Interrogazione parlamentare sui suicidi nelle carceri italiane di Roberto Giachetti* Ristretti Orizzonti, 4 dicembre 2024 Al Ministro della Giustizia, per sapere, premesso che Secondo i dati pubblicati dal Garante nazionale delle persone private della libertà (GNPL), al 27/11/2024, sono state 77 le persone detenute che si sono suicidate nelle carceri italiane, mentre i decessi per cause naturali sono stati 125 e 19 quelli per cause ancora da accertare per un totale tra suicidi e morti per altre cause di 221; secondo il monitoraggio effettuato da “Ristretti Orizzonti”, alla stessa data, le persone che si sono suicidate in carcere sono state 83, mentre i morti per altre cause compresivi di quelli da accertare sono stati 145 per un totale di 228 morti. Sempre secondo i dati diffusi dal GNPL il 27 novembre scorso, 66 suicidi si sono verificati nelle sezioni a regime chiuso e 11 in quelle a regime aperto; il GNPL rende inoltre noto che gli eventi critici sono notevolmente aumentati rispetto al 2023 in quanto i tentati suicidi sono passati da 1.748 a 1.892 (+144), gli atti di autolesionismo sono passati da 11.232 a 11.723 (+491), gli atti di aggressione da 4.802 sono stati 5.200 (+398); quanto al sovraffollamento, il GNPL rende noto che al 27/11/2024 62.410 detenuti erano ristretti in 46.771 posti effettivi per un sovraffollamento nazionale pari al 133,44%; secondo il GNPL, l’analisi comparativa relativa agli eventi critici di maggiore rilievo porta ad ipotizzare che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un incremento degli stessi in particolare di quegli eventi critici che più di altri sono espressione del disagio detentivo quali atti di aggressione, autolesionismo suicidi, tentativi di suicidio o omicidio, aggressioni fisiche al personale di polizia penitenziaria e al personale amministrativo; sia per quanto riguarda i suicidi, sia per quanto riguarda le morti per altre cause, analizzando le serie storiche pubblicate sul sito del Ministero della Giustizia, si notano delle discrepanze evidenti fra i dati del Ministero e quelli del GNPL: per il Ministero della giustizia nel 2023 i detenuti che si sono suicidati in carcere sono stati 66 e i morti “per cause naturali” sono stati 122 , mentre il GNPL nel citato ultimo rapporto fornisce il dato di 68 suicidi e 149 morti per cause naturali; inoltre, le serie storiche del Ministero sembrano escludere dall’analisi le morti per cause da accertare; le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria forniscono il dato allarmante di ben 7 suicidi fra gli agenti del Corpo della polizia penitenziaria: - se intende fornire i dati esatti delle persone detenute che sono morte in carcere nel 2023 e 2024 distinti per: suicidi, morti per malattia, morti per cause da accertare, omicidi; se intende aggiornare la serie storica fornita dal Ministero includendo le morti per causa ancora da accertare; se intende fornire il dato dei suicidi fra gli agenti della polizia penitenziaria e la serie storica dei suicidi negli ultimi 20 anni; cosa intenda fare per abbattere il sovraffollamento fonte secondo il GNPL dell’aumento degli eventi critici fra la popolazione detenuta; se intenda rivedere la collocazione dei detenuti nelle sezioni a regime chiuso. *Ha collaborato alla stesura Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino Mancata affettività in carcere: il Pd interroga il ministro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2024 Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Partito democratico, con un’interrogazione parlamentare, ha chiesto al Ministro della Giustizia spiegazioni sull’inadempienza riguardo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 2024. Questa sentenza ha dichiarato illegittimo l’articolo 18, comma 3, della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non consente colloqui intimi tra i detenuti e i loro partner senza il controllo visivo del personale di custodia, salvo motivi di sicurezza, disciplina o ragioni giudiziarie ostative. L’interrogazione traccia un quadro drammatico del sistema penitenziario italiano, evidenziando problemi profondi e diffusi: sovraffollamento, carenza di personale, strutture inadeguate, criticità nell’assistenza sanitaria e scarsità di risorse economiche. Questi elementi non rappresentano solo questioni amministrative, ma minacciano direttamente le finalità rieducative e risocializzanti della pena, sancite dall’articolo 27 della Costituzione. Il rischio è quello di trasformare la detenzione da percorso di recupero a mera punizione, compromettendo le prospettive di reinserimento sociale dei detenuti. Il punto centrale dell’interrogazione riguarda il mancato adeguamento alla pronuncia della Consulta, che di fatto compromette i diritti fondamentali dei detenuti e la funzione rieducativa della pena, in palese violazione dell’articolo 27 della Costituzione. La decisione della Corte introduce una novità dirompente: i detenuti potranno svolgere colloqui con il coniuge o il partner senza il controllo visivo del personale di custodia, purché non vi siano ragioni di sicurezza. La Consulta ha sottolineato come l’impossibilità di vivere una normale affettività rappresenti un grave vulnus per la persona detenuta. La “desertificazione affettiva” rischia di compromettere i legami familiari e personali, ostacolando il percorso di risocializzazione. Questa sentenza non è solo una questione giuridica, ma tocca aspetti profondi della dignità umana. La Corte riconosce che le relazioni affettive sono cruciali per il recupero personale, e che privarle dell’intimità può portare alla disgregazione dei legami familiari. Serracchiani ha quindi richiesto misure immediate per garantire i colloqui affettivi, sottolineando che la stessa Corte ha previsto una gradualità nell’attuazione per superare le difficoltà organizzative delle strutture penitenziarie. La risposta del ministro - Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nella risposta scritta, ha illustrato le attività intraprese dal suo dicastero. Ha sottolineato l’istituzione di un gruppo di studio multidisciplinare con il compito di elaborare una proposta operativa coerente con il sistema vigente. Tre i temi principali affrontati: l’individuazione degli spazi idonei ai colloqui, i criteri per l’accesso ai benefici e le garanzie di sicurezza. Tra le iniziative citate figurano il monitoraggio nazionale degli spazi penitenziari, collaborazioni con esperti e università per progettare aree dedicate ai colloqui intimi, e l’elaborazione di criteri di esclusione e accesso. Il guardasigilli ha precisato che l’attuazione della sentenza deve conciliare il diritto all’affettività con la sicurezza interna e il mantenimento dell’ordine. Tuttavia, la risposta del ministro, sebbene dettagliata, non appare rassicurante. La creazione di un gruppo di studio e le attività descritte, pur apprezzabili, sembrano insufficienti rispetto all’urgenza della questione. Inoltre, manca una tempistica chiara per l’implementazione delle misure. La gradualità, per quanto comprensibile, rischia di trasformarsi in un pretesto per rimandare indefinitamente l’esercizio di diritti fondamentali. “Il dramma delle carceri”, manifestazione a Bologna del 30 novembre 2024 di Fabrizio Pomes Ristretti Orizzonti, 4 dicembre 2024 Un lavoro condiviso che ha portato alla stesura di un documento che pone l’accento sul dramma dei suicidi in carcere e che si propone come traccia di un lavoro che deve vedere la politica impegnata oltre le visite alle carceri e al lavoro istituzionale. Questo l’obiettivo dell’assessorato al welfare del comune di Bologna che con il personale coinvolgimento dell’assessore Nizzo Nervo e delle consigliere comunali Di Pietro e Monticelli ha lanciato una sfida ai cittadini per una mobilitazione che punti a far diventare Bologna la città promotrice di una rete di città nelle quali ci sono gli istituti penitenziari. Strutturare quindi la protesta verso un governo i cui segnali di carcerocentrismo e di panpenalismo sono evidenti. Il documento ha raccolto le adesioni dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, delle camere penali, della CGIL e di una trentina di associazioni che operano nel volontariato penitenziario. L’incontro con la città si è tenuto sabato mattina in Piazza Lucio Dalla al Navile dove da un palchetto si sono alternati in una maratona oratoria molti dei sottoscrittori del documento. Il freddo rigido ha condizionato fortemente l’evento ma ciò nonostante oltre un centinaio di coraggiosi ha sfidato il clima glaciale e si è lasciato riscaldare il cuore dagli interventi che si sono succeduti. Dopo i saluti istituzionali dei rappresentanti del Comune ha preso la parola l’attore Alessandro Bergonzoni che ha lanciato il movimento dei ‘rivoltosi fuori’. “Chiedo alle persone di prendere i loro cappotti e di rivoltarli, in maniera che le altre persone quando ti vedono in giro per strada ti chiedano perché il tuo cappotto è rivoltato? Perché mi rivolto a quello che c’è di rivoltante dentro un carcere”. Inoltre l’artista bolognese ha chiesto agli stessi ragazzi universitari che scendono in piazza per protestare contro la violenza sulle donne, di interessarsi e manifestare anche per le condizioni drammatiche di chi vive in carcere. A seguire gli interventi del Cappellano del carcere don Marcello Mattè in rappresentanza anche del cardinale Zuppi, del presidente dell’ordine degli Avvocati di Bologna Flavio Peccenini, del presidente della camera penale prof. Nicola Mazzacuva, dell’avvocato Ettore Grenci, del Prof. Stortoni e a seguire quelli dei rappresentanti delle associazioni di volontariato presenti, del mondo degli agenti di polizia penitenziaria rappresentato dal coordinatore nazionale della CGIL Donato Noè e del Garante comunale dei diritti dei detenuti Antonio Ianniello. Nello stupore generale non è stata data la parola al Poggeschi per il Carcere che tutti conoscono come eccellenza del volontariato all’interno della Dozza per le attività laboratoriali nelle diverse sezioni, per l’Estate Dozza e per la redazione ultradecennale di Ne vale la pena. Sono personalmente convinto che si sia trattato di una involontaria dimenticanza che non può e non deve in alcun modo scoraggiare i tanti giovani che con impegno e abnegazione sono impegnati nell’associazionismo. Tutti gli interventi particolarmente apprezzati ed applauditi hanno evidenziato l’esigenza di misure clemenziali come l’amnistia e l’indulto oltre alla liberazione anticipata speciale come obiettivo primario di una politica che miri a svuotare le carceri. Il carcere deve rappresentare l’extrema ratio e occorre invece sostenere comunità di recupero per i tossicodipendenti e comunità come quella più volte richiamata di Casa Corticella che possano offrire ai detenuti la possibilità di una seconda chance. Hanno evidenziato che oggi occorre creare le condizioni perchè il carcere diventi un luogo dove si coltiva il futuro e non un limbo dove si soffoca la vita. In più interventi è stato richiamato anche Papa Francesco che ci invita a “tenere aperta la finestra della speranza”. Ma la realtà che vediamo è diversa: sovraffollamento, carceri come luoghi di esclusione sociale, mancanza di progetti di reinserimento. Non è possibile parlare di un carcere nella Costituzione perché semplicemente non esiste. Non esiste un carcere che incarni pienamente i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione, come dice Giovanni Maria Flick, è come un’isola che non c’è: un luogo ideale, un obiettivo ancora lontano, ma essenziale per affrontare seriamente il problema. E il segnale della partecipazione della piazza di Bologna è un buon viatico perché si lavori pancia a terra e senza steccati ideologici e pregiudiziali per l’obiettivo. Mi sia consentito però di chiudere questo articolo con una personale nota di rammarico per la scarsissima partecipazione del convitato di pietra, degli ex detenuti e dei loro familiari alla manifestazione. Un segnale preoccupante se si pensa che è vero che ci sono gli “assenti giustificati” come gli oltre 800 detenuti della Dozza ma è altrettanto vero che c’è l’assenza di chi avrebbe il compito di diventare il megafono della loro rabbia e disperazione, il testimone dell’inutilità del carcere così come strutturato e che invece, recuperata la libertà, dimentica troppo in fretta e si butta alle spalle l’esperienza detentiva lasciando ai nuovi giunti il testimone di una situazione drammatica. Segnalare in forma anonima le violazioni del “diritto alla salute” dei detenuti di Luca Sofri ilpost.it, 4 dicembre 2024 Tramite una piattaforma che si chiama Freedomleaks, pensata per chi lavora in carcere e vuole denunciare senza subire ripercussioni. Da questa settimana è attiva Freedomleaks, una piattaforma per segnalare in maniera anonima e sicura le violazioni del “diritto alla salute” nelle carceri italiane. È rivolta soprattutto a poliziotti penitenziari e altri operatori e operatrici che frequentano le carceri, per permettere loro di segnalare eventuali violenze e soprusi senza esporsi in prima persona, ed evitare così conseguenze sul posto di lavoro. La piattaforma è gestita dall’associazione Soccorso Civile, fondata nel 2015 per coordinare azioni di disobbedienza civile. Era già attiva dal 2022 per segnalazioni sul diritto all’interruzione di gravidanza: ora è stata estesa anche al diritto alla salute in carcere. Freedomleaks è gestita da GlobaLeaks, un software di whistleblowing (il termine inglese con cui è nota la pratica di segnalare azioni illegali in forma anonima) molto utilizzato in vari ambiti, per esempio il giornalismo investigativo, la tutela dei diritti umani e le attività di contrasto alla corruzione. La piattaforma permette di inviare una segnalazione in maniera totalmente anonima accedendo al sito e cliccando su “Invia una segnalazione”: non bisogna inserire dettagli anagrafici, né informazioni sui propri contatti o indirizzi di riferimento. Per massimizzare l’anonimato, sulla piattaforma è consigliato di inviare la segnalazione dopo aver scaricato un browser come Tor, di quelli cioè pensati per garantire la privacy di chi li usa. Se chi segnala lavora in carcere o in una struttura legata al carcere, è consigliabile inoltre non utilizzare la connessione Wi-Fi del posto di lavoro. In carcere il “diritto alla salute” significa molte cose: non si parla solo di assistenza o visite mediche, ma più in generale delle condizioni di vivibilità delle carceri. Le aziende sanitarie locali svolgono periodicamente visite nelle carceri della loro area di competenza, e dovrebbero segnalare situazioni critiche dal punto di vista igienico e sanitario. Nei fatti spesso non succede. Andrea Andreoli si è occupato di diritti dei detenuti prima coi Radicali, poi come osservatore dell’associazione Antigone. Ora gestisce la piattaforma insieme a Marco Perduca, ex senatore radicale. “Ho visto una quantità innumerevole di situazioni di cui le aziende sanitarie locali avrebbero dovuto occuparsi”, dice. Cita impianti sanitari inutilizzabili, docce che non funzionano, livelli molto alti di umidità nelle strutture che portano regolarmente a infiltrazioni, e nelle sezioni ai piani bassi anche ad allagamenti. Ma anche presenza di scarafaggi e topi. Un altro problema, descritto da Andreoli come “cronico”, riguarda i materassi: quelli in dotazione dei detenuti sono per la maggior parte strati di gommapiuma che hanno una scadenza. “Sono regolarmente scaduti da anni, oppure sono sporchi, magari di urina di detenuti precedenti: mi è capitato in più di un’occasione di sollevare un materasso e trovarlo in condizioni igieniche orribili”, dice. Andreoli dice di aver visto detenuti che dormivano su materassi in queste condizioni senza lenzuola, non fornite dal personale per evitare che venissero utilizzate per suicidarsi: in casi di questo tipo l’amministrazione penitenziaria può dare al detenuto delle lenzuola di carta, che se tiri si rompono. Altre volte non c’è sufficiente disponibilità dei letti: nelle carceri più sovraffollate capita spesso di trovare celle singole dentro cui vengono inseriti letti pieghevoli per farci stare più detenuti, senza lo spazio per camminare. In generale, le strutture penitenziarie italiane sono sovraffollate, e in moltissimi casi fatiscenti. Secondo i dati del 2023 di Antigone, nel 45,4 per cento degli istituti ci sono celle senza acqua calda e nel 56,7 per cento senza doccia. Secondo la legge i detenuti hanno diritto alla stessa assistenza sanitaria dei cittadini in stato di libertà, ma lo stato della sanità penitenziaria è disastroso. Fino al 2010 l’assistenza sanitaria dei detenuti era gestita dal ministero della Giustizia: poi queste competenze sono state trasferite al Servizio sanitario nazionale, quindi alle regioni e alle ASL. In teoria la riforma doveva assicurare un’effettiva parità nel diritto alla salute tra persone detenute e libere: nei fatti ciò non è mai avvenuto. “Succede spesso che le ASL non inseriscano nelle loro relazioni finali situazioni critiche viste dai loro operatori, e quindi che non vengano adottate soluzioni per migliorare le condizioni delle carceri”, dice Marco Perduca. Questo genere di omissioni ha ragioni accomunate da un generale disinteresse per le condizioni delle carceri, in cui solo quest’anno si sono già suicidate 83 persone. In quelle più periferiche, più lontane dai centri cittadini e meno frequentate da volontari e volontarie, è ancora più difficile che situazioni di abbandono e scarsa igiene vengano fuori: la piattaforma Freedomleaks potrebbe essere una parziale soluzione a questo problema. Una volta collegati al sito e avviata la procedura per inviare una segnalazione, la piattaforma chiede dettagli sul tipo di segnalazione, l’indicazione sull’istituto di riferimento e se si è già comunicato il problema ad autorità o media. Proprio perché la segnalazione è anonima non si può venire ricontattati dai gestori della piattaforma: per controllare se la comunicazione è stata ricevuta, oppure se sono stati chiesti chiarimenti o documentazioni aggiuntive, bisogna accedere nuovamente alla piattaforma e inserire in una specifica casella un numero di 16 cifre che si riceve a segnalazione inoltrata. Una volta ricevute le segnalazioni, i gestori della piattaforma dovranno verificarle. Marco Perduca dice che prevedono di confrontare la documentazione ricevuta con la relazione inviata al ministero della Giustizia dall’ASL che ha visitato quella struttura, individuando eventuali discrepanze. Intendono ottenere le relazioni delle ASL con una richiesta di accesso pubblico agli atti, come già fatto in passato attraverso l’attività svolta da Antigone. Non c’è ancora un piano preciso su cosa fare una volta individuate e verificate eventuali violazioni del diritto alla salute dei detenuti, e il modo in cui evolverà la piattaforma dipende anche dalla quantità di segnalazioni ricevute. “Strategic litigation”, a difesa della salute mentale in carcere di Ilaria Dioguardi vita.it, 4 dicembre 2024 “A mente libera” è il progetto con cui l’associazione StraLi vuole difendere e promuovere la tutela dei detenuti con problemi psichiatrici. La presidente Benedetta Perego: “Lo facciamo con gli strumenti del diritto e del contenzioso strategico, anche davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Il contenzioso strategico è “da sempre marchio di fabbrica di StraLi, ci aiuta a stare dalla parte del singolo nelle aule del tribunale e, nello stesso tempo, cercare di assicurare una tutela maggiore alla società intera”, dice Benedetta Perego, avvocata e presidente di StraLi, associazione non profit che promuove la tutela dei diritti attraverso il sistema giudiziario. “Questo è ciò che vogliamo fare, anche in tema di salute mentale nei luoghi di detenzione”. Perego, cos’è la strategic litigation? Noi prendiamo pochi casi che riteniamo siano rappresentativi di una violazione per tanti e li portiamo avanti cercando di ottenere pronunce quanto meno di Cassazione, se non della Corte Edu-Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di Giustizia. Quindi cerchiamo di ottenere delle pronunce da Corti, nazionali o sovranazionali, che poi possano avere un’efficacia “ad ombrello” su tante persone che si trovano in una situazione analoga. StraLi dove opera? Siamo nati nel 2017 a Torino, ma ormai la nostra unità più partecipata è ad Amsterdam. Operiamo ovunque in Italia. Con la smaterializzazione dei procedimenti, la possibilità sempre di più di interloquire con gli uffici giudiziari anche da remoto, con il processo telematico, ormai riusciamo a muoverci su tutto il territorio italiano. Di cosa si occupa StraLi? La nostra associazione si occupa di strategic litigation e diritti umani. La salute, compresa ovviamente la salute mentale in carcere, è uno dei focus principali della nostra azione degli ultimi anni. L’anno scorso abbiamo sviluppato, con il supporto prezioso di Project System, il progetto “A mente libera”, che è diventato un dipartimento dell’associazione dedicato alla salute mentale delle persone detenute. Lo stiamo sviluppando, abbiamo vari progetti in corso. Il primo riguarda i contenziosi davanti alla Corte Edu, e anche sul territorio nazionale. Finora i nostri tentativi, in Italia, hanno avuto poco successo, siamo stati poco ascoltati nelle sollevazioni di questioni di legittimità costituzionale che abbiamo tentato. Invece, di fronte alla Corte Edu, abbiamo portato un caso che è “Saad contro Italia”. Saad, pur riconosciuto come avente diritto al ricovero in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) dal giudice per le indagini preliminari di Milano, è rimasta in carcere per oltre sette mesi in attesa che si liberasse un posto, le sue condizioni di salute ne hanno risentito enormemente. Ci può spiegare meglio questo caso? In questo caso, abbiamo impugnato le decisioni delle autorità nazionali fino all’ultimo grado di giudizio, mentre la persona assistita è stata finalmente trasferita in una Rems. Abbiamo concluso da poco la fase del contraddittorio con il governo italiano e stiamo aspettando la sentenza. Saad è una persona detenuta con una grave patologia psichiatrica. Il caso “Saad contro Italia” per noi è particolarmente interessante perché non solo affronta la tematica su cui già si è espressa la Corte e che è una criticità rilevantissima nel nostro sistema, cioè quella delle liste d’attesa per il collocamento in Rems, ma affronta anche due punti specifici che, secondo noi, sono importanti. Quali? Il primo è quello della misura cautelare perché le tutele, già scarse in fase definitiva per le persone condannate con problematiche psichiatriche in fase di misure cautelari, sono ancora più insufficienti, scarse e inidonee. Sulla fase cautelare, secondo me, bisogna attirare maggiormente l’attenzione, anche a livello internazionale. Un altro punto su cui soffermarsi è quello del significato che viene attribuito alle Rems. Quando abbiamo una persona ritenuta parzialmente incapace di intendere e di volere, di solito affronta sia una condanna detentiva sia una misura di sicurezza. La condanna detentiva, qualora la persona venga ritenuta socialmente pericolosa, non può essere espiata in contesti domestici o para domestici come le comunità terapeutiche, però dall’altra parte molto spesso il carcere è ritenuto inidoneo, inadeguato ad affrontare e a rispondere alle esigenze della persona in interesse. Secondo noi, c’è un problema di strutture e di utilizzo delle Rems, al di là della possibilità poi per chi ne ha già il diritto riconosciuto normativamente di accedervi, visto che i posti sono inadeguati, ci sono lunghe liste d’attesa, tutte questioni già molto note. Un altro fronte su cui state lavorando come team di A Mente Libera, è legato all’implementazione della sentenza della Corte Edu... La Corte di Strasburgo, negli ultimi anni si è espressa in maniera produttiva, chiara e significativa, sia sulle problematiche legate a questa materia sia sulle persone che stanno dietro questa materia. Il problema è che il governo italiano non implementa le sentenze della Corte europea, che hanno una cogenza, diciamo così, relativa, hanno bisogno di interventi legislativi, governativi adeguati. Il problema delle sentenze della Corte europea è, molto spesso, quello di rimanere un po’ “lettera morta” rispetto poi alle esecuzioni nei Paesi di riferimento. Rispetto all’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, ci sono dei meccanismi all’interno del Consiglio d’Europa per verificarne il seguito. Quindi, il Consiglio d’Europa, tramite una Commissione specifica, periodicamente va a verificare che le sentenze della Corte europea vengano effettivamente implementate nei Paesi membri del Consiglio d’Europa. In questa procedura le Ong, o comunque la società civile, si possono inserire, interloquendo con il Consiglio eventualmente anche con degli scambi con il governo italiano rispetto all’implementazione o meno delle sentenze. Recentemente come siete intervenuti, di fronte al Consiglio d’Europa? Nell’ultimo anno siamo intervenuti di fronte al Consiglio con delle comunicazioni che sono chiamate “Rule 9”, sia nel caso “Saad contro Italia”, sia nel caso “Citraro e Molino contro Italia”, relativo ad un caso di suicidio che, purtroppo, nonostante sia un caso abbastanza risalente, si rivela attualissimo anche rispetto ai numeri di suicidi che abbiamo oggi in Italia nei nostri istituti. Un altro modo, al di là di attività di comunicazione, disseminazione e diffusione generica tramite i nostri canali, è quello della cooperazione con l’università. Abbiamo istituito un workshop, che dovrebbe ripartire anche nel 2025, aperto a studenti e studentesse di giurisprudenza e di psicologia per portare avanti insieme dei casi che riteniamo strategici. Questo per ottenere sia il supporto di menti giovani e fresche che spesso hanno delle idee preziose, sia per diffondere, rispetto a futuri operatori sanitari e giuridici, l’importanza di essere attenti e preparati su questa tematica. Come operatrice del diritto, cosa vuole dirci del sistema penitenziario attuale? La situazione nelle carceri mi sembra davvero drammatica e sempre in peggioramento. Il dato dei suicidi, che si appresta purtroppo a superare il record nel 2023, è un campanello d’allarme di una crisi molto più ampia. Se le carceri sono una società, per quanto ristretta, isolata e spesso lontana dalla nostra vista, il numero dei suicidi non è altro che un tasso che ci fa comprendere il malessere di quella società che è molto più ampio rispetto anche solo alla gestione della salute mentale, ma è una società dove mancano le opportunità, lo spazio, la dignità. Come operatrice del diritto noto anche una freddezza giudiziaria. Quello che mi stupisce sempre, quando vado negli istituti di pena o nelle aule giudiziarie, è il fatto che, a volte, trovo la Magistratura di sorveglianza che rigetta istanze di misure alternative con pene assolutamente vicino al termine senza nessuna utilità, continuando ad affollare istituti di pena che già sono al collasso. Un Natale oltre le sbarre: amore, speranza e solidarietà nei cuori di 8.000 detenuti di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 4 dicembre 2024 Chef stellati, volontari e volti noti uniscono il Paese in 44 istituti penitenziari per offrire un Natale di solidarietà, condivisione e rinascita. C’è un momento, anche dietro le sbarre, in cui il Natale si trasforma in una possibilità di rinascita. Giovedì 19 dicembre, l’XI edizione dei Pranzi di Natale “L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore” porterà 1.500 volontari, 46 chef stellati e numerosi volti noti del panorama italiano in 44 istituti penitenziari, per condividere un pasto con circa 8.000 detenuti. L’iniziativa, promossa da Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, è un gesto di solidarietà che unisce il mondo esterno con quello interno alle carceri. Gli istituti penitenziari coinvolti coprono l’intero territorio italiano: Milano Opera, Torino, Alessandria, Ivrea, Verbania, Lecco, Vicenza, Bologna (maschile e femminile), Castelfranco Emilia, Parma, Firenze (minorile), Massa, Roma Rebibbia (sezione femminile e Nuovo Complesso maschile), Fermo, Teramo, Pesaro, Sulmona, Vasto, Pozzuoli (sezione femminile), Napoli Secondigliano, Nisida (minorile), Salerno (sezione femminile), Eboli, Aversa, Avellino, Ariano Irpino, Capua Vetere, Airola (minorile), Potenza, Cosenza, Crotone, Palmi, Corigliano Rossano, Vibo Valentia, Catanzaro (minorile), Cagliari Uta, Cagliari (minorile), Lanusei, Lodé-Mamone, Nuoro, Palermo, Catania (minorile) e Siracusa. In alcuni di questi istituti, il pranzo sarà condiviso anche con i familiari e i figli dei detenuti, rendendo il momento ancora più significativo. Dietro ogni piatto c’è il lavoro e la passione di 46 chef stellati e maestri dell’alta cucina, tra cui Fulvio Pierangelini, Domenico Iavarone, Marianna Vitale e molti altri, che mettono a disposizione il loro talento per preparare menù che sanno di speranza e dignità. Ogni dettaglio, dalla qualità dei piatti alla mise en place, curata dai detenuti stessi durante laboratori creativi, è pensato per offrire un’esperienza che va oltre il semplice pasto. A servire i tavoli saranno presenti volti noti del mondo dello spettacolo, dello sport, della cultura e del giornalismo. Tra i nomi confermati figurano Dado, Michela Giraud, Serena Bortone, Nunzia De Girolamo, Angela Missoni, Paola Perego, Patrizia Pellegrino, Ilaria Grillini, Gatto Panceri, DJ Ringo, Giuseppe Cruciani, Mario Rosini, Lisa Di Giovanni, Gianluigi Nuzzi, Gilles Rocca, Mino Abbacuccio, Cristina Sferrazza, Renzo Sinacori, Carmine Faraco, Maria Grazia Schiavo, Francesco Rizzuto, Max De Rosa, Giuseppe Giannini, Nicola Legrottaglie, Jordan Valdinocci, Christian Manfredini, Anna Maria Chiarito, Edoardo Mirabella, Felicita Pistilli, Serena Bagozzi, Le VIPere (Marina Di Paola e Giorgia Caponetti), il cantastorie Roppoppo, Ottavio Demontis, Gioia Masia e Gianpiero Perone. Questa iniziativa, nata nel 2014 grazie all’ispirazione dello chef Filippo La Mantia, che conobbe la realtà del carcere a causa di un errore giudiziario, è diventata nel tempo un simbolo di solidarietà e umanità. “Quando entri in contatto con queste storie, scopri un’umanità molto profonda”, ha detto Lorella Cuccarini, una delle sostenitrici dell’evento in passato. Il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove ha sottolineato che “L’ALTrA Cucina è un’occasione per raccontare la necessità di umanizzare il carcere e promuovere un futuro migliore”. Mercoledì 18 dicembre, nella Sala Caduti di Nassiriya del Senato della Repubblica, verrà presentata ufficialmente questa straordinaria iniziativa, che non solo porta un sorriso ai detenuti ma getta le basi per una riflessione più ampia sul significato del Natale e sulla possibilità di riscatto per tutti. Separazione delle carriere, parte l’iter in aula di Aldo Torchiaro Il Riformista, 4 dicembre 2024 Calderone: “Vanno ristabiliti i ruoli dei poteri. Intercettazioni? Servono regole chiare”. Ieri la Commissione Affari Costituzionali ha approvato la norma sulla separazione delle carriere. Quando sarà legge, la magistratura giudicante e la magistratura requirente non saranno più interscambiabili: si porrà fine all’esercizio di un ruolo abnorme, fonte di squilibri istituzionali. Ne abbiamo parlato con uno dei propugnatori di questa riforma, l’onorevole Tommaso Calderone, penalista, deputato di Forza Italia. La separazione delle Carriere è passata in commissione Affari Costituzionali. Un piccolo passo per un parlamentare, un grande balzo per l’umanità... “È un grandissimo passo. Un momento storico, direi. Per la prima volta la proposta costituzionale sulla separazione delle carriere giudiziarie è stata liquidata in commissione. Ed è stato conferito il mandato al relatore per portarla in aula la settimana prossima. Un grandissimo passo per la civiltà giuridica del Paese. Una delle idee del nostro presidente Silvio Berlusconi che oggi sarebbe felice e orgoglioso del nostro lavoro”. Certo. Intanto un primo passo, l’iter di legge è avviato. Poi, essendo una riforma costituzionale, occorre la maggioranza qualificata… “Ed è prevista la procedura rafforzata. Chiaro. Il principio è di importanza vitale. Il magistrato deve essere davvero terzo rispetto alla pubblica accusa, non deve esserne collega ed amico da cui è separato solo formalmente durante l’udienza. Mi piacerebbe che alla fine dell’approvazione si dovesse passare comunque per il referendum. Così il popolo italiano potrebbe liberamente esprimersi, e sono convinto che finirebbe con una vittoria storica sancita dal popolo italiano”. Guardi, di referendum se ne sono fatti tanti e anche vinti. Come sulla responsabilità civile dei magistrati, rimasto poi lettera morta... “Noi di Forza Italia e questo governo di centrodestra siamo concentrati sulle riforme. Quante volte si è parlato di separazione delle carriere, negli ultimi trent’anni? A ogni singola legislatura venivano depositate proposte di legge costituzionali. Noi a neanche metà legislatura siamo già arrivati a portare il testo della riforma in aula, la settimana prossima”. Forza Italia ha fatto pesare la sua sensibilità nell’ambito del programma di governo ma la giustizia rimane la grande malata d’Italia… “Tante cose sono già state fatte in questa legislatura. Le ricordo i tre importantissimi emendamenti previsti dalla legge dell’ottobre 2023 in materia di intercettazione, inseriti nel codice di procedura penale. Non è più possibile utilizzare la vergogna delle intercettazioni a strascico, ed è stato grazie a un nostro emendamento, e abbiamo obbligato l’ufficiale di P.G. che ascolta le intercettazioni a mettere nero su bianco anche i fatti che non ritiene rilevanti”. Servono regole anche sull’estensione delle intercettazioni oltre i 45 giorni… “Anche su questo leggo tante strumentalizzazioni. Cerchiamo di essere chiari. Se nei 45 giorni (escludendo mafia e terrorismo) emergono dati per le quali è necessario continuare a intercettare, lo si potrà continuare a fare. Però deve esserci una motivazione, sul decreto del gip. È finito il tempo dei prestampati “Visto, si autorizza”. Si invadeva la vita degli italiani con un prestampato che autorizzava ad andare oltre ad libitum, senza una motivazione precisa e a quel punto senza più un termine. E deve finire l’intercettazione esplorativa: non ho trovato nulla, allora continuo a intercettare finché non sento qualcosa che mi interessa. Così non c’è più stato di diritto, lo capiscono tutti”. Anche perché quello delle intercettazioni pazze è uno scandalo da tutti i punti di vista. Dello stato di diritto, dell’efficienza della giustizia, per l’enorme numero di sviste ed errori e non ultimo, per il costo astrale che comporta per lo Stato... “Il fatto che si spendono centinaia di milioni di euro è un problema, certo, ma che non riguarda i giuristi. Il giurista deve pensare allo stato di diritto, alla giustizia giusta. Le posso assicurare che in nove processi su dieci le intercettazioni sono negative. Sono inutili o inutilizzabili. Si è cioè invaso un diritto di rango costituzionale senza che ve ne fosse la necessità”. Ogni volta che si mette mano a riforme sulla giustizia, arrivano le levate di scudi dell’Anm e le proteste di MD. Temete l’opposizione giudiziaria più di quella politica? “Il mio credo è che le leggi le scrive il Parlamento, la magistratura le applica e il cittadino le osserva. Finisce lì. Noi non critichiamo le sentenze, loro non devono mettere becco nei provvedimenti legislativi”. Ieri è stato archiviato, dopo anni di calvario giudiziario, Stefano Esposito. Il presunto traffico di influenze è veramente aleatorio, bisogna fare chiarezza… “Conosco l’ex senatore Esposito e il suo caso. Quella di riformare la fattispecie del traffico di influenze era sin dall’inizio della legislatura una nostra proposta di legge, primo firmatario Pittalis, di Forza Italia. Già depositata e in trattazione, il governo ha fatto una proposta che è stata approvata. La nuova formulazione del traffico di influenze, in vigore dal 25 di agosto, è una buona legge: prevede che venga sanzionato chi percepisce denaro, non chi promette utilità. Che significava tutto e niente. Siamo orgogliosi anche di questa legge e continueremo a farne altre per riportare il Paese sui binari della giustizia giusta”. Nomine, al Csm vincono i conservatori. L’alleanza Mi e Area contro i riformisti di Simona Musco Il Dubbio, 4 dicembre 2024 Clima teso e recriminazioni in un Consiglio spaccato e “inedito”: Fratelli d’Italia vota con i “nemici” di Md. Tutti d’accordo: il correntismo ha fatto diventare la discrezionalità mero arbitrio. Eppure, il Csm rimane ancorato al passato, con qualche piccolo correttivo apportato con la proposta a firma Area-Magistratura indipendente, uscita vincente dal lunghissimo plenum straordinario tenutosi ieri. Sedici i voti per la proposta A (che salva la discrezionalità), contro i 14 accordati dalla proposta B (che prevedeva i punteggi). Astenuto il vicepresidente Fabio Pinelli, che nella scorsa seduta aveva criticato entrambe le proposte, espressione “di un difetto di autorevolezza del Csm”. La discussione di ieri si è sviluppata attorno ai trenta emendamenti presentati alle proposte, con l’approvazione di quello a firma del procuratore generale Luigi Salvato, che “salva” i magistrati di legittimità. Una modifica sollecitata dai magistrati di Cassazione, che lunedì avevano lamentato, con una lettera, una discriminazione che penalizzava le toghe con esperienza variegata. Ma a colpire è stato il breve intervento della laica di centrodestra Isabella Bertolini, che pur affermando di non essere soddisfatta da nessuna delle due proposte ha dichiarato di voler “correre il rischio di una strada nuova piuttosto che avallare una convergenza politica innaturale tra due correnti che hanno animi e principi totalmente divergenti (Area e Mi, ndr), ma che oggi siglano un patto di cui non comprendo e non voglio comprendere ragioni ed obiettivi, ma di cui vedremo presto gli sviluppi”. Parole rispedite al mittente dal togato di Area Tullio Morello: “Nessun patto scellerato - ha sottolineato -, ma solo senso istituzionale di due parti per attenersi al richiamo del Capo dello Stato (che aveva invocato una proposta unitaria, ndr). Non è disdicevole per Area votare con Mi - ha aggiunto -, così come non è disdicevole per Fratelli d’Italia votare con Md, che attacca sui giornali un giorno sì e un altro pure”. Ad appoggiare la proposta vincente, oltre alle due correnti, anche la Prima presidente della Cassazione Margherita Cassano, il procuratore generale Salvato e il laico di Italia viva Ernesto Carbone, secondo cui la proposta B avrebbe ridotto il Csm a mero ufficio personale della magistratura. A schierarsi con la seconda, invece, i togati di Unicost, Magistratura democratica, gli indipendenti Andrea Mirenda e Roberto Fontana, i laici di centrodestra (pur non soddisfatti, ma orientati verso “il male minore”) e quello in quota M5S Michele Papa. E la scelta arriva in contemporanea con il bando per 55 posti direttivi e 83 semidirettivi, dato che rende ancora più evidenti le ricadute immediate della decisione. Duro l’intervento dell’indipendente Mirenda: “La politica non ha voluto porre rimedio alle degenerazioni arcinote. La legge Cartabia aveva in animo tutto, tranne che stroncare il nominificio del correntismo. Molto avrebbe potuto fare e invece ha partorito un topolino. E questa legge, nella sua scientifica ingestibilità - ha aggiunto - è stata scritta, guarda caso, dalle ligie falangi di magistrati fuori ruolo, esecutrici del progetto gattopardesco di chi li ha collocati. Solo la proposta numero 2 ha raccolto l’unico assist degno di nota di questa infelicissima legge: la scelta di operare una graduazione valoriale a monte in quella messe arruffata di parametri”. Ma non solo: per arrivare a queste due proposte contrapposte il Csm ci ha messo un anno in più rispetto al tempo concesso, “a riprova di come le nomine siano il boccone ghiotto su cui si forma il consenso delle correnti”. E proprio per tale motivo, ha aggiunto, sarebbe stato necessario ridurre la discrezionalità, “di cui abbiamo fatto un uso sovente, non sempre, per carità, ma tutt’altro che di rado, discutibile”. Con la vittoria della proposta A, ha concluso, “i due stakeholder del nominificio malato portano a casa una pseudo riforma del Testo unico che, garantendo loro le solite praterie di discrezionalità, ne manterrà saldo il pervasivo potere di condizionamento di ogni singolo magistrato. Un’occasione irrimediabilmente perduta di autoriforma a cui il Parlamento dovrà ovviare solo col sorteggio dei membri del Csm e con la rotazione turnaria dei dirigenti”. Il togato di Unicost Marco Bisogni ha paragonato i sostenitori della proposta A ai “negazionisti del cambiamento climatico, perché si ostinano a mantenere regole che hanno dimostrato la loro inadeguatezza”. Critico anche Fontana, secondo cui con la proposta vincente “si riproporranno le stesse polemiche che continueranno a logorare il Consiglio”. Ma secondo Area e Mi, ciò costituisce un ostacolo alla realizzazione del progetto politico che vuole la separazione delle carriere, in effetti citato dal laico Felice Giuffrè come chiusura del cerchio, qualora avesse vinto la proposta B. Per Edoardo Cilenti (Mi), infatti, la proposta perdente avrebbe aperto “un’autostrada al sorteggio, il che spiega il voto della componente laica di maggioranza parlamentare. Io sono contrarissimo al sorteggio e intendo con il mio voto preservare l’istituzione”. E per Maurizio Carbone (Area), ridurre gli spazi di discrezionalità sarebbe stata “un’operazione cieca”, che avrebbe portato “direttamente al sorteggio, alla negazione della democrazia. Le storture non possono essere superate con scorciatoie che riducono l’autorevolezza del Consiglio, snaturando un organo che ha una rilevanza costituzionale”. Critica contro Mirenda e i laici di centrodestra la toga di Mi Maria Luisa Mazzola: “Certi interventi descrivono il Consiglio come un’associazione a delinquere - ha sottolineato -. Il fatto che sia successo in passato non significa che stia succedendo ancora adesso. Altrimenti ne siete parte anche voi”. L’esempio di Gino Cecchettin dopo l’ergastolo per Turetta d Claudio Cerasa Il Foglio, 4 dicembre 2024 Il padre di Giulia Cecchettin dopo la sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo mostra equilibrio e sobrietà. L’opposto dei toni forcaioli di Salvini e Co. “Abbiamo perso tutti come società. Nessuno mi darà dietro Giulia, quindi non sono sollevato né più triste rispetto a ieri. È stata fatta giustizia, la rispetto, ma credo che la violenza di genere non si combatte con le pene ma con la prevenzione”. Le parole pronunciate da Gino Cecchettin, padre di Giulia, dopo la sentenza di condanna all’ergastolo in primo grado per Filippo Turetta, colpiscono per sobrietà ed equilibrio, ancor di più se si considerano gli aspetti ancora da chiarire della sentenza (saranno le motivazioni a farlo), come l’esclusione dell’aggravante della crudeltà a fronte di un omicidio compiuto con 75 coltellate. L’opposto, tanto per essere chiari, dei toni forcaioli che da tempo la politica utilizza di fronte ai casi giudiziari e che anche ieri molti esponenti politici hanno riproposto dopo la pronuncia della Corte d’assise di Venezia. Il vicepremier e ministro Matteo Salvini, per esempio, si è riferito a Turetta affermando che “ora sarebbe corretto obbligarlo anche a lavorare duramente, in carcere, per evitare che la sua permanenza in galera sia completamente a carico degli italiani” (ignorando, peraltro, che i detenuti sono tenuti a pagare lo stato per il loro mantenimento in carcere). Le senatrici venete della Lega Mara Bizzotto ed Erika Stefani hanno dichiarato in un comunicato che l’ergastolo “è la pena giusta per il colpevole del terribile omicidio di Giulia Cecchettin e per tutte le altre vittime di femminicidio”, come se una sentenza dovesse fare giustizia collettiva di tutte le vittime di femminicidio. Anche per la vicepresidente di Forza Italia al Senato, Licia Ronzulli, la condanna all’ergastolo “se non lenisce il dolore, almeno fa giustizia e lancia un messaggio chiaro e forte. Chi commette femminicidio non ha giustificazioni, attenuanti o scuse di sorta per i suoi atti”. Insomma, la sentenza su Turetta doveva servire da esempio. Una logica lontana dallo stato di diritto, paradossalmente fatta propria dalla politica ma non dal padre della povera Giulia Cecchettin, cioè dalle parti lese del processo. Sentenza Turetta, perché nulla è come prima di Giusi Fasano Corriere della Sera, 4 dicembre 2024 L’uccisione di Giulia. Si è capito subito che i Cecchettin non avrebbero seguito le parole e i modi d’ordinanza. Eravamo anestetizzati. Uomini e donne a sensibilità ridotta. Prima di Giulia era toccato a Etleva, prima di Etleva era stata Annalisa, prima di Annalisa Giuseppa, prima ancora Concetta, Eleonora, Anna... E tutti quei nomi, quelle facce, quelle storie, erano scampoli di vite di cui presto avremmo ricordato poco o nulla. Perché è così che funziona, chi più chi meno si fa l’abitudine a tutto, femminicidio compreso. Ma poi nelle nostre case e nelle nostre coscienze è arrivata la storia nera di lei, Giulia. E si è capito subito che i Cecchettin non avrebbero seguito le parole e i modi d’ordinanza. È questo che ha segnato la differenza. Il fatto che nei loro giorni dopo Giulia, suo padre Gino e - soprattutto - sua sorella Elena, hanno rovesciato il tavolo delle aspettative collettive. Lui che al funerale parla di “speranza”, che dice a sua figlia “anch’io ti amo”, come se lei gli avesse appena sussurrato “ti amo, papà”. Lui che guarda l’assassino di Giulia e dice “non provo odio verso Turetta, sono vicino ai genitori che stanno vivendo un dramma”. Lui mite, empatico, femminista, attento a parole e sensibilità. Ma è lei, Elena, il motore della rivoluzione possibile in nome di Giulia. È lei che se ne esce con quella frase: “Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato”. Eccola, quella vecchia parola che è stato un errore archiviare: patriarcato. Una parola che il tempo ha sepolto prima della realtà. La negazione della libertà e del potere di decidere di se stesse è stata mitigata nel tempo ma mai cancellata del tutto e il patriarcato che Elena ha tirato fuori dal cassetto ha fatto rumore per questo. Perché ha costretto la politica e la discussione pubblica a tornare a quel vecchio concetto. Far rumore: un altro passaggio che ha sovvertito l’ordine delle cose e che ha reso unica, fra i femminicidi, la storia del dopo-Giulia. Non il dolore silente. Non il passo di lato. “Per Giulia bruciate tutto”, ha chiesto Elena ricordando la poesia di Cristina Torres Cáceres sul femminicidio. “Se domani sono io, mamma, se domani non torno, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”, diceva quella poesia. Rumore. Nelle sedi istituzionali, nelle piazze, negli incontri pubblici. Rumore per Giulia ormai perduta e per le Giulie da salvare. Un padre che fa rumore parlando d’amore e una sorella che si fa sentire invocando il solo potere possibile: quello delle donne libere. Che fanno ancora paura. “Non esistono indifendibili: Anche un reo confesso ha diritto al giusto processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 dicembre 2024 Il processo a Filippo Turetta riapre il dibattito sul ruolo dei difensori: ne parliamo con Aurora Matteucci, già presidente della Camera Penale di Livorno. Il processo a carico di Filippo Turetta, reso confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, ha riaperto ormai da tempo il dibattito del ruolo dell’avvocato. Per alcuni, gli imputati come Turetta non meriterebbero la difesa ma, invece, come ci dice l’avvocato Aurora Matteucci, già presidente della Camera Penale di Livorno, “si tratta di un diritto inviolabile”. Perché anche Filippo Turetta ha diritto ad essere difeso? Partiamo dall’assunto che non esistono gli indifendibili. Detto questo, la sua è una delle domande più difficili del nostro tempo ma a cui abbiamo il dovere di rispondere. Nasce in un periodo storico in cui il processo ormai è stato prepotentemente delegittimato dalla grancassa mediatica che esprime istanze di bulimia repressiva, oramai divenuta pensiero dominante. Tuttavia non possiamo esimerci dallo spiegare alle persone che chiunque in questo Paese ha diritto a una difesa, prima di tutto perché lo prevede l’articolo 24 della Costituzione, per cui la difesa è uno dei diritti inviolabili. Persino un reo confesso come Turetta ha diritto a un processo giusto e ha diritto quindi affinché tutte le sfumature di questa vicenda drammatica vengano portate all’attenzione del giudice. In questi casi poi gli avvocati vengono accusati e stigmatizzati quando chiedono, secondo il codice di rito, di non prevedere le aggravanti, di non condannare il loro assistito alla pena massima, di concedergli le attenuanti. Appare ingiusto e irrispettoso... A parer mio questi sono gli effetti negativi del processo penale simbolico, perché il processo penale, anziché essere il luogo dell’accertamento di un fatto storico determinato, è diventato il simbolo di tutti i fatti che riguardano - per così dire - una questione politica o etica, per esempio la violenza maschile contro le donne. È come se un imputato dovesse rispondere di tutte quante le violenze maschili contro le donne. Ciò rappresenta la resa della politica rispetto a determinati temi, per cui si appalta sul processo penale la funzione di risolvere questioni che prima ancora dovrebbero trovare una soluzione culturale e preventiva. Già in caso di omicidio il diritto di difesa spesso è vilipeso. Ma per i casi di femminicidio lo è ancora di più... Sì, è assolutamente così in questo momento. Purtroppo, addirittura, c’è chi sostiene che i reati di violenza di genere debbano essere trattati esattamente come quelli di criminalità organizzata mafiosa, che è il settore tipico del doppio binario. Questo accostamento tra violenza di genere e criminalità organizzata ha reso ragione di tutta una serie di norme che nel tempo hanno davvero contribuito a costruire una sorta di nuovo doppio binario. Ma in realtà più in generale oggi si assiste a una proiezione vittimocentrica della giustizia penale per cui si costruiscono doppi, tripli, quadrupli binari in relazione alla tipologia di vittima che si intende tutelare. Basti pensare all’omicidio stradale o a tutta una serie di introduzioni normative che vanno nella direzione di irrigidire le soluzioni del processo, rendere più difficile la difesa degli imputati in base alla tipologia di vittima. Ormai anche la politica si è assestata su un approccio vittimocentrico quando si tratta di legiferare in materia di giustizia criminale. Tanto è vero che al Senato è in discussione un disegno di legge costituzionale che vuole inserire la vittima in Costituzione... Il problema non è tanto andare contro le vittime reali ovviamente. Quello che invece molti penalisti criticano è il paradigma vittimario che attribuisce una fede privilegiata alla vittima in quanto tale, in un contesto - quello penale liberale - che invece è reocentrico. Quindi le vittime in realtà hanno molta più voce degli imputati che vengono già considerati condannati prima ancora che ci sia una sentenza definitiva nel nostro Paese. Come scrive bene il professore Daniele Giglioli in ‘Critica della Vittima’ (figure nottetempo) “La vittima è l’eroe del nostro tempo” a cui viene tributata una voce privilegiata. Inoltre sul piano del diritto sostanziale si sono create nuove fattispecie criminose per tipologia di vittima e spesso noi avvocati abbiamo le armi spuntate per difendere imputati di certe categorie di reato, in modo particolare quando difendiamo imputati accusati di violenza contro le donne. Turetta è stato condannato all’ergastolo ma per alcuni avrebbe meritato la pena di morte... Ormai sui social, e non solo, si leggono commenti che hanno travalicato il sopportabile. Poi ci sono quelli che vorrebbero buttare la chiave e quelli per cui l’ergastolo è l’unica forma di risarcimento collettivo per questa orrenda storia. Secondo lei l’ergastolo è una pena esagerata? Tendenzialmente per il tipo di contestazioni mosse a Turetta l’ergastolo è previsto. In generale, sfortunatamente ancora oggi esso è comminabile in quanto la Consulta lo ha ritenuto compatibile con la Costituzione soltanto se non corrisponde ad un fine pena mai. C’è da dire che l’ergastolo nei confronti di un ragazzo di 22 anni significa abdicare completamente all’idea della finalità rieducativa della pena e all’idea che questa persona possa poi essere restituita alla società emendato. “Il fine pena mai non rieduca il condannato, bisogna abolirlo” di Michela Nicolussi Moro Corriere del Veneto, 4 dicembre 2024 Intervista all’avvocato Maurizio Paniz, ex parlamentare di Forza Italia: “Ci vogliono misure correttive, in grado di reinserire in società chi ha espiato il dovuto. L’impatto emotivo legato alla gravità di certi reati incide sulla valutazione dei cittadini”. Avvocato Maurizio Paniz, ergastolo a Turetta, sentenza “giusta”? “Le sentenze non si commentano, si accettano ma si possono impugnare con gli strumenti che la legge consente”. Come si pone nei confronti dell’istituto dell’ergastolo? “Premessa: sono per la certezza della pena, non mi piacciono gli atteggiamenti premiali, spesso invocati con la scusa di liberare le carceri. Se la sentenza prevede, per esempio, 25 anni di reclusione, devono essere scontati tutti, senza sconti. Quando ero in Parlamento sono stato uno dei pochi ad aver avuto il coraggio di non votare l’indulto, perché trovavo scorretto lo sconto di tre anni rispetto alla pena comminata. Detto questo ritengo che l’ergastolo sia incompatibile con la Costituzione, secondo la quale va inflitta una pena in grado di consentire il recupero del condannato alla società civile”. Bisognerebbe cambiare legge? “Sono favorevole all’eliminazione dell’ergastolo. In alcuni Paesi del Nord non esiste, per esempio in Norvegia la massima pena è di 21 anni di reclusione. Il principio di riabilitazione del condannato si sposa con una misura correttiva e all’altezza di consentire il reinserimento sociale a chi ha espiato il dovuto”. Quanto influisce la pressione mediatica sui processi? “Ha un peso enorme, per Turetta ho sentito qualcuno invocare due ergastoli. Lo scotto emotivo legato alla gravità di certi reati incide sulla valutazione dei cittadini e umanamente lo capisco. Ma il condizionamento emotivo non permette di raggiungere determinati obiettivi. L’ho vissuto in prima persona nel 2001 quando, in Parlamento, presentai la legge sull’affidamento congiunto dei figli in caso di separazione e divorzio dei genitori. I colleghi deputati mi dissero: ma tu sei matto, i bambini sono delle madri che li mettono al mondo. Ho dovuto parlare con ognuno di loro e oggi il 90% degli affidamenti sono congiunti”. In politica come nella giustizia bisogna restare “neutri” alle emozioni? “Quando si deve prendere una decisione bisogna estraniarsi da risposte facili ed emotive ed essere oggettivi”. Come non farsi influenzare dal dolore e dalle aspettative della vittima di un reato, se sopravvissuta, e dei familiari? “Tenendo conto che vittima e congiunti hanno comunque diritto al risarcimento, indipendentemente dal tipo di pena inflitta al condannato. Certo, gioca il condizionamento emotivo, che cambia la percezione della giustizia a seconda che si arrivi all’ergastolo o meno”. Conta anche il comportamento di chi commette reato? “Bisogna valutare le modalità con cui l’imputato è arrivato a compiere i fatti contestati. Per esempio Alessandro Impagnatiello, che a Milano ha ucciso a coltellate la fidanzata Giulia Tramontano, incinta, ha avuto un atteggiamento sempre proiettato alla morte della ragazza. Filippo Turetta invece è stato ondivago, fino all’ultimo ha cercato di recuperare il rapporto con Giulia. Se fossi stato il giudice avrei concesso la perizia psichiatrica. Vanno considerati anche gli aspetti positivi del comportamento dell’imputato, se ci sono. Ed è l’aspetto che rende molto difficile il lavoro del giudice”. L’incredibile vicenda di Luigi Spera, il “terrorista” armato solo di fumogeni di Frank Cimini L’Unità, 4 dicembre 2024 In questa democratura si può finire in carcere con l’accusa di terrorismo per aver lanciato un fumogeno contro la sede del Leonardo a Palermo, rimanerci da marzo a dicembre ed essere liberati solo perché in Cassazione ci sono dei giudici che rispettano il minimo dello Stato di diritto, spiegando che il reato non stava in piedi e costringendo i giudici ad aprire le porte della prigione. Questa è la storia del vigile del fuoco Luigi Spera. Il 26 novembre di due anni fa un gruppo di attivisti avevano lanciato dei fumogeni e una presunta molotov a sostegno dell’interruzione della fornitura di armi alla Turchia che in quel periodo - come spesso accade - bombardava gli accampamenti dei curdi. A giugno del 2023 c’erano state alcune perquisizioni. A carico del solo Luigi Spera l’accusa era di finalità di terrorismo. A marzo scorso il vigile del fuoco, militante del movimento Antudo, finiva in carcere. Il giudice delle indagini preliminari escludeva il reato più grave, ma veniva smentito dal Tribunale del Riesame. Dal carcere Pagliarelli il vigile del fuoco veniva trasferito nella prigione di massima sicurezza di Alessandria dove è rimasto fino a due giorni fa. Per farlo uscire si è rivelata fondamentale la sentenza della Cassazione in materia di misure cautelari. “Il lancio dei fumogeni” - diceva la Suprema Corte - “non poteva essere considerato un’azione in grado di incidere sulle decisioni dello Stato”. Antudo in un comunicato scrive di “ingiusta detenzione con accuse spropositate”. Ilaria Salis, che aveva fatto visita in carcere in solidarietà con Spera, ha commentato in modo positivo la svolta nelle indagini. Per l’avvocato Giorgio Bisagna: “Quantomeno si mette fine alle accuse di terrorismo per quanto attiene alla fase cautelare”. L’accusa adesso è quella di danneggiamento seguito da incendio, che prevede la reclusione tra sei mesi e due anni. Spera, comunque, ha l’obbligo di firma e non può lasciare di notte la propria abitazione. Intanto prosegue il processo a carico del vigile del fuoco e di altre persone accusate di reati meno gravi, con la prossima udienza prevista per il giorno 20 dicembre. A livello formale l’aggravante rimane, anche se destinata a essere ridimensionata. Ma l’inchiesta i suoi danni ormai li ha fatti. Stiamo parlando di fumogeni in una iniziativa che al massimo può essere considerata dimostrativa. L’accusa di terrorismo invece testimonia dei tempi bui in cui viviamo, dove si agita un fantasma del passato per regolare lo scontro sociale di oggi, in realtà neanche lontanamente paragonabile a quello di allora. Sei mesi in carcere per aver guidato la bici da ubriaco: l’assurda storia di un 29enne emiliano di Adriano Arati Corriere di Bologna, 4 dicembre 2024 Il giovane non ha provocato né danni né ferite, a lui o altre persone. Per via del cambio di residenza era inconsapevole del decreto di condanna e non è riuscito a chiedere pene alternative. In prigione ha anche perso il lavoro. Sei mesi in carcere dopo essere stato fermato ubriaco in bicicletta. La storia riguarda un 29enne originario dell’Emilia-Romagna, da oltre un anno trasferitosi a La Spezia, in Liguria. Non ha ricevuto la notifica a causa del cambio di residenza e la pena è diventata così inesorabilmente esecutiva. A sollevare la questione è stato il garante regionale per i diritti dei detenuti della Liguria Doriano Saracino, che ha deciso di rendere pubblico l’accaduto - nascondendo le generalità del protagonista - per sensibilizzare su questo cortocircuito della giustizia. Il controllo mentre era in bici - Due anni fa, quando ancora viveva in Emilia, l’uomo è stato intercettato da una pattuglia di polizia mentre si trovava in bici. Appariva alterato, a causa dell’alcol bevuto, e i controlli confermano un tasso alcolemico superiore a 1.5 grammi per litro di sangue. Non è nemmeno chiaro se stesse muovendosi sulla bicicletta, se fosse fermo o sdraiato al fianco. Di certo, non ha provocato né danni né ferite, a lui o altre persone. La sanzione viene notificata, e in casi simili sono previste una multa da 1.500 a 6.000 euro e l’arresto da sei mesi a un anno. La detenzione non diventa quasi mai esecutiva perché è possibile chiedere la sostituzione con lavori di pubblica utilità o con una trasformazione dei giorni di reclusione in un’ulteriore penale economica. Per farlo, però, è necessario procedere tramite avvocato con un’apposita procedura, da formalizzare entro 30 giorni dalla ricezione della notifica. I sei mesi in prigione - E qui arriva il problema del 29enne emiliano. Lavora in proprio, non ha precedenti di alcun tipo, è impegnato in campo artistico, muovendosi spesso da un luogo all’altro e variando di conseguenza domicilio. Con ogni probabilità è il cambio di residenza tra l’Emilia-Romagna e la Liguria il fattore chiave: la notifica non viene mai ricevuta, l’uomo rimane inconsapevole del decreto di condanna e forse non pensa più a quella multa ricevuta in bici. A La Spezia, inizia a lavorare in un’autofficina ed è lì che la polizia giudiziaria si presenta, una mattina, per arrestarlo davanti al suo titolare e portarlo nella casa circondariale spezzina. Il tutto nello stupore generale, in primis del condannato. Nel carcere cittadino, viene subito messo sotto osservazione perché il personale del corpo educativo ritiene vi sia la possibilità concreta di atti di autolesionismo da parte di una persona completamente spaesata. La situazione migliora grazie a un’educatrice che gli regala dei colori da tessuto, un dono che lo spinge a dipingere magliette, una dopo l’altra. Le prime creazioni vengono affidate ai compagni di detenzione. Ora il 29enne è libero e in cerca di un nuovo lavoro, dopo il licenziamento dall’officina. I sei mesi di reclusione incisi nella fedina penale, in questo senso, non lo stanno aiutando. Cuneo. “In carcere trattamenti inumani”: chiusa l’inchiesta sul caso di Elisa Sola La Stampa, 4 dicembre 2024 Fra gli indagati c’è anche un medico. C’erano cinque agenti “liberi dal servizio”. Più altri sei poliziotti “liberi dal servizio e in abiti civili”, a commettere la “spedizione punitiva”, la notte tra il 20 e il 21 giugno 2023, nella cella 417 del carcere di Cuneo. La ricordano tutti come “la notte della mattanza”. O “dei pachistani”. Almeno 5 detenuti vennero massacrati con calci e pugni. Lasciati nudi. Non curati. E mandati in isolamento. Senza acqua, senza cibo. Senza coperte. Per terra, scalzi e piangenti. Una “perquisizione illegittima, non programmata né prevista e in assenza dei presupposti per essere qualificata come straordinaria”, c’è scritto nell’atto di chiusura indagini che la Procura ha notificato ai 35 indagati. Il reato di torture, il primo a essere ipotizzato dagli agenti del Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, che ha svolto le indagini dal 2022 ad oggi, è stato confermato. Nei confronti di quasi tutti i poliziotti indagati. Non solo. Anche il medico di guardia che quella notte avrebbe fatto finta di niente, è indagato: per falso, omessa denuncia e favoreggiamento. Così come la comandante della polizia penitenziaria. Secondo gli inquirenti, avrebbe ritardato le indagini perché, il giorno dopo la mattanza, non avrebbe avvisato tempestivamente il suo superiore, il direttore. Lo avrebbe fatto il 30 giugno inviandogli una relazione su WhatsApp. Froio, così era emerso dagli atti, si era sempre difesa sostenendo di non essere a conoscenza di alcuna perquisizione in atto quella sera. Da oggi, avrà venti giorni di tempo, come gli altri indagati, per farsi interrogare dall’autorità giudiziaria e spiegare la propria presunta innocenza. L’accusa della Procura è chiara, riguardo alla notte del pestaggio: “Ometteva di richiedere al direttore l’autorizzazione all’uso della forza e allo spostamento di cella e di riferire immediatamente a lui l’avvenuto uso della forza, impedendogli di disporre senza indugio accertamenti sanitari e di procedere alle indagini del caso”. Riguardo al presunto favoreggiamento, la comandante, che il giorno dopo il pestaggio si era messa in congedo, avrebbe evitato di riferire l’accaduto, durante il passaggio di consegne al commissario che la avrebbe sostituita, non dicendogli nulla della perquisizione. “Soltanto il 30 giugno - mette nero su bianco la Procura - scriveva su Whatsapp al direttore una relazione sulla perquisizione programmata nella cella e sullo spostamento forzato dei detenuti”. La comandante si è sempre professata presunta innocente. E lo sarà fino a sentenza definitiva. Come gli altri indagati, che hanno posizioni più pesanti di lei. La Procura contesta a molti di loro - tra cui i due poliziotti colpiti dalla misura della sospensione temporanea del servizio, l’ispettore (difeso dall’avvocato Antonio Mencobello) e l’assistente capo Rosario Rossi (assistito da Lonardo Roberi) - il reato di tortura. Chi partecipò al pestaggio del 20 giugno agì “con crudeltà”, scrivono gli inquirenti, “con più condotte costituenti violenze e minacce gravi, comportando altresì un trattamento inumano e degradante per la persona”. E mentre gli oltre dieci poliziotti li picchiavano, dicevano: “Parla adesso, pachistano”. E ancora, su in infermeria: “Tu non mi conosci”. Gli stessi agenti avrebbero impedito al medico di visitarli prima dell’isolamento forzato. Le botte sono proseguite anche qui. Parlano i referti del giorno dopo: “Plurimi traumi contusivi al capo, al volto, al rachide cervicale, agli arti superiori, all’emicostato, al dorso, alle cosce, agli arti inferiori”. Tutti “traumi da verosimili percosse”. I lividi, i tagli e le escoriazioni rimasti sui corpi dei detenuti parlano, secondo chi indaga. E smentiscono le presunte menzogne del medico e dei tre agenti che scrissero una versione diversa e considerata inverosimile dei fatti, che è costata loro l’iscrizione sul registro degli indagati per il reato di falso. Viviani, che risponde anche di questo reato, secondo l’accusa avrebbe scritto, nella relazione di servizio sulla notte del 20 giugno 2023, che “gli agenti entravano nella cella per porre fine alla manifestazione prima che potesse degenerare”. Ma secondo la Procura guidata da Onelio Dodero, non ci sarebbe stata alcuna manifestazione in quel momento. Il medico indagato, dopo avere visto i detenuti sbattuti a terra, contro il muro, atterrati di volto sul pavimento con la suola dello stivale, aveva scritto: “Tutti sono stati sottoposti a visita medica prima dell’isolamento. Si sono presentati a colloquio collaboranti e disponibili. Buone condizioni generali. Nulla di acuto in atto. Possono sostenere il regime di detenzione in isolamento”. Le prognosi sono state anche di 15 giorni. Le telecamere hanno inquadrato uomini a terra mentre piangevano. Uno in mutande. C’era anche chi, dal male, non riusciva a camminare e veniva trascinato di peso per le scale. Genova. In Consiglio comunale il tema dei suicidi in carcere genovatoday.it, 4 dicembre 2024 Il tema dei suicidi nelle carceri è stato affrontato oggi in consiglio comunale a Genova, dove si è discussa la dichiarazione a inizio seduta della consigliera comunale di Avs Francesca Ghio, che ha ricordato l’ultimo caso che ha riguardato un detenuto del carcere di Marassi morto lo scorso 15 novembre all’ospedale San Martino. “Aveva tentato il suicidio pochi giorni prima, nella sua cella. - ha detto Ghio - È l’81esimo caso di suicidio in un carcere Italiano dall’inizio dell’anno”. “Il suicidio è la prima causa di morte negli istituti di pena italiani e l’infausto record storico di decessi del 2023 sarà quasi certamente superato durante l’anno in corso”, ha detto Ghio che nel suo intervento ha ricordato le dichiarazioni del sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, il quale aveva espresso “intima gioia”, nel “non lasciare respirare” i detenuti. “È stata rilevata una forte correlazione - si legge nella dichiarazione di Ghio - tra il tasso di sovraffollamento degli istituti e il numero di suicidi, è quindi necessario attivarsi al fine di ridurre il numero di persone in stato di limitazione di libertà attraverso l’utilizzo di misure alternative, e garantendo un adeguato supporto psicologico. La pubblica amministrazione può e deve fare di meglio di così”. Le parole della consigliera hanno provocato una discussione all’interno dell’aula tra i consiglieri di maggioranza e opposizione. Tra questi a prendere la parola il consigliere della Lega Alessio Bevilacqua che ha ricordato “il grande lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria, che in troppe occasioni vengono aggrediti, non ultimo episodio quello della scorsa settimana nel carcere di Marassi”. Bevilacqua ha ricordato le proposte dei sindacati di polizia penitenziaria che “hanno promosso alle istituzioni proposte puntuali e bisogna sottolineare anche le tante occasioni in cui gli uomini e le donne appartenenti al corpo di polizia penitenziaria sono riusciti a intervenire in tempo dal tentativo di suicidio da parte di qualche detenuto, ma non ho sentito nessuno dei colleghi della sinistra intervenuto prima di me parlare di questo. Le istituzioni lavorano in sinergia con chi lavora nelle carceri, persone che qualcuno dimentica, ma di certo non noi”. Milano. L’università entra in carcere a Bollate: un’aula per studenti-detenuti, come funzionerà Il Giorno, 4 dicembre 2024 Il progetto di Bicocca, Statale e Bocconi: gli esami restano in presenza ma in 105 potranno iscriversi o seguire video-lezioni da computer. Un’aula multimediale nel carcere di Bollate, una finestra per 105 studenti-detenuti che ora possono collegarsi in diretta alla loro università, iscriversi agli esami (che resteranno in presenza), vedere i risultati in autonomia, consultare i materiali in biblioteca o le video-lezioni e restare al passo con la tecnologia. Undici le postazioni che danno accesso alle piattaforme dei tre atenei coinvolti nel progetto con i loro poli universitari penitenziari: Bicocca, capofila e “motore” dell’iniziativa, Statale e Bocconi. Attraverso un collegamento filtrato potranno usufruire dei servizi didattici e di segreteria in sicurezza, senza dover passare necessariamente da un intermediario. Che però non viene meno: le relazioni umane con tutor e docenti che entrano nella casa circondariale restano centrali. I computer sono stati forniti dalla Universo Cooperativa Sociale che li ha collegati a una rete filtrata da firewall e che gestirà il servizio e si occuperà del monitoraggio. “È un progresso dal punto di vista operativo, ma anche psicologico: lo studente detenuto potrà avere una certa padronanza nella gestione della propria posizione e non avrà più bisogno di qualcuno che gli faccia da filtro con l’istituzione universitaria”, spiega Maria Elena Magrin, delegata per le attività del Polo universitario penitenziario di Milano-Bicocca, che fa parte di una rete nazionale di 44 università e un centinaio di istituti di pena e che conta 90 detenuti iscritti (53 a Bollate). “È un ulteriore, importante, tessera nel mosaico di azioni attraverso cui portare quotidianamente l’università nelle carceri - aggiunge Stefano Simonetta, prorettore ai servizi agli studenti e diritto allo studio della Statale. Quest’aula permetterà alle persone ristrette di accedere in autonomia a una serie di servizi e materiali, ferma restando l’importanza primaria di una presenza concreta all’interno degli istituti penitenziari, attraverso i corsi che vi svolgiamo ogni settimana e l’ingresso quotidiano dei tutor che seguono le nostre studentesse e i nostri studenti ristretti”, che inizialmente frequentavano soprattutto i corso di laurea umanistici, ma che adesso spaziano anche tra facoltà scientifiche ed Economia. Il Progetto carceri in Bocconi coinvolge 15 studenti di Economia e management, anche se in prospettiva la prorettrice Marta Cartabia ha anticipato la possibilità di portare anche Giurisprudenza. “Gli studenti del Polo universitario penitenziario hanno gli stessi diritti e doveri di tutti gli altri - conclude la rettrice di Bicocca e presidente Crui, Giovanna Iannantuoni -. Le condizioni detentive, però, limitano la loro possibilità di fruizione delle attività universitarie: questa nuova aula accorcerà la distanza tra carcere e università, tra “dentro” e “fuori”. Lecce. Al via il progetto “Libera le tue idee” dell’Università del Salento tarantobuonasera.it, 4 dicembre 2024 È ufficialmente iniziato “Libera le tue idee”, il nuovo progetto promosso dall’Università del Salento, che si propone di offrire un’opportunità concreta di riflessione e reinserimento sociale ai detenuti e alle detenute della Casa Circondariale di Lecce. Presentato la scorsa settimana durante un incontro con i partecipanti, il progetto mira a trasformare idee imprenditoriali in strumenti di riscatto personale e professionale. Rivolto a chi sta scontando una pena detentiva, il progetto invita i partecipanti a immaginare e descrivere una propria idea imprenditoriale, da sviluppare una volta usciti dal carcere. Fino a Natale, i detenuti e le detenute potranno lavorare sulle loro proposte, che saranno esaminate da un team di esperti nominato dall’Università del Salento. Le idee raccolte saranno corrette, integrate e pubblicate in una raccolta dedicata, che riceverà ampia diffusione. Inoltre, le migliori proposte saranno premiate e supportate attraverso consulenze offerte da imprese private sensibili al tema della responsabilità sociale. L’obiettivo è duplice: favorire la progettualità personale e stimolare percorsi di reinserimento sociale che restituiscano fiducia e dignità alle persone coinvolte. “Libera le tue idee” rappresenta un’iniziativa innovativa e di alto valore sociale, di cui l’Università del Salento si dichiara profondamente orgogliosa. Il Rettore dell’Università del Salento, Fabio Pollice, ha dichiarato: “Questo progetto è un chiaro esempio del ruolo che l’università deve avere nel territorio: non solo un luogo di formazione e ricerca, ma anche un’istituzione capace di rispondere ai bisogni della comunità e di offrire opportunità di crescita e riscatto. Crediamo fermamente che la cultura possa essere una chiave di trasformazione e cambiamento. Con “Libera le tue idee” vogliamo offrire a queste persone uno strumento per guardare al futuro con speranza e per costruire una strada di reinserimento nella società”. La Delegata del Rettore ai Poli Penitenziari Universitari, Marta Vignola, ha aggiunto: “Il progetto “Libera le tue idee”si propone di incentivare i detenuti della Casa Circondariale di Lecce a guardare oltre il periodo di detenzione, stimolandoli a sviluppare e “liberare” le proprie idee imprenditoriali. I vincitori riceveranno un percorso di formazione e consulenza volto a trasformare le loro idee in progetti imprenditoriali concreti, contribuendo così al loro reinserimento nella società una volta concluso il periodo di detenzione”. Carcere, un libro per dare voce e volto alla povertà di Ilaria Dioguardi vita.it, 4 dicembre 2024 Le storie, raccolte da Rossana Ruggiero, di uomini e donne che vivono l’esperienza del carcere di San Vittore, come condannati o come operatori, si riflettono nelle fotografie in bianco e nero di Matteo Pernaselci, nel libro “I volti della povertà in carcere”. Nella prefazione, il cardinale Matteo Maria Zuppi scrive: “La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio” Il libro “I volti della povertà in carcere” (casa editrice Edizioni Dehoniane Bologna) di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero nasce dall’idea di poter dar voce a chi non ha voce in carcere, sul sentiero degli invisibili tracciato da Papa Francesco. “La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio” scrive, nella prefazione, il cardinale Matteo Maria Zuppi. Nel volume, presentato a Roma nella Biblioteca del Senato Giovanni Spadolini, le voci raccolte da Rossana Ruggiero di uomini e donne, che vivono l’esperienza del carcere di San Vittore come condannati o come operatori si riflettono nelle fotografie in bianco e nero di Matteo Pernaselci che ne ripresentano l’ambiente, nei suoi diversi volti, oggetti e luoghi. “Questo è un libro “parlante”, nel suo bianco e nero delle immagini è molto impattante, è un pugno nello stomaco”, ha detto Francesco Bonini, rettore dell’Università Lumsa. “La fotografia è un modo di tenere una finestra aperta dal fuori al dentro. Una porta aperta in carcere è un tentativo di dare speranza”. “La speranza è guardare negli occhi una persona e ricordargli che è una persona, che è un tesoro e che fuori c’è qualcuno che li ama. Con che coraggio lasciamo da soli i detenuti, gli agenti, gli educatori in carcere?”, ha affermato don Dario Acquaroli, cappellano nel carcere di Bergamo e direttore della Comunità don Lorenzo Milani di Sorisole (Bergamo). “La situazione delle carceri italiane non è problematica ma è disastrosa e disumana. Nell’istituto in cui sono cappellano ci sono circa 570 detenuti, i posti disponibili sono circa 320”, ha continuato don Acquaroli. “Più della metà dei detenuti ha a che fare con problemi di dipendenza e di disagio mentale anche non accertato. Sta aumentando sempre di più l’ingresso in carcere di ragazzi giovanissimi, almeno in Lombardia”. “Nell’opera “I volti della povertà in carcere” c’è stato un pudore umano nelle parole dei detenuti, ma le immagini dicono molto”, ha detto, durante l’incontro, Riccardo Turrini Vita, presidente del Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Nei dieci capitoli del libro prendono vita le donne e gli uomini, detenuti e operatori, nel carcere di San Vittore, con le loro parole, i loro volti, gli oggetti e i luoghi della loro vita quotidiana. Ad esempio, il capitolo I del libro è dedicato a Berrich, “una donna intelligente ed è difficile lasciarla andare via; è come una tela bellissima corrosa dal tempo e da mettere in salvo; ci fa misurare sofferenza e pentimento, ma soprattutto la rabbia che l’ha accecata e ha prevalso persino sul bene verso i suoi figli; un errore che non ripeterebbe mai. “Metto sempre la mia persona al primo posto e questo me lo sta insegnando il carcere. Se tornassi indietro non ripeterei gli errori commessi”“. Giuseppe, nel capitolo VI, del mondo di fuori dice: “Mi manca tutto… La prima cosa è la libertà di camminare. Ti manca l’amicizia, la famiglia… Qui ti senti quasi solo, perché alla fine non conosci nessuno fino in fondo. La convivenza è difficile. È un luogo stretto, qui. È come rinascere una seconda volta in un posto non desiderato”. E la speranza “è quello che ti porti dietro tutti i giorni, senza il quale non puoi fare quel passo che vorresti fare nella vita e sta a noi, inseguirla e corrergli dietro… è luce, è colore!” L’offensiva autoritaria dei costituenti senza popolo di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 4 dicembre 2024 Commenti Per creare una prospettiva di progresso non serve la difesa retorica della costituzione. Solo la pretesa dell’attuazione dei suoi principi può indicare la strada del cambiamento. È giunto il tempo di guardare in fondo alla crisi e porci la domanda più radicale: stiamo assistendo a un’evoluzione o a una rottura del sistema? Le trasformazioni che stiamo vivendo sono da ricondurre entro un ordinario sviluppo storico? Oppure siamo giunti ad una fase di superamento della nostra tradizione democratica occidentale? Guardando all’Italia, alla nostra piccola provincia, c’è da domandarsi se la ricerca affannosa di un nuovo principio di legittimazione dei poteri, qual è l’elezione del Capo, nella deformata ipotesi del premierato; la volontà di una nuova distribuzione dei poteri tra enti territoriali, nella visione rozzamente appropriativa assunta dall’autonomia differenziata per come ci è stata sin qui prospettata; l’intento perseguito della separazione dell’ordine della magistratura, accompagnata da una riorganizzazione approssimata e vendicativa degli organi di governo del potere giudiziario; la stessa legislazione ordinaria sempre più attratta dalle ragioni securitarie e d’ordine e sempre meno propensa a garantire i diritti fondamentali e a definire politiche sociali solidali ed inclusive, tutti questi elementi sono il frutto della libera determinazione di un indirizzo politico che riflette gli odierni equilibri parlamentari ovvero rappresentano i pilastri su cui si sta edificando una nuova Repubblica autoritaria? Ciò che, in ogni caso, non può affermarsi è che si tratta solo di un tentativo isolato - più o meno eversivo - di una destra al governo. Intanto perché se alziamo lo sguardo per osservare appena fuori dai nostri confini è evidente la fine degli equilibri planetari e dei principi di diritto internazionale stabiliti al termine della Seconda guerra mondiale. È entro questa incertezza planetaria che si colloca il caso italiano. Limitandoci a guardare al nostro Paese, dovremmo essere consapevoli che da tempo si assiste all’affannosa ricerca di un nuovo principio, che si tenta di affermare procedendo lungo un doppio binario: quello - spesso sconfitto - delle riforme testuali esplicite e quello - incontenibile - che punta ad imporsi in via di fatto (modifiche non scritte, atti inusuali, rotture di prassi). Con modalità non previste dall’ordinamento vigente e che tendenzialmente operano contra constitutionem, la quale non può mai legittimare la propria dissoluzione. In questo quadro ci si può chiedere se ci si trovi di fronte al riemergere di un nuovo potere costituente. Può darsi, ma con un’avvertenza decisiva: esso si sta affermando in uno spazio temporale lungo, senza alcuna apparente soluzione di continuità, ma erodendo in modo graduale i connotati più propri del costituzionalismo vigente. Inoltre, quel che vale a caratterizzare questo nuovo “potere costituente dilatato” è che esso appare privo di un soggetto rivoluzionario che lo impone. Per meglio dire, non espressione di moltitudini ribelli, ma frutto di un cambiamento promosso dall’alto, senza una strategia unitaria. Come direbbe Gramsci, espressione di una classe dominante e non più dirigente. In questa situazione caotica ci si può limitare a rilevare che si sta assistendo all’instaurazione di fatto di un nuovo ordinamento costituzionale, contrassegnata, rispetto alle esperienze del passato, essenzialmente da una più lunga - interminabile - fase di transizione. Se questa è la situazione, ci troviamo dinanzi ad un classico dilemma, che interroga l’intera società quando domina l’extasis (quei periodi in cui prevale “lo stare fuori di sé”). C’è da chiedersi a quale ordine giuridico prestare fedeltà? Ce la potremmo cavare affermando che essendo il potere costituente sempre illegittimo non si può che rimanere fedeli al vecchio regime, almeno sin tanto che questo non viene travolto e lo scettro della legalità non passa di mano. Ma non è questo un argomento decisivo: oltre la legalità c’è la questione della legittimità. E la transizione infinita non rende semplice separare nettamente l’una dall’altra, i fatti instaurativi assumono le forme giuridiche più diverse, costituente e costituito sembrano convivere. In una simile situazione di interregno diventa decisiva la capacità delle diverse forze sociali di affermare una specifica egemonia contro il dominio dei poteri sregolati. È nelle faglie dei mutamenti storici che il “pensiero critico” diventa determinante per contrastare il “pensiero dominante”. C’è da chiedersi se, in questa situazione, la lotta per la costituzione democratica possa essere lo strumento per la costruzione di una nuova egemonia. Lo è stato storicamente, lo può essere anche oggi? Se l’obiettivo è creare una nuova prospettiva di progresso non serve a granché il richiamo retorico alla costituzione più bella del mondo, non vale neppure limitarsi a difenderla. È solo la pretesa dell’attuazione dei suoi principi che può valere ad indicare la strada del cambiamento, che può dare slancio ad una nuova strategia politica e sociale, mobilitare le forze per porre in essere quella rivoluzione che ci è stata promessa e che non siamo riusciti ancora a realizzare. Oggi, la domanda da porsi in ultima istanza è se sia possibile contrapporre ad un potere costituente eversivo ed autoritario la rivendicazione di un potere costituito sinora rimasto inattuato. Proviamo a ribaltare Sieyès: se il popolo dei subalterni oggi è nulla e vuole diventare tutto ha sola una via, non quella del potere costituente regressivo, ma, in questa fase, quella di un uso rivoluzionario del potere costituito. Da ultimo, è vero che per questo non basta una costituzione, ma è necessario che essa sia sostenuta anche da un “movimento reale”, ovvero da un popolo consapevole e cosciente che si oppone all’ideologia e al flusso dominante per inserirsi nelle pieghe del presente. Di questo popolo si sono perse le tracce. Si tratta allora di andare alla sua ricerca con la lanterna della costituzione che può rinvenire il popolo e al tempo stesso indicare la rotta per provare a trovare la strada che conduce a un futuro diverso da quello annunciato. In passato è successo, perché non ancora? Psichiatria. L’Italia condannata per la contenzione punitiva di Katia Poneti Il Manifesto, 4 dicembre 2024 La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani e degradanti) in un caso di utilizzo della contenzione meccanica e farmacologica in un reparto psichiatrico (SPDC di Melzo). La Corte EDU è stata supportata dalle associazioni L’Altro diritto ODV, La Società della Ragione e Fondazione Franca e Franco Basaglia, che hanno inviato un intervento congiunto di terza parte. Il sig. Lavorgna, protagonista della vicenda, era appena diciannovenne all’epoca dei fatti: durante la sua degenza in SPDC il paziente era stato legato agli arti e gli erano stati somministrati dei sedativi a causa di alcuni episodi di aggressività. La contenzione meccanica e farmacologica era durata per otto giorni consecutivi, nonostante l’aggressività fosse cessata e il paziente fosse descritto nella cartella clinica come “calmo”. Si sottolineava, piuttosto, come dato critico, il suo mancato riconoscimento del disvalore dell’atto compiuto, ovvero dell’aggressione fisica verso la madre e uno dei medici. Alle richieste di prenderne coscienza, il sig. Lavorgna reagiva, a volte, sottolineando che anche lui si era sentito aggredito, altre volte, dicendosi “pentito” per il comportamento tenuto. Lo staff sanitario ha utilizzato la contenzione come mezzo di pressione per ottenere una revisione critica del fatto commesso, dunque come strumento disciplinare: questa emerge in controluce come la pratica che ha portato alla violazione. Nella sentenza Lavorgna c. Italia (ricorso n. 8436/21), la Corte ha ritenuto, all’unanimità, che vi sia stata una violazione sostanziale dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, per quanto riguarda il trattamento a cui è stato sottoposto il ricorrente. La Corte ha considerato giustificato l’utilizzo della contenzione nella sua applicazione iniziale, per proteggere il paziente e le altre persone dagli accessi di violenza, ma non il suo prolungamento, ritenuto non giustificato. Facendo proprie le argomentazioni sostenute nell’intervento di terza parte da L’Altro diritto, dalla Società della Ragione e dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia, la Corte ha affermato che la contenzione può essere considerata legittima solo quando presenta le caratteristiche dello “stato di necessità”, di cui all’art. 54 del Codice penale, ovvero quando è volta a scongiurare il pericolo attuale di un danno alla persona che vi è sottoposta o ad altre persone. La decisione della Corte EDU ha fatto perno sulla importante sentenza Mastrogiovanni della Corte di Cassazione (n. 50497 del 20 giugno 2018) con la quale si è chiarito che la contenzione non è un atto medico e che non può essere usata in via preventiva: la contenzione deve essere considerata uno strumento di extrema ratio, a cui si ricorre solo in circostanze eccezionali e per il tempo strettamente necessario. La Corte EDU ha precisato che: “come sottolineato dal ricorrente e dai terzi intervenienti, la Corte di Cassazione italiana ha escluso l’uso della contenzione meccanica su base ‘precauzionalè, e ha specificato che la natura chiara e attuale del pericolo in questione in un determinato caso deve essere concretamente provata attraverso la verifica di elementi oggettivi che il medico deve indicare in modo preciso e dettagliato”. Poiché l’indagine della Procura di Milano non è stata svolta in tempi ragionevoli e non ha investigato sulle questioni dirimenti per accertare le violazioni, non offrendo, quindi, un rimedio effettivo al sig. Lavorgna, lo Stato italiano è stato condannato anche dal punto di vista procedurale. Un importante passo in avanti è stato fatto con la decisione Lavorgna c. Italia, verso l’abbandono della pratica di utilizzare la contenzione senza una valutazione stringente dello stato di necessità e contro l’idea che si possa legare per scopi punitivi e/o “pedagogici”. Se l’indagine della Commissione infanzia spinge “il metodo Caivano” di Youssef Taby Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2024 “Dipendenza dei giovani da alcol, droghe e social network”. Il governo per affrontare il disagio di minori e giovani in periferia vuole “estendere il metodo Caivano”. A un anno dal decreto che ha preso il nome del comune di Napoli e che ha rafforzato le misure di repressione nei confronti di ragazzi e ragazze (con la possibilità dei minorenni di finire in carcere e l’introduzione del daspo urbano per i 14enni), a rilanciare il tema è stata la commissione parlamentare per l’Infanzia e l’adolescenza con la diffusione della “indagine conoscitiva sul degrado materiale, morale e culturale nella condizione dei minori in Italia”. Il documento, approvato con le proteste e l’astensione delle opposizioni, è partito proprio dal caso Caivano e ha messo insieme una serie di dati e analisi su temi cruciali come il consumo di alcol e droghe, le condizioni di vita nelle periferie, la giustizia minorile e l’allocazione delle risorse destinate all’infanzia. Consumo di alcol e sostanze stupefacenti- Il 69% degli adolescenti ha dichiarato di aver fatto uso di alcol nel corso del 2023. Le intossicazioni e il binge drinking riguardano rispettivamente il 13% e il 25% dei ragazzi al di sotto dei 18 anni. I dati fanno emergere anche una novità come le ragazze abusino di più dell’alcol. Mentre, infatti, in passato l’utilizzo di alcol è stato inquadrato come un comportamento tipicamente maschile, nel 2023 sono state soprattutto le ragazze ad aver consumato in eccesso bevande alcoliche. Nella fascia di età 11-17 anni il 16,5% ha consumato almeno una bevanda alcolica nell’anno, il 3,4% ha l’abitudine stabile al binge drinking e al consumo fuori i pasti, mentre il 13,1% lo beve occasionalmente. Il 2023 vede inoltre la crescita del consumo di sostanze psicoattive tra i giovani tra i 15 e i 19 anni rispetto 2022, come è evidenziato nella relazione al Parlamento del Dipartimento politiche antidroga. Anche se non viene specificato di quanto è stato l’aumento. Quasi 960mila ragazzi, pari al 39% degli studenti, hanno però riferito di aver consumato una sostanza psicoattiva illegale almeno una volta nella vita e oltre 680mila, circa il 28%, nel corso dell’ultimo anno. La cannabis resta la sostanza più usata dai giovani, il 25% dei ragazzi ne ha fatto uso nel 2023, di cui sono il 17% (265mila) coloro che, in età compresa tra i 15 e i 17 anni, ne hanno riferito l’uso. I dati emersi nel documento tramite il ministero della Salute riportano che oltre 26omila studenti, di cui quest’anno 160mila, hanno assunto una tra le cosiddette nuove sostanze psicoattive: tra quelle più usate ci sono i cannabinoidi sintetici, la ketamina, gli oppioidi sintetici, il fentanyl e l’amnesia conosciuta anche come cocaina rosa. Inoltre dalle indagini svolte emerge che il consumo di droghe pesanti è aumentato dopo la pandemia, in particolare di ketamina e ectasy: quasi 72mila studenti dicono di averne consumato nel corso dell’ultimo anno e invece per 23mila studenti si è trattato di un uso continuo, almeno 10 volte negli ultimi 30 giorni. Infine circa 100mila studenti hanno assunto allucinogeni nella loro vita, quasi 49mila ne hanno fatto uso nel corso dell’ultimo anno. Inoltre, è emerso che il numero di minorenni denunciati per reati droga correlati è in aumento del 10%, rispetto al 2022. Internet, cybersesso e gioco d’azzardo- Dall’indagine emerge una dipendenza elevate ai social network, al cybersesso e giochi non solo quelli online ma anche d’azzardo. I dati della sorveglianza HBSC del 2022, realizzata dall’ISS in collaborazione con le Regioni, il Ministero della Salute, il Ministero dell’Istruzione e le Università di Torino, Padova e Siena, fanno emerge che su un campione di 89mila studenti tra gli 11 e i 17 anni che il 34,7%, suddiviso in 47,2% ragazzi e 21,5% ragazze, ha dichiarato di aver scommesso o giocato del denaro almeno una volta nella vita. Bullismo e sport- Le audizioni hanno fatto emergere che il tema del bullismo è più frequente tra la fascia 11-13 anni. Gli 11enni vittime di bullismo sono il 18,9 % dei ragazzi e il 19,8% delle ragazze, nella fascia di età di 13 anni sono il 14,6% dei maschi e il 17,3% delle femmine. Mentre tra gli adolescenti, 15 anni, il 9,9% dei ragazzi e il 9,2% delle ragazze subisce bullismo. Inoltre spicca come chi vive episodi di violenza familiare è più propenso a esercitare forme attive di bullismo nei confronti dei compagni o essere a propria volta vittima di atti bullismo. Sul cyberbullismo gli 11enni vittime sono il 17.2% dei maschi e il 21,1% delle femmine, i 13enni coinvolti sono il 12,9% dei ragazzi e il 18,4% delle ragazze, invece gli adolescenti di 15 anni sono il 9,2% dei maschi e l’11,4% delle femmine. Sul versante sport emerge che un bambino su cinque, di età compresa tra 6 e 10 anni, non pratica nessuna attività sportiva. Nel 30% dei casi risulta dovuto a ragioni economiche. Disagio esistenziale- In numerose relazioni dei servizi sociali, riportate negli atti, emerge che i più giovani crescono in una sorta di “deserto etico”, privo di riferimenti morali ed emotivi. I ragazzi emerge che sono preda del disagio esistenziale che si traduce in un rifiuto della scuola, conflitti con gli adulti, problemi relazionali e disturbi dell’umore. Inoltre, nei contesti di periferie disagiate, provoca una situazione di linguaggio ridotto a frasi semplici, senza l’uso del verbo o usando solo il verbo al presente, che riflette la difficoltà a vedere un futuro. Questo prova sempre a più giovani ansia, depressione e disturbi del comportamento. I dati fanno emergere che l’8% dei ragazzi presenta disturbi neuropsichiatrici. Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, si attesta tra l’1 e il 3%; il disturbo della condotta tra il 2 e il 3%. Inoltre il rischio patologico aumenta nel corso dello sviluppo neuro-cognitivo: da circa il 10% in età della scuola primaria, si passa a oltre il 13% nella preadolescenza e a oltre il 16% in adolescenza. Violenza e reati- Circa il 40% degli studenti minorenni nel 2023 ha partecipato a risse, il 14% ha preso parte a episodi di violenza collettiva, di cui il 7,6% dopo aver bevuto o usato sostanze. Il 6% ha deturpato intenzionalmente beni pubblici o privati, di cui il 4,2% dopo aver bevuto o usato sostanze. Mentre l’8,1% ha avuto problemi con le forze dell’ordine. Tra il 2010 e il 2022 sono aumentate del 15% le segnalazioni di reati commessi da minorenni. Nel 2022 inoltre risulta dall’indagine che per la prima volta il numero di segnalazioni di minori stranieri supera il numero di quelle relative a minori italiani. Il report evidenzia anche che l’8,1% di studenti ha avuto problemi con le forze dell’ordine o il 6,5% si è reso protagonista di gravi aggressioni fisiche. Inoltre il 10% circa ha assistito a una scena di violenza filmata da altri con il cellulare, mentre il 2% ha riferito di averla filmata direttamente. Boom minorenni e giovani adulti nelle carceri - I trend segnalano tramite il report che dopo la pandemia si è potuto osservare una crescita di detenuti minorenni e giovani adulti nei 17 Istituti Penali per i Minorenni. Al 15 giugno si registrava negli IPM complessivamente 555 presenza, di cui 209 giovani adulti e 346 minorenni di cui 171 italiani e 175 stranieri, per lo più tunisini, egiziani e marocchini. I reati di cui si macchiano in maniera sempre più crescenti sono quelli connotati dalla violenza: rapine, lesioni dolose, risse e percosse. Reati come i furti risultano in diminuzione, mentre cresce il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Rimangono stabili i reati inerenti agli stupefacenti e anche le segnalazioni relative ai delitti informatici commessi da minorenni. Emerge inoltre dai dati che una buona percentuale dei ragazzi coinvolti proviene da quartieri periferici e da famiglie svantaggiate, in cui la povertà economica ed educativa sono evidenti. Un altro fenomeno che si può osservare da dopo la pandemia è quella dei reati commessi in forma aggregata. Bande composte principalmente da gruppi con meno di dieci individui e di età fra i 15 e i 17 anni. Si evidenzia che esistono quattro tipi di gang giovanili: quelle prive di una struttura definita, prevalentemente dedite ad attività violente o devianti; gang che si ispirano o hanno legali con organizzazioni criminali italiane; quelle legate a organizzazioni criminali o gang stranieri; gruppi con una struttura definita ma senza nessun legame. La composizione è principalmente maschile, il fenomeno delle gang femminili risulta emergere principalmente a reati violenti, vandalismo e bullismo. I reati commessi dalle gang colpiscono principalmente coetanei ed è presente un forte ricorso ai social network per dare una connotazione ben precisa al gruppo. Il report affronta diverse problematiche sociali, proponendo alcune soluzioni. Tra le proposte figurano: un maggiore sostegno ai neogenitori per promuovere stili di vita corretti, la stabilizzazione della figura dello psicologo scolastico e lo sviluppo di progetti educativi tra pari, nei quali i giovani incoraggiano buone pratiche tra coetanei. Inoltre, si evidenzia l’importanza di formare educatori e allenatori, figure chiave nella crescita dei minori. Sul tema del carcere minorile, il report propone di incentivare la giustizia riparativa per i reati commessi dai minori, al fine di colmare il vuoto di empatia tra autore e vittima e di ridurre il ricorso al carcere. Tra le misure indicate figurano l’assunzione di pedagogisti, assistenti sociali e mediatori culturali da impiegare negli istituti penitenziari minorili e nei programmi di reinserimento, nonché l’apertura di nuove comunità di accoglienza come alternativa alla detenzione. Si suggerisce inoltre una razionalizzazione della spesa socioassistenziale per i minori e un maggiore impegno di risorse, pubbliche e private. Secondo la presidente della commissione e deputata di Noi Moderati Michela Vittoria Brambilla è necessario un intervento sempre più precoce: “Gli specialisti auditi nel corso dell’indagine”, ha dichiarato durante la presentazione, “insistono sulla necessità di intervenire in una fase precedente dello sviluppo, quella preadolescenziale, già dai nove anni, di ‘formare i formatori: genitori, insegnanti, allenatori, insomma tutte le figure che per il bambino o ragazzo rappresentano a vario titolo un punto di riferimento”. Per le periferie, la maggioranza propone di estendere il “modello Caivano”, un approccio che, secondo il sottosegretario Alfredo Mantovano, mira a rafforzare nei giovani la resistenza alle dipendenze e a offrire prospettive di speranza concrete. Il sottosegretario Mantovano ha dichiarato: “A Caivano stiamo sperimentando un metodo che potrà essere applicato ad altre zone di degrado. Un metodo che porta a rafforzare nei giovani gli anticorpi contro le dipendenze e che prospetta elementi di speranza. Non una speranza astratta e distante, ma una speranza concreta calata nella vita quotidiana” Tuttavia, il modello Caivano è stato oggetto di forti critiche. Il Movimento 5 Stelle lo definisce un modello mai realmente esistito: “I 40 milioni di euro che erano stati stanziati per la lotta alla dispersione scolastica, nella Legge di Bilancio sono stati tagliati a poco più di 10. Come sempre dietro la propaganda ci sono le manovre fatte nell’ombra che mostrano disinteresse per le questioni che riguardano la povera gente, arroganza e menefreghismo. Dal presunto modello Caivano, mai realmente esistito, si passa a Caivano simbolo degli innumerevoli tagli del governo Meloni. Più che di modello è il caso di parlare di tradimento verso Caivano e le sue famiglie”. Anche il Partito democratico ha espresso riserve sul modello Caivano, sottolineando che il modello espresso dal governo è quello basato su misure punitive, come l’aumento delle pene, senza investire in politiche educative, sociali e lavorative. Devis Dori, avvocato e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, aveva definito “una vera abnormità” tutti i minorenni e giovani adolescenti detenuti nelle carceri a seguito del decreto Caivano che riflettono i dati dello stesso report della commissione. Migranti. Il sindaco di Roma alla prova: chiudere o tollerare il Cpr di Ponte Galeria? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2024 Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha una scadenza cruciale: entro il 14 dicembre dovrà intervenire presso il ministero dell’Interno per decidere le sorti del Cpr di Ponte Galeria, situato alla periferia di Roma. L’appello, sostenuto da una lettera firmata da quaranta accademici italiani, tra cui esperti di diritto e medicina, pone l’attenzione sull’urgenza di chiudere questa struttura, definita “incompatibile con l’identità di Roma” e in aperto contrasto con i principi costituzionali su cui si fonda la città. Nel contempo, è stato da poco reso pubblico dal Garante nazionale delle persone private della libertà il rapporto di Mauro D’Ettore, il quale ha documentato le condizioni di trattenimento degradanti. Ricordiamo che l’istanza nei confronti del sindaco è stata firmata da figure illustri, tra cui il professor Mauro Palma, ex Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale e attuale Presidente del Centro di ricerca “Diritto penitenziario e Costituzione” dell’Università Roma Tre. Secondo Palma, il Cpr rappresenta un’offesa ai diritti umani e alla dignità umana, trasformando la detenzione amministrativa in una punizione disumana. Gli accademici hanno sottolineato che il sindaco Gualtieri ha il potere di agire per chiudere il Cpr, in quanto il governo cittadino può sollecitare direttamente il ministero dell’Interno. Ritorniamo alle osservazioni da poco pubblicate. Prima della sua recente scomparsa, D’Ettore aveva visitato la struttura in seguito a un episodio tragico: il suicidio di un giovane guineano, Ousmane Sylla, avvenuto il 4 febbraio 2024. Quella visita d’urgenza non si è limitata a constatare i danni materiali causati dalla protesta che seguì il suicidio. Ha invece rivelato un quadro di abbandono sistemico, di diritti negati e di vite spezzate, che ha spinto il Garante ad inviare le osservazioni alle autorità responsabili. Il caso di Ousmane Sylla non è un’eccezione, ma il simbolo di un sistema incapace di proteggere i più vulnerabili. Nel Cpr di Ponte Galeria non esistono protocolli adeguati per prevenire il rischio suicidario, un aspetto che, secondo le normative internazionali, dovrebbe essere prioritario in qualsiasi contesto di detenzione. Durante la visita, D’Ettore ha rilevato che manca un vero screening psicologico all’ingresso, così come procedure per monitorare lo stato mentale delle persone trattenute. Lo Stato ha il dovere di proteggere la vita di ogni individuo sotto la sua giurisdizione, come ricorda la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Tra gli elementi più inquietanti documentati nel rapporto, c’è l’assenza di campanelli d’allarme nei moduli abitativi. Nei casi di emergenza, i detenuti non hanno alcun mezzo per richiamare l’attenzione del personale. Devono urlare o agitarsi davanti alle telecamere di sorveglianza, sperando che qualcuno li noti. È una situazione che rallenta inevitabilmente gli interventi e che, in più occasioni, ha avuto conseguenze fatali. Entrare nelle stanze del Cpr di Ponte Galeria significa confrontarsi con un degrado materiale che diventa specchio di un degrado umano. Le stanze, spesso sovraffollate, sono dotate di letti privi di materassi o con materassi logori in gommapiuma. In alcuni casi, i detenuti sono costretti a dormire direttamente sulle reti metalliche. I bagni, condivisi da un numero eccessivo di persone, versano in condizioni igieniche disastrose. Durante l’ispezione, una donna trattenuta ha mostrato ai delegati del Garante il suo letto, privo di materasso, e il comodino, costruito con scatole di cartone. Per molti, le stanze non sono solo luoghi di reclusione, ma spazi in cui la dignità umana viene quotidianamente calpestata. Il rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild), presentato a novembre, aggiunge ulteriori dettagli scioccanti: involucri vuoti, dove i detenuti passano le giornate in completa inattività; campi sportivi e luoghi di culto, pur presenti, non vengono mai utilizzati. Un trattenimento senza scopo: nel 2023, solo il 23% dei detenuti ha lasciato il Cpr attraverso un rimpatrio, mentre il restante 77% è stato rilasciato senza alcuna misura concreta. Il caso di Ousmane Sylla, suicidatosi a febbraio 2024, ha scatenato rivolte interne. Le persone detenute denunciano una totale mancanza di supporto psicologico e medico. Il destino del centro è ora nelle mani del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che ha il potere di chiedere la sua chiusura definitiva. La scadenza del 14 dicembre rappresenta un momento cruciale: agire significa scegliere tra il silenzio e la difesa della dignità umana. Migranti. Il Cpr di Torino pronto a riaprire: bando per la gestione alla coop Sanitalia di Sandro Marotta Il Manifesto, 4 dicembre 2024 La struttura di detenzione amministrativa piemontese è chiusa dal 2023, quando due suicidi portarono a una rivolta dei reclusi e all’incendio di alcune sezioni. È sempre più vicina la riapertura del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Torino: la cooperativa Sanitalia service si è aggiudicata il bando per la gestione della struttura. Il centro situato tra corso Brunelleschi e via Santa Maria Mazzarello è uno dei 10 in Italia dove vengono rinchiusi “gli stranieri giunti in modo irregolare in Italia che non fanno richiesta di protezione internazionale o non ne hanno i requisiti”, come indica il Ministero. Della nuova stagione del Cpr torinese se n’era già parlato nelle scorse settimane, quando era stata pubblicato l’elenco dei soggetti ammessi alla gara d’appalto e sul sito della prefettura iniziavano ad esserci gli accordi per la tinteggiatura dei locali, la videosorveglianza, il decespugliamento e la sistemazione del carraio di ingresso. Solo ieri, 3 dicembre, è stata resa nota la cooperativa che ha vinto il bando per la gestione complessiva, grazie a un’offerta di 8,4 milioni, ovvero 500 mila euro in meno rispetto alla base d’asta. Si tratta di un’aggiudicazione provvisoria, dato che il codice degli appalti prevede che gli altri partecipanti possano presentare ricorso entro 30 giorni. Una volta che Sanitalia avrà perfezionato il tutto, si stipulerà il contratto e lo si notificherà alla Corte dei conti. Al bando era stata ammessa anche la cooperativa Ekene, che gestisce il Cpr di Macomer, già al centro di un recente report dell’associazione Naga in cui si segnalano isolamenti punitivi e maltrattamenti. Contro la nuova stagione della struttura si sono espressi, tra gli altri, Antigone, l’Asgi e il Consiglio Comunale di Torino. A inizio novembre si è tenuto nel capoluogo piemontese un corteo di centinaia di persone che hanno contestato la riapertura. Il Cpr piemontese è chiuso dal 2023 dopo una serie di proteste e due suicidi, che portarono a una rivolta dei migranti e all’incendio di due sezioni. La chiusura è diventata quindi necessaria per i lavori di ristrutturazione. L’indignazione degli ospiti era originata da una condizione di detenzione “inadeguata” e “degradante”, per usare le parole de Il libro nero del Cpr di Torino redatto dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Al centro delle polemiche erano finito soprattutto l’”ospedaletto”, una sezione destinata teoricamente all’isolamento sanitario ma di fatto alla “ragioni di sicurezza/mantenimento dell’ordine”, come notato dal Garante nazionale dei detenuti. Nel 2008 nel centro torinese è stato ritrovato il cadavere di un 38enne, morto per non aver ricevuto le cure adeguate dopo essere rimasto ferito. Nel luglio 2019 è deceduto Faisal Hossein, rinchiuso per giorni nella sezione di isolamento. Nello stesso luogo, nel maggio 2021, si è tolto la vita Moussa Balde. Il caso di Balde è stato portato di fronte alla giudice dell’udienza preliminare, che ha deciso che a febbraio 2025 saranno processati la direttrice delegata della società che gestiva il Cpr e il responsabile medico della struttura. “Il reato ipotizzato è omicidio colposo - spiega Gianluca Vitale, avvocato della famiglia - Verte sulla responsabilità per non aver previsto nessun protocollo di prevenzione del suicidio e non aver gestito correttamente la situazione di Moussa”. Oltre che i due rinvii a giudizio, c’è stato un altro filone processuale che riguardava l’improprio utilizzo dell’ospedaletto da parte dei poliziotti. Le accuse a carico di quattro agenti sono state archiviate, ma nella sentenza si dice anche che la permanenza “in ospedaletto ha costituito una modalità di trattamento non prevista dalla legge”, in riferimento all’isolamento non solo sanitario ma anche punitivo. La gip ha anche fatto riferimento alla vaghezza del regolamento sui Cpr e al fatto che a Torino non esistevano “altre strutture idonee a raggiungere concretamente obiettivi di tutela” essendo il centro detentivo “carente di una stanza separata per l’osservazione sanitaria”. Questi problemi rimangono nel “nuovo” complesso, in cui non si sono costruiti altri spazi, ma solo aggiustati quelle già esistenti. “L’ospedaletto c’è ancora - conferma Alice Ravinale, consigliera della Regione Piemonte per Avs - A giugno, durante la nostra visita, ci avevano detto che probabilmente non sarebbe stato riaperto ma nessuno lo ha messo nero su bianco. Gli interventi consistevano nell’imbiancare e rinnovare gli infissi: nulla di strutturale”. Uno spazio per l’isolamento sanitario, tuttavia, ci deve essere in un Cpr, lo dice la “Direttiva recante criteri per l’organizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri”. Sull’utilizzo futuro delle diverse aree, comunque, resta molta incertezza. Questione aperta anche per le celle di sicurezza al piano terra e nei sotterranei: non è chiaro se e come saranno occupate. Anche di queste Antigone e Asgi avevano chiesto la chiusura. Altra questione è la videosorveglianza: nel “vecchio” Cpr le videocamere non coprivano tutti i luoghi e i video erano spesso indisponibili, specie nei casi di denunce per maltrattamento. “Situazioni come quella di Moussa - riflette Vitale - possono succedere ancora e sono già successe in altre parti d’Italia, penso al caso di Ousmane Sylla nel Cpr di Roma. Strutturalmente il centro torinese continua a essere lo stesso posto di prima. I Cpr sono luoghi incompatibili con un miglioramento della persona e finiscono per degradare chi ci finisce dentro”. Migranti rimpatriati anche in Paesi “non sicuri”, ma il Governo si lamenta di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2024 “Pochi per colpa dei giudici”. Ecco i dati, che dicono altro. Per colpa dei giudici, e della querelle sui Paesi sicuri, non si possono espellere gli irregolari, in Albania come in Italia. Lo sostiene il governo e tuttavia, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non perde occasione per vantare rimpatri. “Altri 25 cittadini stranieri sono stati espulsi e ricondotti con volo charter nel loro Paese di origine”, ha scritto anche il 22 novembre su Facebook, accanto all’immancabile foto di un aereo pronto a decollare e, a caratteri cubitali, le parole “espulsi e rimpatriati”. I profili social del Viminale sono ormai una vetrina: “Altri 115 espulsi”, “40 rimpatriati in Tunisia”, “233 rimpatri nell’ultima settimana”, solo per citare alcuni esempi. I rimpatri si fanno, ci dice il Viminale, compresi quelli di cittadini di Paesi che il governo considera sicuri, come i tunisini. Anzi, sono tunisini quasi tutti i rimpatriati passati da un Centro per il rimpatrio (Cpr) in Sicilia, da dove parte più della metà dei rimpatri a livello nazionale. Allora come stanno le cose? Quanto c’entra lo scontro tra governo e magistratura? Paese sicuro o meno, alle richieste d’asilo respinte corrisponderà comunque un ordine di allontanamento. Anche nelle cosiddette “zone di frontiera”, anche con l’esame accelerato della domanda, previsto non solo per chi arriva da Paesi “sicuri”, ma anche per chi rappresenti una “minaccia per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico”, sia stato “fermato in flagranza mentre tentava di attraversare le frontiere” o abbia reso dichiarazioni “palesemente false o contraddittorie sulla propria identità, cittadinanza o percorso migratorio”, tra l’altro. Casi in cui i pronunciamenti dei tribunali non hanno ostacolato le procedure, né impedito che producessero espulsioni e respingimenti in frontiera. Altrimenti il bollettino dei rimpatri non comparirebbe sui social del Viminale. Vero è che i rimpatri sono pochi, da sempre. Colpa dei giudici? Nel 2023 dei 158 mila sbarchi, l’Italia ha emesso 28 mila ordini di allontanamento, ma le espulsioni eseguite sono state 4.267 (dati elaborati ActionAid e Università di Bari, 2024). Di queste, solo 2.987 riguardano chi è passato da un Cpr, a dimostrazione che nemmeno i trattenimenti sono risolutivi. Anzi, l’anno scorso i Cpr hanno rimpatriato in media il 44% dei trattenuti, uno dei risultati peggiori di sempre. I rimpatri, è cosa nota, dipendono dagli accordi di riammissione coi Paesi d’origine. Funziona quello con la Tunisia che consente, una volta appurata la provenienza, di procedere al rimpatrio anche senza identificare la persona. Ma non fa miracoli: nel quinquennio 2019-2023 il tasso di rimpatrio dei tunisini è stato del 13% (dati elaborati da ISPI). Inferiore a quello di marocchini (17%) ed etiopi (16%) che, guarda caso, non provengono da Paesi inseriti nel famoso elenco dei “sicuri”. Per l’ennesima volta, venire da un Paese extra-Ue che l’Italia designa come sicuro rileva unicamente ai fini della procedura per esaminare la richiesta d’asilo, e coi rimpatri non c’entra un bel niente. “La scelta di individuare per legge l’elenco dei “Paesi sicuri” (decreto legge 158/2024, ndr) si inquadra nell’ambito del rafforzamento del sistema dei rimpatri”, ha detto Piantedosi. Se i giudici si facessero gli affari loro, è convinto il ministro, trattenimenti in frontiera e procedure d’asilo accelerate farebbero aumentare i rimpatri. Perché la domanda d’asilo di chi arriva da Paese “sicuro” è esaminata più in fretta, con meno garanzie e, a meno di prove contrarie, la competente commissione prefettizia può respingerla dichiarandola semplicemente infondata. Non solo: sono ridotti i termini per il ricorso, che non comporta l’automatica sospensione del provvedimento di rimpatrio. Tanto che il giudice potrebbe decidere della domanda d’asilo, magari accogliendola, a rimpatrio avvenuto. Viste le implicazioni, la Corte di giustizia europea ha imposto al giudice la verifica d’ufficio della legittimità della designazione del Paese come “sicuro”. Per il governo, invece, l’individuazione dei Paesi è una decisione politica che non compete al giudice. Divergendo le posizioni, i tribunali alle prese con la questione hanno chiesto un nuovo parere alla Corte di giustizia, che si esprimerà ad aprile e nell’attesa è tutto sospeso. L’impasse è colpa delle toghe, dice il governo. Ma qual è l’effetto sui rimpatri? Ad oggi, nel 2024 sono sbarcate 63 mila persone, meno della metà dell’anno scorso. Oltre il 12% sono minori non accompagnati, per cui la provenienza da Paese sicuro non rileva. Dei restanti 55 mila, più della metà viene da quattro Paesi: Bangladesh (20%), Siria (19%), Tunisia (12%) ed Egitto (6%). La Siria non è nell’elenco dei Paesi sicuri, mentre possiamo considerare il Gambia che però rappresenta appena il 2% degli sbarchi. In tutto, dai quattro Paesi “sicuri” sono arrivate 22 mila persone. Secondo l’Ufficio statistico Ue (Eurostat), nei primi nove mesi del 2024 l’Italia ha emanato 20.460 ordini di allontanamento e ne ha eseguiti 3.215. Quanto ai Paesi sicuri, 3.030 ordini e 795 rimpatri riguardano i tunisini, 1.275 ordini e 200 rimpatri gli egiziani, 675 ordini e 40 rimpatri i bangladesi, 475 ordini e 80 rimpatri i gambiani. Contando di fare meglio, nel 2023 il governo ha esteso il trattenimento in frontiera ai richiedenti originari da Paese “sicuro”, così che non possano darsi alla macchia mentre si esaminano le loro domande. L’iniziativa si è arenata nei tribunali, ma trattenere non equivale a rimpatriare. A dirlo sono ancora i dati sui Cpr, dove l’85% dei rimpatriati sono tunisini e un altro 10% riguarda gli egiziani, che una volta trattenuti hanno rispettivamente il 60% e il 52% di probabilità di rientrare nel Paese d’origine. La differenza, ancora una volta, la fanno gli accordi di riammissione. Indipendentemente dalla querelle sui Paesi sicuri, dall’esame sommario della domanda e dal trattenimento, i dati confermano la difficoltà a rimpatriare chi arriva dal Bangladesh, prima nazionalità con 11.000 sbarchi nel 2024. E i 6.600 tunisini arrivati quest’anno? Vogliamo bocciare tutte le richieste d’asilo di chi viene da un Paese dove persecuzioni, violenze e arresti arbitrari sono in aumento? Bene. Rimane il fatto che solo un ordine di espulsione su quattro viene eseguito, in linea coi dati degli anni precedenti (Eurostat). Che si possa far meglio, almeno per i tunisini? Da vedere, perché l’accordo con la Tunisia del 2011 prevede un massimo di 80 rimpatri a settimana, che eseguiamo per lo più con voli charter, costi notevoli e un importante dispendio di forze, soprattutto in caso di trasferimenti scortati. C’entrano i giudici? No, se ne occupa il Viminale. Comunque si concluderà la questione dei Paesi sicuri, ora al vaglio della Corte di giustizia Ue, l’efficacia degli accordi coi Paesi d’origine, quelli che consideriamo sicuri, e i relativi tassi di rimpatrio (Bangladesh 5% ed Egitto 12%), non lasciano immaginare un boom di rimpatri. E cozzano con la spesa sostenuta per i centri albanesi, dove le probabilità di riuscita sono le stesse, che le toghe siano rosse, verdi o a pois. Egitto. Il teste Delta: “Ho sentito torturare Giulio Regeni nel Cimitero dei vivi” di Luciana Cimino Il Manifesto, 4 dicembre 2024 Il 25 gennaio 2016 un ragazzo egiziano (nome in codice Delta nel processo Regeni) viene arrestato per aver postato su Youtube una canzone contro al Sisi. Al commissariato di Dokki c’è anche un giovane straniero che, come lui, viene subito trasferito, bendato, in ufficio di sicurezza legato agli apparati egiziani e conosciuto come il Cimitero dei Vivi. Quel ragazzo è il ricercatore friulano Giulio Regeni. “Ho visto un ragazzo italiano di altezza media, con jeans, maglietta e felpa, forse azzurra. Aveva circa 30 anni. Portava la barba molto corta”. Così il testimone Delta ieri ha raccontato per diverse ore nell’aula Occorsio (davanti ai giudici della prima corte d’Assise di Roma) quello che ha ascoltato dalla cella accanto, durante l’udienza del processo che vede imputati quattro 007 egiziani, il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem, accusati di aver rapito, torturato e ucciso a Il Cairo Regeni. In modalità protetta perché teme ancora oggi ritorsioni contro di lui o contro la sua famiglia, rimasta in Egitto. “Mentre parlo qui con voi sono ancora terrorizzato per quello che ho vissuto - dice il teste rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco -. Ricordo di avere incontrato quel ragazzo in commissariato e di averlo poi sentito mentre lo torturavano, si lamentava, parlava in arabo ma non da madrelingua”. Il testimone, dietro a un pannello di protezione, racconta che Giulio Regeni in auto continuava a chiedere in italiano un avvocato: “Io, che conoscevo la lingua per avere lavorato per due anni con un’azienda italiana, l’ho fatto presente a chi era in auto ma mi hanno dato un pugno. Capii subito - continua - che eravamo arrivati al Cimitero dei Vivi perché mi colpirono con uno schiaffo”. I due giovani vengono poi separati, Regeni sarà portato nella sezione per gli stranieri ma le stanze sono vicine: “Sentivo quando veniva picchiato, sentivo che urlava, quando si tratta di torturare questi non fanno differenze, non sono razzisti”. Il teste ha poi ripercorso la sua detenzione nel Cimitero dei vivi. “Mi hanno legato le mani, sono stato torturato con la corrente elettrica, venivo ammanettato al letto: ho i segni sul corpo, alla testa, per essere rilasciato ho dovuto pagare e cedere un terreno a un esponente della polizia. Appena libero sono scappato dall’Egitto”. Per la legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballarin, “il terrore nelle parole del teste era evidente, a distanza di tanti anni ha ancora paura per quello che gli è capitato e paura per i suoi familiari che sono ancora lì: ulteriore conferma che l’Egitto non è un Paese sicuro”. A piazzale Clodio, prima dell’udienza, anche la segretaria del Pd, Elly Schlein, per esprimere “vicinanza alla famiglia di Giulio”: “Il processo va avanti: noi ci siamo e ci saremo ogni volta - ha affermato - per cercare la piena verità e giustizia. Il tutto mentre si assiste anche alla vergogna di volere riconoscere nell’Egitto un Paese sicuro: non lo è, è un Paese in cui un ricercatore italiano è stato torturato e ucciso e in cui migliaia di egiziani purtroppo ogni giorno incontrano la stessa sorte”.