Sulle carceri lo Stato italiano è fuorilegge di Luigi Manconi Il Giornale, 31 dicembre 2024 Il sistema penitenziario attuale è un corpaccione enfiato e febbricitante, che va ricondotto a più ragionevoli proporzioni perché vi si possano attuare riforme strutturali. Egregio Direttore, ho molto apprezzato il suo editoriale di venerdì scorso, “Il tabù dell’indulto”. In particolare, l’assunto da cui muove l’intero ragionamento: ovvero la violazione sistematica da parte dello Stato dei “patti sottoscritti con i cittadini che alla voce detenzione prevedono condizioni chiare e inderogabili di dignità e sicurezza sia per i detenuti sia per il sistema carcerario addetto alla loro custodia. Se queste condizioni vengono a mancare in modo grave e continuo, lo Stato si mette sullo stesso piano dei rei, in pratica è uno Stato fuorilegge”. Ecco, questo è il punto cruciale: la persistente condizione di illegalità in cui versa il sistema penitenziario italiano richiede, perché sia sanata, scelte urgenti e radicali. Tutti con la sola eccezione di quel buontempone del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro riconoscono che le carceri si trovano in uno stato di acutissima emergenza. E i 7 suicidi tra i poliziotti penitenziari nel corso del 2024 - più che in ogni altro corpo di polizia - ne sono la più tragica conferma. Ed è proprio questo a esigere provvedimenti altrettanti emergenziali, quali l’amnistia e l’indulto. In un sistema dove l’indice di sovraffollamento ha raggiunto il 135 per cento (il che equivale a una carenza di 15 mila posti), non sono più differibili misure capaci di determinare una drastica deflazione. Il sistema penitenziario attuale è un corpaccione enfiato e febbricitante, che va ricondotto a più ragionevoli proporzioni perché vi si possano attuare riforme strutturali. Ma, nel frattempo, ridurre in misura significativa il numero dei detenuti è una necessità ineludibile. Anche perché, contrariamente a quanto sostenuto dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, tutte le indagini scientifiche mostrano la stretta correlazione tra sovraffollamento e suicidi e atti di autolesionismo. Rispetto a una simile situazione, un provvedimento di clemenza può ripristinare uno stato di relativa normalità e consentire l’avvio di riforme di sistema. I critici dell’amnistia e dell’indulto insistono su due argomenti. Il primo: gli effetti benefici della clemenza “durerebbero non più di tre anni”. Vero. Ma sono proprio quei tre anni a costituire il tempo necessario perché vengano adottate misure di più lungo periodo (per esempio quelle relative alle pene alternative, alla custodia cautelare e alle sanzioni per tossicodipendenti e pazienti psichiatrici). Il secondo: l’indulto “alimenta la recidiva”. Ancora una volta i dati scientifici smentiscono questa tesi. Secondo una ricerca commissionata dal ministero della Giustizia, tra i beneficiari dell’indulto del 2006, degli oltre 27 mila detenuti liberati, il 35 per cento era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato generale che vede intorno al 67 per cento la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la pena in carcere. E secondo un’altra indagine, pubblicata sul Journal of Political Economy, il tasso di recidiva tra i beneficiari dell’indulto del 2006 non supererebbe in realtà il 25 per cento. Dunque, la percentuale di reiterazione del reato viene ridotta, nella peggiore delle ipotesi, di quasi il 50 per cento. Un risultato estremamente positivo. Tenuto conto di tutto questo la proposta di un provvedimento di clemenza appare come strettamente necessaria: non si tratta di una “resa” dello Stato ma, all’opposto, di una previsione costituzionale (art. 79) intesa come atto di politica penale e di clemenza generale, che potrebbe assumere i connotati di una legge di amnistia e di indulto per i reati e i residui pena fino a due anni. In poche settimane, con l’indulto uscirebbero dal carcere circa 16mila detenuti; e con l’amnistia per i reati minori si alleggerirebbero i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e per qualche tempo si eviterebbero nuove carcerazioni per reati minori. Se ho ben capito vanno in questa direzione o non vi si oppongono le parole del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, del presidente del Cnel Renato Brunetta e dello stesso presidente del Senato Ignazio La Russa. Mi auguro che una simile prospettiva sia considerata con la necessaria attenzione da quelle componenti del centrodestra che si ispirano a valori liberali, socialisti, cristiani e garantisti. Grazie dell’attenzione e buone feste. Un nuovo inizio per chi soffre in carcere di Alessandro Bergonzoni La Repubblica, 31 dicembre 2024 Una preghiera laica e un augurio per il nuovo anno. Anni fa lo dissi in uno spettacolo: “Trecentosessantacinque vescovi entrino ogni giorno nelle carceri, non solo il Papa alcune volte, e vedrete come si mangerà meglio, si piangerà tutti, ci si sentirà diversi e sotto osservazione. Nessun abuso in presenza di tali Presenze”. Basterebbe poco, di vescovi ce ne sono tanti in Italia. Più dei nostri ministri incapaci di aprire qualsiasi porta, Santa o laica, a sbarre o del Paradiso. Anzi, solo bramosi di chiuderne fino all’asfissia anche dentro a un cellulare. Non ci si inchini, ossequiosi e meschini, davanti a sua Santità, se si gode, demoniaci, nel veder morire! Proviamo, è un affare non solo di Stato ma di/stante, purtroppo molto lontano da chi amministra le carceri, anzi le lascia al loro destino. Ormai siete circondati, cari giustizialisti imperterriti, punitori dai piedi calpestanti, incalliti. Fatevene una ragione: non si arriva alla giustizia con nuovi torti di legge. Il capello torto, il corpo offeso, la psiche lesa, in nome di una vendetta pretesa e tanto attesa. I con-dannati li fate stare da anni sul chi vive, ma non potete essere voi a decidere chi muore, con l’accidia e il non fare ronfare continuato. Il ministro di Giustizia giorni fa divideva coscienze da governo, chiesa da giustizia, reato da creato, perché come sempre, ogni politico crede che pregare sia una cosa, governare i rei un’altra, amare sia da spiritualisti, da deboli (lo abbiamo già sentito per la Pace, migliaia di bambini bombardati fa), usare il pugno di ferro sia l’unica risposta alla domanda di indulgenza, di “amnistia amniotica” che potrebbe far rinascere nuove esseri, non sempre suicidi, e quest’anno sono stati troppi. Non continuate ad “abortire” ciò che voi credete fetenti feti nella pancia del carcere, voi che dite che uccidere in ogni grembo è crimine contro l’umanità. E quegli 89 allora, come li definiamo dopo averli indotti a togliersi dalla vita sacra? Il ministro sembra sottolineare: ad ognuno il suo “mestiere”. Ancora, senza capire che tutto c’entra con tutto e tutti con ognuno: le carceri, che nel mondo opprimono e sopprimono giornalisti, opinioni, idee e proteste, e che noi detestiamo in nome della democrazia e della libertà (di stampa, di manifestare, di protestare come forma d’amore), hanno ed avranno sempre a che fare anche con le nostre galere non di regime, ma pur sempre di “reprime”. Basta la legge anti-Gandhi, per capire come voler far maggiormente soffrire e torturare. Basta vedere in quanti sono in una cella italiana, per intuire vagamente una dittatura qualsivoglia o iraniana (e so bene le differenze di contesto, ma proprio per questo non capisco chi non comprende le anomale somiglianze pur nella differenza). Facciamo che tra chi detiene il potere, di punire e vessare, e i rei, nasca una figura che “detiene” un nuovo primato: far finire al più presto questa moria! E record sia, in questa nuova antica disciplina sportiva, ben più importante di tanti benedetti agonismi da pallone o da pallina: qui si tratta di agonie. Avanti “atleti di vita”, fateci vedere come vincere senza p’odio… Inauguriamo un nuovo “hanno”. Hanno bisogno, tutti i “cittadini” detenuti, di essere trattati come salvabili salvati e non solo irrecuperabili accusati, o peggio ancora solo imputati abusati in attesa di pregiudizio. Hanno bisogno della loro famiglia, ma non a miglia e miglia di distanza (disimpariamo dagli inventori dei porti più lontani, perché anche in galera non vanno spediti chissà dove, per deterrenza, con crudeltà, solitudini e sradicamento). Hanno bisogno di amore incondizionato cioè senza condizionale, per passar a “guarito” da “malato”. Hanno il diritto di leggere la Bibbia chi ci crede, o altri testi sacri, non solo di subire una qualsiasi Rebibbia… Hanno la possibilità di redimersi in condizioni favorevoli, pur dovendo espiare una pena (e non entro più nel merito di tutta quella letteratura, per molti ancora lettera morta, che racconta dell’alternativo, del possibile, sostituivo, migliorativo comprovato). Hanno sete di clemenza, di perdono riabilitativo, di pazienza, di comprensione, per capire ciò che hanno inflitto ad altri, senza che per questo venga inflitto anche a loro da uno stato di “rovescio” Hanno bisogno della nostra rivolta fuori, di noi che possiamo ri voltarci e vederli finalmente, senza aumentare gli anni di pena: noi lo possiamo fare. Hanno fame della nostra presenza dentro. Della vita di tutti i giorni, prima che un’altra morte obbligatoria un giorno ritorni. Buon “hanno” allora, e buone teste Di quelli che possono fare molto, usandole diversamente. Buone teste, non più ormai quelle strette fino alla fine da un lenzuolo o quelle manganellate da pochi ma (non) buoni, che loro sì, anti Gandhi per antonomasia, reprimono a loro discrezione, perché gli è permesso e concesso da ogni amministrazione che si sia succeduta fino ad adesso. Buona nuova ora. Purché sia ora! Dopo aver detto che era ora. Ma soprattutto che adesso è. Quando a Nordio piacevano Pannella e l’amnistia di Angela Stella L’Unità, 31 dicembre 2024 Bilancio a conclusione di questo anno: cosa ha fatto il ministro della Giustizia per le carceri? Nulla, e dire che prima di essere Guardasigilli si professava vicino al pensiero radicale. Sicuramente il ministro della Giustizia Carlo Nordio stasera potrà brindare per aver abrogato quest’anno il reato di abuso d’ufficio e per essere riuscito ad incardinare nell’aula della Camera il suo ddl costituzionale per la separazione delle carriere, dichiarando così guerra all’Anm. Ma di certo non potrà alzare il calice se prende atto di quello che non ha fatto per le carceri. Il suo 2024 è stato caratterizzato da una serie di interviste in cui ha offerto diversi annunci che non si sono mai trasformati in qualcosa di concreto. Marzo, intervista a Il Foglio: “Occorre trovare rapidamente strutture simili a quelle carcerarie”, “essenziali per la rieducazione del detenuto”. Caserme dismesse? “Ci stiamo provando”. Aprile, intervista ad Avvenire: “Il problema carcerario per me è una assoluta priorità”. Giugno, intervista al Sole24Ore: “Stiamo lavorando sulla possibilità di far scontare la pena agli stranieri nei loro Paesi d’origine”, “stiamo studiando misure alternative per i detenuti tossicodipendenti”, “stiamo lavorando per mettere in campo ogni possibile azione di prevenzione dei suicidi in carcere”. Luglio, intervista a Il Dubbio: “per i detenuti tossicodipendenti stiamo lavorando molto per una riforma alternativa di esecuzione della pena”. Agosto, intervista al Corriere della Sera: “Carceri. Ho un piano. Ne parlerò al Quirinale”. “Stiamo lavorando notte e giorno”. L’ultima è quella del 28 dicembre a Libero dove ha cantato il solito ritornello: “Stiamo lavorando” a “forme di detenzione domiciliare per i tossicodipendenti”; “ci stiamo indirizzando” per “creare condomini” per far scontare gli arresti agli stranieri senza domicilio; “stiamo siglando accordi” con altri Paesi; mentre il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria “sta ultimando il progetto”. Dunque l’ennesimo profluvio di gerundi, un nulla di fatto in tema di esecuzione penale. Quando Marco Pannella chiedeva ai compagni del Partito radicale se avessero concluso una determinata attività e qualcuno rispondeva “la stiamo facendo”, col suo vocione inimitabile rispondeva: “allora non state facendo nulla!”. Aveva abolito il gerundio a via di Torre Argentina. Mentre nel vocabolario del Guardasigilli quel modo verbale è espressione abituale ma simbolo di pubblicità ingannevole per le politiche inefficaci del suo Ministero. Oltre a questo c’è da registrare una involuzione di Nordio in tema di atti di clemenza. Sempre nell’ultima intervista ha bocciato l’indulto e l’amnistia chiesti dal Papa, che sarebbero “segni di debolezza” dello Stato. Eppure, prima di essere nominato numero uno della Giustizia del governo Meloni, la pensava diversamente. Nel 2013 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano inviò un messaggio alle Camere, denunciando il degrado delle nostre carceri e invocando provvedimenti di indulto e amnistia. Intervistato da Radio Radicale, l’allora procuratore aggiunto Carlo Nordio giudicò “opportuno” quanto detto e condivise il fatto che “lo stato delle carceri ormai è intollerabile”. C’erano 64.758 detenuti, mentre la capienza regolamentare era di 47.615. Numeri non distanti da quelli attuali: 62.427 reclusi, 51.165 posti regolamentari, con un sovraffollamento del 120%. A questo adesso si aggiunge il numero record di suicidi: 89 persone in custodia dello Stato si sono tolte la vita nel 2024. Eppure, si resta immobili: il carcere è una priorità solo a parole, i suicidi “un fardello di dolore” insondabile dinanzi al quale si alza bandiera bianca. Però, come ci ricorda Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, “di fronte ad una violazione dei diritti umani fondamentali è fatto obbligo da parte dello Stato uscire immediatamente dalla condizione di violazione del diritto”. Tornando all’intervista, Nordio proseguì sostenendo che quello di Napolitano era un “messaggio estremamente degno di attenzione”, mostrando però della sfiducia sul futuro perché “purtroppo in Italia la cultura giustizialista, un po’ giacobina e forcaiola, è dura a morire, non solo tra i magistrati”. Tuttavia lui oggi è diventato il frontman di questa cultura che predomina all’interno del governo e della maggioranza. Alcuni esponenti provano “intima gioia” nel “non far respirare i detenuti”, altri vorrebbero buttare via la chiave, altri non vedono l’ora di riempire le carceri creando nuovi reati e aumentando le pene. In merito ai provvedimenti di clemenza Nordio si disse d’accordo “perché sono in questo momento complementari”. Poi arrivò il 2015 quanto Papa Francesco, in occasione della Giornata della Pace, tornò a chiedere una amnistia per i detenuti. Sempre ai microfoni di Radio Radicale, Nordio disse: “Io sono da sempre, come gli amici di Radio Radicale sanno bene, favorevole ad una amnistia; però lo sono per ragioni politiche e per le ragioni strategiche che a suo tempo sono state indicate dal 2013 dal Presidente Napolitano e da Marco Pannella”. Una amnistia è “inutile e dannosa” “se deve servire a svuotare le carceri perché significa una resa incondizionata dello Stato”. “Sono invece favorevole all’amnistia se essa rappresenta, come dovrebbe rappresentare, l’epilogo o l’inizio di una profonda, radicale trasformazione del nostro sistema penale, un sistema che attualmente è fondato essenzialmente sulla carcerazione, cioè sulla limitazione della libertà personale dietro le sbarre, spesso una pena sproporzionata, spesso inumana, sempre diseducativa, talvolta addirittura, come ha detto giustamente spessissimo Marco Pannella, criminogena. E l’amnistia deve quindi provenire da un atto autonomo della politica non perché è consigliata sia pure per le migliori ragioni cristiane e spirituali” e “neanche per ragioni contingenti”. “Prima arriva secondo me e meglio è” ma “per i fatti che ho detto prima”. Dov’è finito questo Nordio? Ha perso la memoria? Non crediamo. Semplicemente, come spesso accade in politica, si ragiona per convenienza e non per convinzione. Appello ai politici: alzatevi in piedi come il Papa e varate l’amnistia! di Mons. Vincenzo Paglia L’Unità, 31 dicembre 2024 La clemenza sarebbe un segnale forte, politico, umano, verso il mondo delle carceri. Ricordo Giovanni Paolo II, nel discorso al Parlamento italiano. Era il 14 novembre 2002. Le sue parole erano solenne e gravi: “Merita attenzione la situazione delle carceri, nelle quali i detenuti vivono spesso in condizioni di penoso sovraffollamento. Un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena costituirebbe una chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale ricupero in vista di un positivo reinserimento nella società”. (En passant, in quel discorso il Papa si riferì anche “alla crisi delle nascite”, al “declino demografico”, chiedendo “una netta inversione di tendenza”. E siamo ancora qui). Quel passaggio (e tutto il discorso del Papa) suscitò nelle Camere riunite un applauso forte, scrosciante, lungo. Ma poi non seguì nulla di concreto. Sono passati 22 anni. C’è un nuovo Giubileo. Papa Francesco ha spalancato la Porta Santa a Rebibbia, nel carcere romano, ed ha chiesto “apertura” degli animi: “La grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza”. Molto significativo quello che il Papa ha detto poco dopo in una breve conversazione con i giornalisti. “Il carcere è diventato una basilica tra virgolette”, e tanti dei detenuti incontrati “non sono pesci grossi, i pesci grossi hanno la scusa di rimanere fuori. Dobbiamo accompagnare i detenuti e Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. Il Giubileo e l’apertura della Porta Santa in carcere, indicano la strada del cambiamento, interiore ed esteriore. È il momento di dare un segnale di perdono, di comprensione, di misericordia, forma di amnistia o di condono delle pene. Se questo non accade cadiamo nel vuoto delle chiacchiere. Mi ha fatto pensare il fatto che Papa Francesco abbia voluto aprire e attraversare in piedi la porta di Rebibbia; uno sforzo in più rispetto a quella di San Pietro. E se aggiungo anche la riflessione sul fatto che nelle carceri ci sono i “pesci piccoli”, mi chiedo: perché non cogliamo la “forza” del gesto papale a Rebibbia? Perché non proviamo un sussulto in più - alziamoci in piedi anche noi - e chiediamo che ci sia maggiore giustizia e clemenza, effettiva capacità di recupero e riabilitazione sociale! Tanto più che e davvero scarso il ricorso a misure alternative, che per molti reati sarebbero davvero un segnale di raccordo e di civiltà giuridica, tra il mondo della giustizia comminata e la società civile, dove ognuno ha il diritto di vivere e di ritornare in libertà e serenità. E come dimenticare gli 88 suicidi avvenuti in questo anno? Papa Francesco chiede che “si assumano iniziative di speranza, forme di amnistia o di condono delle pene”. La clemenza è un segnale forte che mostra una politica e una società che hanno compreso il senso di questo tempo: il Giubileo non è un pretesto per venire a Roma o per assistere a celebrazioni belle e toccanti senza però l’impatto sulla vita quotidiana. Dobbiamo invertire quella tendenza al pessimismo, alla rassegnazione, alla stanchezza. Questo Giubileo del 2025 deve trovare un altro passo. La condizione attuale del mondo impone coraggio, coerenza, veri cambiamenti. Il mondo sta bruciando nei conflitti, nelle catastrofi ambientali. E la politica stenta a dare risposte. Dobbiamo evitare che solo tecnologia e finanza abbiano in mano le sorti del pianeta e dell’umanità. C’è bisogno di un Giubileo effettivo, coraggioso, concreto. La clemenza - reciproca - è una leva potente: può sollevare il mondo. Cristo - clemente e misericordioso - è sceso dalle stelle alla stalla per indicarci la strada del futuro per riportarci in alto, nel mondo dove gli ideali guidano la strada dell’umanità. Seguiamolo. Questa volta per davvero. Caro Nordio, sia lei a chiedere alle Camere un atto di clemenza di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 31 dicembre 2024 Chi ha la cultura liberale di Brunetta e Pinelli sa bene che un provvedimento rivolto ai condannati per reati minori può stroncare la recidiva. Gentile Ministro Carlo Nordio, questa lettera potrebbe esserle indirizzata da Renato Brunetta, attuale presidente del Cnel, già ministro della Funzione pubblica e storico esponente della parte libertaria di Forza Italia, ma soprattutto impegnato al suo fianco nel progetto “Recidiva zero”, un programma che, tramite l’inclusione lavorativa dei detenuti, non solo recuperi il condannato, ma risarcisca le vittime e la società attraverso la caduta della recidiva. Vasto programma? No, se la teoria ha la forza di darsi tempi certi e investimenti sicuri. Lei, signor Ministro, nella sua intervista a Libero dello scorso 28 dicembre, ha posto al centro del Piano del suo dicastero - in contrapposizione alla speranza di amnistia e indulto avanzata da Papa Francesco quando, fatto inedito, ha aperto una Porta Santa nel carcere di Rebibbia - lo scopo di “umanizzazione della pena”. E ha annunciato che il governo sta lavorando sull’incremento di “attività culturali, lavorative o sportive dentro il carcere” così come su “modalità diverse dai penitenziari per scontare il proprio debito con la giustizia”. Purtroppo questo nobile programma, cui si aggiunge quello di costruzione di nuovi istituti di pena e di ristrutturazione di quelli già esistenti ma fatiscenti, non è stato ancora reso concreto da qualche data di scadenza e quantificazione degli investimenti previsti. Così, il senso della sua intervista rischia di assumere una non voluta sensazione di astratto già visto. Nobili intenzioni, ma nel frattempo? Nel frattempo il 2024 si chiude con 89 suicidi tra i detenuti e 6 tra gli agenti di polizia penitenziaria, oltre a 243 prigionieri deceduti di “morte naturale”. Nessuno dovrebbe morire in carcere, dice il presidente Renato Brunetta, in un articolo sul Sole 24 Ore del 29 dicembre. E questi istituti, aggiunge “diventano luoghi in cui l’obiettivo della pena si capovolge nel suo opposto. Anziché risarcire le vittime e la società, si cade in una crudeltà che è solo un simulacro di giustizia, mentre la deterrenza viene tradita, trasformando la detenzione in una scuola del crimine. Certezza di recidiva, per l’appunto, esattamente il contrario del proposito iniziale”. Il punto è centrato, è l’argomento forte della tendenza securitaria ma a volte anche più banalmente dell’ignoranza di chi evoca la “certezza della pena” e la protezione delle vittime dei reati come argomento per non affrontare il problema di una società sempre più “carcerocentrica”, addirittura con quell’anticipazione di pena “in vinculis” che è diventata la custodia cautelare. La qualità della sanzione, la pena appunto, è essenziale per la protezione della società intera, prima ancora che dei diritti di ogni singolo condannato. E non è un caso, sottolinea Brunetta, che la Costituzione con l’articolo 27 ponga in primo piano l’aspetto della funzione rieducativa del detenuto. Lo ricorda anche, nell’intervista del 29 dicembre al Giornale, la timida ma significativa apertura del Presidente del Senato Ignazio la Russa, la cui cultura gli impone di ricordare che comunque è importante che il condannato “migliori ma contemporaneamente paghi la sua colpa”. Se non riusciamo in questi intenti, conclude La Russa, “a volte è corretto rifugiarsi in amnistie o piccoli indulti”. Ecco le parole impronunciabili, amnistia e indulto, le antiche storiche gloriose battaglie del mondo radicale e pannelliano, ma anche liberale e libertario di una parte ormai dimenticata della sinistra, del mondo laico e socialista e di Forza Italia con Silvio Berlusconi. Bandiera storica anche di una parte del mondo cattolico e oggi di Papa Francesco, con quel suo gesto solenne sulla soglia di Rebibbia. Bandiera raccolta da Fabio Pinelli, vicepresidente laico del Csm, che dalle colonne di Avvenire ha proposto di “ragionare, tutti insieme, sulla possibilità di un ‘ indulto parzialè, ovviamente che non riguardi i delitti di criminalità organizzata, per affrontare l’emergenza nazionale di un sovraffollamento carcerario di oltre 11mila detenuti sulla capienza prevista e che incide sul rispetto della dignità delle persone e sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria”. Ecco qual era l’anello mancante. Sembra dirlo proprio a Lei, signor Ministro Guardasigilli, il presidente del Cnel Renato Brunetta, nel ridefinire il programma di reinserimento e anche sfollamento delle carceri che state elaborando insieme. “L’ipotesi di un indulto parziale - scrive sul Sole- 24 Ore - che coinvolga i detenuti per i reati meno gravi, cioè coloro che il lavoro può recuperare alla società e il carcere invece può cronicizzare in professionisti criminali, realizza almeno quattro obiettivi: umanizzare le carceri, concorrere ad abbattere la recidiva, risarcire vittime e società, produrre ricchezza. Una pena così ‘ certa’ realizzerebbe i propri effetti - retributivi, deterrenti e, naturalmente, rieducativi- in una visione d’insieme, la sola vincente, indirizzando la capacità punitiva dello Stato verso un obiettivo di inclusione sociale. Ma soprattutto non avrebbe controindicazioni politiche”. Obiezione: ma dove si può trovare una maggioranza che voti questo “indultino” in Parlamento? La trovi Lei, signor Ministro, ne ha l’autorevolezza e le capacità. Certo, non spira proprio un venticello di ottimismo, se addirittura dalle parti di Forza Italia il portavoce Raffaele Nevi ha detto il suo No, con voce dal sen fuggita, forse non in modo definito, se riflette un attimo sulla storia del proprio partito. E se, dopo l’entusiastico Sì del senatore del Pd Filippo Sensi, la responsabile Giustizia Debora Serracchiani in una nota congiunta con i capigruppo in commissione di Senato e Camera, Alfredo Bazoli e Federico Gianassi, e con il capogruppo in Antimafia, Walter Verini, ha pronunciato un “ragioniamoci” che sa più di opposizione che di autentica disponibilità. Tutto vero, e lasciamo perdere per un attimo il sottosegretario Andrea Delmastro e i gruppi dei Cinque Stelle, gli irrecuperabili. Ma noi pensiamo che Lei, Signor Ministro, nella sua agenda dei primi giorni di gennaio dovrebbe segnare proprio la proposta Pinelli- Brunetta. Perché se la sua cultura è, come sappiamo, l’opposto del “buttiamo la chiave”, non può essere neanche quella della “certezza della pena” prima di averla riformata, la pena. E averla “umanizzata”, come da vasto programma. Servirebbe un nuovo Basaglia per dimezzare il numero dei detenuti di Pietro Pellegrini* L’Unità, 31 dicembre 2024 Le parole del Papa a Rebibbia e gli appelli di Mattarella sullo stato delle carceri porteranno davvero a qualcosa? Bisogna iniziare con il risolvere il sovraffollamento. “Aprire le porte significa aprire il cuore alla speranza” ha detto Papa Francesco nel carcere di Rebibbia. Dopo il presidente Mattarella e tanti appelli della società civile sullo stato delle carceri, avrà un maggiore ascolto il Papa? Secondo Platone “la mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. Si apriranno i cuori dei politici per una qualche soluzione efficace come indulto o amnistia? Forme di liberazione anticipata, revisione delle leggi sulle droghe e un cambio di politiche migratorie, nessuna detenzione per madri con figli, rinuncia a decreti come quello “sicurezza” sarebbero una sorta di straordinaria illuminazione. Per farlo occorre che si aprano tutti i cuori, onde evitare polemiche politiche e giornalistiche, rivendicazione di cambi di linea. Il cuore va molto oltre la “certezza della pena e le chiavi da buttare”, la “resa dello Stato” o il “buonismo”. La grazia è invisibile e silenziosa. Sarebbe un umano miracolo, laico e religioso insieme. Si apriranno i cuori dei magistrati, i quali potrebbero adottare il numero chiuso nelle carceri? Non dovrebbe servire alcuna nuova legge per evitare, per ragioni di sicurezza, dignità e umanità oltre che professionali, di riempire oltre la capienza un qualsiasi luogo pubblico. Vale per gli ospedali, le scuole, i cinema, le strutture socio-assistenziali. Sarebbe un cambio rivoluzionario, al pari del “mi no firmo” pronunciato da Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia di fronte al registro per le contenzioni meccaniche. Porterebbe a confrontarsi con il numero chiuso, con il limite ed obbligherebbe a gestire il turnover, accessi, urgenti e programmati, dimissioni e seguire la qualità dei percorsi. Potrebbe sbalordire il Papa e non solo. Trovare il modo per ridurre della metà i detenuti risolverebbe molti problemi. Anche della Polizia penitenziaria e di tutti coloro che in carcere vi vivono, sanitari compresi. Superare la posizione di garanzia di controllo per avere operatori che possano al meglio lavorare per il benessere e il recupero delle persone e non per sorvegliarle, punirle anche involontariamente in modo “supplementare” e “obbligarle” a vivere. Un cambio che potrebbe valorizzare un patrimonio di umanità e professionalità da utilizzare non solo negli istituti ma anche nella esecuzione penale esterna. Sulla quale puntare anche per quanto attiene le persone senza casa, con uso di droghe o problemi di salute mentale aprendo anche per questi i cuori di sanitari, operatori giudiziari e amministrativi e ovviamente degli stessi utenti per sviluppare con responsabilità i percorsi alternativi. Si apriranno i cuori per rendere residuale la detenzione, attuarla in ambito regionale e mantenere le relazioni affettive e sessuali come riconosce anche la Corte costituzionale? Si apriranno i cuori di Sindaci per assicurare a tutti i documenti, i titoli di accesso ai servizi sociali? Prevedere investimenti per superare le tante povertà avrebbe anche una funzione preventiva per tutti. Destinare case per le misure alternative, le messe alla prova potrebbe essere di grande aiuto, visti i tanti senza tetto e poveretti detenuti. Anche per questo non servono altre leggi ma il coraggio di fare. Di costruire futuro, mediante infrastrutture umane, fatte di servizi e volontari, persone desiderose di soluzioni per facilitare autonomie e l’inclusione formativa e lavorativa delle giovani generazioni. Una “scuola di Barbiana” diffusa in tutto il Paese potrebbe essere un modo per ridurre le detenzioni dei minori e dei giovani adulti. Si aprirà il cuore di tutti gli umani per coesistenze rispettose, fondate sul riconoscimento, l’accoglienza, l’ascolto reciproco, la responsabilità, la capacità di mediare gli inevitabili conflitti accettando le diversità e costruendo la pace e l’armonia con l’ambiente? La speranza è potente e fragile insieme, ma può portare a rendere possibile l’impossibile. O passata la festa, gabbato… *Dipartimento Salute Mentale di Parma Il Garante: “Lavoro, più video-colloqui e vicinanza per dare speranza ai detenuti” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 31 dicembre 2024 Interpellato dal gesto di Papa Francesco, con l’apertura della Porta Santa a Rebibbia, parla Riccardo Turrini Vita, da fine ottobre presidente del collegio che guida il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. La norma sulla pena detentiva per le madri con bimbi piccoli nel ddl sicurezza? “Ancora è in fase di discussione, non sarebbe corretto entrare nel merito” Le violenze sui reclusi? “È un tema serio che merita approfondimenti”. Presidente Turrini, i penitenziari sono in sofferenza, a partire dal sovraffollamento con 62mila reclusi a fronte di 47mila posti effettivi. Da quando è Garante, quali specifiche difficoltà ha potuto riscontrare? Non sono ancora trascorsi due mesi dal mio insediamento, un tempo troppo breve per confrontare le diverse situazioni. Mi avvalgo però della mia esperienza professionale: la difficoltà massima riguarda le case circondariali delle città più grandi, soprattutto se costruite prima della guerra e nei centri storici. I continui accessi, l’indotta promiscuità, l’oggettiva consunzione delle strutture edilizie, l’esiguità degli spazi rendono molto arduo mantenere o restituire ambienti adeguati. Papa Francesco auspica un gesto di clemenza per i detenuti. Ma la politica si divide sulle eventuali scelte: amnistia, indulto, depenalizzazione. Lei cosa ne pensa? Anche nel Giubileo del 2000, San Giovanni Paolo II invitò a un gesto pubblico di indulgenza verso chi era in esecuzione penale. Come si ricorderà, quell’invito non ebbe seguito, almeno in Italia, poiché mancò la maggioranza necessaria in Parlamento. Sulla questione, peraltro, mi permetto di far rilevare l’asimmetria esistente fra l’approvazione di norme incriminatrici o abolitrici, per le quali basta una maggioranza semplice, e la necessità costituzionale di una maggioranza elevatissima per la approvazione di una legge di amnistia. Forse una riflessione sul punto meriterebbe l’attenzione delle Camere. Le ricette per affrontare la situazione prevedono assunzione di agenti, magistrati, educatori e psicologi, nuove strutture, opportunità di lavoro. Ma ci sono diritti compressi, dietro le sbarre, su cui si potrebbe intervenire adesso, in attesa di misure strutturali? Preferisco parlare di servizi, che potrebbero crescere senza particolari difficoltà. Segnalo, ad esempio, l’esperienza dei frequenti video-colloqui che si fece durante il Covid e che fu di grande sollievo, specialmente per i detenuti stranieri che hanno le famiglie lontane. Una ripresa di quello strumento su larga scala andrebbe incontro al bisogno di relazioni affettive e familiari. Se non erro, anche il Ministro della giustizia aveva espresso un simile orientamento. Inoltre, nei confronti dei ristretti, l’esperienza suggerisce la più ampia applicazione al lavoro all’aria aperta, volontario, formativo o remunerato che sia. Nel ddl sicurezza al vaglio del Senato c’è una norma controversa sulle detenute con figli piccoli. Come la valuta? La disciplina proposta è ancora in fase di discussione. Non sarebbe pertanto corretto entrare nel merito di aspetti non definitivi. Diverse inchieste giudiziarie hanno svelato un lato oscuro fatto di violenze e umiliazioni inflitte da agenti a detenuti... Il tema è serio e merita degli approfondimenti di sistema, possibili solo all’esito dei processi e che il Garante nazionale ha ricevuto dalla legge competenza per compiere. La condizione delle persone private della libertà sfocia a volte in frizioni soprattutto con chi li trattiene, ma anche contro altri trattenuti. Per converso, il controllo di quelle situazioni richiede costante attenzione e facilmente produce tensione se non timore. Poiché tale realtà non può mutare nella sua essenza, allo stato la mia personale opinione - non impegno il Garante nazionale - è che l’addestramento continuo del personale del Corpo (stiamo parlando delle carceri) non possa essere tralasciato e debba integrare ogni strumento per l’accrescimento dell’autocontrollo. L’anno si sta chiudendo con l’angosciante cifra di 88 detenuti suicidi. Cosa occorre per intercettare disagio e sofferenza prima che sfocino in gesti estremi? Da Papa Francesco arriva un vibrante invito a non abbandonare la speranza. E, oltre al piano della virtù teologale, la speranza appartiene al sentire generale degli uomini. Ma per coltivarla, non si hanno rimedi sempre efficaci. Qualche evidenza lascia credere che i momenti di mutamento radicale siano i più ansiogeni (arresto, dimissioni, trasferimenti, notizia di condanne ulteriori). Generalizzare la buona procedura di un accompagnamento umano della comunicazione di tali notizie potrebbe forse essere di aiuto. Oltre a ciò di cui si è detto, cosa manca per rendere concreto il dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena? Da un lato occorre che la struttura della pena detentiva non estingua la speranza del miglioramento delle proprie condizioni, e qui la legge italiana offre molte possibilità. Dall’altro che i servizi strumentali alla riflessione del condannato e alla sua abilitazione alla vita libera e regolate siano costantemente erogati. La costanza di quei servizi (come la formazione scolastica, sportiva, lavorativa) è forse perfino più necessaria della loro intrinseca ricchezza. Sappiamo quanto l’incertezza sia pesante da sopportare. Pensiamo quanto lo possa essere per chi non può avere la varietà di relazioni permesse alla persona libera. Questa costanza è il servizio più difficile da garantire. Riina jr scatena le tricoteuse del carcere duro di Frank Cimini L’Unità, 31 dicembre 2024 Per la prima volta, dopo anni di carcere duro, la Corte di Cassazione ha accettato il ricorso di Giovanni Riina (figlio dell’ex capo di Cosa Nostra, Totò, morto nel 2017) contro il regime di 41 bis nel quale è detenuto. La motivazione della cassazione è molto semplice: la sua posizione di vertice all’interno di Cosa nostra non è mai stata accertata. Contro questa decisione si sono scagliati esponenti di Fratelli d’Italia, dei 5 Stelle e anche la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo. La Cassazione ha accolto con rinvio il ricorso del figlio di Totò Riina, Giovanni, arrestato nel ‘96 e al carcere duro dal 2002, contro la proroga da parte del ministero della Giustizia del 41 bis nel novembre 2023. È la prima volta che la Suprema Corte accoglie il suo ricorso: negli anni di detenzione il regime carcerario è stato sempre rinnovato e confermato ogni biennio, nonostante la sua posizione di vertice all’interno di Cosa nostra non sia mai stata accertata. Adesso i giudici, hanno ritenuto “meramente apparente” la motivazione del tribunale di Sorveglianza di Roma che lo scorso giugno aveva valutato corretto il provvedimento. Contro questa scelta della Suprema Corte si è scatenata una gazzarra terrificante da parte di esponenti di Fratelli d’Italia e pentastellati. Il figlio del boss resta al 41 bis, in attesa che il tribunale di Sorveglianza decida nuovamente sul caso, scrivendo parole più chiare. Perché lo spirito e la lettera della norma del regolamento penitenziario dicono che il 41 bis va prorogato ogni due anni e che la proroga non può essere automatica. Per la Cassazione, insomma, non vanno bene le parole del Tribunale secondo il quale “pur in assenza di riconoscimento processuale della qualità di capo o promotore della associazione mafiosa, è stata rappresentata una posizione di ‘sovraordinazionè del Riina rispetto ad altri sodali”. Inoltre, “l’associazione mafiosa è ancora attiva nel territorio di Corleone e mancano segnali di effettivo ravvedimento, in presenza di condotta carceraria non sempre regolare”. Da ciò la considerazione della “perdurante capacità di Riina di relazionarsi con soggetti esterni”. “Chiederò le carte. La storia criminale di questo uomo non conosce dissociazioni e il solo cognome incute, ancora oggi, paura e una sorta di pericolosa e aberrante fascinazione. Metteremo la Commissione parlamentare antimafia a difesa del 41 bis”, ha scritto la presidente della Commissione parlamentare antimafia, Chiara Colosimo. Sulla decisione è intervenuto Andrea Del Mastro, deputato di Fdi e sottosegretario. “Pur nel rispetto dovuto alla Cassazione, insisteremo nella richiesta di applicazione del regime del carcere duro. La conclamata e attuale pericolosità mafiosa non consente di abbassare la guardia”. Sulla stessa linea è Giovanni Donzelli. “Il 41 bis - sottolinea - è uno strumento fondamentale per smantellare il potere della mafia nella gestione dei traffici criminali sul territorio. Leggeremo le motivazioni, ma finché ci sarà Fdi al governo la lotta alla mafia sarà una priorità assoluta e la difesa del 41 bis resterà un pilastro”. Del Mastro e Donzelli proprio in tema di 41 bis furono protagonisti del “pasticcio” sul caso Cospito, violando la riservatezza sulle condizioni di detenzione dell’anarchico. Un comportamento quantomeno deontologicamente sbagliato al di là di come finirà il processo penale a carico di Del Mastro davanti al Tribunale di Roma. Impegno comune per respingere ogni deriva securitaria di Edmondo Bruti Liberati Il Dubbio, 31 dicembre 2024 Bilancio di fine Anno e propositi per il Nuovo. La politica securitaria che ha toccato il suo estremo nel decreto sicurezza. La situazione delle carceri: il numero spaventoso dei suicidi ne è l’aspetto più vistoso, ma la quotidianità è il sovraffollamento, che ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi il principio costituzionale per il quale “le pene non possono costituire in trattamenti contrari al senso di umanità”. Il governo ha mostrato totale chiusura a misure che potessero alleviare la tensione. Il “garantista” Nordio ha assegnato e mantiene la delega alla Polizia Penitenziaria a quel sottosegretario Del Mastro, che in più occasioni ha dettato messaggi all’insegna delle “maniere forti”. L’informatizzazione del processo penale ha subito un ulteriore rinvio di un anno: non è sofisticata opera di Intelligenza Artificiale, ma un applicativo, semplice come concezione, ma esigente di impegno per la funzionalità effettiva. Decisioni di giudici di Tribunale in materia di immigrazione non sono state gradite. Elon Musk, con lo stile del ticoon padrone di hire and fire, ha dichiarato che quei giudici andavano licenziati. A difendere la dignità nazionale è dovuto intervenire il Presidente Mattarella, ma l’auspicio di Musk non è rimasto inascoltato. Non potendo licenziare quei giudici si sono “licenziate” le sezioni specializzate di Tribunale, trasferendo la competenza alla Corte di Appello. Inascoltato l’appello di tutti i Presidenti delle Corte di appello italiani che denunciavano la ingestibilità di questo afflusso di nuovi procedimenti, la realtà ha preso il sopravvento: in diverse sedi si è dovuto ricorrere all’applicazione in Corte di giudici di tribunale, tra i quali alcuni provenienti dalla sezione specializzata del Tribunale. Decisioni di giudicanti, e ancor prima iniziative di Pm, sono state definite “abnormi” e accusate da parte di esponenti governativi di non adeguarsi “al mandato che il governo ha ricevuto dai cittadini”. Per ora sono valutazioni, talora invettive, domani è da temere potrebbero essere direttive. Questioni delicate, problemi aperti, ma l’attenzione è sulla “madre di tutte le riforme”, la separazione delle carriere. Una affollata assemblea dell’Associazione Nazionale Magistrati ha ribadito, all’unanimità, le ragioni contrarie e ha preannunciato iniziative di informazione e sensibilizzazione nell’ipotesi si andasse al referendum. Il ministro della Giustizia auspica che in Parlamento non si realizzi la maggioranza dei due terzi e si vada al referendum: “la vittoria al referendum sulle carriere dei magistrati sarà a portata di mano se la comunicazione politica verrà affidata ad una semplice domanda: siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete votate sì al referendum confermativo” (Il Dubbio 16 novembre 2024). Più che un referendum, un plebiscito e su un quesito tendenzioso. Tanto più necessarie iniziative di informazione sull’oggetto del referendum. Il Presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli ha avvicinato le preannunziate iniziative dell’Anm a pericolose “fratture extra- istituzionali” (Il Dubbio 28 dicembre). Parole incomprensibilmente forti, ma non nuove. Nel clima prenatalizio può essere sfuggito il comunicato del 21 dicembre della Giunta dell’Ucpi, del quale riporto testualmente l’esordio: “Le assoluzioni dei senatori Renzi e Salvini, arrivate nel giro di pochi giorni, ci confermano che nel nostro Paese l’uso politico dello strumento giudiziario da parte della magistratura, che ha avuto tratti eversivi, non è mai cessato”. “Tratti eversivi”: quando, dove, chi? Sono sicuro che l’avvocatura italiana, ivi compresi coloro che sostengono il principio della separazione delle carriere (ma non l’articolato del DDL costituzionale Nordio n. 1917), non condivide questi toni irriguardosi e oltranzisti. Rimango convinto dell’impegno comune di avvocatura e magistratura per le riforme atte ad assicurare funzionalità e garanzie nel processo, respingendo ogni deriva securitaria. Un grande cantiere di lavoro per il Nuovo Anno. Scegliere un giudice di valore e indicare una strada: Fiandaca per la Consulta di Claudia Cerasa Il Foglio, 31 dicembre 2024 Al di là degli schieramenti sta emergendo il nome del giurista che potrebbe soddisfare, in quota indipendente, le caratteristiche di autorevolezza ed equilibrio necessari: la sua nomina sarebbe anche un suggerimento di metodo per la scelta degli altri. Due settimane prima di Natale, subito dopo un nuovo giro a vuoto del Parlamento per l’elezione dei quattro giudici della Corte costituzionale attualmente vacanti, era stato il presidente della Consulta, Augusto Barbera, a far sentire in modo diretto il suo richiamo al mondo politico. Un comunicato inusuale, ma giustificato dal fatto che, seppure la mancanza di quattro membri non precluda il funzionamento della Corte - undici giudici è infatti il minimo legale - i ranghi ridotti tolgono funzionalità al lavoro e indeboliscono l’immagine di autorevolezza. Barbera però, tenendosi ben lontano dalle polemiche partitiche, aveva specificato due concetti. Primo, che nel lavoro della Consulta è “essenziale il metodo della collegialità” in cui le diverse sensibilità “politiche culturali” contano, certamente, ma poi devono “confrontarsi con quelle di tutti gli altri componenti”. Non uno scontro ma un “confronto collegiale”. In secondo luogo, Barbera ha suggerito che il “Parlamento, nella scelta dei nuovi giudici, non enfatizzi più di quanto sia necessario le diverse sensibilità politiche e culturali dei candidati”. Un suggerimento bipartisan frutto di grande saggezza istituzionale. I tempi per le nomine si fanno ancora più stringenti, basti pensare che per il prossimo 20 gennaio è attesa la decisione della Corte costituzionale sul referendum sull’autonomia differenziata. E la nomina di ben quattro giudici, per i quali occorre il quorum dei tre quinti del Parlamento, è difficile. Per questo, da più parti in questi giorni di “pausa di riflessione”, sta emergendo al di là degli schieramenti l’idea di un nome almeno che potrebbe soddisfare, in quota indipendente, le caratteristiche di autorevolezza ed equilibrio necessari: il nome del professor Giovanni Fiandaca, giurista e storico, esperto di diritto penale e dotato di una grande conoscenza della storia repubblicana. La sua nomina alla Consulta sarebbe, con queste caratteristiche, anche un suggerimento di metodo per la scelta degli altri. C’è che ci sta riflettendo, ed è un buon segnale. “Niente sequestri a chi è assolto”, la Cassazione torna allo Stato di diritto di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 31 dicembre 2024 Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 45280/2024), le cui motivazioni sono state depositate lo scorso 10 dicembre, contiene importanti affermazioni che, ove recepite, permetteranno di riallineare il sistema di prevenzione italiano al diritto convenzionale europeo. Partendo dalla necessità di una perimetrazione cronologica della pericolosità sociale, per evidenziarne la correlazione temporale con l’acquisto dei beni di cui sia chiesta la confisca, la Corte ritiene che vada individuato un affidabile dies a quo della pericolosità, al fine di ricostruire “condotte seriali che dimostrino l’attitudine alla commissione di reati produttivi di profitti illeciti”, ma anche una sequenza suscettibile di determinare l’acquisizione di un profitto illecito. La condotta pericolosa deve essere abituale e non sporadica, e deve trattarsi di delitti commessi in un arco temporale “non esiguo”, che abbiano costituito quantomeno una rilevante fonte di reddito per il soggetto proposto. Fin qui, si tratta di concetti che già altre pronunce della Cassazione avevano fatto propri, anche se ora vengono precisati in modo più sistematico, quale spunto per ulteriori approdi. La Cassazione infatti affronta l’importante tematica della autonomia del Giudice della prevenzione e dei limiti che egli incontra nel valutare fatti già accertati in sede penale. Limiti che una cospicua parte della giurisprudenza minimizza, sulla presupposta autonomia tra i due diversi giudizi. Stavolta, tuttavia (ed è questa la novità più rilevante) la Corte richiama esplicitamente l’articolo 6 § 2 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, ritenendo che il principio della valutazione autonoma non possa andare oltre le sentenze assolutorie penali: lo stesso fatto, una volta escluso dal Giudice penale, non può essere assunto come elemento indiziante per il giudizio di pericolosità nella procedura di prevenzione. Per motivare le proprie ragioni, la Cassazione cita espressamente la sentenza del marzo 2023, emessa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo nella procedura Rigolio c/ Italia, in cui il Giudice convenzionale ha ricordato che la presunzione di innocenza opera su di un piano endoprocessuale e su di un piano extraprocessuale. Nel primo caso - nel quale impone condizioni riguardanti soprattutto l’onere della prova - la presunzione impone al Giudice, chiamato a constatare la sussistenza di un reato, di non “partire dall’idea preconcetta che l’imputato abbia commesso il fatto di cui è accusato” e di considerare “che il dubbio deve giovare all’imputato”. Nel secondo, la presunzione di innocenza comporta che i soggetti che hanno beneficiato di una assoluzione o di una sospensione delle imputazioni non possano essere “trattati da pubblici ufficiali o autorità come se fossero colpevoli effettivamente del reato loro imputato”. Ora, ricorda la Cassazione, quando si pone la questione dell’applicabilità dell’articolo 6 § 2 Cedu in un procedimento successivo, che sia connesso a quello penale concluso con assoluzione, a venire in rilievo non è solo e non è tanto il divieto di doppio giudizio, ma quello di “non contraddizione”, che è uno dei pilastri dell’ordinamento. Non si può essere assolti per un fatto ritenuto insussistente ed essere riconosciuti socialmente pericolosi per la sussistenza del medesimo fatto. Ma gli ulteriori spunti di riflessione che la sentenza offre sono notevoli e in certa misura “rivoluzionari” per il sistema di prevenzione. Invocare, in materia, non la presunzione di non colpevolezza contenuta nell’articolo 27 Cost. (che riguarda solo l’”imputato”), ma la presunzione di innocenza convenzionale (che, invece, si applica all’”accusato di un reato”), significa porre il giudizio di pericolosità sotto l’egida di una regola di giudizio secondo la quale il proposto non potrà essere ritenuto socialmente pericoloso sino al “legale accertamento” di un reato. Infatti, i vari cataloghi di pericolosità qualificata e semplice - quest’ultima, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con sentenza 24/ 19 - si fondano tutti sulla constatazione di uno o più delitti presupposti. Sicché ben può dirsi, oggi, che il proposto per misura di prevenzione è accusato, anche se non imputato, di un fatto delittuoso. Egli, dunque, deve poter beneficiare della presunzione di innocenza e deve poter pretendere il previo “legale accertamento” del delitto presupposto rispetto all’accertamento di pericolosità. Ma il procedimento di prevenzione non è, strutturalmente, luogo per l’accertamento della colpevolezza, come spesso abbiamo scritto. La soluzione passa dalla procedimentalizzazione piena della prevenzione, da sottoporre a tutti i postulati del giusto processo enunciati all’articolo 111 della Costituzione. Oppure dalla rigida pregiudizialità penale, come pare invece suggerire la Cedu nelle ordinanze rese nel caso Cavallotti e procedimenti riuniti. Entrambe le strade, che auspichiamo possano essere percorse dal legislatore italiano e dai Giudici di Strasburgo, avrebbero una comune finalità poiché dimostrerebbero che la prevenzione non è altro che una duplicazione dell’intervento repressivo statuale a fronte del medesimo fatto. Certificando così il carattere punitivo del sistema della prevenzione, la sua finalità punitiva e, in definitiva, la sua complessiva inutilità. *Osservatorio Misure di prevenzione e patrimoniali dell’Unione Camere penali italiane Piemonte. Carceri, incubo sovraffollamento: 4.500 detenuti per meno di 4mila posti rainews.it, 31 dicembre 2024 Il Garante: la situazione si aggrava perché 261 spazi sono inagibili. Crescono suicidi e aggressioni al personale, sempre carente. Poche luci e tante ombre nel nono dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, presentato questa mattina a Torino dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. Sono 4.500 i detenuti presenti nelle 13 carceri piemontesi, a fronte di 3.979 posti. Ci sono, dunque, 521 persone in più. E sono ben 261 i posti detentivi temporaneamente non disponibili, spesso per problemi strutturali degli edifici: la dimensione di un carcere di media grandezza. Il dramma del sovraffollamento, quindi, è ancora più grave. Nel 2024, sette detenuti si sono tolti la vita, in aumento rispetto al triennio precedente. In forte crescita anche gli atti di autolesionismo, in parte tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria e le aggressioni al personale. Tra le criticità sottolineate dal dossier, oltre ai problemi delle strutture e al sovraffollamento, la carenza di personale e di mediatori culturali. In diverse carceri, però, anche grazie alle segnalazioni puntuali dei garanti comunali, nell’ultimo anno sono stati effettuati diversi lavori attesi da tempo. A Torino “situazione stagnante” - “Il clima sembra migliorare ma la realtà è che la situazione è ferma, stagnante. Per quanto riguarda il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, siamo allo stesso punto dell’anno scorso”, aggiunge la garante dei detenuti della città di Torino, Monica Cristina Gallo. E prosegue: “Non si è fatto quasi nulla sulle problematiche strutturali, sul recupero degli spazi per i detenuti e sul contenimento degli sprechi”. In molte sezioni, ad esempio, per ottenere l’acqua calda è necessario aprire tutti i rubinetti, con un enorme consumo. “Anche sul sovraffollamento, sull’assenza di mediatori culturali e sugli spazi medici non idonei non è stato fatto nulla”, aggiunge la garante Gallo. A proposito, Mellano spiega che “siamo in una fase nella quale la carenza di soldi non è del tutto all’ordine del giorno: c’è ad esempio un fondo complessivo, a livello nazionale, di 250 milioni di euro da spendere per i lavori nelle carceri. Il problema è che l’amministrazione penitenziaria ha grosse difficoltà a spendere i soldi che ha a disposizione”. Niente lavoro a Ivrea - Varie anche le segnalazioni sul carcere di Ivrea, specie per quel che riguarda la manutenzione straordinaria. “Tuttavia, dopo un periodo particolarmente delicato, oggi la situazione è abbastanza vivibile, soprattutto per l’impegno del personale, precisa il garante locale, Raffaele Orso Giacone, che definisce la struttura “un carcere di punizione perché è un istituto senza lavoro. Inoltre - aggiunge - il prossimo anno, saranno tagliate del 50 per cento le mercedi, cioè le retribuzioni del lavoro carcerario, che in molti casi sono l’unica fonte di sostentamento dei detenuti. Questo rischia di mettere a repentaglio l’economia interna della casa circondariale e porterà probabilmente a dei problemi di ordine pubblico all’interno”. “Il Piemonte è l’unica regione con un garante in ogni città sede di carcere - ha sottolineato Mellano - questa presenza ci permette di segnalare tempestivamente i problemi e, in qualche caso specifico, di ottenere dei risultati in termini di interventi. Così è stato anche nell’ultimo anno, partendo da quanto avevamo segnalato nel precedente dossier”. Piacenza. Suicida un detenuto di 27 anni. È il quinto in Emilia-Romagna dall’inizio dell’anno di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 31 dicembre 2024 Il Garante regionale: “Sono 244 i morti dietro le sbarre in Italia, c’è una crisi grave del sistema penitenziario”. Wajdi si è tolto la vita mettendosi un cappio al collo. Era in isolamento nel carcere di Piacenza dove era arrivato dopo essere stato recluso a Modena e Ferrara. Di origini tunisine, aveva 27 anni, e alle spalle reati di spaccio e furto. Non era un criminale incallito, la sua è più una storia tipica di chi vive ai margini. Il prossimo 20 febbraio aveva l’udienza per chiedere l’affidamento in prova e probabilmente, spiega il suo legale Luca Romagnoli, avrebbe iniziato a lavorare: “C’era già l’accordo con un imprenditore disposto a dargli un’opportunità”. E tuttavia non ce l’ha fatta ad aspettare. Era provato, sotto stress. E l’isolamento non era d’aiuto, come non lo era il divieto di avere colloqui con la sua compagna, una ragazza italiana con cui conviveva prima dell’arresto. La notizia della tragedia è stata data dal garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri, che parla di “un evento critico ancora in corso di definizione tra l’accidentalità e il suicidio. Ma in ogni caso dobbiamo ricordare che è morto un uomo”. Il dubbio nasce proprio dal fatto che tra poco avrebbe potuto uscire. Forse voleva fare solo un gesto dimostrativo per ottenere i colloqui e uscire dalla condizione di isolamento. Poi però qualcosa è andata male, forse. Resta il fatto che Wajdi è il quinto detenuto che si toglie la vita in Emilia-Romagna. Dove, dice Cavalieri, c’è “una crisi grave del sistema penitenziario”. Basta pensare “ai detenuti che si sono tolti la vita nel 2024 e al fatto che si registrano almeno un caso di autolesionismo, ovvero comportamenti che quando non mettono a rischio la vita mettono a rischio la salute dei detenuti”. La tragedia di Wajdi segue un episodio simile avvenuto a Modena dove sempre un giovane detenuto straniero aveva tentato il suicidio e ora si trova ricoverato in coma. Il 2024, con i suoi 244 morti (di cui 89 suicidi) nei luoghi di detenzione italiani, si conferma come l’anno record per le morti in carcere. Si muore perché si decide di farla finita, ma anche per malattia, per overdose di farmaci, per l’inalazione del gas delle bombolette. Si muore per mille ragioni, ma spiega Cavalieri “si muore comunque di carcere, e questo è inconcepibile in una società civile”. Cagliari. Il caso di Alessandro Atzeni, in carcere contro il parere dei medici di Simona Berterame fanpage.it, 31 dicembre 2024 “Fatelo uscire, deve curarsi”. L’appello della sorella di Alessandro Atzeni, detenuto da mesi nonostante sia stato dichiarato dai medici non compatibile con il carcere. Dalla colonia penale al carcere nonostante le sue gravi patologie psichiatriche. La storia di Alessandro Atzeni è un calvario senza fine. Alessandro è un malato psichiatrico con doppia diagnosi e, a causa della sua condizione, era stato dichiarato persona socialmente pericolosa e ristretto nella colonia penale di Isili. L’ospedale e l’emiparesi - Proprio all’interno della colonia agricola il 4 luglio accade qualcosa e Alessandro finisce all’ospedale di Nuoro in gravissime condizioni. Finisce in coma e solo un delicato intervento neurochirurgico riesce a salvargli la vita ma ancora oggi Alessandro presenta un’emiparesi alla parte destra del corpo e un forte stato depressivo. Secondo gli accertamenti medici si sarebbe trattato del risultato di un violento pestaggio. Dopo circa 3 mesi di ricovero, per Alessandro si aprono le porte del carcere di Uta, nonostante i dottori avessero chiesto il trasferimento in una struttura riabilitativa. Ad oggi si trova allettato e ha bisogno di un’assistenza costante, non è praticamente autosufficiente. A complicare ancora di più la sua situazione è la presenza di una misura di sicurezza quindi l’impossibilità di ottenere i domiciliari per la sua pericolosità sociale. L’avvocata di Arianna Atzeni, sorella di Alessandro (che nel frattempo è diventata il suo tutore legale), Armida Decina, ha presentato un’istanza per chiedere che venga rispettato il parere dei medici ovvero il trasferimento di Alessandro dal carcere a un centro riabilitativo. Il via libera allo spostamento da parte del magistrato di sorveglianza è arrivato il 23 dicembre. Ma ancora oggi (31 dicembre ndr.) Atzeni si trova in carcere. “Lui si trova ancora lì per inerzia dell’area sanitaria del carcere di Iuta - afferma l’avvocata della famiglia Atzeni - che non ha verificato le disponibilità delle strutture”. Un’attesa che peggiora sempre di più le condizioni dell’uomo e diminuiscono le possibilità di ripresa. “Alessandro si trova ancora in carcere, intrappolato in un luogo assolutamente inadeguato per le sue condizioni - scrive in una lettera inviata ai giornali la sorella Arianna - Ogni giorno che passa senza le cure necessarie rappresenta un danno irreparabile per il suo recupero. L’emiparesi e lo stato depressivo richiedono un intervento immediato, ma a causa della lentezza burocratica e dell’indifferenza delle istituzioni, Alessandro continua a soffrire in una situazione che definire disumana è poco. Torino. “Per le carceri stanziati quasi 40 milioni. Ma i lavori sono fermi” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 31 dicembre 2024 L’allarme del Garante regionale Mellano sui fondi non impiegati. I soldi ci sono: 25 milioni per il Ferrante Aporti, 12 milioni e 500 mila euro per il Lorusso e Cutugno (in particolare per il padiglione C), più altri milioni non ben quantificati che sono parte di un pacchetto nazionale per la manutenzione straordinaria. Peccato che siano fermi in un cassetto, congelati in attesa di progetti da modificare e approvare, cantieri da aprire e interventi da programmare in base alle priorità. Nel frattempo, nei penitenziari del Piemonte le inferriate si arrugginiscono, le tubature si rompono, gli arredi si consumano e gli spazi - siano le celle o le stanze dedicate alle socialità - diventano fatiscenti. È il contrasto che emerge dal nono dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle 13 carceri della regione presentato dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. La fotografia racconta che negli istituti di pena vivono 4.500 persone a fronte di 3.979 posti: il 43% sono stranieri. In questo contesto di sovraffollamento emerge pure che ci sono 261 posti temporaneamente non disponibili perché non agibili. E ancora, nell’anno che si sta per concludere sono stati 7 i detenuti che si sono tolti la vita, in aumento rispetto al triennio precedente. In forte crescita anche gli atti di autolesionismo: in parte sono tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria oppure il risultato di aggressioni nei confronti del personale. Il 2024 è stato caratterizzato anche da rivolte e proteste dei detenuti, spesso legate alle loro condizioni di vita. Si affacciano poi, come maggiore frequenza, nuovi fenomeni come il traffico di telefoni cellulari, se non addirittura l’utilizzo di droni per recapitare all’interno dei penitenziari smartphone e droga. E ancora, tra le criticità sottolineate nel dossier c’è la carenza di personale e di mediatori culturali. “Siamo in una fase nella quale la carenza di soldi non è del tutto all’ordine del giorno. Il problema è che l’amministrazione penitenziaria ha grosse difficoltà a spendere i soldi che ha a disposizione”, spiega Mellano. Che aggiunge: “Anche per i fondi già stanziati non si conoscono le tempistiche dei lavori, benché quel denaro vada impiegato entro il 2026”. “Il clima sembra migliorare ma la realtà è che la situazione è ferma, stagnante. Per quanto riguarda il carcere Lorusso e Cutugno siamo allo stesso punto dell’anno scorso”, conferma laconica la garante della Città di Torino Monica Gallo. Che rivela come la propria relazione sia quasi “un copia e incolla” dell’anno precedente: “Non si è fatto quasi nulla sulle problematiche strutturali, sul recupero Online degli spazi per i detenuti e sul contenimento degli sprechi”. In molte sezioni, ad esempio, per usufruire dell’acqua calda è necessario aprire tutti i rubinetti con un’ora di anticipo. “Anche sul sovraffollamento - conclude -, sull’assenza di mediatori culturali e sugli spazi medici non idonei non è stato fatto nulla”. Non nasconde la propria preoccupazione per l’anno che verrà il garante di Ivrea Raffaele Orso Giacone: “Sono molte le cose che abbiamo segnalato e che restano da fare nel carcere di Ivrea, specie per la manutenzione straordinaria. Tuttavia, dopo un periodo particolarmente delicato, oggi la situazione è abbastanza vivibile, soprattutto per l’impegno del personale”. Il cruccio è legato all’inattività dei detenuti: “Il nostro sembra un carcere di punizione perché è un istituto senza lavoro. Per di più, il prossimo anno saranno tagliate del 50% le retribuzioni del lavoro carcerario che in molti casi sono l’unica fonte di sostentamento dei detenuti. Questo rischia di mettere a repentaglio l’economia interna della casa circondariale e porterà probabilmente a problemi di ordine pubblico all’interno”. In diverse carceri, però, anche grazie alle segnalazioni puntuali dei garanti comunali, nell’ultimo anno sono stati effettuati diversi lavori attesi da tempo. “A Vercelli - spiega il garante Pietro Luca Oddo - gli interventi sugli infissi hanno migliorato la vivibilità di una parte del carcere, così come l’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua. Si sta cercando di rendere operativi gli spazi adeguati all’area medica e c’è buona collaborazione con l’amministrazione comunale per progetti di reinserimento lavoro”. Venezia. A Santa Maria Maggiore ci sono oltre 100 detenuti in più rispetto ai limiti primavenezia.it, 31 dicembre 2024 L’avvocato Foffano: “Uno scenario degradante”. Nel 2024 anche tre suicidi all’interno degli istituti penitenziari veneziani. Il 2024 si chiude con un bilancio complesso per le carceri del Veneto, dove problemi strutturali e sociali si intrecciano a esperienze di resilienza e tentativi di riforma. A fare il punto è l’Avvocato Marco Foffano, con 12 anni di esperienza nel volontariato e garante dei detenuti di Venezia in uscita. Dopo due anni di mandato, interrotto prima della naturale scadenza, Foffano lascia una testimonianza chiara: il sovraffollamento resta il problema principale nelle carceri. I numeri nel Veneziano - A Santa Maria Maggiore, principale istituto penitenziario di Venezia, i numeri parlano da soli: 262 detenuti a fronte di una capienza di 159. Meno grave è, invece, la situazione al carcere della Giudecca, che presenta 97 detenute rispetto a una disponibilità di 113 posti. Ma l’età avanzata delle strutture rende le condizioni comunque difficili. “Alcune camere di pernottamento, celle, ospitano assiepate 10 detenute, cioè 10 letti, uno accanto all’altro. E questo è oggettivamente degradante”, sottolinea Foffano, in un’intervista al TGR. La disperazione porta ai suicidi - Nel corso del 2024 si sono registrati tre suicidi nelle carceri veneziane, tutti tra detenuti maschi. Un dato drammatico, che pone interrogativi sulla gestione delle fasi di fine pena. “Questo ci fa capire come la disperazione porti a volte a gesti così estremi”, continua l’Avvocato. “Se una persona in uscita non sa dove andare, per esempio in questa stagione, cosa fa?” Il problema, secondo Foffano, è la mancanza di una rete di alloggi protetti, una lacuna che le istituzioni non hanno ancora colmato. E, nonostante le difficoltà, Foffano ricorda un momento di grande impatto simbolico per i detenuti: l’apertura della Porta Santa a Rebibbia per il Giubileo della Speranza. “È un gesto epocale. È un gesto che si rivolge certamente alle coscienze dei detenuti. Ma si rivolge alle coscienze di chi ha il governo delle realtà penitenziarie”, afferma. Pistoia. Nessuno tocchi Caino: “La vera riabilitazione non si ottiene in prigione” La Nazione, 31 dicembre 2024 Anche quest’anno, nel periodo natalizio, la delegazione pistoiese di “Nessuno tocchi Caino” si è recata in Santa Caterina, il carcere di Pistoia, per prendere visione della situazione attuale. Non era presente la presidente Rita Bernardini, e del consiglio direttivo mancavano Elena Baldi e Matteo Angioli. La delegazione era quindi rappresentata da Fausto Malucchi, don Massimo Biancalani, Peppino Zarrilli e Andrea Leo. Questo il testo della lettera diffusa dopo la visita in via dei Macelli. “Mancavano i giudici, quelli che decidono se una persona deve essere rinchiusa o meno dentro una prigione, ma erano comunque molteplici e variegate le componenti sociali che si sono recate a visitare il carcere di Santa Caterina alla vigilia della fine dell’anno, come ogni anno, con la delegazione di Nessuno Tocchi Caino. Pistoia è tra le meno negative, ma anche per Pistoia vale il principio enunciato da Mathiesen secondo il quale “la prigionizzazione è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento”. Anche a Pistoia i detenuti aspettano immobili la fine della loro pena. “È vero - si legge ancora - gli educatori (due) si danno da fare, ma la loro è una missione impossibile e gli spazi sono sempre quello che sono: minimi e inidonei a potervi svolgere una qualsiasi attività lavorativa, unico valido antidoto alla recidività. Le guardie (cinquanta) sono circa il 20% in meno di quanto previsto e necessario, per cui solo con gli straordinari, richiesti a chi già svolge un servizio massacrante, è possibile far fronte alle carenze del personale. La struttura, seppur datata, non è tra le peggiori, ma è comunque una magra consolazione dal momento che appare assolutamente inadatta a ospitare essere umani, seppur in espiazione di una pena. “I detenuti sono 65 a fronte di una capienza di 57 unità e appartengono a ben quattordici diverse nazionalità (una Babilonia). Di recupero non se ne parla neppure lontanamente e se manca quello si conferma il concetto che il carcere sia un luogo di solo dolore, assolutamente distruttivo e disumano. Niente a che spartire - conclude la delegazione di “Nessuno tocchi Caino” - con l’articolo 27 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e con i principi basilari dell’umanità”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Riscatto e inclusione dei detenuti: “Qui presto un ristorante” di Vincenzo Ammaliato Il Mattino, 31 dicembre 2024 La direttrice annuncia la pubblicazione del bando per il locale. Fra poco più di un anno chi nella provincia di Caserta, o nell’area metropolitana di Napoli avrà desiderio di andare a ristorante, fra la scelta dei locali potrà aggiungere anche la possibilità di andare in carcere. E non si tratta di un locale con un nome bizzarro, ma di un ristorante che si troverà proprio all’interno delle mura di una casa penitenziaria, con personale di cucina, sala e accoglienza scelto, formato e assunto fra i suoi detenuti. Per l’esattezza, si potrà mangiare nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in località San Tammaro. Il suggestivo progetto è un’idea di Donatella Rotundo, direttrice della casa penitenziaria sammaritana, che ospita detenuti di ambo i sessi e anche al regime di Alta Sicurezza. “L’idea di realizzare un ristorante all’interno del carcere, peraltro destinato a clientela esterna, fa parte di un percorso già avviato con successo all’interno di questo penitenziario di progettualità che mirano a creare un ambiente più umano sia per i detenuti, sia per il personale impegnato; ma soprattutto con l’obiettivo di ridurre la recidiva per i soggetti che ottengono la libertà - sottolinea la direttrice Rotundo - come dimostrato ampiamente dalle statistiche che analizzano tali fenomeni portati avanti in numerosi penitenziari italiani”. La direzione del carcere ha già individuato gli spazi che saranno utilizzati per il ristorante; si tratta di circa duecento metri che si trovano attaccati alle mura di protezione della casa circondariale. Di esperienze simili in Italia al momento ce n’è solo una, nel carcere di Bollate a Milano. E in attesa che i 50 posti a sedere previsti in quello di Santa Maria siano attivi, nella casa penitenziaria sammaritana ci sono altri progetti simili che offrono ai detenuti una seconda opportunità, dopo il fallimento sociale che li ha portati a commettere reati, essere condannati e reclusi. Alcuni detenuti sono impegnati nella sartoria che confeziona camicie per le guardie penitenziarie, realizzate col marchio Isaia, dell’alta sartoria napoletana. Alta moda ed eccellenza partenopea caratterizza anche la realizzazione di foulard e cravatte, che sono confezionate dalle detenute con la collaborazione del prestigioso cravattificio Marinella (questi prodotti sono regalati alle personalità in visita istituzionali al penitenziario). Dai capi sartoriali di lusso al gusto il passo è breve, tant’è che nel carcere di Santa Maria c’è anche un laboratorio di pasticceria, dove alcuni detenuti sono stati assunti dalla Pink House di Aversa per preparare e infornare polacche aversane. I dolci possono essere ordinati da ogni detenuto. E la produzione va a gonfie vele ogni mattina. Ma torniamo al ristorante. Nei primi giorni del nuovo anno sarà pubblicato un bando concorso nazionale di idee per la progettazione del locale, che prevede una cucina, una sala interna ed una esterna sotto a un pergolato. La scadenza sarà il 2 maggio, dopodiché si partirà immediatamente con la parte esecutiva. La direzione del concorso è stata affidata allo street artist casertano Alessandro Ciambrone, che già ha realizzato diversi murales all’interno di numerosi penitenziari italiani. La valutazione, invece, sarà a cura, oltre che dello stesso Ciambrone e della direttrice Rotundo, anche di Samuele Ciambriello, garante Campania dei detenuti. “Il coinvolgimento entusiasta nei nostri progetti per i detenuti di marchi prestigiosi del mondo produttivo campano come Isaia e Marinella ci dà stimoli a puntare su questo segmento - dice la direttrice Rotundo - e investiremo sempre maggiori risorse, convinti che siamo sulla strada giusta. Non a caso, il progetto per il ristorante, nonstante sia ancora nelle sue fasi embrionali, sta riscuotendo già forte interesse”. Como. “Cucinare al fresco”: in sette anni di attività quindici ricettari pensati dai detenuti Il Giorno, 31 dicembre 2024 Il progetto “Cucinare al Fresco”, che da sette anni impegna un gruppo di detenuti della Casa circondariale Bassone di Como, dopo i ricettari ha presentato il calendario 2025. Il secondo, per la precisione, la cui realizzazione è supportata dalla Camera Penale di Como e Lecco, in un’ottica di esempio virtuoso di come la creatività e la collaborazione possano diventare strumenti di rieducazione e di reinserimento sociale. Coordinati da alcuni volontari, i detenuti hanno creato una vera e propria redazione giornalistica per elaborare ricettari con piatti ideati utilizzando gli ingredienti e le attrezzature disponibili all’interno della struttura. Ricette che possono apparire semplici a chi è abituato ad aver a disposizione ogni ingrediente e attrezzatura, ma che all’interno di un istituto di pena diventano l’espressione di un grande impegno. Come l’arrosto di vitello farcito di carciofi che accompagna il mese di febbraio, o il tortino con scarola, lenticchie e ricotta di marzo, senza dimenticare i dolci, come la magia ai mirtilli. Ricette che portano la firma di Marcello, Franco, Max, Claudio, Cristian, Angelo. “Progetti come Cucinare al Fresco - commenta Edoardo Pacia, Presidente della Camera Penale di Como e Lecco - rappresentano una speranza in un contesto difficile come quello carcerario. Siamo felici di contribuire a questa iniziativa che, attraverso il cibo, riesce a parlare ai bisogni primari e profondi dell’Uomo. Non è solo un calendario, ma un esempio tangibile di come la pena possa tendere alla rieducazione, come prescritto dall’articolo 27 della Costituzione”. Il progetto Cucinare al Fresco non è solo un’esperienza culinaria, ma un laboratorio di crescita e di collaborazione. “Ogni detenuto coinvolto spiega il direttore del Bassone, Fabrizio Rinaldi - ha trovato uno spazio per esprimere il proprio potenziale, scoprendo nel lavoro di squadra un mezzo per superare le difficoltà e costruire relazioni positive. Questa dimensione umana e creativa si è rivelata fondamentale per il successo dell’iniziativa”. Il percorso del progetto va oltre la cucina e le ricette: gli ingredienti utilizzati, includono anche prodotti coltivati direttamente dagli stessi detenuti negli orti creati all’interno della struttura comasca, recentemente inaugurati. Napoli. La visita dell’arcivescovo Battaglia a Secondigliano: “Nessuno è irrecuperabile di Rosanna Borzillo Avvenire, 31 dicembre 2024 Chi è in carcere perché non ha fatto l’incontro giusto e chi invece è stato baciato dalla fortuna: l’abbraccio tra un detenuto e il ballerino e conduttore televisivo, originario di Torre Annunziata, Stefano De Martino, suggella in qualche modo l’appuntamento promosso dalla comunità di Sant’Egidio al carcere napoletano di Secondigliano nei giorni scorsi. De Martino, come ha spiegato, ha rincontrato un suo compagno d’infanzia proveniente da un contesto difficile che è in carcere a scontare la sua pena. “A tutti va dato la possibilità di ricominciare”, ha commentato il cardinale Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli. “Celebrare la speranza significa credere che per tutti c’è una possibilità; che nessuno è irrecuperabile e che c’è sempre l’opportunità di ricominciare perché nessuno coincide con i propri errori. La vita è sempre più grande”. Battaglia ha annunciato che il carcere di Secondigliano Il 26 gennaio sarà “Porta Santa”. Nella casa circondariale, che ospita 1.470 detenuti, ha voluto pranzare coni detenuti, aderendo all’iniziativa di Sant’Egidio, con lui il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, alcune istituzioni, i vertici della magistratura partenopea, il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, tanti volontari. Una bella festa che ha contagiato tutti, detenuti e non. Al pranzo sono stati ammessi i detenuti più poveri o che non fanno colloqui perché non hanno più legami familiari, alcuni del circuito di massima sicurezza, ma impegnati in attività finalizzate al reinserimento sociale, e molti stranieri. Con gli 80 uomini presenti, c’erano anche 20 donne provenienti dal carcere di Pozzuoli, recentemente sgombrato per lo sciame sismico. “Per quanto duro, il tempo trascorso qui - ha detto ancora Battaglia - non deve essere sprecato ma occorre farsi aiutare. Ci si perdona nella misura in cui il perdono lo si accoglie ed è quel perdono che vi rimetterà in piedi: fidatevi, credeteci”. “Quello del carcere è però ancora un mondo troppo spesso abbandonato - secondo Antonio Mattone, portavoce napoletano della Comunità di Sant’Egidio -. Il Papa lo ha detto quando ha aperto la “Porta Santa” a Rebibbia: c’è bisogno di stare vicino a queste persone che devono sempre avere una possibilità di riscatto”. Per non dimenticare chi vive recluso, per dire che è sempre possibile cambiare e rimettere in gioco la propria vita, stare vicino a chi vive in un momento di difficoltà e cercare di accendere sempre una luce di speranza. Al termine del pranzo, De Martino ha realizzato sul palco della palestra-teatro della casa circondariale, un momento di festa con un gruppo di detenuti provando qualche passo di danza e improvvisando una puntata del programma tv Affari tuoi. Il ballerino ha ricordato la sua provenienza da un contesto difficile sottolineando che “nessuno merita di essere emarginato e dimenticato, a tutti va data una possibilità di ricominciare” “Il carcere deve tornare al suo posto - è l’appello della direttrice della casa circondariale, Giulia Russo - cioè la società: il carcere è parte di essa. Il nostro pranzo vuole incarnare la nostra mission e cioè puntare sulle tre “r”: rieducazione, riabilitazione, risocializzazione”. D’altra parte a Secondigliano il lavoro di reinserimento è quotidiano: i detenuti da tempo sono impegnati nel progetto di sartoria “Ricuciamo”. A novembre 2022 hanno preparato la cascola indossata da papa Francesco alla Giornata mondiale dei Poveri. Già durante la pandemia avevano realizzato oltre 10.000 mascherine distribuite gratuitamente intuita la città. Da allora di strada ne hanno fatta ed il laboratorio è diventato sempre più occasione di reinserimento: i paramenti liturgici sono realizzati con estrema cura e i dettagli nelle finiture sono il risultato di un percorso di formazione finalizzato, prima che alla specializzazione sartoriale, ad un avvicinamento al culto del sacro. Piantedosi blinda le città in nome della “sicurezza” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 31 dicembre 2024 La direttiva del Viminale per Capodanno rafforza il Daspo urbano, la discrezionalità e le emergenze penali. Sarà un capodanno con meno diritti, anche se la notizia viene impacchettata in mezzo all’allarme petardi e frullata nel contesto delle eterne emergenze sicurezza dichiarate di continuo, soprattutto in occasione di grandi eventi. Il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti per sottolineare l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di “soggetti pericolosi” o con precedenti penali e poterne disporre l’allontanamento. L’indicazione di Piantedosi serve ad estendere ad altre città il dispositivo che è in vigore a Milano per Capodanno fino al 31 marzo e che ha già avuto una prima applicazione a Firenze e Bologna. Dove negli ultimi tre mesi, si apprende, sono stati emessi 105 provvedimenti di allontanamento su quattordicimila persone controllate. A Firenze, ha fatto sapere ieri la questura tracciando un bilancio dell’anno passato, le misure di prevenzione adottate nel 2024 registrano un aumento del 37,50% rispetto all’anno precedente. In particolare, sono raddoppiati i provvedimenti di divieto di accesso alle aree urbane (previste all’articolo 13 bis del decreto emanato, nel 2017, quando al Viminale c’era Marco Minniti, governo Gentiloni) per reati contro la persona o contro il patrimonio, con estensione alla resistenza a pubblico ufficiale ed al porto di armi od oggetti atti ad offendere (fattispecie inserite da questo governo nel cosiddetto “Decreto Caivano”) commessi nelle pertinenze di locali pubblici e i Daspo in ambito sportivo per condotte ritenute pericolose in occasione o a causa di manifestazioni sportive. Il ricorso alle cosiddette “zone rosse”, dicono dal Viminale, rientra nella più ampia strategia volta a garantire la tutela della sicurezza urbana e la piena fruibilità degli spazi pubblici da parte dei cittadini. Queste ordinanze, recita la versione governativa, sono particolarmente utili in contesti caratterizzati da fenomeni di criminalità diffusa e situazioni di degrado, come le stazioni ferroviarie (vera ossessione del ministro, citate a più riprese) e le aree limitrofe, oltre che le “piazze dello spaccio”. Il fatto è che le misure potranno essere applicate anche in altre zone, come quella della cosiddetta movida, “caratterizzate da un’elevata concentrazione di persone e attività commerciali e dove si registrano spesso episodi di microcriminalità, risse, vandalismo, abuso di alcol e degrado”. In vista del Capodanno, recita la velina del ministero dell’interno, l’applicazione delle “zone rosse” rappresenta “un ulteriore efficace strumento per rafforzare i controlli nelle aree di maggiore affluenza”. Ma chi prende di mira il provvedimento? Ciò che preoccupa è la discrezionalità delle misure, visto che lo spettro dei soggetti considerati pericolosi per il decoro e l’ordine pubblico è ampio e variegato. Si punta il dito contro le persone “che hanno precedenti” (il che peraltro non significa per forza condanne: bastano le segnalazioni) per stupefacenti, aggressioni, furti, rapine e detenzione abusiva di armi tra le altre cose. Ma il sospetto del Viminale cade anche su persone che genericamente “assumono atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti”. “La misura del divieto di accesso dovrà essere disposta ogni qual volta il comportamento del soggetto risulti concretamente indicativo del pericolo che la sua presenza può ingenerare per i fruitori della struttura”, scrive Piantedosi. Questa indicazione precipita nelle città ed è il frutto di decreti in materia, regolamenti comunali, disposizioni alla polizia locale che si sono succeduti in questi anni, fino all’acme del Ddl sicurezza attualmente in discussione al senato (non a caso menzionato dal ministro nella sua circolare). A Roma, per fare un esempio, con il regolamento di polizia urbana che risale all’epoca dell’amministrazione pentastellata di Virginia Raggi, si decise di estendere l’elenco di condotte passibili di multa e di eventuale allontanamento amministrativo. Ed eccole, alcune di queste minacce all’ordine pubblico: sedersi sui monumenti (art. 4, lettera a), trascinare un passeggino sulle scalinate di un monumento (art.19, lettera d); liberare un cane dal guinzaglio in un parco o calpestare le aiuole (art. 24 lettere c-e). Che dire, buona fortuna. Migranti, la Cassazione riapre il caso “Paesi sicuri” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 dicembre 2024 Nell’ordinanza sul ricorso del governo, la Suprema Corte rinvia la decisione finale ai giudici europei ma fissa alcuni paletti: i tribunali possono disapplicare i decreti solo se vi vedono “irragionevolezza”. Con una ordinanza “interlocutoria” ma di ben trentacinque pagine, la prima sezione civile della Cassazione ha fornito un indirizzo interpretativo sulla designazione di un Paese terzo come “sicuro”, riaccendendo le polemiche su migranti e piano Albania che hanno egemonizzato negli ultimi mesi il dibattito sulla politica giudiziaria. La questione era stata congelata in attesa che la Corte di Giustizia Ue si pronunci il 25 febbraio, dopo i rinvii dei Tribunali di Firenze, Bologna e Roma. Ma adesso gli ermellini hanno riaperto la partita. Il contesto - I giudici si sono occupati del ricorso del ministero dell’Interno contro il provvedimento di non convalida del trattenimento in Albania di uno straniero proveniente dall’Egitto, adottato dal Tribunale di Roma, sezione specializzata in materia di immigrazione, lo scorso 18 ottobre. La decisione di Piazza Cavour - Innanzitutto il riferimento è “l’ambiente normativo” anteriore al decreto Paesi sicuri e al decreto Flussi. Ribadendo quanto già sancito nell’ordinanza del 19 dicembre, la Cassazione sostiene che “il giudice ordinario, sebbene non possa sostituirsi all’autorità governativa sconfinando nel fondo di una valutazione discrezionale a questa riservata, ha, nondimeno, il potere-dovere di esercitare il sindacato di legittimità del decreto ministeriale, nella parte in cui inserisce un certo Paese di origine tra quelli sicuri, ove esso contrasti in modo manifesto con la normativa europea vigente in materia”. Concetto ribadito poco dopo quando si scrive che “il giudice della convalida, garante, nell’esame del singolo caso, dell’effettività del diritto fondamentale alla libertà personale, non si sostituisce nella valutazione che spetta, in generale, soltanto al Ministro degli affari esteri e agli altri Ministri che intervengono in sede di concerto, ma è chiamato a riscontrare, nell’ambito del suo potere istituzionale, in forme e modalità compatibili con la scansione temporale urgente e ravvicinata del procedimento de libertate, la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo paese di origine come sicuro, rappresentando tale designazione uno dei presupposti giustificativi della misura del trattenimento. Pertanto, egli è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia varcato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale”. Sulla scorta di questi e altri argomenti e in nome della “leale cooperazione” tra le Corti, la Cassazione ha deciso di rinviare la causa a nuovo ruolo in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Ue. Le reazioni - Preliminarmente vanno segnalati due aspetti. Il primo: i giudici avrebbero potuto optare per un semplice rinvio, hanno scelto invece una ordinanza interlocutoria. Secondo: sul sito della Cassazione è stato pubblicato un riassunto dell’ordinanza che comporta ovviamente una selezione mirata di alcuni contenuti. Questa duplice scelta potrebbe essere interpretata come una apertura verso le istanze del governo, tuttavia l’ordinanza, per essere commentata, andrebbe letta nella sua interezza. Ad esempio per la deputata Sara Kelany, responsabile Immigrazione FdI, la Cassazione che “ha depositato le motivazioni su uno dei provvedimenti di mancato trattenimento in Albania, dà ragione al governo Meloni”. Non è così visto che non c’è stato accoglimento del ricorso del governo ma un rinvio motivato. Comunque anche per il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Alberto Balboni, sempre di FdI, l’ordinanza “conferma la bontà delle politiche del governo Meloni sul fronte immigrazione e smentisce le cassandre del Pd. Soprattutto, si afferma senza alcun dubbio che il modello Albania funziona e può essere esportato in altri Stati europei”. Sulla stessa linea il presidente dei senatori di FI Maurizio Gasparri, per il quale “la Cassazione in materia di immigrazione dà ragione al governo e dà torto a quei magistrati che fanno un uso politico della giustizia. Dice infatti la Cassazione che sono le autorità politiche che decidono quali sono i Paesi sicuri e non dei magistrati. Questa sacrosanta decisione boccia sinistre giudiziarie e politiche che boicottano le giuste politiche del governo”. Al contrario, per Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie del Pd, “siamo di fronte all’ennesimo insopportabile giochino della destra che trasforma la realtà e ora pure i pronunciamenti da parte della Cassazione. Siamo davanti a un rinvio alla Cgue, non ad altro”. “La destra festeggia”, ha dichiarato infine Riccardo Magi, segretario di +Europa, “ma la Cassazione afferma ciò che è sempre stato chiaro, e che governo e maggioranza hanno sempre negato: nessuno ha mai voluto privare il potere politico di stilare la lista dei Paesi sicuri, ma sta al giudice verificare che un Paese sia effettivamente sicuro e che la decisione del governo non sia in contrasto con le norme Ue”. Il Dubbio ha raccolto il parere di Luca Minniti, presidente della sezione Immigrazione del Tribunale di Bologna, per il quale quella della Cassazione “è un’ottima ordinanza” in quanto “riafferma due princìpi già stabiliti nella decisione di pochi giorni fa. Primo: l’obbligo del giudice di valutare la situazione di personale insicurezza del migrante, confermandolo anche con riferimento al giudizio di convalida, con la necessità di istruttoria sul punto. Si prevede non un controllo formale ma sostanziale. Secondo: il giudice, anche nella convalida, deve sindacare la designazione del singolo Paese di provenienza e in questo giudizio la presenza estesa, endemica, diffusa, di persecuzione di categorie di persone, anche soggettivamente ristrette, ha sicuramente rilievo a prescindere dall’appartenenza del trattenuto a quella categoria di persone”. In conclusione, per il magistrato “tutto l’impianto delle disapplicazioni fatte prima dal Tribunale di Firenze in sede di sospensiva e poi da Catania in sede di convalida trova piena conferma. Ma in sostanza anche il giudizio del Tribunale di Roma trova conferma, per cui, se non cambiano le situazioni in Egitto, Bangladesh, Tunisia, Costa d’Avorio, le decisioni dei Tribunali non potranno essere diverse da quelle già prese”. La Cassazione sui migranti in Albania: “Spetta ai ministri valutare i Paesi sicuri” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 31 dicembre 2024 Per i giudici il magistrato esamina i singoli casi. Polemica tra FdI e Pd. “Non c’è perfetta simmetria” tra le “eccezioni personali” e le “eccezioni territoriali”. La Corte di Cassazione torna sul tema dei rimpatri accelerati dei migranti irregolari in Paesi di origine inseriti nella lista dei Paesi sicuri. Lo scorso 4 ottobre la Corte di giustizia Ue aveva deciso che non può essere considerato sicuro un Paese se una parte del suo territorio non lo è (come la Transnistria in Moldavia). Il Tribunale di Roma e altre sezioni specializzate hanno dato per scontato che ciò vale anche quando ci sono categorie di persone non protette. Ma secondo la Cassazione non è così. In una ordinanza interlocutoria, la 34898/24, scrive: “Non sembra possibile” che il giudice applichi “la decisione della Corte di giustizia in modo automatico ed estensivo ai Paesi designati sicuri, con eccezioni di categorie di persone”. Possibile invece “designare un Paese terzo come Paese di origine sicuro” sia pure in presenza di “eccezioni soggettive”. Compito, specificano, che spetta “soltanto al ministro degli affari esteri e agli altri ministri in sede di concerto”. E invitano ad attendere che la Corte di giustizia dia la parola definitiva al riguardo. Ma la Suprema corte non si limita a questo. Propone una propria “ipotesi di lavoro nello spirito della leale collaborazione”. Diversa dall’orientamento scelto dal Tribunale di Roma e dalle sezioni specializzate che hanno bocciato la linea del governo, ritenendo non sicuri Paesi come la Tunisia e l’Egitto che presentano rischi per singole categorie di persone, per esempio omosessuali o dissidenti politici. Una ipotesi capace di dirimere la questione giuridica, disinnescando lo scontro politico che ieri è tornato a divampare. Sul tema, intanto, interviene il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che, in un’intervista alla Stampa, ha attaccato i giudici che con le loro ordinanze hanno bloccato il trasferimento dei migranti nel centro in Albania: “È stato evidente a tutti che alcuni magistrati abbiano pubblicamente e anche preventivamente espresso contrarietà a questa come ad altreiniziative del governo per contrastare l’immigrazione irregolare”. Esulta FdI. Parla di “pietra tombale sulle speranze immigrazioniste della sinistra” il sottosegretario FdI Andrea Delmastro. Alberto Balboni evidenzia che per la Cassazione la lista dei Paesi sicuri “spetta al governo. Il magistrato non può arrogarsi il potere di fare questa scelta”. E Lucio Malan rimarca: “Le decisioni del Tribunale di Roma sui migranti fatti rientrare dall’Albania erano sbagliate e il governo aveva ragione. Chi ha attaccato il modello Albania dovrebbe chiedere scusa”. Di parere opposto il Pd. “Tutti rilanciano la falsa notizia secondo la quale la Cassazione civile avrebbe ribaltato le decisioni dei giudici, quando si è limitata a rinviare alla Corte di giustizie Ue”, attacca Antonio Nicita. Pierfrancesco Majorino censura l’”ennesimo, insopportabile, giochino della destra”. E per Azione “la Cassazione conferma l’inutilità del decreto flussi”. Ma qual è l’ipotesi suggerita dalla prima sezione civile della Corte di Cassazione? Un cambiamento di prospettiva. Non c’è bisogno, dice, di “disapplicare” la lista dei Paesi sicuri stilata dal governo. Basta limitarsi a tutelare il singolo immigrato nel caso concreto. Un principio che già c’è. È contenuto nell’articolo 2 bis comma 5 della normativa sulle procedure di asilo. E recita così: se il migrante invoca “gravi motivi per ritenere il Paese non sicuro per la propria situazione” il giudice può far cadere la “presunzione di sicurezza” di quel Paese. “La Cassazione ha chiarito che per tutelare i richiedenti non serve mettere in discussione la valutazione generale operata dal governo, se non in caso di manifesto arbitrio”, spiega Mario Savino, ordinario di Diritto amministrativo e coordinatore di Adim (Accademia diritto e migrazioni). “Conta tutelare, nel caso concreto, i richiedenti che hanno motivi seri per chiedere la protezione. Per gli altri richiedenti - aggiunge Savino - che la Cassazione definisce “non meritevoli”, resta ferma la procedura di frontiera, che prevede tempi più rapidi e il trattenimento, così da favorire il rimpatrio e impedire l’ingresso in Schengen di chi abusa dell’asilo”. Migranti. Sull’Albania deciderà la Corte Ue. Ricorsi sospesi in Cassazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 dicembre 2024 I giudici rinviano la sentenza. Ma il governo parte alla carica: “Ci ha dato ragione”. L’opposizione: “Non capiscono le ordinanze”. Prima di decidere sui trattenimenti in Albania la Cassazione vuole sapere cosa stabilirà la Corte di giustizia Ue sulla classificazione dei paesi come sicuri. Lo ha reso noto ieri con una “ordinanza interlocutoria” relativa ai ricorsi del Viminale contro le decisioni del tribunale civile capitolino che a metà ottobre aveva liberato i primi richiedenti asilo trasferiti oltre Adriatico. Alla Corte di Lussemburgo l’udienza sarà il 25 febbraio, la sentenza è attesa in primavera. Gli avvocati dei migranti chiedevano di rigettare il ricorso. L’Avvocatura dello Stato, per conto del ministero, avrebbe voluto che gli ermellini decidessero a prescindere dalle cause pendenti a Lussemburgo. La Cassazione non ha dato ragione né all’uno né all’altro, sospendendo il giudizio come ipotizzato dalla procura generale (anche se con una differenza tecnica). L’ordinanza è “interlocutoria” perché non ha valore decisorio e non stabilisce un principio di diritto. Ha invece lo scopo di contribuire al dialogo tra le Corti esprimendo la posizione del collegio della prima sezione civile, presieduto dal giudice Alberto Giusti, che ha analizzato il caso. I punti sono tre. Il primo è un dissenso con il tribunale di Roma sull’interpretazione della sentenza “paesi sicuri” con cui il 4 ottobre la Corte Ue ha stabilito che non vanno considerati tali quelli in cui esistono eccezioni territoriali. Secondo le toghe capitoline le argomentazioni della decisione si possono estendere alle eccezioni per categorie di persone, portando a non ritenere sicuri Egitto e Bangladesh (ragionamento analogo è stato fatto a Catania per la Tunisia). La Cassazione, al contrario, propone un’interpretazione restrittiva della sentenza: “non pare abbia dettato un principio di incompatibilità della nozione di paese sicuro con la presenza di eccezioni personali”. È una proposta: deciderà la Corte Ue. Il secondo punto è che se il richiedente asilo originario di un paese considerato sicuro dal governo italiano invoca “gravi motivi” per cui tale definizione non vale nel suo caso la procedura accelerata di frontiera va scartata. Bisogna esaminare la domanda di asilo con l’iter ordinario, che esclude il trattenimento. Questo aspetto è pacifico per il dato letterale della norma, ma controverso per l’applicazione concreta in Albania. Qui migranti reclusi incontrano l’avvocato direttamente in udienza, compaiono davanti al giudice entro 48 ore dallo sbarco dopo un viaggio lungo e pericoloso. Molti giuristi si chiedono come possano, in quelle condizioni, conoscere i “gravi motivi” da invocare. Ora che la lista è una legge potrebbero porsi questioni di legittimità costituzionale sull’effettività del diritto di difesa garantito dalla Carta. Il terzo punto è forse quello più importante. La Cassazione ribadisce il potere del giudice di sindacare la legittimità dell’inserimento di un certo paese nella lista di quelli sicuri. Può farlo valutando, attraverso le informazioni delle fonti qualificate, l’evoluzione della situazione concreta e l’estensione delle eccezioni per categorie di persone. Se queste sono “costanti, endemiche o generalizzate”, infatti, rischia di saltare il principio generale indicato dalla direttiva Ue, pregiudicando “il valore fondamentale della dignità”. Per avere un’idea di quali Stati l’esecutivo definisca sicuri bisogna tornare alle schede-paese che contengono le informazioni dettagliate e facevano da base al vecchio decreto interministeriale. In quella sull’Egitto, ad esempio, prima delle eccezioni si trovano molti passaggi di questo tenore: “La costituzione egiziana proibisce l’arresto e la detenzione arbitraria e garantisce a ciascun individuo la protezione di tale diritto tramite un giusto processo. Allo stesso tempo, in base a numerose segnalazioni di organizzazioni locali e internazionali, in Egitto si sono verificati anche recentemente numerosi casi di detenzioni arbitrarie e arresti senza mandato da parte delle forze di polizia egiziane”. Un principio generale e subito dopo la sua contraddizione fattuale. Sul fronte politico, comunque, la maggioranza è partita all’attacco con la tesi che “la Cassazione dà ragione al governo”. Ieri le agenzie battevano, solo per FdI, dichiarazioni fotocopia di: Malan, Montaruli, Mennunni, Kelany, Delmastro, Bignami, Antoniozzi, Balboni, Biancofiore. Più tardi sono arrivati i rinforzi con Gasparri per Fi, Molteni e Iezzi per la Lega. Secondo il dem Nicita, però, “la destra non comprende le ordinanze” mentre per Magi (+Europa) “la Cassazione ha ribadito il primato del diritto Ue”. Al di là delle dichiarazioni, bisognerà vedere le prossime mosse dell’esecutivo: attendere la Corte Ue o ritentare nuovi trasferimenti da metà gennaio? Il tenore delle dichiarazioni allude alla seconda ipotesi: se qualche trattenimento fosse convalidato sarebbe una vittoria per Meloni, in caso contrario si può sempre tornare all’attacco dei magistrati.