Scegliere tra Nordio e Bergoglio di Franco Corleone Messaggero Veneto, 30 dicembre 2024 Si sta chiudendo un anno orribile nel mondo tra guerre e genocidi con la parola alle armi, sempre più sofisticate, più stupide e disumane rispetto a quelle crudeli del passato. Il carcere in Italia ha vissuto in questi dodici mesi una catastrofe umanitaria nella totale irresponsabilità del Governo e del ministro Nordio, incapace di un disegno di riforma e che in due anni ha licenziato o costretto alle dimissioni due capi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi e Giovanni Russo. Ora aspettiamo la terza vittima sulla via dell’apocalisse. Neppure il record di 89 suicidi di detenuti e di sette agenti di polizia penitenziaria ha turbato il sonno di chi ritiene che si tratti di danni collaterali che non meritano compassione. In realtà c’è qualcosa di torbido nella gestione del carcere da parte di chi vorrebbe stuprare l’art. 27 della Costituzione che solennemente proclama che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Infatti nel disegno di legge sulla “sicurezza” in discussione al Senato tra tante nefandezze addirittura si criminalizza la resistenza passiva e la nonviolenza e si prevedono pesanti condanne e anni di carcere per i detenuti che rivendicheranno pacificamente i loro diritti. Si stanno costituendo dei Gruppi di intervento operativo (GIO), per sedare (o alimentare?) le supposte rivolte e il logo scelto è lugubre e sembra uscito dalla grafica del regime degli anni trenta. Nel cielo plumbeo si è aperto però uno squarcio dirompente: le parole di Papa Bergoglio nel carcere di Rebibbia per l’apertura della seconda Porta Santa del Giubileo rappresentano un discrimine tra umanità e crudeltà, tra il diritto e la violenza, tra la verità e la ipocrisia. Siamo di fronte a un imperativo morale ineludibile; bisogna scegliere tra Carlo Nordio, sedicente ministro della Giustizia e Papa Francesco, l’uomo della speranza. Un invito a tutte e a tutti di farsi carico di una giustizia che non sia vendetta, a “essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, a partire dai detenuti che, “privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Per questo il Papa propone ai governi che nell’anno del Giubileo “si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. La cinica risposta che si tratterebbe di una resa dello Stato è solo una bestemmia senza pudore. Dopo il Covid e tanti anni di sovraffollamento che hanno motivato la condanna dell’Italia da parte della Cedu, la Corte europea dei diritti umani, a causa delle condizioni di vita inaccettabili, una misura di riparazione sarebbe più che giustificata. Si afferma con iattanza che un provvedimento di amnistia e indulto non servirebbe a niente perché dopo poco tempo si riprodurrebbe la condizione precedente. È vero solo se non si facesse altro e addirittura si continuasse a inventare nuovi reati (invece di cambiare il Codice Rocco): un indulto di due anni farebbe uscire dal carcere circa 20.000 persone e si traccerebbe una linea insuperabile eliminando la detenzione sociale e facendo tornare il carcere ad essere una extrema ratio. Udine dopo la marcia nonviolenta del 21 dicembre partita dal Duomo con la presenza del Vescovo e una partecipazione incredibile può diventare il luogo della sperimentazione sociale del messaggio “Aprire le porte e aprire il cuore alla speranza”, e il carcere, con la creazione di nuovi spazi di socialità e di cultura, rappresenterà un nuovo volto di galera da cui sprigionare idee e futuro. Che fare, subito? Ognuno il suo: 1) i giudici applichino al momento del giudizio le possibili misure alternative; 2) la magistratura di sorveglianza conceda integralmente il periodo dei permessi premio e provveda subito alle sessanta misure alternative per i detenuti nei termini; 3) la Regione e il Comune prevedano un piano straordinario di housing sociale e di opportunità di lavoro; 4) la Asl garantisca il diritto alla salute con la presenza di medici a tempo pieno, psicologhe/i e psichiatri e luoghi terapeutici per una detenzione per i soggetti con problemi di salute mentale; 5) il Parlamento approvi una legge sul numero chiuso per le carceri rispettando la capienza regolamentare come in tutti i luoghi pubblici, l’istituzione delle case di reinserimento sociale per chi deve scontare meno di dodici mesi di pena, affidate alla responsabilità dei sindaci, dei servizi sociali e del volontariato, senza polizia penitenziaria che tornerebbe ai suoi compiti senza impossibili supplenze. La società civile, le associazioni di volontariato e il terzo settore, sono sicuro, faranno la loro parte. I detenuti hanno nelle loro celle il calendario predisposto per il terzo anno dalla Società della Ragione, da Icaro e dal Garante dei diritti dei detenuti con dodici articoli fondamentali della Costituzione e con pensieri di testimoni della nonviolenza e arricchito da disegni di alcuni di loro che hanno partecipato a un corso di pittura all’interno delle mura. La lettera di Natale “Alziamo lo sguardo” invita all’azione consapevole: Pierluigi Di Piazza dopo le parole di Bergoglio organizzerebbe il popolo dei credenti in altro che nel potere, per conquistare i diritti e la dignità degli ultimi e farebbe proprio lo slogan “Via Spalato è della città”. Abbiamo il dovere di essere all’altezza della sfida dell’impossibile. Indulto parziale, apertura a sinistra ma Forza Italia dice no di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2024 Le reazioni alle proposte del presidente del Cnel Brunetta. L’ipotesi di un indulto parziale per cominciare a mettere mano nel caos del sistema carcerario piace a sinistra ma non a Forza Italia. Lo spunto viene dal presidente del Cnel ed ex ministro azzurro Renato Brunetta che sul Sole 24 ore chiede una convergenza a opposizione e maggioranza proprio su questo tema. “Penso che la proposta di Renato Brunetta vada ripresa, sostenuta, resa effettiva. Spero che opposizione e maggioranza possano convergere su un obiettivo minimo di umanità, civiltà, decenza. Chi ci sta?” scrive su X il senatore del Pd Filippo Sensi. L’idea di un indulto parziale che coinvolga i detenuti per reati meno gravi, già evidenziata dal vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, viene sostenuta anche da Benedetto Della Vedova: “In un carcere sovraffollato, luogo di isolamento, umiliazione, malattia e morte, la pena rischia di perdere la certezza dell’esempio, che è la vera fonte di legittimazione della potestà punitiva, per trasformarsi invece in certezza della recidiva. È vero, e non conviene a nessuno un modello di pena che incentivi i detenuti a tornare a delinquere o a cominciare a farlo - rimarca Della Vedova - se detenuti ingiustamente. E la proposta di indulto parziale, per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, merita attenzione e una iniziativa parlamentare trasversale. Sarebbe infatti positivo che anche nella maggioranza la proposta di Brunetta, che ha alle spalle una lunga militanza nel centrodestra, venisse raccolta e rilanciata. La situazione nelle carceri è incivile ed inaccettabile, quindi bisogna agire con urgenza”. Magi: il Governo agisca - “Perché l’intollerabile situazione delle carceri in Italia non sia vissuta come un’emergenza nel periodo natalizio e in quello di ferragosto ma appunto come qualcosa di davvero non più tollerabile per ogni sincero democratico in questo Paese - dice il segretario di Più Europa Riccardo Magi - è necessario che il governo apra gli occhi e si muova. Il presidente del Cnel Brunetta evoca un indulto parziale, ma ancora prima che si comprendano meglio i contorni di una proposta del genere e quali possano essere gli effetti sull’attuale condizione del sistema penitenziario, il Ministro della Giustizia ha escluso atti di clemenza che ritiene inutili a fornire soluzioni strutturali ma solo effetti temporanei. Non siamo d’accordo e siamo preoccupati perché ciò rivela il vero problema che c’è a via Arenula e a Palazzo Chigi: la mancanza di volontà politica di riformare il carcere”. L’apertura del Pd - Cauta ma comunque aperturista la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani: “Noi abbiamo le nostre idee, non condividiamo tutto, ma almeno iniziamo a discuterne seriamente e per dare risposte ad una situazione ormai insostenibile. Lavoro, misure alternative, sconto per buona condotta, case di reinserimento sono tutte proposte condivisibili e giuste che abbiamo presentato più volte con emendamenti puntuali. Sempre respinti. Vale la pena ricordare il comportamento della maggioranza, ed in particolare di Forza Italia, sulla proposta Giachetti di liberazione anticipata o quanto accaduto sull’inutile decreto carcere o quanto contenuto nell’inaccettabile ddl Sicurezza. Basta quindi farsi belli con proposte che poi non si è disponibili a sostenere al momento opportuno. Si passi ai fatti e non si sprechino solo parole al vento. Il partito democratico è pronto a discuterne”. La contrarietà di Forza Italia - Un invito che sembra rivolto soprattutto a Forza Italia e al suo leader Antonio Tajani che proprio in occasione dell’apertura della Porta Santa a Rebibbia da parte del Papa, il giorno di Santo Stefano, parlò di una iniziativa che “impegni tutti ad affrontare il tema carceri”. Un ragionamento che viene tradotto in ambienti del partito azzurro con iniziative a favore del miglioramento della condizione carceraria mantenendo però la certezza della pena - come spiega il portavoce Raffaele Nevi - e, quindi, la contrarietà all’indulto. Carceri sovraffollate, Brunetta: “Indulto”. Pd e Magi ci pensano Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2024 In un intervento sul Sole 24Ore, ieri, il presidente del Cnel Renato Brunetta si è associato alla proposta di un indulto parziale lanciata dal vicepresidente del Csm Fabio Pinelli per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. “L’ipotesi di un indulto parziale, che coinvolga i detenuti per reati meno gravi, cioè coloro che il lavoro può recuperare alla società e il carcere può cronicizzare in professionisti criminali - ha spiegato Brunetta - realizza almeno quattro obiettivi: umanizzare le carceri, concorrere ad abbattere la recidiva, risarcire vittime e società, produrre ricchezza”. Quasi immediata la replica del senatore Pd Filippo Sensi, che sul social X ha scritto: “Spero che opposizione e maggioranza possano convergere su un obiettivo minimo di umanità, civiltà, decenza. Chi ci sta?”. Sempre dal Pd arriva la nota firmata dalla responsabile Giustizia Debora Serracchiani con i capigruppo in commissione di Senato e Camera, Alfredo Bazoli e Federico Gianassi, e al capogruppo in Antimafia, Walter Verini: “Non condividiamo tutto, ma almeno iniziamo a discuterne seriamente e per dare risposte ad una situazione ormai insostenibile”. Accetta l’invito l’esponente di +Europa Benedetto Della Vedova: “Sarebbe positivo che anche nella maggioranza la proposta di Brunetta, che ha alle spalle una lunga militanza nel centrodestra, venisse raccolta e rilanciata. La situazione nelle carceri è incivile ed inaccettabile, però, bisogna agire con urgenza”. Al momento però il primo no arriva proprio da Forza Italia, il partito in cui Brunetta ha militato più di recente. Se nel giorno di Santo Stefano il ministro Antonio Tajani ha spinto per una iniziativa che “impegni tutti ad affrontare il tema carceri”, secondo il portavoce azzurro Raffaele Nev, si tratta di migliorare le condizioni carcerarie mantenendo però la certezza della pena. Verini (Pd): “Modello Giubileo anche sui detenuti. Per l’indulto un patto Stato-aziende” di Francesco Malfetano Il Messaggero, 30 dicembre 2024 “Per le carceri italiane serve un grande patto nazionale. Bisogna applicare quel “modello Giubileo” invocato da Pier Ferdinando Casini e intervenire subito. Lo ha detto il Papa nel suo appello in occasione della visita a Rebibbia per l’Anno Santo e ce lo dice soprattutto la Costituzione: non si può più aspettare. È il momento del “qui e ora”“. Parlamentare dem di lungo corso, Walter Verini è oggi senatore, segretario della commissione Giustizia e capogruppo in commissione Antimafia. Quella delle carceri italiane è una situazione che conosce perfettamente (“Ci sono circa 15mila detenuti in più rispetto alla capienza dei nostri istituti, siamo oltre il 32%. A oggi se ne sono suicidati 89, più 7 agenti di polizia penitenziaria”) e che è convinto bisognerebbe affrontare uniti: “Serve coraggio da parte di tutti”. Senatore Verini, l’appello di Papa Francesco per “forme di amnistia” ha riaperto il dibattito sulla possibilità che vi sia un qualche condono della pena per alcuni detenuti. Il ministro Nordio però frena e ieri sul Messaggero Luca Ricolfi ha rilanciato il “dilemma” che lega un’iniziativa che sarebbe “etica” alle sue pratiche conseguenze per la società. Lei cosa propone? “Le carceri non possono essere luogo di abbandono e vendetta. Di fronte ai numeri che conosciamo, l’immobilismo non è più un’opzione, né lo sono gli appelli fine a se stessi. Ora servono iniziative pragmatiche che possano avere un impatto a strettissimo giro. Ed è per questo che credo serva un grande patto nazionale. Propongo al ministro Nordio, a cui sono certo andrebbe il sostegno di tutto il Parlamento, di convocare le associazioni imprenditoriali di tutti i settori - dal turismo, all’edilizia fino all’agricoltura, al commercio o all’artigianato - insieme all’Anci e ai singoli Comuni per strutturare con loro un piano straordinario. Dirgli cioè: voi avete bisogno di manodopera, sviluppiamo un protocollo per cui nei prossimi tre-quattro mesi l’Anci individui un domicilio per chi non ce l’ha e non ha possibilità di accoglienza, e lo Stato fa dei corsi per formare quei detenuti che potrebbero usufruire di una qualche forma di clemenza nei mesi successivi. Che si tratti di un indulto, un mini-indulto o riguardi solo la liberazione anticipata non importa. Ciò che conta è che, mentre il Parlamento in 6 mesi definisce chi potrà beneficiarne, si strutturi un sistema che consenta ai detenuti interessati di andare a lavorare non appena escono dal carcere”. Però per il ministro Nordio un indulto sarebbe un segnale di “impunità”. Per Ricolfi, invece, troppo spesso si sottovaluta che l’amnistia riguarda anche le “future vittime”... “Non sono d’accordo. In particolare perché quello delle future vittime è un tema che si può ridimensionare. Ad essere interessati dal provvedimento di clemenza sarebbero quasi 15mila detenuti scelti solo tra coloro che vanno verso la fine della pena o comunque che hanno commesso reati che non hanno grave allarme sociale. Né omicidi né mafiosi, per capirci”. L’urgenza è evidente e molte forze stanno convergendo sulla necessità di un intervento anche parziale (dal vicepresidente del Csm Fabio Pinelli all’Associazione Antigone), il governo però sta intervenendo con un piano per l’edilizia carceraria per cui ha stanziato 255 milioni di euro. Non basta? “Non credo sia utile fare polemiche ora: ben venga ogni iniziativa ma quelle con un raggio d’azione medio o lungo non bastano più. Noi come Pd abbiamo ripresentato come emendamenti le proposte lanciate nei giorni scorsi da Renato Brunetta per indulto parziale e continueremo a lavorare per tutti gli aspetti critici: dalle strutture fatiscenti, alle iniziative legate all’affettività fino al problema delle madri detenute e tanti altri. Ma ora dobbiamo ragionare in termini di emergenza. Serve un intervento immediato, un patto come quello per il Giubileo. Mi aggancio alla proposta del collega Filippo Sensi, sarebbe bello se a giugno potessimo invitare il Papa in Parlamento per dimostrargli che abbiamo accolto il suo appello. Ma mi lasci precisare una cosa”. Prego... “Non è tanto il pontefice a chiederlo, quanto la Costituzione, all’articolo 27. Quello che spiega come le pene non possano consistere “in trattamenti contrari al senso di umanità” e debbano “tendere alla rieducazione del condannato”. Al ministro Nordio quindi chiedo coraggio. Lei c’era all’apertura della Porta Santa a Rebibbia, lo ha accolto, ora si distacchi dagli estremismi vendicativi del sottosegretario Delmastro”. L’amnistia resta un tabù. Evidentemente qualcuno pensa di prendere voti mostrando il cappio di Monica Macchioni sfogliaroma.it, 30 dicembre 2024 Prima di Tangentopoli, amnistia e indulto erano frequentissimi; misure di ordinaria amministrazione che non sconvolgevano nessuno. Servivano anche a riequilibrare eventuali storture ed errori del sistema. Oggi parlare di amnistia sembra quasi una bestemmia mentre l’indulto viene al massimo sussurrato sottovoce e timidamente. “Cui prodest” tenere le carceri piene, continuare ad essere sanzionati dall’Europa, contravvenire al recupero del reo come previsto nella Costituzione più bella del mondo? In uno Stato sovrano e laico, come dovrebbe essere quello italiano, la sconfitta di tutto il ceto politico è rappresentata dal fatto che sia il Papa il primo a sollevare, con coraggio e a viso aperto, il tema dell’amnistia. Questa è, purtroppo, la cartina tornasole dello spessore e del coraggio della nostra classe dirigente. Pari a zero. Le carceri dovrebbero essere uno strumento e non un fine. “Ogni proposta diretta ad attenuare le sofferenze date dal sovraffollamento va nella giusta direzione. Ogni chiusura è invece pregiudizievole della sicurezza sociale”, ha affermato di recente il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella commentando la proposta di Renato Brunetta che prevede un indulto solo parziale e per alcuni reati. “Un carcere affollato e irrispettoso della dignità umana produce invece recidiva ed è dunque insicuro per tutti”. Ma perché ad occuparsi di carceri e di carcerati oggi sono solo le associazioni dedicate da sempre a questo settore e il tema non è più appannaggio della politica? Perché la politica è tiepida sia verso queste prese di posizione che verso i moniti del Pontefice, citato e ascoltato invece su altre vicende? Evidentemente perché si intravvede un forte interesse elettorale nell’inasprire le pene. Un sintomo di ciò è ben rappresentato dalla recente riforma del codice della strada con chiari aspetti liberticidi. E non si può certo dire che le norme pre-riforma fossero tenere nel punire le trasgressioni. Come sarebbe bello se ci fossero ancora politici in grado di battersi per la presunzione di innocenza (fino a prova contraria) e per una giustizia giusta e rapida. Una provocazione: che succederebbe se prima di entrare in Consiglio dei ministri, o in Transatlantico, fosse obbligatorio effettuare l’alcol test o la prova del capello? Sarebbe bello che prima di introdurre nuove leggi, si pensasse ai cittadini che vivono la vita di tutti i giorni senza privilegi ma con tanti sacrifici. Continuando di questo passo, invece, avremo un Paese sempre più arretrato e con maggiore astensionismo, nel quale sarà bello venire solo per fare le vacanze essendo dotato di un paesaggio e di un patrimonio artistico meraviglioso. Amnistia e indulto, il richiamo del Papa è trascendente di Tommaso Scandroglio* lanuovabq.it, 30 dicembre 2024 Nella “Spes non confundit”, Papa Francesco ha invitato i governi a concedere forme di amnistia o indulto per restituire speranza ai detenuti, fondandosi su quanto dice la Bibbia sul giubileo. Un gesto che richiama quanto accade al peccatore toccato dalla grazia di Dio. Com’è noto, apa Francesco ha varcato la Porta Santa del carcere romano di Rebibbia in occasione dell’apertura del Giubileo del 2025. Nella bolla pontificia, dal titolo Spes non confundit, con cui ha indetto il Giubileo, Francesco, in merito ai detenuti, scrive: “Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Il richiamo ha necessariamente carattere universale, è cioè rivolto ai governi di tutto il mondo. Per venire a noi, nel nostro ordinamento esistono proprio i due istituti indicati dal Sommo Pontefice, l’amnistia e l’indulto. L’amnistia (art. 151 del Codice penale e art. 79 della Costituzione) estingue il reato. Invece l’indulto (art. 174 Cp) condona in tutto o in parte la pena inflitta oppure la commuta in un’altra specie di pena. Infine, abbiamo la grazia (art. 174 Cp e art. 87 Cost.) che, potremmo dire, è come un indulto, ma ha valore particolare, ossia riguarda un solo soggetto o più soggetti, ma non tutti i rei. Quindi, in estrema sintesi: l’amnistia cancella il reato, l’indulto e la grazia non cancellano il reato, ma solo la pena, in tutto o in parte. Gli ordinamenti giuridici che si sono dotati di questi strumenti di clemenza si avvalgono di tali misure in genere per i reati minori e per i più diversi motivi: allentare la tensione sociale e quindi comunicare segni di distensione, riconoscere che una certa condotta non è più considerata a livello sociale penalmente rilevante, svuotare le carceri perché sovraffollate, etc. La prospettiva del Papa è invece giustamente differente e ha natura trascendente. Continua infatti così la bolla citata sopra: l’invito a concedere l’amnistia o l’indulto “è un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti” (Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: “Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore” (Is 61,1-2)”. La liberazione dei condannati per un atto di grazia dei governanti è, potremmo così esprimerci, la fotocopia di ciò che accade al peccatore toccato dalla grazia di Dio che viene scarcerato dalla prigione del male perché liberato dal Salvatore. Questa è la speranza del credente e l’anno giubilare è dedicato proprio a questa virtù teologale: nessun peccato, per quanto gravissimo, può condannarci per sempre, purché ci sia il nostro pentimento. Finché siamo in vita c’è la possibilità di un riscatto: Cristo non cancella il reato - l’assassinio, il furto, la menzogna rimangono sempre atti malvagi - ma condona la pena perché espiata da Lui in croce. A noi tocca, seppur in misura minima, partecipare a tale espiazione qui in terra o in Purgatorio, così come ricorda san Paolo: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Cristo dunque non fa sconti sul male, ma, se noi glielo permettiamo, può farlo sulla sanzione. Senza il Suo sacrificio saremmo stati tutti condannati nell’aldilà all’ergastolo. Ossia: fine pena, mai. La liberazione dei condannati richiesta dal Pontefice diventa quindi, da una parte, invito concreto per attuare un gesto di equità giuridica che non entra in contraddizione con la virtù della giustizia perché, volendo cogliere la ratio più profonda di questi atti di benevolenza, il reo deve essere meritorio dell’atto di clemenza e dunque deve mostrare di aver già espiato in qualche modo la colpa. Su altro fronte, la scarcerazione dei detenuti diviene simbolo efficace perché potente nel richiamare la condizione di noi tutti, imprigionati nella morsa del peccato e bisognosi che la giustizia divina si chini su di noi mostrandoci il suo volto misericordioso per riscattarci, per risorgere grazie a Cristo a vita nuova, per essere reinseriti non semplicemente nel consesso civile, come potrebbe accadere per gli ex detenuti, ma nella comunità dei santi. Dunque, l’invito del Papa da particolare assurge a categoria teologica, abbracciando tutta l’umanità e diviene una richiesta a Dio perché sia clemente con noi, aprendo le porte delle nostre celle, aprendoci alla speranza. *Filosofo del diritto Il figlio dell’ex narcos tra sofferenza e riscatto: “Voglio aiutare i detenuti” di Sandro Pugliese Il Giorno, 30 dicembre 2024 Il padre Rino Gennaro è in carcere: “Io condanno tutti i reati che ha commesso. Com’è ovvio, chiunque commette degli errori va condannato, e se questi errore prevedono il carcere, è giusto finire dietro le sbarre. Poi, scontata la pena però, devono cambiare vita. Come la deve cambiare mio papà”. Ciro Bonifacio è un ragazzo di 22 anni che sta cercando di ritrovare la serenità dopo tanti anni di dolore. Stiamo parlando del figlio del narcos Rino Gennaro Bonifacio. Un ragazzone, alto e sicuro di sé, imprenditore che punta a dare vita ad una associazione che aiuti i detenuti e ad un sequel del libro scritto dal padre: “Malabellavita”. Lui condanna con forza i reati commessi dal padre e anche se è cresciuto da solo non lo ha mai abbandonato e tutte le volte che è possibile lo va a trovare in cella, ad Opera, dove è rinchiuso nel reparto di massima sicurezza e da dove dovrebbe uscire il prossimo anno. Com’è il rapporto con suo padre oggi? “Mah, anche se sono cresciuto senza lui ho imparato comunque a volergli bene e a stargli vicino. Il prossimo anno finirà di scontare la sua pena e il suo passato sarà un capitolo chiuso. Mi sono fatto da solo come uomo ma ho seguito anche alcuni consigli suoi che sono stati utili: ovviamente la prima regola che mi ha raccomandato di seguire è di non fare mai quello che aveva fatto lui, mai”. Porta un cognome “pesante”, le ha creato disagio nella vita e nelle relazioni? “Sia in amore che in amicizia o nelle relazioni il cognome che porto appresso mi ha messo un po’ a disagio. Chiaramente la mia sofferenza passata mi ha estraniato un po’ da tutto, oggi sono una persona che fa attenzione ad affezionarsi a qualcuno”. Oggi lei è un imprenditore con il sogno di aprire un’associazione per aiutare i detenuti... “Si, è un desiderio che coltivo da tempo. Conosco la realtà dei detenuti e delle loro famiglie e spesso ci sono persone che hanno molto bisogno. Vorrei dare vita, semmai con l’auto di mio padre quando sarà libero - chissà - ad una associazione che aiuta chi è dentro ma anche e soprattutto chi resta fuori”. Suo padre prima di essere coinvolto nuovamente nel traffico di droga, aveva scritto un libro. È vero che potrebbe arrivare un sequel? “Verissimo. Stavano già lavorando per fare uscire un eventuale docu-film su mio padre ma poi lui è tornato in carcere. Oggi alcuni editori vorrebbero fare un sequel del libro e poi un film inserendo anche la mia storia”. Quali sono i momenti in cui suo padre le è mancato? “I momenti in cui mi è mancato sono quelli importanti per un figlio. Sono tanti come quando dai i primi calci al pallone, provi ad andare in bicicletta o quando ti si stacca il primo dentino. Quando a scuola era la festa del papà tutti i compagni disegnavano i loro padri e io chiaramente facevo il mio disegno ma avevo impresso dentro di me le sbarre che ci separavano. Ero piccolo, non capivo, provavo a non dipingerle, ma appunto le avevo sempre dentro di me”. Ad oggi chi è suo papà per lei? “Mio padre lo lascio fuori dalla mia vita come “personaggio” e protagonista di brutte storie, ma oggi per me sta diventando a modo suo un buon padre. Non mi ha visto nascere ma ho visto nei suoi occhi il dolore di non avermi vissuto perché era finito in galera”. La polemica sul 41 bis a Riina jr, tra la colpa e il peso del nome di Francesco La Licata La Stampa, 30 dicembre 2024 La Cassazione annulla la proroga del carcere duro a Giovanni Riina rilanciando il dibattito e le polemiche Il figlio del boss di Cosa Nostra sconta l’ergastolo da 28 anni È ancora un rischio per il Paese o fa paura per il cognome che porta? La Cassazione ha annullato il provvedimento di proroga del carcere duro (l’ormai famigerato 41 bis) per Giovanni Riina, figlio di don Totò “u curtu”, il macellaio (chiedendo scusa ai macellai) di Cosa nostra che - con le stragi - ha trasformato la mafia in una organizzazione terroristica. La Corte Suprema ha ritenuto poco motivata la sentenza che decideva di accogliere la richiesta di proroga del ministero della Giustizia accolta dal Tribunale di sorveglianza di Roma. Per questo motivo una nuova sentenza dovrà essere pronunciata da altri giudici che dovranno riempire i “vuoti” riscontrati dalla Cassazione. Ovviamente la notizia ha destato clamore e polemiche. Così accade quando c’è di mezzo qualcuno dei Riina: una famiglia “divisiva” per antonomasia, un cognome che riporta nella memoria collettiva lutto, dolore e rabbia per il “danno” subìto, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, dalla società civile e dalle istituzioni. Tutto ciò che ha riguardato i Riina, gli eredi soprattutto, è finito puntualmente nel “frullatore” dello scontro fra i cosiddetti “buonisti” e gli intransigenti senza perdono che intendono tutelare il diritto al risarcimento di tante persone che hanno subito lutto e dolore. Ma non è solo questione di spirito di polemica. I figli di don Totò, le loro vite, i loro gesti, la loro ostinazione nel rimanere incastrati nella “cultura corleonese”, hanno reso difficile la volontà di separare le responsabilità dei figli dalle colpe del padre. Anche se, bisogna dirlo, proprio l’ottusità degli adulti ha fatto sì che (specialmente) i maschi della famiglia del “padrino” assumessero sulle loro non robuste spalle il peso enorme dell’eredità paterna. Giovanni Riina oggi è un uomo vicino ai cinquanta. Da 28 anni sta in carcere, condannato all’ergastolo per associazione mafiosa e pluriomicidio. Una sentenza senza speranza che gli è caduta addosso quando, appena ventenne, dovette imparare a conoscere la rudezza del carcere duro. Ma fu libero arbitrio, il suo? Fino a poco prima dell’arresto Giovanni era andato avanti protetto dal peso ingombrante del padre che aveva scelto di far crescere i figli in clandestinità: una vita irreale, senza contatti sociali che non fossero i parenti stretti, e dunque niente scuola, nessun amico, niente compagni. Dopo l’arresto del padre, travolto dalla valanga di sangue della mattanza mafiosa e delle stragi di Falcone, Borsellino e delle bombe di Roma, Milano e Firenze, i Riina erano tornati a Corleone “marchiati” dalla nomea di don Totò. E Giovanni finì nell’orbita dell’educazione criminale impartita da un “maestro” di primordine come lo zio, Leoluca Bagarella, fratello della madre Antonietta. Un vero duro, Luchino, che faceva paura solo a guardarlo negli occhi ed era capace di uccidere anche a mani nude. Nella mente di Bagarella c’era che Giovanni doveva prendere il posto del padre arrestato. Così voleva (e vuole) la tradizione mafiosa. Ma il designato deve dimostrare di esser meritevole di accogliere tanta eredità. Spetta allo zio iniziatore di organizzare una bella cerimonia in grande stile. Non si sa bene come e perché decide di uccidere tre persone (due fratelli e la moglie di uno dei due) secondo lui implicate nel progetto di sequestro di uno dei figli di don Totò. Poco importa se non vi fossero tutte le prove: Luchino non è uomo del dubbio, lui ha solo certezze, poche parole e decisioni rapide, immensa capacità di sopportazione di ogni tipo di dolore. Basti dire che al collo porta un cammeo col ritratto di Vincenzina, la giovane moglie che si è impiccata in casa sopraffatta dal “rimorso”, dal senso di colpa per aver portato nella famiglia Bagarella il giovane Giuseppe, il fratello piccolo, che diventerà uomo d’onore ma poi, una volta arrestato, si pentirà coprendo tutti di disonore e soprattutto di guai giudiziari. Forse stavano per uccidere le persone sbagliate (le successive indagini accerteranno che le vittime non avevano nessun legame con la criminalità) ma Luchino non sente ragioni. Organizza un gruppo di fuoco e porta con sé il nipote di 20 anni. Una strage efferata (la coppia di sposi assassinata sotto gli occhi dei due figli piccoli) che sconvolge Corleone, ma non muove a compassione lo zio di Giovanni che vede avvicinarsi il trionfo dei Riina. In verità Giovanni si era già sottoposto a qualche “prova d’arte” di minore entità: aveva imbrattato e danneggiato (forse insieme a Giuseppe Salvo, il fratello minore) la lapide posta a Corleone in memoria del giudice Giovanni Falcone, quasi a voler rimarcare il possesso del territorio, considerato “luogo sacro” e non violabile da parte di simboli dello Stato. Ma gli omicidi hanno rilevanza ben diversa nella scalata alla gerarchia mafiosa. Insomma era lui il predestinato, più ancora del fratello piccolo che si è agitato (specialmente sui social dove si accredita come artista per aver scritto la storia del padre presentata a Porta a Porta) e si agita parecchio ma senza offrire solide garanzie di affidabilità. Cos’è oggi Giovanni, dopo 28 anni? Lui continua a “essere il figlio grande di Riina” e quindi un “corleonese irriducibile”, soprattutto in assenza di una qualsiasi presa di distanza. Nessuno dei figli di don Totò ha mai vacillato sulla propria identità. E di poco tempo fa la spacconata di Giuseppe che sui social ha dato il buongiorno, ma “da via Scorsone di Corleone”, recuperando il vecchio indirizzo di casa propria che il Comune ha cambiato, intestandolo a Cesare Terranova, magistrato ucciso da Riina. Di nuovo l’affermazione del primato del “luogo sacro”. Forse ci vorrà ancora del tempo prima che venga meno un po’ di “orgoglio corleonese”. 41 bis: nascita, regole ed evoluzione del “carcere duro” in Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2024 Introdotto come misura emergenziale dopo le stragi mafiose del ‘92, con l’obiettivo di impedire i rapporti dei boss con l’esterno, il regime carcerario si è trasformato in un sistema “permanente” di privazioni e limitazioni che solleva dubbi di natura costituzionale. Cos’è e chi viene sottoposto al regime di 41 bis in Italia? Parliamo di un articolo introdotto nell’ordinamento penitenziario, quindi di natura amministrativa, che nel gergo comune viene chiamato “carcere duro”, anche se sulla carta, duro non è, altrimenti sarebbe incostituzionale. Secondo l’attuale formulazione del comma 2 dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, si tratta di un regime differenziato che può essere disposto, con provvedimento del Ministro della giustizia, nei confronti di singoli detenuti o internati per “per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso”, in relazione ai quali vi siano “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva”. Quindi sono sottoposti al carcere duro i boss mafiosi o capi di organizzazioni considerate terroristiche. Per l’ordinamento penitenziario, il 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Il 41bis deve impedire le relazioni con l’esterno per rescindere i legami criminali. Invece, di fatto, è diventato nel tempo un carcere duro perché si è trasformato in un sistema di privazioni e limitazioni, imposizioni e divieti. Anche se, grazie a diverse sentenze della Cassazione e Corte Costituzionale, sono cadute alcune restrizioni afflittive che non giustificano lo scopo originario del 41 bis. Le radici del 41 bis nell’ordinamento penitenziario - L’articolo 41-bis nasce come risposta a un complesso intreccio di sfide sociali, politiche e criminali che hanno caratterizzato l’Italia dalla fine degli anni ‘70. L’evoluzione di questa norma è strettamente legata al contesto emergenziale del periodo, segnato da una duplice minaccia: il terrorismo e la crescente pervasività delle organizzazioni criminali, in particolare Cosa Nostra. Tuttavia, le radici di questo regime vanno ricercate nell’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario, introdotto con la riforma del 1975, un punto di partenza cruciale per comprendere l’architettura normativa e ideologica che ha condotto alla successiva elaborazione del 41-bis. L’approvazione della legge 26 luglio 1975, n. 354, rappresentò un traguardo storico per il sistema penitenziario italiano, segnando l’apice del movimento riformista che si proponeva di conciliare il trattamento dei detenuti con i principi costituzionali di reintegrazione sociale. Tuttavia, il legislatore dell’epoca, pur enfatizzando un approccio umanizzante e riabilitativo, ha introdotto l’articolo 90 nell’ordinamento penitenziario come strumento emergenziale, prevedendo che, in casi di gravi e straordinarie esigenze di ordine e sicurezza, le regole ordinarie del trattamento potessero essere temporaneamente sospese mediante un decreto del Ministro di Grazia e Giustizia. Questo regime, per anni non fu mai applicato, perché considerata una misura altamente eccezionale. Il rapimento Moro e la prima applicazione - Arriviamo al 16 marzo 1978. In via Fani, un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e uccide i cinque uomini della scorta. Viene così legittimata per la prima volta l’applicazione dell’articolo 90. Furono istituiti i primi cinque istituti di “massima sicurezza”: Favignana, Asinara, Cuneo, Fossombrone e Trani. In questi istituti, il regime carcerario divenne particolarmente rigido: ai detenuti venivano imposte limitazioni significative, tra cui la segregazione dalle attività collettive, restrizioni nei colloqui con i familiari (spesso effettuati attraverso barriere divisorie) e una sorveglianza continua. Questi provvedimenti, pur giustificati dalla necessità di contenere i pericoli interni ed esterni al carcere, evidenziarono da subito le contraddizioni di un approccio che derogava alle garanzie ordinarie previste dalla legge penitenziaria. Stabilizzazione e successiva abrogazione dell’articolo - Con il passare degli anni, l’applicazione dell’articolo 90 si stabilizzò, portando alla creazione di un sistema di gestione emergenziale quasi permanente, che rischiava di contraddire il principio stesso della sua temporaneità. Critiche si concentrarono anche sul rischio di incostituzionalità, specie in relazione alla censura della corrispondenza e alla limitazione dell’accesso agli spazi all’aperto. Queste problematiche, unite alla necessità di armonizzare la gestione delle situazioni emergenziali con i diritti fondamentali dei detenuti, portarono alla progressiva revisione dell’articolo 90, fino alla sua abrogazione con l’introduzione della legge 10 ottobre 1986, n. 663, conosciuta come legge Gozzini. Nascita del 41 bis in Italia - Come per l’azione terroristica nei confronti di Aldo Moro, le stragi mafiose del 1992 dettero l’impulso nel rispolverare l’articolo 90 attraverso, appunto, la conversione in legge del 41 bis. Il 23 maggio, a Capaci, esplode una quantità abnorme di tritolo. Una tragedia immane. L’esplosione ha investito l’autovettura sulla quale viaggiavano gli agenti di Pubblica Sicurezza Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani e quella che seguiva immediatamente dopo, cioè quella nella quale si trovavano i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. I primi soccorritori hanno potuto constatare che i magistrati erano ancora in vita. La dottoressa Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, invece Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Malgrado gli sforzi profusi dai soccorritori prima e dai sanitari dopo, entrambi i giudici sarebbero poi deceduti in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Decreto Martelli-Scotti - La strage di Capaci spinse i ministri Martelli e Scotti a elaborare un decreto che inasprisce diverse misure, tra le quali l’introduzione del 41 bis. In quel momento storico, il Parlamento era attraversato da partiti fortemente garantisti, dai liberali, passando per i Radicali e i Socialisti, fino ad arrivare agli eredi del Partito comunista. I quali avevano espresso forti perplessità per questa misura che va in antitesi con la riforma Gozzini. Il decreto legge tardava ad essere convertito in legge. Arriviamo così al 19 luglio 1992, quando Totò Riina decide di accelerare la strage di Via D’Amelio. Per Cosa Nostra Paolo Borsellino era diventato troppo pericoloso. Tutte le sentenze sulle stragi affermano che l’uccisione ebbe non solo uno scopo vendicativo per l’esito del maxiprocesso, ma soprattutto “preventivo”, visto l’interessamento del giudice all’indagine su mafia appalti. La conversione in legge dopo Via D’Amelio: l’attentato fa crollare il muro garantista - Per Totò Riina l’esigenza maggiore era quella di preservare i suoi affari miliardari e i patti con i potentati economici (in un caso addirittura entrò in società tramite i Buscemi), anziché rischiare che passasse il decreto sul regime del 41 bis. È accaduto anche con i delitti eccellenti. L’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, accelerò l’iter dell’approvazione della legge “Rognoni-La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis) e la conseguente previsione di misure patrimoniali applicabili all’accumulazione illecita di capitali. L’attentato di Via D’Amelio fece crollare il “muro” garantista. L’iter per la conversione in legge fu accelerato e l’8 agosto 1992 il Parlamento convertì il decreto Martelli-Scotti e quindi anche il 41 bis. Da emergenziale a ordinario, la trasformazione del 41 bis - Il giudice Giovanni Falcone viene spesso strumentalizzato per difendere l’afflittività del 41 bis. Il giudice ha voluto il regime differenziato, non per torturare o convincere i boss a collaborare. La finalità, così come anche oggi è sulla carta, era necessaria per i capi mafia, coloro che erano al vertice dell’organizzazione, onde evitare ogni possibile collegamento e contatto tra i detenuti all’interno delle carceri e i criminali esterni. Nulla di più. Quando nell’agosto del 1992 c’è stata la conversione in legge, secondo l’intento del legislatore tale misura dove essere emergenziale e soprattutto temporanea. Tuttavia, la sua vigenza è stata assicurata nel corso degli anni, per quasi un decennio, da reiterati provvedimenti legislativi di proroga, fino alla sua definitiva stabilizzazione nel sistema penitenziario a opera della legge del 23 dicembre 2002 con il governo Berlusconi. L’inasprimento del regime differenziato - Attraverso la legge del 15 luglio 2009 n. 94, e sempre con il governo di centrodestra, il 41 bis ha avuto un inasprimento. Una legge che ha inserito gravose misure afflittive eccessive rispetto alla finalità di sicurezza. La ratio è quella di impedire i contatti, che però si realizzano soltanto attraverso due canali: da un lato la corrispondenza epistolare, telegrafica o telefonica, dall’altro, i colloqui. Non ci sono altri mezzi con cui il detenuto può comunicare. Eppure, solo per fare un esempio, è accaduto che ai reclusi al 41 bis venisse interdetta la possibilità di tenere nella propria cella la foto dei propri genitori defunti. Oppure di ascoltare la musica di notte. Il 41 bis e i dubbi di costituzionalità - Il 41 bis continua a sollevare dibattiti sulla sua compatibilità con i principi costituzionali. I dati evidenziano un numero stabile di detenuti sottoposti a questo regime negli ultimi anni, pari a circa 700, con numerosi rinnovi automatici e casi di detenzione che si protraggono per l’intera durata della pena. La gestione del 41 bis si basa su un intreccio di norme, circolari e disposizioni amministrative, che regolano in modo estremamente rigido la vita detentiva. L’ultimo intervento legislativo significativo risale alla Legge 15 luglio 2009 n. 94, che ha definito la configurazione attuale del regime speciale. Le modifiche legislative sono state spesso accompagnate da interventi della Corte Costituzionale, volti a garantire che il 41 bis fosse conforme ai principi costituzionali. Oltre alla legislazione, l’Amministrazione penitenziaria ha emesso numerose circolari, tra cui la circolare n. 3676/6126 del 2017, che rappresenta un esempio di burocratizzazione dei diritti. Questa circolare specifica dettagli come la dimensione delle pentole o le modalità di accesso a libri e giornali. Le criticità del 41 bis e il dibattito sulla “tortura” - Le misure per i detenuti di alto profilo sono ancora più rigide. Questi scontano la pena in aree riservate, dove i contatti sociali sono ulteriormente limitati. Un esempio emblematico è il sistema della modalità “a due”, in cui un detenuto viene assegnato come “compagno” per un altro, limitando ulteriormente le interazioni. Questo rappresenta un 41 bis ancora più severo, che accentua l’isolamento dei reclusi. L’obiettivo principale del 41 bis è recidere i collegamenti tra il detenuto e la criminalità organizzata, garantendo al contempo l’ordine e la sicurezza. Tuttavia, la sua applicazione solleva diverse criticità. Eccessiva burocratizzazione: le norme minuziose imposte dalla circolare del 2017 hanno suscitato perplessità. Come la limitazione dei contatti sociali e sensoriali: l’isolamento prolungato incide sul benessere psichico e fisico dei detenuti. E vi sono dubbi sul rispetto dei principi di umanità e rieducazione sanciti dalla Costituzione. Un “ergastolo bis”? Un aspetto controverso del 41 bis riguarda l’elevato numero di rinnovi automatici e la lunga permanenza in regime speciale di molti detenuti. Questi fattori alimentano il timore che il 41 bis si sia trasformato in una sorta di “ergastolo bis”, svuotandolo della sua natura di misura eccezionale. Ciò potrebbe violare il principio di proporzionalità della pena, trasformando il 41 bis in una sanzione permanente anziché temporanea, come previsto originariamente. Il 41 bis rappresenta un dilemma complesso, in bilico tra le esigenze di sicurezza e il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti. Per garantire la legittimità del regime, è necessario che la sua applicazione avvenga in modo rigoroso e proporzionato, con una verifica periodica della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’uso. Solo un confronto aperto e onesto potrà bilanciare le esigenze di sicurezza con i principi di umanità e rieducazione sanciti dalla Costituzione italiana. Giovanni Riina e l’annullamento del 41bis, Ostellari: “Strumento imprescindibile” Il Dubbio, 30 dicembre 2024 Fratelli d’Italia difende il “carcere duro” dopo la decisione della Cassazione sul figlio di Totò Riina, sul caso si muove anche la presidente Antimafia Colosimo. Gasparri: “Il problema è la magistratura”. “Il regime speciale di detenzione 41 bis è imprescindibile nella lotta alla mafia e al terrorismo. La decisione della Corte di Cassazione sul caso Riina non scalfisce l’utilità di uno strumento che difendiamo senza ambiguità. Sia chiaro a mafiosi e nemici della democrazia: questo governo non farà sconti o passi indietro”. È la posizione del sottosegretario di Stato alla Giustizia Andrea Ostellari dopo la decisione della Suprema Corte, che il 27 dicembre ha annullato con rinvio la conferma del decreto ministeriale che impone il “carcere duro” a Giovanni Riina. Il secondogenito del capo di Cosa nostra è in carcere dal 1996 per scontare una condanna a due ergastoli, collegati alla partecipazione a Cosa nostra (ma non come capo) e soprattutto a tre omicidi di mafia commessi dallo zio Leoluca Bagarella e da Giovanni Brusca, risalenti al 1995 e di cui fu considerato il mandante. La Cassazione ha accolto con rinvio il ricorso di Riina jr, al 41 bis dal 2002, contro la proroga della misura nel novembre 2023 da parte del ministero della Giustizia. Sulla vicenda è intervenuta nei giorni scorso la presidente della Commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo, che con un post su X ha annunciato che chiederà le carte relative al caso. “La storia criminale di questo uomo non conosce dissociazioni e il solo cognome incute, ancora oggi, paura e una sorta di pericolosa e aberrante fascinazione. Metteremo la Commissione parlamentare antimafia a difesa del 41bis”, ha dichiarato Colosimo. La decisione della Cassazione - Dopo la decisione dei giudici, il tribunale di sorveglianza di Roma, con una diversa composizione rispetto al collegio che aveva emesso la decisione annullata dalla Cassazione, dovrà quindi rivalutare l’applicazione del regime di 41 bis a carico di Riina, per verificare l’attuale collegamento tra il figlio del superboss (morto nel 2017) e l’esterno, presupposto della conferma della misura che impone isolamento, restrizioni sui contatti con i familiari e con i difensori, limitazioni nella consegna di corrispondenza, pacchi e persino indumenti di ricambio. Nella sentenza di annullamento con rinvio, la Cassazione ha fissato un principio di diritto a cui si dovranno attenere i magistrati della sorveglianza, con riferimento “all’apprezzamento in concreto della incidenza del decorso del tempo in rapporto a una condizione associativa pregressa” in cui mai è stato dimostrato il ruolo di vertice, per Giovanni Riina, “condannato per mera partecipazione al sodalizio mafioso”. Inoltre, “risulta meramente assertiva e poco chiara la considerazione di una posizione di ‘sovraordinazione’, non essendo stata argomentata la fonte e il significato concreto di tale affermazione in rapporto all’attuale condizione di pericolosità”. Da dimostrare anche il reale e attuale “attivismo esterno del gruppo di riferimento” per capire se il detenuto abbia fatto un percorso di recupero grazie al trattamento penitenziario. Le reazioni politiche - Compatte le reazioni della maggioranza a difesa del regime speciale. “Pur nel rispetto dovuto alla Suprema Corte, insisteremo nella richiesta di applicazione del regime di 41 bis c.d. ‘carcere duro’ a Giovanni Riina. La conclamata e attuale pericolosità mafiosa di Giovanni Riina non consente di abbassare la guardia. Per fronteggiare i non condivisi ragionamenti della Suprema Corte, rappresenteremo tutti gli elementi raccolti dagli investigatori circa il ruolo ricoperto da Riina nell’associazione e la attuale pericolosità personale e della consorteria. Sul 41 bis non arretriamo!”, ha assicurato in una nota Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario alla Giustizia. “Condivido la preoccupazione per quanto riguarda il trattamento carcerario di Riina junior, in riferimento alla possibile sospensione del 41 bis. Faccio presente ad alcuni zelanti dilettanti dell’Antimafia, che difendono personaggi improbabili come Cafiero de Raho, che è la magistratura che sta valutando decisioni che potrebbero apparire lassiste nei confronti di Riina junior. Non è la politica. Che grazie a molti di noi nel passato ha reso più rigide le norme del 41 bis. Mentre altri arruolavano improbabili esponenti di un antimafia parolaia contraddetta da storie di vita che presto discuteremo anche nella Commissione parlamentare competente. Auspichiamo il massimo rigore nei confronti dei Riina di ieri, di oggi e di ogni tempo. Ma è la magistratura il problema di questo Paese. Purtroppo una Istituzione che non va riformata, ma rifondata con persone totalmente nuove”, ha dichiarato il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della Commissione Antimafia. “Non può lasciarci indifferenti che sia stato annullato il 41bis nei confronti di Giovanni Riina, figlio del noto boss di Cosa Nostra - dicono i senatori di Fratelli d’Italia Costanzo Della Porta ed Etelwardo Sigismondi, componenti della commissione Antimafia -. Per questo ci associamo alla richiesta del presidente della commissione Antimafia, Chiara Colosimo, di acquisire gli atti al fine di approfondire il caso. Occorre rispettare le decisioni della magistratura, ma allo stesso tempo è indispensabile dare seguito alla battaglia contro la mafia che il governo Meloni ha ingaggiato fin dal suo insediamento”. Ad esprimere preoccupazione sono anche i rappresentanti del Movimento 5 Stelle nella commissione parlamentare Antimafia, per i quali la decisione della Cassazione “è allarmante”. “È indispensabile impedire a Riina di riallacciare agevolmente i rapporti con Cosa Nostra e, quindi, fare tutto il possibile affinché i vizi di forma vengano superati quanto prima. Servono segnali forti, anche per contrastare il clima di normalizzazione che sta avvolgendo la lotta alla mafia e l’utilizzo dei formidabili strumenti che per un trentennio hanno reso forte lo Stato contro le organizzazioni criminali”. Dal saluto romano al caso Cospito, passando per Bibbiano: il 2024 della Cassazione di Assunta Cassiano e Daniele Dell’Aglio Adnkronos, 30 dicembre 2024 Un anno di sentenze della Suprema Corte, chiamata ad esprimersi su grandi casi di cronaca e vicende politiche, dal decreto Cutro all’autonomia differenziata. Dalla strage di Viareggio all’omicidio di Willy Monteiro, dalle Sezioni Unite sul saluto romano alla strage di Rigopiano, il 2024 è stato un anno di sentenze che hanno riguardato rilevanti casi di cronaca e non solo. Nell’anno che sta per chiudersi infatti la Suprema Corte è stata chiamata a esprimersi anche sul caso dei migranti dopo il decreto Cutro, sul via libera sui referendum per l’abrogazione dell’autonomia differenziata e a quelli su jobs act e cittadinanza. Ecco in sintesi alcune delle sentenze decise negli ultimi dodici mesi dalla Cassazione. 15 gennaio La Cassazione conferma le responsabilità penali e civili per il disastro ferroviario avvenuto a Viareggio il 29 giugno 2009 che provocò 32 morti e un centinaio di feriti. I supremi giudici hanno disposto un processo d’Appello Ter davanti ai giudici di Firenze limitatamente alle attenuanti generiche per alcuni imputati, tra i quali l’ex ad di Fs e Rfi Mauro Moretti. Rigettati ricorsi di Vincenzo Soprano, ex ad di Trenitalia, dei responsabili civili e della parte civile Medicina Democratica. 16 gennaio Il clan Casamonica è mafia. A sancirlo è la Cassazione con la sentenza che conferma nel maxiprocesso l’accusa di 416bis. I giudici della seconda sezione penale, esprimendosi sui ricorsi degli oltre trenta imputati, hanno sostanzialmente confermato l’impianto accusatorio e accolto il ricorso della procura generale riconoscendo anche l’aggravante dell’associazione armata per alcune posizioni di vertice per le quali è stato disposto un appello bis solo sul punto per rideterminare la pena. Caduta l’aggravante di aver agito nell’interesse del clan invece per posizioni di secondo piano. In primo grado, il 20 settembre 2021, erano state comminate 44 condanne per oltre 400 anni carcere. Al maxiprocesso si era arrivati dopo gli arresti compiuti dai carabinieri del Comando provinciale di Roma nell’ambito dell’indagine ‘Gramigna’, coordinata dal magistrato Michele Prestipino e dai sostituti procuratori Giovanni Musarò e Stefano Luciani. 23 gennaio Confermata la condanna per violenza sessuale nei confronti di Innocent Oseghale, già condannato in via definitiva, per aver ucciso e fatto a pezzi Pamela Mastropietro, la 18enne romana che si allontanò da una comunità di Corridonia (Macerata) e i resti della quale furono ritrovati chiusi in due trolley. I giudici della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso della difesa dell’imputato che aveva chiesto l’annullamento della condanna decisa dalla Corte di appello di Perugia nel processo bis per la sola aggravante della violenza sessuale. In questo modo viene dunque confermato l’ergastolo per l’imputato. “Da sei anni aspettavo questo momento, è quello che speravo” ha commentato Alessandra Verni, la mamma di Pamela. La difesa di Oseghale nei mesi scorsi ha presentato un ricorso straordinario alla Corte di Cassazione ritenendo che sia stato commesso un errore nella ricostruzione sancita dalla sentenza e l’udienza è stata fissata per il prossimo 16 gennaio. 8 febbraio Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione emettono un’ordinanza interlocutoria con la quale si chiede alla Corte europea di pronunciarsi in via di urgenza sulla garanzia finanziaria di 5mila euro richiesta ai richiedenti asilo in Italia per evitare il trattenimento in un centro di frontiera. Le sezioni unite erano state chiamate a decidere in merito ai 10 ricorsi presentati dall’Avvocatura dello Stato per conto del Ministero dell’Interno in merito alla mancata convalida da parte del tribunale di Catania dei decreti di trattenimento disposti dal questore di Ragusa per migranti tunisini in applicazione del cosiddetto decreto Cutro. In particolare, le Sezioni unite civili chiedono alla Corte Ue se le norme del Parlamento europeo e del Consiglio del 2013, “ostino a una normativa di diritto interno che contempli, quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (il quale non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente), la prestazione di una garanzia finanziaria il cui ammontare è stabilito in misura fissa” “anziché in misura variabile, senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo”. 29 febbraio Arriva un sostanziale via libera della Cassazione all’utilizzabilità delle chat criptate Sky-Ecc nei procedimenti giudiziari. È quanto hanno deciso le Sezioni unite penali chiamate a dirimere la questione relativa al sistema di messaggistica criptato, nell’ambito di procedimenti che riguardano, tra gli altri, la criminalità nel nostro Paese, in particolare nell’ambito di grand inchieste sul narcotraffico. Le Sezioni unite della Cassazione in particolare, interpellate su diversi quesiti, hanno rigettato i due ricorsi proposti dalle difese. Per i supremi giudici, “l’acquisizione, mediante ordine europeo di indagine, dei risultati di intercettazioni disposte dall’Autorità giudiziaria estera su una piattaforma informatica criptata integra l’ipotesi disciplinata nell’ordinamento interno dall’art. 270 del codice penale” sull’utilizzabilità delle intercettazioni in altri procedimenti. Inoltre ai fini dell’emissione dell’ordine europeo di indagine per l’acquisizione non occorre la preventiva autorizzazione del giudice. “L’utilizzabilità (…) deve essere esclusa se il giudice del procedimento nel quale dette risultanze istruttorie vengono acquisite rileva che, in relazione ad esse, si sia verificata la violazione dei diritti fondamentali, fermo restando che l’onere di allegare e provare i fatti da cui inferire tale violazione grava sulla parte interessata” sottolinea la Cassazione nelle motivazioni. Ma, spiegano le Sezioni Unite, “l’impossibilità per la difesa di accedere all’algoritmo utilizzato nell’ambito di un sistema di comunicazioni per criptare il testo delle stesse non determina una violazione dei diritti fondamentali, dovendo escludersi, salvo specifiche allegazioni di segno contrario, il pericolo di alterazione dei dati in quanto il contenuto di ciascun messaggio è inscindibilmente abbinato alla sua chiave di cifratura, ed una chiave errata non ha alcuna possibilità di decriptarlo anche solo parzialmente”. 20 marzo La Corte di Cassazione dichiara inammissibile l’istanza presentata dalla difesa di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41 bis, contro la decisione con cui il tribunale di Sorveglianza di Roma lo scorso 23 ottobre aveva confermato il carcere duro. Ad impugnare il provvedimento era stato il difensore di Cospito, protagonista di un lungo sciopero della fame. 9 aprile Appello bis nel processo sulla morte l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne ucciso durante un pestaggio a Colleferro la sera del 6 settembre 2020, ma limitatamente alle attenuanti generiche per i fratelli Bianchi. Lo hanno deciso i giudici della Cassazione che hanno riconosciuto per tutti la responsabilità penale per omicidio volontario. Marco e Gabriele Bianchi erano stati in appello a 24 anni, dopo l’ergastolo comminato in primo grado. Diventano invece definitive le condanne per gli altri due imputati, 23 anni per Francesco Belleggia e 21 anni per Mario Pincarelli. Ai fratelli Bianchi in appello erano state concesse le attenuanti generiche, facendo scendere la condanna dall’ergastolo a 24 anni. Ora dopo la pronuncia della Cassazione i due rischiano nuovamente la condanna del carcere a vita. Per il prossimo gennaio è stato fissato l’Appello bis. 10 aprile La Corte di Cassazione conferma l’assoluzione per Claudio Foti, lo psicologo di Torino imputato nel processo con rito abbreviato nato dall’inchiesta sui presunti affidi illeciti dei bambini a Bibbiano. Foti era stato condannato in primo grado a 4 anni per le accuse di lesioni ai danni di una 17enne che avrebbe sviluppato un disturbo borderline in seguito alle sedute, e di abuso d’ufficio in relazione al servizio di psicoterapia affidata alla onlus da lui fondata, ‘Hansel e e Gretel’. La sentenza era stata poi ribaltata in Appello con l’assoluzione da tutte le accuse. Linea condivisa dai supremi giudici della quinta sezione penale che hanno dichiarato inammissibili i ricorsi della Procura generale di Bologna e dell’imputato, confermando l’assoluzione dall’accusa di abuso d’ufficio, per non aver commesso il fatto, e da quella di lesioni gravi, perché il fatto non sussiste. 16 aprile La Cassazione conferma la condanna a 23 anni di carcere per Rassoul Bissoultanov, il ceceno, tuttora latitante, accusato di aver pestato e ucciso Niccolò Ciatti nella notte tra l’11 e il 12 agosto 2017 fuori da una discoteca di Lloret de Mar in Spagna. I supremi giudici della prima sezione penale, accogliendo quanto chiesto dal sostituto procuratore generale di Cassazione Antonietta Picardi, hanno dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla difesa. Diventa così definitiva la sentenza emessa dalla Corte di Assise d’Appello di Roma che aveva confermato la condanna di primo grado. Bissoultanov venne arrestato il 12 agosto 2017 in Spagna e poi dopo 3 anni e 10 mesi rimesso in libertà. Dopo essere stato scarcerato il ceceno lasciò Girona e venne in seguito arrestato in Germania su mandato di cattura internazionale e in seguito estradato in Italia. Nel dicembre 2021 però la Corte d’Assise di Roma lo ha rimesso in libertà, con un provvedimento poi annullato dalla Cassazione. Tornato in Spagna, dopo la condanna a 15 anni, confermata anche in Appello, Bissoultanov ha fatto perdere le sue tracce ed è ancora latitante. 17 aprile Le Sezioni Unite Penali della Cassazione depositano le motivazioni della sentenza sul saluto romano. “L’integrazione del reato richiederà che il giudice accerti in concreto, alla stregua di una valutazione da effettuarsi complessivamente, la sussistenza degli elementi di fatto (esemplificativamente, tra gli altri, il contesto ambientale, la eventuale valenza simbolica del luogo di verificazione, il grado di immediata, o meno, ricollegabilità dello stesso contesto al periodo storico in oggetto e alla sua simbologia, il numero dei partecipanti, la ripetizione insistita dei gesti, ecc.) idonei a dare concretezza al pericolo di “emulazione” insito nel reato secondo i principi enunciati dalla Corte costituzionale”, scrivono i supremi giudici nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 18 gennaio hanno disposto un nuovo processo di Appello nei confronti di otto militanti di estrema destra che avevano compiuto il saluto romano nel corso di una commemorazione a Milano il 29 aprile 2016, aggiungendo che la prescrizione è maturata il 27 febbraio scorso. Gli imputati erano stati assolti in primo grado nel 2020 per l’insussistenza dell’elemento soggettivo e poi condannati nel 2022. Una volta arrivato il fascicolo in Cassazione i giudici della prima sezione penale avevano investito della questione le Sezioni Unite. “Va peraltro escluso che, di contro, come sostenuto dalle difese dei ricorrenti, la caratteristica ‘commemorativa’ della riunione possa rappresentare fattore di neutralizzazione degli altri elementi e, quindi, di ‘automatica’ insussistenza del reato, attesi il dolo generico caratterizzante la fattispecie e la irrilevanza dei motivi della condotta”, sottolineano i supremi giudici nelle ventotto pagine di motivazioni. “La condotta, tenuta nel corso di una pubblica riunione, consistente nella risposta alla ‘chiamata del presente’ e nel cosiddetto ‘saluto romano’ integra il delitto previsto dall’art. 5” della legge Scelba “ove, avuto riguardo alle circostanze del caso - scrivono le Sezioni Unite Penali - sia idonea ad attingere il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista”. Questa condotta può integrare anche il delitto, di pericolo presunto, previsto dall’art. 2 comma 1” della legge Mancino “ove, tenuto conto del significativo contesto fattuale complessivo, la stessa sia espressiva di manifestazione propria o usuale delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi” che hanno tra i loro scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 17 giugno Nuovo processo di Appello per Chiara Appendino. Lo hanno deciso i giudici della quarta sezione penale della Cassazione che, accogliendo la richiesta della procura generale, hanno annullato con rinvio la sentenza inflitta all’ex sindaca di Torino per ricalcolare la pena, riducendola, in relazione ai fatti di piazza San Carlo. Appendino era stata condannata a 18 mesi. I supremi giudici hanno dichiarato irrevocabile la responsabilità penale per Appendino e Paolo Giordana, ex capo di gabinetto del comune. La vicenda riguarda i fatti del 3 giugno 2017 quando durante la proiezione su maxischermo della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid si scatenò il panico fra la folla con un bilancio di 1.500 feriti e la morte di due donne. L’ex sindaca finì a processo per il suo ruolo di responsabilità come primo cittadino, per le accuse di omicidio, disastro e lesioni, tutti in forma colposa. I supremi giudici hanno inoltre disposto un nuovo processo di appello anche per Maurizio Montagnese, ex presidente di Turismo Torino. Assolto in via definitiva invece con la formula “per non avere commesso il fatto” Alberto Bonzano, all’epoca dei fatti dirigente della Questura. 5 luglio Ci sarà un nuovo processo d’Appello per Alex Pompa, il ragazzo che nell’aprile del 2020 uccise a coltellate il padre a Collegno, in provincia di Torino, al culmine dell’ennesima lite familiare per difendere la madre. Assolto in primo grado per legittima difesa, Alex, che ora porta il cognome della madre, Cotoia, era stato condannato il 13 dicembre del 2023 a sei anni e due mesi dalla Corte di Assise di Appello di Torino. I supremi giudici della prima sezione penale della Cassazione, accogliendo la richiesta della procura generale della Cassazione, hanno annullato con rinvio la sentenza impugnata disponendo un Appello bis. “È evidente la necessità di una motivazione rafforzata davanti a un ribaltamento così evidente rispetto alla prima pronuncia” aveva sottolineato il sostituto procuratore generale della Cassazione Marco Dall’Olio nella requisitoria. 10 settembre Nuovo processo di appello ma solo sull’aggravante della premeditazione per Davide Fontana, l’ex bancario di 44 anni imputato per aver ucciso, l’11 gennaio del 2022, la fidanzata Carol Maltesi nella sua abitazione di Rescaldina (Milano) e per essersi poi liberato del corpo della 26enne, fatto a pezzi. Lo hanno stabilito i giudici della prima sezione penale della Cassazione. Lo scorso febbraio i giudici della Corte di Assise di Appello di Milano avevano riconosciuto l’omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà, oltre che per la distruzione e l’occultamento di cadavere, aggravanti che hanno fatto aumentare la pena dai 30 anni del primo grado all’ergastolo. La Cassazione ha confermato l’aggravante della crudeltà stabilendo invece un annullamento con rinvio su quella della premeditazione. 12 settembre Diventa definitivo l’ergastolo per Benno Neumair, il 33enne imputato per l’omicidio e l’occultamento dei cadaveri dei genitori Peter Neumair e Laura Perselli, strangolati il 4 gennaio 2021 e gettati nel fiume Adige. La Cassazione ha rigettato il ricorso della difesa confermando la condanna all’ergastolo disposta il 30 ottobre 2023 dalla Corte d’assise d’appello di Bolzano. 14 ottobre La Cassazione dispone un processo di appello per corruzione nel procedimento Ruby Ter che vede imputate in atti giudiziari una ventina di ragazze ospiti delle cene di Arcore, tra cui Karima ‘Ruby’ El Mahroug, assolte a Milano nel febbraio 2023. I supremi giudici della sesta sezione penale, presieduta da Giorgio Fidelbo, hanno invece dichiarato prescritta l’accusa di falsa testimonianza. Per l’ex fidanzato di ‘Ruby’, Luca Risso, accusato di riciclaggio è stato dichiarato inammissibile il ricorso dei pm milanesi. La decisione della Cassazione è arrivata dopo il ricorso “per saltum” della procura milanese, saltando il giudizio di appello, e riguarda 22 imputati, fra le quali alcune ragazze ospiti delle cene di Arcore, tra cui Karima ‘Ruby’ El Mahroug, tutte assolte a Milano nel febbraio 2023. Le loro posizioni, per l’accusa di corruzione in atti giudiziari, arrivano quindi per la prima volta davanti ai giudici di secondo grado. Per il tribunale di Milano erano da considerare inutilizzabili le dichiarazioni delle ex olgettine come testimoni nel dibattimento perché andavano già indagate, quindi accompagnate in aula da un avvocato. 30 ottobre Cade l’accusa di associazione a delinquere, con la formula perché il fatto non sussiste, per l’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante e altri due imputati nell’inchiesta su una presunta attività di dossieraggio. È quanto deciso dai giudici della sesta sezione penale della Cassazione che hanno inoltre fatto cadere le accuse in relazione ai reati di rivelazione di segreto d’ufficio e di accesso abusivo a sistema informatico, in quest’ultimo caso “limitatamente alle condotte poste in essere fino al giugno 2014” per intervenuta prescrizione. I supremi giudici hanno disposto un appello bis per il ricalcolo della pena per i reati di accesso abusivo compiuti dopo il giugno 2014 e di corruzione, per i quali è stata dichiarata irrevocabile la responsabilità penale. Nel luglio 2022 la Corte di Appello di Caltanissetta aveva condannato Montante a 8 anni, a 5 anni Diego Di Simone, ex capo della security di Confindustria, a 3 anni e 3 mesi per Marco De Angelis, sostituto commissario. Con la sentenza della Cassazione diventa definitiva anche l’assoluzione per il colonnello Gianfranco Ardizzone, ex comandante provinciale della Guardia di Finanza di Caltanissetta. 3 dicembre Diventa definitiva la condanna a un anno e 8 mesi per l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo per rifiuto di atti d’ufficio e falso. È quanto hanno deciso i giudici della sesta sezione penale della Cassazione nel processo per la strage di Rigopiano, quando il 18 gennaio 2017 una valanga travolse l’hotel uccidendo 29 persone. Appello bis, invece, per sei persone, all’epoca dei fatti dirigenti della Regione Abruzzo, che erano assolti nei precedenti gradi di giudizio. Appello bis anche per l’allora sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta mentre è stata confermata la condanna per l’ex gestore dell’hotel. 4 dicembre Appello bis per l’ex componente del Csm e magistrato simbolo del pool di Mani Pulite Piercamillo Davigo accusato di rivelazione del segreto d’ufficio in relazione alla vicenda dei verbali resi dall’avvocato Piero Amara sulla “Loggia Ungheria”. I giudici della Sesta Sezione Penale della Cassazione hanno annullato con rinvio la parte della sentenza d’appello sulla rivelazione a terzi dei verbali mentre hanno dichiarato irrevocabile la responsabilità per quanto riguarda la condotta contestata in concorso. Il nuovo processo d’Appello si terrà davanti a un’altra sezione della Corte d’Appello di Brescia. Lo scorso 7 marzo i giudici della Corte d’Appello di Brescia avevano condannato il magistrato, ora in pensione, a un anno e tre mesi (pena sospesa) come avvenuto in primo grado. 12 dicembre Dalla Cassazione arriva il via libera al referendum per l’abrogazione dell’autonomia differenziata. Semaforo verde dai supremi giudici anche ad altre consultazioni, tra cui l’abolizione di alcuni articoli del jobs act e il dimezzamento, da 10 a 5 anni, dei tempi di residenza degli stranieri in Italia per ottenere la cittadinanza italiana. 19 dicembre La Corte di Cassazione ha risposto al rinvio pregiudiziale sollevato dal Tribunale di Roma il 1° luglio 2024. La Prima Sezione civile della Suprema Corte, nel ribadire che il giudice ordinario è il garante dell’effettività, nel singolo caso concreto al suo esame, dei diritti fondamentali del richiedente asilo, ha affermato che è riservata al circuito democratico della rappresentanza popolare la scelta politica di prevedere, in conformità della disciplina europea, un regime differenziato di esame delle domande di asilo per gli stranieri che provengono da paesi di origine designati come sicuri. Il giudice ordinario, quindi, non può sostituirsi al Ministro degli affari esteri. Non può neppure annullare con effetti erga omnes il decreto ministeriale. “Può tuttavia - si spiega in una nota - nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158, e alla legge 9 dicembre 2024, n.187, in sede di esame completo ed ex nunc, valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto, tenuto conto delle fonti istituzionali qualificate di cui all’art. 37 della direttiva 2013/32/Ue, con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale”. “Inoltre - si spiega ancora - a garanzia dell’effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l’istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest’ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”. Napoli. Muore Pasquale De Micco, arrestato durante il blitz anti De Luca Bossa di Giuseppe Letizia cronachedi.it, 30 dicembre 2024 La Procura apre una inchiesta sulla morte di Pasquale De Micco detto Pasqualino, deceduto all’ospedale Cotugno. Il 51enne era detenuto nel carcere di Secondigliano. I medici del Cotugno hanno informato la Polizia penitenziaria del decesso di Pasquale De Micco. Gli agenti hanno raccolto le prime informazioni e inviato una dettagliata informativa al magistrato di turno. La Procura ha disposto il sequestro della salma e l’autopsia. È stato aperto un fascicolo. De Micco era stato arrestato nell’ultimo blitz contro i De Luca Bossa-De Martino il 27 novembre. Era stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari e portato nel carcere di Secondigliano. I medici dell’ospedale Cotugno hanno informato anche il personale del carcere di Secondigliano, dopo il decesso. Roma. Otello De Castris si è tolto la vita. Il 93enne aveva ucciso la moglie romatoday.it, 30 dicembre 2024 Si è tolto la vita Otello De Castris, l’uomo di 93 anni originario di Colleferro che lo scorso 26 novembre aveva ucciso a Terracina la moglie di 82 anni Luisa Trombetta. Sono stati i carabinieri di Palestrina ad accertare domenica mattina l’estremo gesto messo in atto dall’anziano che si trovava agli arresti domiciliari in una RSA di Poli, piccolo comune della Valle dell’Aniene in provincia di Roma. L’uomo si è lanciato da una finestra al primo piano della Residenza sanitaria assistenziale morendo sul colpo. Il femminicidio di Luisa Trombetta avvenne sul finire dello scorso mese di novembre nell’appartamento di via Giuseppe Di Vittorio dove i due coniugi abitavano a Terracina. Ad allertare il 112 fu la figlia, dopo aver trovato il papà in stato confusionale accanto al corpo della madre priva di vita. Accertate le responsabilità Otello De Castris fu arrestato dai carabinieri del nucleo investigativo di Latina e poi trasferito nella RSA di Poli dove si trovata agli arresti domiciliari. Bergamo. Carcere di via Gleno, quasi la metà dei detenuti ha disagio mentale o dipendenze di Federico Rota Corriere della Sera, 30 dicembre 2024 Visita alla Casa circondariale di politici e avvocati: “Celle d’isolamento indegne di ospitare esseri umani”. C’è un quadro oggettivo delineato dai numeri. Quelli di un carcere che a fronte di una capienza teorica di 319 detenuti ne conta invece 586 e che sconta un sottodimensionamento del personale del 30%. “C’è uno sbilanciamento nello sbilanciamento, che rende ancor più difficile la situazione”, puntualizza Pia Locatelli, già europarlamentare, a margine della visita alla casa circondariale di via Gleno da parte di una delegazione dell’associazione Nessuno tocchi Caino, della Camera penale “Roberto Bruni” e dell’Ordine degli avvocati. Pia Locatelli richiama l’attenzione su un ulteriore aspetto: “Tra il 40 e il 45% ha problemi di disagio mentale o dipendenze”. Ma al netto dell’impatto emotivo derivante dai dati numerici, resta una situazione “a cui non ci si può mai abituare, a dir poco preoccupante. Se a luglio 2023 c’era un sovraffollamento pari al 170%, ora siamo al 186%”, rileva Federico Merelli, avvocato e referente della commissione carcere della Camera penale. Un disagio nelle “condizioni di vita” descritto da Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, citando ciò che ha potuto vedere in due celle d’isolamento: “È un luogo che non può essere degno di ospitare esseri umani”. Di fronte alla prima cella c’è “un lago d’acqua” che finisce in corridoio, dentro “un immondezzaio, vedi panni e stracci per terra, lenzuola sporche”. La seconda cella, invece, “è spoglia, nuda, consiste in un letto, un tavolino, uno stipetto e poi nulla”. D’Elia, nel concludere la sua riflessione, riferendosi più in generale alle condizioni delle carceri italiane, è lapidario: “In carcere troviamo ciò che nella società riteniamo di non dover affrontare perché è costoso. È diventato un ricettacolo di tutte le questioni sociali”. Che si tratti di disagio mentale, di dipendenze e pure di una cattiva gestione dell’immigrazione: circa la metà dei detenuti è composto da cittadini stranieri. “Più un Paese ha politiche chiare, con tempi certi, minori sono i detenuti stranieri”, osserva il consulente legale Ermir Lushnjari. Merelli s’interroga (retoricamente) sulle cause del sovraffollamento: se sia dettato “solo dagli arresti, o se ci sia un problema anche nell’accesso a misure alternative alla detenzione”. E cita dati dell’estate dell’anno scorso: “Più della metà della popolazione carceraria di Bergamo in prossimità, o già nei termini per l’accesso alle misure alternative, restava detenuta”. Mantenere attivo un contatto con la società ridurrebbe i casi di recidiva: “Servono politiche a lungo raggio, ad esempio il ricorso al cautelare come estrema ratio. E in fase esecutiva la regola dovrebbero essere le misure alternative”, spiega l’avvocato Marialaura Andreucci, dell’ufficio di presidenza della camera penale della Lombardia orientale. Merelli, da ultimo, si concede una considerazione più politica, legata ad alcune norme previste dal ddl sicurezza, come l’introduzione del reato di resistenza passiva: “Mi sembra - dice - che si debba andare nella direzione opposta”. La Spezia. Il piatto del riscatto, sfida di manicaretti nella cucina del carcere di Massimo Merluzzi La Nazione, 30 dicembre 2024 La singolare iniziativa gastronomica è andata in tavola a Villa Andreino “Per i detenuti un’occasione importante per disegnare un nuovo futuro”. Condividere un progetto, sostenersi nel percorso e gioire per un risultato. Situazioni normali, almeno in teoria, in qualunque luogo di lavoro ma sicuramente eccezionali all’interno di un carcere. Ma da qualche anno la sfida a colpi di manicaretti è diventata un punto di forza per l’istituto carcerario Villa Andreino della Spezia grazie all’impegno della Camera Penale della Spezia sempre estremamente attenta alle condizioni psicologiche dei detenuti e promotrice di tante iniziative che hanno come obiettivo principale quello di illuminare la vita oltre il muro. Per il quarto anno la Camera Penale presieduta dagli avvocati Fabio Sommovigo e Raffaella Nardone ha organizzato la giornata dal titolo “Giudizi gourmet - rieduchiamo i palati” mettendo in cucina detenuti e chef e tavola oltre al personale carcerario anche magistrati, avvocati e rappresentanti di realtà imprenditoriali spezzine. Un confronto tra fonelli, portate di gran qualità, piatti ricercati e curati che ha lo copo di creare uno spirito di unione ma anche far intravedere uno spiraglio a chi sta scontando una pena. La svolta del domani potrebbe ripartire proprio da occasioni come questa unendola ai laboratori artigiani e musicali che già caratterizzano le attività della casa circondariale di via Fontevivo. In cucina due squadre, rispettivamente guidate da Silvia Cardelli chef dell’Osteria della Corte e Emiliano Cortesi titolare del ristorante “Bontà nascoste”, che si sono cimentate nella preparazione di un menù composto da tre portate. “L’obiettivo della giornata - ha spiegato l’avvocato del foro spezzino Raffaella Nardone promotrice dell’iniziativa - è stato quello di abbattere il muro che separa l’universo carcere dal mondo libero cercando di istituire una connessione che possa implementare la consapevolezza della condizione carceraria e cercare di creare occasioni capaci di rendere davvero effettiva la funzione risocializzante della pena”. Inoltre la presenza di una rappresentanza di imprenditori locali coinvolti per la prima volta nel progetto sono il primo passo per sviluppare collaborazioni future. All’iniziativa ha partecipato il consiglio dell’Ordine degli avvocati, i rappresentanti dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, il presidente della sezione penale del Tribunale della Spezia e il Procuratore capo, i garanti delle carceri Agostino Codispoti per quello spezzino e Doriano Saracino di quello regionale oltre al personale dell’area trattamentale della casa circondariale della Spezia e del nucleo di polizia penitenziaria. In tavola capon magro, pasta mista di patate e frutti di mare, torta di mele, mini burger di tonno alla piastra, risotto, bottarga di tonno, panna cotta zafferano e crumble. Se prevale l’odio perché la vita non è più sacra di Massimo Ammaniti La Repubblica, 30 dicembre 2024 Le notizie che giungono da ogni parte del mondo ci fanno temere che l’odio stia di nuovo invadendo le menti e possa prendere il sopravvento. Anche in altre fasi storiche, come durante la Seconda guerra mondiale, la distruttività minacciava il consesso umano rischiando di spostare il baricentro verso il polo del male. Però il senso dell’etica e della solidarietà era ancora vivo, nonostante tutto, e riuscì a trionfare aprendo la strada alla speranza. Oggi è diverso, continuano a serpeggiare guerre e guerriglie in tutto il mondo. E poi il rischio crescente di estinzione per alcuni popoli che vivono al di fuori del mondo industrializzato. Per non parlare del nostro pianeta e della vita animale e vegetale sacrificata infrangendo l’antica alleanza uomo-natura. Ma la stessa vita sociale sta cambiando, stanno tornando rigurgiti nazisti che fanno riemergere l’odio per gli ebrei, i migranti e per l’establishment che ha governato negli ultimi decenni. La memoria dell’Olocausto viene cancellata o trattata come una fake news. È la forza o l’implacabilità del meccanismo del diniego di cui ha parlato Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, con la totale cancellazione della realtà come se non fosse mai avvenuta. Ed è inevitabile che ritorni alla coscienza l’odio per tutto quello che non è familiare, in tedesco l’unheimlich, il perturbante freudiano che sfidala propria identità, soprattutto se non è forte. I periodi di crisi sociale creano un senso di precarietà e di minaccia al proprio essere che si propaga all’interno della popolazione come onde sismiche. Tutto questo mette in moto un meccanismo sociale che in inglese viene definito di spill over, di travaso dell’odio nelle relazioni e nei comportamenti quotidiani. In altri termini il clima di odio che si respira a livello politico e sociale si propaga nella vita delle famiglie e nella crescita dei fidi. Stiamo assistendo a violenze e odi che esplodono fra ragazzini di appena dieci anni, vogliono farsi giustizia da soli sottovalutando o negando il pericolo dei propri comportamenti. Per non parlare poi di quello che succede fra adolescenti, ragazzi e ragazze che vengono aggrediti e uccisi dal gruppo con un cinismo che allarma. Si torna alla legge del taglione, se mi hai fatto uno sgarbo devi pagare in modo esemplare, così diventa un avvertimento per tutti quelli che pretenderebbero di aggredirmi. Purtroppo un comportamento sempre più frequente è quello maschile di farsi giustizia con le proprie mani, quando una donna decida di interrompere una relazione sentimentale e voglia riprendere il proprio percorso e fare le proprie scelte. C’è un comune denominatore in questi comportamenti delittuosi, il venir meno della sacralità della vita umana non è più un tabù, posso disporre e calpestare la vita altrui perché non viene più riconosciuta l’inviolabilità esistenziale dell’altro. Immaginiamo quanto questi comportamenti inquinino le nuove generazioni che crescono con manifestazioni di violenza e di odio non solo nei comportamenti quotidiani degli adulti, ma nei videogiochi e nei social network. E la violenza viene assorbita nel tessuto mentale dei bambini che rischiano l’assuefazione senza riconoscerne la velenosità. Eppure nonostante le minacce c’è un mondo che cerca di resistere all’imbarbarimento, non dimentichiamo che l’Italia è uno dei Paesi con il maggior numero di volontari, più di 4 milioni e mezzo, uomini e donne che sanno prendersi cura e proteggere i più indifesi. C’è ancora speranza. Sudditi, non cittadini: un Paese di analfabeti funzionali serve alla politica di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2024 Perdono, perdono, perdono. Papa Francesco è stato in visita a Rebibbia, dove ha aperto la seconda Porta Santa per il Giubileo. Ha pregato insieme ai carcerati e poi ha parlato con la stampa: “I detenuti sono persone buone, quando vengo qui la prima domanda che mi faccio è perché loro e non io, perché ognuno di noi può scivolare l’importante è non perdere la speranza, bisogna attaccarsi alla corda dell’ancora della speranza e aprire i cuori”. Si è aperto immediatamente un dibattito su amnistie e indulti, sul quale sorvoliamo, ed è stato (parecchio distrattamente) menzionato il record di suicidi in carcere che ha reso il 2024 l’annus horribilis del nostro sistema penitenziario. Tra il chiacchiericcio inconcludente dei politici a cui dei carcerati non frega nulla (a parte quando hanno cognomi illustri o sono colleghi) si è levata l’imperdibile voce dell’euro-generale Vannacci che, intervistato da Affari italiani, ha voluto dare un prezioso consiglio al Pontefice: “La stessa speranza che il Santo Padre invoca per i carcerati servirebbe anelarla (sic) anche e soprattutto per le vittime della criminalità. Raramente, invece, una parola per le vittime della delinquenza. Ovvero per quelle persone che quei detenuti visitati oggi dal Papa hanno derubato, rapinato, ferito, violentato, abusato, ucciso…”. È vero che ogni scusa è buona per far parlare di sé, ma non ci vuole un teologo per avere una nozione anche vaga del perdono o per sapere che sulla croce Gesù chiede, appunto, perdono per i propri carnefici… “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Sarebbe stato quanto meno bizzarro se il Papa avesse detto ai detenuti “siete degli infami, se soffrite sono fatti vostri”. Il Santo padre perdonerà sicuramente Vannacci per i suoi vaniloqui, ma noi - a quest’epoca dell’anno - abbiamo esaurito la pazienza per le sparate di Vannacci. Nel 2025 speriamo sia meno generoso di sé… Egemonia inculturale. Vale la pena mettere in fila i dati che in sequenza sono arrivati nelle ultime settimane sul Belpaese degli asini. Secondo il rapporto annuale del Censis il 55% degli italiani non sa chi sia Giuseppe Mazzini (per il 19,3% un “parlamentare della prima repubblica”!!!); il 49,7% non sa indicare l’anno della Rivoluzione francese; per il 32,4% la Cappella Sistina è stata affrescata da Giotto o da Leonardo; per il 35% Eugenio Montale è stato un presidente del Consiglio degli Anni 50; per il 12,9% 7 per 8 “non fa necessariamente 56” (forse fa 78). Guardando i risultati dell’indagine Ocse-Pisa, poi, scopriamo che nel nostro disgraziato Paese un adulto su tre (tra i 16 e i 65 anni) capisce al massimo testi brevi e che è in grado di compiere solo operazioni semplici, con numeri interi o decimali, ma già davanti a una proporzione va in confusione. Da ultimo, secondo la rilevazione dell’Osservatorio dell’Associazione Italiana Editori (dati Pepe Research), il 30% dei lettori legge in maniera frammentaria, qualche volta al mese se non qualche volta all’anno. Il tempo medio settimanale dedicato alla lettura si riduce a 2 ore e 47 minuti contro le 3 ore e 16 minuti del 2023 e le 3 ore e 32 minuti del 2022. Le disparità che emergono tra Nord e Sud, raccontate dai dati di NielsenIQ-GfK sul mercato del libro trade in Italia, sono drammatiche. Dei 79 milioni di libri smerciati tra gennaio e ottobre di quest’anno, il 35,8% è stato venduto nel Nord-Ovest, il 22,2% nel Nord-Est, il 22,7% al Centro, il 19,3% al Sud e Isole. Avete sentito un qualche tipo di allarme da parte di ministri, leader politici e parlamentari? No, e questo per il semplice motivo che gli analfabeti funzionali sono sudditi malleabili, le persone formate e informate sono cittadini consapevoli, più difficili da subornare con qualche slogan. Camerati e compagni: è inutile citare Gramsci ogni cinque minuti se una delle sue lezioni più importanti, l’emancipazione attraverso la cultura, viene così drammaticamente (e volontariamente) ignorata. Vi sgamano subito. Rems, ecco perché aumentare i posti non è la “soluzione”. Gli investimenti necessari sono altri di Luca Rondi altreconomia.it, 30 dicembre 2024 Il governo vuole aumentare i posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dove vengono ricoverati gli autori di reato (o presunti tali) ritenuti incapaci di intendere e di volere. La scelta si baserebbe sui numeri elevati delle persone in lista d’attesa. La realtà è ben diversa. Un bilancio a dieci anni dalla nascita delle strutture che hanno permesso il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. “C’è il rischio di un ritorno alla logica manicomiale”. Riccardo De Vito, giudice al Tribunale di Nuoro, non usa mezzi termini per descrivere la volontà del governo di costruire nuove Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza nate dieci anni fa per superare gli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Secondo i dati del Garante nazionale per i diritti dei detenuti a fine 2023, l’ultimo dato disponibile, erano 675 le persone dichiarate incapaci di intendere e volere al momento della commissione del reato in lista d’attesa. “La volontà di aprire nuove strutture nasce da una lettura non corretta dei dati. Sono molte meno le persone che non hanno il posto che gli spetta”, sottolinea lo psichiatra Giuseppe Nese, coordinatore Rems in Campania. Le liste d’attesa sono necessarie perché la legge 81 del 2014 ha stabilito un sistema a “numero chiuso” per le Rems. Questo significa che non vi potranno mai essere più persone ricoverate rispetto al numero di posti disponibili che attualmente sono prossimi ai 771 previsti dai programmi regionali approvati dal ministero della Salute. “La legge prevede che il ricovero avvenga solo laddove il servizio sanitario territoriale non ha alternative possibili di presa in carico del paziente -spiega Antonio Esposito, ricercatore indipendente con numerose pubblicazioni sul tema della detenzione e della salute mentale-. Questa è la vera ‘rivoluzione’ di quella legge: la privazione della libertà è l’extrema ratio”. L’aver imposto un “tetto massimo” di presenze è necessario, quindi, anche in un’ottica di deterrenza per i giudici costretti a valutare tutti i percorsi alternativi possibili prima di disporre il ricovero. “Questo all’inizio era un aspetto molto criticato ma è un baluardo da difendere -osserva Michele Miravalle, professore associato dell’Università di Torino- perché il ritorno agli Ospedali psichiatrici giudiziari, se decade il numero chiuso, è a un passo”. Da diversi anni nell’analisi relativa allo stato di salute delle Rems si ipotizza un aumento di questi posti considerati insufficienti rispetto al fabbisogno e alimentato da alcuni drammatici casi di cronaca: l’ultimo l’omicidio il 30 novembre a Caprarola (Viterbo) di un uomo di 68 anni da parte di un 31enne che era in lista d’attesa per essere inserito in Rems. A inizio estate anche il Consiglio d’Europa ha espresso preoccupazione per la “mancata estensione” delle strutture chiedendo al governo di intervenire. L’ultimo dato nazionale disponibile, reso noto dal ministero della Salute e dalle Regioni riportato nella Sentenza 22 del 2022 della Corte costituzionale, stimava in circa 670 le persone giudicate incapaci di intendere e volere al momento della commissione del reato che erano in attesa di fare ingresso in queste strutture. “Per il ministero della Giustizia invece erano addirittura 750 e senza alcuna indicazione sull’effettiva necessità di un ricovero in Rems: c’è un cortocircuito mediatico su questo aspetto che parte proprio da una grande confusione sui numeri”, spiega lo psichiatra Giuseppe Nese secondo cui questi dati sono fuorvianti. “C’è una forbice molto ampia tra chi ha una misura formalmente consona per entrare Rems e chi poi effettivamente deve farlo”. In altri termini, non sempre chi è inserito in lista d’attesa deve e può entrare in struttura, per diverse ragioni: magari un soggetto è stato ritenuto incapace di intendere e di volere per un reato e per un altro che ha commesso invece no e quindi è legittimamente detenuto in carcere, oppure la misura inizialmente disposta dal giudice è stata successivamente modificata in libertà vigilata o anche semplicemente revocata perché la persona non aveva commesso il reato per cui era imputata. “Per questo motivo la lista va qualificata -riprende Nese- secondo criteri chiari, contenuti in una regolamentazione approvata dalla conferenza unificata il 30 novembre 2022, anche valutando le necessità di assistenza, esattamente come quando al Pronto soccorso chi ha un raffreddore passa per ultimo e chi ha un infarto per primo”. Le Regioni dovrebbero compilare un apposito elenco che tiene conto proprio di tutto ciò che va oltre la “semplice” esistenza di un titolo giuridico per entrare in Rems. Però, a oggi, solo Campania, Emilia-Romagna e Piemonte hanno attivato adeguatamente questo metodo di registrazione. “Se prendo in esame la lista d’attesa di queste tre Regioni al 20 maggio 2024 -sottolinea Nese- su un totale di 160 persone formalmente in lista, il 26% non potrebbe in concreto entrare in una Rems anche se fosse disponibile il posto, il 42% è già assistito adeguatamente all’esterno e solamente le restanti 52 persone avrebbero bisogno di un inserimento. C’è una bella differenza tra 160 e 52”. Il problema quindi non sembra essere quello dei posti. “Ci si concentra troppo spesso sulla seconda parte della previsione normativa che istituisce le Rems -riprende Esposito- quando in realtà il legislatore sottolinea la centralità dell’intervento dei servizi territoriali. Il punto è questo: c’è una psichiatria che fa dei passi indietro e non investe su quell’aspetto, in parte per mancanza di fondi ma anche per un arretramento culturale. Sempre di più il ‘chiudere’ le persone viene visto come soluzione positiva”. E questo cambio di passo dei servizi territoriali si riscontra anche rispetto alla postura dei magistrati di sorveglianza. “Bisognerebbe ampliare i protocolli di collaborazione con i Centri di salute mentale che in alcune parti d’Italia sono già attivi -spiega il giudice De Vito-. Perché questo permette di prendere decisioni più adeguate per il percorso della persona riuscendo magari ad evitare il ricovero in Rems”. A dieci anni dalla loro apertura le 30 strutture aperte in Italia, che dipendono interamente dalle Aziende sanitarie territoriali, funzionano a macchia di leopardo: alcune assumono un approccio antistituzionale, altre più di contenimento. “Il punto centrale è l’approccio che si ha alla residenzialità psichiatrica -osserva Miravalle- perché dipende da come viene implementata, può aprirsi al territorio oppure no. Semplificando, dipende dalla domanda da cui si parte: dove lo metto oppure che cosa faccio. Se la richiesta è ‘datemi delle mura’ è chiaro che ci si avvicina all’Opg”. Sotto questo aspetto, per esempio, secondo Miravalle l’apertura a inizio giugno 2022 di una Rems a Santa Maria Le Cassorane di Calice al Cornoviglio, in provincia di La Spezia, dislocata geograficamente in un luogo molto isolato, è un elemento negativo. Inoltre, sempre di più secondo Antigone all’interno delle Rems vi sono anche persone che non dovrebbero stare in quelle strutture. “C’è una quota crescente di persone ristrette che non hanno una grave patologia psichiatrica ma che essenzialmente hanno un disturbo antisociale di personalità e sono scomode da tenere in carcere -sottolinea Miravalle-. Il rischio è di trasformare quelle strutture in una sorta di discarica sociale di persone che hanno vulnerabilità tra lo psichiatrico e il sociale”. Così l’aumento di posti potrebbe aumentare ancora di più tale utilizzo “scorretto” di queste strutture esacerbando i problemi attuali. Anche perché, spesso, quegli stessi luoghi diventano difficili da gestire per pazienti che hanno problematiche molto diverse. “C’è un problema di costi -conclude Nese- per venti persone si spendono circa tre milioni di euro l’anno e per i 200 posti in più di cui spesso si parla almeno 60/70 milioni l’anno che possono essere investiti più efficacemente sui servizi territoriali. Sono più dei soldi che lo Stato ha investito per potenziare i Dipartimenti di salute mentale. Bisognerebbe investire su quello, per garantire una presa in carico più adeguata ai pazienti. Aumentare la capienza è solo un diversivo, erroneo ma soprattutto inefficace per risolvere i veri problemi”. Il Tso e una vita strappata, storia di un abuso di Stato di Paolo Di Falco Il Domani, 30 dicembre 2024 Andrea Soldi è morto dopo un trattamento sanitario obbligatorio nel 2015 a causa dei metodi brutali dei vigili. Gli agenti condannati. Amnesty: “Esempio di uno Stato che si accanisce”. Il viaggio di Domani tra gli abusi. “Chissà che il mio futuro mi riserverà cose belle come stasera e sicuramente migliori”. A scrivere queste parole tra il 19 e il 20 aprile del 1996 è Andrea Soldi, giovane torinese a cui qualche anno prima era stata diagnosticata la schizofrenia. Quasi vent’anni dopo, in un’afosa giornata di agosto del 2015, a spezzare la sua vita saranno le braccia di tre agenti della polizia municipale nel tentativo di praticargli un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) che, sottolinea la sorella Maria Cristina, si trasformerà in un arresto. È una delle storie che Domani ha scelto di raccontare in questa serie di tre puntate dal titolo “Divise violente”: vicende del recente passato, narrate anche attraverso un mini documentario disponibile sul nostro sito. Attraverso le testimonianze dei familiari e di chi è sopravvissuto alla brutalità di pestaggi da parte delle forze dell’ordine, sarà un viaggio nel coraggio di chi ancora oggi chiede verità e giustizia. “Lo premetto sempre, non sono contro le forze dell’ordine, ma contro le persone che hanno torturato e ucciso mio fratello”, dice a Domani Maria Cristina Soldi, la sorella di Andrea. “Andreino” - Andreino, come lo chiamavano in famiglia, è un ragazzo pieno di vita con una passione sfegatata per la squadra di calcio del Toro. Dopo un’adolescenza tranquilla passata ad ascoltare i racconti del padre Renato, con un trascorso in Marina a bordo della fregata Duca degli Abruzzi, parte per fare il servizio militare nel gennaio del 1990. Durante quegli anni, che per lui segnano la coronazione del suo sogno, Andrea inizia a stare male. Al giuramento a Torino è magro e non più solare come una volta. Poi il 7 dicembre dello stesso anno il padre e la sorella, che non ricevono stranamente sue notizie da una settimana, decidono di andarlo a cercare in caserma. Lì i commilitoni lo troveranno disteso sulla branda con lo sguardo assente. Come emergerà dal suo diario, ritrovato dopo la morte, Andrea stava vivendo la sua prima crisi catatonica. “Il mio tempo trascorrerà contando i giorni, i minuti, i secondi fin quando migliorerò”, così definisce lui quegli anni. Il miglioramento con il tempo, nonostante il persistere delle allucinazioni, arriva grazie all’assistenza privata. Andrea, intanto, inizia a lavorare nella ditta del padre, ricomincia ad andare allo stadio e va a vivere da solo in un appartamento di famiglia. Quest’apparente normalità dove alle crisi, mai sfociate in violenza, si contrappone la lucidità dei suoi pensieri messi su carta, viene turbata nel 2012. Con il cambio di residenza arriva un nuovo psichiatra che, stando alle ricostruzioni della famiglia, si limita a somministrare i farmaci senza dargli un supporto psicologico. Da qui le giornate di Andrea diventano sempre più monotone. Lui si fa più cupo, smette di lavorare, ingrassa e decide di non prendere più le medicine. Aumentano le notti insonni e l’unico posto dove trova un po’ di pace diventa una panchina in piazza Umbria. Qui, circondato dai bambini, si assopisce tutti i pomeriggi. La fine - Ed è proprio lì che si trova alle due e mezza del 5 agosto del 2015 quando il padre lo indicherà al suo medico, il dottor Carlo Della Porta. Quest’ultimo, affiancato da un infermiere e dagli agenti della polizia municipale Botturi, Vair e del Monaco, si trova lì per eseguire un Tso dopo sette mesi di sollecitazioni da parte di Renato. Fino a quel momento, tutti i trattamenti sanitari obbligatori che erano partiti per lui si erano poi trasformati in ricoveri volontari visto che lo stesso era consapevole di stare male. Della Porta prova a convincerlo a farsi curare, lui rifiuta. Alla sua voce si alternano quella dell’infermiere e quella di un altro psichiatra, giunto dopo sul posto. Andrea è calmo, in lui non c’è alcuna traccia di aggressività. Si avvicinano anche gli agenti e, a un suo ulteriore diniego, Botturi e Vair lo afferrano a destra e a sinistra mentre Del Monaco, da dietro la panchina, cerca di immobilizzarlo cingendolo intorno al collo con quello che lui definirà “una specie di abbraccio”. Il volontario che quel giorno guidava l’ambulanza, invece, riferirà che “il Tso è stato un po’ invasivo. Lo hanno preso al collo, lo hanno fatto un po’ soffocare”. Andrea viene poi buttato sul selciato e caricato sull’ambulanza con il viso sprofondato nel cuscino e con le manette ai polsi, come documentano le foto scattate da un ex carabiniere. Alle 16:13, dopo vari tentativi per rianimarlo, il cuore di Andrea smette di battere. Il dottor Della Porta chiama il padre in ospedale spiegandogli che il figlio aveva avuto un infarto per il troppo caldo. Ma, stando all’autopsia e alle diverse testimonianze di chi aveva assistito alla scena in piazza Umbria, a provocare la morte di Andrea furono unicamente le manovre messe in atto quel pomeriggio dagli agenti e dal medico. I quattro imputati, accusati di omicidio colposo, sono stati condannati a un anno e sei mesi di reclusione. Come sostiene Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “L’uccisione di Andrea Soldi è uno dei tragici esempi di pezzi dello stato che, anziché prendersi cura delle debolezze, vi si accaniscono. In questo caso, un Tso non autorizzato dal sindaco, eseguito in modo crudele e non professionale, ha causato la morte di un ragazzo buono e innocuo. La sorella e il padre hanno lottato per quasi nove anni, affiancate da Amnesty International e altre associazioni per i diritti umani, per veder confermate in Cassazione, nel 2022, le condanne dei quattro responsabili”. “Il tempo passa ma io sono rimasto il ragazzino a cui piaceva ridere, giocare e stare con voi” scriveva Andrea in una lettera al padre nel 2006. Con la speranza di rivedere lo stesso sorriso contagioso di Andrea sulla bocca di qualcun altro, la sorella Maria Cristina e il padre Renato hanno avviato un progetto per far raggiungere un’autonomia lavorativa ai giovani in condizione di fragilità. Iran. Caso Sala, Tajani: “Impossibile stimare i tempi del rientro” di Serena Palumbo Corriere della Sera, 30 dicembre 2024 La giornalista italiana, 29 anni, è rinchiusa in isolamento nel carcere iraniano di Evin da ormai 10 giorni. Ancora nessuna certezza sulle accuse, in un primo momento si è parlato di generici “comportamenti illegali”. “Siamo a conoscenza della denuncia di arresto in Iran della giornalista italiana Cecilia Sala” dichiara un portavoce del dipartimento di Stato americano, a una domanda secca a lui fatta dal quotidiano La Repubblica sulla correlazione dell’arresto della firma de Il Foglio e Mohammad Abedini-Najafabadi, “l’uomo dei droni dei Pasdaran iraniani” fermato alla frontiera dell’aeroporto di Milano-Malpensa lo scorso 16 dicembre. “L’arresto della Sala - aggiunge -arriva dopo che un iraniano è stato incarcerato in Italia tre giorni prima per contrabbando di componenti di droni. Chiediamo ancora una volta il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri arbitrariamente detenuti in Iran senza giusta causa”. Una prassi, quella dell’Iran di imprigionare “senza motivo” cittadini stranieri, riconosciuta anche dall’America: “Sfortunatamente, il regime iraniano continua a detenere ingiustamente gli abitanti di molti altri Paesi, spesso per utilizzarli come leva politica. Non c’è alcuna giustificazione per questo e dovrebbero essere rilasciati immediatamente. I giornalisti svolgono un lavoro fondamentale per informare il pubblico, spesso in condizioni pericolose, e devono essere protetti”. Poi tranquillizza: “Siamo in frequente contatto con alleati e partner i cui cittadini sono ingiustamente detenuti dall’Iran”. Ora la domanda che tutti si pongono, come probabilmente Cecilia stessa, è quando verrà rilasciata. Ma per ora una risposta non c’è. A dirlo è stato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, a Zona Bianca su Rete4 il 29 dicembre: “Non è possibile stimare i tempi di rientro della Sala. Noi faremo di tutto per riportarla a casa”. Poi ha comunicato lo stato della giornalista: “Le condizioni di salute sono buone. Certamente è preoccupata per la sua condizione di detenzione e spera di uscire dal carcere il prima possibile”. E ancora il racconto dell’incontro commuovente: “Lei è una ragazza forte, una giornalista esperta. Durante la visita della nostra ambasciatrice a Teheran si sono abbracciate, ha visto che si trova in cella da sola a differenza di Alessia Piperno”. Sul movente dell’arresto: “Stamane (29 dicembre, ndr) l’ambasciatrice è andata al ministero degli Esteri iraniano, ha incontrato il viceministro degli Esteri, il quale ha detto che ancora non è stato formulato il capo di imputazione, e appena la giustizia iraniana la comunicherà verrà detto per quali motivi è stata carcerato”. Per quanto riguarda Mohamed Abedini Najafabadi, invece, il ministro Tajani ha spiegato che “la magistratura italiana sta valutando la richiesta di estradizione. Il detenuto svizzero-iraniano è trattato come tutti i detenuti in attesa di giudizio: finché non è condannato in via definitiva c’è la presunzione di innocenza. È nel carcere di Opera, ha avuto la possibilità di ricevere la visita consolare, come è avvenuto per Cecilia Sala, può telefonare e ricevere il suo avvocato, può esercitare tutti i diritti”. Intanto, mentre arrivano queste dichiarazioni, sui social una “pioggia” di solidarietà sta ricoprendo la 29enne detenuta dal 19 dicembre in una cella d’isolamento del carcere di Evin a Teheran. Persone comuni, fan, colleghi giornalisti, politici, ma anche nomi internazionali, stanno lasciando messaggi per lei con l’hashtag “#freececilia”. Come lo scrittore statunitense Don Winslow su X: “Dobbiamo richiamare l’attenzione su questo accadimento e spingere per il rilascio di Cecilia Sala”. Vicinanza che, almeno per ora, non può raggiungere la giornalista: “Appena sarà possibile, saprà di tutto questo affetto”, scrive il compagno Daniele Raineri. “Cecilia entra spesso nella mia casa, nella tasca del mio cappotto, in cucina mentre preparo il pranzo. Con fiducia attendiamo il suo ritorno”, dice Barbara (una fan) sotto il post Instagram pubblicato sabato 28 dicembre dal fidanzato della Sala. Nelle cuffiette, dall’altoparlante dello smartphone, sui social e negli articoli, la “voce” di Cecilia è oramai familiare. Dal 20 gennaio 2022 entra nelle orecchie di tantissime persone con il podcast Stories, redatto da lei e pubblicato da Chora Media. Una “presenza” quotidiana, con singole storie usate per spiegare fatti d’attualità, che si è interrotta con l’episodio sull’ultima comica di Teheran, Zeinab Mousavi, del18 dicembre. Il giorno prima del suo arresto. Iran. Gli Usa confermano: “Cecilia Sala è stata arrestata per ricattarvi” di Stefano Piazza Corriere della Sera, 30 dicembre 2024 L’arresto e la detenzione della giornalista italiana Cecilia Sala assumono, col trascorrere dei giorni, i tratti di un intricato giallo internazionale. Come avevamo anticipato ieri è ormai certo che l’arresto della collega del Foglio da parte delle autorità iraniane non è altro che una ritorsione per l’arresto avvenuto lo scorso 16 dicembre di Mohammad Abedini Najafabadi, fermato su ordine della giustizia americana all’aeroporto di Milano-Malpensa. Abedini è stato identificato come figura centrale nell’attentato del 28 gennaio scorso in Giordania, nel quale tre militari statunitensi hanno perso la vita e altre 40 persone sono rimaste ferite all’avamposto “Tower 22”. Secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, l’attacco è stato condotto utilizzando droni sviluppati anche grazie alla tecnologia fornita dal trentottenne iraniano. Abedini è accusato di associazione per delinquere finalizzata alla violazione dell’international emergency economic powers act (Ieepa). Insieme a lui, gli Stati Uniti hanno arrestato Mahdi Mohammad Sadeghi, 42 anni, residente a Natick, Massachusetts. Secondo le accuse Abedini, Sadeghi e altri complici avrebbero cospirato per aggirare le normative statunitensi sul controllo delle esportazioni e sulle sanzioni economiche. In particolare, avrebbero procurato beni, servizi e tecnologie di origine americana, trasferendoli all’iran attraverso la società di Abedini, la Sdra - San’at Danesh Rahpooyan Aflak Co. Mohammad Abedini è stato ricercatore al Politecnico federale di Losanna (Epfl) e, sempre secondo le indagini Usa, avrebbe usato l’azienda da lui fondata in Svizzera, la Illumove Sa, come azienda-satellite dell’iraniana Sdra. Che la sua vicenda e quella di Cecilia Sala siano collegate lo ha detto ieri un portavoce del Dipartimento di Stato americano a Repubblica: “Siamo a conoscenza della denuncia di arresto in Iran della giornalista italiana Cecilia Sala. Questo arresto arriva dopo che un cittadino iraniano è stato arrestato in Italia il 16 dicembre per contrabbando di componenti di droni. Chiediamo ancora una volta il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri arbitrariamente detenuti in Iran senza giusta causa”. Detto questo, il funzionario, nel confermare che le autorità chiederanno l’estradizione negli Usa, ha concluso: “Vi rimandiamo al Dipartimento di Giustizia per quanto riguarda accuse specifiche e ulteriori dettagli in questo caso. Siamo in frequente contatto con alleati e partner i cui cittadini sono ingiustamente detenuti dall’Iran”. All’agi, l’avvocato Alfredo De Francesco, che difende Abedini, ha affermato: “Dalla lettura e dall’analisi critica degli atti che hanno portato al suo arresto, la posizione del mio assistito è molto meno grave di quella che potrebbe sembrare. Sta bene, ora sto preparando la sua difesa. No comment sugli argomenti che porterò a sua discolpa, la vicenda è delicata”. Il legale a Repubblica ha poi anticipato che oggi presenterà una richiesta di domiciliari per l’imprenditore iraniano: “Noi riteniamo le accuse assolutamente infondate e siamo convinti di poterlo dimostrare ma, nell’immediato, puntiamo a un miglioramento delle condizioni di detenzione”. Ipotesi che gli Stati Uniti non contemplano, dato che con un documento presentato al ministero della Giustizia, già trasmesso al tribunale di Milano, denunciano il rischio di fuga di Abedini e chiedono che resti in carcere. A pesare sulla vicenda c’è il precedente di Artem Aleksandrovich Uss, trafficante di armi russo arrestato in Italia anche lui all’aeroporto di Milano-Malpensa, nell’ottobre 2022, e sempre su richiesta degli americani. Uss era stato posto agli arresti domiciliari dai giudici di Milano, ma, nonostante il braccialetto elettronico, era riuscito a fuggire il 22 marzo 2023. La decisione di concedergli i domiciliari aveva portato all’apertura di un procedimento disciplinare contro i tre magistrati della Corte d’appello di Milano, avviato dal ministero della Giustizia. La vicenda aveva suscitato un duro intervento del Guardasigilli, Carlo Nordio, ma i giudici erano stati successivamente assolti dal Consiglio superiore della magistratura. Un nuovo caso Uss sarebbe un pessimo inizio con la prossima amministrazione americana, guidata da Donald Trump, che con l’iran non intende scendere a patti. La vicenda è quindi delicatissima e per questo il governo italiano si sta muovendo sottotraccia per cercare una soluzione che porti alla liberazione di Cecilia Sala. In tal senso, il vicepremier Matteo Salvini, durante una diretta sui social, ha affermato: “Spero nel ritorno a casa della giornalista italiana Cecilia Sala e conto che possa tornare presto dalla sua famiglia”.