento gli eventi critici. Autolesionismo, sciopero della fame, proteste. Un’occasione persa per restituire dignità a un lavoro difficile e fondamentale per la tenuta democratica del nostro sistema penitenziario. Inaccettabile lo spot della Polizia penitenziaria che brandisce i manganelli di Francesco Petrelli* Il Domani, 7 dicembre 2024 Il Corpo ha presentato il suo calendario con un video che mostra gli agenti in assetto antisommossa, con pistole e scudi. Immagine deforme e distorta della funzione rieducativa della pena. La Polizia penitenziaria ha pubblicato un video promozionale del suo Calendario 2025 in cui si vedono poliziotti in assetto antisommossa, che fanno corsi per placcare i detenuti e che si allenano con scudi, pistole e manganelli. Le immagini hanno provocato una dura reazione del Pd, che ha chiesto al governo di ritirare il calendario e interrompere la campagna di comunicazione “che tradisce la funzione rieducativa della pena” perché “la rappresentazione delle carceri come esclusivo teatro di conflitto e violenza rischia di legittimare approcci repressivi”. Su questo interviene anche il presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli. Non sappiamo più con quali parole denunciare quel dramma che dovrebbe investire la coscienza civile di tutti i vertici politici, amministrativi e giurisdizionali dello Stato. Il superamento di quel numero spaventoso di 84 suicidi che aveva tragicamente segnato l’anno 2022 -sono oramai 86 con l’ultimo suicidio di un ventunenne nel carcere di Marassi, dove a fronte di una capienza di 335 detenuti ce ne sono ammassati 696, sta a dimostrare l’inarrestabile catastrofe e a rimarcare l’indecente silenzio di chi, potendo e dovendo intervenire, rivendica invece di aver pianificato un grande progetto edilizio e di avere incrementato investimenti di uomini e mezzi. Ma nell’attesa di vedere le magnifiche future sorti di quello spaventoso progetto carcerocentrico, ulteriori e diversi investimenti si prospettano in un futuro più prossimo. Non si tratta soltanto delle nuove norme inserite nel pacchetto Sicurezza, che prevedono l’incremento della carcerizzazione con l’introduzione di nuovi reati e di nuove ostatività, ma di più sofisticati investimenti comunicativi, come quello della appena pubblicizzata formazione di nuovi reparti GIO, antisommossa e del promo “Calendario del Corpo di Polizia Penitenziaria 2025”. Videoclip del “nuovo volto della penitenziaria”, che voltando pagina sul passato, propone un’immagine del corpo che non indulge né a clemenza né a compassione nei confronti dei reclusi. Conosciamo bene le doti e le qualità di quegli uomini, la generosità e le difficoltà nel loro impegno quotidiano, e anche gli sviamenti, che denunciamo con forza. Ma restiamo davvero sgomenti nel vedere quegli stessi uomini e quelle stesse donne in divisa schierati, per fini di propaganda, sotto il martellante e angoscioso ritmo di una colonna sonora incalzante, “contro” quel popolo dei detenuti che nel video resta del tutto assente. Perché esaltare, con quel trailer l’idea di un corpo in assetto di guerra, di uomini e donne dall’aspetto truce, in armi contro una invisibile minaccia? Si tratta di una immagine inedita, che archivia l’idea di un corpo che ha sempre anteposto convintamente la forza della rieducazione alla rieducazione della forza. “Gli agenti di polizia penitenziaria - diceva nel 2022 Bernardo Petralia, allora Capo del Dap - sono i primi educatori all’interno degli istituti, non soltanto controllori della sicurezza”. Perché esaltare, con quel trailer, l’idea di un corpo ferocemente in armi contro la minaccia di quel popolo lontano, diviso ed invisibile di carcerati? Se anche volessimo, infatti, considerare quello dei detenuti come un popolo separato, ci chiediamo per quale ragione considerarlo come un popolo di nemici, come la sentina di ostaggi di un esercito nemico, di uomini che non possono essere in alcun caso oggetto non solo di clemenza, ma neppure di vicinanza. Un’orda indistinta di uomini pensati come destinatari (nelle parole del sottosegretario Delmastro) di una “miscela quotidiana” somministrata da un personale di polizia che sappia accompagnare “l’uso legittimo della forza nel minor gradiente possibile, con il supporto al trattamento e al reinserimento”. Così che l’immagine del bastone non sia mai troppo distinta da quella della carota e l’uomo nuovo redento possa nascere da quella provvidenziale umiliazione, frutto della quotidiana somministrazione di quell’indispensabile “gradiente”. Ecco, dunque, il vero perché di quella reclame muscolare e il motivo di quella declinazione esclusivamente repressiva e militare di un corpo che sappiamo essere invece dotato di tutt’altre virtù e di una ben diversa missione. Despondere spem est munus nostrum è il motto di quel corpo: “Mantenere viva la speranza è il nostro compito”. Guardate quel promo 2025 e dite se mai si poteva declinare in maniera più distorta e deforme quell’idea di una polizia di prossimità, che dovrebbe invece aderire al dettato costituzionale e anche al buon senso. O meglio ancora, al senso dello Stato. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Criteri di priorità nell’azione legale, “scelta politica”. Il Pd: niente blitz sull’obbligatorietà di Simona Musco Il Dubbio, 7 dicembre 2024 Nordio e Sisto al lavoro sulle linee guida dopo la sessione di bilancio. I dem: sui diritti non si negozia. Sarà uno dei provvedimenti in cima ai pensieri del governo dopo la sessione di bilancio. Si tratta delle linee guida sui criteri dell’azione penale, che verranno stabiliti sulla base di una valutazione politica, stando a quanto chiarito dal ministro Carlo Nordio nel corso del question time di giovedì. Un provvedimento che cambierà le abitudini delle procure, fino ad oggi “indirizzate” dal Consiglio superiore della magistratura e che ora riceveranno indicazioni di natura politica, così come previsto dalla riforma Cartabia, parte rimasta, fino ad oggi, inattuata. Tant’è che il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin aveva presentato un disegno di legge per accelerare la definizione dei criteri, richiamandosi proprio a quanto evidenziato nella relazione finale della Commissione Lattanzi, che evidenziava la “necessità di collocare il principio sancito dall’articolo 112 della Costituzione (“Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) in un contesto coerente con la reale quantità di notizie di reato”. L’obiettivo era, dunque, quello di garantire maggiore trasparenza nelle scelte necessarie per attuare concretamente il principio di obbligatorietà. Nordio, replicando a Zanettin, ha sottolineato che “ogni magistrato, ossequioso al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale scritto in Costituzione, si riteneva - secondo me giustamente - in diritto di procedere secondo le sue intenzioni, anche se poi di fatto, come sappiamo, l’azione penale era diventata discrezionale o addirittura arbitraria. Dopo la cosiddetta legge Cartabia - ha aggiunto -, il Parlamento deve dare questi indirizzi generali, ai quali - poi - le procure dovranno in un certo senso uniformarsi, quantomeno sotto gli aspetti organizzativi, fermo restando che, rimanendo l’obbligatorietà dell’azione penale, il loro perimetro di intervento sarà limitato”. Nordio ha dunque annunciato che sul tema lavorerà insieme al viceministro Francesco Paolo Sisto e - “spero” con la collaborazione dell’opposizione, “perché questa è una materia che riguarda tutti. L’indirizzo generale sulla priorità dei reati da perseguire è, infatti, più politico che giuridico. Vogliamo dare la preferenza ai reati dei colletti bianchi o a quelli del codice rosso, di corruzione o di terrorismo? Poi, se tutto è priorità, niente diventa più priorità, quindi è una notevole responsabilità, vorrei dire parlamentare, alla quale certamente il governo e il ministero si associano, proprio come studio e contributo per arrivare a una soluzione soddisfacente - ha aggiunto - che lo sia anche per le procure, perché se poi le procure della Repubblica, anche in base a questa legge e a questo indirizzo, si discostano, invocando la fonte primaria della Costituzione, che è l’obbligatorietà dell’azione penale, la questione si complica ancora. Quindi, in conclusione, il governo e il Parlamento, compresa maggioranza e opposizione, è bene che lavorino insieme per trovare un indirizzo unitario, condiviso possibilmente anche con il Consiglio superiore della magistratura”. Un’affermazione, quest’ultima, che sembra ricondurre alla bocciatura che Palazzo Bachelet ha dato al dl Flussi (peraltro deliberata proprio mentre il Senato approvava il decreto in via definitiva) e che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato di non comprendere. Dal canto suo, l’opposizione, per quanto riguarda il Partito democratico, avvisa Nordio di non essere disposta a fare passi indietro sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. “Con grande attenzione e senso di equilibrio - ha dichiarato al Dubbio la vicepresidente del Senato Anna Rossomando - con la riforma Cartabia ci si era spinti fino all’individuazione, da parte del Parlamento, dei criteri di priorità dell’azione penale. Il perimetro non può che essere questo. Se invece si pensa di mettere in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale demandando alla maggioranza di turno la scelta, la nostra opposizione sarà ferma, a maggior ragione in tempi di crescita delle disuguaglianze durante i quali è più che mai necessario investire in strumenti materiali e umani nel comparto per assicurare il pieno riconoscimento dei diritti a tutti i cittadini in ambito di giustizia”. Il dibattito, dunque, si preannuncia teso. Dalle parti del governo, al momento, non c’è una traccia precisa, ma la base del ragionamento potrebbe includere il testo del ddl Zanettin, in base al quale il pm deve “conformarsi” ai criteri di priorità definiti nei progetti. Il disegno di legge modifica anche l’articolo 127 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, prevedendo che il procuratore generale presso la Corte d’appello, nel disporre l’avocazione delle notizie di reato ai sensi degli articoli 412 e 421- bis, comma 2, debba considerare i criteri di priorità indicati nell’articolo 3- ter. Relativamente alla gestione dei ruoli di udienza e dei processi, Zanettin ha attribuito priorità assoluta ai procedimenti relativi a reati come diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, lesioni personali a pubblici ufficiali durante manifestazioni sportive o a operatori sanitari e loro ausiliari, costrizione o induzione al matrimonio. Infine, il testo prevede inoltre che le comunicazioni alle Camere sull’amministrazione della giustizia includano un resoconto sull’applicazione dei criteri di priorità nell’azione penale. Da Turetta a Impagnatiello, le domande che deve farsi la giustizia di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 7 dicembre 2024 È presumibile che le pronunce di queste settimane siano un riflesso condizionato e in qualche modo inevitabile delle intense emozioni che hanno accompagnato queste vicende. Da circa quindici, vent’anni il dibattito pubblico intorno alle questioni di genere è cresciuto notevolmente. E in maniera proporzionale è cresciuta l’attenzione nei confronti delle violenze contro le donne. Si pensi a quanto sempre più diffusamente venga utilizzato il termine femminicidio per indicare l’uccisione di una donna avvenuta in uno specifico contesto e all’interno di una determinata relazione tra vittima e autore di reato. Nell’ultima settimana in Italia sono state pronunciate tre sentenze assai significative. La prima è quella della Corte d’Appello di Reggio Calabria, che ha confermato la condanna all’ergastolo nei confronti di Antonio De Pace, l’uomo che nel 2020 ha ucciso Lorena Quaranta. La Cassazione aveva annullato la sentenza, negando la qualifica del delitto di genere e rinviando alla Corte d’Appello di Reggio la valutazione sulla concessione delle attenuanti generiche, poi negate, relative allo stress della coppia nel periodo post-Covid. La seconda recente sentenza è quella della Corte d’Assise di Milano, che in primo grado ha condannato alla pena perpetua, con i primi tre mesi in isolamento diurno, Alessandro Impagnatiello, responsabile della morte di Giulia Tramontano avvenuta nel 2023. La più recente e più nota vicenda che si è conclusa con un fine pena mai è quella che coinvolge Filippo Turetta, il giovane che ha ucciso Giulia Cecchettin lo scorso anno. Tre sentenze rapide, di cui due in primo grado. E tutt’e tre di processi a carico di giovani uomini, rispettivamente di 29, 31 e 22 anni. Eppure, la sensazione è che, più che all’equità della pena, si sia guardato alle suggestioni - le più emotivamente gratificanti - di un forte sentimento collettivo e di un allarme sociale ormai diffuso. Sia chiaro, qui non si mette in discussione il fatto che vi fossero le condizioni e le circostanze che motivano il ricorso alla pena dell’ergastolo, ma notiamo che si è creato un cortocircuito ineludibile tra aspettative sociali ed entità della pena, tale da rendere fatale l’irrorazione del carcere a vita. Per averne una conferma basta porsi una semplice domanda: come avremmo reagito tutti - proprio tutti - se a fronte di delitti tanto crudeli non fosse stata inflitta una pena corrispondente a quella massima? In presenza di una sensibilità molto pronunciata come quella che ha accompagnato la scoperta delle contorte trame di Impagnatiello o la vana fuga di Turetta verso non si sa dove, poteva darsi una pena diversa da quella più estrema? Poi ci sono le domande che deve farsi la giustizia e che evidentemente non sono le stesse che attraversano la mente dell’opinione pubblica e del sistema mediatico. O, in particolare, dei familiari delle vittime. La magistratura giudicante è chiamata a capire come le pene possano essere accompagnate da parole quali possibilità, ravvedimento, rieducazione. E mutabilità: della sanzione, certo, ma della persona soprattutto. È presumibile che le pronunce di queste settimane siano un riflesso condizionato e in qualche modo inevitabile delle intense emozioni che hanno accompagnato queste vicende. E del fatto che, restando la pena dell’ergastolo all’interno dei nostri codici, risulti difficile sottrarsi alla tentazione di infliggerla quando si assiste a delitti di particolare efferatezza. Ma ciò non toglie che sia necessario continuare a riflettere sulla legittimità di una sanzione che sembra contraddire inequivocabilmente il dettato costituzionale quando, al terzo comma dell’articolo 27, afferma che il carcere debba “tendere alla rieducazione del condannato”. Suor Anna e il clan mafioso: “Sono in buona fede, cerco solo di favorire le relazioni umane” di Monica Coviello vanityfair.it, 7 dicembre 2024 La religiosa, agli arresti domiciliari, è stata accusata di trasmettere messaggi e risolvere conflitti tra detenuti per conto del gruppo criminale legato alla ‘ndrangheta. Non ci sarebbero prove concrete, ma “solo chiacchiere che possono aver indotto all’errore”, a sostegno delle accuse a carico di suor Anna Donelli, la religiosa finita nell’inchiesta della procura di Brescia su un gruppo criminale legato alla ‘ndrangheta e ora agli arresti domiciliari. Lo dice il suo avvocato, Robert Ranieli, secondo cui “chi la conosce bene non può credere a nessuna intenzionalità”. Anche suor Anna Donelli ribadisce la sua assoluta buona fede. “Da sempre cerco di favorire le relazioni umane, confido che gli inquirenti vogliano sentire presto quello che ho da dire”, fa sapere. Increduli anche gli altri volontari del carcere, che non credono possa essere possibile che la religiosa abbia approfittato - come dice l’accusa - del suo ruolo di assistenza ai detenuti per trasmettere, da fuori a dentro il carcere e viceversa, i messaggi tra i membri della cosca calabrese dei Tripodi. 57 anni, nata a Cremona, secondo l’ordinanza di custodia cautelare avrebbe messo a disposizione “la propria opera di assistente spirituale per veicolare messaggi tra gli appartenenti al clan”. Stefano Tripodi, che sarebbe ai vertici dell’organizzazione avrebbe fatto espliciti riferimenti a “una monaca”, una “religiosa” che, nelle carceri di Milano e Brescia, avrebbe stretto con lui “un patto”. Tra le prime attività attribuite a suor Anna Donelli vi sarebbe stata la visita a un detenuto coinvolto in un conflitto con un altro soggetto legato ai Tripodi. Dalle indagini emergono intercettazioni che collocano la religiosa negli uffici di Flero, ritenuti una base logistica per l’organizzazione delle attività illecite del clan. Dopo l’arresto e il trasferimento in carcere di Candiloro, considerato un membro dell’associazione criminale, suor Donelli avrebbe dovuto avvicinarlo identificandosi come “l’amica di Stefano”. Nei giorni successivi, sarebbe tornata a Flero, dove Stefano Tripodi e il figlio Francesco l’avrebbero presentata ad altri come “la suora che lavora in carcere”, aggiungendo: “Se ti serve qualcosa dentro, è dei nostri”. La religiosa avrebbe partecipato ad altri incontri presso la stessa sede, durante i quali Stefano Tripodi si sarebbe vantato della propria influenza intimidatoria, lodando un giovane affiliato e confidando di avergli insegnato a usare le armi per compiere rapine. Per il giudice, il legame tra suor Donelli e la famiglia Tripodi “non appare né occasionale né insignificante”. La consapevolezza di suor Donelli del potere del clan sarebbe confermata da un episodio in cui, a seguito di un incidente della nipote, avrebbe rassicurato quest’ultima dicendole che avrebbe risolto il problema tramite “i suoi amici”. Secondo il giudice per le indagini preliminari, il ruolo di tramite svolto dalla religiosa costituisce “un indubbio contributo” al rafforzamento del sodalizio criminale. Suor Donelli avrebbe trasmesso ordini, direttive e supporto morale e materiale ai detenuti affiliati al clan, ricevendo in cambio informazioni utili “per pianificare strategie criminali di contrasto alle attività investigative”. Inoltre, avrebbe mediato per risolvere dissidi tra detenuti, favorendo così la coesione interna del gruppo. Come scrive Roberto Saviano sul Corriere, “nel corso della lunga storia criminale italiana c’è stato solo un altro eclatante caso di suora arrestata: era il 1983 e suor Aldina Murelli fu accusata di aver collaborato con Raffaele Cutolo. Prendeva 500 mila lire a servizio”. Ma l’inchiesta bresciana non ha ancora appurato quale potesse essere il vantaggio per suor Anna. “Per il permesso premio non si può pretendere la confessione, il condannato ha diritto di negare” tusciaweb.eu, 7 dicembre 2024 Accolto il ricorso contro il diniego del tribunale di sorveglianza di un detenuto che sta scontando 27 anni e mezzo per omicidio. Condannato a 27 anni e mezzo di carcere per omicidio, un 57enne detenuto nel carcere di Mammagialla si è visto negare dal magistrato di sorveglianza di Viterbo, e poi dal tribunale di sorveglianza di Roma lo scorso 29 febbraio, un permesso premio per non avere mai confessato il delitto. Per la cassazione: “Non si può pretendere la confessione, il condannato ha diritto di negare”. “Il ricorso merita accoglimento”, si legge nelle motivazioni degli ermellini, secondo cui il giudice, ai fini della concessione dei permessi premio, deve accertare la sussistenza di tre requisiti, ovvero “la regolare condotta del detenuto, l’assenza di pericolosità sociale, la funzionalità del permesso premio alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro”. Ma soprattutto viene ricordato che “ai fini della concessione del permesso premio, come per ogni altra misura alternativa alla detenzione, non può mai pretendersi la confessione del condannato, il quale ha il diritto di non ammettere le proprie responsabilità, pur dovendosi attivare per prendere parte in modo attivo all’opera di rieducazione”. “Nel caso in esame - viene spiegato - l’indagine condotta dal tribunale di sorveglianza si è arrestata all’atteggiamento negazionista del ricorrente, peraltro solo parziale avendo il condannato ammesso, come si legge nel provvedimento impugnato, una partecipazione, sia pure limitata, alla vicenda giudiziaria conclusa con la sua condanna, negando di essere l’autore materiale del delitto e riconoscendo di essere colpevole soltanto ‘per avere incassato gli assegni’“. Maltrattamenti, “riappacificazione” da valutare per la revoca dell’allontanamento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore Lo Cassazione, sentenza n. 44544 depositata oggi, afferma che va vagliata la plausibilità della ritrattazione delle precedenti accuse. Nei procedimenti per maltrattamenti in famiglia, o comunque violenza sulle donne, la priorità deve essere accordata alla tutela della loro sicurezza. Per revocare le misure cautelari del divieto di avvicinamento e dell’obbligo di presentazione alla Polizia, non è dunque sufficiente l’affermazione della vittima di voler riprendere la convivenza, perché il partner è “cambiato” ed ha “preso coscienza” delle proprie condotte sbagliate. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 44544 depositata oggi, accogliendo il ricorso del Pm contro la decisione del Tribunale che invece, in sede di riesame, aveva accolto le richieste di un uomo indagato per maltrattamenti e lesioni aggravate. Per la VI Sezione penale, il Tribunale di Torino “contraddittoriamente” dopo aver riportato che la vittima subiva da oltre un anno “gravissime forme di maltrattamenti fisici e verbali”, che aveva evitato di farsi refertare le lesioni più volte patite “per paura di ritorsioni”, “in maniera del tutto illogica” ha poi asserito che la ritrattazione dimostrava che i due “si erano oramai riconciliati e che, essendo venuta meno la conflittualità, avendo la vittima riferito di voler riprendere la convivenza con il compagno”, il pericolo doveva considerarsi non più attuale. In una motivazione del genere, prosegue la decisione, vi è una “insanabile frattura nella consequenzialità logica tra la descrizione dei fatti e la valutazione del relativo significato”. Come chiarito di recente dalla Corte costituzionale, nei procedimenti cautelari contro “vittime vulnerabili” deve darsi “priorità alla sicurezza delle vittime o delle persone in pericolo” (n. 173/2024). E proprio il rispetto di questo “criterio di priorità” è mancato nel giudizio di riesame che, a fronte di una relazione “nettamente squilibrata tra l’agente e la persona offesa”, non ha verificato la “reale spontaneità e autenticità” della affermazione in cui la vittima ha dichiarato di essere disponibile a tornare a convivere. In altri termini, prosegue la Cassazione, la vulnerabilità può portare ad una interpretazione della misura cautelare come finalizzata a garantire l’incolumità della persona offesa anche “contro la sua volontà”. Spetterà dunque al giudice del rinvio accertare la plausibilità della ritrattazione delle precedenti accuse da parte della donna attraverso una “complessiva valutazione” della condizione “familiare” che non trascuri la solitudine della donna al momento della scelta di denunciare un compagno che “durante la pregressa convivenza, aveva tenuto abituali comportamenti aggressivi e violenti, in particolare quando la stessa aveva manifestato l’intenzione di lasciarlo”. In tema di maltrattamenti in famiglia, per la Suprema corte, va dunque ribadito che “è ininfluente, ai fini del persistere del pericolo di condotte reiterative da parte di soggetto sottoposto a custodia cautelare per il reato commesso in danno del coniuge o del compagno, la sola manifestata volontà della persona offesa, in quanto occorre sempre effettuare una corretta valutazione e gestione dei rischi di letalità, di gravità della situazione, di reiterazione di comportamenti violenti, in un’ottica di prioritaria sicurezza delle vittime o persone in pericolo, che non può essere affidata alla iniziativa delle stesse (n. 46797/2023). Verona. Detenuto suicida a Montorio, è il quarto caso da inizio anno di Angiola Petronio Corriere di Verona, 7 dicembre 2024 Un altro detenuto del carcere di Montorio è morto suicida. “Aveva solo 24 anni, nato in Romania, fine pena nell’agosto del 2030, mercoledì sera ha tentato di impiccarsi nella sua cella del carcere di Verona; subito soccorso, è stato condotto in ospedale in condizioni disperate, ieri sera ha finito di soffrire. Sale così a 86 il numero dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, di cui 4 a Verona, ai quali vanno aggiunti 7 appartenenti alla polizia penitenziaria”. È quanto ha dichiarato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria. Quel detenuto si chiamava Robert Octavian Radion e aveva un passato turbolento. Era stato arrestato nel 2021 a Marcon, nel Veneziano, dopo essere evaso dai domiciliari. Nel 2023 è stato condannato a Venezia nel a sette anni di reclusione per la rapina a mano armata in una sala slot di Spinea commessa nel 2019, con accuse che spaziavano fino al sequestro di persona, detenzione abusiva di un’arma e di un documento contraffatto. Era entrato nel carcere lagunare ad agosto dello scorso anno, ma era stato trasferito a Montorio - dove è stato assistito legalmente dall’avvocato Simone Bergamini - per una serie di intemperanze. Robert soffriva di disturbi psichiatrici e aveva già tentato il suicidio in cella varie volte. “È la cronistoria di una tragedia annunciata - le parole dell’avvocato Bergamini, che è anche responsabile dell’osservatorio carcere della Camera Penale di Verona. L’ho incontrato una sola volta, aveva appena 24 anni, un sorriso triste e non serviva molto per capire che aveva la morte negli occhi. Ci aveva già provato tante volte ed era sicuro che lo avrebbe rifatto. Ciò nonostante c’era un unico posto dove doveva stare: un carcere. “Ha fatto la fine che meritava”, direbbe qualche politico benpensante e così, purtroppo, la pensano molti dei nostri connazionali”. Robert era nella casa circondariale di Montorio, che è anche punto psichiatrico per i penitenziari del Veneto. Ma non è bastato. “Come osservatorio nazionale carcere dell’unione camere penali italiane - dichiara l’avvocato Bergamini - denunciamo ancora una volta l’illegalità di un sistema penitenziario disumano, degradato e degradante”. E a partire dai prossimi giorni sono annunciate “iniziative straordinarie di mobilitazione”. Bergamo. 583 in cella: mai così tanti reclusi negli ultimi 15 anni di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 7 dicembre 2024 Tasso di affollamento al 182,8%, i posti sono 319. Venerdì 6 dicembre la visita della Commissione del Consiglio regionale: “In cantiere un protocollo per l’inserimento lavorativo”. Da tempo, la situazione s’è fatta cronica. Ora, però, in questo 2024 “nero” per le carceri di tutta Italia, si colgono ulteriori segnali acuti. Di peggioramento: è questo, anche per il carcere di Bergamo, il momento di maggior sofferenza da un quindicennio a questa parte. Lo raccontano i numeri, quelli periodicamente diffusi dal ministero della Giustizia, secondo un’aspra contabilità umana. Prendendo a riferimento la situazione al termine di ogni anno dal 2010 in poi, ora si è vicini a toccare un nuovo picco: a venerdì 6 dicembre la casa circondariale di via Gleno ospitava 583 reclusi a fronte di 319 posti regolamentari, il tasso di affollamento ha raggiunto il 182,8%. A fine 2023 i reclusi erano invece 562, a fine 2019 erano “solo” 486: in cinque anni, si sono aggiunti quasi 100 detenuti in più. La situazione attuale s’appresta così a battere il primato precedente - sempre guardando agli ultimi 15 anni, quelli per cui sono disponibili dati puntuali - rappresentato dai 572 ristretti del 31 dicembre 2016. L’altra faccia della medaglia è nelle carenze d’organico: a fronte di un organico teorico di 243 unità, la polizia penitenziaria conta solo 170 effettivi. La visita della Commissione regionale - È partendo dalle cifre, e dal grido d’allarme degli operatori, che la Commissione carceri del Consiglio regionale lombardo venerdì 6 dicembre ha fatto tappa a Bergamo. Guidata dalla presidente Alessia Villa (Fratelli d’Italia), una delegazione composta anche dai consiglieri bergamaschi Michele Schiavi (Fratelli d’Italia), Davide Casati (Partito democratico) e Jacopo Scandella (Partito democratico) ha varcato il cancello di via Gleno, ha incontrato il direttore Antonina D’Onofrio, la comandante della polizia penitenziaria Letizia Tognali e diversi operatori, per poi visitare i reparti, le celle, i laboratori. Il problema dei “giovani adulti” - Nel mosaico delle cifre si distende l’immagine dei bisogni penitenziari. Dei 583 reclusi, 290 sono stranieri; le donne sono in tutto 37. Una problematica emergente è quella dei 46 “giovani adulti”, i detenuti tra i 18 e i 24 anni, fascia d’età in crescita e con nuove criticità. Sono complessivamente circa 300 i detenuti con problemi di dipendenza da sostanze. Il futuro passa da formazione e lavoro: 284 detenuti frequentano il Cpia (l’istruzione per gli adulti che consente di ottenere la licenza media), 20 sono iscritti all’Istituto alberghiero, 3 a quello per la moda, 11 all’Università. Da Antonina D’Onofrio, direttore del carcere, giunge “il ringraziamento alla Commissione per l’attenzione mostrata alla casa circondariale. Quando un’istituzione si accosta al carcere, evidenzia un senso di grande disponibilità”. “Il sovraffollamento è significativo - rileva Alessia Villa, presidente della Commissione carceri - e anche il personale è in sofferenza. Abbiamo tracciato il quadro sulle progettualità che ci stanno a cuore, in particolare la formazione e il reinserimento lavorativo. Stiamo lavorando su uno specifico protocollo che a livello regionale metta allo stesso tavolo più soggetti, dall’amministrazione penitenziaria alle associazioni imprenditoriali e gli enti locali, per incentivare l’inserimento lavorativo. I dati del Cnel lo indicano chiaramente: i detenuti che fanno esperienze lavorative hanno una recidiva di appena il 2%, senza lavoro invece sale al 70%. A Bergamo i detenuti in articolo 21 (cioè in lavoro esterno, ndr) non sono moltissimi: 17 uomini e una sola donna, speravamo in numeri maggiori. Abbiamo chiesto che si lavori maggiormente in questa direzione”. Tante criticità - Nelle due ore di visita, i consiglieri hanno toccato con mano la realtà di chi vive ristretto e del personale in sofferenza d’organico: “La situazione ha delle criticità - commentano Davide Casati e Jacopo Scandella, esponenti del Partito democratico -: occorre insistere sull’ampliamento degli articoli 21, mettere al centro progettualità per affrontare l’aumento dei giovani adulti, sostenere il personale che qui lavora con ritmi elevati, poco turnover e gli straordinari non pagati. Risulta fondamentale il sostegno sanitario, la collaborazione con l’Asst Papa Giovanni è preziosa e occorre rafforzare l’attenzione sulla salute mentale”. Per Michele Schiavi, consigliere di Fratelli d’Italia, “sono tre gli aspetti su cui concentrare l’attenzione. Il primo è quello delle condizioni igienico-sanitarie dei bagni e delle docce delle celle, su cui un miglioramento è necessario: ci è stato assicurato che i fondi sono disponibili e che a breve si interverrà. Il secondo aspetto è l’inserimento lavorativo, i numeri al momento sono troppo bassi: bisogna aprirsi di più al mondo dell’impresa e alle opportunità che anche i Comuni possono dare. Infine, l’organico di polizia penitenziaria è insufficiente e la caserma interna ha bisogno di interventi strutturali: abbiamo preso l’impegno di riferire questa situazione ai nostri rappresentanti di governo”. Udine. Proteste in carcere per il suicidio di un detenuto, in 15 a processo telefriuli.it, 7 dicembre 2024 Protestarono in carcere a Udine dopo il suicidio di un detenuto, danneggiando le strutture del penitenziario. L’accusa ha chiesto condanne per un totale di 11 anni di reclusione. È terminata così oggi in Tribunale a Udine davanti al giudice Paola Turri la requisitoria del pm durante il processo abbreviato per danneggiamento e interruzione di pubblico servizio che vede imputati 13 uomini che il 7 novembre 2022 erano reclusi in via Spalato. Quel giorno, un 22enne dominicano, in misura cautelare con l’accusa di tentato omicidio per un accoltellamento avvenuto durante una rissa a Trieste, si tolse la vita nel carcere friulano. Quel tragico gesto portò i detenuti della terza sezione a manifestare. Durante le proteste, che continuarono anche il giorno seguente, furono danneggiate 4 telecamere, le casse dell’impianto di diffusione, il sistema antincendio un finestrone e i blindi di sei celle della sezione, rese inagibili. Per quella vicenda sono imputate 15 persone. Due hanno scelto la strada del patteggiamento e del rito ordinario. Per le 13 rimanenti, l’accusa ha chiesto 10 mesi di reclusione ciascuno. In un solo caso la richiesta è stata di un anno di reclusione. La sentenza è attesa per fine gennaio. Torino. Violenze nel carcere, il dietrofront del teste fa assolvere due agenti di Cristina Palazzo La Repubblica, 7 dicembre 2024 Primo verdetto nel maxi processo per le torture al Lorusso e Cutugno, un ex detenuto non riconosce le guardie accusate di umiliazioni in cella. Due agenti della polizia penitenziaria sono stati assolti nel maxiprocesso sulle presunte violenze ai detenuti nel carcere Lorusso e Cutugno. Erano loro contestate vessazioni durante le perquisizioni nei confronti di un detenuto che aveva raccontato agli inquirenti le umiliazioni subite: gli sarebbe stato spruzzato del detersivo per i piatti sulle lenzuola che usava in cella e gli sarebbero stati gettati i vestiti a terra. Durante il processo il testimone non ha però più riconosciuto i due agenti come gli autori di questi gesti. Di qui l’assoluzione dei due imputati “per non aver commesso il fatto”. “Abbiamo sempre spiegato che i due agenti non potevano aver commesso quegli episodi perché non erano in servizio, per cui quanto veniva loro contestato non era verosimile”, ha detto l’avvocato Beatrice Rinaudo, che ha difeso entrambi. Questioni, ha sottolineato, “che abbiamo evidenziato sin dalla fase di indagini e anche ribadito, ma finora erano rimaste inascoltate. Meno male che alla fine abbiamo trovato un tribunale che le ha comprese”. Prosegue intanto il processo ordinario nei confronti dei colleghi degli agenti: sotto accusa sono una ventina circa, che devono rispondere del reato di tortura. L’inchiesta del pm Francesco Pelosi fu tra le prime in Italia a puntare i fari sulle ombre della vita in carcere, dando il via ad altre indagini simili in altri penitenziari piemontesi. Le due assoluzioni pronunciate ieri si aggiungono alle tre già arrivate nella tranche del processo con rito abbreviato che era stato scelto dai vertici del carcere delle Vallette. I giudici della corte d’Appello nelle scorse settimane avevano infatti fatto cadere le accuse assolvendo l’ex direttore delle Vallette, Domenico Minervini e avevano confermato l’assoluzione di Giovanni Alberotanza, all’epoca dei fatti comandante del reparto di polizia penitenziaria che era accusato di favoreggiamento, e l’allora agente Alessandro Apostolico per “insufficienza di prove”. All’ex direttore in primo grado era stata inflitta una multa di 300 euro per omissione in atti d’ufficio, per non aver denunciato le presunte violenze che gli sarebbero state segnalate. Vicenza. Dolci, biscotti e snack: “Libere Golosità” apre il laboratorio che impiega detenuti di Francesco Brun Corriere del Veneto, 7 dicembre 2024 Sorgerà nel cuore di Vicenza: raccolti 10mila euro. “Reinseriamo nella società”. Un nuovo laboratorio nel cuore di Vicenza, per offrire opportunità lavorative stabili a chi si trova nella delicata fase di reinserimento sociale dopo aver scontato la pena. È prevista per l’estate del 2025 l’inaugurazione del nuovo locale di Libere Golosità, progetto di pasticceria artigianale a cura della cooperativa sociale “Il Gabbiano”. Dal 2019 la coop opera all’interno della casa circondariale di Vicenza con l’obiettivo di favorire il reinserimento sociale dei detenuti, i quali hanno la possibilità di dare forma a biscotti, torte, snack salati e lievitati stagionali come colombe e panettoni, poi venduti nei negozi già attivi a Vicenza e Schio. La realizzazione del nuovo laboratorio prevede la ristrutturazione di uno spazio già individuato e l’acquisto di un forno rotativo professionale dal costo di 20 mila euro. Grazie alla generosità di sostenitori e collaboratori, sono stati già raccolti 10 mila euro, e la cooperativa punta a raggiungere il traguardo grazie alle donazioni che arriveranno tramite la piattaforma Eppela, al link https://www.eppela.com/projects/11668. “Questo nuovo spazio consentirà a persone in semilibertà o in affidamento sociale - spiega Luca Sinigallia, legale rappresentante di Gabbiano 2.0. - nonché a chi ha completato la pena di proseguire il lavoro iniziato all’interno del carcere, dando loro la possibilità di riprendere la vita da persone libere senza dover ripartire da zero, contribuendo così a ridurre le recidive. L’apertura del nuovo laboratorio esterno è un passo naturale anche per l’implementazione dei servizi socio sanitari del territorio”. Come spiega Sinigallia, quello dell’uscita dal carcere è paradossalmente il momento più critico. “Spesso capita infatti che le persone non abbiano alcuna risorsa - le sue parole - nemmeno a livello familiare, e si trovano letteralmente in strada con un sacchetto nero contenente i vestiti. Fortunatamente esistono delle iniziative che partono da prima della fine della pena, per cominciare a muovere i primi passi del mondo esterno”. Un altro tema irrisolto è quello dei migranti senza permesso di soggiorno. “Al netto di coloro che hanno ricevuto il foglio di via - racconta Sinigallia - alle altre persone che hanno avuto difficoltà nell’ottenimento del permesso di soggiorno viene bloccato l’iter: in questo modo hanno diritto al lavoro finché hanno la pena da scontare, e nessun diritto una volta scarcerati. C’è quindi il paradosso di persone che si mettono in gioco, spesso facendo vedere la loro voglia di riscatto, ma una volta terminata la pena per noi non è più possibile continuare il rapporto di lavoro”. Al momento, spiega il rappresentante della cooperativa, il laboratorio di pasticceria è nel picco natalizio del lavoro, con una decina di persone assunte, mentre con il laboratorio esterno la cooperativa conta di raddoppiarle. Grosseto. Reinserimento nel lavoro. Sei nuovi “potini” qualificati. Sono detenuti in carcere La Nazione, 7 dicembre 2024 Concluso il progetto “Compaio” finanziato dalla Regione e promosso da Cna Servizi. I partecipanti hanno sostenuto l’esame e ottenuto la certificazione per le loro competenze. A Grosseto ci sono sei nuovi “potini” e anche “curatori di interventi ortoflorovivaistici” formati e certificati, grazie al progetto “Compaio: Competenze in panificazione interventi ortoflorovivaistici a Grosseto”. Il progetto è finanziato dalla Regione Toscana e promosso da Cna Servizi. Nei giorni scorsi sei persone detenute nel carcere di Grosseto hanno sostenuto l’esame e ottenuto la certificazione di competenze che potranno utilizzare nella loro futura attività lavorativa. “È stato un percorso molto interessante - commenta Elena Dolci, responsabile di Cna Servizi - che si è rivelato tale anche per i corsisti. Ci auguriamo che questa certificazione possa servire loro per il reinserimento lavorativo e sociale nella comunità”. “Siamo molto soddisfatti di essere riusciti a portare fino all’esame finale i sei detenuti che hanno partecipato al corso fin dall’inizio: non era scontato e non è stato facile” spiega Eleonora D’Amico, responsabile dell’Area trattamentale Casa circondariale Grosseto. “Ognuno di loro, nei mesi da maggio ad ora, ha dovuto affrontare le udienze del proprio procedimento penale, i mesi caldissimi dell’estate e il sovraffollamento che non dà tregua; ma, alla fine, tutti sono riusciti a superare con ottimi risultati l’esame finale ed ottenere la certificazione delle competenze acquisite. Un ringraziamento doveroso va a tutto il corpo docente e allo staff organizzativo del corso per aver saputo approcciarsi alla particolare realtà del Carcere”. Il progetto “Compaio” proseguirà nelle prossime settimane con il corso per “Operatori della lavorazione di prodotti panari, dolciari e da forno”: i partecipanti impareranno a preparare materie prime, attrezzature e macchinari, provvedere alla lavorazione di paste di base, dolci elaborati, prodotti panari e prodotti sostitutivi del pane; un modulo sarà dedicato anche alla gestione degli ordini e al ricevimento, controllo e stoccaggio degli approvvigionamenti e delle derrate alimentari. Perugia. La Cooperativa GBM assume un detenuto con il progetto “Ri-costruire il futuro” legacoopumbria.coop, 7 dicembre 2024 Cinque quelli che hanno cominciato a lavorare stabilmente nelle aziende edili del territorio. Il Cesf - Centro edile per la sicurezza e la formazione di Perugia ha recentemente presentato i risultati del progetto “Ri-costruire il futuro - per l’integrazione socio-lavorativa dei carcerati”, un’iniziativa avviata lo scorso febbraio con l’obiettivo di fornire una formazione professionalizzante ai detenuti e favorire il loro inserimento lavorativo nelle aziende del territorio. Il progetto è stato realizzato grazie al sostegno della Fondazione Perugia e si è concluso nelle settimane scorse con l’assunzione di nove detenuti presso imprese locali, beneficiari di misure diurne alternative alla detenzione. Nicola Stabile, Presidente della GBM Società Cooperativa, ha sottolineato l’importanza di aderire a iniziative come questa, affermando: “La missione di una cooperativa è valorizzare il territorio e il recupero del valore sociale ne è parte integrante. Aiutare chi ha commesso errori significa anche arricchire le nostre comunità”. Aiutare persone che desiderano riscattarsi è utile anche perché portano un’energia positiva e una determinazione che possono contribuire significativamente alla crescita aziendale e al miglioramento della società”. Il percorso formativo - Nella fase iniziale del progetto, i funzionari dell’istituto penitenziario hanno selezionato 25 detenuti idonei a beneficiare delle disposizioni dell’articolo 21, che consente loro di uscire dal carcere durante il giorno per motivi lavorativi. Tra questi, 15 allievi hanno manifestato interesse per il settore delle costruzioni, partecipando al percorso formativo che ha preso il via il 15 maggio. Le attività didattiche si sono svolte inizialmente in un laboratorio attrezzato all’interno del complesso penitenziario, per poi proseguire nel cantiere-scuola appositamente creato nel perimetro carcerario. Durante il corso, alcuni partecipanti si sono ritirati, ma nove detenuti hanno completato con successo il percorso. A settembre sono stati organizzati colloqui tra le associazioni datoriali del settore e le imprese edili locali, per individuare aziende disponibili a integrare gli allievi nel proprio organico. Successivamente, sono stati effettuati incontri individuali tra i rappresentanti delle imprese e i partecipanti al corso. Il progetto si è concluso il 23 ottobre con la consegna degli attestati di partecipazione. La collaborazione con le imprese - Salvatore Bartolucci, imprenditore e coordinatore del corso, ha sottolineato l’importanza del contributo delle aziende fornitrici, che hanno offerto materiali e attrezzature indispensabili a condizioni agevolate o gratuitamente, considerando la valenza sociale del progetto. Tra le aziende che hanno collaborato si segnalano Mac Srl, Kimia Spa e Sir Safety System Spa. Matteo Ragnacci Presidente di Legacoop Produzione e Servizi Umbria ha elogiato il ruolo della GBM e delle cooperative aderenti a Legacoop Umbria, rimarcando come queste realtà mettano al centro i valori della cooperazione, l’inclusività e l’attenzione alle comunità locali. “È un esempio di società più inclusiva, equa e solidale per tutti”. Una rete di supporto per il reinserimento - Alla presentazione dei risultati del progetto hanno partecipato Antonella Grella, direttrice del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia “Capanne”, e Salvatore Bartolucci, coordinatore del corso. Presenti anche esponenti delle principali associazioni di categoria, tra cui Agostino Giovannini (Presidente Cesf), Giuliano Bicchieraro (Vicepresidente Cesf e Segretario Filca-Cisl Umbria), Albano Morelli (Presidente Ance Umbria), Elisabetta Masciarri (Segretario Fillea-Cgil Umbria), Alessio Panfili (Segretario Feneal-Uil Umbria), Pasquale Trottolini (Direttore Cna Costruzioni Umbria) e Augusto Tomassini (Presidente Anaepa Confartigianato Edilizia Perugia). Firenze. “Futuro prossimo: nessun ragazzo in carcere”, evento dell’Arci di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 7 dicembre 2024 L’evento dell’Arci a Firenze mette sotto la lente di ingrandimento i provvedimenti del governo che incrementano la presenza di minori nelle carceri. L’analisi di Marco Solimano, Garante di Livorno. I ragazzi detenuti negli Istituti penali minorili del nostro Paese aumentano sempre più, principalmente per effetto delle nuove norme, come il decreto Caivano, che ha introdotto anche reati lievi che prevedono la carcerazione: al 15 settembre del 2024, come testimoniano i dati dell’associazione Antigone, erano 569 i ragazzi detenuti nei 17 Ipm, il numero più alto mai fatto registrare. In 22 mesi, dall’insediamento dell’attuale governo, sono cresciuti del 48 per cento. Da questi dati è partito il confronto ‘Futuro prossimo: nessun ragazzo in carcere’, l’evento dell’Arci dedicato ai minori reclusi. Si tratta della seconda edizione di ‘Liberare il carcere’, l’evento organizzato da Arci, in collaborazione con Arci Firenze e Novaradio, dopo il primo appuntamento nazionale sul carcere e le donne dello scorso anno. “La giustizia minorile italiana è stata per anni un esempio virtuoso a livello europeo - affermano dall’Arci - con un calo costante dei minori reclusi e una condizione di vita dignitosa, con percorsi di inclusione strutturati ed efficaci nella maggior parte degli istituti. Ma negli ultimi anni la situazione è cambiata”. Una situazione che si allinea, a quella generale e drammatica delle carceri italiane con il sovraffollamento che non accenna a diminuire e i continui casi di suicidio. È Marco Solimano, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno e referente nazionale Arci persone private della libertà, a illustrare nel podcast i contenuti dell’incontro, al quale hanno partecipato con lui Vincenzo Scalia, docente di Sociologia della devianza all’Università di Firenze, Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni dei detenuti di Antigone, Katia Ponetti, dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, Sara Corradini, referente settore carcere di Cat Coop. Sociale di Firenze, Sofia Ciuffoletti, presidente Altro Diritto e Garante dei detenuti di San Gimignano, e Carlo Testini, coordinatore nazionale Arci Lotta alle Disuguaglianze, Libertà e Diritti Sociali. Aversa (Ce). Menzione speciale al CESP per il progetto “Biblioteche innovative in carcere” di Anna Grazia Stammati* cobas-scuola.it, 7 dicembre 2024 Venerdì 5 dicembre si è svolta, a Roma, la premiazione del CESP-Rete delle scuole ristrette, nell’ambito della rassegna Più libri, più liberi (la Fiera della media e piccola editoria che si tiene ogni anno presso “La Nuvola”, il Centro Congressi realizzato dall’architetto Fuksas). La Menzione speciale è stata consegnata alla Casa di reclusione di Aversa per essersi resa disponibile a svolgere il progetto “Biblioteche innovative in carcere”, inserita nel Maggio dei Libri 2024, per il seminario svolto ad Aversa l’11 ottobre scorso (l’iniziativa si sarebbe, infatti, dovuta tenere il 31 maggio, ma per problemi interni alla Casa di Reclusione è stato poi spostato). La giuria era composta, tra gli altri, dallo scrittore Filippo La Porta (saggista e giornalista), Giuliana Marazi (Associazione Editori Italiani), Francesca Vannucchi (Primo Tecnologo presso la Direzione Centrale per la Comunicazione, informazione e servizi ai cittadini e agli utenti dell’Istat). Insieme al nostro ci sono stati anche altri interventi sul carcere, ma sono iniziative singole e legate più che altro a esperienze di lettura, mentre Biblioteche innovative in carcere è, innanzitutto, un progetto di Rete che copre, al momento, più città (Saluzzo, Grosseto, Massa Marittima, Livorno, Gorgona, Roma, Aversa, Giarre) e ha una finalità concreta, ovvero l’assunzione dei detenuti, con regolare contratto (seppur sottoposto ad un taglio remunerativo di circa 1/3 rispetto ai contratti nazionali di categoria), durante la detenzione e una occupazione una volta fuori dal carcere come “operatori di biblioteca” (impresa non facile ma che si sta concretizzando, almeno per alcuni). Tale progettualità è stata accolta con grande favore dalla platea dei presenti e abbiamo invitato al seminario che faremo a febbraio presso Rebibbia, sia il pubblico presente, sia la giuria (che ha mostrato molto interesse e si è resa disponibile ad intervenire). Abbiamo già fissato, infatti, un seminario nazionale a Roma presso Rebibbia, per febbraio, per presentare la “Guida ragionata al Fondo Flick”, con premessa del Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick che venuto a conoscenza del nostro lavoro sulle biblioteche in carcere (lo abbiamo ospitato come relatore in un paio di convegni a Rebibbia), ha donato circa mille volumi della sua biblioteca personale ai nostri “corsisti” di Rebibbia, i quali hanno inventariato, classificato, collocato i volumi in una delle biblioteche di sezione e ne hanno redatto una guida ragionata insieme ad una tirocinante dell’Università di Roma Tre e ad un giovane avvocato dello studio Flick. A margine dell’incontro hanno chiesto il nostro contatto varie realtà presenti, tra cui i rappresentanti del Comune di Pordenone che hanno partecipato con il Progetto “Biblioteca senza barriere. Un progetto di inclusione attraverso la tecnologia”, il Circolo dei lettori di Bisceglie che svolge alcuni progetti in carcere, la 8 Edizioni, interessata a diffondere alcuni testi editi sul carcere. Vi terrò informate/i sull’esito dei contatti (intanto preparatevi ad essere presenti a Roma per metà febbraio, o giù di lì). *Presidente CESP Forlì. Scambio di auguri nei laboratori produttivi in carcere sestopotere.com, 7 dicembre 2024 Si è tenuto ieri il tradizionale scambio di auguri in occasione del Natale tra i detenuti coinvolti nei laboratori produttivi interni alla Casa Circondariale di Forlì e gli oltre 100 ospiti che hanno partecipato all’iniziativa tra cui istituzioni, imprese ed operatori. Dal 2006 ad oggi nel carcere di Forlì sono stati realizzati vari laboratori: assemblaggio, saldatura, falegnameria, cartiera, esperienze di grande successo sia in termini occupazionali che economici, che hanno garantito nel tempo a oltre 125 detenuti regolari contratti di lavoro, superando le difficoltà strutturali, normative e relazionali che caratterizzano le attività in carcere. L’evento si è aperto con gli onori di casa della direttrice della Casa Circondariale Carmela De Lorenzo che dopo aver dato il benvenuto agli invitati ha sottolineato “l’importanza di questi laboratori produttivi all’interno del carcere che permettono ai detenuti di imparare un mestiere e, attraverso il lavoro, essere rieducati alle regole della società civile per scongiurare i pericoli di recidiva”. Ha coordinato i lavori Lia Benvenuti direttore generale Techne, l’agenzia formativa pubblica di proprietà del Comune di Forlì (attraverso Livia Tellus Romagna Holding Spa) e del Comune di Cesena, che all’interno dei Laboratori ha funzioni di regia e tutoraggio. Sono intervenute numerose autorità tra le quali: l’onorevole Rosaria Tassinari deputata della Repubblica italiana, Francesca Lucchi, consigliera regionale dell’Emilia Romagna, per il Comune di Forlì Angelica Sansavini Assessora al welfare di comunità, Diritti civili e umani e Paola Casara Assessora alle politiche per l’impresa, servizi educativi, scuola e formazione; per il Comune di Cesena Carmelina Labruzzo Assessora ai Servizi per le persone e le famiglie, e inoltre Milena Garavini, sindaco di Forlimpopoli oltre a rappresentanti della Camera di Commercio, dei Centri per l’impiego, dei sindacati, nonché di associazioni e imprese. Tra gli intervenuti numerosi soci dell’impresa sociale Altremani nata per operare esclusivamente sui temi dell’esecuzione penale attraverso il lavoro dei detenuti ed ex-detenuti del carcere di Forlì. L’impresa sociale ha il delicato ed importante ruolo di gestione delle commesse dei laboratori e di assunzione dei detenuti dopo un periodo formativo e di tirocinio. È l’unica società nata in provincia che ha per scopo la sicurezza sociale attraverso la riabilitazione dei detenuti e il contrasto all’illegalità nei giovani. “Come ogni anno abbiamo voluto rinnovare gli auguri ai detenuti dei laboratori - spiega Lia Benvenuti, direttore generale di Techne - a testimonianza che il lavoro è l’unico vero strumento per rieducare le persone alla legalità e dar loro una seconda possibilità”. Il momento degli auguri è stato anche l’occasione per tirare le somme di fine anno, facendo un bilancio in termini economici, etici e sociali, di queste importanti esperienze. “È un piacere essere qui oggi e vedere i risultati, per nulla scontati, di questi laboratori - sottolinea l’onorevole Rosaria Tassinari - ottenuti grazie al lavoro e alla collaborazione di una rete territoriale fatta di tanti enti pubblici e privati”. “A dimostrazione di risultati economici e produttivi davvero positivi vi diamo alcune note sui laboratori - spiega Daniele Versari, presidente di Altremani - ed in particolare: i laboratori di assemblaggio, di saldatura, di cartiera e di falegnameria sono operativi 35 ore a settimana, ricevono commesse da 12 imprese del territorio e occupano una media di 18 detenuti presenti contemporaneamente nei vari laboratori. I detenuti coinvolti complessivamente nell’anno 2024 - continua Versari - sono stati 31”. I laboratori sono sostenuti da un Protocollo territoriale di oltre 43 firmatari, tra cui Comune di Forlì, Unione Valle Savio, Unione Rubicone e mare, Inail, sindacati, imprese e tanti altri, a testimonianza di una solida ed ampia rete territoriale, che dimostra quanto il territorio sia capace di lavorare in rete su un tema complesso come quello del carcere, ottenendo risultati concreti in termini di inserimenti occupazionali e obiettivi rieducativi. “Realtà come quella dei laboratori produttivi del carcere di Forlì - evidenzia Francesca Lucchi consigliera regionale - rappresentano un efficace strumento di riabilitazione per i detenuti che, attraverso un percorso di crescita personale, riacquistano dignità e riscatto sociale per un reinserimento nella comunità”. Livorno. Concerto in carcere: il coro dei detenuti e le Monday Girls Il Tirreno, 7 dicembre 2024 Cento posti a disposizione per il pubblico esterno: come partecipare. Un concerto speciale. Che si accende di Natale. Di colori. Di voglia di emozionare in un luogo che di colori brama. Il mondo di fuori entra dentro. Venerdì 20 dicembre varca il cancello della casa circondariale delle Sughere per diventare spettatore di un pomeriggio firmato dal maestro Cristiano Grasso. “Sarà per me un giorno speciale: alle 15 all’interno della casa circondariale “Le Sughere” ci sarà un concerto speciale: i miei cori - Coro UnAnime composto dai detenuti della Sezione Alta Sicurezza e Monday Girls - si esibiranno per un pubblico esterno di 100 spettatori che potranno assistere gratuitamente al concerto”. Per il Coro UnAnime sarà un debutto assoluto con un pubblico interamente esterno e il concerto ha la particolarità di vedere uniti i due cori che si esibiranno anche insieme in un vero e proprio processo di risocializzazione e tutto questo attraverso la musica. Immaginarsi il carico emotivo. Il cuore. Le emozioni. La voglia di aver cominciato un progetto che dà i suoi frutti. La musica che supera le barriere. Che parla. Che unisce. Il maestro Grasso questo sta facendo dentro al carcere delle Sughere. “Se siete interessati scrivete entro domenica 8 dicembre alla seguente email scrivendo i vostri dati, nome, cognome, data di nascita e numero documento per i controlli necessari all’ingresso alla seguente email: coroaltasicurezzalivorno@gmail.com”, chiude. Perché la voglia di andare oltre le barriere e l’occasione di conoscenza può accendere coscienze e cammini. La solitudine del carcere. Il fumetto di Tamiazzo di Francesco Verni Corriere del Veneto, 7 dicembre 2024 Nuova graphic novel del padovano con prefazione dell’attore Pennacchi. È, senza dubbio, tra i fumetti più interessanti dell’anno. “L’ergastolo di Santo Stefano. Fine pena mai” (Ultima Spiaggia, pagine 256, 20 euro) è la graphic novel del disegnatore padovano Stefano Tamiazzo che, per la prima volta, dopo lo steampunk della serie “La Mandiguerre” e la saga fantasy dei “Cynocephales”, ha voluto affrontare un tema sensibile come la situazione carceraria italiana. Ma lo ha fatto guardando al passato, raccontando, tra documentazione ferrea e licenze poetiche, l’intera vicenda del carcere borbonico di Santo Stefano costruito sull’isoletta dell’arcipelago delle Ponziane di Ventotene, Latina. Un’opera che Vittorio Giardino, maestro della Nona Arte, ha definito “splendido visivamente e straordinario narrativamente” e che sarà presentata domani alle 10.30 nella sala Rossini del Caffè Pedrocchi di Padova, evento dell’800 Padova Festival (info e prenotazioni su www.800padovafestival.it). “L’ergastolo di Santo Stefano”, impreziosito dalla prefazione dell’attore Andrea Pennacchi, fa viaggiare il lettore nel tempo, dal 1755, quando iniziarono i lavori di costruzione del famigerato carcere, fino ad arrivare, anno dopo anno, ritratto dopo ritratto, alla chiusura definitiva di quell’orrore nel 1965. Sorprendente la nascita del carcere. Realizzato su progetto di Francesco Carpi (che si ispirò ai principii del “Panopticon” di Bentham) in maniera che tutte le celle, costruite in una struttura a ferro di cavallo, fossero sempre sotto gli occhi un unico sorvegliante al centro del piazzale antistante. “La cosa terribile è che la piantina è quasi sovrapponibile con quella del teatro San Carlo di Napoli - spiega il disegnatore - un modo funzionale per tenere d’occhio tutti i detenuti e, cosa non meno importante, tagliare i costi della sorveglianza”. Prima il Regno delle due Sicilie con i Borboni, poi il Regno d’italia, il ventennio fascista e infine la Repubblica italiana che ne decreterà la chiusura. Una storia narrata attraverso le vicende degli uomini che hanno vissuto lo stesso brutale isolamento e destini radicalmente diversi. Molti criminali, ma anche i padri del Risorgimento e della Costituzione. Tra le vite disegnate da Tamiazzo, c’è quella di un capo camorrista così come quella dello scrittore e patriota Luigi Settembrini, del direttore illuminato Eugenio Perucatti così come dell’anarchico Gaetano Bresci (che aveva ucciso re Umberto I di Savoia) “suicidato” dai secondini. C’è anche Sandro Pertini, il futuro Presidente della Repubblica, incarcerato per motivi politici nel 1929. “Che siano esempi di uomini eccezionali o vite dimenticate, a volte immaginate - sottolinea Tamiazzo - spero che questi diciannove capitoli riescano a rappresentare, tra pietra e ferro, delle gradazioni di giustizia che oggi non possiamo più riconoscere con questo nome. Così come dovremmo guardare alle storie di oggi e riconoscere quello che, certamente, non potremo chiamare giustizia domani”. Il tutto con una narrazione anti-didascalica, avvincente e, alle volte, perfino poetica nella quale i disegni non sono solo funzionali al racconto ma hanno la capacità di compenetrare una sceneggiatura che non può distaccarsi dall’aspetto grafico. Un altro pregio di queste 250 tavole disegnate è la colorazione, realizzata a mezzatinta di grigi dal disegnatore, che solo nelle vignette più intense ritrova la luce del colore. Ddl sicurezza. Anche la Cgil al corteo di protesta del 14 dicembre di Giuliano Santoro Il Manifesto, 7 dicembre 2024 Quasi duecento adesioni di associazioni, partiti e organizzazioni sociali. Si allarga lo spettro delle adesioni alla manifestazione del prossimo 14 dicembre contro il Ddl sicurezza in discussione al senato. Ieri l’assemblea generale della Cgil ha deciso la partecipazione al corteo indetto dalla rete No Ddl Sicurezza “A pieno regime” in seguito alla grande e partecipata assemblea nazionale dello scorso 16 novembre alla Sapienza di Roma. Da Corso Italia si mobilitano per “chiedere il ritiro di un provvedimento che attacca le libertà personali fondamentali e l’espressione collettiva e democratica del dissenso, a partire dalla lotta contro la messa in discussione del diritto al lavoro”. La scelta segue le adesioni di federazioni di categoria come Fiom, Flc, Fillea e Flai e sindacati di base come Adl Cobas che da tempo stanno collaborando al percorso di costruzione della protesta, messo in piedi da uno spettro ampio che va da collettivi e centri sociali di tutt’Italia alle Acli passando per organizzazioni sociali come Arci ed esperienze storiche come Greenpeace, Amnesty international e Antigone. Il corteo sarà lo specchio di questa composizione larga e plurale che coinvolge centinaia di sigle, di cui daremo conto nei prossimi giorni e che fa capire che la lotta contro la svolta autoritaria del governo contro lotte sociali e forme di vita non compatibili e contro quello che gli organizzatori chiamano “modello Ungheria” rappresenta un terreno di ricomposizione concreto. La manifestazione muoverà alle 14 da piazzale del Verano, alle porte di San Lorenzo, fino a piazza del Popolo, incrociando villa Borghese e costeggiando le vie del centro. Il Ddl è approdato da qualche settimana a Palazzo Madama per la seconda lettura, dopo l’approvazione alla camera. Nonostante sia stato sottoposto ad alcune modifiche, la maggioranza vorrebbe accelerare i tempi e provare l’ennesima forzatura dando il via libera definitiva senza passare per la terza lettura. “Seppur forte nei numeri in parlamento, nel paese la propaganda della destra sta mostrando tutte le sue fragilità - spiegano dalla Rete “A pieno regime” - Criminalizzare ogni forma di dissenso, moltiplicare inverosimilmente il numero di reati contro chi protesta e disobbedisce rappresenta uno dei più gravi attacchi nella storia della Repubblica ai diritti fondamentali, al diritto di manifestare e dissentire, trasformando l’Italia in un paese autoritario. Non c’è alcuna sicurezza garantita da questo provvedimento. Si respira solo la paura della libertà e, soprattutto, delle piazze che si riempiono contro la guerra, il patriarcato, per la giustizia sociale e per fermare i cambiamenti climatici; paura degli scioperi; paura di chi non ha un tetto, di chi arriva nel nostro paese e viene detenuto immotivatamente, senza neanche il diritto ad una scheda Sim; di chi oppone resistenza agli abusi e alle violenze”. Migranti. “Ha ragione chi salva vite in mare”: il tribunale di Vibo Valentia contro decreti anti-Ong di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 7 dicembre 2024 Un giudice calabrese ha annullato il fermo amministrativo della nave Sea-Eye 4, accusata di non aver ascoltato la guardia costiera libica. Nel decreto Flussi la destra rende ancora più difficili i ricorsi. Intanto a Bruxelles l’estrema destra scrive il manifesto contro i salvataggi. Il governo Meloni continua ad alzare il livello di scontro con le organizzazioni non governative che salvano vite in mare, mentre i tribunali smontano il decreto Ong del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Lo scorso 4 dicembre - mentre in Senato veniva approvato il nuovo decreto Flussi - il tribunale di Vibo Valentia ha annullato il fermo amministrativo della nave Sea-Eye 4, deciso il 30 ottobre 2023 dopo un soccorso avvenuto nel Mediterraneo centrale durante il quale sono state salvate cinquanta persone. L’imbarcazione aveva attraccato nel porto di Vibo Valentia, dopo una sosta di emergenza a Lampedusa per far sbarcare un migrante che versava in gravi condizioni di salute. Qui è stata colpita da un fermo amministrativo per 20 giorni. Secondo le autorità avrebbe messo in pericolo la vita dei migranti ostacolando le manovre della guardia costiera libica cui non aveva dato ascolto. Per i giudici, invece, non è andata così. “Il salvataggio effettuato dalla Sea-Eye non ha mai rappresentato una minaccia per la sicurezza delle persone coinvolte. Il tribunale ha sottolineato che seguire le istruzioni della cosiddetta guardia costiera libica non sarebbe stato conforme al diritto internazionale”, scrive in una nota l’organizzazione. “Questa sentenza è un successo perché il giudice non si è concentrato su questioni procedurali, ma ha piuttosto sottolineato il dovere del salvataggio in mare e ha chiarito che nessuna persona dovrebbe annegare nel Mediterraneo”, ha detto Gorden Isler, presidente di Sea-Eye. Nell’ultimo anno e mezzo sono stati sospesi o annullati molti fermi o ordinanze di ingiunzione con sentenze dei tribunali di Crotone, Reggio Calabria, Genova, Brindisi, Ragusa, Salerno e per ultimo Vibo Valentia. La maggioranza, tuttavia, attraverso nuovi tecnicismi adottati nel decreto Flussi ha reso ancora più difficili i ricorsi e ha allungato la permanenza delle navi in porto. Le nuove misure - Una volta tornate in porto, le navi accusate di aver violato il decreto Piantedosi, infatti, potranno aspettare fino a dieci giorni prima che l’ordinanza del fermo amministrativo venga emessa e quindi poter fare ricorso. Secondo quanto previsto dal decreto Flussi “l’organo accertatore contesta la violazione mediante notificazione al destinatario e, senza ritardo e comunque entro cinque giorni, trasmette gli atti alla prefettura-ufficio territoriale del governo competente in relazione al luogo di accertamento della violazione”, dopodiché “il prefetto, nei cinque giorni successivi, emana l’ordinanza”. Solo in quel momento gli avvocati possono opporsi. Di fatto il rischio è stare fermi in porto fino a dieci giorni. La conseguenza è lasciare il Mediterraneo sguarnito di navi per il soccorso delle persone. Non solo, ora i tempi per impugnare i provvedimenti del prefetto sono diminuiti da sessanta a dieci giorni. A queste due nuove disposizioni si somma, poi, un rischio di incostituzionalità frutto di diverse interpretazioni della norma. “Il tentativo è quello di sottrarre ai giudici la possibilità di decidere proprio sui fermi amministrativi, perché la relativa valutazione sembrerebbe essere rimessa alla competenza decisionale del solo Prefetto”, spiega l’avvocato Dario Belluccio che insieme a Lidia Vicchio e Daniele Valeri ha difeso Sea Eye nel procedimento di Vibo Valentia. Questa visione emerge anche dalla difesa proposta dal ministero dell’Economia e quello dei Trasporti, in quanto guardia di finanza e guardia costiera, nel processo di Vibo Valentia nel quale hanno sostenuto che “l’alternatività tra rimedio giurisdizionale e ricorso al Prefetto, sancita dall’art. 204 bis del Codice della strada, non trovi alcun richiamo” e che dunque non si possano esperire sia l’uno che l’altro. I difensori delle Ong, invece, hanno obiettato che si possono esperire entrambe le strade, perché “l’autonoma impugnabilità del provvedimento risponderebbe alla necessità di disporre di un rimedio effettivo a fronte di un provvedimento che incide fortemente sulla sfera dei diritti degli interessati”. I giudici di Vibo Valentia hanno dato ragione alle Ong, confermando proprio che “l’autonoma impugnabilità del fermo amministrativo sia l’unica conforme a Costituzione (art. 113 e 24 Cost)”. L’attacco dei Patrioti - Intanto gli eurodeputati del gruppo Patrioti per l’Europa di cui fa parte anche la Lega hanno firmato un documento definito la “dichiarazione di Budapest sulla migrazione”, con cui chiedono “l’istituzione di un fondo per la stabilità dell’asilo per l’accoglienza nei paesi terzi” e “l’estensione dell’elenco dei paesi sicuri”. I Patrioti dicono di essere “determinati a proteggere i confini esterni dell’Europa, a fermare la migrazione illegale e a preservare l’identità culturale europea e la sicurezza dei nostri cittadini”. Chiedono anche un pacchetto che contenga “una rigorosa politica di rimpatrio”, “misure rigorose contro le Ong e le lobby che facilitano l’arrivo e l’ingresso di migranti illegali in Europa”, e il ritiro immediato di “tutte le sanzioni che puniscono gli Stati membri che hanno adottato misure efficaci per fermare la migrazione illegale”. L’ultimo attacco alle ong, questa volta da Bruxelles. Intanto occhi puntati sulla Corte di giustizia europea, che dovrà pronunciarsi sui paesi sicuri. E dunque sul destino del “modello Albania”. Migranti. Delmastro contro il Csm sul decreto flussi: “Le bocciature non competono a chi non è eletto” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 7 dicembre 2024 È la nuova puntata dello scontro tra Governo e giudici sui migranti iniziato ad ottobre. Il fedelissimo di Giorgia Meloni, sottosegretario alla Giustizia, difende la scelta del Centro migranti in Albania: “La Corte di giustizia europea ci darà ragione”. Le parole di Sergio Mattarella non sono bastate, Andrea Delmastro rilancia l’offensiva contro la magistratura e cade nel vuoto il monito del capo dello Stato ad evitare che i poteri dello Stato vengano trasformati in “fortilizi contrapposti”. È la nuova puntata dello scontro tra governo e giudici sui migranti iniziato ad ottobre. Il fedelissimo di Giorgia Meloni, sottosegretario alla Giustizia, difende la scelta del centro migranti in Albania, attacca il Csm e si dice certo che “la Corte di giustizia europea ci darà ragione”. Delmastro se la prende con l’organo di autogoverno della magistratura, “colpevole” di avere bocciato il “decreto flussi” del governo: “I pareri si ascoltano sempre, le bocciature non competono a chi non è eletto”. Lo scontro, appunto, va avanti da due mesi, da quando il tribunale di Roma ha scelto di non convalidare i trasferimenti di migranti in Albania e il governo ha immediatamente reagito approvando il decreto che, tra le altre cose, trasferisce alle Corti d’appello la competenza a decidere su questi temi. E qui è entrato il gioco il Csm che, in un parere non vincolante, ha criticato la norma per il timore di un sovraccarico sulle Corti d’appello che rischierebbero di non gestire con questi dossier con la rapidità necessaria. Parere che, appunto, Delmastro getta nel cestino: il governo, assicura “continuerà legittimamente, forte del consenso popolare, a programmare le politiche migratorie”, compito che non tocca invece “ad altri attori sguarniti del consenso popolare”. Il sottosegretario ostenta sicurezza, “la Corte di giustizia europea ci darà ragione sicuramente perché considererei folle che l’Europa dica che non esistano più frontiere”. La questione in realtà è più complessa, perché i giudici non hanno affermato che non esistono più le frontiere, ma più semplicemente che il decreto sui “paesi sicuri” nei quali possono essere rimpatriati i migranti non rispetta la sentenza della Corte Ue di inizio ottobre. La replica dal Csm arriva da Ernesto Carbone, membro laico e parlamentare Pd: “Strano concetto delle regole democratiche (quello di Delmastro, ndr), ma soprattutto sgrammaticature e toni che non ci si aspetta da chi rappresenta le Istituzioni”. Simile il commento di Filiberto Zaratti, Avs: “È l’idea meloniana della dialettica democratica, un senso delle istituzioni pari a zero. Ma Delmastro ne ha anche per la giudice Iolanda Attacco a apostolico, la prima ad opporsi alle espulsioni accelerate dei migranti previste dal decreto Cutro e che era finita al centro delle polemiche per dei video diffusi anche da Matteo Salvini in cui lei partecipava ad una manifestazione a favore dei migranti. La giudice ieri si è dimessa e il sottosegretario commenta così: “Non posso provare simpatia per un giudice che aggredisce verbalmente le forze dell’ordine, che mina la serenità del giudizio con un pregiudizio ideologico. Non sono mai felice quando una persona si dimette, è una sconfitta per il sistema. Mi spiace umanamente. Certo è che i presupposti per dimettersi non li ho posti io ma lei stessa”. La segretaria Pd Elly Schlein ribatte: “Non conosco le ragioni che hanno portato la dottoressa Apostolico a dimettersi. Se anche una minima parte fosse dovuta agli attacchi indegni che le sono arrivati dal governo, dalla maggioranza, dalla destra che governa il paese sarebbe gravissimo. Gravissimo. Siamo di fronte a una destra che non accetta di dovere - come tutti - rispondere alle leggi”. Marc Lazar: “Si torna a criticare la democrazia come negli anni Trenta del 1900” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 7 dicembre 2024 Il politologo: “Il malcontento mi ricorda il tempo del comunismo e del fascismo Il rigetto del mondo occidentale è lo stesso teorizzato in Russia e in Cina”. Quel che colpisce Marc Lazar, professore di Storia e Sociologia politica a Sciences Po a Parigi e di Relazioni italo-francesi per l’Europa alla Luiss di Roma, è l’ampiezza del fenomeno: il 70% di italiani convinti dell’inevitabile declino dell’Occidente. Delle sue colpe, di una crisi irreversibile di senso e di valori. È come se i cittadini fossero a disagio nelle democrazie liberali in cui vivono. Quasi non ne riconoscessero più la legittimità. Questo la sorprende? “Mi sorprende l’ampiezza del dato e l’evidenza di una situazione di gravissimo pericolo. Che mi fa pensare - e attenzione, questo non significa che sia la stessa cosa - alla crisi e al rigetto delle democrazie europee degli anni ‘20 e ‘30 del ventesimo secolo”. Ai tempi del comunismo, del fascismo e del nazismo? “Si presentavano come modelli opposti alle democrazie, criticando le democrazie, e avevano un sostegno anche da parte di Paesi che non erano in regimi di dittatura. Come la Francia o la Gran Bretagna”. Che correlazione vede? “Questo rigetto del mondo occidentale è teorizzato in Russia e in Cina, nonostante queste due potenze non abbiano gli stessi obiettivi, ideologicamente si oppongono a un modello democratico che considerano superato. Questo ha avuto un impatto ovviamente su alcuni Paesi del Sud globale, ma anche in diversi Paesi europei dove alcuni esponenti politici in passato hanno indicato Putin come modello”. Ad esempio? “Salvini in Italia, Zemmour e anche un po’ Marine Le Pen in Francia. C’è quindi stata una critica venuta dall’esterno che ha avuto un impatto all’interno. C’è un secondo elemento che riguarda l’Islam politico e la sua critica durissima contro il degrado dei costumi occidentali”. Critica che fa anche Putin... “Siamo dipinti come società occidentale decadente, priva di valori, piena di omosessuali. Anche questo ha un impatto non in tutte le popolazioni immigrate di origine araba o di religione musulmana, solo in alcune frange di quelle popolazioni. Infine c’è il mondo accademico che nel nome della decolonizzazione e della critica durissima dei crimini dell’Occidente ha contribuito a questa percezione”. Quei crimini però ci sono stati... “È vero che ci sono stati crimini durante la colonizzazione, ma questo ha dato luogo a una critica permanente del modello occidentale come ipocrita e corrotto. Mi colpisce che tutto questo arrivi a un livello così alto in Italia”. In Francia non è così? “Anche da noi ci sono indagini che parlano del declino dell’Europa e del mondo occidentale rispetto alla forza della Cina. Insieme a una profonda crisi democratica. In Francia la sfiducia nei partiti ha raggiunto l’86% e a rendere la situazione più esplosiva è una situazione sociale molto complicata, con un’enorme preoccupazione sul potere d’acquisto”. A proposito di potere d’acquisto, lei ha appena pubblicato un volume in inglese per Feltrinelli che si intitola Left - traduco - crisi e sfide della sinistra europea. Crede che questa crisi sia cominciata quando la sinistra si è arresa alla logica del mercato e ai meccanismi incontrollati della globalizzazione? “Ci sono molte sfumature. Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 la socialdemocrazia ha pensato di aver vinto contro il grande fratello comunista che crollava. E ha creduto si potesse avere una globalizzazione felice che avrebbe portato molti vantaggi. Tutto questo si è cristalizzato nel dibattito sulla terza via: Blair, Schroeder, D’Alema, Prodi, con un legame forte con il partito democratico di Bill Clinton”. Secondo molti è il peccato originale... “C’è un’interpretazione molto diffusa secondo cui ci sarebbe stata un’assimilazione totale delle proposte neoliberiste, ma non è vero. Questi partiti hanno preso alcuni elementi dei neoliberismi e cercato di adattarli al loro ideale di uguaglianza e di giustizia sociale. Il problema è che molte politiche pubbliche non hanno convinto della loro efficacia e che non c’è stata un’analisi di quel che ha funzionato e quel che invece no. Nel frattempo, i ceti popolari classici cambiavano o perdevano il posto di lavoro e nascevano nuovi ceti popolari legati alla precarizzazione del mercato del lavoro e alla disoccupazione”. E la socialdemocrazia perdeva la sua forza... “Non si capisce quale sia il modello alternativo che propone, se ce n’è uno, in un contesto in cui la politica conta sempre meno nei confronti dei grandi gruppi mondiali”. E arriviamo alla plutocrazia che si intravede nel ruolo di Elon Musk negli Stati Uniti. Ma restando in Europa, non crede che le spinte populiste siano riuscite a scardinare sistemi un tempo apprezzati per la loro stabilità come Germania e Francia... “In Germania si dice che la Cdu dovrebbe vincere, ma L’Afd sta crescendo molto. Quanto alla Francia, la situazione è davvero gravissima, perché da una parte c’è questa diffidenza politica altissima, maggiore che in Italia, unita a un disagio sociale molto forte. Il terzo elemento è la dimensione culturale e identitaria: quest’angoscia che vediamo nei dati del Censis, quest’idea del declino, è dovuta anche alla diversità che è cresciuta nelle nostre società. Si è ridotta la possibilità di un senso comune tra i cittadini, che non sanno più cosa significhi essere italiani, francesi o tedeschi. Ci sono meno valori universalmente condivisi. E un rapporto difficile tra città, regione, nazione ed Europa”. Il riferimento di Trump in Europa è Orban. Dobbiamo temere che la democrazia illiberale si faccia strada anche da noi? “In Italia c’è una resistenza legata alla capacità di assorbimento delle cariche di protesta o populiste da parte delle vostre istituzioni. Avete una capacità che io chiamo di “acculturazione democratica”. Una Costituzione difficile da cambiare, molti hanno tentato e non ci sono riusciti. Un presidente della Repubblica che gioca un ruolo importante. Siete più forti di quanto credete”.