Suicidi in carcere: la battaglia dei numeri sulla pelle dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2024 Ieri l’ultimo caso nel carcere genovese di Marassi. Ormai sono 85 i reclusi che si sono tolti la vita nel 2024, 79 per il Garante nazionale. Il tragico record del 2022 era di 84 suicidi. La questione dei suicidi nelle carceri italiane è un dramma che, anno dopo anno, si ripresenta con una gravità sempre crescente. Un dramma che non riguarda solo i numeri, ma soprattutto le vite spezzate e le storie dimenticate dietro le fredde statistiche. Eppure, proprio sui numeri, ci si perde. Sono 79, 83 o 85 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno? E questa discrepanza, apparentemente piccola, riflette una più profonda crisi di trasparenza e responsabilità. Secondo il Garante nazionale, tramite l’analisi dei dati aggiornati al 2 dicembre, i suicidi sono stati 79; il portale “Ristretti Orizzonti” ne conta 85, al netto di un caso verificatosi in un centro di permanenza per i rimpatri; il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in un’intervista a Il Foglio, non ha contestato il dato di 83 aggiornato a quel momento. La differenza non è marginale: ogni cifra rappresenta una vita, una tragedia che non può essere banalizzata. Eppure, al di là del balletto delle cifre, il governo continua a negare un collegamento diretto tra il sovraffollamento carcerario e i suicidi, una posizione fortemente contestata dagli esperti e dalle associazioni per i diritti umani. Come ha ricordato recentemente Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, il rapporto del Garante nazionale del 25 novembre parla chiaro: “È ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un aumento degli eventi critici, in particolare di quelli che più di altri sono espressione del disagio detentivo: atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio”. In altre parole, il degrado delle carceri italiane non è solo un problema logistico, ma una condizione che amplifica il disagio psicologico e umano dei detenuti. Dietro ogni numero, c’è una storia umana. Dietro ogni statistica, c’è una sofferenza che chiede di essere ascoltata e compresa. Ma dietro tutti questi grandi numeri c’è un sistema al collasso e finora nessuna concreta misura è stata presa per far fronte a questo problema. Nel frattempo, ieri l’ennesimo suicidio in carcere. A darne la notizia è Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria. Magrebino, di soli 21 anni, ha messo fine alla sua giovanissima vita nel pomeriggio, impiccandosi nella sua cella del carcere genovese di Marassi, al reparto Sai (servizio assistenza intensificata), dove pare fosse stato allocato per pregressi intenti suicidari. A nulla sono valsi i soccorsi di operatori e sanitari. Con 85 detenuti che si sono tolti la vita nel 2024, ai quali bisogna aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria, quando mancano ancora 27 giorni alla fine dell’anno, è stato già superato il numero monstre del 2022, anno più tragico di sempre, quando i suicidi furono 84. A Marassi, peraltro, è il quarto, l’ultimo solo il 15 novembre scorso. E a proposito del sovraffollamento, “anche a Marassi, su 535 posti, sono ammassati 696 reclusi che vengono gestiti da appena 330 agenti, quando ne sarebbero necessari almeno 551”, chiosa De Fazio. Il Dap precisa, ma i numeri non tornano -Sulla vicenda interviene anche il Dap con una nota in cui si stabilisce che i detenuti che si sono tolti la vita sono 79 e si aggiunge: “Pur nella consapevolezza che ogni singolo evento critico e, a maggior ragione, ogni notizia di decesso di un detenuto riveli la drammaticità di una dolorosa vicenda umana che sconvolge non solo i familiari della persona e gli altri detenuti, ma anche tutto il personale che con diverse competenze opera ogni giorno e con grande professionalità negli istituti penitenziari, si avverte la necessità di fare chiarezza sui dati ufficiali del Dipartimento a fronte di numeri diversi che quotidianamente vengono forniti da enti o associazioni di volontariato nel loro pur apprezzato impegno offerto nel sistema penitenziario”. Tuttavia, anche in questo caso, i numeri non tornano. Come già riportato, il Garante al 2 dicembre segnala 79 suicidi. Nel frattempo, però, un altro detenuto si è tolto la vita nel carcere di Genova. Seguendo quindi l’ultima notizia di cronaca, il conteggio sale a 80. Questa ennesima discrepanza pone una questione fondamentale: come vengono classificati i suicidi? L’interrogazione parlamentare di Giachetti - Le statistiche, per quanto freddi indicatori, raccontano una realtà spietata: il 2024 è già l’anno peggiore degli ultimi trent’anni per suicidi in carcere, superando il record negativo del 2022, quando i casi furono 84. Ma dietro ogni cifra c’è un volto, una storia umana che merita rispetto. Yousef Hamga, 19 anni, Giuseppe Santolieri, 74 anni, Maria Assunta Pulito, 64 anni. Nomi che non possiamo permetterci di dimenticare. Ogni suicidio è un fallimento collettivo, una testimonianza di una sofferenza ignorata e di un sistema penitenziario al collasso. Il deputato Roberto Giachetti (Italia Viva) ha recentemente presentato un’interrogazione parlamentare per fare chiarezza. La sua iniziativa chiede al ministro Nordio di fornire dati esatti, distinguendo tra suicidi, morti per malattia, omicidi e altre cause; aggiornare le serie storiche; e rendere noti i dati sui suicidi tra gli agenti penitenziari, anch’essi vittime di un sistema opprimente. Chiede inoltre interventi strutturali per il sovraffollamento e una revisione del regime detentivo, privilegiando sezioni aperte per ridurre il disagio psicologico. Il sovraffollamento schizza alle stelle - Il nostro sistema carcerario continua a registrare un’emergenza sempre più critica. Dai dati aggiornati, l’associazione Antigone lancia l’allarme: “Come si può immaginare, in assenza di qualunque misura per fermarla, continua la crescita del numero delle persone detenute in carcere”. Al primo dicembre 2024, la popolazione carceraria ha raggiunto quota 62.463 detenuti, con un incremento di 352 unità rispetto al mese precedente. Una situazione drammatica, considerando che la capienza ufficiale degli istituti penitenziari è ferma a 51.165 posti, di cui peraltro 4.502 non risultano nemmeno disponibili. Il risultato è che c’è un surplus di quasi 16.000 persone oltre la capienza regolamentare, con un tasso di affollamento reale che si attesta al 133,86%, ben oltre ogni soglia di vivibilità. La situazione è particolarmente critica in diversi istituti penitenziari. Spiccano casi emblematici come Milano San Vittore, che registra un tasso di affollamento del 229%, seguito da Brescia Canton Monbello (202%), Grosseto (200%), Foggia (199%), Como (196%), Varese (196%), Campobasso e Taranto (entrambe al 195%). I numeri sono impietosi: su 101 istituti penitenziari, ben 62 presentano un tasso di affollamento superiore al 150%, mentre solo 39 risultano non sovraffollati. L’evoluzione del sistema penitenziario racconta una storia progressiva di crescente sofferenza e sovraffollamento. Se si osservano i dati del Garante nazionale delle persone private della libertà aggiornati al 2 dicembre, emerge un trend preoccupante che fotografa un peggioramento costante della situazione. Il 30 giugno 2022 segna l’inizio di questo racconto: 54.482 detenuti stipati in spazi che li contengono al 115,36% della loro capacità ricettiva. Un primo campanello d’allarme che già evidenziava criticità strutturali. Un anno dopo, l’8 giugno 2023, la situazione peggiora: i detenuti salgono a 57.284, con un tasso di affollamento che raggiunge il 120,08%. Ma è il 2 dicembre 2024 a dipingere lo scenario più drammatico: 62.464 persone ristrette in spazi sempre più angusti, con un tasso di sovraffollamento che esplode al 133,86%. Un incremento numerico che racconta molto più di semplici statistiche. Questo peggioramento si riflette inevitabilmente nelle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, traducendosi in un’escalation di “eventi critici” che testimoniano la crescente tensione. L’autolesionismo cresce di 506 casi, sintomo di una sofferenza psicologica sempre più profonda. I ricoveri urgenti in ospedale aumentano di 685 unità, a testimoniare condizioni di salute sempre più precarie. Le infrazioni disciplinari per inosservanza degli obblighi schizzano a 1.447, segno di un sistema sempre più al limite della sopportazione. Le aggressioni fisiche contro il personale di Polizia Penitenziaria, 375 in più, raccontano di un clima di tensione sempre più esplosivo. Ma i numeri più strazianti riguardano la vita stessa: i suicidi passano da 61 a 79 (in realtà secondo i dati di “Ristretti Orizzonti” e sindacati come la Uilpa siamo a 85), mentre i tentati suicidi esplodono da 1.779 a 1.921. Le nostre celle diventate tombe di Sofia Antonelli L’Unità, 6 dicembre 2024 Un ragazzo giovanissimo, di appena 21 anni, di origine magrebina. È l’ennesima persona morta suicida in carcere, l’85esima da inizio anno. Sembrerebbe essersi tolto la vita all’interno del reparto sanitario del carcere di Genova Marassi, dove si trovava a causa di precedenti atti autolesionisti e tentativi di suicidio. Con la sua morte, il 2024 supera il tragico primato del 2022 che, con 84 casi, era stato fino ad ora l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Oltre ai suicidi, il 2024 è in generale l’anno con il maggior numero di decessi. Se ne contano 231 da inizio gennaio. Quest’ultimo suicidio ha in sé elementi tristemente comuni a molti altri casi. Come il ragazzo morto a Genova, molti sono i suicidi commessi da persone giovanissime. Nel 2024 se ne contano almeno venti di età compresa tra i 19 e i 29. Come lui, tante erano anche le persone straniere, almeno 35. Quello che sta per finire è l’anno dei soli record negativi. L’85% dei casi di suicidio nelle sezioni a custodia chiusa. 231 i decessi in totale. Il sovraffollamento supera il 133%: mai così alto dai tempi della condanna Cedu. Ma le parole d’ordine del governo sono sempre le stesse: più reati, più carceri. Secondo il Garante Nazionale, più della metà delle persone che si sono tolte la vita in carcere erano coinvolte in altri eventi critici. Tra queste, 19 avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio. Molte le persone con disagio psichico e con passati di tossicodipendenza. Almeno 19 erano senza una fissa dimora. Sono numeri che raccontano enorme sofferenza e marginalità. Situazioni che difficilmente riescono ad essere prese in carico in un ambiente come quello penitenziario, soprattutto oggi, in carceri che scoppiano, con livelli di sovraffollamento sempre più allarmanti. Sono attualmente più di 62.400 le persone detenute, a fronte di una capienza effettiva di circa 47.000 posti. Le carceri italiane ospitano dunque quasi 16.000 persone in più, registrando un tasso di affollamento medio pari al 133,86%. È dai tempi della condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo che il nostro sistema penitenziario non viveva una situazione così critica. Sovraffollamento non vuol dire solo carenza di spazi, ma anche e soprattutto carenza di risorse per una popolazione detenuta in continua crescita. Risorse particolarmente necessarie per intercettare e prendere in carico situazioni di maggiore fragilità. Anche qui il caso di Genova è particolarmente emblematico. Il suicidio di inizio dicembre è il quarto avvenuto nell’Istituto dall’inizio anno. Inoltre, secondo il Garante Nazionale, il Marassi si colloca al terzo posto tra gli Istituti con il maggior numero di atti di autolesionismo (319 da inizio anno). Ad oggi il carcere del capoluogo ligure registra un tasso di sovraffollamento pari al 131%. Come si può pensare che in queste condizioni si riescano a gestire situazioni di particolare criticità? Altro esempio è Napoli Poggioreale, anch’esso Istituto dove quattro persone si sono tolte la vita da inizio anno e dove il tasso di sovraffollamento raggiunge addirittura il 156%. Oltre ad essere più piene, negli ultimi anni le carceri italiane sono anche sempre più chiuse. La riorganizzazione del circuito della media sicurezza, avviata nel 2022, ha fatto sì che molti Istituti abbiano ridotto in alcune sezioni l’orario di apertura delle celle. Si assiste sempre più a sezioni chiuse, isolate, dove le persone trascorrono l’intera giornata in celle piccole e fatiscenti. Aumentano così situazioni di separazione, di allontanamento e isolamento, con un forte impatto non solo sulla quotidianità penitenziaria, ma sulla psiche delle persone. Probabilmente non è un caso che le sezioni maggiormente interessate dal fenomeno suicidario siano proprio quelle a custodia chiusa, dove sono avvenuti circa l’85% dei casi di suicidio dall’inizio dell’anno. A circa un mese dalla sua fine, il 2024 si conferma come anno dai soli record negativi. Nessuno sembra però interessarsene. Nessun intervento significativo è stato fatto per rispondere alle varie emergenze in corso. Anzi, le sole parole che escono dal Governo sono sempre di senso opposto. Più carceri, più reati. Meno respiro e meno diritti. Case Lavoro, l’ossimoro da cancellare di Franco Corleone L’Espresso, 6 dicembre 2024 In 300 sono sottoposti, dopo la pena, a una misura di sicurezza che può durare anni se non all’infinito. Si è perso il conto dei suicidi e dei morti in carcere per cause da accertare; i detenuti che si sono tolti la vita quest’anno sono al momento 83 (e sette gli agenti di polizia penitenziaria) e gli ospiti delle patrie galere superano le 62.000 persone: corpi ammassati senza dignità. Il sottosegretario Delmastro che vorrebbe stuprare l’articolo 27 della Costituzione sul senso della pena, di fronte a questa catastrofe umanitaria proclama che un provvedimento di amnistia (dopo 25 anni) e di indulto costituirebbe una resa dello Stato. Molte cose intelligenti si potrebbero fare, invece si insiste sull’edilizia penitenziaria, sulla creazione fantasiosa di nuovi reati e sull’aumento delle pene dei fatti di lieve entità per violazione della legge proibizionista contro le droghe fino alla previsione di punire gli atti di resistenza passiva e di nonviolenza per rivendicare i diritti in carcere. Una misura di civiltà sarebbe finalmente la cancellazione delle misure di sicurezza per imputabili e delle cosiddette case lavoro che rappresentano un reperto di archeologia criminale ereditato dal Codice Rocco e dalla visione lombrosiana. Trecento sventurati, definiti delinquenti abituali, professionali e per tendenza, dopo avere scontato la pena in carcere, non tornano in libertà ma vengono sottoposti a una misura di sicurezza che può durare anni se non all’infinito. Il ministro Nordio che presiedette una commissione per un nuovo codice penale non ha nulla da dire? La “Società della Ragione” ha condotto una ricerca sulle nove case lavoro e colonie agricole che è stata presentata la settimana scorsa ad Alba con Bruno Mellano, garante dei diritti di persone private della libertà personale della Regione Piemonte. La ricerca condotta da Giulia Melani, Katia Poneti e Grazia Zuffa e sostenuta dalla Chiesa Valdese, è intitolata Un ossimoro da cancellare e pubblicata da Edizioni Menabò, per indicare la necessità di una profonda riforma. Il paradosso è rappresentato da una truffa delle etichette: si chiamano case lavoro secondo una logica di disciplinamento, ma il lavoro non c’è: ad Alba si potrebbero utilizzare i cani da ricerca dei tartufi per scoprire il mistero. La cosa più grave è che le case lavoro sono sezioni del carcere e addirittura a Barcellona Pozzo di Gotto e ad Aversa sono state collocate nella sede dell’ex Opg. Solo Castelfranco Emilia, una struttura usata come carcere a custodia attenuata, è ora casa lavoro specifica. Dal quadro della composizione della popolazione internata emerge ancor più il carattere di emarginazione e marginalità coperta dallo stigma della pericolosità sociale. La percezione che gli internati hanno della misura di sicurezza è di una incomprensibile ingiustizia. Un internato di Alba ha affermato in maniera icastica: “La parola giusta è “quando”: quando possiamo riprendere una vita? Quando possiamo rivedere la famiglia? È il quando che ti uccide…”. Può apparire stravagante proporre l’abolizione di questa misura in questi tempi torbidi, ma non ci si può rassegnare alla catastrofe. E come si sono chiusi i manicomi giudiziari si può tentare una sfida di civiltà e di umanità. La proposta di legge presentata alla Camera dall’onorevole Magi (n. 158) è equilibrata, non demagogica e afferma i principi dello Stato di diritto. Questa misura è troppo. Appartiene a una visione positivista che pesa da troppo tempo ed è ora di liberarcene. Separazione delle carriere. Il Governo punta (quasi) tutto sulla vera riforma simbolo di Errico Novi Il Dubbio, 6 dicembre 2024 Con il premierato in crisi e l’Autonomia dimezzata ora è la giustizia l’obiettivo chiave della maggioranza. Cioè al termine del Consiglio dei ministri che aveva varato la riforma del guardasigilli. L’idea aveva resistito per un po’. Fino allo scorso 29 ottobre, quando Nordio, senza troppi giri di parole, ha convocato le prime linee del centrodestra sulla giustizia e ha detto: sulle carriere separate cerchiamo di evitare emendamenti di parte e di partito, se proprio si pensa di modificare il testo lo si faccia solo in modo unitario. Non aveva posto un veto esplicito su variazioni in corso d’opera, ma di fatto con quel discorso ha dissuaso gli interlocutori - i capigruppo di tutte le forze di maggioranza insieme ai capidelegazione nelle commissioni parlamentari - dal compiere mosse che potessero rallentare il cammino del ddl. La strada era stata tracciata quel pomeriggio di fine ottobre: ma poi nei giorni scorsi, prima del via libera in commissione Giustizia, sembrava essersi riaperto uno spiraglio per inserire, nel testo sulle carriere separate, qualche emendamento direttamente in Aula, quando si procederà al voto, cioè a gennaio (il testo approderà nell’emiciclo di Montecitorio lunedì prossimo ma solo per la discussione generale). Sembrava esserci di nuovo una finestra per alcune modifiche, sostenute innanzitutto da Forza Italia: la più gettonata riguarda l’articolo 3, e in particolare il passaggio in cui la riforma sancisce le modalità di elezione dei togati e dei laici che andranno a comporre i due futuri Csm (uno per i giudici, l’altro per i requirenti). Gli azzurri vorrebbero correggere la previsione del sorteggio integrale per avvocati e professori di nomina parlamentare. Secondo i deputati berlusconiani della commissione Giustizia, che prima del fatidico “lodo Nordio” del 29 ottobre erano pronti a portare gli emendamenti al voto, i laici vanno eletti, non sorteggiati, anche perché - per citare i forzisti Pietro Pittalis ed Enrico Costa - non è proprio il massimo avere due futuri vicepresidenti dei Csm estratti a sorte, visto che entrambi sono i vice del Capo dello Stato (il quale, in base alla riforma, continuerà a presiedere entrambi gli organi di autogoverno). L’obiezione ha una sua consistenza, anche se, diversamente da quanto previsto per i togati, che verranno sorteggiati fra tutti i magistrati, avvocati e i professori sarebbero inizialmente scelti dal Parlamento, in modo da formare un elenco di sorteggiabili dal quale poi estrarre a sorte, appunto, i neoconsiglieri. Ma ciò che conta è che quella modifica non si affaccerà neppure, nell’Aula della Camera, a gennaio, o almeno non sarà proposta su iniziativa della maggioranza. E il motivo è semplice: la linea non solo di Nordio ma anche, e soprattutto, di Giorgia Meloni è evitare di innalzare la tensione con la magistratura, in particolare sulle carriere separate, perché questa riforma è ormai l’unica di rango costituzionale che la premier potrà davvero portare a casa in questa legislatura. E il risultato va difeso ad ogni costo. Considerato che, per raggiungerlo, bisognerà vincere il referendum. Vincere il referendum non sarà facile, Meloni lo sa. Soprattutto, non vuole che, durante la campagna per la consultazione confermativa, si possano regalare assist alla controparte - partiti d’opposizione e Anm - per accusare lei, la presidente del Consiglio, di “fare come Berlusconi”. Non tanto perché Meloni voglia distiguersi dal Cavaliere. Il punto è che se la separazione delle carriere passasse, agli occhi dell’opinione pubblica, come una legnata vendicativa inflitta alle toghe, esattamente come avrebbe voluto fare Berlusconi, il rischio di perderlo, il referendum, aumenterebbe sul serio. Ebbene: anche prevedere il sorteggio solo per i togati anziché per tutti i futuri consiglieri superiori, laici inclusi, rischierebbe di alimentare, sia ora che fra a un anno, quando presumibilmente entrerà nel vivo la campagna referendaria, la retorica di chi vuol vedere nella riforma Nordio una punizione per i magistrati. Quindi a gennaio, in Aula, gli emendamenti che qualche giorno fa sembravano poter essere rimessi in gioco, dopo essere stati messi in freezer a fine ottobre, in realtà non ci saranno. Né quello sul sorteggio né gli altri di cui si era parlato, come l’inserimento di una separazione anche dei concorsi per l’accesso in magistratura. Qualunque iniziativa possa anche solo lontanamente passare come inutilmente afflittiva per le toghe dovrà essere evitata. Ora la parola d’ordine è vincere il referendum. Senza complicarsi la vita con dettagli inutili. Quanto potrà pesare, un indirizzo simile, fortemente voluto da Palazzo Chigi, sul resto della politica giudiziaria? Peserà, di sicuro. Se n’è avuta ulteriore prova dal question time di ieri al Senato, durante il quale si è presentato a rispondere alle interrogazioni parlamentari anche Carlo Nordio. Basti citare per tutte la replica pronunciata in Aula dal guardasigilli a un tema posto dal capogruppo Giustizia di FI Pierantonio Zanettin, che chiedeva se e quando l’Esecutivo avrebbe adottato la legge sui “criteri di priorità” per l’esercizio dell’azione penale, come previsto dalla riforma Cartabia: “Governo e Parlamento lavorino insieme per un indirizzo unitario, anche in condivisione con il Csm”, ha detto Nordio. Eppure si tratta di un provvedimento-cornice con cui definire criteri molto generali, all’interno dei quali poi, come prescrive la legge delega 134 del 2021, i singoli procuratori della Repubblica avranno il potere di emanare circolari per indicare, nello specifico, i reati da perseguire con maggiore urgenza nel loro distretto. I magistrati insomma diranno comunque l’ultima parola, ma il guardasigilli è pronto a dar loro voce anche nella prima fase, che sarebbe di competenza esclusiva del legislatore. L’Esecutivo, e in particolare il suo vertice, sono consapevoli che la separazione delle carriere è in se stessa un atto conflittuale nei confronti delle toghe. Ma sa anche che avanzare verso la vittoria con atti di forza non necessari può compromettere l’obiettivo. Sospeso a un referendum in cui il quesito formale riguarderà, sì, la conferma del divorzio giudici-pm appena approvato dal Parlamento (ieri Nordio ha di nuovo indicato l’estate prossima come deadline per il completamento dell’iter parlamentare). Ma in realtà la domanda vera, sottesa a quel referendum, sarà un’altra, e cioè: a trentacinque anni da Mani pulite, ritenete che si debba metter fine all’egemonia della magistratura e restituire il primato e la dignità alla politica? E a fronte di questo, di uno snodo tanto epocale quanto controverso, sarebbe da ingenui pensare che la vittoria del sì sia già cosa fatta. L’idea di legge di chi accusa i giudici “nemici della patria” di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2024 Vari magistrati hanno preso decisioni in tema di immigrati irregolari motivandole con riferimento a norme del diritto europeo, considerate - come sempre accade - gerarchicamente sovraordinate a quelle italiane. Contro di loro si è scatenata una volgare canea di insulti e minacce, compresa l’ormai classica insinuazione di essere nemici della patria e del governo impegnato a difendere le frontiere contro l’invasione di orde di pericolosi migranti. Vi è poi chi, sfoggiando reminiscenze di liceo, riesuma vecchie formule tipo: il giudice è solo bocca della legge, i magistrati non devono interpretare la legge ma soltanto applicarla, impreziosendo la declamazione di queste formule con vivide pennellate di un acceso colore rosso, richiamandosi alla “vulgata” di un bel tempo antico, una specie di eden in cui i magistrati erano apolitici e la giurisdizione equilibrata. Ma la realtà era ben diversa: era l’epoca in cui - ad esempio - i Pg della Cassazione definivano gli infortuni sul lavoro “una fatalità”, gran parte della magistratura era attestata sulla tesi che “la mafia non esiste” , la Procura di Roma veniva abitualmente definita “porto delle nebbie” e la Cassazione, nel tentativo di frenare l’evoluzione democratica, si era inventata la categoria delle norme costituzionali “programmatiche”“, cioè semplici programmi per il legislatore non direttamente applicabili. Ma torniamo ai magistrati e all’interpretazione della legge. Lasciamo perdere i ragionamenti astratti e prediamo un esempio concreto, ben noto e spesso usato dai giuristi di professione. L’esempio consiste nel raffronto tra due articoli del codice penale: il 575 - che punisce chiunque causa volontariamente la morte di un uomo - e il 589, che punisce chi provoca per colpa la morte di una persona. La sequenza e la diversità dei termini (uomo e persona) non sembrerebbero lasciar dubbi interpretativi. E tuttavia può qualcuno seriamente pensare che non costituisca reato di omicidio volontario l’uccisione di una donna, sol perché l’articolo 575 parla di morte di un “uomo” e non di una “persona”? Certamente no. I femminicidi resterebbero impuniti e sarebbe all’evidenza una conseguenza assurda e inaccettabile. Ecco quindi dimostrata la legittimità della interpretazione “creativa”, a volte persino necessaria. “Il diritto di difesa è inviolabile per tutti”. Cnf e Coa al fianco del legale di Turetta di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 6 dicembre 2024 Diritto di difesa sotto attacco. Dopo la condanna all’ergastolo di Filippo Turetta, il suo difensore, Giovanni Caruso, è stato minacciato ricevendo una busta contenente alcuni proiettili. Un gesto che dimostra ancora una volta un’idea ben precisa che qualcuno vorrebbe imporre: l’autore di reati molto gravi è indifendibile e il ruolo del difensore deve essere relegato all’insignificanza. A seguito delle minacce ricevute da Caruso, il Cnf ha espresso, attraverso il presidente Francesco Greco, “la più ferma condanna per gli atti intimidatori indirizzati al collega, oltre alla piena solidarietà e vicinanza personale di tutto il Consiglio nazionale forense. Non possiamo che ribadire il massimo rispetto per il dramma umano e sociale che rappresenta il femminicidio di Giulia Cecchettin, una tragedia che richiama tutta la nostra società a riflettere e agire contro la violenza sulle donne - afferma Greco -. Tuttavia, va altresì ricordato con fermezza che la nostra Costituzione, all’articolo 24, sancisce che il diritto alla difesa è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Questo principio non è solo un pilastro dello Stato di diritto, ma anche una garanzia che distingue una società giusta e democratica da una in balìa dell’arbitrio e della violenza. Gli avvocati, per dovere professionale e morale, sono chiamati ad assistere chiunque venga sottoposto a un processo, indipendentemente dalla gravità o dalla natura delle accuse. Difendere un imputato non significa giustificare il reato, ma garantire che il processo si svolga nel rispetto delle leggi e dei diritti fondamentali. Il sacrificio di Fulvio Croce, che pagò con la vita la sua scelta di difendere i capi storici delle Brigate Rosse per assicurare che il processo si svolgesse, resta un esempio di come la professione forense sia una difesa della supremazia dello Stato di diritto, anche di fronte al terrorismo e alle minacce più gravi”. Immediata la reazione deil Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Padova, presieduto da Francesco Rossi, che ha espresso grande preoccupazione per l’ignobile atto subito dal collega. “A fronte di un fatto di inaudita gravità - si legge in una nota del Coa - ovvero l’aver ricevuto addirittura minacce di morte per il sol fatto di aver esercitato la funzione difensiva nel noto processo conseguente all’omicidio di Giulia Cecchettin, il Consiglio dell’Ordine, l’avvocatura tutta, non può tacere. Urge, con estrema sollecitudine, che il dibattito venga riportato a canoni di civiltà e continenza, richiedendosi sul punto il contributo degli operatori tutti, financo dell’accademia e dei mass media, oltre che delle istituzioni, affinché simili, intollerabili episodi non si ripetano”. i, evidenzia il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Padova, “confondono sempre più frequentemente” e sovrappongono “l’esercizio del diritto di difesa con il fatto- reato, sulla scia di una narrazione che ciecamente affianca e assimila l’avvocato all’imputato, rendendolo, agli occhi degli osservatori, esso stesso colpevole”. Il presidente del Coa, Francesco Rossi, aggiunge che “un certo modo di agire di alcune persone è frutto di una cultura superficiale, che vuole colpire non solo l’avvocato, ma anche il processo, sacrificando il fine al quale quest’ultimo è proteso. Il problema, dunque, è anche culturale”. Sulle minacce ricevute dall’avvocato Caruso, Gino Cecchettin, padre di Giulia, ha espresso piena solidarietà, confermando un atteggiamento molto dignitoso e attento a preservare un clima di rispetto, nonostante la tragedia abbattutasi sulla sua famiglia. La notizia della ricezione di una busta contenente alcuni proiettili, a detta di Gino Cecchettin, “è profondamente inquietante e inaccettabile da concepire in una società civile”. “Ogni forma di intimidazione o violenza - ha commentato -, anche simbolica, è da condannare senza esitazione. La giustizia deve fare il suo corso in un clima di rispetto e serenità. Atti come questi non rappresentano alcuna forma di solidarietà verso le vittime, anzi rischiano di offuscare la serietà del lavoro che stiamo portando avanti nella Fondazione Giulia Cecchettin”. Sulla vicenda è intervenuto il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari (Lega), con una riflessione su un tema che sta molto a cuore all’avvocatura. “Esprimo la mia personale solidarietà all’avvocato Giovanni Caruso - ha detto l’esponente del governo -, vittima di un atto intimidatorio inaccettabile. Caruso ha svolto la sua alta funzione e merita rispetto. Il diritto alla difesa è garantito a tutti e non può essere messo in discussione. Episodi come quello riportato dalla stampa dimostrano l’attualità della campagna del Consiglio nazionale forense, a cui ho aderito sin da subito, per il riconoscimento del ruolo dell’avvocato in Costituzione”. Solidarietà al professor Caruso anche da parte dell’Associazione italiana Professori di diritto penale e dell’Unione Camere penali italiane. “Il rischio paradossale - scrivono in una nota congiunta i presidenti di Aipdp e Ucpi, Gian Luigi Gatta e Francesco Petrelli - è che perfino dopo una sentenza di condanna dell’imputato di un femminicidio, alla pena più grave prevista dall’ordinamento, e quando gli sforzi della nostra società sono volti al contrasto della violenza contro le donne, si generino ulteriori episodi di violenza che rendono necessario addirittura assicurare l’incolumità di un avvocato e professore universitario. Persino nelle aule di una facoltà di giurisprudenza, dove tante giovani e tanti giovani studiano i principi della civiltà del diritto, rispetto ai quali mai si deve arretrare e che è dovere e responsabilità di tutti difendere e trasmettere alle generazioni presenti e future”. No al “fine pena mai”, carcere che non educa di Vittorio Feltri Il Giornale, 6 dicembre 2024 L’ergastolo contraddice la finalità rieducativa, fissata dalla nostra Costituzione, della pena detentiva. Rieducare, del resto, è a sua volta funzionale ad un reinserimento sociale, ossia al ritorno in società della persona che, non senza causa, ha subito la privazione della libertà personale. Reinserimento che non si attua nel caso in cui la condanna preveda appunto che dalla casa circondariale mai si venga fuori, se non da morti. Quindi, a mio avviso, l’ergastolo andrebbe eliminato e la sua attenuazione non dovrebbe dipendere dall’applicazione di quelle misure cui tu ti riferisci, alle quali il condannato può accedere scontato un tot di anni. Lettera di Andrea Sicco - Ivrea Caro direttore, sono un collega e ti leggo con ammirazione da molti anni. A proposito della pena dell’ergastolo, su cui ho ascoltato un tuo commento dopo la condanna di Filippo Turetta, la nostra bislacca Costituzione ha scelto di percorrere la strada della funzione rieducativa della pena, invece di quella retributiva. Ciò ha comportato, però, che tale scelta fosse incompatibile con la pena del carcere a vita; infatti, che senso ha rieducare una persona che non potrà mai più vedere la libertà? Questo è il motivo, credo, per cui di fatto l’ergastolo nel nostro Paese (salvo rarissimi casi) non esiste più, essendo mitigato da tutta una serie di benefici cui i condannati possono accedere dopo aver scontato diversi anni di detenzione. Mi piacerebbe conoscere la tua opinione su quella che dovrebbe essere, in astratto, la funzione della pena: mera conseguenza del reato che si è commesso oppure no? E ancora: è possibile credere in una reale ed effettiva rieducazione? Grazie per il tuo costante lavoro. Risponde Vittorio Feltri Caro Andrea, proprio perché l’ergastolo contraddice la finalità rieducativa, fissata dalla nostra Costituzione, della pena detentiva, io sono assolutamente contrario al cosiddetto “fine pena mai”. Rieducare, del resto, è a sua volta funzionale ad un reinserimento sociale, ossia al ritorno in società della persona che, non senza causa, ha subito la privazione della libertà personale. Reinserimento che non si attua nel caso in cui la condanna preveda appunto che dalla casa circondariale mai si venga fuori, se non da morti. Quindi, a mio avviso, l’ergastolo andrebbe eliminato e la sua attenuazione non dovrebbe dipendere dall’applicazione di quelle misure cui tu ti riferisci, alle quali il condannato può accedere scontato un tot di anni. Per quanto riguarda il caso specifico di Filippo Turetta, conveniamo tutti che questo ragazzo, spietato assassino, meritasse una sentenza severissima, la più pesante possibile. Non condivido le polemiche delle femministe in merito al mancato riconoscimento delle aggravanti della crudeltà e dello stalking e ti spiego perché. Non perché questo tizio qui non si sia reso reo anche di una sorta di persecuzione ai danni di Giulia, prima che ne pianificasse l’uccisione mettendo a segno il suo piano criminale, bensì perché, pure se questo fosse stato riconosciuto dai giudici, la pena non avrebbe potuto essere più afflittiva dell’ergastolo a cui Turetta è stato di fatto condannato. Ritengo altresì che Filippo abbia agito con crudeltà assoluta, ma, ripeto, specificarlo o meno non avrebbe inciso sulla portata della condanna. Dunque perché stracciarsi le vesti, urlare, insorgere, parlare ancora di sessismo, patriarcato e bla bla bla? Questo giovane, freddo e lucido, ha ammazzato la ex fidanzata perché questa lo aveva scaricato. È uscito di casa armato e ha realizzato il suo progetto di sangue, su cui Turetta aveva lavorato per settimane, definendolo nel dettaglio. Tu mi chiedi come possiamo attuare e concretizzare lo scopo rieducativo della pena. Bella domanda. Innanzitutto, occorre puntualizzare che il sovraffollamento delle carceri impedisce la realizzazione di un trattamento di recupero individuale del ristretto. Un sistema di questo tipo, in cui i detenuti si ritrovano a permanere uno sull’altro, non soltanto conduce alla follia ma ostacola proprio la rieducazione. Il carcerato sviluppa rabbia, insofferenza, disperazione, e ciò talvolta finisce per consolidare la scelta criminale. Insomma, le carceri stracolme assomigliano a fabbriche di delinquenti quando dovrebbero essere luoghi di riabilitazione e rinascita. La rieducazione deve avvenire soprattutto mediante il lavoro. Il carcere di Bollate dovrebbe essere il modello da ricalcare e da estendere su tutto il territorio italiano. Una realtà che conferma che certe strutture possono funzionare se bene organizzate e assolvere la destinazione e lo scopo per cui sono state previste. Purtroppo una certa cultura giustizialista ci induce a trascurare le problematiche del carcere e di chi lo abita, oltre che di chi ci lavora. Bisogna approcciarsi a queste tematiche con un senso di umanità e con l’equilibrio che deriva dalla interiorizzazione dei valori che sono posti a fondamento della nostra Repubblica. Utile sarebbe tenere a mente che a chiunque di noi può capitare di finire dietro le sbarre, fosse anche per errore. “Sono favorevole all’ergastolo, andrebbe esteso non eliminato” di Michela Nicolussi Moro* Corriere del Veneto, 6 dicembre 2024 Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Di fronte al ripetersi di crimini di una violenza efferata è inappropriato proporre un abbassamento delle pene”. Avvocato Andrea Ostellari, lei è il sottosegretario alla Giustizia: ergastolo a Turetta, sentenza “giusta”? “I fatti imputati sono gravissimi, quindi non mi aspettavo una sentenza diversa. Nessuno restituirà Giulia alla sua famiglia e ai suoi amici. Attendiamo comunque le motivazioni e poi gli eventuali altri gradi di giudizio per la decisione definitiva”. Come si pone nei confronti dell’istituto dell’ergastolo? Il “fine pena mai” non confligge con il valore rieducativo della pena previsto dalla Costituzione? “Sono favorevole all’ergastolo. La nostra Costituzione va letta e interpretata bene. Dice che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ma non esclude che di fronte a delitti così efferati possa essere applicato il massimo rigore, pur nel rispetto della dignità del condannato”. Alcuni giuristi chiedono l’abolizione dell’ergastolo e l’introduzione di un tetto alla massima pena. Bisognerebbe cambiare la legge? “Di fronte al ripetersi di crimini di una violenza efferata ritengo inappropriato proporre un abbassamento delle pene. Anzi, credo che questa sanzione andrebbe estesa anche ad altre fattispecie, come lo stupro di gruppo”. Quanto influisce la pressione mediatica sui processi? “Il giudice è un essere umano e ciascun essere umano vive il suo tempo, in un sistema di relazioni e valori. Ma si può essere coraggiosi e forti e liberarsi dai condizionamenti esterni per applicare la legge con indipendenza. Credo che anche in quest’occasione ciò sia stato fatto”. L’ergastolo può essere un segnale con una funzione di deterrenza? “Certo, ma non in tutti i casi. Non lo è nemmeno la pena di morte. La mente umana è un mistero, ma negare la funzione deterrente a prescindere è sbagliato”. Come non farsi influenzare dal dolore e dalle aspettative della vittima di un reato, se sopravvissuta, e dei familiari? “Decidere non è facile. Ma la maggioranza della magistratura italiana è composta da persone integerrime, professionisti che hanno ben chiaro il valore della loro funzione e il peso delle scelte che devono fare. Nel caso specifico, poi, si tratta di una Corte d’Assise. Conta anche l’atteggiamento di chi commette reato? “L’ordinamento prevede aggravanti che dipendono dalle modalità con cui il fatto è stato commesso. La condanna all’ergastolo di Turetta, per esempio, sarà spiegata con il deposito delle motivazioni della sentenza, grazie alle quali potremo cogliere i motivi delle decisioni dei giudici”. Rispetto ai tempi annosi della giustizia italiana i processi a Impagniatiello e a Turetta sono stati celebrati e sono arrivati a sentenza in tempi record. Il dramma dei femminicidi ha bisogno di attenzione particolare o perché? “È evidente che quella dei femminicidi è un’emergenza a cui il sistema giustizia ha deciso di fare fronte con tutte le risorse possibili. Sia nella fase preventiva che in quella delle indagini e quindi dei processi. Fra queste, tengo a sottolinearlo, la più importante resta la prima”. *Articolo tratto dal giornale del 4 dicembre 2024 Genova. Morte tragica di un detenuto, avviata un’inchiesta di Marco Mintillo gaeta.it, 6 dicembre 2024 La Procura di Genova ha avviato un’inchiesta sulla morte di Amir Dhouiou, un giovane detenuto di 21 anni di origine tunisina. Il ragazzo si è suicidato nel carcere di Marassi, sollevando interrogativi sulla sorveglianza che gli era stata riservata. Gli inquirenti stanno analizzando le immagini delle telecamere di sicurezza per fare chiarezza sull’accaduto e la Procura ha disposto una perizia autoptica sulla salma. Amir Dhouiou si è tolto la vita ieri, impiccandosi nel bagno della cella che condivideva con un altro detenuto. La sua morte ha scosso non solo la comunità carceraria, ma anche il dibattito sulle condizioni di vita all’interno delle prigioni italiane. Il giovane era stato arrestato per reati come furto e resistenza. Dhouiou si trovava nel centro clinico del carcere, una sezione speciale destinata ai detenuti con problematiche di salute, dove la sorveglianza è intensificata. Le autorità stanno indagando sul rispetto delle normative di sicurezza nella sezione in cui si trovava il giovane. Il suo passato include anche un tentativo di suicidio, il che ha sollevato domande sulla vigilanza attuata nei suoi confronti e sulla possibilità di prevenire tale gesto. Le immagini di videosorveglianza sono ora sotto esame per verificare se il monitoraggio necessario fosse effettivamente in atto al momento della tragedia. Ma la questione non riguarda solo il singolo caso di Dhouiou. Una riflessione sulle condizioni di vita nel sistema carcerario italiano è necessaria. Spesso i detenuti con precedenti di problemi di salute mentale ricevono un livello di assistenza che può variare, ed è fondamentale poter garantire che chi si trovi in queste situazioni delicate riceva le dovute cure e attenzioni. Le dinamiche della sorveglianza in carcere - Il sistema carcerario ha il compito di garantire la sicurezza dei detenuti, soprattutto di coloro che, come Amir Dhouiou, presentano rischi di autolesionismo. Le procedure di monitoraggio sono state messe in luce da questa tragedia, e ora le autorità devono affrontare l’urgenza di inefficienze potenzialmente sistemiche. Un aspetto chiave dell’indagine è costituito dall’accuratezza del monitoraggio durante le ore notturne o nei momenti di maggiore vulnerabilità. Le modalità di sorveglianza devono adeguarsi alle necessità specifiche di ciascun detenuto. L’assenza o la scarsa applicazione di misure preventive può esporre i reclusi a situazioni pericolose, come nel caso di Dhouiou. È fondamentale che le misure di sicurezza siano sempre ottimizzate, affinché danni irreparabili non possano più verificarsi. In questo contesto, è naturale chiedersi se ci siano stati segnali premonitori o se vi siano state carenze di comunicazione tra il personale carcerario e gli psichiatri incaricati. L’approfondimento di queste fila di responsabilità è cruciale per evitare che eventi simili possano ripetersi. Cosa può insegnarci questa vicenda? - La morte di Amir Dhouiou non è solo una statistica che si aggiunge ai tanti vissuti drammatici nel sistema penitenziario. È un appello a riflettere su quanto sia fondamentale rispondere e curare i disturbi psichiatrici nei carcerati. Questi giovani, che si trovano ad affrontare situazioni di vita particolarmente complesse, necessitano di un ambiente protettivo che possa prevenire gesti estremi. Il coraggio di affrontare queste problematiche è il primo passo verso una riforma del sistema penitenziario che possa non solo garantire la sicurezza, ma anche la dignità dei detenuti. I fatti di Genova mettono in evidenza l’importanza di percorsi di recupero, di monitoraggio continua e di risorse adeguate volte a tutelare i più fragili. I dati e le storie dei detenuti devono guidare le politiche carcerarie per sviluppare un approccio più umano nei confronti del disagio psicologico dentro le mura della prigione. Cagliari. “Detenuto pestato e trasferito a Uta, ma non può più stare in carcere” di Andrea Sini La Nuova Sardegna, 6 dicembre 2024 L’avvocata Decina: “È stato portato via dalla colonia penale di Isili con la testa fracassata”. Un detenuto che viene portato via d’urgenza dalla colonia penale nella quale si trova, con la testa fracassata; ipotesi della prima ora sulle cause che non trovano riscontri, un lungo ricovero in ospedale e il successivo trasferimento in carcere; danni e conseguenze gravissime riportate che non vengono prese in considerazione per trasferire l’uomo in una struttura idonea. È ancora tutto da chiarire l’episodio avvenuto ai primi del mese di luglio nella casa di reclusione di Isili, per il quale la sorella dell’interessato ha sporto a suo tempo denuncia e sul quale l’avvocata Armida Decina prova ora ad accendere i riflettori. “Ci sono troppi punti oscuri a proposito di quanto avvenuto nella colonia agricola - sottolinea l’avvocata che sta seguendo il caso per conto della famiglia del detenuto -, ma il primo problema è attualissimo ed estremamente stringente. Ovvero il fatto che il detenuto si trova ancora rinchiuso nell’ospedale di Uta ma le sue condizioni non sono assolutamente compatibili con la detenzione in carcere. Per questo ho presentato un’istanza urgente per chiedere il differimento della pena e il trasferimento in una struttura idonea, perché purtroppo la situazione è molto difficile”. Poi un passo indietro, per provare a ricostruire quanto avvenuto la scorsa estate. “Stiamo parlando di un soggetto con patologie psichiatriche - spiega Armida Decina -, al quale è contestata la pericolosità sociale. Il 4 luglio la sorella è stata avvertita del ricovero d’urgenza di suo fratello all’ospedale di Cagliari. Secondo quanto riferito, l’uomo sarebbe caduto sbattendo pesantemente la testa dopo avere assunto un eccesso di psicofarmaci. Al pronto soccorso però i medici hanno constatato che le gravi ferite riportate anche a livello osseo difficilmente potevano essere compatibili con una semplice caduta. Anzi, hanno avanzato immediatamente l’ipotesi che quei danni fossero stati causati dalla mano di qualcuno. Un pestaggio, insomma, o qualcosa di simile. A quel punto la sorella ha sporto denuncia, in seguito alla quale l’indagine è ancora in corso”. L’uomo, rimasto in coma per diverso tempo, è stato poi dimesso dall’ospedale e a quel punto la famiglia, attraverso il proprio legale, ha chiesto il trasferimento in una struttura riabilitativa. “Richiesta respinta dal magistrato di sorveglianza, che ne ha disposto il trasferimento all’istituto di detenzione di Uta. Ma questa persona ha necessità di stare in una struttura adeguata: dopo essersi risvegliato dal coma per lungo tempo non è riuscito a camminare o ora lo fa con grande difficoltà. Non può stare in una forma di detenzione comune, le sue condizioni non sono compatibili con i normali penitenziari. Nelle ultime ore ho avuto un’interlocuzione con il magistrato di sorveglianza - spiega ancora l’avvocata Decina - e mi ha comunicato che è in attesa della relazione sanitaria proveniente dal carcere”. Già nei prossimi giorni potrebbero esserci novità, ma dopo questo primo passo, ci sarà ancora da chiarire cosa è successo quel giorno del luglio scorso a Isili. Ferrara. La vita dei detenuti in carcere tra sport, lavoro e tanto studio di Francesco Dondi La Nuova Ferrara, 6 dicembre 2024 Delegazione in visita alla Casa circondariale di via Arginone per scoprire attività e volontariato. La notizia più bella la dà Domenico Bedin quando racconta che pochi giorni fa un ergastolano è stato assunto con contratto a tempo indeterminato nell’ambito della ristorazione. Storie di vita, storie di risocializzazione, storie belle che spingono alla redenzione. Il carcere Costantino Satta ha aperto le porte ad una visita speciale con al centro le tante associazioni ferraresi che lì dentro portano messaggi di speranza e sopravvivenza fisica e psicologica. L’ha voluta organizzare l’ufficio regionale del Garante dei detenuti, guidato da Roberto Cavalieri, con la collaborazione della garante locale, Manuela Macario e la massima disponibilità della direzione dell’Arginone con il dirigente penitenziario ad interim Stefano Di Lena, la comandante di reparto Annalisa Gadaleta e la dottoressa Annamaria Romano, funzionario giuridico-pedagogico che si occupa delle attività per i detenuti. Il mondo di fuori entra in contatto con l’interno in un microcosmo che ha i suoi equilibri e i suoi tempi segnati da alcune regole restrittive. Ma in tutto ciò si inserisce il costante tentativo di rendere meno complicata la detenzione e così ecco le opportunità che arrivano dall’esterno. C’è il rugby con il gruppo ferrarese che è ormai di casa e saluta cordialmente gli agenti penitenziari; c’è il ping pong; ci sono le scuole e una sezione pedagogica capace di accogliere a pieno regime oltre 100 “studenti”. Una dozzina di detenuti sono iscritti ai corsi universitari: possono talvolta isolarsi e seguire le lezioni in aule apposite dove non sono disturbati. Ma c’è anche chi vuole istruirsi: dalle lezioni basilari ed elementari fino alla conoscenza dei computer, passando per le attività con l’istituto Vergani-Navarra fino alle visite in biblioteca che propone oltre 5mila titoli e alla redazione del giornalino Astrolabio che ha una redazione fisica dedicata. Tutto organizzato, tutto documentato, tutto schedato e controllato. “Chi viene da fuori porta dentro un po’ di attualità - spiegano gli operatori - ce n’è bisogno per rimanere in contatto con il mondo”. “Spesso visito altri carceri - ammette la comandante Gadaleta - e guardo le altre esperienze poi penso a Ferrara e credo che si stia facendo davvero tanto”. Una palestra dove ci si può allenare, ma ovviamente con orari precisi e a sezioni; una chiesa e anche il teatro, forse lo spazio più inclusivo e capace di trasmettere per osmosi sentimenti e passioni. Non è un caso se proprio lì avviene l’incontro tra le associazioni, i visitatori della delegazione e un gruppo di detenuti che parlano, raccontano, salutano gli operatori che li hanno accompagnati in un lungo percorso nel quale da un po’ di tempo è entrata anche Macario: una ventina di detenuti già incontrati, almeno altri 50 colloqui da fissare. “È qualcosa che ti assorbe tanto - ammette - ma più ti vedono più si fidano”. “A volte viene offerta una visione fuorviante di questo mondo - chiosa il direttore Di Lena - A Ferrara c’è un territorio ricco di risorse e collaborazioni, che certamente aiutano”. Velletri (Rm). “Ripartenze: riprendiamoci il futuro!”, percorsi di formazione per detenuti adnkronos.com, 6 dicembre 2024 È partito ufficialmente, presso il Carcere di Velletri, il progetto Ripartenze: Riprendiamoci il Futuro. Promosso da Fondazione Lottomatica e realizzato dal centro di formazione dell’ente non profit Elis, il progetto riguarda detenuti e persone sottoposte ad altre misure di giustizia in percorsi di inserimento professionale. Al termine di una selezione che ha visto coinvolte 600 persone, è iniziata ora per i primi 20 partecipanti la formazione che li porterà a lavorare come manutentori di aree verdi a Roma e addetti alla selezione dei rifiuti nella piattaforma di Guidonia M. del Gruppo AVR e come operatori elettrici per la società Siram Veolia a Milano. “Siamo particolarmente orgogliosi di sostenere ‘Ripartenze - ha commentato Riccardo Capecchi, presidente di Fondazione Lottomatica - un’opportunità concreta per il reinserimento sociale e professionale di persone che stanno affrontando percorsi di giustizia. Siamo convinti che il lavoro possa essere un potente strumento di cambiamento, capace di ridurre significativamente il rischio di recidiva e di restituire dignità e speranza a chi ha commesso errori. La natura corale del progetto sottolinea il principio di collaborazione e condivisione delle diverse competenze, condizione fondamentale per il successo delle iniziative ad alto valore sociale”. I partecipanti al programma stanno già affrontando una prima fase di rafforzamento delle competenze trasversali necessarie a inserirsi in contesti aziendali. Seguirà l’addestramento tecnico e quindi l’inserimento lavorativo, programmato per l’inizio del nuovo anno. “Questa iniziativa - sottolinea Pietro Cum, amministratore delegato di Elis - evidenzia, ancora più di un normale percorso formativo il grande valore del lavoro come elemento centrale della dignità della persona e come condizione fondamentale per permetterle di riprogettare il futuro. È un’ulteriore prova dell’impatto sociale che la formazione professionale è in grado di generare”. Il progetto è nato nell’ambito della collaborazione tra Fondazione Lottomatica ed Elis, attraverso un accordo stipulato con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia. Secondo i dati elaborati nel 2024 da Censis e The European House Ambrosetti, su incarico di Cnel e ministero della Giustizia, il rischio di tornare in carcere può scendere fino al 2% nel caso di detenuti che hanno avuto la possibilità di un inserimento professionale. Un risultato estremamente significativo, se comparato con gli attuali tassi di recidiva della popolazione carceraria, secondo cui 6 condannati su 10 sono già stati in carcere almeno una volta. Milano. Recupero degli arredi per i detenuti, un aiuto sociale e ambientale di Manuela Sicuro mitomorrow.it, 6 dicembre 2024 Rellini (Regusto): “La raccolta delle donazioni proseguirà nel 2025”. Se il recupero è, o dovrebbe essere, la parola chiave per il lavoro delle strutture detentive in Italia, il progetto di Regusto, va in questa direzione. L’iniziativa permette infatti di ridistribuire arredi a rischio spreco donati da aziende del territorio, a favore di alcune carceri milanesi. Tramite Regusto - prima piattaforma ESG blockchain per la lotta allo spreco, anche alimentare - le aziende possono donare prodotti che altrimenti andrebbero smaltiti. Non solo un esempio di antispreco ma anche un beneficio in termini di emissioni di CO2 evitate. Con il progetto sono stati recuperati più di 27mila chili di prodotti destinati allo smaltimento. Quattro le carceri coinvolte: San Vittore, Beccaria, Bollate e Opera. “Il progetto proseguirà anche nel corso del 2025 e si potrà replicare anche in altre strutture del territorio milanese” afferma Paolo Rellini, Coo e co-founder di Regusto. Quali sono gli obiettivi? “Mettere in connessione diversi attori del territorio per un fine comune di alto valore sociale, economico e ambientale: la riqualificazione di strutture detentive che necessitano di interventi importanti per restituire dignità a quei luoghi. Allo stesso tempo si punta anche a sensibilizzare le aziende su una situazione di emergenza a livello locale e nazionale”. Quali le aziende che hanno aderito e cosa hanno donato fino ad oggi? “Le prime aziende che hanno aderito al progetto sono state Tecnomat/Bricoman e Saipem, ma ci sono già altre aziende pronte e interessate a donare prodotti o arredi. Ad oggi sono state donate circa 30 tonnellate di prodotti per un valore complessivo di circa 70mila euro. Tra i prodotti recuperati e donati ci sono: accessori bagno e sanitari (lavabi, wc, bidet, piatti doccia e rubinetti) e arredo (scrivanie, armadi, sedie, tavoli, ecc.)”. Quali i vantaggi sociali ed economici per le aziende e per le carceri? “Il circolo virtuoso innescato permette alle aziende di abbattere i costi di smaltimento, stoccaggio ma anche di beneficiare di sgravi fiscali grazie alla Legge 166/2016 (Legge “Gadda”). Viene poi generato un impatto positivo a livello sociale, in questo modo le carceri possono diventare luoghi in cui trascorrere il periodo di pena in maniera dignitosa. Gli ambienti e gli spazi possono essere rinnovati e valorizzati agevolando la socializzazione”. Il progetto darà benefici anche in termini ambientali... “Sì, grazie al recupero di prodotti e arredi altrimenti destinati allo smaltimento, il beneficio ambientale generato e calcolato secondo standard internazionali attraverso la piattaforma Regusto è sicuramente importante. Dando nuova vita a tali prodotti, viene evitata la generazione di rifiuti con un impatto calcolato in termini di CO2 (emissione evitata) pari a 16 tonnellate che equivale all’aver salvato 650 alberi dall’abbattimento”. Come è possibile partecipare al progetto? “Ogni azienda interessata a donare prodotti per il recupero e la riqualificazione delle carceri può farlo scrivendo direttamente a noi agli indirizzi support@regusto.eu e info@regusto.eu”. L’iniziativa, coordinata dal Comune di Milano attraverso il consigliere Alessandro Giungi, vicepresidente Sottocommissione Carceri, consente a Regusto di mettere in contatto Aiutility, ente non-profit di riferimento per il progetto nel territorio, con le aziende. Al momento sono coinvolte nel processo di recupero dei prodotti Saipem e Tecnomat. Nello specifico Saipem ha contribuito con una donazione di 578 pezzi dal valore economico di 51.600 euro e un peso complessivo di 23mila chili Tecnomat ha già effettuato due donazioni dal valore economico di 19.500 euro di merce e un totale di 3.680 chili. Livorno. Il lavoro come strada per il reintegro dopo il carcere di Federica Veroni lasettimanalivorno.it, 6 dicembre 2024 Carcere e lavoro, un’opportunità per tutti: detenuti, imprese e società civile, questi gli argomenti trattati durante l’incontro organizzato da Fondazione Caritas Livorno con gli altri partner del progetto Next nella struttura “Sorgenti di Carità” di via Donnini e alla quale hanno partecipato Serena Spinelli (Assessora Regionale per il Sociale), Andrea Raspanti (Assessore Comunale per il Sociale), Marcella Gori (Coordinatrice area trattamentale Casa Circondariale Livorno - Gorgona), Stefano Fabbri (Vicepresidente nazionale e referente per la Toscana dell’Associazione Seconda Chance), Enrico Vincenzini (Avvocato penalista e membro di Antigone Toscana), Guido De Nicolais (Direttore generale Fondazione Caritas Livorno) e Don Luciano Cantini (Presidente Fondazione Caritas Livorno). In Italia il 33% dei detenuti è coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati totali nel 2023) ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85%, infatti lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, eppure la legge Smuraglia permette alle imprese di assumere detenuti (con specifici requisiti), ricevendo anche sgravi fiscali. Tutti hanno il diritto di ricostruire la propria vita una volta scontata la pena, ma le difficoltà sono tante e la recidiva è altissima. Ecco che anche il ruolo dell’avvocato nell’accompagnamento del proprio assistito, attraverso strumenti processuali e prospettive di lavoro, è necessario per mediare con il tessuto sociale della città, come ha sottolineato Enrico Vincenzini. Serena Spinelli sottolinea che il detenuto è sempre un cittadino portatore di diritti, perché il carcere non è solo il luogo della detenzione, ma dovrebbe essere anche il luogo della rieducazione. Andrea Raspanti sottolinea l’importanza di non sottovalutare il fattore di emarginazione sociale che crea disorientamento. Il progetto Next crea reti di supporto al fine di migliorare il delicato passaggio dalla detenzione alla vita fuori dal carcere, consapevoli che, tuttavia, le problematiche relative alla ricerca di casa e lavoro accomunano, purtroppo, tante persone. La legge Smuraglia, che consente l’assunzione di detenuti anche in aziende private, può essere un’ottima chance di reintregro nella società, ha spiegato Stefano Fabbri, ma spesso la legge non è conosciuta e applicata, nonostante sia in vigore da più di vent’anni. Decisivo e illuminante l’intervento di Giammarco Piacenti, imprenditore del settore restauri che ha già assunto ex detenuti nella sua azienda, superando pregiudizi e stereotipi e, al di là degli sgravi fiscali previsti, ha testimoniato che tutto è possibile quando si accoglie e si entra in relazione con l’altro. I suoi dipendenti “speciali” hanno portato benefici a tutta l’azienda inserendosi a testa bassa e lavorando per migliorare ogni giorno. È stato un incontro informativo, formativo e di confronto proficuo e diverso da altri perché, pur partendo da dati e nozioni, si è voluto comunicare che attraverso sguardi e piccole azioni di speranza per il futuro si può arrivare a coinvolgere e sensibilizzare la società civile, perché tutti insieme si può costruire una realtà migliore! Piacenza. Agostino e Anas, detenuti-rapper alle Novate piacenzasera.it, 6 dicembre 2024 “Ero timido, la musica mi ha dato speranze” Il rap scritto dai giovani detenuti del carcere di Piacenza. Ultima tappa per il progetto finanziato grazie alla Youth Bank (la banca dei giovani promossa dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano) “Da dentro a fuori - Musica per includere”: all’interno delle Novate è stato allestito un palco sul quale due ragazzi si sono esibiti presentando tra gli applausi brani musicali da loro elaborati con la supervisione del giovane rapper piacentino Michele Rossi, in arte True Skill, e l’aiuto dell’educatrice Roberta Cavaterra. Ospite speciale dell’evento il rapper Alessio Mariani, in arte Murubutu, musicista e professore di storia e filosofia a Reggio Emilia, conosciuto per il famoso talk show intitolato “letteraturarap”, un intreccio tra il mondo letterario e la scena rap in cui si mischiano metrica e narrativa con l’obiettivo di avvicinare le giovani generazioni alla conoscenza di correnti e opere letterarie; l’artista utilizza la musica come metodo di insegnamento per avvicinare i giovani alla letteratura e all’arte, per fornire stimoli e interessi, creando una terra di confine che ospita un linguaggio comune. Due ragazzi detenuti, Anas e Agostino, si sono esibiti nel pomeriggio di giovedì 5 dicembre proponendo i propri brani rap nella sala teatro del penitenziario, davanti a una quarantina di altri detenuti, tutti giovani. Li ha accompagnati alle “macchine” il dj Papa Dome. Ad ascoltarli c’era anche la direttrice Maria Gabriella Lusi, l’ex garante dei detenuti Alberto Gromi e il personale di polizia penitenziaria. Per la Fondazione di Piacenza e Vigevano presente la consigliera Noemi Perrotta. Dopo l’esibizione di Anas e Agostino, spazio a Murubutu che ha risposto ad alcune domande di Michele True Skill e poi ha cantato tre brani. “Un’esperienza costruttiva per i detenuti e soprattutto un’esperienza di fiducia nelle proprie potenzialità - la presenta la direttrice del carcere delle Novate Maria Gabriella Lusi -. Penso che uno dei compiti educativi di un istituto di pena sia proprio quello di mettere le persone nelle condizioni di riscoprirsi, perché tante volte dietro agli errori c’è la sfiducia innanzitutto in se stessi e la non conoscenza delle potenzialità e delle risorse che si hanno. È stato fatto un bel lavoro di squadra con l’Associazione “Verso Itaca”, grazie al quale si è arrivati a questo risultato che nella sua semplicità esprime molto in termini di umanità e di capacità personale. Si tratta della quarta tappa del progetto “Da dentro a fuori”: se normalmente è il carcere ad accogliere la comunità esterna, in questo caso attraverso l’esperienza musicale si vuole portare fuori la voce del carcere”. Nell’aprire il concerto, la direttrice Lusi ha rivolto un messaggio ai detenuti presenti in sala: “Così come Anas e Agostino, impegnandosi, hanno realizzato qualcosa di importante, anche voi tutti potete farlo. È importante immaginarsi in un mondo diverso da quello in cui si è”. “Lavorare con questi ragazzi - racconta Michele True Skill - è stato per me motivo di crescita: si sono rivelati da subito molto aperti, hanno capito che non ero venuto qui per fare la morale o insegnare qualcosa, ma per affiancarli in un percorso che senza di me non sarebbe stato possibile ma che partiva da un loro interesse e da una loro volontà. Mi hanno lasciato delle storie incredibili, dandomi la possibilità di conoscere una realtà complicatissima, alla quale non avrei mai avuto accesso, attraverso aneddoti, emozioni, le loro storie personali. Uno scambio reciproco, da dentro a fuori e da fuori a dentro, e per me un grande arricchimento”. “Mi ha colpito la trasparenza e l’umiltà - commenta Murubutu - due valori molto rari nel rap. Sono ragazzi alle prime armi, ma hanno già una capacità comunicativa importante”. Il prof-rapper reggiano ha poi detto la sua sulla trap. “Penso che vada interpretata in tutti i suoi temi, al di là degli stereotipi, perché spesso c’è un forte grido di dolore che non può essere ignorato”. True Skill ha ricordato i laboratori di lettura organizzati da Alberto Gromi in carcere, che sono riusciti a stimolare la curiosità dei detenuti. “La letteratura è un esercizio mentale che può sembrare faticoso ma fino a un certo punto. È un modo per riuscire a evocare immagini e crearsi dentro un mondo abitabile. A volte leggere le vite degli altri può aiutarci a vivere più vite”, dice Murubutu. Sollecitato da una domanda dal “pubblico”, Agostino ha raccontato: “Prima ero timido, poi la musica mi ha fatto aprire e mi ha dato delle speranze”. Roma. Rebibbia, il cappellano: il Papa dona speranza, dopo la Porta Santa non cali l’attenzione di Roberta Barbi vaticannews.va, 6 dicembre 2024 L’invito a non dimenticare i detenuti almeno per tutto l’anno del Giubileo arriva da padre Lucio Boldrini, cappellano del carcere romano dove il Pontefice aprirà una Porta Santa il 26 dicembre prossimo: “I ristretti attendono Francesco con gioia, sentono la sua vicinanza mentre percepiscono il distacco della società”. Sovraffollamento, suicidi, solitudine problemi presenti, ma, dice il sacerdote, attraverso fede e lavoro garantiamo la cura e combattiamo l’indifferenza. Sarà la quindicesima volta che Papa Francesco visita un istituto di pena, il prossimo 26 dicembre, quando - per la prima volta - un Pontefice aprirà la Porta Santa nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Questa volta il Papa si recherà come “pellegrino di speranza”: un sentimento troppo fragile, in carcere, dove va coltivato con amore e dedizione anche con l’aiuto degli operatori e dei cappellani, dato l’esiguo numero dei colloqui con gli affetti rimasti fuori. È sempre alta l’attenzione che il Pontefice ha per i detenuti: tra quelli ospitati a Rebibbia Nuovo Complesso era già stato il Giovedì Santo del 2015 per il rito della Lavanda dei piedi: “I detenuti aspettano il Papa con gioia perché sentono la sua vicinanza, esattamente come, al contrario, percepiscono la propria lontananza e il proprio distacco dalla società - racconta ai media vaticani padre Lucio Boldrini, cappellano della struttura - porsi tra la gente come fa il Santo Padre risponde al bisogno di un mondo in cui le persone si fanno sempre più lontane nonostante i social che forniscono una prossimità fittizia”. La speranza è anche uno dei temi centrali del Giubileo 2025 che non deve fermarsi, per i ristretti di Rebibbia, al giorno dell’apertura della Porta Santa, è l’auspicio del cappellano: “Dobbiamo impegnarci tutti a ‘prolungare’ lo spirito della visita del Papa per tutto l’Anno Santo - spiega - noi cappellani, ad esempio, ci siamo messi a disposizione del detenuti e delle loro famiglie e saremo presenti tutte le mattine presso la chiesa del Padre Nostro che è vicina all’area colloqui, per chiunque volesse attraversare la Porta Santa e ottenere così l’indulgenza plenaria, ma anche per chi volesse confessarsi o avesse qualunque altro bisogno spirituale”. Il dramma dei suicidi, un grido per dire: Aiutatemi, io esisto!” - Alla giornata con Papa Francesco ovviamente non potranno essere presenti tutti i detenuti perché il loro numero è sempre altissimo: “Il sovraffollamento è un problema serio che si trasforma in non rispetto per l’uomo: in celle di 9 metri quadri si possono trovare fino a sei detenuti tra i 21 e gli 85 anni e con un unico bagno”, prosegue padre Lucio. Un altro problema grande è la lontananza dagli affetti perché molti detenuti sono stranieri o comunque le loro famiglie vivono lontano dall’istituto: “Il silenzio che progressivamente, durante la detenzione, aumenta intorno a loro, è una nuova pena - afferma il cappellano - e poi c’è la paura di uscire dal carcere e trovarsi nella solitudine, specie per chi ha scontato condanne più lunghe. L’aumento dei suicidi si deve anche a questo, e poi non dimentichiamo gli almeno duemila detenuti che hanno tentato di togliersi la vita e i molti atti di autolesionismo che sono un grido che dice: ‘Aiutatemi, io esisto!’”. La speranza in carcere? La fede in Dio e il lavoro - Il cappellano racconta anche del lavoro quotidiano che si fa per donare speranza ai detenuti nel futuro, coinvolgendo la Caritas e gli imprenditori del territorio, affinché offrano opportunità di formazione e lavoro e alloggi temporanei per chi arriva al fine pena: “Sono armi per combattere l’indifferenza: grazie al lavoro i detenuti escono in permesso per poi rientrare in carcere la sera, alcuni rientrano in famiglia e così pian piano ricostruiscono la propria vita. Il lavoro è dignità per tutti, non solo per chi è dentro!”. A Rebibbia come negli altri istituti italiani, poi, c’è una grande presenza di stranieri, qui è pari al 35%: “Il problema principale da affrontare con loro è quello della lingua - conclude padre Boldrini - da un punto di vista religioso ho sempre trovato un grande rispetto. Ultimamente c’è un giovane arabo di 22 anni che durante una mia omelia a Messa ha chiesto perché alcuni potenti si ostinano a fare la guerra che distrugge tutto, a partire dal futuro delle prossime generazioni. Questo ragazzo arabo mi ha lasciato senza parole quando mi ha detto: siamo tutti figli dell’unico Dio!”. “Dado Galeotto”, il calendario che racconta la vita dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 dicembre 2024 Rappresenta anche un modo per sostenere il lavoro prezioso di “Ristretti Orizzonti”. Un calendario non è mai stato così potente: il “Dado Galeotto” di Ristretti Orizzonti non è solo un semplice oggetto da scrivania, ma un progetto educativo che rompe i muri del pregiudizio, portando la voce del carcere nelle case degli italiani. Oltre a essere uno strumento di sensibilizzazione, il calendario rappresenta anche una forma di autofinanziamento per sostenere il lavoro di Ristretti Orizzonti. Con un costo di 10 euro a copia, è possibile contribuire a un’iniziativa che da oltre 25 anni promuove il dialogo tra il “dentro” e il “fuori” del carcere. Giunto alla sua terza edizione, il “Dado Galeotto” è molto più di un calendario: è un simbolo di speranza e comprensione. È il frutto di vent’anni di impegno nel progetto “A scuola di libertà”, un percorso di educazione alla legalità che coinvolge scuole, comunità e istituti per minori. Questo viaggio parte dal cuore della Casa di reclusione di Padova e si spinge fino alle aule scolastiche, abbattendo i muri del pregiudizio. Le vignette del Dado, con la loro ironia amara, offrono uno spaccato di vita dietro le sbarre. Il tratto graffiante delle illustrazioni denuncia le condizioni critiche del sistema carcerario, tra sovraffollamento, disagio e resilienza umana. Graziano Scialpi, scomparso nel 2010, continua a dar voce a queste realtà attraverso i suoi disegni, ricordandoci che l’umanità dei detenuti non deve mai essere dimenticata. Ogni pagina del calendario è un affresco vivido, che racconta storie di dolore, ma anche di resistenza e voglia di riscatto. Le vignette svelano un mondo spesso ignorato, dove il sovraffollamento cresce, i suicidi aumentano, ma permane una straordinaria capacità di rigenerarsi. Il calendario 2025 non è solo un oggetto, ma un importante strumento di autofinanziamento per sostenere progetti di educazione alla legalità. I prezzi sono accessibili: 10 euro a copia, con uno sconto del 10% per l’acquisto di 5 copie e del 20% per 10 o più copie. Per il pagamento sono disponibili diverse opzioni. Bollettino postale: ccp 1042074151. Bonifico: IBAN IT44X0760112100001042074 151. Per il pagamento con Pay-Pal, l’email redazione@ristretti.it . Acquistare il “Dado Galeotto” significa molto più che compiere un gesto di solidarietà. Significa ascoltare storie, abbattere pregiudizi e ricordare che dietro le sbarre ci sono esseri umani, con le loro fragilità e la loro voglia di riscatto. Un calendario che non si limita a misurare il tempo, ma racconta l’umanità. Fine vita e cure palliative: facciamo un po’ di chiarezza in quel pasticcio semantico che ignora medici e pazienti di Gilberto Corbellini Il Dubbio, 6 dicembre 2024 Negli ultimi giorni si è parlato ancora, e sempre più accadrà, di fine vita. Il mondo occidentale è via via più abitato da persone anziane e che muoiono di morti degenerative, non più acute come erano le infezioni. La morte degenerativa era rara in passato e riguarda persone che sono oggetto di trattamenti che prolungano la durata delle fasi terminali della vita. Anche per il fatto che erano rare queste morti, le persone faticano a gestirle psicologicamente: molti fraintendimenti nelle discussioni pubbliche e laiche, al di là delle posizioni religiose, derivano da una resistenza a scomporre analiticamente i problemi. Due sono state le occasioni negli ultimi giorni per discutere di scelte di fine vita: l’uscita del Papa, che stavolta parrebbe propositiva, e dice che si deve lavorare sulle e con le cure palliative, e poi il passaggio al Parlamento inglese di un documento legislativo che propone di legalizzare il suicidio medicalmente assistito: ma per la definitiva approvazione si dovrà seguire un iter di discussione calendarizzato per i prossimi due anni e dieci turni di votazioni. Potrebbe anche morire per strada. Che cosa abbiamo capito dai modi in cui la questione è stata posta dal capo politico della Chiesa cattolica e dai parlamentari inglesi? Bergoglio dice che “bisogna accompagnare la vita al suo termine naturale attraverso uno sviluppo più ampio delle cure palliative” e che il dibattito va “condotto nella verità”. E allora diciamola, la verità, cioè che le cure palliative sono un colabrodo, per i fraintendimenti di cui sono oggetto e soprattutto per come sono intese dai cattolici. Sono cure per alleviare la sofferenza fisica e non praticate per accelerare l’arrivo della morte, si dice. Naturalmente nessuno può dire cosa avviene in concreto nella penombra delle case e degli ospedali. Le cure palliative sono definite dall’OMS “un approccio che migliora la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie che affrontano i problemi associati alle malattie a rischio di vita, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza mediante l’identificazione precoce, la valutazione e il trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali”. Cure palliative è quindi una locuzione ombrello e non interessa solo il fine vita. Una semantica stiracchiata per convenienza, come nel caso della palliazione o sedazione terminale: alcuni la tengono ipocritamente distinta dall’eutanasia, benché lo scopo finale sia di “accompagnare alla morte” spegnendo farmacologicamente la coscienza e togliendo ogni alimentazione. È vero però che l’eutanasia è un’altra cosa: le persone in alcuni paesi vi hanno un accesso legalmente controllato che ha i suoi vantaggio, fosse solo per la libertà di scelta. Quali sono le esperienze con le cure palliative? Sull’Italia si sa poco. Si può capitare bene, se ci si rivolge a una associazione laica e di professionisti, o si può precipitare in un inferno per il malato e i parenti se i palliativisti a cui ci si rivolge sono loschi figuri, ammantati di pseudo- empatia e religiosità, che del dolore e della sofferenza psicologica fanno un business. Data l’età potrei dilungarmi con aneddoti che raccontano di tragedia o di sollievo che passano attraverso le cure palliative. Non è giusto che sia così variabile e le decisioni di fine vita dovrebbero ritagliarsi sui valori stabiliti dai pazienti ad esempio con le DAT, e a seguire quelli dei parenti. Tra le esperienze di cui ho spesso sentito raccontare dai parenti, vi è la messa a disposizione della morfina. Ovvero si narra, ma i racconti sono credibili, che la morfina viene messa disposizione dei parenti che se vedono il paziente soffrire, possono caricare la dose e accelerare il decesso. Personalmente trovo inaccettabile eticamente causare un decesso senza richiesta. Il Papa dice anche che “le persone alla fine della vita hanno bisogno di essere sostenute da assistenti che siano fedeli alla loro vocazione, che è quella di fornire assistenza e sollievo pur non potendo sempre guarire… Prendere la mano dell’ammalato che fa bene a lui e a noi”. Io so benissimo di cosa ho bisogno in caso di fine vita, senza che me lo dica la Chiesa. È irritante ascoltare le persone religiose dire di cosa hanno bisogno “tutti”, in ragione di un verbo al quale crede solo qualcuno, mentre sappiamo per esperienza che ognuno di noi ha diversi desideri e bisogni: il mio fine vita di laico e ateo non può essere messo sullo stesso piano, annullando la mia libertà e individualità, di quello del mio amico Augusto che è molto credente e osservante. In questo modo si sta mancando di rispetto a me e a lui. I paesi con le migliori reti e nodi di medicina palliativa sono quelli che hanno legalizzato e ammettono caso per caso l’accesso al suicidio medicalmente assistito e all’eutanasia, ovvero quei paesi che accanto alle cure palliative, che hanno esattamente lo scopo che devono avere, esaminano caso per caso e possono ammettere le richieste di suicidio medicalmente assistito. Il dibattito in Inghilterra e Galles sul suicidio medicalmente assistito ha dimostrato che i pregiudizi e le emozioni colpiscono anche i freddi empiristi: altro che discussione pacata, se ne sono dette di tutte e sono stati tirati fuori i più beceri luoghi comuni pro e contro. In Italia commentiamo sempre i risultati finali o provvisori. Forse perché l’Italia è in ultima istanza un paese illiberale, dove un tema di libertà civile è raro che emerga a una sensibilità politica ideologicamente piegata. Eppure, i britanni sono sempre empiristi. Se qualcuno vuol leggere centinaia di aneddoti di cui dicevo priva e che provano la disomogeneità della medicina di fine vita, può compulsare un documento prodotto nel settembre scorso dal sistema di hospice Marie Curie in Uk. Vicende agghiaccianti. L’indagine ha fornito alle persone in lutto un’importante opportunità per condividere le loro opinioni sull’assistenza ricevuta prima del decesso e sulle loro esperienze di lutto, assumendo che sia essenziale considerare ciò che possiamo imparare dalle esperienze condivise in questa indagine, compresi gli aspetti che hanno funzionato bene e quelli che devono essere migliorati. Un documento che è stato accolto con approvazione e rispetto dal Royal College of Physician. Di fatto il Royal College che per decenni si era opposto alla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito e la posizione conseguente al report ha aperto la strada alla nuova legge. Lo si è visto e vale per quasi tutti i paesi che hanno legiferato, che la posizione dell’ordine dei medici nazionali è strategica per istruire una legge sul fine vita, che intercetti i problemi e valori dei malati, piuttosto che quelli dei medici. Negli anni scorsi il Presidente francese Macron non è riuscito a far passare una legge sul suicidio assistito, a causa dell’opposizione dei medici, che si limitano ad accettare che la sedazione terminale sia una scelta nella disponibilità dei pazienti. Se così è andata in Francia non è pensabile che si potrà mai in Italia andare oltre la sentenza Cappato. Eventualmente si potrà solo retrocedere. Sui migranti la destra usa solo slogan. E traveste la disumanità da decreto di Gianni Cuperlo Il Domani, 6 dicembre 2024 Due anni di governo e otto decreti in materia di migranti, l’ultimo votato dal Senato mercoledì 4 dicembre. Se sommiamo una ventina di altri provvedimenti la destra, per difendere patria e confini, ha partorito una nuova misura al mese. Significa almeno due cose. La prima è che vivono nell’ossessione di un fenomeno epocale piegato a un allarme repressivo nella speranza di cavalcare le paure e aumentare i voti nelle urne. La seconda è che navigano a vista inseguendo l’umore del tempo e umiliando la Costituzione. Due anni di governo e otto decreti in materia di migranti, l’ultimo votato dal Senato mercoledì 4 dicembre. Se sommiamo una ventina di altri provvedimenti la destra, per difendere patria e confini, ha partorito una nuova misura al mese. Significa almeno due cose. La prima è che vivono nell’ossessione di un fenomeno epocale piegato a un allarme repressivo nella speranza di cavalcare le paure e aumentare i voti nelle urne. La seconda è che navigano a vista inseguendo l’umore del tempo e umiliando la Costituzione. Lo hanno fatto col primo decreto, quello che puniva le ong colpevoli di salvare la gente in mare. Poi si sono accaniti sui minori sommando sofferenza a solitudine e disagio. Lo hanno confermato da ultimo con un testo (il decreto 145/2024) che al pregresso aggiunge un di più di arbitrio giuridico e disumanità. Cimitero Mediterraneo - A tenere assieme il tutto un solo filo rosso: da anni moltiplicano gli slogan senza indicare una soluzione, mentre corpi innocenti continuano a morire. Come a Cutro, a pochi metri dalle nostre coste, con un’inchiesta aperta che denuncia le loro responsabilità. Quasi cento morti solamente in quella tragedia. Con le bare allineate nella palestra, alcune di legno bianco perché misuravano meno di un metro. Neppure lì davanti sono andati a chinare la testa. Hanno preferito una passerella nei tg con volo di andata e ritorno e rapida seduta del governo sui banchi del Consiglio comunale. Slogan, coniano e utilizzano slogan rivestiti puntualmente da decreti. Elias Canetti spiegava che nelle lingue celtiche “slogan” significava “inno di battaglia dei morti”. Tradotto per noi: una politica di slogan è quella che incita allo scontro, aizza gli animi, ma senza una visione e una morale. Nell’ultimo provvedimento si stabilisce l’obbligo del migrante a collaborare nell’accertamento della sua identità. Giusto, è prima di tutto nel suo interesse. Ma subito dopo viene decretata la licenza di ispezionare ogni dispositivo elettronico in suo possesso, anche se minorenne e di farlo con la sola decisione del questore, senza autorizzazione giudiziaria così violando l’articolo 13 della Costituzione. Flussi regolati - Non prevedono alcun incremento delle quote per un flusso regolato di lavoratori stranieri quando Confindustria da sola registra un bisogno di centomila nuovi ingressi. La risposta è diecimila persone, in via sperimentale, per l’assistenza a disabili e anziani. Sui settori vitali dell’agricoltura e del turismo, il nulla. In compenso c’è il rifiuto a regolarizzare quanti sono già qui e una volta scaduto il permesso di soggiorno, senza un tempo adatto a cercare un nuovo impiego, sono condannati a ingrossare l’esercito degli irregolari. Ancora, vengono esclusi i patronati già abilitati a inviare le richieste di ingresso, il che rallenterà i tempi ostacolando il ricorso a flussi regolari. Per capirsi, quelli da cui dipende la sopravvivenza del nostro welfare: dalla sanità alle pensioni. Improvvisazione e superficialità - Tutto questo lo fanno mescolando improvvisazione e superficialità. Sull’elenco dei cosiddetti “paesi sicuri” hanno preso un decreto incardinato al Senato e nottetempo lo hanno trasformato in un emendamento al decreto in discussione alla Camera. Nulla di diverso da un gioco delle tre carte, col particolare d’avere sottratto ai parlamentari la prerogativa a disporre dei sessanta giorni canonici per l’esame della misura, compresi i suoi caratteri di necessità e urgenza. Tanto più che un elenco di “paesi sicuri” era stato aggiornato a maggio, non dalle opposizioni ma dal ministro Antonio Tajani. Ed era la stessa lista usata dal tribunale di Roma per non convalidare il fermo dei dodici migranti deportati in Albania. Giudizio avallato dalla sentenza della Corte di giustizia europea del 4 ottobre dove si è fissato il principio per cui un paese è sicuro solo se lo è in ogni sua parte. Con una lunga serie di emendamenti le opposizioni hanno chiesto di togliere dalla lista dei “paesi sicuri” nazioni che palesemente non lo sono. In particolare lo abbiamo chiesto lo stesso giorno in cui nel tribunale di Roma un ex detenuto nelle carceri egiziane aveva rilasciato questa testimonianza: “Giulio Regeni l’avevo visto mentre usciva dalla palazzina del carcere…era ammanettato con le mani indietro, cogli occhi bendati…non riportava tracce di sangue, ma di seguito l’avevo rivisto uscendo dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura, tra due carcerieri, portato a spalla per essere accompagnato alle celle”. Sono state lette in commissione quelle frasi per motivare la follia di giudicare l’Egitto un paese sicuro. Maggioranza e governo non hanno battuto ciglio. Ma neppure questo è bastato ed è toccato alla Cassazione stabilire un rinvio del giudizio sul ricorso presentato dal governo in attesa di una nuova pronuncia della Corte di giustizia europea. Con uno speciale accanimento hanno stabilito che per il ricongiungimento familiare serve che un membro della famiglia abbia una permanenza continuativa nel nostro paese di almeno due anni, non più uno solamente, senza considerare che il posticipo può voler dire la condanna a morte degli ultimi tra gli ultimi. Di chi cerca solo di salvarsi: da una guerra, dalla fame, dagli stupri. Tutto questo sino al paradosso dei centri di trattenimento in Albania. Un miliardo buttato via. Hanno spiegato che si tratterebbe di un modello studiato dall’Europa. La verità è che l’Europa ride di un’operazione tanto assurda. Con una nave che sbarca dodici migranti e se li riporta indietro, e ne sbarca altri otto, e si riporta pure quelli. Dai banchi del governo hanno tenuto a chiarire che il costo reale della nave Libra è stato un’inezia al confronto di operazioni assai celebrate come “Mare nostrum”. Evidentemente ignari di una differenza: che quei costi servivano a salvare gente che annegava, non a mostrare i muscoli a pochi disperati. Infine, con l’ultimo colpo di mano, si sono occupati dei giudici “disobbedienti” perché “obbedienti” solo alle leggi e al primato della giurisprudenza europea su quella domestica. La risposta è stata trasferire le competenze dalle sezioni specializzate dei tribunali alle corti d’appello. Salvo che quei giudici la materia l’hanno studiata per anni. Passare la pratica alle corti d’appello senza risorse e personale attrezzato significa intasare quegli uffici con ripercussioni pesanti sullo snellimento delle procedure e i tempi dei processi. Come opposizioni lo abbiamo detto e ripetuto dapprima in commissione e poi in Aula. Ora lo dice anche il Csm (Consiglio superiore della magistratura) che nel bocciare la misura parla esplicitamente del “rischio concreto di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi fissati per il settore giustizia dal Pnrr”. Per mesi abbiamo chiesto la ratio di tutto ciò, ma non c’è stata risposta perché una risposta non c’è. Difendere della destra - Penso che questo decreto sia parte della ferocia ideologica che anima da tempo il capo della Lega e vicepresidente del Consiglio. Questa volta però, in alcuni momenti, mi è parso di cogliere l’imbarazzo del campo più moderato dentro il centrodestra. Perché non dev’essere semplice per donne e uomini che dicono di avere a cuore la dignità di ogni essere umano, il valore della famiglia, il primato della vita, alzare la mano e licenziare norme che quell’insieme di principi e valori letteralmente calpestano. Ma qui si entra in un campo privato, persino intimo, com’è la coscienza di ciascuna e ciascuno di noi. Perché poi la lotta politica è fatta di molte cose: il consenso, il potere, i rapporti di forza. Ma la coscienza, quella è fatta di coerenza tra ciò che si è, ciò che si dice e quello che si fa. Se penso a un sottosegretario di questo governo che prova “gioia” quando lo stato di diritto viene ferito dietro il vetro oscurato di una volante della polizia, non mi stupisce che norme simili trovino sostegno nei banchi di Fratelli d’Italia. Tanto meno può stupire il sostegno della Lega che nel nome traviato della sicurezza offende la dignità di donne e uomini colpevoli soltanto della loro povertà. Ma i cosiddetti moderati, i sinceri liberali dentro il centrodestra, come fanno a votare - userò la vecchia metafora di un ministro leghista - una “porcata” simile? Spiegava l’anziano Vittorio Foa ai ragazzi del liceo di Formia: “I valori non si insegnano, i valori si vivono”. Penso avesse ragione. E allora torna alla mente la risposta di Benjamin Franklin a una signora che 250 anni fa gli chiese, “ma quindi professore, che forma di governo avremo?”. E lui di rimando, “una democrazia, signora. Sempre se saprete difenderla”. Le nuove norme sui migranti. “In Veneto rischio ingorgo” di Roberta Polese Corriere di Verona, 6 dicembre 2024 L’allarme del presidente della Corte d’appello di Venezia Carlo Citterio: “Se la mole di lavoro è destinata ad aumentare con le nuove norme del decreto flussi, non potremo rispettare gli obiettivi del Pnrr”. Lenta ma inesorabile. Questo si diceva una volta della giustizia. Ma ora ci sono tutti i presupposti affinché si realizzi solo la prima parte del proverbio. Il nuovo decreto Flussi infatti avrà un impatto non indifferente sulle Corti d’appello, che saranno chiamate a giudicare sulle sospensive richieste per persone che arrivano da Paesi non sicuri e sui trattenimenti dei migranti che, giunti in Italia con le navi o via rotta balcanica, appartengono ai Paesi cosiddetti “sicuri” e che quindi dovrebbero essere mandati nel centro per il rimpatrio in Albania. Non ci sono numeri precisi che rappresentino la dimensione veneta del caso, a dare un numero di massima è Salvatore Laganà presidente del tribunale di Venezia, in cui ha sede la Sezione specializzata in materia di immigrazione formata da giudici che hanno competenze su questo tema. “All’anno arrivano dai nostri giudici 3.000 fascicoli relativi a persone che ricorrono contro la decisione delle commissioni territoriali, di questi casi almeno l’80% arriva da Paesi considerati sicuri”. Ora buo na parte di questi dovrà occuparsi la corte d’Appello di Venezia. Di qui l’allarme del presidente della Corte lagunare Carlo Citterio: “Se la mole di lavoro è destinata ad aumentare anche con questi fascicoli decreto Flussi, rischiamo di non riuscire a rispettare le norme che ci sono state imposte per il Pnrr”. In sostanza il principio è questo: se vogliamo gli investimenti nel settore della Giustizia i giudici devono smaltire rapidamente i fascicoli molto vecchi e devono assicurare che quelli nuovi abbiano tempi rapidi. Il parametro di riferimento è il dato pre-Covid del 2019 che per il presidente Citterio “è difficilmente sostenibile soprattutto a Venezia anche perché quell’anno vennero prese delle misure eccezionali non più replicabili: se arrivano fascicoli in più, e il personale rimane lo stesso, sforeremo con i tempi” dice. Quindi secondo i magistrati il nuovo Decreto Flussi, che sottrae la materia dell’immigrazione ai giudici che sono specializzati quell’argomento, per darla ad altri, rischierà di paralizzare un sistema già in difficoltà. Ma perché il governo ha preso questa decisione? Il motivo lo spiega l’avvocato padovano Marco Ferrero, specializzato da oltre vent’anni in materia di immigrazione: “Dopo alcune decisioni dei giudici di Bologna e Roma sui trattenimenti in Albania, che hanno preso in contropiede il governo “liberando” le persone migranti detenute nel Cpr in Albania sulla base della legislazione europea, il governo ha valutato le statistiche e ha deciso di togliere la materia ai giudici dell’immigrazione, che gli davano spesso torto, per far decidere su questo tema un “collegio” di giudici della Corte d’appello, sottintendendo che una decisione collegiale sia meno esposta alla politicizzazione del giudice singolo”. Per capire bene l’argomento serve però aver chiaro come funziona la richiesta di protezione internazionale. Un migrante che arriva in Italia può giungere da un Paese non sicuro o da uno sicuro. I Paesi sicuri sono, 14, cui si aggiungono con la nuova legge Tunisia, Bangladesh, Egitto, Costa d’Avorio, Perù. Nel primo caso la commissione territoriale può decidere di dare o di non dare la protezione internazionale. Se non la concede si fa ricorso: prima del decreto Flussi la sola deposizione del ricorso alla Sezione territoriale dell’immigrazione generava la sospensiva del provvedimento, adesso il ricorso andrà depositato in Corte d’appello che dovrà esprimersi anche sulla sospensiva. Se invece la persona migrante arriva da un Paese sicuro dovrà essere trasportata nel Cpr albanese. “Prima però è un giudice che deve decidere se la persona può essere “deportata”, e va sottolineato che le norme europee chiedono ai giudici di entrare nel merito della persona migrante in questione, che pur arrivando da un Paese sicuro, può egualmente essere esposta a pericoli per la propria vita nel caso facesse ritorno nel proprio Paese, questo dicono i trattati internazionali che anche il nostro ordinamento deve rispettare”. Iran. Narges Mohammadi: la premio Nobel in lotta con il regime misogino di Teheran di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 6 dicembre 2024 Narges Mohammadi è stata scarcerata, la cinquantaduenne iraniana, premio Nobel per la pace nel 2023, imprigionata da oltre un decennio, e uscita infatti dal famigerato carcere di Evin, a Teheran, per motivi di salute. Purtroppo non si tratta di una liberazione definitiva ma solo di una sospensione temporanea della pena di appena ventuno giorni. Pensare che il regime degli ayatollah abbia voluto compiere un gesto di clemenza rimane una pia illusione come dimostrano le cifre, mostruose, della repressione politica in corso in Iran. A dare notizia della libertà provvisoria è stata la stessa Narges Foundation che ha messo in rilievo come la scarcerazione arrivi troppo tardi rispetto a quando sarebbe dovuta avvenire. Narges Mohammadi, rende noto l’organizzazione in un comunicato, “ha subito un doloroso intervento chirurgico alle ossa di una gamba e solo in questo caso il pubblico ministero ha finalmente approvato la richiesta dell’avvocato Mostafa Nili, per una sospensione della carcerazione. A differenza di un congedo medico, che avrebbe consentito al periodo di recupero di essere conteggiato nella sua pena detentiva, questa sospensione significa che in realtà una volta ritornata in cella dovrà scontare altri ventuno giorni”. Narges necessita infatti di cure mediche specialistiche in un ambiente sicuro e igienico. Secondo i medici, un minimo di tre mesi di recupero è fondamentale per la sua guarigione. La Narges Foundation ha sottolineato anche come settimane di sofferenza straziante in prigione, evidenziano il “persistente disprezzo per le libertà fondamentali di Narges Mohammadi e il trattamento disumano che sopporta”, anche dopo aver ricevuto il premio Nobel per la pace. La salute di Mohammadi è precipitata durante la sua lunga detenzione. Due anni fa ha subito diversi attacchi cardiaci prima di essere trasferita in ospedale per un intervento chirurgico d’urgenza al cuore. All’inizio di ottobre di quest’anno, la famiglia ha espresso serie preoccupazioni in merito ai ripetuti rifiuti da parte dei funzionari della prigione di Evin di portarla in un nosocomio per eseguire un’angiografia, un intervento che le era già stato stato prescritto. Finalmente le fu consentito di visitare a ottobre. Il suo avvocato difensore annunciò che durante una visita medica, i dottori avevano scoperto una lesione ossea nella sua gamba destra sospettata di essere cancerosa. Sebbene Mohammadi fosse stata sottoposta a un intervento chirurgico per rimuovere parte dell’osso, fu trasferita di nuovo in prigione dopo soli due giorni, contro il consiglio del suo medico e la richiesta del suo team legale, nonostante non fosse in grado di camminare o persino di sedersi. Le condizioni igieniche precarie della prigione, l’assenza di cambi di medicazioni sterili, il sovraffollamento nel reparto femminile, il suo sistema immunitario compromesso e lo stress del suo recente intervento chirurgico hanno avuto un impatto gravissimo sulla salute di Narges Mohammadi. Per molti anni, la cinquantaduenne ha combattuto contro la discriminazione sistematica e l’oppressione delle donne in Iran. In prima linea in una coraggiosa lotta per i diritti umani, la libertà e la democrazia. Nel 2003 è entrata a far parte del Centro per i difensori dei diritti umani di Teheran, un’organizzazione fondata da un’altra importante premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi. Mohammadi ha assistito attivisti incarcerati e le loro famiglie. È stata partecipe della campagna contro la pena di morte e contro l’uso sistematico della tortura e della violenza sessualizzata nelle carceri iraniane da parte del regime. La vicenda di Mohammadi rientra nel pesantissimo giro di vite repressivo che ha preso il via dopo le proteste del 2022 a seguito della morte della ragazza curda Mahasa Amini, che diede il via a un più vasto movimento denominato Donna Vita Liberta. Da allora la pena di morte e le migliaia di incarcerazioni sono diventate una costante.