“Dado Galeotto”, il calendario che racconta la vita dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2024 Rappresenta anche un modo per sostenere il lavoro prezioso di “Ristretti Orizzonti”. Un calendario non è mai stato così potente: il “Dado Galeotto” di Ristretti Orizzonti non è solo un semplice oggetto da scrivania, ma un progetto educativo che rompe i muri del pregiudizio, portando la voce del carcere nelle case degli italiani. Oltre a essere uno strumento di sensibilizzazione, il calendario rappresenta anche una forma di autofinanziamento per sostenere il lavoro di Ristretti Orizzonti. Con un costo di 10 euro a copia, è possibile contribuire a un'iniziativa che da oltre 25 anni promuove il dialogo tra il “dentro” e il “fuori” del carcere. Giunto alla sua terza edizione, il “Dado Galeotto” è molto più di un calendario: è un simbolo di speranza e comprensione. È il frutto di vent’anni di impegno nel progetto “A scuola di libertà”, un percorso di educazione alla legalità che coinvolge scuole, comunità e istituti per minori. Questo viaggio parte dal cuore della Casa di reclusione di Padova e si spinge fino alle aule scolastiche, abbattendo i muri del pregiudizio. Le vignette del Dado, con la loro ironia amara, offrono uno spaccato di vita dietro le sbarre. Il tratto graffiante delle illustrazioni denuncia le condizioni critiche del sistema carcerario, tra sovraffollamento, disagio e resilienza umana. Graziano Scialpi, scomparso nel 2010, continua a dar voce a queste realtà attraverso i suoi disegni, ricordandoci che l'umanità dei detenuti non deve mai essere dimenticata. Ogni pagina del calendario è un affresco vivido, che racconta storie di dolore, ma anche di resistenza e voglia di riscatto. Le vignette svelano un mondo spesso ignorato, dove il sovraffollamento cresce, i suicidi aumentano, ma permane una straordinaria capacità di rigenerarsi. Il calendario 2025 non è solo un oggetto, ma un importante strumento di autofinanziamento per sostenere progetti di educazione alla legalità. I prezzi sono accessibili: 10 euro a copia, con uno sconto del 10% per l’acquisto di 5 copie e del 20% per 10 o più copie. Per il pagamento sono disponibili diverse opzioni. Bollettino postale: ccp 1042074151. Bonifico: IBAN IT44X0760112100001042074 151. Per il pagamento con Pay-Pal, l’email redazione@ristretti.it. Acquistare il “Dado Galeotto” significa molto più che compiere un gesto di solidarietà. Significa ascoltare storie, abbattere pregiudizi e ricordare che dietro le sbarre ci sono esseri umani, con le loro fragilità e la loro voglia di riscatto. Un calendario che non si limita a misurare il tempo, ma racconta l’umanità. Suicidi dei detenuti: i dati non tornano perché “si muore di carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2024 La questione delle morti in carcere torna al centro del dibattito politico con un'interrogazione parlamentare presentata dal deputato Roberto Giachetti (Italia Viva) al ministro della Giustizia. L'iniziativa punta a fare luce sui dati discordanti relativi ai decessi avvenuti negli istituti penitenziari italiani e ad affrontare il tema del sovraffollamento, sempre più correlato all'aumento di eventi critici. Secondo il Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà, al 27 novembre 2024 si registrano 77 suicidi tra le persone detenute, 125 decessi per cause naturali e 19 morti per cause ancora da accertare, per un totale di 221 decessi. Tuttavia, i numeri del monitoraggio di Ristretti Orizzonti raccontano un'altra storia: a quella data risultavano 83 suicidi e 145 decessi per altre cause, per un totale di 228. Le discrepanze si estendono anche al confronto storico: il ministero della Giustizia, ad esempio, ha riportato 66 suicidi in carcere nel 2023, mentre il Garante nazionale ne ha registrati 68, accompagnati da un numero significativamente maggiore di decessi per cause naturali (149 contro i 122 indicati dal ministero). Giachetti evidenzia come queste incongruenze non siano un dettaglio, ma riflettano una mancanza di trasparenza che rende difficile valutare il reale stato del sistema penitenziario italiano. In particolare, il deputato ha chiesto al ministro se intenda aggiornare le serie storiche ufficiali per includere le morti da cause ancora da accertare, elemento che il Garante tiene in considerazione ma che sembra mancare nei rapporti ministeriali. Un quadro preoccupante - La situazione si complica ulteriormente con i dati relativi agli eventi critici. Sempre secondo il Garante nazionale, nel 2024 si è verificato un aumento del disagio detentivo: i tentativi di suicidio sono saliti da 1.748 a 1.892 (+ 144 rispetto al 2023), gli atti di autolesionismo da 11.232 a 11.723 (+ 491), e le aggressioni da 4.802 a 5.200 (+ 398). A questi si aggiunge un dato drammatico fornito dai sindacati della Polizia penitenziaria: nel 2024, 7 agenti si sono tolti la vita, mettendo in luce una crisi che non risparmia nemmeno chi lavora nelle carceri. Il sovraffollamento è indicato come uno dei principali fattori di stress per il sistema. Al 27 novembre, 62.410 detenuti erano ristretti in istituti con una capienza regolamentare di soli 46.771 posti, determinando un tasso di sovraffollamento del 133,44%. Questa condizione estrema, secondo il Garante nazionale, contribuisce direttamente all'aumento degli eventi critici, creando un ambiente invivibile sia per i detenuti che per il personale. Nel testo dell'interrogazione, Giachetti avanza precise richieste al ministro della Giustizia. Chiarezza sui dati: fornire un quadro esatto dei decessi in carcere, distinguendo tra suicidi, morti per malattia, omicidi e cause ancora da accertare. Trasparenza statistica: aggiornare le serie storiche ministeriali, includendo tutte le categorie di decessi. Focus sulla Polizia penitenziaria: rendere noti i dati sui suicidi tra gli agenti e presentare una panoramica storica degli ultimi 20 anni. Misure contro il sovraffollamento: promuovere interventi strutturali per ridurre il numero di detenuti, in linea con le indicazioni del Garante nazionale. Revisione del regime detentivo: valutare l'opportunità di rivedere la collocazione dei detenuti, privilegiando le sezioni a regime aperto per mitigare il disagio psicologico. Su quest'ultimo punto, ricordiamo, è il Garante nazionale stesso a evidenziare che la stragrande maggioranza dei suicidi avvengono nelle sezioni chiuse. Un grido d'allarme - L'interrogazione di Giachetti mette in evidenza un sistema penitenziario al collasso, dove il sovraffollamento non è solo un problema logistico, ma un fattore che amplifica la sofferenza e il disagio di chi vive e lavora in carcere. La richiesta di chiarezza e interventi concreti arriva in un momento critico, in cui la credibilità delle istituzioni penitenziarie e la tutela dei diritti umani sono messe in discussione. Proprio l'altro ieri, su queste stesse pagine de Il Dubbio, abbiamo messo in evidenza i dati discordanti proprio sui suicidi. Il Garante si ferma a 77, a oggi Ristretti Orizzonti ne conta 85. E in un'intervista su Il Foglio, il ministro Nordio non obietta alla domanda che fa riferimento a 83 suicidi. Come ci ha spiegato Ristretti Orizzonti, il loro dossier si chiama “Morire di carcere”, non “Morire in carcere”. Considerano “morte di carcere” anche le persone che si impiccano in cella e muoiono dopo alcuni giorni in ospedale, ma anche Francu Cristian, che il 28 novembre si è ucciso gettandosi dalla finestra al 5° piano dell'ospedale, dove era ricoverato e piantonato per problemi di salute (ma anche dopo manifestato intenti suicidari), ma anche V.G., che si è impiccato a un albero mentre era in permesso premio e gli mancavano pochi mesi al fine pena (ricorda il film “Le ali della libertà”). Il ministro della Giustizia è ora chiamato a rispondere, non solo con dati aggiornati, ma con un piano chiaro e incisivo per affrontare un'emergenza che non può più essere ignorata. Il carcere uccide: 85 suicidi, 231 decessi totali. È l’anno record di morti in cella di Luigi Mastrodonato Il Domani, 5 dicembre 2024 Il tragico record apparteneva al 2022, quando si erano tolti la vita 84 detenuti. Oggi, quando alla fine del 2024 manca ancora poco meno di un mese, dal carcere genovese di Marassi arriva la notizia di un 21enne che si è impiccato. Nelle carceri italiane non si erano mai suicidate così tante persone in un anno. Il tragico record apparteneva al 2022, quando si erano tolti la vita 84 detenuti. Oggi, quando alla fine del 2024 manca ancora poco meno di un mese, dal carcere genovese di Marassi arriva la notizia di un 21enne che si è impiccato. L’85esimo suicidio, ma anche la 231esima persona a morire in un istituto penitenziario italiano quest’anno. Un altro tragico record. Dai sindacati di polizia a chi si occupa dei diritti dei detenuti, come l’associazione Antigone, è unanime il grido per misure urgenti sulle carceri che mettano fine a questa strage silenziosa. Il governo, invece, introduce nuovi reati e va persino in confusione anche sui numeri dei morti. Il record di suicidi - Aveva 21 anni, veniva dal Maghreb e da qualche tempo si trovava recluso nel reparto SAI (Servizio assistenza intensificata) del carcere genovese di Marassi. Nelle scorse settimane aveva commesso atti di autolesionismo ed era considerato un soggetto fragile a rischio suicidio. È stato trovato impiccato nella sua cella nella giornata del 4 dicembre, segno che l’assistenza intensificata del reparto in cui si trovava non ha funzionato, vuoi per il solito sottodimensionamento del personale, vuoi per la disumanizzazione di cui sono vittima i detenuti nelle carceri italiane, considerati come numeri più che come esseri umani. Il suicidio del giovane detenuto nel carcere di Marassi è il quarto dell’anno nell’istituto genovese ed è l’ennesima storia di una vita spezzata nelle prigioni italiane, che fa più rumore delle altre. Perché è l’85esima volta che un detenuto si toglie la vita in carcere nel 2024, un numero che non era mai stato raggiunto dall’Italia da quando si registra questo dato, dagli anni Novanta. Il tragico record precedente apparteneva al 2022, quando i suicidi erano stati 84. L’anno scorso erano stati 70. E gli 85 del 2024 è difficile siano un numero definitivo, se quest’anno in media si è suicidato un detenuto ogni quattro giorni. Alla fine dell’anno manca ancora poco meno di un mese e probabilmente bisognerà aggiornare la conta tragica. Mai così tanti morti in carcere - Il 2024 è l’anno con il numero più alto di suicidi nelle carceri italiane. Ma non è finita qui. Estendendo la raccolta dati a tutti i decessi in carcere, il record è ancora più sconvolgente. Secondo Ristretti Orizzonti, quest’anno i morti totali in carcere sono stati 231. L’anno scorso erano stati 191 ed era già il numero più alto di sempre. Di carcere, in Italia, si muore. È come se quella pena di morte abolita con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il 1° gennaio 1948, fosse ancora presente in una forma invisibile. Il carcere italiano, un inferno fatto di sovraffollamento, pessime condizioni strutturali, apatia e violenze, ammala il corpo e la mente. C’è chi si suicida, c’è chi contrae malattie, c’è chi vede peggiorare le sue già precarie condizioni di salute perché lo Stato mantiene il braccino corto quando si tratta di dare pene alternative. L’Italia è il paese in Europa con più anziani in carcere, con persone recluse che hanno anche più di 90 anni. Un detenuto su due ha problemi di tossicodipendenza. Più in generale, il 70 per cento dei prigionieri ha una qualche forma di patologia. La strage penitenziaria è una conseguenza diretta di tutti questi elementi messi insieme. Il fatto che nel 2024 si siano tolti la vita anche sette agenti penitenziari, un altro record, offre una fotografia ancora più limpida di cosa siano le carceri italiane oggi. La confusione del governo - “Il 2024 sta frantumando tutti i record negativi del sistema penitenziario italiano. Cosa altro deve accadere affinché il governo si interessi di carcere, e non solo per continuare a stiparci gente introducendo sempre nuovi reati?”, la denuncia di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “La situazione complessiva nelle prigioni è da tempo fuori controllo, sia per i detenuti che per gli operatori”, il commento di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Il record dei suicidi e dei morti in carcere nel 2024 va in effetti a braccetto con un altro record, quello delle presenze. Oggi in carcere ci sono più di 62mila detenuti, contro una capienza inferiore alle 50mila presenze. Numeri di sovraffollamento record e in continua crescita, se si pensa che nel 2020, con l’emergenza Covid-19, i detenuti erano poco più di 50mila. Mentre l’Italia continua ad accumulare condanne della giustizia europea per il terribile stato delle sue carceri, i numeri dicono che la situazione non fa altro che peggiorare. E la risposta del governo è quella di introdurre nuovi reati, tra decreti sicurezza, Caivano, il codice della Strada, i rave e molti altri, ingrossando ulteriormente il flusso di persone verso gli istituti penitenziari, compresi quelli minorili. Per il governo i numeri tragici che arrivano dalle carceri non sembrano essere un problema. E anzi, sul tema c’è anche molta confusione. La conta del Garante nazionale dei diritti dei detenuti Riccardo Turrini Vita, voluto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, è ferma a 79 suicidi in carcere nel 2024. Lo stesso ministro Nordio in un’intervista ha accolto il numero di 83. Come certificano l’associazione Antigone e Ristretti Orizzonti, a togliersi la vita sono state però 85 persone. Per il Governo, evidentemente, sono solo numeri. Il sistema carcerario al collasso porta alla morte di Francesco Sannicardo Il Domani, 5 dicembre 2024 Nel sistema penitenziario italiano, il record dei suicidi, 84, è stato raggiunto nel 2022 e tutto fa temere che questa macabra statistica sia destinata a crescere ulteriormente. Sono dati che ci parlano di una realtà impossibile da rimuovere: in prigione ci si toglie la vita circa venti volte più di quanto si faccia nelle corrispondenti fasce di età tra i cittadini liberi. Questo significa, innanzitutto, che è il carcere, la sua struttura immanente e oppressiva, la sua insensatezza a costituire un sistema patogeno: produce alienazione, psicosi, depressione, autolesionismo e morte. Ulteriore conferma il fatto che tra gli agenti penitenziari il tasso di suicidi è sensibilmente superiore a quello registrato in tutti gli altri di corpi di polizia. Sono ormai 16mila i detenuti oltre la capienza regolamentare e più di 18mila i posti vacanti nella polizia penitenziaria. Sono le cifre di un disastro che appare irreversibile: basti pensare che i pochi nuovi agenti previsti da uno dei molti “decreti sicurezza” dovrebbero entrare in servizio solo nei primi mesi del 2026. E nulla, proprio nulla, è stato realizzato per affrontare le più gravi contraddizioni del sistema. Non stupisce che in questo quadro così desolato esploda la violenza endemica che cova nelle strutture fatiscenti, nell'incattivirsi delle relazioni tra custodi e custoditi, nelle condizioni disumane di vita, nella congestione dei corpi, nel degrado degli spazi e nell'aggressività dei rapporti gerarchici. C'è una parte della classe politica che tutto ciò giustifica e blandisce: come il sottosegretario Del Mastro appoggiato dalla presidente del consiglio. A una situazione di emergenza si deve rispondere con misure di emergenza. Da qui la proposta proveniente da giuristi, costituzionalisti e funzionari dell'amministrazione penitenziaria, di un provvedimento di amnistia e indulto che ponga le condizioni per una più generale riforma del sistema. Si potrà scoprire, così, che la clemenza non è l'espressione di sentimenti filantropici e tanto meno, “la resa dello stato” come ha detto il ministro della giustizia Carlo Nordio. È, piuttosto, l'esito di un calcolo razionale del rapporto tra costi e benefici e un investimento lungimirante sulle garanzie - e sulla forza - dello stato di diritto. Con il progetto nazionale “Orizzonti” nuove opportunità di riscatto per giovani detenuti ildenaro.it, 5 dicembre 2024 Mediobanca sostiene il progetto della Fondazione Francesca Rava. “Il Gruppo Mediobanca rinnova il proprio impegno per l’inclusione sociale di giovani detenuti e detenute sostenendo il progetto di respiro nazionale “Orizzonti” in collaborazione con Fondazione Francesca Rava - Nph Italia Ets”. Lo comunica l’Istituto spiegando che “Orizzonti nasce nell’ambito di “Palla al Centro”, un progetto della Fondazione Francesca Rava già attuato in Lombardia e che si estenderà nei 17 Istituti penali per i minorenni presenti sul territorio nazionale, grazie al Protocollo di Intesa concluso dalla Fondazione con il Dipartimento di Giustizia minorile e di Comunità nel gennaio 2024?. Lo scopo del progetto “Orizzonti” è offrire ai detenuti, fra i 14 e i 25 anni, negli Istituti penali di Milano, Pontremoli, Roma, Napoli, Bari e Catanzaro, un’opportunità concreta di ripartenza, di inclusione e riscatto attraverso il loro coinvolgimento diretto in attività manuali e formative al fianco dei dipendenti volontari del Gruppo Mediobanca, delle educatrici della Fondazione Francesca Rava e di figure professionali specializzate nelle diverse discipline. All’interno dei sei Istituti aderenti al progetto verranno proposte diverse attività: dall’imbiancatura delle strutture penitenziarie a corsi teorici e pratici di giardinaggio fino a laboratori di taglio e decoro, per acquisire nuove competenze ma anche per imparare nuovi mestieri valorizzando la cultura del bello; ai ragazzi e alle ragazze coinvolte verrà, inoltre, offerta la possibilità di realizzare dei murales, beneficiando della funzione “curativa” dell’arte per astrarsi dalla realtà detentiva circostante. Nella programmazione sono, inoltre, previsti corsi di pet-therapy, volti a rafforzare le capacità comunicative e relazionali dei giovani detenuti, migliorando la loro autostima e la collaborazione attraverso l’aiuto reciproco, ma anche corsi di rianimazione cardiopolmonare e disostruzione e testimonianze da parte di volontari-sanitari della Fondazione Francesca Rava, intese a illustrare il contesto di emergenza in cui si inserisce l’intervento della Fondazione e a trasmettere l’importanza di salvaguardare la vita umana e il valore della stessa. “Da diversi anni il Gruppo Mediobanca è impegnato in iniziative volte all’inclusione sociale dei detenuti e delle detenute, con l’obiettivo di fornire loro gli strumenti e le competenze che ne supportino il reinserimento sociale - commenta Giovanna Giusti del Giardino, Chief Sustainability Officer del Gruppo Mediobanca. Crediamo che offrire a queste persone un’opportunità di crescita e riscatto possa fare la differenza nelle loro vite. In particolare, il progetto Orizzonti al fianco della Fondazione Rava ci permette di fornire competenze pratiche per imparare nuovi mestieri, offrendo al contempo nuove opportunità di crescita e riscatto”. “Ringraziamo di cuore il Gruppo Mediobanca per aver voluto offrire, attraverso il progetto Orizzonti al fianco della Fondazione Francesca Rava, reali opportunità di rinascita e di empowerment per centinaia di giovani detenuti presso gli Istituti penali per i minorenni di Milano, Pontremoli, Roma, Napoli, Bari e Catanzaro - ha dichiarato Mariavittoria Rava, Presidente della Fondazione Francesca Rava. Attraverso la previsione di attività di durata annuale o di interventi programmati durante l’intero anno scolastico, la Fondazione è onorata di collaborare per la prima volta con Gruppo Mediobanca nella realizzazione di interventi educativi e iniziative efficaci volti a individuare i talenti di questi giovani e a facilitarne il reinserimento sociale e lavorativo, realizzando un ponte tra “dentro” e “fuori”, tra Istituti penali minorili e territorio. Grazie a tutti i dipendenti del Gruppo che aderiranno con entusiasmo, al fianco dei giovani detenuti e delle educatrici della Fondazione Francesca Rava, alle attività proposte in ciascuno dei 6 Istituti penali per i minorenni inclusi nel progetto Orizzonti, il quale ben si inserisce nell’ambito dell’impegno profuso da diversi anni dalla Fondazione a sostegno dei giovani entrati nel circuito penale, in stretta collaborazione con il Ministero della Giustizia e i servizi della giustizia minorile”. Minori in carcere o in comunità: sono 15mila in Italia, mai così tanti metropolisweb.it, 5 dicembre 2024 Se si somma il numero di minorenni che durante il 2024 sono stati affidati ai servizi sociali, quelli ospitati nelle comunità, nelle carceri, oppure quelli messi alla prova, arriviamo a 14.819 individui. E in Campania quelli presi in carico dagli uffici di servizio sociale nel corso dell’anno solo tra Napoli e Salerno sono 758, che diventano 1.899 se consideriamo quelli già presi in carico prima di gennaio di quest’anno. Dai dati resi noti durante il convegno “Male Fuori”, emerge che nell’istituto penale di Nisida sono presenti 70 detenuti e nell’Ipm di Airola 30, per un totale di 100 detenuti a fronte degli 84 al 31 dicembre 2023. La maggior parte dei ragazzi detenuti hanno tra i 16 e 17 anni per un totale di 48 tra Nisida e Airola. “Facciamo attenzione a come prevenire il disagio e la devianza”, dice Samuele Ciambriello, garante dei detenuti. “Una volta che queste persone vanno in carcere o in comunità o sono messe alla prova, per evitare la recidiva, che cosa fanno le istituzioni? dicono solo di abbassare l’età punibile? custodire? Ergastolo? Non c’è un mare dentro, c’è molto male fuori e poca prevenzione fuori”. Parla di dati allarmanti anche Gennaro Oliviero, presidente del Consiglio regionale della Campania. “Tanti giovani sono segnalati all’autorità giudiziaria per questo abbiamo bisogno di fare attività di prevenzione. Ora, può essere la scuola pomeridiana? Ma se non ci vanno la mattina come possono il pomeriggio? Dobbiamo andare a ‘raccoglierli’ con l’aiuto delle associazioni. Faremo un tavolo di discussione, una seduta monotematica su disagio e devianza minorile, da tenere nel prossimo mese di gennaio”. Per Bruna Fiola, presidente della Commissione Regionale Politiche Sociali: “La politica sta facendo tanto ma non basta: ce lo dicono le cronache che ci rappresentano ogni giorno una situazione sempre più drammatica. La presa in carico dei minori già segnalati non risultata sufficiente ed occorre affrontare la problematica nel suo complesso, coinvolgendo la famiglia e la scuola, integrando il programma ‘Scuola Viva’ con delle azioni che non solo allontanino i ragazzi dalla strada ma che riportino a scuola coloro che non frequentano”. La Procuratrice della Repubblica per i Minorenni di Napoli, Patrizia Imperato, dice: “La strada principe da percorrere è quella della prevenzione concreta che dia la possibilità a questi ragazzi di non aderire a modelli criminali e criminogeni” nel corso del convegno ha spiegato che “è molto importante puntare sull’educazione dei giovani che sono interessati da comportamenti di devianza e, particolarmente, di coloro che sono collocati in istituti penali minorili, ma è fondamentale garantire loro una prospettiva occupazionale perché il lavoro rappresenta il vero ed efficace strumento per la piena realizzazione del reinserimento sociale e per la piena concretizzazione della dignità e del futuro delle persone”. Aggiunge il Presidente di Associazione Italiana Giovani Avvocati, Francesco Zaccaria: “Riteniamo che il Decreto Caivano abbia generato alcune criticità in quanto, ad esempio, l’esclusione della messa in prova per i minori che hanno commesso determinati reati rappresenta una perdita di opportunità per la rieducazione e il reinserimento sociale dei giovani, in quanto la sola punizione si è dimostrata che è del tutto insufficiente” Ragioni etiche e costituzionali per superare l’ergastolo di Alfredo Roma Il Domani, 5 dicembre 2024 È difficile accettare principi etici, laici e religiosi, quando si è davanti a delitti caratterizzati da una efferatezza inimmaginabile come in molti femminicidi o davanti a capi di mafia pluriomicidi, ma è necessario accettarli e diffonderli per mantenere un cammino verso un più elevato livello di civiltà. Nelle ultime settimane si è parlato spesso degli ergastoli comminati ad Alessandro Impagnatiello, per l’uccisione di Giulia Tramontano, e a Filippo Turetta, per l’uccisione di Giulia Cecchettin. Sul tema del carcere a vita occorre fare alcune considerazioni di ordine etico e morale oltre che costituzionale. L’ergastolo è stato introdotto nel nostro ordinamento dal codice penale Zanardelli nel 1889 al posto dei lavori forzati (damnatio ad metalla nell’antica Roma). Si tratta della pena più severa dopo la pena di morte che in molti paesi (55) resta purtroppo ancora in vigore, tra questi Stati Uniti e Giappone che sono paesi del G7. In Italia la pena di morte fu abolita nel Gran Ducato di Toscana 200 anni fa e tale abolizione, grazie al ministro di Giustizia, Enrico Poggi, fu mantenuta anche dopo la formazione del Regno d’Italia. Una visione davvero lungimirante. La pena di morte fu ripristinata dal fascismo, per essere poi definitivamente abolita nel 1948. L’ergastolo - La pena dell’ergastolo è stata abolita nei seguenti stati europei: Norvegia, Portogallo, Spagna, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Città del Vaticano. L’esempio più virtuoso è quello della Norvegia dove l’ergastolo è stato abolito nel 2012 e la pena massima è di 21 anni. Le carceri norvegesi sembrano sobri alberghi che garantiscono la dignità del carcerato e tutto è organizzato per la sua riabilitazione e non per la sua punizione. In Paesi come l’Italia, la Francia e gli Stati Uniti (soprattutto a livello federale) esiste l’istituto della “liberazione anticipata” e altre forme di riduzione della pena detentiva. Viceversa, altri paesi come la Germania, il Regno Unito e la Spagna non conoscono un simile istituto. Al detenuto resta comunque la possibilità di uscire di prigione prima della scadenza del termine stabilito grazie alle norme sulla liberazione condizionale. In Italia, la liberazione anticipata della pena è regolata dall’articolo 54 della legge 1975, n. 354 ed è molto simile all’istituto del diritto francese. Il comma 3, dell'articolo 176 del codice penale sancisce espressamente che il condannato all'ergastolo possa essere ammesso alla liberazione condizionale nel caso in cui abbia scontato 26 anni di pena. Ergastolo e costituzione - Tutte queste misure riconoscono che l’ergastolo è una pena detentiva assurda che non può essere scontata integralmente, perché non si può togliere al condannato la speranza di una redenzione e di un futuro reinserimento nella società. L’articolo 27 della costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Evidentemente la rieducazione del condannato è in funzione del suo possibile reinserimento nella società, quindi il carcere a vita è contrario al dettato della costituzione. Occorre poi sempre ricordare l’articolo 3 della Carta, che impone il rispetto della dignità sociale per ogni cittadino, qualunque sia la sua condizione, quindi anche quella di criminale. A questo riguardo, ancora una volta, si deve ricordare che il vero problema è lo stato delle carceri italiane, sovraffollate, dove nulla si fa per la rieducazione del carcerato. Al contrario, si devono spesso registrare episodi di violenza sui carcerati, come quello avvenuto recentemente nel carcere di Trapani che ha portato all’arresto di 11 agenti penitenziari. Una situazione che ha visto anche nel 2024 (fino a oggi) 83 suicidi tra i detenuti oltre a numerosi suicidi nella polizia penitenziaria. Ma la politica da tempo è sorda e cieca per il problema carcerario, come dimostra la recente affermazione di un sottosegretario alla Giustizia che ha espresso “gioia nel non far respirare i detenuti sulle auto della polizia”. È evidente che nelle carceri italiane prevale la punizione rispetto alla riabilitazione. Le parole del Papa - Nel suo ultimo libro “La speranza non delude mai”, Papa Francesco parla dell’ergastolo e lo definisce “una morte mascherata”. L’ergastolo è una pena gravemente lesiva della dignità umana ed è incompatibile con il grado di sviluppo dei diritti umani e civili che il mondo ha raggiunto. Anche il papa afferma che non si può togliere al carcerato la speranza della redenzione per una riconciliazione con la comunità. Dunque la morale cristiana e quella laica sono assolutamente d’accordo nel considerare l’ergastolo una pena lesiva della dignità umana togliendo al condannato la speranza del ravvedimento e del ritorno nella comunità. In parte, questi concetti erano già stati espressi nel 1764 dall’illuminista Cesare Beccaria nel suo saggio Dei delitti e delle pene. Per Beccaria “la pena alla schiavitù perpetua è più dolorosa e crudele della pena di morte in quanto non concentrata in un momento ma estesa per tutta la vita”. È difficile accettare questi principi etici, laici e religiosi, quando si è davanti a delitti caratterizzati da una efferatezza inimmaginabile come in molti femminicidi o davanti a capi di mafia pluriomicidi, ma è necessario accettarli e diffonderli per mantenere un cammino verso un più elevato livello di civiltà. Così Gino Cecchettin ci ha insegnato che un ergastolo non potrà mai lenire il dolore di Davide Vari Il Dubbio, 5 dicembre 2024 Le parole del papà di Giulia fanno vacillare l’intero edificio panpenalista su cui si è edificata la narrazione giustizialista: ci ricorda che la nostra civiltà non si costruisce sulla giustizia-vendetta. C’è una quiete disarmante, quasi spiazzante, nelle parole di Gino Cecchettin. L’uomo, il padre che ha vissuto il più doloroso degli oltraggi, la perdita di sua figlia, ha trasformato quel dolore in militanza, in gesto politico, in battaglia contro i femminicidi. Non si è perso nell’abisso in cui ognuno di noi sarebbe precipitato, né ha ceduto alla rabbia consolatoria della “terribilità della giustizia”, come direbbe Leonardo Sciascia. Non ha cercato la catarsi nell’ergastolo comminato a Filippo Turetta, né si è abbandonato al sollievo di una condanna così dura, decisiva, definitiva come solo l’ergastolo può essere. Al contrario, Cecchettin ha avuto il coraggio e la lucidità di capire e dichiarare che quel dolore non può trovare soluzione nell’orizzonte di un’aula di tribunale, né lenire la sua ferita al suono di una sentenza di ergastolo. E si tratta di una postura che fa vacillare l’intero edificio panpenalista su cui, negli ultimi anni, si è edificata la narrazione giustizialista: quella che pretende di affrontare ogni complessità umana, ogni ingiustizia, con l’unico metro della severità della pena. Una narrazione che riduce il diritto a vendetta codificata, illudendo tutti noi che il dolore altrui possa guarire il proprio. Le parole di Cecchettin brillano ancora di più se le mettiamo accanto al conformismo di chi esulta per quell’ergastolo o si attarda a discutere con inutile cinismo sulla mancata aggravante della crudeltà. Un coro sinistro che confonde la pena con la vendetta e fa terra bruciata dell’articolo 27 della Costituzione: “La pena deve tendere alla rieducazione del condannato”, ricordate? L’esatto opposto di quel desiderio primordiale che cerca appagamento nel dolore. Cecchettin, invece, con disarmante lucidità, smonta questo inganno. Ci costringe a guardare in faccia l’insostenibilità di una giustizia trasformata in arma: “Abbiamo perso tutti come società”, dice. Abbiamo perso quando un ragazzo ha pensato di poter possedere la vita di una ragazza, privandola della libertà, fino a negarne l’esistenza. E continuiamo a perdere se crediamo che un ergastolo possa essere risarcimento, che il dolore di una famiglia possa evaporare tra le pieghe del codice penale. Non c’è indulgenza nelle parole di Cecchettin. Nessuna pietà gratuita verso chi ha compiuto l’irreparabile. Ma c’è una consapevolezza più alta, che sradica l’idea stessa della giustizia-vendetta. Non c’è giudice, né difensore, né pubblico ministero che possa restituire ciò che gli è stato sottratto in quel modo. In un’epoca in cui il populismo giudiziario ha eretto la pena a totem, a simbolo salvifico di ordine e giustizia, la voce di Cecchettin risuona come una sfida. Una lezione scomoda. Ci ricorda che la nostra civiltà non si costruisce sulla soddisfazione dell’istinto vendicativo. Semmai è l’esatto contrario. E in questa consapevolezza di una giustizia che non può lenire la rabbia e il dolore, c’è forse il più grande insegnamento di civiltà. “La vita da ergastolano può far impazzire un uomo. Mi salvarono famiglia e fede” di Roberta Polese Corriere del Veneto, 5 dicembre 2024 Manca, l’ex della Mala: “Una volta libero la folla mi spaventava”. Il Doge: era questo il soprannome di Giampaolo Manca, veneziano, 70 anni, esponente di spicco della Mala del Brenta, l’organizzazione criminale attiva nel Nordest guidata da Felice Maniero tra gli anni 70 e 90. Coinvolto in attività criminali come rapine, furti e traffico di droga, è stato condannato per l’omicidio dei fratelli Rizzi. “Quando mi diedero l’ergastolo non andai nemmeno in aula, era giorno di colloqui ma io mi ero già abituato all’idea, sapevo di non avere scampo”. Giampaolo Manca, il “Doge della Mala del Brenta”, ha 70 anni, 36 di questi li ha passati in cella, anche nelle carceri di massima sicurezza di mezza Italia. Oggi è fuori. Scrive libri e con i proventi sostiene un’associazione padovana che si occupa di bambini autistici. Conosce bene la parola ergastolo: ebbe quella condanna per l’omicidio di Massimo e Maurizio Rizzi, freddati a colpi di pistola il 10 marzo 1990 insieme a Franco Padovan sull’argine del fiume e poi sepolti. Manca, una parola, “ergastolo”, che fa paura. La stessa pena comminata a Filippo Turetta... “Ma io avevo 40 anni, questo ragazzo ne ha 22. Per lui sarà più difficile, io avevo una storia criminale, Turetta non arriva da quel mondo lì. Ma quello che lui non sa è che sono due gli ergastoli che dovrà scontare: quello della giustizia e quello della sua coscienza, il rimorso non lo abbandonerà mai”. Che cosa si prova a sapere che non si uscirà più di cella? “È terribile, le tue speranze sono a zero, hai due opzioni davanti: o vivi o muori, per fortuna per me quella sensazione durò poco più di un anno perché in Appello la mia pena venne ridotta a 36 anni”. Trentasei anni sono un’enormità... “È vero, ma nonostante questo la prospettiva mentale di avere un fine pena, anche se lontanissimo, apre molte speranze, è difficile spiegarlo a parole”. Che cosa ha rappresentato per lei il carcere? “Il carcere può essere una medicina, una cura per gli errori fatti, sai di aver commesso un errore enorme e quello che stai vivendo è quello che ti meriti, lo spazio è piccolo ma ci si abitua, ci si abitua anche al lento scorrere dell’alternanza di aria e cella. Io ho attraversato varie carceri, sono stato vicino a persone molto pericolose, erano gli anni ’90, lo Stato con i mafiosi usò la mano pesante, conobbi uno ‘ndranghetista che uccise un suo rivale facendolo a pezzi nella vasca da bagno. Ho visto quest’uomo pentirsi e piangere, non resse, si suicidò”. Sono molti i suicidi in carcere, ha mai pensato di togliersi la vita? “Ero nel mezzo della pena, dopo 15 anni in cella credevo che non avrei più resistito e sì, ho avuto l’idea di togliermi la vita, ma poi ho pensato alla mia famiglia: avevano già sofferto abbastanza per colpa mia, se mi fossi ucciso per loro sarebbe stato un altro dolore troppo grande, sarei stato un codardo. Ho deciso di resistere, loro mi hanno salvato”. Spazi angusti, stretti, sensazione di mancanza d’aria, è stato mai colto da qualche crisi? “Mi è successo in uno dei furgoni di massima sicurezza che trasporta i prigionieri pericolosi dalle carceri ai tribunali per i processi. Lì manca l’aria, una volta ho chiesto l’ambulanza, dal quel momento ho deciso di non andare più alle udienze, non riuscivo a salire lì dentro”. Le avranno fatto impressione le parole del sottosegretario Andrea Delmastro “È una gioia non lasciare respiro a chi sta sull’auto della penitenziaria”... “Parole sbagliate e dolorose. Uno Stato forte non è uno Stato cattivo, la pena non è una vendetta, anche se purtroppo in questo Paese è così”. Turetta uscirà tra molti anni, lei cosa provò quando uscì dopo la detenzione? “Ricordo quel corridoio di 200 metri che mi portava all’uscita, ho camminato nelle nuvole”. È stato facile ambientarsi, fuori? “No, ricordo che avevo brutte sensazioni nello stare in mezzo a tante persone, una volta sono scappato da un supermercato perché c’era troppa gente”. Cosa direbbe a Turetta se potesse parlargli oggi? “Di guardarsi dentro, di diventare consapevole di quello che ha fatto, è giovane, spero che qualcuno si prenda cura di lui, temo che possa farsi del male”. Chi ha salvato lei? “La fede: pregavo che mio padre in coma non morisse, avevamo avuto un pessimo rapporto ma gli volevo bene, Dio ascoltò le mie preghiere, le ascoltò anche quando pregai per mio fratello gemello, che stava male. Esauditi questi due desideri mi misi nelle mani di Dio, e fu la mia salvezza”. Serve chiedere perdono alle famiglie delle vittime? “Non serve a nulla, sono tutte falsità, serve solo chinare la testa. Non c’è perdono per quello che abbiamo fatto”. “Non esistono mostri. Il processo sia anche civiltà di parole, nel rispetto di tutti” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 dicembre 2024 Il processo e la condanna a carico di Filippo Turetta ha offerto l’occasione per tornare a riflettere sul processo penale nei casi di violenza di genere. Ne parliamo con la dottoressa Roberta D’Onofrio, gip presso il Tribunale di Campobasso. Lei innanzitutto condivide quanto detto dall’avvocato Matteucci in una intervista ieri a questo giornale per cui non esistono gli indifendibili? Condivido in pieno. Non esiste alcuna categoria di indagati- imputati insuscettibile di essere difesi o che non vadano difesi. Il diritto di difesa è sacro ed inviolabile, come da Costituzione in quanto garanzia ineludibile che va declinata per qualsiasi categoria (ove ne esistano) di indagati o imputati. Naturalmente, siffatti principi non possono non valere anche nell’ambito dei procedimenti per violenza di genere o domestica. Spesso raccontiamo di avvocati presi di mira perché difendono i cosiddetti “mostri”: esercitare il diritto di difesa soprattutto nei casi di violenza contro le donne è diventato molto complesso. Lei da magistrato percepisce questo fenomeno? Io sono contraria a qualsiasi forma di etichettatura per “categorie”. A mio parere non esistono “mostri” se non come semplificazioni giornalistiche che non aiutano a formare l’opinione pubblica e sono di ostacolo all’accertamento della verità dei fatti e della fondatezza delle accuse. Il che deve avvenire nel processo. Ciò non significa sottovalutare il primario interesse pubblico alla diffusione delle notizie. Va compiuto uno sforzo, sia all’interno del processo, fra tutte le parti coinvolte, sia all’esterno, nella comunicazione mediatica, nell’utilizzare un linguaggio che sia il più possibile rispettoso delle peculiarità dei valori coinvolti. Il processo, al suo interno, dovrebbe declinarsi come una “civiltà di parole”, con grande impegno al rispetto dei diritti di ciascuno. In particolare, nei processi per violenza di genere, proprio per la vulnerabilità nella quale spesso versano le persone offese, va ricercato un linguaggio che rappresenti un punto di equilibrio fra la necessaria ed inviolabile difesa dell’imputato e la salvaguardia dei contrapposti diritti vulnerati. Si tratta di una sfida che, ritengo, la magistratura e l’avvocatura siano in grado di affrontare, soprattutto a mezzo di una adeguata formazione culturale. Quanto è complesso, se lo è, per un giudice non farsi condizionare anche indirettamente in queste vicende dalla grancassa mediatica o social? L’accertamento della verità va compiuta rigorosamente all’interno del processo ed il magistrato non si fa influenzare in alcun modo da notizie apprese altrove. Nei processi più delicati nei quali è prevista la partecipazione dei giudici popolari la prima indicazione loro fornita è proprio quella di non subire qualsivoglia interferenza esterna nel proprio convincimento, che va conformato esclusivamente a quanto recepito legittimamente in aula di udienza. Dice Matteucci: “Oggi si assiste ad una proiezione vittimocentrica della giustizia penale per cui si costituiscono doppi, tripli, quadrupli binari in relazione alla tipologia di vittima che si intende tutelare”. Lei cosa ne pensa, in particolare, in tema di violenza di genere? Dissento. Riconosco che le strategie di indagine siano diverse per tipologie di reati. I procedimenti a “vittima vulnerabile” presentano delle peculiarità tecniche, già, ad esempio, per le modalità con le quali vengono raccolte le prove o per la anticipazione del contraddittorio in fase di indagine. Il che è connaturale rispetto anche alla rievocazione di fatti (a volte dolorosi) ed a garantire l’intervento della difesa nella formazione della prova fin dalla fase delle indagini. Si tratta, poi, di processi nei quali si gioca anche sulla velocità e sulla sfida di approntare risposte che siano adeguate alle istanze di tutela solo se fornite in tempi brevi. Ritengo, dunque, che le garanzie processuali e le norme acceleratorie siano strettamente funzionali al presidio di tutela che si vuole assicurare, purché superato il serio vaglio di attendibilità della denuncia. Come raggiungere il massimo equilibrio fra diritto dell’imputato ed istanze della vittima? Questa è la sfida di ogni processo. La si vince con il rigoroso rispetto delle regole processuali ma anche promuovendo una crescita culturale di tutti i soggetti istituzionali coinvolti: si deve assicurare il pieno diritto di difesa promuovendo un uso della “parola” nel processo che non sia traumatizzante per la vittima. Al Senato è in discussione un ddl costituzionale per inserire la vittima in Costituzione. Qual è il suo parere in merito? Vedo con favore che venga attribuita dignità costituzionale ai diritti ed alle facoltà delle vittime del reato, nei limiti in cui sono riconosciuti dalla legge. Si tratterebbe di un segnale teso ad accentuare come il processo giusto sia quello proiettato alla ricerca della verità nell’equilibrio fra contrapposti valori di pari dignità costituzionale. Turetta è stato condannato all’ergastolo. Secondo lei, comminare questa pena può essere opportuno alla rieducazione e dare sollievo alle vittime? L’obiettivo del processo è quello di ristabilire l’ordine dei valori violato nella realtà anche mediante la comminazione di una pena, quale è quella dell’ergastolo, compatibile con l’assetto costituzionale attuale. La società dovrebbe tuttavia promuovere una educazione ai rapporti fra i generi in termini di equilibrio fin dall’infanzia così che possa diventare sempre meno indispensabile comminarla. Cartabia, pene sostitutive con prescrizioni obbligatorie (ritiro passaporto, armi ecc.) di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2024 La Cassazione, sentenza n. 44347 depositata oggi, ha chiarito che le “prescrizioni” che conseguono a semilibertà, domiciliari e lavoro di pubblica utilità, non sono “pene accessorie” ma vanno applicate obbligatoriamente dal giudice immagine non disponibile. In caso di applicazione di una pena sostitutiva introdotta dalla riforma Cartabia, le prescrizioni aggiuntive come, per esempio, il ritiro del passaporto, non sono discrezionali e rimesse alla valutazione del giudice, ma obbligatorie. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 44347 depositata oggi, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per reati tributari a 1 anno e 15 giorni di reclusione poi sostituito con lavori di pubblica utilità, con ritiro del passaporto. Contro quest’ultima prescrizione, l’imputato ha proposto ricorso sostenendo, tra l’altro, la violazione degli articoli 545 bis cod. proc. pen., 20 bis cod. pen., 53, 56 bis e 56 ter legge 689/81 nonché l’erronea applicazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4 CEDU in relazione alla statuizione relativa al ritiro del passaporto sostenendo che nelle “disposizioni di legge in ordine al divieto di espatrio che permeano l’ordinamento giuridico nella propria interezza e nella giurisprudenza sovranazionale” non si rinviene alcun automatismo nell’applicazione del divieto di espatrio, che deve essere quindi disposto caso per caso dall’autorità giudiziaria. Al contrario la Terza sezione penale, in tema di sanzioni sostitutive di pene detentive brevi, ribadisce che “le prescrizioni previste dall’art. 56-ter della legge 24 novembre 1981, n. 689 - introdotto dall’art. 71 Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150 - per la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva e il lavoro di pubblica utilità sostitutivo non sono “pene accessorie” la cui applicazione dipende dalla discrezionale valutazione del giudice, ma costituiscono contenuto necessario e predeterminato della pena sostitutiva, da applicare obbligatoriamente anche in caso di patteggiamento”. E la richiesta formulata dall’imputato per l’applicazione di dette pene sostitutive, o il consenso prestato alla richiesta del pubblico ministero, “implica necessariamente l’accettazione delle prescrizioni che le connotano”. La Cassazione ha così dichiarato anche manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale. Il ricorrente, infatti, non ha tenuto conto che il lavoro di pubblica utilità svolge una duplice funzione, rieducativa e risocializzante ma anche afflittiva, costituendo pur sempre una pena derivante dalla commissione di un reato “come d’altronde sottolineato dalla modifica del nome iuris disposto dalla riforma Cartabia con l’introduzione dell’art. 20 bis cod. pen., e che l’applicazione della misura ha, quale necessario presupposto, l’assenso del condannato che, quindi, ha la possibilità di valutare la congruità e la convenienza della pena sostitutiva rispetto alla pena comminata”. Del resto, prosegue la Corte, le prescrizioni previste dall’articolo 56 ter “rispondono a esigenze special preventive evidenti”. E lo dimostrano il comma 2 della norma, e l’articolo 58 che consentono la sostituzione della pena detentiva solo quando le pene sostitutive assicurino “la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati” eventualmente anche mediante l’imposizione di obblighi ulteriori rispetto a quelli preveduti dall’articolo 56 ter. Con riguardo poi alla sentenza della Cedu del 20/9/2016 evocata dal ricorrente, in cui si sanciva l’illegittimità del diniego al rilascio del passaporto in caso di pena condizionalmente sospesa, la Suprema corte afferma che “è di tutta evidenza, che la vicenda in valutazione è del tutto differente dal caso esaminato dalla Corte EDU, risultando il divieto di espatrio potenzialmente in conflitto con il giudizio di non pericolosità che aveva permesso a Vlasov e Benyash di usufruire della sospensione condizionale della pena” mentre, nel caso specifico “è strumentale alla funzione special-preventiva che la pena sostitutiva è destinata a soddisfare”. Genova. Detenuto di 21 anni si toglie la vita nel carcere di Marassi primocanale.it, 5 dicembre 2024 Si è impiccato nella sua cella. La denuncia del sindacato. “Magrebino, di soli 21 anni, ha messo fine alla sua giovanissima vita nel pomeriggio, impiccandosi nella sua cella del carcere genovese di Marassi, al reparto Sai (Servizio assistenza intensificata), dove pare fosse stato allocato per pregressi tentativi di suicidio”, lo afferma Gennarino De Fazio, segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Numero suicidi - “A nulla sono valsi i soccorsi di operatori e sanitari. Con 85 detenuti che si sono tolti la vita nel 2024, cui bisogna aggiungere 7 appartenenti alla Polizia penitenziaria, quando mancano ancora 27 giorni alla fine dell’anno, è stato già superato il numero monstre del 2022, anno più tragico di sempre, in cui i suicidi furono 84. A Marassi, peraltro, è il quarto, l’ultimo solo il 15 novembre scorso”. Emergenza carceri - “La situazione complessiva nelle prigioni è da tempo fuori controllo e, ciò che è peggio, si aggrava giorno per giorno. Sono ormai 16mila i detenuti oltre la capienza massima, mentre mancano oltre 18mila unità alla Polizia penitenziaria. Anche a Marassi, su 535 posti, sono ammassati 696 reclusi che vengono gestiti da appena 330 agenti, quando ne sarebbero necessari almeno 551”, spiega il Segretario della Uilpa PP. Affollamento e mancanza di guardie - “Tutto questo rende quasi impossibile la vita sia ai detenuti sia agli operatori, questi ultimi sottoposti a carichi di lavoro e a turnazioni massacranti, privati di elementari diritti, anche di rango costituzionale, stremati nel fisico e mortificati nel morale e nell’orgoglio anche per esser loro impedito d’adempiere efficacemente alle funzioni richieste dalla collettività. Ribadiamo che necessitano interventi immediati per deflazionare la densità detentiva, adeguare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria, assicurare l’assistenza sanitaria e riorganizzare, riformandolo, l’intero apparato”, conclude De Fazio. Proprio ieri in consiglio comunale a Genova si era discusso dei suicidi in carcere. A portare il tema in aula la consigliera comunale di Avs Francesca Ghio. Genova. Don Paolo Gatti: “Il carcere, la mia parrocchia” di Francesca Di Palma Il Cittadino, 5 dicembre 2024 Testimonianza del Cappellano del Carcere di Marassi: “Come cristiani e come cittadini di una società civile ci rendiamo conto che il carcere è una ferita aperta”. Da alcune settimane Il Cittadino affianca il Servizio Promozione Sostegno Economico alla Chiesa Cattolica nella campagna “Uniti nel dono”, per informare i fedeli sulla possibilità di effettuare offerte deducibili per i sacerdoti, in modo da garantirne la presenza e l’opera nelle comunità. Stiamo incontrando alcuni sacerdoti della Diocesi che offrono la loro testimonianza e raccontano il loro impegno nelle parrocchie, nei gruppi, nelle associazioni, sempre disponibili per chi li cerca o ha bisogno di un consiglio. Questa settimana è la volta di don Paolo Gatti, Cappellano Casa Circondariale di Genova Marassi e Rettore Spirituale Veneranda Compagnia di Misericordia. Don Paolo, dal 2005 sei Cappellano della Casa Circondariale di Genova Marassi. Quella del carcere è una realtà complessa, di cui si parla solo in concomitanza di fatti di cronaca più o meno gravi. Una realtà di cui si conoscono esclusivamente gli aspetti problematici. Che cosa ci puoi raccontare in base alla tua esperienza? Quando nel settembre 2005 cominciai il mio servizio nel Carcere di Marassi, iniziò per me anche la scoperta di un mondo misterioso e complesso, assolutamente impensabile se immaginato al di qua del muro di cinta. Le poche notizie che compaiono in occasione di alcuni eventi 'critici' (suicidi, aggressioni, disordini), che pure purtroppo accadono, danno un'immagine distorta della complessa realtà quotidiana che si vive in carcere. Sottolineo “che si vive”, perché il mondo dietro le sbarre è un pulsare continuo di gente in movimento, di cose che si fanno, di servizi da svolgere, di attività necessarie. Nel cimitero di Staglieno, il monumento dedicato ai Caduti della Polizia Penitenziaria reca una iscrizione molto significativa: “La fatica di mantenere una divisione fra gli uomini”. La decisione sul se, come, quanto sia necessario mantenere una divisione tra gli uomini è compito di altre istituzioni. Come cristiani e come cittadini di una società civile ci rendiamo conto che il carcere è una ferita aperta, una visibile conseguenza dell'opera del Nemico, il grande Divisore. Chi vuol vivere secondo lo Spirito non si arrende al male, cerca sempre di vincerlo col bene, pur nella consapevolezza che la battaglia andrà avanti fino alla fine del tempo. L'istituzione carceraria si potrà sempre migliorare, ma non abolire del tutto. Come svolgi il tuo incarico di Cappellano? Come ti avvicini ai detenuti e cosa loro si aspettano da te? Ho la grazia di potermi dedicare al carcere in modo quasi esclusivo, come fosse la mia parrocchia. La presenza continuativa è importante. La celebrazione delle messe festive (una al sabato pomeriggio e due la domenica mattina, per le differenti sezioni in cui è suddivisa la popolazione carceraria) offre una prima occasione d'incontro. I detenuti possono comunque richiedere un colloquio col cappellano tramite un modulino (la cosiddetta 'domandina', già resa celebre dal film di Sordi Detenuto in attesa di giudizio). Spesso sono gli agenti della Penitenziaria che mi segnalano detenuti che avrebbero piacere di parlarmi, o i volontari della Compagnia di Misericordia, in prima linea nell'accoglienza dei 'nuovi giunti'. Sempre più, rispetto al passato, le richieste riguardano però bisogni materiali. Non c'è giorno in cui non mi arrivi la richiesta di 'casa e lavoro' per poter uscire. All’interno del Carcere di Marassi ci sono dei “punti luce” che ci vuoi raccontare? L’esperienza del Teatro in Carcere è forse quella più conosciuta… I veri 'punti luce' del carcere sono quelli che rimangono all'oscuro! È bello che Marassi finisca sul giornale per lo spettacolo teatrale realizzato dai detenuti o per i pranzi di Natale organizzati con tantissimo impegno e fatica dalla Comunità di S. Egidio. Ma poi? Ciò che rende meno cupa la vita del carcere è lo “sbattimento” quotidiano di poliziotti, volontari, operatori, educatori, insegnanti i cui studenti vanno dall' ABC della lingua italiana all'università. Sei anche Rettore Spirituale della Veneranda Compagnia di Misericordia, che opera nell’assistenza ai detenuti e nel loro reinserimento sociale grazie all’aiuto di volontari. C’è qualche storia personale a cui sei più legato? Sono subentrato a mons. Marco Doldi come Rettore Spirituale della Veneranda da circa un anno, anche se coi volontari attivi a Marassi sono in contatto sin dall'inizio. E voglio qui ricordare il nostro grande colonnello Antonio Faravelli, per me maestro di vita e testimone di fede, volontario per oltre 40 anni, mancato un anno e mezzo fa. Siamo alla vigilia dell’Anno Santo 2025, dedicato dal Papa alla speranza. Come pensi che possa inserirsi nella realtà del carcere? Il Santo Padre vuole iniziare il Giubileo aprendo una Porta Santa proprio nel carcere di Rebibbia. È un segno che non possiamo trascurare. Ci siamo già incontrati tra noi cappellani della Liguria coi volontari e col nostro coordinatore nazionale, mons. Raffaele Grimaldi, per cominciare a studiare i percorsi da fare in vista del Giubileo delle Carceri, a dicembre 2025. Urbino. A Lucia Castellano il Premio Centum dell’Unione Imprese Centenarie Italiane uicitalia.org, 5 dicembre 2024 Venerdì 6 dicembre, alle ore 15, l’Università di Urbino, nell’ambito delle celebrazioni di Pesaro Capitale Italiana della Cultura 2024, ospiterà la quarta edizione del premio Centum, promosso dall’Unione Imprese Centenarie Italiane (www.uicitalia.org). Il riconoscimento andrà a Lucia Castellano, provveditrice dell’amministrazione penitenziaria della Campania. La cerimonia di consegna si terrà nell’Aula Magna del rettorato (via Saffi 2, Urbino) e prevederà due incontri su temi di attualità legati alla longevità imprenditoriale: heritage, sostenibilità, innovazione tecnologica, tutti declinati al modello delle aziende ultracentenarie. “Siamo felici di poter ospitare questa iniziativa - il commento del rettore, Giorgio Calcagnini - e l’Unione Imprese Centenarie Italiane, che è portatrice dei valori e della storia della migliore imprenditoria italiana. Il confronto costante fra impresa e accademia, che in questo caso coinvolge anche altri ambiti della società, è un punto fondamentale per la crescita, lo sviluppo e il benessere nel nostro Paese”. “Nella sua trentennale attività alla direzione degli istituti penitenziari d’Italia - questa la motivazione espressa dalla giuria del premio - Lucia Castellano è stata capace di applicare con successo modelli sperimentali di giustizia riparativa che hanno contribuito ad abbassare in maniera sensibile la soglia di recidive e a favorire la diffusione di un diverso concetto di carcere quale organizzazione sociale moderna e complessa, dove all’approccio meramente punitivo si sostituisce la volontà di riconsegnare al detenuto la dignità umana che gli spetta e un nuovo futuro di speranza”. Napoletana, classe 1964, laureata in giurisprudenza, Lucia Castellano si è sempre battuta per nuovi modelli di carcere che tutelassero i diritti dei detenuti. Ha ricoperto la vicedirezione della Casa Circondariale di Genova Marassi ed è stata direttrice del carcere di Bollate. Dal 2022 è provveditrice regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania, che abbraccia quattordici istituti penali. È la prima donna a ricevere il premio Centum. Le precedenti edizioni avevano visto premiati don Antonio Loffredo, Paolo Fresu e Christian Greco. Nel corso della giornata verrà assegnato anche il premio di laurea “Urbani Tartufi”, promosso dall’Unione in collaborazione con l’Università di Urbino. Due le vincitrici ex aequo della quarta edizione, entrambe iscritte al corso di Economia e management delle imprese dell'Università degli Studi del Sannio di Benevento: Dalila Coppola, per la tesi La strategia di Heritage Marketing nelle imprese longeve: il caso del Torronificio Federico di Iorio e Ilaria Ruotolo, per il suo lavoro Strategie di valorizzazione del Corporate Heritage: il caso Idal Srl. Troveranno spazio nel corso del pomeriggio anche due panel tematici sul mondo dell’imprenditoria ultracentenaria. Il primo, Le imprese centenarie tra cultura e sostenibilità, moderato da Daniele Pitteri, presidente di Mecenate 90, vedrà come relatori Ludovico Solima, ordinario di Economia e gestione delle Imprese dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Francesca Velani, vicepresidente e direttrice Cultura e sviluppo sostenibile della fondazione Promo PA e, in collegamento streaming, Enrico Giovannini, co- fondatore e direttore scientifico di Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. Il secondo incontro, moderato dal professor Tonino Pencarelli dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, avrà come titolo La tecnologia al servizio dell’uomo: il modello delle imprese centenarie e accoglierà le testimonianze di Stefano Silvestroni, presidente di Rosetti Marino Spa ed Edoardo Franco Rocca, responsabile affari Istituzionali di Baker Hughes. Vigevano (Pv). “Eggs (tutto sull’amore e altri vegetali)”, con gli attori-detenuti di Masiar Pasquali mentelocale.it, 5 dicembre 2024 Mercoledì 11 dicembre 2024 alle ore 19.30 debutta presso il Teatro della Casa di Reclusione di Vigevano (Pavia), in via Gravellona 240, lo spettacolo Eggs (tutto sull’amore e altri vegetali), una nuova produzione che esplora i significati profondi dell’amore in tutte le sue forme. Lo spettacolo, frutto del lavoro con gli attori detenuti della Casa di Reclusione di Vigevano, nasce nell’ambito del progetto Per Aspera ad Astra, promosso da Acri e Fondazione Cariplo, sotto la guida della Compagnia della Fortezza di Volterra. Eggs è un viaggio teatrale che unisce parole, immagini e movimenti coreografici per esplorare l’amore come esperienza privata e, al tempo stesso, come interrogativo pubblico. In un contesto come quello carcerario, dove l’amore è spesso escluso o negato, lo spettacolo diventa un’occasione unica per indagare cosa significhi amare e prendersi cura in una società spesso dominata dal cinismo e dalla produttività. Il palcoscenico si trasforma in un luogo in cui pubblico e attori sono chiamati a interrogarsi sull'amore, attraverso la metafora di un luogo in costruzione, un giardino immaginario, dove ai dialoghi sui legami d'amore passati, presenti e desiderati, si alternano azioni volte a costruire uno spazio di cura e condivisione, per immaginare una nuova definizione di amore. La compagnia Rumore d’Ali Teatro comincia a operare all’interno della Casa di Reclusione di Vigevano nel 2016, realizzando per cinque anni consecutivi un laboratorio teatrale, a cura di ForMattArt insieme alla regista Alessia Gennari, grazie al contributo dei fondi Por Fse 2014-2020 Regione Lombardia. Dall’estate 2020 grazie al progetto Per Aspera ad Astra, che promuove percorsi di formazione teatrale e tecnica professionalizzante nelle carceri italiane, ha permesso di indirizzare definitivamente l’orientamento del lavoro verso la produzione artistica e la formazione tecnica professionalizzante dei detenuti attori. L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria. Varese. “Arte in libertà”, esposti i lavori dei detenuti tra ceramiche, fumetti e foto malpensa24.it, 5 dicembre 2024 La mostra dei lavori realizzati dai detenuti della casa circondariale “Miogni” cresce e diventa un evento collettivo: al via a Varese la seconda edizione di “Arte in libertà”, esposizione che si terrà da sabato 7 dicembre - inaugurazione alle 17 con intrattenimento musicale del Collettivo Méliès - al 5 gennaio allo Spazio Polifunzionale Acli in via Speri della Chiesa e presenta tre sezioni. Sarà aperta al sabato e alla domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18 con visite infrasettimanali solo su prenotazione - per maggiori informazioni il numero da contattare è 392/2872800 - per gruppi di minimo cinque persone. Le opere delle tre sezioni - La prima è dedicata alle opere in ceramica realizzate da un gruppo di detenuti allievi del laboratorio tenuto dallo scultore Ignazio Campagna, pensate per essere contenitori di erbe officinali, le piante della cura e del benessere. La seconda mette in mostra ventitrè tavole di fumetto, sempre eseguite dai detenuti durante “Boom!!! Che storia”, corso estivo sotto la guida dei docenti Maria Teresa Campagna e Stefano Bruno per un’iniziativa del Cpia 2 (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti “Tullio De Mauro”). A corollario saranno esposti anche trenta scatti fotografici dei soci del Fotoclub Varese Aps sul tema della reclusione e della libertà. Il progetto “Educazione alla bellezza” di Auser - I lavori presentati sono il risultato di un ampio progetto promosso dall’Auser di Varese intitolato “Educazione alla bellezza” dedicato ai detenuti che attraverso l’arte mettono alla prova le loro competenze creative e di dialogo ricavandone la gioia di portare il loro messaggio fuori dalle mura del carcere, verso la libertà. Il progetto è reso possibile grazie alla collaborazione della direttrice della casa circondariale Carla Santandrea, del funzionario pedagogico Domenico Grieco, dell’Auser Varese, del Cpia 2 Tullio De Mauro, dell’Acli provinciale, dell’Acli Arte e Spettacolo, del Foto Club Varese Aps e dell’Agricola Varese. Milano. “Autoritratti”, l’Odissea riscritta dai detenuti di Lucia Trotta lamagistratura.it, 5 dicembre 2024 Un libro nato dall’esperimento in carcere di un giovane artista. Il luogo, il carcere. I protagonisti, i detenuti. L’opera, l’Odissea. Tommaso Spazzini Villa, artista e scrittore, porta un progetto di arte partecipativa in diversi istituti penitenziari italiani, dando voce a chi quasi sempre voce non ha. Il risultato è un’opera nell’opera: il libro “Autoritratti”, edito da Quodlibet, in cui 361 detenuti rileggono e ridanno forma, la loro forma, al testo omerico. Tutto nasce da un laboratorio che l’autore propone nel 2018 a Cosima Buccoliero, allora vice direttrice della casa di reclusione di Milano - Bollate. Ai detenuti che partecipano viene distribuita una sola pagina, sempre diversa, dell’Odissea. E viene chiesto loro di sottolineare - se lo vogliono - parole isolate che possano comporre una frase di senso compiuto. Nascono così nuove pagine, un nuovo testo collettivo. Nasce l’Odissea dei detenuti. L’esperimento coinvolge altri istituti di pena su tutto il territorio nazionale, fino alla pubblicazione del libro nell’autunno del 2024. “M’hai donato dei figli bellissimi e io così misero”, “dimmi cuore se di nuovo a viver tornerai” alcuni dei periodi che prendono forma. Altre pagine restano bianche, e l’autore le lascia così, nel rispetto del silenzio che i detenuti hanno espresso. E tutte insieme, pagine bianche e non, diventano richieste di aiuto, se lette alla luce della drammatica situazione delle carceri italiane. “Vorrei solo - racconta Spazzini Villa - che l’umanità che esce da queste pagine possa riempire il vuoto di umanità che c’è in questi luoghi, vorrei attraverso la potenza della parola e dello sguardo restituire umanità alle persone in un luogo, il carcere, che noi, come società, come Stato, disumanizziamo enormemente”. L’autore spiega di avere insistito molto con i detenuti su un aspetto in particolare. “Ho chiesto loro di seguire un principio di verità, non che scegliessero le frasi apparentemente più intelligenti o descrittive, e non è stato facile perché a quel punto le persone si connettevano con il loro dolore”. Due in particolare gli episodi che l’artista tiene a ricordare, mantenendo il riserbo sugli istituti in cui il progetto è stato realizzato. “Una donna mi ha detto che la pagina che aveva tra le mani era come la vita, perché dalle prime parole scelte dipendeva tutto il resto, esattamente come accade nella vita”. “E un detenuto che ha ammesso: se avessi avuto una pagina bianca non avrei mai scritto quella frase”. Esperienze che nell’auspicio di Spazzini Villa potranno aiutare chi legge a vedere la realtà carceraria attraverso una prospettiva diversa perché “la detenzione e la funzione rieducativa della pena ci riguardano, riguardano tutti, come società e come persone”. Le condizioni degli istituti penitenziari nel nostro Paese restano al limite come la cronaca ricorda ogni giorno: l’indice di sovraffollamento è oltre il 133 % e il numero di suicidi è vicino al record negativo del 2022: sono 83 i detenuti che si sono tolti la vita da gennaio a novembre 2024, 7 gli agenti di polizia penitenziaria. Storie di barre e di sbarre, il rapporto tra il carcere e la trap di Marco De Vidi Il Domani, 5 dicembre 2024 Dodici anni dopo aver pubblicato “Jailhouse rock”, Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, presidente e coordinatrice nazionale di Antigone, sono in libreria con “Jailhouse rap”, una ventina di storie che esplorano il legame tra musica rap e luoghi di detenzione. La repressione del dissenso da parte del potere, la marginalità urbana, lo stigma che impedisce la redenzione. Per trovare un senso: la musica può salvare. Sembra un'associazione quasi naturale, quella tra carcere e musica rap, o in tempi più recenti quella tra i luoghi di detenzione e la scena trap, la perfetta incarnazione di una musica criminale, pericolosa, espressione di una devianza irrecuperabile. E questo vale tanto negli Stati Uniti, in cui la musica rap è nata e da dove si è diffusa in tutto il mondo, fino all'Europa e all'Italia, dove è impossibile mettere in fila i nomi più in vista della trap senza pensare alle disavventure carcerarie dei suoi protagonisti, come Baby Gang, Simba La Rue, Massimo Pericolo. Portandosi addosso uno stigma, che solo in poche occasioni si trasforma in una possibilità di redenzione. Il carcere è un destino da cui non si può sfuggire, per chi vuole affermarsi in questo genere musicale? Appare forse più probabile che chi si trova ai margini, chi riesce a esprimere con più profondità e credibilità la vita di chi è tutt'altro che abituato ai privilegi della realtà borghese, conviva con il carcere come se fosse un evento naturale, una tappa che prima o poi, semplicemente, accade. Un sistema classista - “Il sistema penale e penitenziario è fortemente selettivo sulla base della classe sociale d'appartenenza, del censo, della condizione culturale di partenza. La maggior parte delle persone che abitano le nostre carceri proviene da contesti sociali e urbani di periferia e marginalità, quegli stessi contesti da dove arrivano tanti protagonisti della storia rap e trap italiana”. È una questione, dunque, che riguarda la società nel suo complesso, spiegano Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, autori di Jailhouse rap. Storie di barre e sbarre, pubblicato da Arcana. I due autori, appassionatissimi di musica, sono il presidente e la coordinatrice nazionale dell'associazione Antigone, la principale realtà italiana a occuparsi di diritti delle persone detenute in carcere. Jailhouse rap raccoglie una ventina di storie che esplorano, in tutto il mondo, il legame tra musica rap, hip hop e trap e i luoghi di detenzione. Il volume arriva dodici anni dopo Jailhouse rock, in cui venivano raccontate le vicende di cento musicisti legati al carcere per diverse ragioni, da Chet Baker a Fela Kuti, da Jimi Hendrix a Joan Baez. Entrambi i testi sono continuamente alimentati dalle storie che i due autori raccontano nell'omonimo programma condotto ogni settimana dal 2010 su Radio Popolare. Carmelo Leo - Vicende come quella del rapper 50 Cent, orfano, spacciatore fin dall'adolescenza, che nella sua musica ha spesso raccontato la sua vita al limite. Oppure quella di Layryn Hill, che mentre decide di ritirarsi a vita privata dopo i grandi successi degli anni '90, finisce in carcere per evasione fiscale, perché non più in grado di sostenere le spese. Mentre Tupac era il figlio di Afeni Shakur, membro delle Black Panthers che trascorse incarcerata gran parte della gravidanza, e in carcere il rapper ritornerà spesso fino alla morte dopo una sparatoria. Le voci critiche - Il carcere è lo strumento principe della repressione, utile per soffocare le parole di denuncia, le voci critiche. Del resto, la grande immediatezza del rap e della trap, la capacità di diffondere velocemente messaggi crudi e diretti, ne fa un genere minaccioso, temuto dalle autorità che vorrebbero controllare anche i pensieri di chi opprimono. Ecco perché i rapper El General e Weld El 15 vengono arrestati dal governo tunisino, travolto dalla Rivoluzione dei Gelsomini, mobilitazione che ha dato il via alle primavere arabe: a Tunisi uno dei brani più cantati dai giovani manifestanti era proprio Presidente, la tua gente sta morendo, scritta da El General. Allo stesso modo, la musica di Hichkas, il cui nome in persiano significa “Nessuno”, è considerata illegale in Iran, e i suoi cd potevano venire distribuiti solo porta a porta, grazie a conoscenze comuni, per evitare di essere scoperti dalla polizia segreta. Mentre Pablo Hasél, rapper indipendentista catalano di sinistra, è stato incarcerato per i suoi testi contro la monarchia spagnola. La vicenda di Young Thug solleva un tema sostanziale, rispetto a quella che di fatto è una criminalizzazione della musica rap e trap: il rapper di Atlanta si trova in carcere da due anni, perché accusato di omicidio e di aver creato un'organizzazione criminale. Parte delle prove sono i suoi testi, che vengono trattati come delle confessioni. Ma, come ha scritto l'artista in una lettera aperta pubblicata dal New York Times, “i rapper sono narratori, creano interi mondi popolati da personaggi complessi che possono interpretare sia l'eroe sia il cattivo”. La discriminazione - Il fatto di interpretare queste parole alla lettera, è un atto di discriminazione, spesso connotata di pregiudizi razziali, che colpisce questo genere musicale come pochi altri. Allo stesso modo, l'associazione britannica Art Not Evidence ha richiesto al ministero della giustizia di aggiornare una normativa che spesso vede l'uso dei testi di rapper e trapper usati come testimonianze a rivelare intenzioni criminali. Questo dibattito ricorda da vicino quello che è accaduto alla P38: i testi estremi e provocatori, che richiamano gli anni di piombo e le Brigate Rosse, sono la base di un'accusa, da parte della magistratura italiana, che vedrebbe il collettivo trap come parte di un gruppo terrorista, ideologi capace di istigare i propri fan a delinquere, imputazione per cui rischierebbero fino a otto anni di reclusione. Il dialogo tra scena rap e carcere, nel nostro paese, è presente fin dall'inizio, risale alle origini del movimento, negli anni '90. Con gli Assalti Frontali che danno voce in un loro brano a Sante Notarnicola, membro della banda Cavallero che rapinava le banche per sostenere i gruppi rivoluzionari, condannato al carcere a vita (libero dal 2000, morto nel 2021). O con i 99 Posse che dedicano un pezzo, Morire tutti i giorni, a Carmelo Musumeci, capo di un clan criminale in Versilia, che durante la lunga detenzione si è laureato ed è diventato scrittore, denunciando l'inefficacia delle rigidissime misure dell'ergastolo ostativo. Gli italiani - Sono molti i rapper italiani passati per il carcere, da Chicoria a Niko Pandetta, da Baby Gang a Massimo Pericolo, fino ai laboratori che Kento tiene con i giovanissimi detenuti. Le loro diventano testimonianze dirette che descrivono l'inadeguatezza della reclusione. “Purtroppo le carceri” scrivono gli autori in Jailhouse rap, “pur essendo la pena prevista per chi infrange la legge penale, non sono un esempio di legalità. In Italia il regolamento carcerario dispone che in cella tu debba avere la doccia. Ma spesso non l'avrai. La regola dice che tu debba avere opportunità di risocializzazione. Ma spesso questo non accade. La regola dice che tu debba lavorare. Ma spesso passerai le giornate sdraiato sulla branda. La regola dice che mai tu possa avere meno di tre metri quadri di spazio a disposizione. Ma spesso dovrai dividerli con qualcuno per far dormire il quale è stato gettato un materasso per terra”. A volte, per darci un senso, una possibilità, è solo la musica che può salvarci. Venite al circo di Sara Peggion Donna Moderna, 5 dicembre 2024 Giovanni Savino, 45 anni, nato e cresciuto a Barra, alla periferia di Napoli, è un “artista sociale” e presidente della cooperativa “Il tappeto di Iqbal”. È un outsider, ‘o prufessore. Un combattente rimasto fino a oggi lontano dalle luci della ribalta per stare lì dove la sua missione lo ha chiamato: tra i ragazzi del quartiere Barra, la VI municipalità di Napoli che conta 40.000 abitanti, la percentuale di giovani e di dispersione scolastica tra le più alte della città e zero cinema, teatri, campi sportivi, autobus che ti portino a una scuola superiore. “La prima raggiungibile è a 4 chilometri a piedi: come ci vai quando piove e magari già non hai tanta voglia di studiare?” si domanda ironico Giovanni Savino, classe 1979, di professione “artista sociale” e presidente della cooperativa Il tappeto di Iqbal. Una realtà nata per contrastare lo sfruttamento minorile e la povertà educativa attraverso il teatro di strada, il circo, i “nasi rossi”, il basket e altri microprogetti sociali premiati all’estero, sostenuti da Save The Children ma meno valorizzati in Italia. Almeno fino a oggi: perché la sua scelta di vita di essere dalla parte dei “buoni” (“ma non mi chiami eroe” si raccomanda), di accogliere sotto il suo tendone ogni anno 200 minori, di metterli sui trampoli, a fare parkour o acrobatica, o anche solo di cenare insieme per evitare che se ne vadano in giro la sera è diventata un film. Si intitola Criature (vedi box nella pagina seguente) e il protagonista è il maestro di strada Mimmo, un ex insegnante che tenta di strappare i ragazzini delle scuole medie agli ingranaggi della malavita e dello sfruttamento del lavoro attraverso l’arte circense. Il film è ora nelle sale, rincorso dalla cronaca che vede Napoli di nuovo al centro dell’emergenza minorile dopo gli omicidi di Emanuele, Santo e Angelo, tre giovanissimi uccisi per mano di altrettanti teenager con la pistola in tasca. Secondo il nuovo report dell’associazione Antigone, in 22 mesi i detenuti negli Istituti penali per minorenni italiani sono cresciuti del 48%, ma i reati non sono aumentati. “Un’impennata che non trova fondamento in un parallelo picco della criminalità minorile, che negli ultimi 15 anni ha avuto un andamento ondivago e nel 2023 ha visto diminuire del 4,15% denunce e arresti” si legge nel dossier. Secondo Antigone, sarebbe uno degli effetti del Decreto Caivano dello scorso anno, che ha inasprito le sanzioni e aumentato il ricorso alla detenzione. Giovanni Savino fa un lungo sospiro e allarga le braccia. “Dopo l’omicidio di Mergellina in cui ha perso la vita Giogiò per mano di un ragazzo di Barra nel 2023, avevo proposto di istituire un assessorato dedicato all’adolescenza. C’era stata subito grande adesione e poi è caduto tutto nel dimenticatoio. Noi possiamo dimostrare che, quando ci sono i finanziamenti, i progetti portano risultati concreti. Ma se i fondi vengono tagliati cosa puoi dire alla mamma di Santo e di tutte le vittime? Che non c’erano abbastanza soldi per salvare i loro figli? Sa cosa sogniamo noi operatori? Di lavorare meno: ho 45 anni e sono in prima linea da 15, sono stanco e, come accade nel film, penso ogni mattina di mollare ma poi ovviamente non lo faccio. Quando il prefetto mi dice che i ragazzi dovrebbero stare a casa, di quale case parla? Di quelle di 30 metri quadri dove sono in nove con i familiari agli arresti domiciliari? Questa sera io ho una cena con 25 adolescenti, che per me vuol dire toglierli dalla strada, e poi tornerò troppo tardi per stare con la mia famiglia. Non è una vita semplice”. Giovanni ha 3 figli, il primo si chiama Martin, “come Martin Luther King, proprio quello che si vede sul gigantesco murales appena scesi dal treno a Barra ed è stato disegnato da Jorit”. In questa terra di confine Savino ci è nato, “ma stavo nella parte bene del quartiere, mio papà era un dirigente sanitario e mia mamma un’insegnante. La realtà, però, era sotto gli occhi di tutti: ricordo un giorno che stavo andando al liceo e vidi la sagoma di un uomo a terra con un lenzuolo addosso, c’era chi lo scavalcava, fu un fatto che mi colpì tantissimo. Da studente di Ingegneria iniziai poi a lavorare come educatore e nel 2005 uno dei miei ragazzi venne ammazzato: due ore prima giocavamo insieme, due ore dopo non c’era più. In quel momento decisi che avrei fatto un mestiere sul campo, nel mio quartiere. Sapevo la matematica, mi piaceva fare teatro e giocare a basket, così pensai di mettermi a disposizione della comunità. Non sono un insegnante, anche se qui mi chiamano tutti ‘o prufessore perché a Napoli qualsiasi persona che insegna viene definito così”. Il professore di cose ne ha fatte parecchie (è tutto sul sito iltappetodiiqbal.org), il film racconta la prima parte della sua missione: “Lì c’è la mia idea e la mia strategia di partenza, è la mia storia all’80%. Oggi ci sono i risultati: abbiamo recitato Gramsci davanti a papa Francesco in San Pietro, siamo stati premiati dal Parlamento Europeo, gestiamo progetti per Save The Children… Adesso che si vedono le locandine del film appese per Barra, c’è pure chi pensa abbia fatto i soldi. Ma, a parte il fatto che la notorietà non mi interessa perché mi avrebbe distratto dal mio obiettivo, le pare che se fossi diventato ricco me ne starei ancora qui? (ride, ndr). Appena ho ricevuto il compenso dalla casa di produzione, ho portato 20 ragazzi in Svizzera a fare un torneo di basket”. Il tappeto di Iqbal, dice Giovanni, è il suo quarto figlio e il tentativo di realizzare il suo sogno di bambino: “Immaginavo di creare la Contea di Barra e chiudere fuori tutti i cattivi. In questi anni abbiamo avuto intimidazioni, animali impiccati, ruote bucate, messaggi minatori. Ma il giorno in cui le minacce si fermeranno sa cosa significa? Che avranno vinto loro”. La crisi strutturale delle democrazie di Giovanni Orsina La Stampa, 5 dicembre 2024 Com’è ormai ben evidente, le democrazie rappresentative occidentali sono in difficoltà non per un qualche accidente, ma per ragioni strutturali. Stiamo assistendo alla protesta profonda e non effimera di segmenti consistenti dell’opinione pubblica che, abbandonati da un ceto dirigente oligarchico e autoreferenziale, si sentono alla mercé di un mondo sempre più complesso e cangiante nel quale l’Occidente gode di una posizione di sempre minor privilegio. Se così è, in quale modo questa protesta possa esser riassorbita diviene la domanda principale cui devono dare risposta le democrazie. Tanto più che da quella risposta dipende la loro capacità di affrontare con successo, da sole o come socie dell’Unione Europea e dell’alleanza Atlantica, le sfide dei nostri tempi. Le democrazie paiono reagire alla protesta secondo uno schema tripartito. In principio ci sono il rifiuto e la demonizzazione: le forze politiche che rappresentano gli elettori infelici sono irrise per la loro approssimazione e incompetenza e/o delegittimate perché considerate dannose alla democrazia liberale. Nella seconda fase quelle forze politiche sono cresciute a tal punto che diventa difficile non farci i conti, e la conventio ad excludendum nei loro confronti comincia a vacillare. Al terzo e ultimo stadio sono arrivate al potere, da sole o in coalizione, e l’intero equilibrio politico deve ristrutturarsi intorno a loro. Con un po’ di approssimazione, potremmo dire che oggi Berlino stia attraversando il primo stadio, Parigi il secondo, Roma il terzo. In Germania i partiti tradizionali hanno tenuto meglio che altrove, ed è possibile immaginare che anche dopo il voto del prossimo febbraio saranno in grado di formare una maggioranza che escluda Alternative für Deutschland. Il Brandmauer, muro tagliafuoco, versione teutonica della conventio italiana, ancora regge, seppur a fatica. In Italia la prima fase si è aperta precocemente già con le elezioni del 2013, il passaggio alla seconda è avvenuto col voto del 2018, e dal 2022 siamo infine entrati nella terza. Dopo quasi dieci anni nei quali ne abbiamo viste di tutti i colori - risultati elettorali sull’ottovolante, fiumi di demagogia, apogeo del trasformismo parlamentare -, la Penisola ha completato la transizione ed è oggi il più stabile fra i grandi paesi dell’Unione. In Francia l’establishment ha fatto forza sulle istituzioni della quinta repubblica, presidenzialismo e doppio turno di collegio, per tenere i partiti di protesta quanto più possibile all’opposizione. Ha potuto così prolungare di vari anni la durata della prima fase, ma inanellando una serie di forzature - a partire dal macronismo - delle quali sta adesso pagando il prezzo. La necessità di fare appello alla France Insoumise per fermare il Rassemblement National nel secondo turno delle elezioni di giugno prima, le aperture del governo Barnier allo stesso Rassemblement poi, segnalano chiaramente l’ingresso del Paese nella seconda fase, la più caotica, quella del passaggio dalla demonizzazione a una qualche forma di integrazione della protesta. La successione da uno stadio all’altro non è necessaria. Nulla vieta che in Germania AfD resti ancora per qualche anno dietro il muro tagliafuoco e scivoli poi nell’irrilevanza - e nulla vieta, anche se è parecchio più difficile, che dalla seconda fase la Francia non risalga verso la prima, invece di scendere alla terza. Quel che è necessario, però, è che la protesta, proprio poiché le sue radici sono strutturali e non congiunturali, trovi in qualche modo voce e rappresentanza. Negli ultimi anni il clima storico si è modificato troppo in profondità perché la politica democratica possa non adeguarvisi. Per questo è più facile per la Germania stabilizzarsi nella prima fase di quanto non sia per la Francia tornarvi: la Repubblica federale ha un partito tradizionale in buona salute - i democristiani - che può forse gestire il cambiamento, mentre nell’Esagono non si capisce chi potrebbe mai svolgere questa funzione. Oltre che ai singoli Paesi, con una certa cautela questo ragionamento può essere esteso anche all’Unione Europea. Che la vicenda recente della formazione della seconda Commissione von der Leyen ha mostrato essere all’inizio del secondo stadio: il Brandmauer è stato ormai oltrepassato da una parte dei conservatori, in particolare da Fratelli d’Italia, e il Partito popolare si mostra disposto quando necessario ad aprire ancora più a destra, verso Patrioti e Sovranisti, dando vita alla cosiddetta “maggioranza Venezuela”. Di nuovo, non è detto che dalla seconda fase si passi necessariamente alla terza, ma è ben evidente come pure la politica continentale stia mutando al modificarsi dell’opinione pubblica. E non diversamente da quel che accade a Berlino, anche a Bruxelles molto dipenderà dai Popolari. In questa situazione resta comunque difficile immaginare che l’Unione possa muovere dei passi in avanti senza il sostegno di una parte almeno delle destre, malgrado quelle si siano in genere opposte a una maggiore cooperazione continentale. Come rendere compatibile “più Europa” con un’integrazione della protesta giunta al secondo stadio sarà la grande domanda del 2025. E l’Italia, forte della sua stabilità nell’ormai consolidata “fase tre”, potrebbe dare un contributo non irrilevante alla ricerca di una risposta. Caporalato, 2.123 casi denunciati nel 2023: oltre 200mila irregolari nel settore agricolo di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 5 dicembre 2024 Nel complesso del settore agroalimentare italiano, reati e illeciti amministrativi sono aumentati del 9,1 per cento. Flai: “Battersi per la legalità è battersi anche per la giustizia sociale. Ecco perché continuiamo a chiedere l’abolizione della legge Bossi-Fini e un’applicazione completa di quella contro il caporalato”. Il fenomeno del caporalato, in Italia, è sistema. Come ogni anno la fotografia e i numeri contenuti nel rapporto agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil sono preoccupanti. Giunto alla sua settima edizione, il documento sottolinea la presenza di oltre 200mila irregolari in tutto il paese (pari al 30 per cento dei lavoratori totali). Quello che anni fa sembrava un fenomeno presente prevalentemente nel sud Italia, oggi non è più così. Si contano dagli 8 ai 10mila irregolari in Piemonte, oltre 6mila in Trentino, più di 10mila in Basilicata e circa 12mila in Calabria. Eppure, il settore agricolo italiano è un traino per l’economia nazionale, con un valore di oltre 73.5 miliardi di euro all’anno. Nell’intero settore, reati e illeciti amministrativi sono aumentati del 9,1 per cento. “I dati contenuti nel VII rapporto - dice il segretario generale della Flai Giovanni Mininni - ci dicono che irregolarità e sfruttamento continuano a pesare molto sul modello produttivo del nostro sistema agricolo. Redditi clamorosamente insufficienti e condizioni di lavoro (e quindi vita) insostenibili sono caratteristiche ancora profondamente radicate, ben più di quanto dicono i numeri ufficiali, censiti dall’Istat o emersi nelle poche ispezioni dell’Ispettorato del lavoro”. “E in un quadro del genere si infiltra troppo facilmente la criminalità delle agromafie, alimentando la concorrenza sleale tra le imprese - prosegue Mininni. Per noi, battersi per la legalità è battersi anche per la giustizia sociale. Ecco perché continuiamo a chiedere l’abolizione della legge Bossi-Fini e un’applicazione completa di quella contro il caporalato, per una società e un modello di sviluppo che tutelino lavoro e ambiente”. I controlli - Su un totale di 3.529 controlli nel settore agricolo conclusi dall’Ispettorato nazionale del lavoro lo scorso anno, 2.090 hanno rilevato irregolarità, pari al 59,2 per cento. La problematica principale è la poca frequenza dei controlli, la maggior parte infatti sono stati successivi all’omicidio del bracciante Satnam Singh, avvenuto a Latina il 3 luglio del 2024. Soltanto dal 25 luglio e nei primi dieci giorni di agosto sono state ispezionate quasi le metà delle aziende (1.377). L’altro punto di discussione dei sindacati è che i controlli non sono a sorpresa: alle aziende viene infatti dato un preavviso di dieci giorni. Nel 2023 i controlli eseguiti in base alla legge 199/2016 che contrasta il caporalato sono aumentati del 140 per cento rispetto al 2022. Mentre le denunce effettuate sono aumentate del 207 per cento. Secondo le indagini, le persone punite in base all'articolo 603 bis del codice penale riguardanti il fenomeno del caporalato sono state 2.123: un dato che rappresenta la maggioranza dei casi totali rilevati in Italia (in totale 3.208, considerando anche i settori dell'edilizia, dell'industria e del terziario) ed è il triplo rispetto al 2022. “L’istantanea che emerge dal VII rapporto - dice Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto - verte sulla spersonalizzazione dell'intermediazione lavorativa che è una questione antica del paese, che riemerge da qualche anno con grande forza. Si tratta di uno schema losco e poco visibile sul quale abbiamo il dovere di mantenere alta l'attenzione, per contrastarlo efficacemente. Il rapporto riporta analisi territoriali tra Nord e Sud, dalle quali emerge una situazione di grave allarme sociale per tante compagini di donne e uomini impegnate nella filiera agroalimentare. Il bacino complessivo di disagio occupazionale si assesta sulle 200mila persone, di cui oltre 50mila donne, autoctoni e stranieri, nell'interesse dei quali noi dobbiamo contrastare le insidie dello sfruttamento e del caporalato”. Paghe da fame - Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Placido Rizzotto - e presentati insieme alla Flai Cgil a Roma - è di circa 6.000 euro la retribuzione media lorda annuale dei dipendenti agricoli in Italia, e di 7.500 euro quella media. Il fenomeno dello sfruttamento lavorativo è anche strettamente connesso al decreto flussi. Come raccontato da Domani in precedenti inchieste, dalle indagini è emerso che alcuni braccianti entravano in Italia attraverso il nulla osta lavorativo legale, ma poi - per mancanza di controlli - venivano immessi nel circuito di economia illegale e schiavizzati. Oltretutto ad alcuni braccianti venivano anche chiesti 5mila euro con la promessa di ricevere il permesso di soggiorno. Di recente a tredici braccianti vittime di caporalato nel trevigiano sono stati consegnati i permessi di soggiorno speciale in base al nuovo decreto flussi che tutela i lavoratori che decidono di denunciare i propri intermediari. La strategia dell’opacità: così il Governo nasconde le mosse anti immigrati di Vitalba Azzollini* Il Domani, 5 dicembre 2024 Con la legge di conversione del decreto flussi si riducono ulteriormente le aree di trasparenza, a partire dalla secretazione di quanto attiene all’”affidamento degli appalti pubblici di forniture e servizi relativi a mezzi e materiali” destinati a Paesi terzi per il rafforzamento del “controllo delle frontiere”. Significa che calerà un velo ulteriore sulla cessione di motovedette a guardie costiere tunisine o libiche. È stata approvata la legge di conversione del decreto flussi, dopo che il governo ha fatto ricorso ancora una volta alla questione di fiducia. Si tratta dell’ennesimo intervento dell’esecutivo in tema di immigrazione, a partire dal decreto sulle navi delle ONG, volto a limitarne i salvataggi, talora in spregio alle convenzioni internazionali; al decreto Cutro che, oltre a un evanescente reato universale di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ha introdotto una procedura accelerata per l’esame delle domande di asilo, che riduce le garanzie per i diritti dei migranti; al Protocollo con l’Albania, che finora ha sortito risultati fallimentari. Nel testo della legge appena approvata è confluito il decreto-legge paesi sicuri, che avrebbe dovuto blindarne l’elenco, mentre non ha impedito la disapplicazione del decreto stesso e il ricorso alla Corte di Giustizia europea da parte di vari tribunali. E, nonostante il parere negativo del Consiglio Superiore della Magistratura, la nuova legge sottrae ai magistrati specializzati la competenza sulle convalide del trattenimento dei migranti per attribuirla alle Corti d’Appello in composizione monocratica. Si spera forse che ciò produrrà pronunce più gradite all’esecutivo, mentre avrà di certo impatti negativi sul raggiungimento degli obiettivi fissati per il settore giustizia dal Pnrr. La mancanza di trasparenza - All’armamentario dei provvedimenti messi in campo dal governo contro l’immigrazione, si aggiunge un ulteriore strumento: la mancanza di trasparenza. L’opacità su una serie di profili riguardanti l’immigrazione era già rilevante in precedenza. Un “divieto assoluto” di conoscenza era già sancito da un decreto del Viminale del marzo 2022. Nei mesi scorsi, su queste pagine, avevamo parlato dei dinieghi opposti alle istanze di accesso ai dati sui centri per i migranti, alla mancanza di trasparenza sui criteri di assegnazione alle navi delle ong di porti di sbarco lontani, accampando ragioni di tutela delle “relazioni nazionali ed internazionali” o “dell'ordine e della sicurezza pubblica”. E se non fosse per Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale, che continua a fornire meticolose informazioni su tracciamenti, rotte e molto altro, si saprebbe ancora meno di ciò che accade nel Mediterraneo. Con la legge di conversione del decreto flussi si riducono ulteriormente le aree di trasparenza. Innanzitutto, il testo prevede la secretazione di quanto attiene all’”affidamento degli appalti pubblici di forniture e servizi relativi a mezzi e materiali” destinati a Paesi terzi per il rafforzamento del “controllo delle frontiere e dei flussi migratori nel territorio nazionale e per le attività di ricerca e soccorso in mare”. Ciò significa, ad esempio, che calerà un velo di maggiore opacità sulla cessione di motovedette e altro a guardie costiere tunisine o libiche. A cittadini o organizzazioni della società civile sarà preclusa la conoscenza anche mediante accesso civico generalizzato, e pure un eventuale ricorso al Tar sarebbe un’arma spuntata a fronte del segreto sancito con fonte primaria. Il governo ha, altresì, imposto ai piloti di aeromobili e droni l'obbligo “di informare di ogni situazione di emergenza in mare, immediatamente e con priorità, l’ente dei servizi del traffico aereo competente (Enac) e il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo”, nonché “i Centri di coordinamento del soccorso marittimo degli Stati costieri responsabili delle aree contigue”, prevedendo sanzioni che possono arrivare fino al fermo amministrativo. Già lo scorso maggio l’Enac aveva emesso una serie di ordinanze circa gli aerei che effettuano attività di ricerca e soccorso. L’intento della nuova disposizione sembra essere, da un lato, quello di far sì che il coordinamento delle attività riguardanti i migranti avvistati in mare sia assunto da altri Stati, in particolare dalla Libia, che ha dimostrato di operare non in un’ottica di salvataggio, ma di intercettazione e respingimento, mentre i paesi europei chiudono gli occhi sulla violazione del diritto internazionale. Dall’altro lato, la disciplina prevista, e in particolare il fermo dei velivoli, pare finalizzata a trovare pretesti per lasciare a terra gli “aerei da ricognizione, gli unici occhi della società civile nel Mediterraneo” - come li ha definiti la ong Sea Watch - “occhi fondamentali per documentare le quotidiane violazioni dei diritti umani che vi avvengono, comprese quelle perpetrate dalla cosiddetta guardia costiera libica attraverso le motovedette e le risorse generosamente elargite dal governo italiano”. Sottrarre alla conoscenza della collettività informazioni di interesse pubblico non è mai un buon segno in democrazia. Ma evidentemente al governo questo poco importa. *Giurista Migranti. Ok del Senato: il Decreto Flussi è legge. Ma il Csm la boccia di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 dicembre 2024 Nel mirino delle toghe la decisione del Governo di trasferire alcune competenze in materia di trattenimento dei migranti richiedenti asilo alle Corti di Appello. Nello stesso giorno in cui il Senato, con voto di fiducia, approvava il dl “flussi”, il plenum del Consiglio superiore della magistratura esprimeva invece il suo parere contrario al testo. Una circostanza temporale che non può non far riflettere, ancora una volta, sull’utilità di tali pareri da parte dell’organo di autogoverno delle toghe, richiesti dal ministro della Giustizia e comunque non vincolanti, che arrivano quando ormai il dibattito parlamentare si è concluso e l’Aula si è definitivamente espressa. Il parere, di cui era relatore il togato indipendente Roberto Fontana, è stato approvato a maggioranza con quattro voti contrari, quello della laica Claudia Eccher (Lega) e dei laici in quota FdI Isabella Bertolini, Daniela Bianchini, Felice Giuffrè. Nel mirino del Csm, in particolare, la decisione del governo di trasferire alcune competenze in materia di trattenimento dei migranti richiedenti asilo dai giudici delle sezioni protezione internazionale dei tribunali alle corti di appello. Secondo il Csm con tale modifica ci sarà un allungamento dei tempi di decisione in secondo grado e dunque il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal Pnrr. Inoltre, c’è il rischio che a giudicare siano chiamati magistrati privi delle competenze necessarie. La modifica, infine, imporrà una riorganizzazione delle corti d’appello che si troveranno da ora in avanti investite di un numero di procedimenti in numero “non irrilevante” e “in una materia che richiede di essere trattata non solo con celerità e priorità rispetto agli altri procedimenti”. Per far fronte a questo cambiamento, ciascuna corte d’appello dovrà pertanto ripensare l’intera distribuzione delle risorse umane per superare la potenziale incidenza negativa sui tempi di definizione dei procedimenti relativi agli altri affari civili. Va ricordato a tal proposito che le sezioni protezione internazionale presso i tribunali erano stato recentemente rinforzate dal ministero della Giustizia, con organici nettamente superiori a quelli di qualsiasi altra sezione civile o penale. Solo a Roma, tanto per fare un esempio, sono circa venti i giudici in servizio. Con il provvedimento del governo, diventato legge dopo il voto al Senato, sottolinea in conclusione il plenum del Csm, si “incrina il consolidato assetto giurisdizionale in tema di convalida dei trattenimenti, sin qui imperniato sull’attribuzione della relativa competenza alle sezioni specializzate in materia di immigrazione”. Il parere inopportuno del Csm sul Decreto Flussi (già diventato legge) di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 dicembre 2024 Il Consiglio superiore della magistratura ha espresso parere negativo alla norma che affida alle Corti di appello la competenza sui trattenimenti dei migranti, provvedimento che era già diventato legge dopo il voto del Senato. Ma compito del Csm non è valutare le leggi votate dal Parlamento. Con una tempistica a dir poco discutibile, per non dire inopportuna, il plenum del Consiglio superiore della magistratura ha espresso ieri parere negativo all’emendamento al decreto flussi del governo che affida alle Corti di appello la competenza dei procedimenti di convalida o proroga del trattenimento dei migranti richiedenti asilo, provvedimento che qualche minuto prima era diventato definitivamente legge dopo il voto favorevole del Senato. In altre parole, il Csm ha espresso parere negativo nei confronti di una norma nel frattempo diventata legge. Come se la nostra Costituzione affidasse all’organo di governo autonomo delle toghe il compito di valutare le leggi votate dal Parlamento. La singolare tempistica con cui il Csm è arrivato a esprimere il parere è con molta probabilità dovuta all’alto carico di lavoro che l’organo si è ritrovato a gestire nelle ultime settimane (si pensi al nuovo testo unico sulla dirigenza giudiziaria, approvata dal plenum martedì sera). Il documento era stato predisposto dalla sesta commissione del Csm nei giorni precedenti, quando la legge di conversione del decreto flussi era ancora sotto esame in Parlamento. Appare altrettanto ovvio, però, che una volta convertito in legge il decreto in questione, il buon senso istituzionale avrebbe dovuto suggerire al Csm di astenersi dall’esprimere un giudizio - per giunta negativo - fuori tempo massimo. Anche perché, come evidenziato ieri nel plenum dalla laica Isabella Bertolini (che con gli altri tre membri in quota centrodestra ha votato “no” alla delibera), c’è da considerare che “il parere risulta ormai superato, visto che il decreto è stato cambiato in modo significativo. Mi chiedo e vi chiedo che senso ha votare un parere su norme che non ci sono più?”. La norma sull’attribuzione alle Corti d’appello della competenza dei procedimenti di trattenimento dei migranti, tuttavia, alla fine è rimasta, e su questo il Csm esprime nel suo parere preoccupazioni anche condivisibili. Il Csm sottolinea in particolare che la riforma “imporrà una riorganizzazione degli uffici giudiziari di secondo grado, che si troveranno investiti di un numero di reclami “non irrilevante” e “in una materia che richiede di essere trattata non solo con celerità e priorità rispetto agli altri procedimenti, ma anche da magistrati che siano in possesso di specifiche competenze”. Dunque, “considerato che l’attribuzione delle illustrate nuove competenze non risulta, allo stato, accompagnata dalla previsione di un aumento di organico degli uffici giudiziari di secondo grado, va tenuto presente e valutato il rischio concreto di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi fissati per il settore giustizia dal Pnrr”. La presa di posizione del Csm è stata subito colta al balzo dai partiti di opposizione, in particolare il Pd, che ha fatto appello al ministro Nordio “affinché ascolti i rilievi” del Csm e fermi la riforma. Nessun accenno allo scivolone istituzionale del Csm. Migranti. Il Viminale: “Sull’Albania decida la Cassazione” d Giansandro Merli Il Manifesto, 5 dicembre 2024 La richiesta dell'Avvocatura dello Stato nell'udienza di ieri al Palazzaccio. I legali dei migranti: intervengano Corte Ue e Consulta. La procura generale chiede alla Cassazione di sospendere il giudizio in attesa della sentenza della Corte Ue. L’Avvocatura dello Stato, per conto del Viminale, sostiene che ci sono i margini per una decisione degli ermellini. Gli avvocati dei migranti invocano un nuovo rinvio pregiudiziale sui casi concreti. Si può riassumere così l’udienza di ieri al Palazzaccio, soprannome popolare del tribunale di terzo grado, sui ricorsi presentati dal ministero dell’Interno contro le decisioni dei giudici capitolini di non convalidare, a metà ottobre, i trattenimenti dei primi richiedenti asilo trasferiti in Albania. Tutto ruota attorno alla definizione di “paesi sicuri”. I centri d’oltre Adriatico sono nati per detenere i migranti sottoposti a “procedure accelerate di frontiera”. Queste si possono applicare solo a chi non è vulnerabile ed è originario di uno Stato ritenuto “sicuro” dal governo italiano. Il tribunale di Roma ha contestato che Bangladesh ed Egitto siano tali perché le loro “schede paese”, che descrivono le relative situazioni concrete, sono zeppe di eccezioni per categorie di persone (lgbt, oppositori, giornalisti e altri). Lo ha fatto estendendo alla popolazione il ragionamento che la sentenza europea del 4 ottobre ha fatto per il territorio: non possono esserci esclusioni di alcune parti. Secondo la procura, però, nel diritto comunitario “la categoria di paese sicuro non ha una definizione univoca” e non è chiaro se i due tipi di eccezioni si equivalgano. Per saperlo bisogna attendere la sentenza della Corte Ue sui gruppi di persone che in patria rischiano grosso. Arriverà in primavera, intanto le cause vanno sospese. Non è di questo avviso l’Avvocatura, che contesta le decisioni del tribunale romano su due punti. Il primo è che le eccezioni soggettive si trovano nelle “schede paese” e non nel decreto interministeriale, ormai sostituito dal dl flussi convertito ieri in legge, ovvero il provvedimento che stabilisce la sicurezza. Dunque, secondo questo ragionamento, quegli Stati non porrebbero rischi per nessuno. Il secondo punto è che comunque il richiedente avrebbe potuto specificare la sua appartenenza a uno dei gruppi minacciati: nessuno però lo ha fatto e i giudici capitolini non lo hanno verificato. Dal canto loro gli avvocati Dario Belluccio e Loredana Leo, che assistono i migranti, hanno invitato a non confondere il piano procedurale, relativo al tipo di iter da seguire, con quello sostanziale, sulla storia della singola persona. Il primo “precede logicamente” il secondo: se il paese non è sicuro la procedura deve essere quella ordinaria. Il richiedente non può quindi essere recluso. Le verifiche sulla sua situazione soggettiva saranno poi fatte durante l’esame della domanda d’asilo. Del resto in diverse sedi giurisdizionali è stato rilevato che far emergere fragilità e specifiche condizioni individuali, soprattutto per gli stranieri, è un processo lungo o lunghissimo, mai immediato. E questo contraddice altre affermazioni dell’Avvocatura che si è spinta a dire che le “procedure accelerate di frontiera” sveltiscono i tempi ma non riducono le garanzie. Tesi contestata dai legali dei migranti che hanno riportato la discussione nella concretezza delle situazioni create dal protocollo Roma-Tirana. “Abbiamo visto per la prima i nostri assistiti in udienza”, “Come si può preparare in 15 giorni un ricorso per persone che stanno fuori dal territorio Ue?”. Proprio sulla violazione del diritto di difesa l’avvocato Stefano Greco ha chiesto di associare al rinvio in Corte Ue una questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. La decisione della Cassazione è attesa nelle prossime settimane. Medio Oriente. “Amnesty ha fatto ricerche per nove mesi, a Gaza è genocidio” di Umberto De Giovannangeli L'Unità, 5 dicembre 2024 Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia: “Abbiamo fatto 9 mesi di ricerca sull’intento genocida di Israele, ci sono prove di tre dei cinque elementi che costituiscono questo crimine. L’efficacia della Cpi dipende dalla cooperazione degli Stati che hanno sottoscritto il suo Statuto”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. La Corte penale internazionale ha emesso mandati di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e un capo di Hamas. Il G7 ha decretato che Netanyahu gode dell’immunità. E così anche Paesi che riconoscono la Corte. Come la mettiamo? Nello stesso periodo in cui ha spiccato mandati d’accusa nei confronti di Netanyahu e Gallant, nonché nei confronti dell’unico dei tre indiziati di Hamas forse ancora in vita (gli altri due, come noto, sono stati uccisi dalle forze israeliane che hanno sostituito a quella internazionale la “giustizia fai da te”), la Corte ha fatto esattamente lo stesso nei confronti di sei libici, appartenenti al gruppo armato al-Kaniat, accusati di crimini contro l’umanità. La procura della Corte ha poi sollecitato l’emissione di un mandato di cattura per crimini contro l’umanità, commessi nella seconda parte dello scorso decennio contro la minoranza rohingya, dall’allora capo delle forze armate di Myanmar e ora leader della giunta militare al potere dal 1° febbraio 2021, Min Aung Hlaing. Non mi pare che queste attività giudiziarie abbiano ottenuto grande interesse né che abbiano provocato levate di scudi. Quindi la mettiamo che il tema dell’immunità viene sollevato verso gli amici. Per crimini di guerra e contro l’umanità è sotto mandato di cattura internazionale anche Vladimir Putin. Lui, però, non gode dell’immunità nei Paesi che riconoscono la Corte e neanche in alcuni di quelli che non vi hanno aderito, in primis gli Usa. Siamo alla riproposizione del doppio standard? È sempre la solita storia: da quando ha iniziato a uscire dal recinto che le era stato costruito intorno (ossia i dimenticati e “innocui” conflitti africani), la Corte è stata suo malgrado coinvolta nei “doppi standard” dominanti nella comunità internazionale: coprire gli amici, colpire i nemici. Dunque, elogiarla quando incrimina i secondi, delegittimarla o accusarla di politicizzazione quando incrimina i primi. Questo conferma quello che Amnesty International sostiene da sempre: al di là della maggiore o minore sensibilità di chi succede a capo della procura della Corte (ci sono certamente indagini arenate, come quella sull’Afghanistan, perché si discute da anni se debba anche riguardare le forze internazionali presenti dal 2001 al 2021 nel paese), l’efficacia di questo organismo della giustizia internazionale dipende dalla cooperazione degli stati che hanno sottoscritto il suo Statuto (che, non dimentichiamolo mai, venne adottato a Roma, nel luglio 1998, su grande impulso dei movimenti per i diritti umani e naturalmente anche del governo italiano dell’epoca). Oggi, 124 stati hanno l’obbligo di arrestare i latitanti ricercati dalla giustizia internazionale, qualora si trovino sul loro territorio: Putin, Netanyahu, capi della difesa di Russia e Israele, miliziani palestinesi o libici o golpisti birmani che siano. In questi giorni, invece, sentiamo parlare di decisione oltraggiosa della Corte, di giustizia politicizzata, persino di “sentenza”, affermazione che causerebbe una bocciatura al primo esame di Giurisprudenza. Poi ci sono sotterfugi come i richiami all’immunità: ma nel suo statuto, la Corte non riconosce l’immunità alle più alte cariche dello Stato e il fatto che Israele non sia stato parte dello Statuto poco importa. Se gli estensori dello Statuto avessero ceduto, lasciando preminenza alla regola di diritto internazionale consuetudinario che prevede l’immunità personale per le più alte cariche mettendole al riparo dai procedimenti finché duri il loro mandato, non avrebbe neanche avuto senso creare la Corte. Sarebbe bene che gli Stati parte dello Statuto di Roma che, in questi giorni, stanno partecipando alla loro 23esima assemblea, se ne ricordassero. Così come si ricordassero che, quanto meno negli Stati di diritto, non è compito dei governi prendere decisioni del genere. Ci sono leggi (quella italiana è del 2012) che attribuiscono il ruolo di dare esecuzione alle richieste di cooperazione della Corte ai giudici statali e non all’esecutivo. Amnesty International ha documentato in decine di dettagliati rapporti, i crimini di guerra commessi da Israele e da Hamas. Ma il dibattito in Italia ruota sempre, soprattutto nella stampa mainstream, sull’uso del termine “genocidio” applicato a Gaza. Ma agli oltre 45mila morti, cifra in difetto, nella Striscia, in maggioranza donne e bambini, e a una popolazione ridotta alla fame, nulla importa della definizione, ma dell’impunità di cui continua a godere Israele... Da oggi quel termine, “genocidio”, lo usa anche Amnesty International. Abbiamo fatto nove mesi di ricerca sull’intento genocida di Israele rispetto a tre dei cinque elementi che costituiscono il crimine di genocidio: uccidere membri di un gruppo, causare gravi danni fisici e mentali ai membri del gruppo, infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per provocarne in tutto o in parte la distruzione fisica. Abbiamo verificato l’esistenza di quell’intento genocida e abbiamo individuato quello palestinese come “gruppo protetto” in quanto gruppo “nazionale, etnico, razziale e religioso”. Queste espressioni sono tratte dalla Convenzione sul genocidio del 1948, ratificata da Israele nel 1950. L’intento genocida lo abbiamo verificato nella condotta militare israeliana nella Striscia di Gaza: negli attacchi diretti contro la popolazione civile e contro obiettivi, strutture e infrastrutture fondamentali per la vita dei civili, nei continui trasferimenti forzati a seguito di ordini di evacuazione che hanno riguardato il 90% della popolazione, negli ostacoli all’arrivo degli aiuti umanitari. Lo abbiamo ravvisato in numerose dichiarazioni di esponenti di primissimo piano delle istituzioni israeliane, dalla definizione dei palestinesi come “animali umani”, all’asserita inesistenza di una distinzione tra civili palestinesi e miliziani di Hamas, o nel paragone con fatti biblici come il richiamo alla completa distruzione di un’intera nazione, il popolo di Amalek. Non si tratta, come è ovvio, di paragonare la situazione nella Striscia di Gaza alla Shoah, all’Holodomor, al Porrajmos o ad altri genocidi, quattro dei quali giudicati tali solo negli ultimi 30 anni. Il confronto non è con la Storia ma col Diritto. Né, di fronte alla “distruzione in tutto o in parte di un gruppo”, contano i numeri: nessuno, salvo i negazionisti più accaniti, ha osato discutere il fatto che quello di Srebrenica, in Bosnia nel 1995, sia stato sancito ufficialmente come genocidio, sebbene le vittime siano state poco più di 10mila. Questa vicenda ripropone con forza un tema caro ad Amnesty International: la diplomazia dei diritti. Una diplomazia terremotata… Oggi quell’espressione sembra svuotata di senso, un vero e proprio ossimoro, una frase orwelliana. Devo richiamare un concetto espresso sopra: i doppi standard. Siamo prossimi al 10 dicembre, la Giornata internazionale dei diritti umani. Anche quest’anno, nel suo 68esimo anniversario, dovremo constatare che la Dichiarazione universale dei Diritti umani resta una nobile dichiarazione d’intenti, la visione di un mondo libero dalla paura, dal bisogno, dalle repressioni e dalla violenza cui è stato preferito un mondo peggiore. Tutto questo in un anno in cui milioni e milioni di persone sono scese in piazza per reclamare diritti in decine di paesi: Bangladesh, Nigeria, Pakistan, Kenya così come anche le piazze europee, per i diritti nostri e per quelli degli altri. Il numero degli stati in cui la protesta pacifica viene repressa aumenta costantemente e c’è dentro anche l’Italia. Nondimeno, è quella protesta che tiene alta la richiesta di cambiamento. Se la diplomazia dei diritti delle istituzioni sta collassando, la diplomazia dei diritti delle piazze sta prendendo vigore. A luglio, gli studenti del Bangladesh scesi in strada contro la legge che assicurava una quota abnorme di posti di lavoro nell’amministrazione pubblica agli eredi della guerra di liberazione del 1971 avevano messo in conto che sarebbe scorso il sangue e, in effetti, centinaia sono stati uccisi. Qualcuno di loro, nelle poche ore di sonno notturno, sognava che la Prima ministra Sheikh Hasina avrebbe ceduto il potere e che al suo posto sarebbe stato chiamato a guidare il paese un Nobel per la pace, Muhammad Yunus. È quello che è successo, in appena tre settimane. Hanno osato sognare e hanno vinto. Un’ispirazione per il mondo intero. Da Saïed ad al-Sisi, da Assad a Netanyahu. Il Vicino Oriente è marcato da autocrati o peggio. Un destino ineluttabile? Aggiungiamo il saudita Mohamed bin Salman e la leadership iraniana e completiamo il quadro. È un periodo storico infausto, indubbiamente. Ma se quella parte di mondo è caratterizzata da un profondo e totale diniego dei diritti, accusare di volta in volta le popolazioni locali di non essersi opposte, sollevate, ribellate è cinico e persino falso. Si sono ribellate eccome, più volte nel corso dei decenni della Repubblica islamica iraniana e in massa durante le cosiddette “primavere arabe” del 2010-11. Quelle rivendicazioni di diritti le abbiamo tradite e abbandonate, lasciando che in Siria Assad le reprimesse spietatamente con l’aiuto della Russia, rendendo l’Egitto di al-Sisi paese amico oltre che, incredibile a dirsi, “sicuro”. Tanto “sicuro” quanto lo è la Tunisia, dove Kaïs Saïed ha completamente tradito la rivoluzione del 2010-11. Però è un nostro caro amico. Nigeria. Quell’indagine della Corte Penale Internazionale che non va avanti di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 5 dicembre 2024 Amnesty International ha sottoposto alla Camera pre-processuale della Corte penale internazionale una memoria, a nome di migliaia di persone vittime di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità commessi a partire dal 2010 nel nordest della Nigeria, in particolare nel corso del conflitto tra le forze armate federali e il gruppo armato islamista Boko haram. Nel 2020 la procura della Corte ha stabilito che tutti i criteri per l’apertura di un’indagine erano stati soddisfatti. Ma, a distanza di quattro anni, non ha ancora chiesto che quell’indagine sia aperta. Soprattutto in questi ultimi due anni, con la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e il conflitto tra Israele e Hamas, la procura della Corte ha avuto molto da fare. Ma non ha fornito alcun motivo, né potrebbe esserci un motivo, per togliere priorità alla situazione in Nigeria. Nella sua memoria, Amnesty International ha sottolineato che l’ufficio del procuratore sta venendo meno ai suoi obblighi, ai sensi dell’articolo 15.3 dello Statuto di Roma, di chiedere l’apertura di un’indagine. È venuta a crearsi, ha commentato l’organizzazione per i diritti umani, una situazione paradossale che va risolta al più presto: la situazione in Nigeria non è più oggetto di un esame preliminare ma non è ancora oggetto di un’indagine. Il tutto alle spese del diritto alla verità, alla giustizia e alla riparazione. *Portavoce di Amnesty International Italia