Perché serve un gesto di clemenza di Luigi Manconi La Repubblica, 3 dicembre 2024 Secondo la nostra Carta costituzionale era un presunto innocente, in quanto parte di quel 25,5 % di detenuti in attesa di una sentenza definitiva. Aveva 44 anni, era nato a La Spezia, e si è impiccato all’interno di una cella della locale Casa Circondariale il 12 novembre scorso. Ricoverato in ospedale, è deceduto due giorni fa. Si trovava in attesa di giudizio per reati non particolarmente rilevanti, propri di uno stile di vita marginale. Nel sistema penitenziario italiano, il record dei suicidi, 84, è stato raggiunto nel 2022; oggi siamo a 83, e tutto fa temere che negli oltre trenta giorni che ci separano dal nuovo anno, questa macabra statistica sia destinata a crescere ulteriormente. Sono dati che ci parlano di una realtà impossibile da rimuovere: in prigione ci si toglie la vita circa venti volte più di quanto si faccia nelle corrispondenti fasce di età tra i cittadini liberi. E questo significa, innanzitutto, che è il carcere, la sua struttura immanente e oppressiva, la sua insensatezza a costituire un sistema patogeno: ovvero che produce alienazione, psicosi, depressione, autolesionismo e morte. Ne è una conferma un altro dato generalmente ignorato: tra gli agenti penitenziari il tasso di suicidi è sensibilmente superiore a quello registrato in tutti gli altri di corpi di polizia. Il quadro generale viene sintetizzato da Gennarino De Fazio, Segretario della Uilpa, uno dei sindacati più rappresentativi: sono ormai 16 mila i detenuti oltre la capienza regolamentare e più di 18mila i posti vacanti nella Polizia penitenziaria. Sono le cifre di un disastro che appare irreversibile: basti pensare che i pochi nuovi agenti previsti da uno dei molti “decreti sicurezza” dovrebbero entrare in servizio solo nei primi mesi del 2026. E nulla, proprio nulla, è stato realizzato per affrontare le più gravi contraddizioni del sistema. Non stupisce che in questo quadro così desolato esploda la violenza endemica che cova nelle strutture fatiscenti, nell’incattivirsi delle relazioni tra custodi e custoditi, nelle condizioni disumane di vita, nella congestione dei corpi, nel degrado degli spazi e nell’aggressività dei rapporti gerarchici. Sono 198 i poliziotti penitenziari indagati per lesioni gravi e torture e decine le inchieste giudiziarie in corso. All’origine non c’è l’attività di un sodalizio di sociopatici e sadici che ha scelto la divisa azzurra della penitenziaria per legittimare le proprie pulsioni, ma la condizione materiale di quella istituzione totale che asseconda e incentiva l’istinto di sopraffazione e le inclinazioni di alcuni. E c’è una parte della classe politica che tutto ciò giustifica e blandisce: da qui, le scellerate parole del sottosegretario Del Mastro (“non lasciamo respirare chi è dietro quel vetro”), lestamente fatte proprie dalla Presidente del Consiglio. Il sistema penitenziario italiano è un corpaccione abnorme, enfiato, febbricitante, sul quale nessun intervento è possibile fino quando non verranno ridotte drasticamente la pressione e la temperatura che ne alterano il metabolismo e ne deformano la funzionalità. Perché ciò possa accadere è innanzitutto sul sovraffollamento che si deve agire, e subito. A una situazione di emergenza si deve rispondere con misure di emergenza. Da qui la proposta proveniente da giuristi, costituzionalisti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria, di un provvedimento di amnistia e indulto che ponga le condizioni per una più generale riforma del sistema. Tra chi si è detto favorevole ricordo Michele Ainis, Mons. Vincenzo Paglia, Stefano Anastasia, Rita Bernardini, Giovanni Fiandaca, Dacia Maraini, Gherardo Colombo, Alessandro Bergonzoni, Gaia Tortora e Tullio Padovani. E molti altri ancora. Si tratta di un intervento che la Costituzione prevede come strumento di politica del diritto penale quando se ne ravvisi la necessità e l’urgenza, come certamente è questo il caso. Un atto di clemenza generale che potrebbe tradursi in una legge di amnistia e di indulto per i reati e per i residui di pena fino a due anni. L’ultima legge di clemenza adottata in Italia è stato l’indulto del 2006. Nonostante la più massiccia opera di “diffamazione” mai esercitata nei confronti di un provvedimento governativo, quella misura ha ottenuto risultati eccezionalmente positivi: dei 27 mila detenuti liberati grazie all’indulto, solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato complessivo che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere; in altri termini, come ha scritto il Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 è diminuito del 25%. Sono numeri su cui riflettere. Si potrà scoprire, così, che la clemenza non è l’espressione di sentimenti filantropici e tanto meno, “la resa dello Stato” (Carlo Nordio): è, piuttosto, l’esito di un calcolo razionale del rapporto tra costi e benefici e un investimento intelligente e lungimirante sulle garanzie - e sulla forza - dello stato di diritto. Quanti sono davvero? I suicidi in carcere e quell’eccessiva confusione sui dati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2024 Le cifre oscillano tra i 77 e gli 85: non tornano i conti sulla strage silenziosa che si consuma quotidianamente negli istituti penitenziari. Se confermati i numeri di Ristretti Orizzonti, superato il record degli ultimi 30 anni. Sono settantasette o ottantacinque i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno? Non è una differenza trascurabile: i numeri esatti contano. Non per una sterile precisione statistica, ma per un imprescindibile rigore morale. Otto vite in più non sono un dettaglio: sono otto universi spezzati che chiedono attenzione, che rifiutano l’oblio dell’approssimazione. Il Garante nazionale parla di 77 morti. Ristretti Orizzonti ne conta 85. E in un’intervista su Il Foglio, il ministro Nordio non obietta alla domanda che fa riferimento a 83 suicidi. Quindi, sono 77, 83 o 85? Al di là della cifra esatta, il ministro insiste che non esiste alcun legame tra i suicidi e il sovraffollamento carcerario. Una posizione che Rita Bernardini, di Nessuno tocchi Caino, ha contestato pubblicamente con un post su Facebook, sottolineando come lo stesso Garante nazionale - figura disegnata dal Governo - smentisca il guardasigilli. Nel rapporto del 25 novembre, il Garante osserva che “è ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un aumento degli stessi (eventi critici), in particolare di quegli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio, aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo” (pagina 21). Questa analisi comparativa, basata su dati concreti, mette in luce un legame profondo tra la condizione delle carceri e il dramma umano che si consuma al loro interno. Yousef Hamga, 19 anni. Giuseppe Santolieri, 74 anni. Maria Assunta Pulito, 64 anni. Dietro ogni nome c’è una vita, una storia che va oltre la somma dei numeri. Ma quei numeri, per quanto freddi, raccontano qualcosa di essenziale. Ogni cifra ha un peso, perché è la misura di un dramma collettivo, la fotografia di un sistema che non funziona. Non è solo contabilità: è memoria, è giustizia. Non basta sapere che qualcuno è morto. Occorre sapere chi, quando e perché. Dietro ogni numero c’è un volto e quei volti meritano di essere chiamati per nome. Non possiamo permettere che restino anonimi, che il loro passaggio si perda nel disordine di statistiche imprecise. Serve la precisione. Serve sapere quante vite si sono infrante, quante speranze si sono schiantate contro le mura di un carcere. Otto vite, otto epiloghi drammatici, in poche settimane. Cristian Francu, 51 anni, è l’ultimo della lista. È morto il 28 novembre, nell’ospedale di Perugia, dopo essersi lanciato dalla finestra del carcere di Terni. Prima di lui, un detenuto di 46 anni è morto il 27 novembre nella casa circondariale di La Spezia: si è impiccato, così come G. O., 27 anni, il 26 novembre, a Cagliari. Benito Viscovo, 28 anni, si è spento il 21 novembre, a Napoli Poggioreale. Moussa Ben Mahmoud, della stessa età, è morto il 15 novembre, a Genova Marassi. T. M., un uomo marocchino di 41 anni, è morto il 5 novembre a Venezia. Vincenzo Bellafesta, 53 anni, il 2 novembre a Santa Maria Capua Vetere. Dietro ogni numero c’è un volto. E dietro ogni volto, una storia. Per rispettare quelle storie, non possiamo permetterci approssimazioni. Non è una differenza da poco. Se il numero pubblicato da Ristretti Orizzonti fosse confermato, avremmo superato ogni triste record: la peggiore ecatombe di suicidi degli ultimi trent’anni. Carceri, il bluff del piano Nordio tra tagli dei fondi e celle al collasso di Federico Festa ottopagine.it, 3 dicembre 2024 Il lavoro in carcere non è un lusso, ma un investimento sociale ed economico. Ogni euro speso per garantire opportunità di lavoro ai detenuti contribuisce a ridurre i costi della recidiva. Il lavoro per i detenuti nelle carceri italiane non è solo un’opportunità di reintegrazione sociale e di emancipazione economica, ma anche un pilastro della stessa idea di giustizia rieducativa sancita dalla Costituzione. Eppure, la recente decisione di ridurre il personale detenuto lavoratore in alcune regioni, a causa di fondi insufficienti, rappresenta un tradimento di questi principi fondamentali. Non solo questa scelta rischia di compromettere il delicato equilibrio all’interno delle strutture penitenziarie, ma sottolinea anche una cronica mancanza di visione politica e di investimento nel sistema carcerario. Un problema di bilancio o di priorità politica? La nota del Provveditorato regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, che impone ai direttori carcerari di tagliare il numero di detenuti lavoratori per rispettare un budget dimezzato rispetto al fabbisogno, è un’amara conferma: il lavoro in carcere, tanto celebrato a parole come strumento di riscatto e reintegrazione, viene considerato un costo sacrificabile. I due milioni di euro richiesti dalle direzioni carcerarie delle tre regioni per garantire la sostenibilità del lavoro intramurale sono stati ridotti a meno della metà, una cifra irrisoria se confrontata con le risorse che lo Stato spreca in altri ambiti. Nel frattempo, il Ministero della Giustizia (Nordio) tenta di difendersi parlando di un “piano straordinario” per il 2024, con un budget complessivo di 128 milioni di euro per il lavoro e la formazione dei detenuti. Ma queste dichiarazioni suonano come vuoti proclami, incapaci di rispondere alla realtà dei fatti: nelle regioni colpite dal taglio, i fondi sono insufficienti, e i detenuti che lavorano saranno costretti a fermarsi o a subire un aumento del lavoro non retribuito, in un clima di crescente tensione. Il lavoro in carcere: molto più di un diritto - Il lavoro intramurale non è solo una forma di sostentamento economico per i detenuti, ma una chiave fondamentale per ridurre il disagio psicologico, abbattere il tasso di recidiva e migliorare il funzionamento stesso delle carceri. Bibliotecari, scrivani, addetti alla distribuzione del vitto e alla manutenzione delle strutture: senza queste figure, le già precarie condizioni di vita negli istituti di pena rischiano di peggiorare ulteriormente. Eppure, sono proprio questi ruoli a essere colpiti dai tagli. Non si tratta solo di numeri. Per molti detenuti, avere un lavoro significa riconquistare dignità e speranza. Lo testimoniano le parole di una donna che ha lottato per ottenere un impiego all’interno del carcere: “Ora ho la possibilità di sentirmi utile verso i miei figli”. Perdere questa opportunità equivale a tornare in un limbo di passività e frustrazione, condizioni che alimentano il ciclo della recidiva e aggravano il sovraffollamento carcerario. Il corto circuito tra norme e realtà - La scelta di ridurre i posti di lavoro per i detenuti è anche un fallimento del sistema giuridico e amministrativo. La Costituzione italiana, all’articolo 27, riconosce il valore rieducativo della pena, ma questa visione viene sistematicamente ignorata. Negli ultimi anni, i fondi destinati al lavoro e alla formazione intramurale non sono mai stati adeguati alle reali necessità, lasciando i direttori carcerari a dover operare con risorse sempre più esigue. Come ha sottolineato Michele Miravalle, responsabile dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, questa situazione obbligherà i direttori a scelte inaccettabili: tagliare posti di lavoro, aumentare le ore di lavoro non retribuito o chiudere servizi essenziali. Un circolo vizioso che aggrava la disumanizzazione del sistema carcerario. La giustizia come investimento, non come costo - Il lavoro in carcere non è un lusso, ma un investimento sociale ed economico. Ogni euro speso per garantire opportunità di lavoro ai detenuti contribuisce a ridurre i costi della recidiva, che gravano pesantemente sul bilancio dello Stato e sul tessuto sociale. Ignorare questa realtà significa non solo violare i diritti dei detenuti, ma anche perpetuare un modello di giustizia che non risponde né alle esigenze di sicurezza né a quelle di equità. I tagli imposti dal Provveditorato e la gestione inadeguata delle risorse da parte del Ministero dimostrano una mancanza di volontà politica di affrontare il problema alla radice. Non servono piani straordinari annunciati in pompa magna, ma un impegno costante e serio per garantire finanziamenti adeguati e politiche carcerarie all’altezza delle sfide attuali. L’urgenza della salute mentale in carcere: il caso di un suicidio annunciato di Sara Gatti gaeta.it, 3 dicembre 2024 Un recente tentativo di suicidio in carcere evidenzia le gravi carenze nel supporto psicologico per i detenuti, sottolineando l’urgenza di interventi statali per garantire la salute mentale e la rieducazione. Un episodio recente ha scosso il mondo penitenziario italiano: una giovane donna con problemi psichiatrici ha tentato il suicidio all’interno di un carcere. Questo tragico evento non è isolato, ma rappresenta una delle molteplici situazioni critiche in cui si trovano i detenuti, soprattutto coloro che necessitano di assistenza sanitaria specifica. Gia trasferita dal carcere di Rebibbia a quello di Teramo per motivi di sicurezza, la donna ha mostrato segni di violenza e autolesionismo, ma le richieste per un trasferimento in una struttura idonea sono rimaste senza risposta. La questione della salute mentale in ambito carcerario sta assumendo una rilevanza sempre maggiore e merita di essere approfondita. Il diritto alla rieducazione - Il sistema penitenziario ha come obiettivo fondamentale quello di rieducare il detenuto e reintegrarlo nella società. Questo concetto è sancito dall’Art. 27 della Costituzione, che afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tuttavia, questa missione è spesso compromessa da condizioni di vita inadeguate e da un insufficiente accesso alle cure psicologiche necessarie per affrontare le problematiche personali dei detenuti. La rieducazione non deve essere intesa come una semplice punizione, ma piuttosto come un processo di responsabilizzazione e crescita personale. Per attuare una vera rieducazione, non basta semplicemente separare i trasgressori dalla società. È fondamentale intervenire attivamente sulle loro problematiche psicologiche e comportamentali, affrontando le cause profonde della devianza. Questo è un passaggio cruciale affinché i detenuti possano integrarsi nuovamente nella società una volta scontata la loro pena. In assenza di questo supporto, la probabilità di recidiva rimane alta, mettendo ulteriormente alla prova il tessuto sociale. La figura dello psicologo in carcere - Un ruolo vitale nel processo di rieducazione è svolto dallo psicologo, specializzato nell’ambito penitenziario. Secondo l’Art. 80 della Legge 354 del 1975, il contributo di esperti del settore, come psicologi e psichiatri, non è considerato essenziale, ma sempre più si dimostra necessario. Negli ambienti carcerari, gli psicologi non solo valutano il rischio di autolesionismo o comportamenti violenti, ma sono anche coinvolti nel piano di trattamento individualizzato dei detenuti. Questo approccio mira a stabilire obiettivi precisi, condivisi con i detenuti stessi, per affrontare le problematiche che hanno contribuito alla loro devianza. Il sostegno psicologico è fondamentale per favorire una vita carceraria più positiva e per facilitare il recupero comportamentale. Tuttavia, la scarsità di professionisti dedicati porta a una dura realtà: gli psicologi sono costretti a selezionare i detenuti sui quali intervenire, limitando così l’accesso alle cure psicologiche. La necessità di un intervento statale - Negli istituti penitenziari si assiste a un aumento di tentativi di suicidio e di autolesionismo. Questo scenario rende urgente l’adozione di misure adeguate da parte delle istituzioni. Se non vengono presi provvedimenti adeguati, l’obiettivo dichiarato di rieducare i detenuti diventa irraggiungibile. La consapevolezza delle difficoltà legate alla salute mentale in carcere non è sufficiente; è necessario che lo Stato intervenga concretamente per garantire un ambiente di cura e supporto. La realizzazione di politiche efficaci è fondamentale per evitare tragici eventi, già troppi in un sistema carcerario che, purtroppo, appare spesso disattento alle reali esigenze di chi vi è detenuto. La strada da percorrere è lunga, ma la tutela della salute mentale in carcere dovrebbe diventare una priorità. Soltanto attraverso un approccio mirato si potrà ripristinare il rispetto del patto sociale, garantendo un futuro migliore a tutti. Mai visti tanti ergastoli: così il diritto penale diventa legge del taglione di Alessandro Barbano Il Dubbio, 3 dicembre 2024 In pochi decenni i “fine pena mai” sono aumentati di ben venticinque volte. È il frutto avvelenato del populismo. L’ha detto Laura Pausini, arringando i suoi fan a concerto, alla vigilia della sentenza su Filippo Turetta: “Dare l’ergastolo a un uomo che uccide una donna è un segno importante”. E chi oserebbe contraddirla? L’ha detto Paolo Di Paolo, censurando l’invito a “Più libri, più liberi” di Leonardo Caffo, accusato dalla sua ex compagna di molestie e violenza: “Era inopportuno e non c’entra il garantismo”. E molti suoi colleghi, scrittori e intellettuali, lo hanno seguito a ruota. L’ha detto anche Gino Cecchettin dopo il paragone tra Turetta e Pablo Escobar, avanzato dal legale del giovane per negarne la somiglianza con il boss della droga: “Mi sono nuovamente sentito offeso e la memoria di Giulia umiliata”. E nel dibattito pubblico ha preso a vacillare l’idea che, in casi estremi come questo, il diritto di difesa debba comunque essere garantito all’imputato. Dobbiamo convenire con queste censure? Oppure, al netto dello sdegno che proviamo di fronte all’atroce delitto di Giulia, dobbiamo chiederci se il nostro rapporto con la morale stia cambiando anche quello con la libertà? A Reggio Calabria la scorsa settimana una Corte d’Assise d’Appello ha punito con l’ergastolo l’ex fidanzato di Lorena Quaranta, uccisa a Messina nel 2020. L’imputato era stato già condannato alla pena perpetua in primo e secondo grado a Messina, ma la Cassazione aveva annullato la sentenza, negando la qualifica del delitto di genere e chiedendo a un’altra Corte, quella di Reggio, di valutare la concessione delle attenuanti generiche, connesse allo stress della coppia nel periodo del Covid. Erano seguite un’interrogazione indignata di una parlamentare reggina, che aveva definito inaccettabile il nuovo processo, e l’irrituale richiesta di una relazione avanzata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, alla Corte. Che ha replicato a Reggio il copione di Messina, andando ben oltre la richiesta di 24 anni di carcere proposta dalla procura generale e infischiandosene dei rilievi della Cassazione. Perché l’ergastolo è ormai “pena unica” nel diritto penale di piazza: lo invoca l’opinione pubblica, lo sbandiera la politica, lo “sussurra” il guardasigilli, e le Corti si adeguano. Con buona pace del codice, che subisce un’abrogazione de facto. Nel ventennio che va tra il 1955 e il 1974, a fronte di una media annuale di 490 omicidi, in Italia venivano sentenziati 4,5 ergastoli all’anno. Nei vent’anni tra il 2000 e il 2019, a fronte di una media di omicidi solo appena superiore (551), gli ergastoli per anno sono diventati 138,5, cioè 25 volte di più (i dati sono riportati da Davide Galliani nel volume Ergastolo e diritto alla Speranza, Giappichelli editore, 2024, pag. 321). Un fenomeno di questa entità è una rivoluzione silente ma progressiva, realizzata in un rimbalzo di reazioni tra la piazza e il palazzo. In un Paese in cui il consenso sta diventando la fonte di legittimazione dell’azione penale, l’intersezione tra ciò che si dice nel dibattito pubblico e ciò che si delibera nelle corti giudiziarie è costante. Il rischio è che un’istanza di risarcimento, peraltro legittima, delle vittime e delle donne, concimi sempre di più una risposta penale giustizialista e securitaria, che erode alla radice le garanzie dell’ordinamento liberale, dalla presunzione di innocenza al diritto di difesa. Pur con tutta l’adesione al dolore dei familiari colpiti dai lutti dei femminicidi, non si può cedere alla tentazione di fare del diritto penale una legge del taglione. Perché la cattiveria dei killer non è l’unica unità di misura della giusta pena. Ce n’è almeno un’altra, nella logica della laicità costituzionale, ed è la rieducazione del condannato. Qual è il tempo sufficientemente lungo per maturare la piena coscienza della gravità del gesto, ma non tanto lungo da impedire la concretezza di un recupero sociale? Anche di fronte alla ferocia di Filippo Turetta, è questa la domanda che la giustizia deve porsi per salvare, dopo la distruzione immane che si è prodotta, l’unico valore salvabile: la speranza. Per lo stesso motivo è necessario disarmare i pregiudizi di certi vati del moral-conformismo d’élite, che orientano il dibattito pubblico, animati talvolta dal fanatismo ideologico, talaltra dalla furbizia di mettersi in mostra. Se l’ergastolo diventa un valore, come vorrebbe Laura Pausini, la battaglia di emancipazione e di libertà delle donne si riduce a una retorica vittimaria, che assume l’irredimibilità del male come un dogma e nega la speranza. Allo stesso modo non si può sostenere, come fa Paolo Di Paolo, che l’inopportunità di un invito non tradisca il garantismo, perché il garantismo è protezione reputazionale del cittadino accusato, e tuttavia innocente prima che un giudicato provi la sua colpevolezza. Se a un intellettuale sfugge un principio così fondativo dello statuto della libertà, non ci si può stupire che l’opinione pubblica si radicalizzi. E che il giustizialismo diventi sempre di più la domanda che la società pone al potere giudiziario. Con l’effetto di non accorgerci che stiamo precipitando in una democrazia dell’ergastolo. Uniti sulla giustizia. Adesso è Nordio il ministro-chiave di Errico Novi Il Dubbio, 3 dicembre 2024 Da FdI, Lega e FI rinunce pur di dare forza alle riforme del guardasigilli, il quale conferma che la separazione delle carriere è l’unica certezza assoluta della maggioranza. Era il tecnico fuori da tutto. Il pm anomalo, garantista, coltissimo ma anche alieno alla politica. Mentre si avvicina il giro di boa del quinquennio meloniano, Carlo Nordio si distingue invece sempre più come figura chiave dell’Esecutivo. Doveva essere il vezzo, il piccolo sfizio che Giorgia Meloni si era voluta concedere prima con la candidatura alla Camera (troppo spesso si dimentica che l’attuale guardasigilli è stato ed è innanzitutto un cittadino candidato da Fratelli d’Italia ed eletto a Montecitorio) e poi con la nomina a via Arenula. Certo, Nordio ministro della Giustizia è stata una scelta dettata anche dall’urgenza di arginare l’ambizione berlusconiana. Ma oggi l’ex procuratore aggiunto di Venezia è molto più dell’alieno prestato dalla toga al governo: è una figura centrale nell’Esecutivo. L’uomo dell’unica riforma che tiene davvero: la separazione delle carriere. Il mediatore convesso che ha incassato, per la verità, più di un deragliamento populista, dai reati inventati o snaturati - com’è successo coi rave party o con i decreti Caivano e Sicurezza - alla desolante indifferenza sul carcere, condannato, dall’ultrarigorismo di FdI e Lega e da qualche compromesso di troppo degli azzurri, a un abisso di disperazione, suicidi, sovraffollamento e disumanità. Ma servirebbero fiumi di parole per ricondurre questa linea crudele del centrodestra italiano alle categorie immutabili della realpolitik. Non è la materia del giorno. Lo è invece la centralità di via Arenula nell’arcipelago del governo. Confermata dalla vastissima intervista che il guardasigilli ha voluto rilasciare al direttore del Foglio Claudio Cerasa per il numero di ieri. Ribadita dal defilarsi del premierato, mentre l’autonomia viene svuotata dalla Corte costituzionale con la decisione dello scorso 14 novembre, senza che a nessuno, a cominciare dall’autore Roberto Calderoli, convenga davvero riconoscere quello svuotamento. Ma non si tratta solo della separazione delle carriere, sulle cui prospettive e significati Nordio, nell’intervista al Foglio, si è opportunamente dilungato. Si tratta anche della riforma multipolare delle intercettazioni, disseminata cioè in tante leggi e vettori normativi grandi e piccoli, dal divieto di captare le conversazioni dell’avvocato, inserito nel ddl penale di Nordio in vigore da fine agosto, al limite dei 45 giorni imposto alle Procure dalla legge Zanettin, alla quale il ministro pure ha dedicato, nella conversazione con Cerasa, una sorta di arringa. E ancora, si tratta dell’introduzione di una verifica psicologica sui magistrati, affidata ai futuri test. Ecco: ma insomma Carlo Nordio è il crocevia di tutto quanto, nella politica di Meloni, non rientri nelle altre due grandi direttrici della politica estera e dell’economia, solo per “abbandono” dei contendenti? O c’è qualcosa di più? Intanto va notato un lento ma inesorabile affinamento della convergenza, sulla giustizia. Forza Italia ha incassato lo sprint sulle carriere, ma ha accuratamente (purtroppo) messo da parte gli ardori estivi sul carcere, e tutto in nome di una coesione che non dev’essere macchiata da nulla, neppure dallo Ius scholae. Fratelli d’Italia avrebbe voluto tenere un po’ più da parte i limiti ai pm sulle intercettazioni, tanto da aver provato, ancora nell’ultimo vertice a via Arenula, a dirottare su un binario, se non morto, certamente lentissimo il limite dei 45 giorni, col pretesto dell’eccezione per i processi da codice rosso, ma poi ha dovuto riconoscere che non poteva imporre a Forza Italia, a Nordio e alla stessa Lega una linea così solipsista. La Lega ha ottenuto l’intransigenza sul carcere e, soprattutto, la stretta, ai limiti dell’incostituzionale, sulle madri detenute, ma ha dovuto accettare, solo per fare l’esempio più recente, il congelamento della proposta sulle sanzioni ai magistrati che prima parlano in pubblico e poi giudicano sulla stessa materia, sanzioni escluse dal decreto Giustizia di venerdì scorso. Tutti rinunciano a qualcosa, sulla giustizia, nel centrodestra, pur di tenere la barra dritta, assai più di quanto avvenga sul canone Rai o sull’autonomia differenziata. E un motivo c’è. Un senso, per questo sforzo di coesione, c’è. Una spiegazione della centralità che - nonostante le rinunce sul carcere e le concessioni al panpenalismo - Nordio conserva, c’è. Ed è la consapevolezza, che nel centrodestra si è radicata, dello stato di soggezione ancora sofferto dalla politica nei confronti della magistratura. Non si parla molto dell’indagine su Giovanni Toti e della censura, ancora non còlta in tutta la sua gravità, imposta da pm e giudici genovesi al tentativo dei politici di procurarsi, nel rispetto delle regole, sostegni economici privati. Ma come ha scritto Alessandro Campi sul Messaggero di ieri, nella maggioranza e non solo si fa strada la convinzione che un ritorno al finanziamento pubblico sia urgente. Ed è proprio lì, nella necessità della politica di affrancarsi da quel pregiudizio morale di cui la magistratura è alfiere, che si spiega l’unità del centrodestra di governo sulla giustizia. La vittoria di Marco Bucci alle Regionali in Liguria è stata una conquista identitaria. È l’emblema di una battaglia per la dignità e l’autonomia della politica dal potere giudiziario che l’attuale maggioranza riconosce, implicitamente, come decisiva. Ed ecco perché a un ex magistrato come Nordio, conoscitore profondo della contraddizione aperta da Mani pulite (tanto da essere stato fra i pochi colleghi a contestare i pm del Pool) sono consegnate le chiavi delle riforme. Non nel senso del potere di decidere per tutti, certo. Quello Meloni lo tiene stretto, e lo condivide con altri, a cominciare da Alfredo Mantovano, prima che col proprio ministro della Giustizia. Ma quel ministro che sta a via Arenula è il solo che conosca la formula magica per spezzare le catene con cui la magistratura tiene sotto scacco la politica da quasi 33 anni. E pur di spezzarle, quelle catene, tutti, nella maggioranza, sono disposti a sacrificare un po’ di loro stessi. A Nordio non resta (forse) che la separazione delle carriere di Paolo Comi L’Unità, 3 dicembre 2024 Ma il Ministero della giustizia si trova sempre a via Arenula o si è trasferito a piazza del Viminale? Leggendo i provvedimenti in materia di giustizia approvati in questi primi due anni dal governo Meloni, il sospetto è quanto mai fondato. Sulla decisione, ad esempio, di spostare il mese scorso la competenza dei ricorsi dei migranti che chiedono asilo alle Corti d’appello, esautorando così le sezioni protezione internazionale presso i tribunali, lo zampino del Ministero dell’interno è evidentissimo. Il trasferimento ha poi il sapore della beffa in quanto tali sezioni erano state recentemente potenziate negli organici proprio da Carlo Nordio. Un cortocircuito che non è passato inosservato e che ha evidenziato ancora una volta la difficoltà del Guardasigilli, sempre più travolto dalle differenze di pensiero in materia di giustizia all’interno della sua stessa maggioranza, di imporre la propria linea. Che il Nordio liberale e garantista fosse solo un ricordo si era però capito subito. Il primo provvedimento in materia di giustizia era stato infatti il decreto “Rave” del 31 ottobre 2022. Un decreto che prevede la reclusione da 3 a 6 anni di prigione e la multa da 1000 a 10mila euro per chi “organizza o promuove l’invasione di edifici o terreni al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento”. A seguire, il 10 marzo 2023, era arrivato il decreto “Cutro” che ha modificato il testo unico dell’immigrazione, il dlgs Turco-Napolitano, inserendo l’articolo 12bis: “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da 15 a 24 anni. La pena arriva 30 anni in caso di morte di più persone. E come dimenticare il decreto “Caivano” che ha modificato il codice penale prevedendo un nuovo reato, il 421-bis, “Pubblica intimidazione con uso di armi”, e la legge sulle armi del 1975, con l’introduzione del divieto di “porto di armi per cui non è ammessa licenza”? Le pene, anche in questo caso, sono altissime e vanno dai 3 agli 8 anni di prigione. Poi ci sono aggravanti se il porto illegale avviene vicino a scuole, banche, parchi e stazioni. Il decreto Caivano, per la cronaca, ha previsto anche il 570-ter codice penale, “Inosservanza dell’obbligo dell’istruzione dei minori”, con pene fino a 2 anni. La pena è di un solo anno se il minore, pur andando a scuola, fa delle assenze che non sono giustificate dai genitori. Tutti provvedimenti “pensati” al Ministero dell’interno e quindi in ottica puramente repressiva e finalizzata al controllo di polizia, che hanno prodotto in questi due anni una girandola di nuovi reati, tutti con pene altissime. L’ultimo smacco in ordine di tempo per Nordio è stato il dl “Cyber” che doveva aumentare i poteri della Direzione nazionale antimafia in materia di criminalità informatica. Visto che in questo momento la Dna è nel mirino di ampi settori della maggioranza, la norma venerdì scorso è stata subito stralciata dal Consiglio dei ministri. “La Procura nazionale antimafia nasce da un’idea di Falcone, magistrato eroico ucciso dalla mafia a Capaci proprio per il suo serio impegno. La Procura antimafia, nel tempo, ha assunto anche responsabilità antiterrorismo, visto quello che è successo nel mondo dopo il tragico 11 settembre del 2001. Ora voleva estendere le sue competenze a vicende di criminalità informatica. Abbiamo stoppato questo tentativo”, ha dichiarato euforico Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia. Era stato il procuratore antimafia Giovanni Melillo ad indicare a Nordio il testo. “Prima di dare ulteriori poteri a una istituzione fondamentale voluta da Falcone e che poi ha avuto vicende abbastanza discutibili, si deve accertare la verità su quanto è accaduto”, ha aggiunto Gasparri, riferendosi ai dossieraggi effettuati dal tenente della Gdf Pasquale Striano, in servizio per anni presso la Procura antimafia. A Nordio non rimane quindi che puntare alla separazione delle carriere dei magistrati dimenticando però che si tratta di un provvedimento di iniziativa parlamentare che solo successivamente è stato fatto proprio dal governo. Un po’ poco per le aspettative iniziali. “Ma il guardasigilli lo dice: vuole pm obbedienti ai diktat del governo” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 dicembre 2024 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ribadisce la priorità della riforma della separazione delle carriere e punta l’indice contro lo strapotere dei pm. Ne parliamo con Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Secondo il guardasigilli, come riportato nell’intervista di ieri al Foglio, i pm sono superpoliziotti che agiscono senza rispondere a nessuno... Nordio rivela con la franchezza e la sincerità di chi non è aduso a linguaggi involuti, tipici di un certo modo di fare politica, il reale intendimento della riforma costituzionale: assoggettare il pm ad un controllo perché, a suo dire, è un organo senza alcuna responsabilità. Se questo è il problema e se la ricetta è, come dice il ministro, la riforma costituzionale, allora conferma quanto la magistratura associata, con buona pace delle ireniche posizioni delle Camere penali, ripete da tempo, ossia che si vuole una forma di controllo sul pubblico ministero. E chi può essere il controllore in questo quadro, se non la politica? Negli Usa però se i prosecutor, capi della polizia giudiziaria, se sbagliano vanno a casa... Vorrei ricordare al ministro che il potere del pm sulla polizia giudiziaria non dipende dal fatto che quando si introdusse il codice Vassalli non scegliemmo né il sistema inglese né quello americano. Ciò è previsto dall’articolo 109 della Costituzione per cui “l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”. Quindi, se potessi esprimere un auspicio, sarebbe di una maggiore attenzione al nostro modello costituzionale invece che a modelli altri, di tipo anglosassone. Vi troveremmo tante risposte, senza pensare che la situazione attuale sia figlia di un’anomalia. Per Nordio l’anomalia è costituita da pm che “clonano processi” e fanno “lunghe e dolorose indagini”... Non accetto questa diagnosi. Muove accuse senza richiamare fatti concreti o casistiche disciplinari. Si esprime con una genericità che mi lascia basito. Dire che i pm clonano i processi è una affermazione tanto grave quanto priva di fondamento. Vorrei chiedere al ministro da dove trae queste conclusioni e cosa ha fatto di conseguenza, essendo lui il titolare dell’azione disciplinare. Nordio giustifica la riforma sostenendo altresì che “c’è” - usa il presente - una degenerazione correntizia. Da qui la riforma del Csm... Credo che sia il Csm ad avere il diritto- dovere di replicare. Io da spettatore non posso che registrare che l’unico grave fatto di distorsione di cui oggi abbiamo appreso dopo l’affaire Palamara è quello che ha riguardato una componente laica del Consiglio. Intende l’avvocato Natoli? Sì. Allora chiedo al ministro se la riforma si occupa di questo, perché le degenerazioni del Consiglio superiore non possono essere scaricate per intero sulla componente togata. I laici stanno lì con un compito ben preciso: interdire le degenerazioni corporative. Il guardasigilli sostiene convintamente il referendum. Siete davvero pronti ad affrontare i cittadini? Da tempo abbiamo detto che interverremo nel dibattito pubblico, anche in vista di un’eventuale tappa referendaria. Lo faremo spiegando le ragioni di contrarietà tecnica a questa riforma, ma in questo devo dire che oggi (ieri, ndr) mi sento confortato perché il ministro ha in qualche modo agevolato il nostro lavoro di spiegazione avendo ammesso che è una riforma che tende a controllare politicamente il pm. Insomma sulla separazione sarà battaglia. Però qualche giorno fa abbiamo scritto che tra Anm e Nordio il dialogo a distanza ha funzionato, visto che ne è derivato il “congelamento” della nuova norma sugli illeciti disciplinari dei magistrati, scomparsa in extremis dal decreto Giustizia... Col ministro abbiamo ottimi rapporti, sempre improntati a lealtà e cordialità, e questo per noi è anzitutto un dovere. Detto questo, non possiamo che registrare con favore che quella norma così vaga non ci sia più. La formula “gravi ragioni di convenienza”, espunta dal codice di rito e messa nel codice disciplinare, si prestava a forti censure di incostituzionalità. Eppure questa tregua è venuta meno dopo un giorno. Abbiamo letto di un botta e risposta a suon di comunicati tra via Arenula e Anm sul rinvio del voto nei Consigli giudiziari... Nessun litigio: solo una nostra precisazione a questo punto doverosa, dopo che il comunicato del ministro generava oggettivamente l’idea che la magistratura associata avesse richiesto una proroga del voto. Noi ne eravamo informati ma il rinvio non è mai stato chiesto dall’Anm, come erroneamente affermato. Semmai occorre fare una riflessione più ampia. Quale? I rinvii vanno fatti per tempo: questa è una indicazione di buona normazione. Rinvii che avvengono in zona Cesarini creano più disagio, come avvenuto anche per il Tribunale delle persone minori e della famiglia e per l’informatizzazione del processo penale. Se c’è un cronoprogramma che ci fa già dire che non potremo rispettare la data di scadenza, credo sia buona norma mettere in campo disposizioni di rinvio per tempo, non è possibile arrivare sempre così in affanno. A proposito di rinvio: come accogliete i 30 giorni concessi alle Corti d’appello per adeguarsi al fatto che dovranno decidere sui ricorsi contro i trattenimenti dei migranti? I 30 giorni sono un pannicello caldo. Il problema è l’irragionevolezza del trasferimento di competenze, che suona come un plateale atto di sfiducia nei confronti delle sezioni specializzate per avere assunto una giurisprudenza che non è stata gradita. Nordio sostiene che i giudici di appello sono più garantisti. Meglio no? Sono tutte etichette e categorizzazioni, secondo me prive di fondamento. Tutti i giudici in Italia sono garantisti perché sono formati su una stessa sensibilità costituzionale. Poi le differenze si misurano sulle individualità. Non capisco perché una Corte d’appello priva di specializzazione, considerato che dal 2016 non si occupa più di questa materia, oggi debba entrare in campo e dire meglio di come abbiano fatto le sezioni specializzate: è chiaro che si rifarà gioco forza alla giurisprudenza delle sezioni specializzate. “Nordio si è tradito: vuole il pm sotto la politica”, dice Musolino (Magistratura democratica) di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 dicembre 2024 Il segretario di Md commenta l’intervista rilasciata dal Guardasigilli al Foglio: “Prima ha detto che il pubblico ministero resterà indipendente, poi ha detto che deve rispondere a qualcuno. Da governo attacco subdolo alla magistratura”. “Il ministro Nordio si è tradito”. In che senso? “Nell’intervista rilasciata al Foglio si è lasciato scappare una cosa”, spiega Stefano Musolino, segretario generale di Magistratura democratica: “Prima ha detto che con la separazione delle carriere il pubblico ministero continuerà a essere indipendente, poi però ha lamentato che ‘il pm è un super poliziotto che può agire senza rispondere a nessuno’. Bisognerebbe chiedere a Nordio a chi dovrà rispondere il pm dopo questa riforma. Sembra proprio lasciar intendere al potere politico”, dice Musolino. “Il ministro Nordio continua a dire che il pm non dovrebbe rispondere a nessuno, se non a un Csm formato da altri pm, e quindi da persone che si nutrono della stessa cultura della giurisdizione, e si percepiscono come parte imparziale del procedimento. Poi, però, sempre il ministro auspica un pm che risponda a qualcuno. Visto che cita l’esempio del public prosecutor americano, che viene eletto, immagino che egli guardi a quella responsabilità politica che, non potendo avere il nostro pm in quanto tecnico, non potrà che essere affidata a un organismo politico come il ministro della Giustizia. Insomma, il ministro tradisce nell’intervista quello che dice di non voler fare poco prima”, attacca Musolino. Però è vero che il pm in Italia gode di poteri vastissimi tanto che, come dice Nordio, può aprire indagini “senza avere nemmeno una notizia criminis degna di questo nome”. “Il ministro a volte tende a fare confusione tra il suo ruolo di pubblicista e il suo ruolo di giurista. Lui sa bene che non è assolutamente vero che il pm può fare quello che vuole. Il pm può iscrivere una notizia di reato soltanto davanti a un fatto che in apparenza giustifica l’avvio delle indagini”, replica il segretario di Md. “Il Guardasigilli sbaglia anche su un altro punto”, prosegue Musolino, riferendosi stavolta ai provvedimenti in materia di immigrazione, che tanto hanno fatto discutere, e al concetto di “stato sicuro”: “Il ministro afferma, per esempio, che se uno stato è non sicuro per gli omosessuali, allora il migrante richiedente asilo deve essere omosessuale, mentre se non è omosessuale per lui quel paese è sicuro. Dimentica di dire che i provvedimenti giudiziari in questione riguardano la procedura accelerata di respingimento alla frontiera, nella quale il giudice deve limitarsi a verificare in maniera sommaria se è pericoloso rimandare il migrante indietro, senza fare una verifica individualizzata. Questa si farà solo nella fase successiva, se ne sussistono le ragioni. A stabilirlo è proprio la direttiva europea, che è stata recepita con decreto legislativo del Parlamento italiano. Continuare a descriverla in termini diversi da quella che è non credo faccia un buon servizio al dibattito pubblico”, dice Musolino. “Ho notato invece con apprezzamento - prosegue il segretario di Md - che il ministro si è espresso in termini di accondiscendenza nei riguardi della decisione del tribunale di Bologna, che ha rinviato alla Corte di giustizia europea il caso di un richiedente asilo. Da magistrato mi avrebbe fatto piacere se avesse aggiunto a questo anche qualche parola di critica e di stigmatizzazione verso quei media che invece avevano fatto la profilazione dei giudici che avevano emesso quei provvedimenti”. “Mi avrebbe anche fatto piacere che, una volta che il ministero dell’Interno ha deciso di rinunciare a ricorrere contro i provvedimenti della dottoressa Apostolico, qualcuno si fosse preso la briga di chiedere scusa per aver identificato il provvedimento con la persona del giudice, perché quel provvedimento è corretto. Questo ripristino della correttezza istituzionale farebbe bene ai rapporti tra politica e magistratura, che in questo momento sono particolarmente tesi”, aggiunge. “Ho molto apprezzato un intervento del prof. Fiandaca, pubblicato di recente sul Foglio, dove si auspica un nuovo spazio di confronto fra politica e magistratura, che credo sia necessario”, afferma Musolino. “Il presupposto per avviare questo dibattito, però, è che non si metta in discussione lo statuto del magistrato. O almeno, se si vuole fare lo si dica chiaramente”. Cosa intende dire? “Il rischio che noi percepiamo è che qualcuno stia provando a modificare lo statuto del magistrato e i rapporti tra politica e magistratura in maniera non chiara, non dichiarata”, afferma Musolino. “L’intervista di Nordio è rivelatrice. Da un lato si dice che il pm resterà indipendente, dall’altro si dice che il pm deve rispondere a qualcuno”. Gli eventi dell’ultimo periodo, a detta di Musolino, “sembrano voler suggerire al singolo magistrato: se non vuoi avere problemi stai zitto e collabora con il governo in carica. E questo è molto pericoloso. E’ un attacco subdolo all’indipendenza e all’autonomia della magistratura”. Giudici che dispiacciono. Come liberarsene di Vladimiro Zagrebelsky giustiziainsieme.it, 3 dicembre 2024 La tentazione di liberarsi dei giudici che dispiacciono è irresistibile, anche se in linea di principio i governi non osano rifiutare la regola democratica della separazione dei poteri e magari sono pronti a rendere omaggio al principio fondamentale che, dalla fine del ‘700 in poi, in Europa dice che “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. Naturalmente il valore della separazione del potere giudiziario dall’Esecutivo e dal Legislativo è annullato se si pretende che i giudici si mettano in riga, deferenti verso il governo e le sue preferenze. Con la pretesa di fondarle sulla legittimazione elettorale della maggioranza parlamentare che regge il governo, si adottano però vie varie per forzare la separazione, quando questa confligge con l’orientamento e gli interessi politici governativi. Non sempre però gli strumenti adottati si rivelano efficaci rispetto allo scopo. In ogni caso è utile metterne in luce le finalità e lasciarne la memoria. Anni orsono una Pretura siciliana aveva un grande impianto petrolchimico nel territorio di sua competenza. Il pretore si era intestardito ad applicare le leggi di tutela ambientale. Non potendo trasferire quel magistrato, dal ministero della giustizia venne un decreto che spostò da quella Pretura a quella confinante il Comune ove si trovava l’impianto. Durò poco, ma il caso è esemplare. Oggi, soprattutto nella materia che riguarda i migranti, la tensione tra governo e magistratura è molto forte. Spesso essa si manifesta anche quando le sentenze vengono dalla Corte di cassazione. Ma ora un vero e proprio scontro contro la magistratura è stato scatenato dall’incontinenza verbale di esponenti governativi e riguarda le Sezioni specializzate nella materia nei Tribunali. Anche se non ha concluso il suo iter e non è divenuto legge, merita d’essere menzionato e commentato un tentativo di espellere da quelle procedure giudiziarie i giudici identificati come non in linea. Si tratta di uno schema di decreto-legge portato in Consiglio dei ministri il 29 novembre 2024. Tra molto altro, una norma che riguardava la responsabilità disciplinare dei magistrati è entrata in Consiglio, ma non ne è uscita. Saggia resipiscenza? Vizi tecnici riconosciuti insuperabili? Conflitti tra ministri? Non si sa. Persino la conferenza stampa che solitamente segue le riunioni del Consiglio dei ministri è stata cancellata. Così il ministro della Giustizia, proponente, ha potuto sottrarsi al dovere di spiegare e informare. Forse, come vedremo, la ragione risiede nel fatto che è stata imboccata un’altra strada per ottenere lo scopo. Il decreto-legge conteneva una modifica alla legge sulla responsabilità disciplinare dei magistrati e considerava l’ipotesi in cui essi non si astengano quando la legge ne stabilisce l’obbligo o - questo era il nuovo - “quando sussistono gravi ragioni di convenienza”. La novità veniva presentata con una bugia nel preambolo del decreto. Si leggeva infatti che essa sarebbe stata resa necessaria dalla abrogazione dell’abuso di ufficio. Affermazione palesemente infondata, inventata per nascondere la vera ragione dell’intervento governativo. La pretestuosità del motivo richiamato è tra l’altro dimostrata dal fatto che il decreto-legge riguardava solo i magistrati ordinari e non anche il Consiglio di Stato, i TAR, la Corte dei Conti e tutti gli altri soggetti a cui la norma penale abolita si applicava. Il vero movente invece è stato per settimane sotto gli occhi di tutti. Proclamato, promesso, minacciato da continue, virulente dichiarazioni da parte di esponenti governativi e della maggioranza, oltre che ripetuto dai media di area. Si trattava dello sdegno che quella parte politica manifestava per il fatto che alcuni giudici (delle Sezioni specializzate dei Tribunali) avevano deciso casi di convalida del trattenimento di migranti, adottando l’interpretazione delle norme che essi stessi avevano già sostenuto pubblicamente, prima delle singole procedure giudiziarie. Questo comportamento sarebbe illecito, frutto di parzialità politica da parte di magistrati, etichettati come “comunisti”, antagonisti del governo e della sua politica. Il decreto-legge nasceva con lo scopo di impedire simili fatti scandalosi, finora impuniti. Tuttavia il provvedimento governativo non sarebbe caduto nel vuoto legislativo. La materia degli obblighi di astensione è molto delicata, trattandosi di eccezioni rispetto al dovere che i magistrati hanno di decidere le cause che sono loro assegnate. Stranamente l’intervento del governo ignorava le norme che sono e restano in vigore nella materia. Mentre il codice di procedura penale, nel caso di “gravi ragioni di convenienza”, già stabilisce l’obbligo di astensione da parte del magistrato (cui segue la responsabilità disciplinare), il codice di procedura civile ne indica solo la facoltà (il giudice può richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi). Quindi la facoltà e non l’obbligo resta proprio nelle cause che hanno scatenato la rabbia governativa. Nella materia del diritto dei migranti la procedura che i giudici devono seguire è infatti quella del codice di procedura civile. Una procedura che si presenta speciale e quindi prevalente, rispetto alla portata generale della norma disciplinare che con il decreto-legge veniva modificata. Non l’obbligo di astensione, ma la facoltà continuava ad essere stabilita. Per dar spazio alla responsabilità disciplinare nel caso di omissione della astensione sarebbe bastato modificare l’art. 51 del Codice di procedura civile stabilendo anche in quella sede l’obbligo di astensione nel caso di “gravi ragioni di convenienza”. Sarebbe stata una modifica anche condivisibile perché avrebbe eliminato una differenza non giustificata rispetto al codice di procedura penale. Tanto più che il codice etico della magistratura in tutti i casi prevede che il magistrato valuti “con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità”. Sorprende quindi il tentato intervento normativo, fonte di incoerenze di sistema e di problemi interpretativi, capaci di impedirne comunque l’operatività rispetto all’intenzione governativa. Il tema più delicato però era ed è quello centrale. Da cui lo schema di decreto-legge si teneva prudentemente a distanza. Esso riguarda il contenuto stesso da assegnare alla formula “gravi ragioni di convenienza”, di estrema ampiezza e genericità, legato ai casi concreti. E tali da escludere proprio il caso in cui il magistrato si sia in precedenza pronunciato sulla interpretazione delle leggi da applicare. L’intenzione che muoveva la proposta di decreto-legge proprio a ciò si riferiva, nel contesto dell’attuale attacco ai giudici delle Sezioni di Tribunale specialmente competenti in materia di immigrazione. Contro l’avviso del governo questi giudici hanno rinviato le cause alla Corte di giustizia dell’Unione europea, perché dica se le norme italiane sono compatibili con l’obbligo di conformità alle norme europee applicabili. Ciò che per la verità appare del tutto legittimo o addirittura necessario, ma che dispiace al governo perché - in attesa della sentenza che renderà la Corte di giustizia - impedisce tra l’altro l’operatività dell’accordo Italia-Albania. Stando al tenore delle accuse che sono state rivolte a quei giudici - di avere già dichiarato il loro orientamento interpretativo delle norme recentemente introdotte, prima di pronunciarsi nelle singole cause -, questo fatto costituirebbe una “grave ragione di convenienza”, tale da dar corpo ad illecito disciplinare. Ma così non può essere. Pur con la prudenza da più fonti loro raccomandata, la libertà di espressione, garantita dalla Costituzione, è assicurata anche ai magistrati. Essi possono esprimersi liberamente, ed anzi dalla Corte europea dei diritti umani è venuta l’affermazione che, in materia di organizzazione e funzionamento della amministrazione della giustizia, vi è un obbligo per i magistrati di esprimersi, per contribuire al chiarimento dei termini dei problemi che il legislatore affronta e per difendere autonomia e indipendenza della magistratura. E il fenomeno degli interventi dei magistrati nella discussione delle leggi è vastissimo, ben radicato da lungo tempo e specialmente importante proprio nei settori del diritto specialistico che essi praticano nei tribunali. Particolarmente quando si tratta di nuove leggi, la discussione organizzata dalle riviste giuridiche, generaliste o di settore, è animata anche dai magistrati. Essi si esprimono, propongono soluzioni, contribuiscono al progressivo emergere di indirizzi interpretativi condivisi: prima ancora che i procedimenti giudiziari approdino alle Corti di appello e poi alla Cassazione. Si dovrebbero astenere poi dall’applicare le leggi che hanno commentato, spesso, utilmente? Che fine faranno le riviste giuridiche e gli incontri di studio che vengono organizzati specialmente subito dopo una nuova legge? E le relazioni e i dibattiti nei corsi della Scuola Superiore della Magistratura, in sede centrale o decentrata? Cosa delle iniziative più o meno formalizzate per la ricerca di orientamenti interpretativi condivisi e quindi prevedibili? Sono domande che spiegano perché la specificazione della nozione di grave ragione di convenienza - funzionale allo scopo perseguito dal governo - non si leggeva nel testo del decreto-legge. Esso però, così come presentato, avrebbe comunque lasciato spazio al ministro per qualche azione disciplinare, fuoco d’artificio e dimostrazione muscolare opportunamente presentata alla stampa, anche se prima o poi destinata ad insuccesso. Ma il ritiro del decreto-legge trova probabilmente spiegazione nel fatto che, lavorando su un altro provvedimento ora in Parlamento (il c.d. decreto flussi), il governo con più sicurezza e in un colpo solo si sbarazza di tutti i giudici attualmente competenti alla trattazione delle cause relative alla convalida dei provvedimenti di trattenimento dei migranti, alla proroga del trattenimento disposto dal questore nei confronti dei richiedenti protezione internazionale e alla convalida delle misure alternative al trattenimento. Il mezzo usato è il trasferimento di tali cause dalla competenza dei Tribunali a quella delle Corti di appello. Che non si cerchi un rito più garantito come potrebbe essere il procedimento davanti alla Corte d’appello che è giudice collegiale è dimostrato dalla previsione che in questo caso il giudice sarà in formazione monocratica. La Corte d’appello diviene giudice monocratico di primo grado. Un Tribunale, cioè. E allora perché? Il governo cerca giudici diversi. Li crede più fidati? Imbarazzante per i giudici così prescelti come “giudici di fiducia”. Ma è prevedibile il fallimento dell’operazione: il diritto è quello che è e non cambia cambiando il giudice. I presidenti di tutte le Corti di appello hanno protestato perché i loro uffici non sono in grado di reggere il nuovo grande carico di lavoro, negli stretti termini procedurali stabiliti dalla legge. Dovrebbe preoccuparsene il ministro della Giustizia, a cui la Costituzione assegna “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”. Ma sembra che si voglia comunque sottrarre, in un modo o nell’altro, la materia della immigrazione ai giudici ora competenti. Si dice che, contro giudici riottosi, si tratta di assicurare la prevalenza della Politica, legittimata dal voto. A spese delle regole e garanzie dello Stato di diritto. Il “lassismo dei pm” denunciato da Nordio è una fake news da studiare di Edmondo Bruti Liberati* Il Foglio, 3 dicembre 2024 Il ministro della Giustizia dedica poche parole all’impianto di riforme che porterà a una radicale riscrittura dell’equilibrio fra i tre poteri dello stato, ma i dubbi di fondo persistono. E “nonostante tutte le rassicurazioni, si apre di fatto una autostrada al passo successivo della “responsabilizzazione” del Pm rispetto all’esecutivo”. L’intervista di ieri al direttore Cerasa merita attenzione per ciò che il ministro Nordio dice e per ciò che non dice. “La separazione delle carriere è un punto centrale del programma del governo... di fatto in buona parte già esiste con l’ordinamento della Cartabia, è accompagnata da due riforme che sono ancora più importanti: il sorteggio di parte del Csm e l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare”. Alle “due riforme più importanti” sono dedicate poche righe. Il Ddl costituzionale Meloni/Nordio è una radicale riscrittura del sistema di governo della magistratura e dell’equilibrio tra i poteri dello stato, legislativo, esecutivo e giudiziario, previsto dalla Costituzione. La ragione della reticenza si trova nelle parole del ministro, il quale auspica che in Parlamento non si realizzi la maggioranza dei due terzi e quindi si vada al referendum perché “è necessario che si pronunci il popolo italiano”. Ma su cosa? Lo stesso Nordio lo aveva già detto in altra intervista “la vittoria referendum sulle carriere dei magistrati sarà portata di mano se solo la comunicazione politica verrà affidata ad una semplice domanda: siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete votate sì al referendum confermativo” (Il Dubbio 16 novembre). Più che un referendum, un plebiscito e su un quesito tendenzioso. E se provassimo ad informare, e si può fare senza troppi tecnicismi, su che cosa il popolo dovrebbe in ipotesi pronunziarsi? L”Alta Corte Disciplinare” non è più prevista, come era stato proposto, per tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa e contabile, ma solo per la magistratura ordinaria, con una alquanto arzigogolata composizione: dei quindici componenti, tre nominati dal Presidente della Repubblica, tre estratti a sorte da un elenco formato dal Parlamento e sei giudici e tre Pm estratti a sorte tra i magistrati. Il messaggio è quello di contrastare il lassismo della gestione disciplinare del Csm, peraltro smentito dai dati (Relazione del Procuratore Generale della Cassazione). Nel 2023 vi sono state 15 condanne, di cui 2 alla rimozione. Si aggiungono 5 decisioni di non doversi procedere per dimissioni o pensionamento anticipato, spesso motivati dalla volontà di sottrarsi al procedimento disciplinare. Le assoluzioni sono state 20 per insussistenza dell’illecito disciplinare o per scarsa rilevanza del fatto. Una percentuale “fisiologica” di assoluzioni (a meno che per il giudice disciplinare debba valere il principio di accogliere tutte le richieste dell’accusa); condanne severe, se in sette casi complessivi gli incolpati sono usciti dalla magistratura. Vi saranno due Csm, uno per i giudici e uno per i Pm. Ma parte notevole dell’attività del Csm riguarda tutta magistratura. Come si potrà valutare il Progetto organizzativo di una Procura senza coordinarlo con quello corrispondente del Tribunale? E che sarà della Scuola Superiore della Magistratura ove oggi ai corsi di formazione e di aggiornamento Pm e giudici siedono spesso sui banchi fianco a fianco? Per ciascuno dei Csm il criterio di nomina è quello del sorteggio. I componenti laici sono estratti a sorte “da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento compila mediante elezione”; dunque un metodo di sorteggio cosiddetto “temperato”. Per i componenti togati dei due Csm la estrazione a sorte è invece prevista “tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti nel numero e secondo le procedure previste dalla legge”; dunque in questo caso sorteggio” secco”. Rimane la proporzione 2/3 togati e 1/3 laici, ma si realizza una ingiustificata discriminazione nella legittimazione: “forte” per i laici e “debole” per i togati. Per i magistrati, si dice, “uno vale uno”. Ma il ruolo di gestire il corpo giudiziario e la sua organizzazione è cosa diversa dal giudicare e dall’investigare: la realtà ci mostra capi di ufficio ottimi giuristi e ottimi organizzatori, ma anche il caso di ottimi giuristi e disastrosi organizzatori. Il ministro rassicura sulla indipendenza del Pm dall’esecutivo, ma sottolinea che il pubblico ministero italiano ha un forte potere senza alcuna responsabilità. Nonostante tutte le rassicurazioni, si apre di fatto una autostrada al passo successivo della “responsabilizzazione” del Pm rispetto all’esecutivo: quella “direzione” del ministro che, ancor prima della Costituzione, l’Italia della ricostituita democrazia aveva abolito con il Regio Decreto Legislativo 31 maggio 1945 n. 51. *Già procuratore capo di Milano Violenza sulle donne, in carcere chi manomette il braccialetto elettronico Italia Oggi, 3 dicembre 2024 Il decreto legge giustizia approvato dal Consiglio dei ministri, potenzia gli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria a tutela delle vittime. A prevedere il rafforzamento degli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria a tutela delle vittime protette tramite il divieto di avvicinamento da parte del soggetto violento è un decreto legge, approvato dal Consiglio dei ministri del 29 novembre 2024, che introduce che introduce misure urgenti in materia di giustizia. Con il dl si integrano le norme relative alle “particolari modalità di controllo”, cioè al cosiddetto “braccialetto elettronico”, per precisare che tra gli accertamenti già previsti da parte della polizia giudiziaria in relazione alla “fattibilità tecnica” dell’utilizzo di tale strumento è inclusa anche la fattibilità operativa, collegata alla effettiva efficacia e funzionalità dello strumento rispetto al caso concreto e durante tutto il corso dell’applicazione della misura cautelare. Scelta del braccialetto - In particolare, spiega una nota di Palazzo Chigi, preliminarmente alla scelta da parte del giudice della misura cautelare ritenuta più idonea, la polizia giudiziaria verifica l’attivabilità, l’operatività e la funzionalità dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici negli specifici casi e contesti applicativi, analizzando le caratteristiche dei luoghi, le distanze, la copertura di rete, la qualità della connessione e i tempi di trasmissione dei segnali elettronici del luogo o dell’area di installazione, la gestione dei predetti mezzi o strumenti tecnici e ogni altra circostanza rilevante in concreto ai fini delle valutazioni sull’efficacia del controllo sull’osservanza delle prescrizioni imposte all’imputato. Di tali verifiche viene redatto specifico rapporto che è trasmesso, entro 48 ore, all’autorità giudiziaria per le valutazioni di competenza. Custodia cautelare - Nel caso di non fattibilità tecnica e operativa, qualora siano stati disposti l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, il giudice potrà disporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi di quelle già adottate. In caso di trasgressione alle prescrizioni imposte o di una o più condotte gravi o reiterate che impediscono o ostacolano il regolare funzionamento del braccialetto elettronico, conclude la nota della Presidenza, il giudice può disporre la revoca degli arresti domiciliari e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere. Braccialetti elettronici, forze dell’ordine in rivolta: “Non spetta a noi verificare se funzionano” di Romina Marceca La Repubblica, 3 dicembre 2024 Carabinieri e polizia contro le nuove disposizioni del dl Giustizia: “È una beffa. Noi siamo professionisti della sicurezza, non tecnici”. Polemiche anche le associazioni: “Chi pensa alle donne?”. L’appello ai ministri. Per contrastare i malfunzionamenti del braccialetto elettronico, nel decreto Giustizia, approvato dopo giornate convulse il 29 novembre, è stato inserito un nuovo articolo. I controlli sul funzionamento degli strumenti, che servono a mantenere sempre più distanti gli uomini violenti dalle donne, sono a carico delle forze dell’ordine. E scoppia la polemica dei sindacati, dei centri antiviolenza e dell’associazionismo. “Non siamo tecnici ma professionisti della sicurezza e del soccorso al cittadino. Se poi quel braccialetto, dopo il nostro controllo, non funzionerà? Sarà colpa delle forze dell’ordine?”, è l’immediata reazione dell’Usmia carabinieri, il sindacato che rappresenta anche altre forze militari. Le volontarie, dal canto loro, non accettano un provvedimento che non è risolutivo secondo loro: “Gli italiani hanno pagato per quel dispositivo, se ne deve occupare il gestore”. E poi: “Chi pensa alla sicurezza delle donne?”. Proprio le forze dell’ordine nei mesi scorsi avevano segnalato il flop del braccialetto elettronico con circa 20mila falsi allarmi al giorno. I nuovi controlli - Nel dl Giustizia era passato come un rafforzamento il controllo sul reale funzionamento dei braccialetti elettronici - per l’emergenza femminicidi - con inasprimento delle pene per chi tenta di metterli fuori uso. Ma, secondo gli agenti, quel rafforzamento passa da uno “scaricabarile” che non sta bene alle forze dell’ordine, citate nelle disposizioni urgenti come deputate a verificare “senza ritardo e comunque entro quarantotto ore l’attivabilità, l’operatività e la funzionalità dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici negli specifici casi e contesti applicativi”, recita il nuovo articolo 97 ter. In poche parole, dal momento in cui il giudice decide l’applicazione dello strumento del braccialetto elettronico le forze dell’ordine hanno 48 ore per mettere nero su bianco se un braccialetto elettronico funziona o meno. “Una beffa - dicono il segretario generale Carmine Caforio e il segretario nazionale Alfonso Montalbano - proprio perché noi siamo stati tra i primi a segnalare i problemi derivanti dai falsi allarmi. Adesso questa responsabilità rischia di compromettere ulteriormente una sicurezza pubblica già fortemente provata dalla carenza di personale e risorse”. Le forze dell’ordine, a ogni attivazione di braccialetto elettronico, fino al 29 novembre, si erano occupati solo di verificare che venissero rispettate tutte le condizioni di sicurezza: la distanza tra persecutore e vittima, ad esempio. Accanto ai carabinieri, anche la polizia boccia il nuovo provvedimento. “Come facciamo a garantire questo perfetto funzionamento? Ma avete idea di quante volte manca la linea in determinati luoghi? E se non scatta o scatta senza motivo? Non si risolve il problema così. Mi sembra un provvedimento che non regge. Le prime 48 ore non salvano le donne”, dice Pietro Colapietro, segretario nazionale del sindacato Silp per la Cgil. Aggiunge Alfonso Montalbano: “L’attacco è al legislatore, mi chiedo chi gli fornisce certi consigli. Ma perché non interpellano noi, prima di fare le leggi, che sulla strada ci stiamo?”. L’appello ai ministri: “Escludeteci dalle verifiche” - Il sindacato Usmia lancia adesso un appello ai ministri dell’Interno, della Difesa e della Giustizia: “È indispensabile un intervento immediato che escluda gli operatori di polizia da ogni verifica e assistenza tecnica, affinché possano continuare a svolgere il loro ruolo fondamentale a tutela della sicurezza dei cittadini”. Intanto, però, i controlli sono già iniziati su centinaia di nuovi braccialetti elettronici. I carabinieri gestiscono l’86 per cento dei braccialetti attivi in tutta Italia. Gli ultimi dati che Repubblica ha avuto dal Viminale parlano di 10.627 braccialetti elettronici attivi tra arresti domiciliari e antistalking. Di questo dato complessivo, sono 4.650 quelli attivi solo per lo stalking. Per questo, secondo l’Usmia, “è inaccettabile il passaggio in cui l’articolo 97 ter parla di controlli del funzionamento da parte delle forze dell’ordine ‘anche’ con i tecnici Fastweb, cioè la società fornitrice dei braccialetti elettronici, e non al contrario”, dice Alfonso Montalbano. “Perché sono loro che dovrebbero occuparsi esclusivamente di verificare il funzionamento, non noi privi di formazione tecnica e strumenti idonei”, aggiunge in una nota l’Usmia. Le associazioni: “Più concretezza per le vittime” - Dalla loro, le associazioni antiviolenza e i centri che accolgono le donne vittime chiedono più concretezza. Elena Biaggioni, vicepresidente D.i.Re - Donne in Rete contro la violenza: “Sarebbe stato utile porre l’attenzione su quello che effettivamente non funziona rispetto ai braccialetti elettronici, così da migliorare l’applicazione di questo dispositivo. Pare, invece, che ci troviamo davanti a una norma non risolutiva per la sicurezza delle donne, unico obiettivo che dovrebbe essere perseguito. L’impegno dovrebbe passare attraverso una serie mappatura del problema, raccogliendo le informazioni necessarie alla soluzione”. Sembra che dietro l’ennesimo provvedimento si celi una perdita di tempo: “Allungare le tempistiche non va nella direzione giusta: già in molti casi le donne attendono per mesi. Aspettiamo l’analisi del problema, non l’ennesimo provvedimento emergenziale. Seguiremo con attenzione tutto questo, anche per poter dare indicazioni precise alle donne accolte dai centri antiviolenza”. “È il gestore che deve occuparsene, gli italiani hanno pagato per questa misura che non funziona. Non possono occuparsene le forze dell’ordine, poi ce la prendiamo con loro? - si chiede Bo Guerreschi, presidente di “bon’t worry” - Se muore qualcuno è la Fastweb che deve essere incolpata. Questo provvedimento mi fa comprendere quanto sia poca la conoscenza della concretezza e dell’applicazione di una misura cautelare. Con un avvocato abbiamo già chiesto un contatto con Fastweb per creare un fondo per la cura delle donne che portano il braccialetto elettronico. Gli effetti iniziano a essere importanti. Molte soffrono di ansia perché si rompe spesso, per fare un esempio. Fastweb ci ha risposto che stanno prendendo provvedimenti”. Decreto carceri, no al riconoscimento anticipato dello sconto di pena di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2024 Bonus rieducazione fuori dal calcolo per sospendere la carcerazione. Il limite dei 4 anni per lo stop al titolo esecutivo non può essere calcolato, al netto dello sconto. La pena da considerare nell’ordine di esecuzione non può essere calcolata, ai fini della sospensione della carcerazione, al netto delle detrazioni che il condannato potrebbe ottenere partecipando all’opera di rieducazione. La Cassazione (sentenza 44020) ha così respinto il ricorso, contro l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione aveva negato la temporanea inefficacia dell’ordine di carcerazione, relativo a una condanna definitiva a quattro anni e sei mesi di reclusione. E dunque sopra il tetto dei quattro anni fissato dal “Decreto carceri” 92/2024, per sospendere il titolo esecutivo. Ad avviso della difesa però, calcolando da subito lo “sconto” potenzialmente concedibile per la liberazione anticipata, la pena da espiare sarebbe scesa sotto il limite di legge. Una tesi dalla quale la Suprema corte si discosta. I giudici di legittimità ricordano che il comma lo bis del Dl 92/2024 impone di indicare la pena nell’ordine di esecuzione inserendo le detrazioni previste dall’ordinamento penitenziario (articolo 54, legge 354/1975), in modo tale da evidenziarne la durata sia con il beneficio sia senza. Il destinatario è avvisato che i “bonus” sono subordinati alla partecipazione all’opera rieducativa. La riforma mira dunque a un ordine di esecuzione capace di inquadrare, dall’inizio, l’esatta portata delle possibili detrazioni penali, sia per agevolare il conto sia per promuovere l’adesione al programma educativo. L’esclusione di ogni anticipato automatismo - sottolinea la Cassazione - nell’operatività della riduzione premiale è stata ribadita nel corso della discussione in Commissione giustizia del Senato e si è tradotta nell’approvazione di un emendamento. Una modifica che impone alla cancelleria dell’Ufficio di sorveglianza di comunicare al pubblico ministero dell’esecuzione “la concessione, la mancata concessione o la revoca del beneficio” della liberazione anticipata. Non soltanto dunque il diniego o la revoca, come previsto dalla formulazione iniziale “la quale poteva indurre a ritenere che il beneficio dovesse essere, in difetto di contraria comunicazione, presunto e anticipatamente riconosciuto”. Per la Suprema corte, l’interpretazione del testo e l’obiettivo della norma di incentivare la partecipazione alla rieducazione, portano a disattendere la tesi del riconoscimento anticipato del “premio”. L’effettivo beneficio sarà applicato “attraverso provvedimenti espressi di concessione ad opera del competente magistrato di sorveglianza”. Per un’eventuale quantificazione della pena sotto la soglia che comporti la sospensione dell’ordine di carcerazione, possono essere considerati i soli periodi presofferti (comma 4-bis dell’articolo 656). Rispetto ai quali - sottolinea la Corte - la sospensione resta comunque subordinata alle decisioni assunte dalla magistratura di sorveglianza. Cuneo. Violenze nel carcere, fra i 35 indagati anche la comandante della Polizia penitenziaria di Barbara Morra La Stampa, 3 dicembre 2024 Sono 35 gli indagati, a vario titolo, nell’inchiesta della Procura di Cuneo su torture, violenze e minacce nel carcere Cerialdo. Fra questi c’è la comandante della Polizia penitenziaria, che, in prima battuta, quando gli inquirenti notificarono, oltre un anno fa, gli avvisi di garanzia, non era iscritta nel registro. Le sue responsabilità, secondo l’accusa sostenuta dal pubblico ministero Mario Pesucci, sarebbero emerse successivamente e sono sfociate nell’ipotesi del reato di omessa denuncia. L’altro giorno la Procura ha notificato agli indagati, fra cui c’è anche un medico del carcere, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Ora ognuno avrà la possibilità di accedere agli atti di indagine e, eventualmente, offrire proprie prove a discolpa. Sono diversi gli episodi di violenza che la Procura contesta a una parte degli agenti. Quelli più pesanti risalgono alla sera del 20 giugno dello scorso anno quando diversi poliziotti, in quel momento fuori servizio, si sarebbero introdotti nella cella 417 del padiglione “Gesso” per compiere una spedizione punitiva. Vittime del pestaggio cinque detenuti di origine pachistana, colpiti con calci e pugni al volto: la loro colpa sarebbe stata quella di aver protestato, battendo sui blindi, perché un altro recluso nella vicina cella 416 lamentava forti dolori alla gamba e aveva chiesto più volte, senza risultato, di essere visitato in infermeria. Il gip ha disposto, tempo fa, la sospensione dal servizio per soltanto due dei poliziotti penitenziari. Oltre alla “spedizione” di giugno, culminata in lesioni di varia entità, agli indagati vengono ricondotti altri episodi di violenza denunciati tra l’ottobre del 2021 e l’aprile del 2022. Tra i fatti contestati l’uso del teaser contro un detenuto marocchino, percosso in due occasioni. Nella seconda l’uomo era stato ritrovato svenuto in una cella di isolamento da uno dei sorveglianti: aveva chiesto e ottenuto il trasferimento di cella per poter osservare il Ramadan. Un altro detenuto, disabile con protesi a entrambi gli arti inferiori, sarebbe stato invece trascinato lungo il corridoio dopo una notte in isolamento. C’è infine il pestaggio ai danni di un altro nordafricano, al rientro dall’ospedale dove era stato ricoverato per atti di autolesionismo. Roma. Mafia Capitale dieci anni dopo: coop distrutte. La denuncia dei soci di Valentina Stella Il Dubbio, 3 dicembre 2024 L’ex imprenditore Salvatore Buzzi e gli altri soci della Coop 29 giugno coinvolta nell’inchiesta citano in giudizio gli amministratori giudiziari. A dieci anni dalla (fu) inchiesta Mafia Capitale, l’ex imprenditore Salvatore Buzzi annuncia una causa civile contro gli amministratori giudiziari delle cooperative coinvolte, tra cui una gestita da lui, la coop 29 Giugno, nata oltre trent’anni fa per il reinserimento sociale dei detenuti. Un film già visto troppo spesso, come raccontato sulle pagine di questo giornale: imprese e aziende rovinate dopo essere finite in mano a degli amministratori designati dai Tribunali. Ma ripercorriamo brevemente la vicenda: il 2 dicembre 2014 scattarono le manette contro Buzzi e l’ex Nar Massimo Carminati. Con loro vennero arrestati anche diversi esponenti di cooperative romane, insieme a dirigenti di Ama, del Campidoglio e poi politici locali del Pd e del Pdl. A capo dell’inchiesta l’ex procuratore Giuseppe Pignatone: per lui la criminalità mafiosa si era insediata nel Comune capitolino. Poi la Cassazione smontò letteralmente il teorema accusatorio, derubricando i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime. Intanto, come ha denunciato Buzzi dalla sua pagina Facebook, “le cooperative sociali furono disarticolate e la cooperativa 29 Giugno con le sue consociate che contava 1300 dipendenti con un fatturato di 70 milioni e un patrimonio di 30 fu commissariata e affidata a 3 amministratori giudiziari che con il modico compenso di 3 milioni di euro ciascuno sono riusciti a depauperarla in poco più di tre anni, riconsegnandola ai soci, nel 2018, in condizioni talmente disastrose che hanno dovuto metterla in liquidazione. Al termine dei processi di mafia non è rimasto nulla”. Per questo 115 ex soci del gruppo 29 Giugno, ciascuno versando la propria quota, hanno depositato, tramite i propri legali Nicola Santoro, Sonia Sommacal e Alessandro Tricoli presso il Tribunale civile di Roma l’atto di citazione in giudizio contro gli amministratori giudiziari delle cooperative, “per far accertare la loro responsabilità per colpa grave e per chiedere la condanna degli stessi al risarcimento del danno”, ha scritto sempre Buzzi. Vediamo nel dettaglio, in base alle dichiarazioni di Buzzi. Innanzitutto “dal confronto tra la documentazione inerente la situazione economica, contabile e fiscale della cooperativa - sia antecedente che successiva al sequestro - emergono senza dubbio gravi anomalie di gestione ad opera degli organi nominati nella procedura di sequestro, tanto da aver comportato negli anni uno squilibrio finanziario pari ad euro 14.502.172,00 a cui le cooperative non sono state in grado materialmente di fare fronte e che ne ha determinato la conseguente messa in liquidazione”. Inoltre “a questo squilibrio devono aggiungersi le somme che le cooperativa, all’epoca dell’amministrazione giudiziale, hanno corrisposto, a titolo di emolumenti, pari ad euro 1.000.000,00 in acconto oltre Iva e Cpa per ciascun amministratore ed euro 67.200,00 a titolo di rimborso spese coadiutori per ciascuno degli otto coadiutori incaricati; somme evidentemente non dovute in considerazione dell’inequivocabile inadempimento del mandato gestorio che ha condotto le cooperative alla cessazione della loro attività e al deperimento dei beni aziendali”. A ciò si aggiunga che “al momento dell’apertura dell’amministrazione giudiziaria la cooperativa vantava un utile di esercizio pari ad euro 1.099.686,00 e appena due anni dopo, ossia nel 2016, veniva posta in liquidazione avendo cumulato perdite per euro 1.044.923,00”. Insomma, per i ricorrenti e i loro avvocati “emerge la responsabilità a carico dei convenuti, in quanto non solo non incrementavano la redditività delle società sequestrate, ma ne determinavano addirittura la liquidazione per sopravvenuta impossibilità di far fronte ai debiti contratti nel periodo di amministrazione giudiziaria”. Intanto oggi Buzzi, condannato in via definitiva a 12 anni e 10 mesi di carcerazione, è un libero sospeso. Si sta curando presso una comunità terapeutica per disintossicarsi dall’alcol dipendenza. Ha un residuo pena di 4 anni e sei mesi: a febbraio il Tribunale di Sorveglianza di Roma stabilirà se potrà continuare a scontare la pena in ambiente terapeutico, dopo che i suoi legali, Alessandro Diddi e Edoardo Albertario, avevano presentato, e vistosi accolto con rinvio, un ricorso in Cassazione contro l’arresto avvenuto in una comunità terapeutica calabrese nel settembre 2022. Forlì. Nuovo carcere, l’ass. Amici di don Dario: “Serve un’azione politica forte e risolutiva” forlitoday.it, 3 dicembre 2024 È di giovedì l’annuncio del sottosegretario alla Giustizia in merito alla prossima entrata in organico nel carcere di Forlì di sette nuovi agenti di Polizia Penitenziaria. Ma l’associazione Amici di don Dario, da tempo coinvolta in progetti sociali e riabilitativi proprio all’interno della struttura carceraria della città, chiede “un’azione politica risolutiva” in merito alla realizzazione della casa circondariale al Quattro. “Don Dario - affermano i responsabili dell’associazione - ci ha lasciato in eredità una fortissima sensibilità sulle problematiche e le dinamiche umane che prendono vita in carcere, frutto della sua lunghissima esperienza come Cappellano della Casa Circondariale di Forlì. Non possiamo, quindi, che esprimere soddisfazione per questa notizia riportata sulla stampa locale nei giorni scorsi. La nostra Associazione collabora da sempre con la Casa Circondariale offrendo contributi economici, sollecitati anche da richieste di servizi per i detenuti”. “È evidente però che il problema carcere di Forlì non si risolve con questi piccoli, anche se in questa situazione importanti, interventi tampone - viene aggiunto -. Gli stessi esponenti politici nazionali che hanno reso possibile l’incremento degli agenti, unitamente ai politici locali che hanno incarichi e responsabilità a livello governativo, hanno il dovere di spingere sull’acceleratore per la conclusione dei lavori del nuovo carcere in località “Quattro” in itinere oramai da tanto, troppo, tempo”. “L’attivazione della nuova struttura in tempi brevi risponde ad una criticità che ha assunto dimensioni macroscopiche, ovvero la condizione di vita dei carcerati nell’attuale contenitore al limite della decenza umana, come peraltro affermato pubblicamente in più occasioni anche da tutti gli stessi dirigenti carcerari che negli anni si sono succeduti e con cui abbiamo avuto modo di collaborare. In secondo luogo non bisogna dimenticare che la nuova struttura, rischia, se terminata in tempi lunghi, di presentare parti di essa non più conformi alle normative e alle esigenze della casa circondariale stessa. Serve quindi, un’azione politica forte, incisiva e risolutiva”, concludono. Venezia. “Liberiamo le produzioni”: lavoro in carcere e reinserimento in un volume fotografico venetonews.it, 3 dicembre 2024 Lunedì 2 dicembre, presso Palazzo Grandi Stazioni della Regione del Veneto a Venezia, si è tenuta la presentazione del volume “Liberiamo le produzioni - Lavoro penitenziario nel Veneto: opportunità per le imprese”, nato dalla collaborazione tra il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto, la Regione del Veneto - Assessorato all’Economia e Sviluppo, Ricerca e Innovazione, e Unioncamere del Veneto, grazie alle risorse messe a disposizione dalla Regione tramite la Convenzione PMI 2024. Il catalogo espone le lavorazioni correnti presso i 9 istituti penitenziari del Veneto - 7 Case Circondariali e 2 Case di Reclusione - e 14 cooperative sociali e raccoglie anche gli spazi lavorativi disponibili e non ancora utilizzati, dove è possibile e auspicabile l’inserimento di nuove attività produttive. Scopo della pubblicazione è sensibilizzare il sistema produttivo veneto, e non solo, sul tema del lavoro penitenziario. Imprese e cooperative sociali possono infatti stipulare con le Direzioni degli istituti delle convenzioni per la gestione in comodato d’uso di spazi da adibire a lavorazioni, al fine di impiegare detenuti all’interno delle stesse strutture penitenziarie. Per incentivare e sostenere questi aspetti di apertura al territorio, nel 2000 è stata promulgata la cosiddetta Legge Smuraglia (Legge n. 193) con l’obiettivo di favorire l’attività lavorativa dei detenuti, offrendo la possibilità di fruire di sgravi fiscali e contributivi ai soggetti pubblici o privati (imprese o cooperative sociali) che assumono lavoratori che si trovano in esecuzione di pena. La pubblicazione - realizzata con il contributo della Regione del Veneto e in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e con l’Unione Regionale delle Camere di Commercio del Veneto - nasce da uno specifico progetto che ha l’obiettivo di far incontrare il mondo delle attività produttive con la realtà degli istituti penitenziari del Veneto per consolidare una vera e propria filiera che valorizzi il lavoro carcerario come strumento di inclusione sociale ed economica. C’è chi fa assemblaggio di minuterie metalliche, plastica, carta o nel campo dell’occhialeria, chi gestisce i servizi di call center per le strutture del sistema sanitario veneto, chi fornisce servizi di lavanderia industriale e sartoria. O ancora, chi coltiva ortaggi e chi produce pasticceria, gastronomia, prodotti da forno, prodotti alimentari in vaso o si occupa della preparazione di pasti. Sono i tanti lavori che si svolgono all’interno delle strutture carcerarie regionali e degli istituti penitenziari del Veneto, grazie ad accordi e convenzioni tra istituti penitenziari, mondo produttivo, imprese e cooperative per creare una filiera produttiva che valorizzi il lavoro carcerario come strumento di inclusione sociale ed economica. Firenze. Dopo il decreto Caivano carceri minorili al collasso: “Tradita la missione rieducativa” novaradio.info, 3 dicembre 2024 Per anni gli Ipm - Istituti penali minorili, hanno rappresentato, tra molte virgolette, una “isola felice” nel desolante panorama del sistema carcerario italiano: numeri limitati, strutture “a misura” di detenuto, attenzione ai percorsi di educazione e reinserimento. Oggi non è più così, e la ragione sta nel crescente sovraffollamento delle carceri: a maggio 2023 i detenuti minori in Italia erano 395, oggi sono 565: un aumento del +43% in soli 18 mesi, che ha portato 15 dei 17 IPM italiani a superare i limiti di capienza. A Firenze, l’Ipm Meucci, con 17 posti a disposizione ha registrato nell’ultimo anno una media di 20 reclusi con punte fino a 27 (tasso di sovraffollamento del 160%). “Una situazione mai vista prima - spiega Alessio Scandurra, responsabile Osservatorio carcere dell’Associazione Antigone - si è dovuti ricorrere all’acquisto di brande per ospitare i ragazzi. Senza contare che non bastano più educatori, pedagoghi e altre figure simili”. Il “turning point” spiegano gli esperti arriva nel settembre 2023, con l’approvazione del c.d. “Decreto Caivano”, varato dal governo dopo alcuni gravi fatti di cronaca che hanno avuto per protagonisti minori. L’effetto carcero-centrico, spiega Sofia Ciuffoletti, presidentessa associazione L’Altrodirito - è dovuto sia all’aumento delle pene per fatti di lieve entità che ha portato all’aumento del ricorso alla detenzione cautelare, ma soprattutto all’abolizione della ‘messa alla prova’ per alcuni reati, come la violenza sessuale, in cui percorsi di educazione e recupero “in società” sono essenziali per impedire la recidiva. Una situazione che è destinata a peggiorare con il “decreto sicurezza” (dl 1660). “Questo a causa - spiega Marco Solimano, responsabile Arci per le persone private della libertà - per l’inasprimento delle pene per alcuni reati e alcune norme specifiche. Ad esempio la c.d. norma ‘anti borseggiatrici rom’ che riporterà donne incinte e con bambini piccoli in carcere; o il reato di ‘rivolta penitenziaria’ che priva i detenuti dei mezzi pacifici per esprimere dissenso e protesta contro le condizioni carcerarie”. In generale, con l’approvazione del decreto Caivano, si è assistito ad un ribaltamento dei principi e delle logiche della giustizia minorile: “Prima anche in casi di fatti gravi l’obiettivo era l’educazione del minore come persone e il suo reinserimento in società e si puntava a scongiurare la loro permanenza in carcere” spiega Vincenzo Scalia, docente di Sociologia della devianza all’Università di Firenze: “Adesso la soluzione alla questione minorile è il carcere, ma questo comporta la rescissione dei legami familiari, lo stigma sociale, e una marginalità che alla fine delle pena avrà creato nei fatti un nuovo criminale”. L’Aquila. Patronato gratuito Uil in favore dei detenuti Il Centro, 3 dicembre 2024 In Abruzzo ci si appresta a varare il patronato gratuito in favore dei detenuti per iniziativa del sindacato Uil. “In attesa dell’avvento del garante dei detenuti”, si legge in una nota dei promotori dell’iniziativa, “la cui elezione, da parte della Regione Abruzzo, sembra essere in dirittura di arrivo, la Uil Abruzzo, attraverso il prezioso contributo dell’Ital-Uil, si metterà a disposizione dei detenuti fornendo loro servizi di patronato del tutto gratuiti”. “Tale importante realtà, coordinata dal responsabile dell’Ital-Uil Abruzzo Lucio Giancola, avrà il merito”, afferma il vicesegretario regionale del sindacato Uil Penitenziari Abruzzo Mauro Nardella, “di fornire assistenza in campo previdenziale, assistenziale, fiscale e sindacale nei confronti di chi sino ad oggi ha vissuto marginalmente il rapporto con il diritto del lavoro e non solo”. Obiettivo del progetto, che ha trovato il supporto da parte del segretario della Uil Abruzzo Roberto Campo e dalla Uil Penitenziari, è quello di garantire ad ogni livello sociale “pari dignità e diritti attraverso l’attivazione di una rete istituzionale e sociale che possa realizzare e promuovere la cultura della legalità”. “Attraverso la professionalità degli operatori della Uil”, prosegue la nota, “i detenuti riceveranno le risposte alle numerose domande su pensioni, contributi, ammortizzatori sociali, infortuni e malattie professionali oltre che per le disabilità”. “I lavori per la predisposizione di quest’importantissimo protocollo d’intesa tra la Uil e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria”, aggiunge ancora Nardella, “sono cominciati esattamente un anno fa. L’8 luglio scorso c’è stato il varo con la firma della convenzione con la Casa di Reclusione di Sulmona, il quinto carcere ad avvalersi di ciò dopo quelli di Pescara, Lanciano, Chieti e Vasto. Seguiranno certamente convenzioni con le restanti istituzioni penitenziarie”. “La Uil”, afferma in conclusione il sindacalista, “contribuirà a fonire supporto alla preziosa opera di tutti gli operatori penitenziari volta al reinserimento sociale del detenuto. Il tutto con la speranza che, attraverso questo supporto, chi ne usufruirà possa capire che di legalità si vive, di criminalità si muore”. Lecce. “Libera le tue idee”, progetto dell’UniSalento per i detenuti della Casa circondariale ilgrandesalento.it, 3 dicembre 2024 È ufficialmente iniziato “Libera le tue idee”, il nuovo progetto promosso dall’Università del Salento, che si propone di offrire un’opportunità concreta di riflessione e reinserimento sociale ai detenuti e alle detenute della Casa Circondariale di Lecce. Presentato la scorsa settimana durante un incontro con i partecipanti, il progetto mira a trasformare idee imprenditoriali in strumenti di riscatto personale e professionale. Rivolto a chi sta scontando una pena detentiva, il progetto invita i partecipanti a immaginare e descrivere una propria idea imprenditoriale, da sviluppare una volta usciti dal carcere. Fino a Natale, i detenuti e le detenute potranno lavorare sulle loro proposte, che saranno esaminate da un team di esperti nominato dall’Università del Salento. Le idee raccolte saranno corrette, integrate e pubblicate in una raccolta dedicata, che riceverà ampia diffusione. Inoltre, le migliori proposte saranno premiate e supportate attraverso consulenze offerte da imprese private sensibili al tema della responsabilità sociale. L’obiettivo è duplice: favorire la progettualità personale e stimolare percorsi di reinserimento sociale che restituiscano fiducia e dignità alle persone coinvolte. “Libera le tue idee” rappresenta un’iniziativa innovativa e di alto valore sociale, di cui l’Università del Salento si dichiara profondamente orgogliosa. “Questo progetto - ha dichiarato il rettore dell’UniSalento Fabio Pollice - è un chiaro esempio del ruolo che l’università deve avere nel territorio: non solo un luogo di formazione e ricerca, ma anche un’istituzione capace di rispondere ai bisogni della comunità e di offrire opportunità di crescita e riscatto. Crediamo fermamente che la cultura possa essere una chiave di trasformazione e cambiamento. Con “Libera le tue idee” vogliamo offrire a queste persone uno strumento per guardare al futuro con speranza e per costruire una strada di reinserimento nella società”. La delegata del rettore ai Poli Penitenziari Universitari, Marta Vignola, ha aggiunto: “Il progetto “Libera le tue idee” si propone di incentivare i detenuti della Casa Circondariale di Lecce a guardare oltre il periodo di detenzione, stimolandoli a sviluppare e “liberare” le proprie idee imprenditoriali. I vincitori riceveranno un percorso di formazione e consulenza volto a trasformare le loro idee in progetti imprenditoriali concreti, contribuendo così al loro reinserimento nella società una volta concluso il periodo di detenzione”. Palermo. L’università entra in carcere e aiuta i detenuti a riconoscere la loro identità di Gilda Sciortino vita.it, 3 dicembre 2024 Possono dodici docenti di diversi dipartimenti universitari, uno studente e undici studentesse palermitane confrontarsi con nove studenti “ristretti”, cioè ospiti nello specifico del carcere palermitano dell’Ucciardone, e dare vita a un’esperienza capace di rendere concreto il dirtto allo studio? Il libro “Identità in movimento” racconta il successo di un percorso, guidato dalla professoressa associata di Filosofia del diritto dell’Università di Palermo, Alessandra Sciurba. Che il diritto allo studio sia un diritto fondamentale, universalmente garantito, non ci sono dubbi, in qualsiasi condizione si sia. Non è, però, così scontato all’interno delle mura di un carcere, dove si animano percorsi di vita che di questo diritto non hanno mai avuto la fortuna di goderne. Ecco perchè la prima esperienza di corso universitario misto a Palermo, che ha coinvolto studenti “ristretti” e studenti e studentesse “libere” nella Casa di reclusione maschile “Ucciardone” di Palermo ha un valore indiscutibile. Ancor di più avendo portato alla realizzazione del libro dal titolo “Identità in movimento”, vero e proprio diario di un’esperienza didattica servita non solo ai detenuti per ritrovare quell’identità che la struttura penitenziaria rende uniforme e tende ad appiattire, ma anche a chi nel carcere e dal carcere ha la possibilità di muoversi. Un’esperienza che si è concretizzata in un ciclo di seminari che che ha coinvolto dodici professori e professoresse dell’Ateneo del capoluogo siciliano, afferenti a sette diversi dipartimenti, nove studentesse e uno studente iscritti a vari corsi di laurea dello stesso ateneo che, da non ristretti, hanno scelto questa proposta tra quelle per l’acquisizione delle cosiddette competenze trasversali, e nove uomini tra le persone detenute all’Ucciardone. Undici gli appuntamenti di tre ore ciascuno, durante i quali il gruppo ha lavorato in una grande aula della Quinta sezione della Casa di reclusione, quella dedicata alle attività didattiche, all’interno della quale, in assetto circolare, il tema dell’identità “in movimento” è stato declinato secondo le diverse prospettive disciplinari cui di volta in volta era destinato il seminario della giornata. A dimostrarlo proprio le riflessioni messe su carta di quanti sono stati coinvolti e per i quali le aspettative iniziali erano sicuramente diverse da quanto si sono ritrovati a vivere. Come per Domenico, sentendosi piccolo piccolo in un contesto fuori dalla sua portata: “Direttori, comandante, funzionari veri, studenti universitari, docenti, mancavano solo amici e parenti”, scrive. “Un’emozione contenuta da una gioia esagerata. La gratitudine è il pagamento dell’uomo povero. Io, grazie a voi, “non” mi sono sentito diversamente libero”. Analogo stupore quello di Luna, una delle studentesse “non ristrette”: “Nella mia mente lo scenario che mi aspettavo era dipinto con colori scuri e tristi e si presentava come un ambiente soffocante. Poi ho finalmente varcato la soglia e lì il panorama, questa volta quello realmente esperito, si è riempito di chiavi, cancelli, divise, comandi, rigidità, visibile persino dalle rughe sulla fronte delle guardie penitenziarie, ma anche di alberi secolari, architettura antica e verde”. “Garantire il diritto allo studio nelle carceri è un dovere”, afferma Alessandra Sciurba, curatrice del libro, ma anche anima e cuore di questo progetto, svoltosi dal 2 maggio al 12 giugno del 2023 e in via di ripartenza, “ed è indispensabile per costruire percorsi di senso anche nei contesti in cui è più difficile immaginare il futuro. È chiaro che è più difficile esercitarlo quando ci sono determinati livelli di detenzione. Le difficoltà sono tante, per esempio avere i permessi e uscire non è così semplice. L’università è davvero ancora un mondo sconosciuto. Basti pensare che, su duemila detenuti tra Pagliarelli e Ucciardone, le due strutture penitenziarie palermitane, solo 9 nel primo e 7 nel secondo si sono iscritti all’università, ma sono molti di più quelli che ne avrebbero i requisiti”. “Per i detenuti che si iscrivono è tutto molto faticoso. È complicatissimo studiare” prosegue Sciurba, “ma anche solo reperire un libro, così come iscriversi a un appello. Quando c’è la famiglia, ecco che subentra il delegato familiare che, però, se non ha alcuna dimestichezza con il sito dell’università può anche sbagliare l’appello. Dovete pensare che stiamo parlando di persone che mai in nessun caso hanno accesso a Internet, quindi si devono affidare ad altri. Sono un grande supporto i tutor universitari per accompagnare allo studio, ma il Polo universitario penitenziario in Sicilia è ancora molto recente e siamo ancora in rodaggio. Noi siamo fortunati perché, all’Ucciardone, abbiamo avuto e continuiamo ad avere la massima disponibilità e collaborazione da parte del direttore, Fabio Prestopino, e di tutto il personale penitenziario. Anche quello del carcere di Pagliarelli, dove il corso è partito durante l’anno che si sta chiudendo. Un supporto non indifferente al lavoro che facciamo anche grazie alla generosità di tutte le colleghe e i colleghi e del personale amministrativo di Unipa”. Una realtà relativamente recente, quella dei Poli, strutture parallele, inglobate dentro le università, che servono per aumentare la realizzazione e rendere effettivo il diritto allo studio dei soggetti “ristretti”. In Sicilia sono stati istituiti nel 2021 con un accordo quadro tra la Regione, il Garante dei diritti dei detenuti, l’Università palermitana, messinese ed ennese, anche se Enna non ha cominciato ancora a lavorare in tale direzione. “Il polo penitenziario palermitano”, tiene a precisare Paola Maggio, delegata del Rettore per i Rapporti con gli Istituti penitenziari, “in questi primi tre anni ha visto un’azione di grande spinta rispetto alle iscrizioni negli istituti di pena dell’Ucciardone e del Pagliarelli, tant’è che complessivamente per il 2023 abbiamo iscritto circa 30 soggetti. In tre anni un ottimo numero se lo paragoniamo con un Comune come Catania dove ci sono credo otto carceri e, quindi, le iscrizioni sono inevitabilmente più numerose, in tutto credo intorno alle 80 unità. La scelta che abbiamo fatto è stata quella di puntare soprattutto alla conclusione dei percorsi di studi. Siamo, infatti, l’unico Polo penitenziario che, a ottobre di quest’anno, ha laureato in Architettura il primo “ristretto”, con enorme gioia di tutti, nessuno escluso”. “Abbiamo deciso, fin dall’inizio, di abbattere completamente l’idea della didattica frontale-nozionistica. Questa è una cosa che io cerco di fare normalmente anche all’università”, dice ancora Alessandra Sciurba, “perché siamo ancorati a un’idea depositaria di educazione, come se le persone che abbiamo davanti fossero vuoti da riempire. Invece sono persone che hanno una pienezza che in molti casi è come un forziere che si apre e rivela enormi ricchezze”. “Abbiamo sempre lavorato con il cerchio. In carcere ha funzionato ancor di più. Il cerchio è uno spazio protetto che crea immediatamente una comunità. Si compone con un rito e solo con un altro rito di deve spezzare. Sin dall’inizio è stato luogo di evasione mentale in un posto fatto di muri, dove siamo riusciti a costruire uno spazio di libertà circolare. Questo concetto è stato assimilato e fatto proprio anche dalle persone “ristrette”. Forse questa enorme energia è andata in circolo e, per la seconda edizione del progetto, le domande si sono quadruplicate. “Spazio e tempo” il tema su cui lavoreremo quest’anno. Credo che avremo grandi risultati”. Non è facile nè scontato che percorsi del genere si concludano con risultati tangibili che non sono quelli della mera pubblicazione di un libro. Basta leggere i pensieri, le riflessioni, i messaggi che ogni detenuto ha lasciato a fine percorso. Ma anche quelli delle studentesse, entrate in carcere a vivere un’esperienza utile alla loro formazione e uscite con un bagaglio umano che trova senso e fondamento solo nel senso di condivisione. “Ho imparato che non bisogna avere tanti pregiudizi”, sottolinea Nizar, “e rispettare tutta la gente che ci sta intorno. Ho apprezzato come comunicare con le persone senza fare differenza di etnia. Tutti i miei compagni non mi hanno fatto sentire nessuna differenza. Ho provato tante emozioni vedendo ognuno di loro esprimere le proprie emozioni e i loro pensieri sinceri”. “Tanti i pregiudizi che avevo. Non vedevo la realtà”, scrive Nadia, rivolgendosi ai compagni che, alla fine della giornata, non avrebbero avuto la possibilità di uscire e tornare dalla propria famiglia, “ma la mia interpretazione della realtà. Ho sempre pensato che esistesse solo la parola “reato”, e poi ho pensato di “andare oltre la mia ombra”. Così, senza aspettative, ho iniziato questo percorso. Pensavo che disturbaste le mie confortevoli certezze. Avevo un modo diverso di guardare, ho cercato di avere cura di me stessa, altrimenti non avrei potuto relazionarmi con voi. Quando sono entrata in carcere, dopo un’ora, ho dimenticato dove fossi. Vi ho ascoltato, osservato, riconoscendo che davanti a me avevo persone, soggetti pari a me, con diritti (alla vita, all’eguaglianza, all’istruzione), con una dignità e una propria identità”. Spoleto (Pg). Il carcere meno sovraffollato d’Italia, ma anche qui mancano i diritti umani di Gabriele Beccari umbria24.it, 3 dicembre 2024 Il libro “La società dell’insicurezza”, tesi di laurea triennale di Ilaria Bertinelli, racconta la pesante situazione delle carceri italiane. “Quasi nessun istituto rispetta i diritti di base”. La drammatica situazione degli istituti penitenziari italiani è stata al centro dell’evento di presentazione del libro ‘La società dell’insicurezza’, edito dalla casa editrice perugina Cronache ribelli, organizzato nello spazio comune ‘Cult’ di via Goldoni. L’incontro ha permesso la discussione sulle criticità del sistema carcerario e del crescente potere repressivo esercitato sulle classi sociali più vulnerabili. La serata, arricchita da una mostra di lavori realizzati dai detenuti del carcere di Capanne, ha visto interventi sui diritti negati ai carcerati e sull’urgenza di una riforma. I fondi raccolti dalla vendita del libro saranno destinati ad un premio di laurea dedicato alla memoria di Ilaria Bertinelli. Il libro è tratto dalla tesi di laurea triennale di Ilaria Bertinelli, 29enne di Bastia umbra morta in un tragico incidente d’auto nel marzo di quest’anno, con il contribuito di Monia Andreani, docente dell’Università per stranieri di Perugia e relatrice di Bertinelli, anche lei scomparsa prematuramente nel 2019. Nel volume, si affronta la difficile situazione delle carceri italiane, con postfazione di Ilaria Cucchi. “Dice bene Ilaria Cucchi, Stefano Cucchi non è morto per le botte prese - ha detto Salvatore Cingari, docente di Unistra e relatore successivo di Bertinelli - ma per coloro che dovevano prendersene cura e non lo hanno fatto. La realtà delle carceri italiane è terrificante: i detenuti vengono picchiati, ci sono i topi e insetti dove dormono, piove dentro le strutture. Questi sono reati gravissimi contro la persona”. La situazione carceraria Gli istituti penitenziari italiani si trovano, secondo i dati, in un quadro generale alquanto spinoso causa sovraffollamenti, disservizi, carenze sanitarie e strutturali, violenze che molte volte provocano esiti tragici. Non ultimo il caso del 37enne morto nella sua cella del carcere di Capanne il 19 novembre e la conseguente protesta degli altri detenuti per i presunti ritardi nei soccorsi. Secondo il report dell’Osservatorio di sicurezza del Cafisc, al 30 giugno 2024 i detenuti presenti nelle strutture carcerarie italiane sono 61.448 a fronte di 47.067 posti regolarmente disponibili, con un sovraffollamento del 130,59 percento. “Quasi nessun carcere italiano - sottolinea Tommaso Ciurnelli del progetto Eleutheria - rispetta l’articolo 3 della Convenzione dei diritti umani, dove è stabilito uno spazio di almeno 3,5 mq in cella per detenuto e 6 ore di aria al giorno. Inoltre, da inizio anno al 20 giugno 2024 si sono verificati ben 44 nuovi casi di suicidio, 10 in più rispetto al 2023”. In Umbria, è il carcere di Spoleto a confermarsi come il meno affollato d’Italia, con 556 detenuti a fronte di 456 posti regolamentari e ‘solo’ il 124 percento di sovraffollamento. Per quanto riguarda la situazione dei suicidi, invece, nel carcero spoletino se ne sarebbero verificati 5 in 5 anni. Il più affollato della regione, invece, è l’istituto di Capanne di Perugia, con 461 detenuti a fronte di 363 posti disponibili, che scendono a 321 data la mancata attivazione del reparto Servizio di assistenza intensificato. “Il testo - continua Cingari - ha come obiettivo quello di spiegare come la società attuale, che attraverso pochi elitari monopolizza la forza e alimenta come conseguenza le paure, produca marginalità, leda i diritti umani e non risolva i problemi delle classi più infime, ma anzi le criminalizza”. Tuttavia, le alternative ci sarebbero. Ed è proprio di questo che si occupa il progetto Eleutheria. Nato con l’appoggio dell’associazione no profit perugina ‘Nel nome del rispetto’, ha come principale obbiettivo la rieducazione e il reinserimento dei detenuti. Carcerati e carcerate vengono coinvolti in laboratori di scrittura creativa, pittura e momenti di riflessione, dove i temi principali sono la loro situazione di marginalità e il tempo. “L’obbiettivo - spiega ancora Ciurnelli - è dare una voce e un volto a chi non ce l’ha. Ancora prima di sapere il loro nome, vengono etichettati con il loro crimine. Queste persone sono isolate dalla realtà esterna e ciò non permette una sana reintroduzione nella società. Inoltre, le detenute non hanno un servizio ginecologico, i problemi di tossicodipendenza non vengono curati adeguatamente, ci sono casi di autolesionismo e tentato suicidio” ha concluso. Molfetta (Ba). Caritas, oggi un incontro su dignità umana e reintegrazione sociale dei detenuti agensir.it, 3 dicembre 2024 Martedì 3 dicembre, alle ore 16.30, presso la basilica Madonna dei Martiri a Molfetta, la Caritas diocesana di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, in collaborazione con il Consiglio regionale della Puglia e l’Ordine degli assistenti sociali, promuove un incontro dal titolo: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (art. 27 della Costituzione Italiana). Un momento di riflessione sul ruolo centrale della dignità umana nel contesto penitenziario e sulle sfide legate alla reintegrazione sociale dei detenuti. L’evento sarà aperto dai saluti istituzionali di don Cesare Pisani, direttore della Caritas diocesana, di Lidia De Leonardis, dirigente del servizio sociale di Molfetta, e di Milena Matera, presidente del Croas Puglia. Seguiranno gli interventi di Gherardo Colombo, ex magistrato e presidente della Cassa delle Ammende, che approfondirà il ruolo della giustizia nell’umanizzazione delle pene; Piero Rossi, garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che offrirà una panoramica sulle condizioni attuali delle carceri. Ancora don Franco Esposito, direttore della pastorale carceraria della diocesi di Napoli, porterà la sua esperienza nell’ambito della cura pastorale dei detenuti, mentre Mirella Malcangi, esperta di servizio sociale ed ex direttore dell’Uepe di Foggia, discuterà delle sfide del reinserimento sociale. Alessandra Susca, giudice del Tribunale penale di Bari, ed Edgardo Bisceglia, vicedirettore della Caritas diocesana, completeranno il quadro con ulteriori spunti di riflessione. Il dibattito sarà moderato da Piero Ricci, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Puglia. L’incontro, organizzato con la partecipazione di Caritas Italiana, è in fase di accreditamento presso il Croas Puglia. Un’occasione di grande valore per comprendere meglio come giustizia e umanità possano convivere e per proporre un dialogo costruttivo sulle possibilità di riforma e di reintegrazione nel sistema penitenziario. Migranti. Il caso Albania arriva in Cassazione. La richiesta: sospendete il giudizio di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 dicembre 2024 La Procura generale propone di attendere il verdetto della Corte di giustizia Ue. Meglio aspettare un giudizio “superiore” anziché decidere con il rischio di essere successivamente smentiti. A questa conclusione è giunta la Procura generale della Corte di cassazione in vista dell’udienza di domani al “palazzaccio” di piazza Cavour, davanti ai giudici della prima Sezione civile, sulla questione dei cosiddetti “Paesi sicuri” dove rispedire i migranti sbarcati irregolarmente in Italia. Della quale altri magistrati hanno già investito la Cgue, vale a dire la Corte di Giustizia dell’Unione europea con sede a Lussemburgo. Di qui la richiesta dei sostituti procuratori generali Luisa De Renzis e Anna Maria Soldi, sintetizzata nelle ultime righe della requisitoria depositata agli atti: “Voler sospendere il presente giudizio sino all’esito del procedimento pendente dinanzi alla Cgue”. Tutto è cominciato un mese e mezzo fa, quando la Sezione immigrazione del tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento nel Centro di permanenza albanese di otto migranti provenienti da Bangladesh ed Egitto, “in applicazione dei principi vincolanti enunciati dalla recente pronuncia della Cgue del 4 ottobre 2024”. Un provvedimento, quello dei giudici romani, contestato da governo e maggioranza, prima con gli sferzanti commenti della premier Giorgia Meloni e dei suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani nei confronti dei magistrati accusati di fare opposizione politica, e poi con il ricorso in Cassazione da parte del ministero dell’Interno. Secondo l’Avvocatura dello Stato, che s’è mossa per conto del Viminale, il tribunale aveva interpretato in maniera non corretta sia le norme europee che quelle nazionali, alla luce di una sentenza (proprio quella del 4 ottobre della Corte di Lussemburgo) che non si poteva applicare ai casi in esame. La Cgue, infatti, aveva preso in considerazione “porzioni di territorio” di un Paese (nello specifico la Moldavia) per considerarlo non sicuro, mentre i giudici di Roma (come altri di altre città avevano già fatto prima) hanno esteso quella distinzione anche ad alcune categorie di persone: se c’è il rischio di subire trattamenti persecutori per ragioni politiche, religiose, sessuali o altro, quel Paese (compresi Bangladesh e Egitto, a differenza di quanto sostenuto dal governo italiano) non può essere ritenuto sicuro; si deve valutare la situazione di ogni richiedente asilo e quindi non si può applicare la procedura accelerata di rimpatrio. Su questa interpretazione è chiamata a decidere la Cassazione, e in vista dell’udienza di domani - dove prenderanno la parola anche gli avvocati dello Stato e dei migranti coinvolti nella vicenda, rientrati in Italia dopo il decreto del tribunale - la Procura generale ha detto la sua. Prendendo una posizione interlocutoria: aspettiamo prima di decidere. Sostiene infatti l’ufficio dei pubblici ministeri che la sentenza del 4 ottobre non esclude, ma nemmeno dà per scontata, “una sostanziale equiparazione tra l’insicurezza geografica e quella per categorie soggettive”. Tuttavia “le eccezioni personali (o meglio per categorie di persone) non hanno formato oggetto specifico della decisione della Cgue, e non sono state ancora compiutamente esaminate quanto alla loro incidenza sulla nozione di Paese sicuro”. Vero è che la sentenza del 4 ottobre ribadisce che la designazione di Paese sicuro dipende “dalla possibilità che non ci siano generalmente e costantemente persecuzioni” discriminanti, “né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano e degradante”, ma “l’automatica trasposizione alle eccezioni con categorie di persone non appare interpretazione convincente”. Tanto più con le richieste sull’estensione delle riserve “territoriali” a quelle “soggettive” ancora pendenti. Di qui il suggerimento di una sospensione che, nella disputa trasformatasi da complessa questione giuridica in conflittualità politica, non darebbe torto né ai giudici di Roma né al governo. Almeno fino alla decisione che sarà presa a Lussemburgo. Migranti. Albania in Cassazione. Per la procura le cause vanno tutte fermate di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 dicembre 2024 Domani l’udienza sui ricorsi del Viminale contro le non convalide dei primi trasferimenti. “Bisogna attendere la decisione della Corte Ue”. In Lussemburgo si dibatte dei rinvii pregiudiziali il 25 febbraio. Sentenza attesa per la primavera. Sospendere il giudizio in attesa della decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea. È questa la richiesta avanzata dalla procura generale della Cassazione rispetto ai ricorsi di Viminale e questura di Roma contro le non convalide dei trattenimenti in Albania decise dal tribunale capitolino a metà ottobre. L’udienza si terrà domani alle 10 davanti alla prima sezione civile, dove finiscono le cause che riguardano l’immigrazione. Difficilmente la decisione arriverà lo stesso giorno. I procedimenti nascono dai primi trasferimenti nei centri di Shengjin e Gjader e sono stati accorpati al rinvio del tribunale civile di Roma dello scorso luglio sul potere dei magistrati di controllare d’ufficio la classificazione governativa dei “paesi di origine sicuri”. In pratica è stato chiesto se è legittimo che la magistratura valuti, indipendentemente dalle dichiarazioni dei migranti, se quella definizione rispetta la normativa Ue. In entrambi i casi era in vigore il decreto interministeriale - di Esteri, Interni, Giustizia - contenente la lista degli Stati considerati “sicuri” dall’Italia. Le cose sono cambiate con il decreto legge, norma di rango primario a differenza della precedente, varato il 23 ottobre e poi confluito nel dl flussi che tra il 3 e il 5 dicembre sarà convertito dal Senato. Su questo provvedimento i tribunali di Bologna, Roma e Palermo hanno disposto dei rinvii pregiudiziali alla Corte del Lussemburgo. Sebbene il riferimento normativo della causa in Cassazione sia quindi diverso da quello delle domande pendenti davanti ai giudici europei la materia è la stessa. Da qui la richiesta della procura generale. Nelle sue motivazioni questa ha di fatto ripreso le posizioni del ministero degli Interni. Vertono su due argomenti. Il primo è che la ormai nota sentenza della Corte Ue datata 4 ottobre, base delle decisioni del tribunale di Roma, afferma che non sono “sicuri” i paesi in cui esistono eccezioni per porzioni di territorio ma non dice nulla sull’esclusione di categorie di persone. Ovvero sul fatto che nelle schede relative ai singoli Stati è specificato che la presunzione di sicurezza non può applicarsi a determinati gruppi sociali: oppositori politici, persone lgbtqia+, giornalisti, avvocati e altri. Per questo il ragionamento dei giudici capitolini non sarebbe “convincente”. Non avrebbero dovuto estendere alle eccezioni per gruppi sociali una sentenza che riguarda soltanto le esclusioni territoriali. L’altro punto, collegato, è che i cittadini originari di Bangladesh, Egitto, Tunisia e degli altri “paesi sicuri” dovrebbero dimostrare singolarmente la loro appartenenza a una delle categorie per cui permangono situazioni di pericolo. Questo punto potrebbe risultare controverso perché se è vero che anche una persona in possesso della cittadinanza di uno degli Stati presenti nella lista governativa può vedersi negato l’asilo nel caso in cui la sua condizione soggettiva non ponga rischi per un eventuale rimpatrio, è anche vero che le non convalide dei trattenimenti in Albania si pongono su piano diverso. Ovvero quello del tipo di procedura da applicare per l’esame della domanda di protezione. Se il paese è “sicuro” l’iter è quello “accelerato di frontiera” che prevede, oltre a un esame rapido della richiesta d’asilo che comunque presenta vari problemi per l’effettività del diritto di difesa, la privazione della libertà personale fino alla decisione del giudice. Si tratta quindi di un presupposto generale rispetto alla procedura da applicare che non ha nulla a che fare con l’esito concreto della singola domanda. Questo può essere in ogni caso positivo per il richiedente, con il riconoscimento della protezione, oppure negativo, con il diniego e l’ordine di rimpatrio. Domani la Cassazione potrà entrare nel merito della questione oppure sospendere in attesa delle decisioni dei giudici europei. In questo secondo caso dai centri di Shengjin e Gjader non transiterà nessuno per qualche mese. I giudici del Lussemburgo hanno disposto l’applicazione dell’iter accelerato per due procedimenti rinviati dal tribunale di Roma, mentre ha sospeso tutti gli altri. L’udienza è stata fissata al 25 febbraio. La sentenza dovrebbe arrivare durante la prossima primavera e segnerà il futuro del progetto Albania. Meloni insiste: il modello funziona - “L’Albania funzionerà, non prendo impegni che non ritengo di non poter mantenere. Ci sono delle soluzioni e ci sto lavorando. Il progetto dell’Albania deve funzionare e farò tutto il necessario perché ciò avvenga. Si tratta di un progetto innovativo e non è un caso che sia attenzionato dalla quasi totalità dei Paesi Ue”. Meloni ieri è tornata a insistere sul “modello” messo in piedi con l’amico Edi Rama. “Sapevo che avrei incontrato molti ostacoli - ha aggiunto - che ci sarebbero stati ambienti che non sarebbero stati d’accordo. Ma il progetto andrà avanti”. Migranti. Tirana, le proteste: “Accordo illegale, resistenza globale” di Elisa Brunelli Il Manifesto, 3 dicembre 2024 Due giorni di manifestazioni Italiani con gruppi locali contro l’esternalizzazione delle frontiere: “Rama ci svende”. L’accordo è illegale, la resistenza è globale”. Questo il coro che ha accompagnato le mobilitazioni di domenica e ieri in Albania, promosse dal Network against migrant detention. La rete transnazionale, nata i mesi scorsi durante un’assemblea al centro sociale Labàs di Bologna, coinvolge attivisti e collettivi da diverse parti d’Europa, con un ruolo di primo piano giocato dai gruppi albanesi, che accusano l’accordo tra i due paesi di alimentare la stessa criminalizzazione che i migranti albanesi hanno subito (e continuano a subire) in tutta Europa. Erano una decina, il 16 ottobre scorso, a radunarsi di fronte l’hotspot di Shenjin, per protestare contro l’arrivo della nave della marina militare italiana Libra con i primi migranti da Egitto e Bangladesh. Questa volta, grazie alla nutrita presenza italiana, compreso il fumettista Zerocalcare e altre delegazioni europee, sono tornati in più di 200. “La vostra presenza ci dà la forza per continuare a lottare e dà speranza a chi, ogni giorno, viene rinchiuso nei centri di detenzione” ha sottolineato Edison, del collettivo albanese Mesdhe, rivolgendosi agli attivisti italiani. “Siamo noi l’amicizia storica italo-albanese, non la partnership ai vertici tra Rama e Meloni che ha alzato l’asticella dell’orrore delle politiche migratorie” ha rimarcato Nicoletta di Melting Pot Europa, mentre la manifestazione si spostava lungo la spiaggia di Shenjin, dove è stata creata con dei teli un’enorme scritta “Stop lager”. “L’accordo è sospeso in attesa della Corte di Giustizia Europea, ma non sarà la sua pronuncia a fermare queste politiche - ha aggiunto l’attivista -. Il protocollo Italia-Albania è una sperimentazione del Patto europeo su migrazioni e asilo, basato su detenzione ed esternalizzazione delle frontiere”. La protesta del network si è poi spostata al Cpr di Gjader. A presidiarlo è la Polizia albanese, mentre quella italiana si intravede a malapena tra le altissime sbarre. “Non dimenticheremo mai che quella stessa maggioranza che oggi compone il governo Meloni, fino a ieri tappezzava Milano con i manifesti “un voto alla Lega, un albanese di meno”“ ha denunciato al megafono il consigliere comunale di Bologna, Detjon Begaj, originario di Valona. Proprio in quelle ore dall’Italia, arrivava la reazione della vice capogruppo di Fdi alla Camera, Augusta Montaruli, che ha invocato controlli di Polizia per gli attivisti di ritorno in Italia. Dichiarazioni, quelle di Montaruli “che riassumono il clima intimidatorio e repressivo del governo come dimostra il ddl Sicurezza” hanno ribadito gli attivisti, rilanciando la manifestazione nazionale del 14 dicembre a Roma. Ieri le iniziative sono ripartite da Tirana. In centinaia hanno dato vita a un corteo nel cuore della città. Dopo aver toccato il palazzo del governo, dove gli attivisti albanesi hanno accusato Edi Rama di “svendere il proprio territorio all’Italia mentre migliaia di cittadini vengono rinchiusi e deportati dai centri di tutta Europa”, il corteo è proseguito fino alla sede della Europe House, istituzione finanziata dall’Ue per aumentare la propria visibilità in Albania. Khaled, Khaydar, Ahmed, Youssef, Hassan: sono i nomi pronunciati da Zeno, attivista del collettivo Rotte Balcaniche, per ricordare alcuni giovani morti tra i boschi della Bulgaria. “Se riconosciamo le morti del sistema dei confini, dobbiamo riconoscerne i responsabili, diretti e indiretti. E i responsabili - ha indicato - stanno in palazzi come questo, che sventolano alta la bandiera Ue”. Tappa finale all’ambasciata italiana, dove i manifestanti hanno intonato Bella Ciao: “Questo luogo lavora per difendere gli interessi italiani in Albania. Gli interessi di chi occupa e militarizza i territori, ma anche degli imprenditori”.