Il dovere di comunicare di Donatella Stasio* questionegiustizia.it, 2 dicembre 2024 Non so se si dice anche qui in Ungheria, ma in Italia, per molto tempo si è detto - quasi fosse una parola d’ordine: “I giudici parlano solo con le sentenze”. E oggi c’è qualche nostalgico di quell’adagio, al quale si vorrebbe dare addirittura forza cogente. Al di fuori di quel recinto, il giudice dovrebbe restare muto: anche se le sentenze vengono strumentalizzate e manipolate, lui deve tacere, non può replicare, spiegare, né rendere conto ai cittadini. Meno che mai può intervenire nel discorso pubblico su riforme in materia di giustizia, perché ciò offuscherebbe la sua imparzialità. Chi parla, quindi, rischia la sanzione disciplinare. È un salto indietro nel tempo, agli anni 30 del secolo scorso. All’epoca del fascismo, il distacco del giudice dalla vita politica e sociale era un suo tratto essenziale, per ragioni, non tanto e non solo, di riserbo, quanto di sacralità e di legittimazione. Faceva parte dello status del magistrato essere chiuso in una Torre d’avorio, e la sua legittimazione dipendeva anche dall’essere apolitico, apatico, afasico. Il giudice non doveva interferire in alcun modo con la linea politica contingente e, più in generale, doveva mantenere la distanza dalla polis, dalla cittadinanza. Doveva avere una funzione quasi sacerdotale, al punto da magnificare persino il suo linguaggio rigidamente tecnico, spesso involuto, oscuro, ambiguo e infarcito di latinismi: può sembrare un paradosso, ma quanto più incomprensibile fosse stato il linguaggio del giudice, tanto maggiore sarebbe risultata la sua autorevolezza davanti ai cittadini. Questa situazione si è protratta per moltissimi anni, anche dopo la caduta del fascismo, ed è stata quasi sempre giustificata con il dovere di riserbo, che doveva tenere i magistrati lontani dai riflettori mediatici. E tutti si adeguavano, bene o male, considerando il silenzio un segno di autorevolezza e di probità. In quei decenni, il problema della comunicazione come “dovere” - dovere di spiegare, di rendere conto ai cittadini delle proprie decisioni - non si poneva proprio: c’erano giornali e Tv, quanto bastava per giustificare il silenzio dei giudici, persino quando i media - spesso megafono delle strumentalizzazioni politiche - distorcevano il senso delle loro decisioni. In questi casi, si aspettava comunque la pubblicazione delle motivazioni. A parlare erano solo e soltanto le sentenze. Ma intanto, nei cittadini si sedimentava la manipolazione politica e mediatica delle sentenze, soprattutto se sgradite al potere politico. Tutto questo è durato più o meno fino a metà degli anni ‘60 ed era considerato una garanzia, come già detto, di apoliticità dei magistrati (nel senso affermatosi durante il fascismo, cioè di sostanziale acquiescenza alla linea politica del governo in carica). A metà degli anni 60 cambia tutto. E al cambiamento - bisogna darne atto - ha contribuito molto la nascita di un gruppo associativo - Magistratura democratica - che si aggiunge a quelli dell’Associazione nazionale magistrati e si contraddistingue subito come magistratura “eretica”, impegnata ad abbattere i tabù del passato a cominciare dalla distanza del magistrato dai conflitti politici e sociali. I magistrati cominciano a prendere sul serio la Costituzione. Quindi, cominciano a interpretare le leggi e il proprio ruolo di magistrati secondo la Costituzione. E il silenzio non è più un imperativo categorico. C’è una data che fa da spartiacque, settembre 1965, quando a Gardone si svolge il XII Congresso dell’Anm. Lì viene approvata, all’unanimità, una mozione secondo cui il ruolo dei magistrati non è più quello di amministrare giustizia chiusi in una Torre d’Avorio, da cui dispensare sentenze scritte con un linguaggio comprensibile solo a un’élite di tecnici; ma, al contrario, è stare dentro la società, avere un ruolo sociale (come diceva uno dei padri della Costituzione, Piero Calamandrei, che era avvocato ed era di cultura liberale), garantire i principi affermati nella Costituzione, anche “contro” le politiche del governo di turno, se vanno in direzione opposta alla Costituzione. È la cosiddetta “funzione contromaggioritaria” propria di tutti gli organi di garanzia (Corti costituzionali e giudici indipendenti) nati nel secondo dopoguerra proprio come “limite” agli eventuali sconfinamenti del potere politico, e a tutela del pluralismo e dei diritti delle minoranze. Una funzione indispensabile in una democrazia costituzionale, dove non esistono poteri assoluti, ma che spesso - troppo spesso, purtroppo - è mal tollerata dai governi, e vissuta, o spacciata, come “opposizione politica”. È stata una svolta storica, quella di Gardone, perché lì nasce l’idea del magistrato democratico, nel senso di “coscienza democratica”, di quella “democrazia costituzionale” nata appunto dopo la guerra e fondata sui principi dello Stato di diritto. Un giudice che, per dirla sempre con Calamandrei, non fosse un burocrate “bocca della legge”, un essere inanimato, una macchina sillogizzante - oggi diremmo un algoritmo - ma piuttosto un “giudice con l’anima”, capace di affrontare con indipendenza l’immane responsabilità del giudicare. Da qui anche il dovere di rendere conto ai cittadini, di spiegare, di far conoscere, e anche di partecipare al discorso pubblico, non meno importante del dovere di riserbo. Da qui, la messa al bando del silenzio, e dell’ipocrisia del silenzio. La strada, però, sarà tutt’altro che in discesa, come dimostra la storia, fino ai nostri giorni. Emblematica la vicenda di un giudice, che voglio raccontarvi. Era il 1971 e in Italia ancora esistevano le Preture, poi abolite. A Firenze si celebrava un processo per appropriazione indebita: un’anziana signora, bisognosa di soldi per le sue esigenze quotidiane, aveva deciso di vendere un oggetto prezioso, e si era rivolta a un vicino di casa che le aveva assicurato di venderlo a condizioni vantaggiose. Passarono mesi, un anno e, nonostante le domande, le sollecitazioni, le rassicurazioni, alla fine la signora si stancò e volle indietro il suo oggetto, ma il vicino di casa (com’era prevedibile) le rispose di non averlo più. Dopo giorni di litigi, la signora decise di querelarlo ma erano trascorsi già due anni dall’inizio della storia. Due anni erano il tempo della prescrizione del reato, per cui il pretore di quel processo fu costretto a dichiarare “improcedibile l’azione penale per intempestività della querela”. Così disse, leggendo il dispositivo. La donna lo ascoltò impietrita, muta, incredula. E mentre il giudice si toglieva la toga, gli si avvicinò e, agitando in alto la mano, cominciò a protestare. Subito un carabiniere l’allontanò ma il giudice rimase così colpito dallo sfogo della donna che, da quel momento, cominciò a spiegare ai cittadini comuni le fredde e oscure parole del diritto usate nei suoi verdetti. Poco dopo gli capitò un processo per violazione degli obblighi familiari e lui - il giudice - decise di spiegare che l’assoluzione dell’imputato dipendeva essenzialmente dalla scarsa credibilità dei testimoni. Le parti e i difensori ascoltarono la spiegazione in silenzio e in silenzio uscirono dall’aula. La notizia del pretore che spiegava le sentenze durante le udienze cominciò a diffondersi e venne accettata. Salvo che dai magistrati, alcuni dei quali vedevano in quel comportamento una caduta di sacralità dell’immagine del giudice, una rottura del linguaggio formale del diritto, un’inutile interferenza nei compiti dell’avvocato - che deve incaricarsi, lui, di spiegare al cliente o assistito - e anche dei media - che devono spiegare, loro, all’opinione pubblica il succo di una decisione. Il non detto, però, era politico: quel pretore, in realtà, aveva rotto il tabù del silenzio dei giudici e della distanza dai cittadini. Ecco perché, di fronte a queste “comunicazioni pubbliche”, un bel giorno il nostro pretore venne convocato dal Procuratore generale che gli fece una ramanzina sulla violazione del codice (anche se non fu in grado di dire quale fosse la norma violata) e sul dovere del giudice di non dire una parola in più o in meno di quella che sta scritta nella legge. “Il giurista - gli disse il Procuratore generale - è quello che sa capire lo spirito delle norme e non ci aggiunge nulla di suo. E se il legislatore non ha previsto che si dovesse spiegare un bel nulla, tu non puoi sostituirti al legislatore…”. Naturalmente, prima di congedarlo, il Procuratore lo avvertì anche che avrebbe dovuto informare dell’accaduto il titolare dell’azione disciplinare. Il quale avviò l’istruttoria ma, fortunatamente, ebbe il buon senso, l’intelligenza, e la forza di archiviare il caso. Il cambiamento cominciava a farsi sentire. Per inciso, vorrei ricordare che, in Italia, solo con il Codice del 1988 è stato possibile leggere pubblicamente in udienza, dopo il dispositivo, anche una concisa motivazione della sentenza, là dove possibile scriverla in tempo reale. Norma quasi sempre disapplicata - per numerose, diverse e spesso buone ragioni - tant’è che la motivazione arriva, nella stragrande maggioranza dei casi, 30, 60 o 90 giorni dopo il verdetto, anche quando la spiegazione potrebbe essere semplice. La verità è che non fa parte del costume giudiziario - neppure ora che siamo nel terzo millennio - farsi carico dell’esigenza - collettiva oltre che delle parti - di spiegare subito le ragioni della decisione, e quando ciò accade, viene visto con sospetto. Tutto è rimandato alla motivazione, redatta con un linguaggio tecnico e perciò comprensibile solo ai difensori delle parti, ai giuristi interessati e forse ai giornalisti (che, per capirla, spesso se la fanno spiegare dagli avvocati e dai giuristi interessati). Nessuna comunicazione diretta ai cittadini. E ciò, sebbene le decisioni siano prese “nel nome del popolo italiano”. E ora facciamo un salto ai nostri giorni. Le cose sono un po’ cambiate, non senza difficoltà. Nonostante la strada fatta per far entrare la comunicazione nella cultura della giurisdizione, le resistenze, dentro e fuori la magistratura, ma soprattutto politiche, sono ancora forti. Un giudice che spieghi direttamente le sue decisioni con un linguaggio semplice, che parli e che corregga interpretazioni distorte, se non malevoli e strumentali, un giudice che faccia valere la propria esperienza nel discorso pubblico sulle riforme in materia di giustizia, è un giudice che fa paura. Anzitutto alla politica, che cerca quindi “imbavagliarlo” e di intimidirlo, al netto dell’uso che i giudici facciano in concreto della comunicazione, un uso non sempre corretto, questo va detto. Invece di puntare a migliorare la comunicazione sul piano tecnico, culturale, lessicale, etico, la reazione difensiva è il “bavaglio”. E ora anche la minaccia di sanzioni disciplinari. Faccio la giornalista da 40 anni, e, almeno dal 2010, mi sono occupata della “comunicazione della Giustizia sulla Giustizia”, non solo sui media ma anche su riviste specializzate e in sedi istituzionali, come il Csm e la Scuola della magistratura. Il racconto del giudice che vi ho fatto prima (il suo nome è Beniamino Deidda, ormai in pensione) è stato raccolto proprio in occasione di uno dei numerosi corsi sulla comunicazione, in cui sono stata talvolta relatrice talvolta “esperta formatrice”. Ed è anche alla luce di queste esperienze - oltre che di quelle vissute sul campo, come giornalista - che ho maturato la convinzione di un vero e proprio “dovere istituzionale” di comunicare da parte della giurisdizione, naturalmente in forme, modi, tempi diversi a seconda dei diversi aspetti della giurisdizione. Che, come sappiamo, è funzione, potere, servizio, associazionismo. Perciò, a ciascuna di queste diverse dimensioni corrispondono diverse modalità di comunicazione. Dopo quelle esperienze, ne ho fatta un’altra, importantissima, perché “dentro” la giurisdizione, in particolare dentro quella costituzionale. Per cinque anni - dal 2017 al 2022 - sono stata la responsabile della comunicazione della Corte costituzionale, con ben sei presidenti, e in quel lustro ho cercato di mettere in pratica i risultati della mia riflessione, di misurarne la fattibilità e l’impatto. La Corte è “uscita dal palazzo” per parlare, non “alla” società, ma “con” la società, in una relazione di scambio di saperi, di esperienze, e anche di emozioni. Ha cercato di declinare il “dovere di comunicare” attraverso tutti gli strumenti che lo sviluppo delle tecnologie mette a disposizione (comunicati, conferenze stampa, interviste, podcast, app, profili social, sito web, viaggi nelle scuole e nelle carceri, mostre fotografiche, film e persino concerti). Una comunicazione multimediale, accessibile a tutti, tempestiva, accogliente. Necessaria per “farsi conoscere” ma anche per “conoscere”, e quindi per arricchire la propria giurisprudenza. Una comunicazione fondamentale per rendere conto subito delle decisioni adottate, anche prima del deposito delle motivazioni se si tratta di decisioni di particolare interesse pubblico e se c’è il rischio concreto, nel silenzio, di manipolazioni e strumentalizzazioni, soprattutto politiche (è della scorsa settimana l’importante comunicato stampa della Corte che anticipa la decisione, non ancora depositata, sull’autonomia differenziata delle regioni, una delle riforme più delicate approvata dalla maggioranza di governo ma travolta da numerose censure di costituzionalità da parte della Corte). Una comunicazione indispensabile anche per promuovere la cultura costituzionale e contribuire a migliorare il discorso pubblico ma soprattutto a costruire, nel cantiere della società civile, quella “mentalità costituzionale” - così la chiamava Paolo Grossi, il primo dei sei presidenti che ho avuto l’onore di seguire - necessaria per poter arginare i tentativi di erosione della democrazia costituzionale, e soprattutto per “vederli arrivare”, questi tentativi, prima che sia troppo tardi. Questo vale per le democrazie mature, come dovrebbe essere quella italiana, nonostante le sue fragilità evidenti, ma vale a maggior ragione per le democrazie più giovani. La Corte costituzionale ha cominciato a comunicare con la società civile sicuramente più e prima della magistratura ordinaria. In un piccolo saggio scritto nel 2018 per la rivista Questione giustizia e non a caso intitolato Il senso della Corte per la comunicazione, spiego appunto che fin dalla sua nascita, nel 1956, la Corte decide di aprire un canale con la società civile, seppure attraverso la stampa, per far conoscere le proprie decisioni, e anche se stessa come istituzione di garanzia. Non dimentichiamo che la Corte italiana è diventata operativa con ben 8 anni di ritardo rispetto all’entrata in vigore della Costituzione a causa delle resistenze politiche, trasversali a tutti i partiti, nei confronti di un organo di garanzia così necessario (dopo l’esperienza tragica del potere assoluto esercitato dal nazifascismo), ma anche così potente (le Corti costituzionali possono cancellare, senza appello, le leggi approvate dai Parlamenti pur non essendo elette dal popolo, e devono essere assolutamente indipendenti). Nonostante quest’apertura all’esterno, nel corso degli anni la Corte ha però comunicato in modo intermittente e ondivago, mai con la consapevolezza che comunicare fosse un “dovere”. Questa consapevolezza matura, invece, proprio nei cinque anni del mio lavoro alla Corte, durante i quali la comunicazione cambia passo (di quei cinque anni, per certi versi epocali, l’ex presidente della Corte Giuliano Amato ed io abbiamo voluto lasciare una testimonianza, in forma di racconto, con un libro uscito l’anno scorso e intitolato “Storie di diritti e di democrazia - La Corte costituzionale nella società”, edito da Feltrinelli). Comunicare significa “mettere in comune”. Quindi non è (solo) una tecnica: è un’etica, una postura, una responsabilità. Per le istituzioni, anche un dovere. L’idea che istituzioni terze e imparziali debbano stare lontane dalla gente, chiuse nella Torre d’avorio, non solo è anacronistica ma è anche antidemocratica. Chiunque abbia a cuore i principi delle democrazie costituzionali e dello stato di diritto non può volere giudici muti e imbavagliati, che parlino con il linguaggio tecnico delle sentenze, ma ha il diritto di capire e di pretendere una spiegazione. E chiunque ricopra un ruolo istituzionale ha il dovere di parlare in modo comprensibile a tutti e di spiegare. Dovere dell’istituzione, diritto del cittadino. In una democrazia non esiste il rispetto sacrale. Il rispetto non nasce dall’imposizione ma dalla convinzione, e quindi dalla comprensione. Questo non significa che dobbiamo essere sempre d’accordo con quanto decidono i giudici (ordinari e costituzionali) ma dobbiamo anzitutto capire che cosa fanno e decidono, dobbiamo essere messi nella condizione di formarci un’opinione autonoma, anche critica, purché non al traino di questo o quel giornale, di questo o quel social media, di questa o quella forza politica o economica. Comunicare, spiegare, rendere conto sono, quindi, un dovere fondamentale delle istituzioni di garanzia che, con il loro potere, incidono nella vita delle persone, fino a cambiarla profondamente. Questo vale in particolare per le Corti costituzionali, chiamate, peraltro, sempre più spesso, a risolvere i cosiddetti “casi difficili” (fine vita, aborto, maternità surrogata, diritti delle coppie gay, identità di genere e così via), sui quali il dibattito pubblico e politico è sempre più polarizzato in tutto il mondo. Le Corti sono costrette a colmare i vuoti di tutela lasciati scoperti dai Parlamenti polarizzati; devono tutelare i diritti fondamentali negati dai Parlamenti ostaggio di maggioranze politiche numericamente molto forti e insofferenti al pluralismo; non possono decidere di non decidere. Ecco allora che, in questi casi, i giudici costituzionali (ma anche ordinari) diventano bersaglio di critiche anche violente, a cominciare da quella di politicizzazione: non hanno legittimazione popolare, si dice spesso, perché nessuno li ha eletti, quindi stiano al loro posto, che è quello di non infastidire la maggioranza di governo. Critiche che portano alla loro delegittimazione e poi al loro indebolimento e infine alla loro normalizzazione, o modificandone la composizione, così da renderla più allineata al potere politico di turno, oppure riducendone i poteri. E allora chiedo: come si fa, in questi casi, a non difendersi dalle strategie delegittimanti del potere politico, e a tacere? I cittadini, la democrazia, hanno bisogno di sentire anche la voce degli organi di garanzia. Tanto più che gli organi di garanzia sono i primi bersagli (seguiti dalla stampa libera) delle cosiddette regressioni democratiche in atto nel mondo, proprio perché tanti governi “democraticamente eletti” sono insofferenti alla loro funzione di limite al potere e di garanzia dei diritti delle minoranze. L’ultimo caso di regressione, in ordine cronologico, lo abbiamo visto in Messico ma il Rapporto 2024 di Freedom House ci dice che oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in paesi che possono considerarsi davvero liberi e democratici, e che, solo nell’ultimo anno, ben 60 paesi sono scivolati verso regimi autoritari a fronte di soli 39 nuovi regimi democratici. La sfida della nostra epoca, quindi, è proprio quella di arginare le regressioni democratiche. E per farlo bisogna essere in grado di vederle arrivare, fin dai primissimi passi. Ma per vederle arrivare bisogna saper cogliere le connessioni tra potere, diritti e democrazia. Perciò è necessario promuovere l’alfabetizzazione costituzionale. La democrazia non si rafforza imbavagliando le Corti e i giudici indipendenti (e tanto meno la stampa libera). Anzi. La comunicazione degli organi di garanzia è funzionale alla crescita dell’alfabetizzazione costituzionale dei popoli e al radicamento dei principi dello stato di diritto. Creare nei cittadini la consapevolezza dei propri diritti e del ruolo di garanzia delle Corti e dei giudici è l’antidoto migliore contro le regressioni democratiche, a difesa delle nostre libertà fondamentali. Ed è un compito che spetta a tutti: accademia, stampa, politica, cittadini, giudici, Corti costituzionali (che, non a caso, in molte parti del mondo, sono scese in campo per farsi conoscere). Ma una delle prime cose da spiegare all’opinione pubblica è che cosa significa “ruolo di garanzia” dei giudici, ordinari e costituzionali. Bisogna spiegare che quel ruolo è stato previsto non “a garanzia” dei governi di turno e di chi esercita il potere, ma “a garanzia” delle minoranze, del pluralismo e di chi il potere non ce l’ha. Questa è stata una grande conquista delle democrazie costituzionali, ma, purtroppo, la gente non lo sa e si lascia confondere da chi ha un’altra idea di democrazia e perciò delegittima i giudici proprio quando esercitano fino in fondo il loro ruolo di garanzia dei diritti di tutti. D’altra parte, i diritti, per esistere, devono vivere anzitutto nella coscienza delle persone alle quali sono negati (oltre che ad entrare nella coscienza delle persone che li negano). Questa coscienza è la leva per farli valere, seppure con i loro limiti (visto che non esistono diritti assoluti o tiranni, tranne il diritto al rispetto della dignità umana). Quando questa coscienza esiste e quando abbraccia anche il ruolo che giocano istituzioni di garanzia forti e indipendenti, allora le Corti, e i giudici, possono svolgere il loro lavoro con passo sicuro, sentendosi difesi anche contro le pressioni politiche. Naturalmente, la difesa di Corti e giudici, deve andare di pari passo con la vigilanza su Corti e giudici, affinché svolgano il loro ruolo di “garanti” con responsabilità e imparzialità, ma senza mai piegarsi o rimpicciolirsi di fronte alle pressioni del potere politico. Piegarsi significa rinunciare alla tutela dei diritti fondamentali di ognuno di noi. Significa rinunciare ai principi dello stato costituzionale di diritto. [*] Giornalista. Testo integrale della relazione al Convegno internazionale “La comunicazione giudiziaria nell’era dei nuovi media”, svoltosi a Budapest il 21 e 22 novembre 2024 e organizzato da Res Iudicata, associazione dei giudici ungheresi, e dall’Università ungherese, dipartimento di giurisprudenza. Contro l’Italia della gogna. Parla il ministro Carlo Nordio di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 dicembre 2024 Separazione delle carriere, nuovo Csm e calendario svelato. “Entro dodici mesi, la riforma sarà approvata. E vogliamo il referendum”. Come la giustizia è diventa la priorità del governo Meloni. Carcere, intercettazioni, migranti (con una notizia). È diventata la battaglia identitaria del governo. La più importante, la più urgente, forse anche la più fattibile. È diventata, da qualche mese a questa parte, la priorità numero uno del governo Meloni, la riforma più ambita, la più agognata, la più coccolata ed è successo tutto poche settimane fa, quando la presidente del Consiglio, capendo l’andazzo sulla riforma del premierato, troppo divisiva, e l’andazzo sulla riforma dell’autonomia, troppo pasticciata, ha comunicato al governo, e ai relativi partiti della maggioranza, che il Parlamento avrebbe dovuto mettere al centro di tutto, al centro del calendario, la riforma della giustizia. Obiettivo numero uno: prima lettura entro gennaio. Obiettivo numero due: approvazione del disegno costituzionale entro la fine del prossimo anno. Obiettivo numero tre: referendum nel 2026. Obiettivo numero quattro: rinviare, a dopo le elezioni politiche del 2027, ogni eventuale referendum su altre riforme, meglio non rischiare. Incontriamo Carlo Nordio venerdì mattina a via Arenula. È il giorno del Consiglio dei ministri, oltre che il giorno dell’anniversario dei centocinquant’anni dalla nascita di Winston Churchill, che Nordio ama molto e sulla cui storia ha scritto un pamphlet a puntate proprio per il nostro giornale, e il ministro accetta di chiacchierare con noi per provare a fare il punto sui temi della giustizia, su quello che è stato, su quello che potrà essere, su quello che sarà. Ministro, quand’e successo che la presidente del Consiglio le ha comunicato la volontà di reinserire come priorità assoluta la riforma della giustizia? Non ci sono stati colloqui formali sul tema, ma sono cose maturate da sole perché innanzitutto è un argomento politicamente molto importante: la riforma della giustizia è fondamentale per una ragione semplice: dal 1993, con Tangentopoli, la politica è stata subalterna alla magistratura. Questo va detto, io lo scrivo da trent’anni e la politica non si è forse mai resa conto che questa retrocessione da parte della politica della sua autorevolezza, che deriva dalla legittimazione della volontà popolare, ha lasciato un vuoto di potere a poco a poco occupato dalla magistratura. Anche a seguito probabilmente delle ultime vicende, quelle più recenti, ci si è resi conto che la riforma della giustizia, che è nel programma governativo, era più utile rispetto sia all’autonomia sia al premierato. Detto questo vi è anche - presumo, perché non ne ho parlato - una ragione più pratica: la giustizia è uno degli argomenti che trova tutti assolutamente concordi, per cui se si deve cominciare con un referendum qui almeno siamo sicuri che non ci siano, diciamo, delle differenti interpretazioni”. Qual è la priorità della riforma? “La separazione delle carriere è un punto centrale del programma governativo. È una bandiera, per questo governo, per questa maggioranza, è connaturata al codice accusatorio ed è una conseguenza tecnica prima ancora che politica del fatto che il nostro paese, anni fa, ha introdotto il codice Vassalli. La questione è semplice. In tutti gli ordinamenti accusatori anglosassoni, la separazione delle carriere è normale, quindi dire che è un attentato alla libertà, all’indipendenza della magistratura, non è corretto. In secondo luogo, in merito a questa cattiva interpretazione un po’ strumentale di una parte della magistratura che diceva essere questo il primo passo verso la sovrapposizione dell’esecutivo al mondo della magistratura, abbiamo subito assicurato che la legge costituzionale che noi abbiamo proposto pone in chiarissimi termini l’assoluta indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo. Questa è la premessa. E questa è una riforma così ben voluta dal governo, da tutte le forze politiche che lo sostengono, da essere stata accolta con un applauso quando è stata approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri”. In Aula il 9 dicembre, approvata entro il 2025, referendum entro i primi mesi del 2026, confermiamo? “Confermiamo. Ma aggiungiamo anche altro. Aggiungiamo qualche punto. In primo luogo, la separazione delle carriere, che di fatto in buona parte già esiste con l’ordinamento della Cartabia, è accompagnata da due riforme che sono ancora più importanti: il sorteggio di parte del Csm e l’istituzione dell’Alta corte disciplinare. Perché sono importanti? Semplice. Da un lato vi è la degenerazione correntizia che è stata denunciata da tutti, dagli stessi magistrati, in occasione dello scandalo Palamara, ma anche dopo, dallo stesso presidente della Repubblica. Tutti concordano sul fatto che c’è una degenerazione correntizia. Mi chiedo: vogliamo fare qualcosa o no? Vogliamo chiederci o no da cosa dipende? Il governo lo dice chiaramente. Questa degenerazione dipende dal fatto che il il Csm, che è l’organo costituzionale che regola la magistratura, sta alle correnti come il Parlamento sta ai partiti. Cioè le correnti sono rappresentate nel Csm che diventa il loro strumento esecutivo. In questo modo era inevitabile che vi fosse una sorta di sovraesposizione da parte della magistratura, con le conseguenti esondazioni”. Come spiegherebbe a coloro che hanno dubbi su questa riforma la pericolosità di un paese che non si ribella di fronte a una repubblica fondata sul potere delle procure e sulla cultura della gogna? “Nel nostro approccio, nel tentativo di creare un nuovo equilibrio, vi è una ragion pura e una ragion pratica. La ragion pura è che una parte della magistratura pone come ostacolo a questa riforma il timore che il pm diventi un super poliziotto e passi sotto l’esecutivo. A parte il fatto che abbiamo assicurato con una legge costituzionale che questo non accadrà mai, ma comunque, il punto è che è oggi che il pm è un super poliziotto, anzi purtroppo è un super, super, super poliziotto. Perché, e questa è una cosa importante, il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo, e sottolineo al mondo, che abbia un forte potere senza alcuna responsabilità. Perché tecnicamente parlando succede tutto questo? Perché quando è stato introdotto il codice Vassalli non abbiamo scelto né il sistema inglese né quello americano. In quello americano, il Public Prosecutor, è il capo della polizia giudiziaria, come da noi, e quindi è un forte potere, però è elettivo e ha una responsabilità politica: se non va bene va a casa. Nel sistema inglese invece il pubblico ministero, che fino a pochi anni fa neanche esisteva, è indipendente, ma non ha il potere di dirigere la polizia giudiziaria, e quindi, come vedete anche nei film, le indagini le fa Scotland Yard. Noi abbiamo oggi un mondo, in Italia, così fatto: un pubblico ministero con le garanzie di indipendenza e autonomia che ha il giudice ma con i poteri di un super poliziotto. E quindi è adesso che il pm è un super poliziotto che può agire senza rispondere a nessuno”. In che cosa il governo vede, nel mondo della magistratura, un’irresponsabilità, nel lavoro quotidiano? “Più che nel lavoro quotidiano, direi nel modo di affrontarlo. Per esempio, molti pubblici ministeri possono imbastire indagini lunghe, costose, dolorose, clonate, cioè senza avere nemmeno una notizia criminis degna di questo nome, e che poi queste inchieste si possono concludere serenamente nel nulla, senza che qualcuno risponda di ciò che ha fatto, salvo la marea di dolore, di costi e di ritardi della giustizia che queste indagini sono costate. Ci sono tantissime anomalie su questo punto. La più grave secondo me è che un pubblico ministero può clonare i processi, cioè una volta che chiede l’archiviazione si tiene un pezzetto di indagine e su quella imbastisce un nuovo processo e va avanti per anni e anni. Tutto questo non è rimediabile perché il pubblico ministero, proprio perché è un super poliziotto oggi e non risponde nessuno, è arbitro assoluto dell’indagine e può fare quello che crede senza essere responsabile di nulla, in primo luogo dei suoi errori”. Che cosa pensa quando sente un magistrato che attacca chi lo vuole trasformare in un burocrate? È così sbagliato che un magistrato venga considerato esattamente un burocrate? È così sbagliato sostenere che il compito di un magistrato non è interpretare in maniera il più possibile soggettiva le leggi ma è quello di applicare le leggi senza trasformarsi in un garante della Costituzione, ruolo che dovrebbe rivestire non il magistrato ma il presidente della Repubblica? È così sbagliato dire che un magistrato che si sente il garante della Costituzione si auto-investe di un ruolo che non è suo? “Condivido questo ragionamento. È un tema che abbiamo affrontato pochi giorni fa in un convegno a Firenze. E su questi temi sono stati molto chiari sia il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, sia il sottosegretario Alfredo Mantovano. Il magistrato ha come punto di riferimento la legge ordinaria: nel momento in cui dubitasse della sua compatibilità con la Costituzione deve rivolgersi alla Corte costituzionale ma non può scavalcare la legge ordinaria applicando direttamente la Costituzione. Non è il suo compito, perché questo è un compito che tra l’altro, se mi è consentito, umilia la Corte costituzionale, perché la stessa Costituzione definisce quelli che sono i paletti dell’azione di un pm e tra questi non c’è quello di essere il garante della Carta. Detto ciò, burocrate o non burocrate? Io continuo a dire che non è affatto superata l’espressione famosa di Montesquieu secondo cui il magistrato doveva essere la bouche de la loi, ho anche detto e lo ripeto che le bocche dei magistrati, sempre per citare il mio amato Shakespeare, non sono povere bocche mute come le ferite di Cesare, sono bocche che parlano, sono bocche che interpretano la legge alla luce anche dello Zeitenwende, del mutamento dei tempi, ma sempre nei parametri fissati dalla legge stessa, cioè l’interpretazione sistematica, l’interpretazione analogica, che è quelle dettata dal codice civile, ma escludendo in via assoluta il diritto creativo. Quindi - e questo l’ha detto a chiare lettere anche il presidente della Repubblica - il magistrato non può interpretare la legge in senso costituzionalmente orientato se la legge si esprime chiaramente su un determinato soggetto. Se però ritiene che quella legge sia in contrasto con la Costituzione, la stessa Costituzione gli propone il rimedio di andare alla Corte costituzionale. Punto”. Che cosa è successo nel Consiglio dei ministri della scorsa settimana, quello di venerdì, quando il nuovo pacchetto di norme sulla giustizia è stato svuotato? “Si era diffusa la voce non fondata che noi volessimo mettere una sorta di bavaglio ai magistrati. E si era diffusa l’idea che vi fosse l’ipotesi di sanzionare i magistrati che non si astengono quando sussistono gravi ragioni di convenienza. Ora, una cosa è rivedere a largo spettro quelle che possono essere le deontologie dei magistrati nel momento in cui, parlo dei giudicanti più che dei pubblici ministeri, devono giudicare su argomenti dove si sono espressi, altra cosa è imbavagliare la libertà di pensiero. Questo tema non è stato affrontato proprio perché io stesso ero molto perplesso perché sarebbe sembrato, in modo gratuito, una forma quasi di sfida, se non proprio di provocazione, verso la magistratura. Per noi, per me, ci sono dei progetti che non sono negoziabili. Sulla separazione delle carriere e sulla riforma costituzionale non c’è niente da fare: si fanno senza se e senza ma. Su tutte le altre cose - qui dove è seduto lei ho ricevuto molte volte il presidente dell’Anm Santalucia - io sono per la massima conciliazione e anche per trovare dei punti d’incontro”. Ma questo provvedimento che è stato rinviato a data da destinarsi cosa prevedeva? “Non c’era un articolato specifico, in generale prevedeva una sanzione nei confronti di magistrati che non si fossero astenuti quando avevano il dovere di astenersi. Dal parlare, ma soprattutto dal pronunciarsi su provvedimenti istituzionali in materie su cui si erano già espressi”. Per esempio, qual era il caso specifico? “Se un magistrato ha apertamente criticato il merito politico di una legge e poi da giudice, più che da pubblico ministero, giudica uno in base a quella legge, non viene percepito come imparziale. Su questo ci tengo a dire che c’è uno studio condotto vent’anni fa da Marcello Pera nell’ambito della prima commissione bicamerale, che adesso noi recupereremo, che è molto più articolato e molto più omogeneo, e ne discuteremo con la magistratura. Io credo che sia nell’interesse stesso della magistratura trovare un punto di incontro per definire i limiti entro i quali un giudice o un pm ha diritto di esprimersi. Mi permetta però di fare una distinzione, una forte distinzione tra pm e giudice. Il pm, e lo vedremo meglio con la separazione delle carriere, è una parte, come l’avvocato, quindi ha una libertà molto maggiore nell’esprimersi, perché non decide niente. Mentre il giudice, che è chiamato a ius dicere, deve essere percepito come imparziale. Si dice che deve essere e apparire. Io userei un’altra espressione invece di ‘apparirè. Deve essere percepito dal giudicato, dalla persona accusata, come uno che è terzo. Poiché la Costituzione dice che deve essere terzo, terzo vuol dire che non deve appartenere né all’una né all’altra schiera, ecco la separazione delle carriere, ma deve essere terzo anche dal punto di vista ideologico, quindi più si esprime nel merito politico, non tecnico, di una legge e meno viene percepito come imparziale. Aggiungo un’altra cosa importante: gli ultimi sondaggi ci dicono che la fiducia degli italiani nella magistratura è crollata al 31 per cento. Quando sono entrato io era uguale a quello della Chiesa cattolica, oltre l’ottanta. Tutto questo da cosa dipende? Dipende dal fatto che la gran parte degli italiani, anche quelli che votano magari in un altro modo, per il settanta per cento, non percepisce la magistratura come imparziale. La nostra riforma è trasversale e, quando sarà, con il referendum lo dimostreremo”. Restiamo al tema della dialettica con i magistrati. Il fronte più vivace in questi mesi è stato certamente quello sull’immigrazione. E in particolare quello che ha riguardato il confronto, vivace, duro, tra maggioranza e magistratura sul tema della definizione dei paesi sicuri. Da una parte, ci sono giudici che hanno bloccato i trattenimenti di alcuni migranti portati in Albania dal governo e che hanno rivendicato di avere l’ultima parola nella definizione dei paesi sicuri in cui organizzare i rimpatri. Dall’altra parte vi è il Tribunale di Bologna che ha rinviato alla Corte di giustizia europea il caso di un richiedente asilo in Italia, rimettendo ai giudici europei la questione della supremazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, e provando a mettere in discussione il decreto del governo per avere l’ultima parola nella definizione dei paesi sicuri. Ministro, c’è un complotto contro il governo? “Sono stato la settimana scorsa in Olanda sia l’Eurojust, per la Corte penale internazionale e per l’incontro con il ministro omologo della Giustizia e abbiamo parlato anche di questi temi. Il problema fondamentale è che in Europa non esiste una legislazione omogenea sull’immigrazione e ognuno fa quello che gli pare. Il primo comandamento della giustizia amministrata è quello che per avere un processo bisogna avere alle spalle un codice sostanziale. Noi abbiamo processi senza avere codici sostanziali, cioè siamo sospesi a queste pronunce di varie corti senza però che ci sia un diritto omogeneo sottostante. Quindi ognuno va per conto suo. Qual è però, se devo essere sincero, il punto fondamentale? Secondo me, almeno quando è scoppiata la polemica, nessuno aveva letto la sentenza della Corte di giustizia europea. Io l’avevo letta in francese, e il mio francese, checché se ne dica, non è ‘goffo’, direi che è buono. In quella sentenza, che trattava tutt’altro argomento, si dice una cosa semplice. Faccio un esempio: se un paese è sicuro al novanta per cento in generale, ma non è sicuro, per esempio, per l’orientamento sessuale, perché punisce gli omosessuali, se un emigrante è omosessuale, effettivamente per lui quel paese non è sicuro, ma se non è omosessuale, per lui quel paese è sicuro. Ecco perché devi guardare caso per caso. Un altro caso, per esempio, è quello di paesi dove è punita la mutilazione genitale femminile, ma se arriva uno di sesso maschile, per lui il paese è sicuro. Date retta a me: quella sentenza della Corte di giustizia europea non è stata letta e se è stata letta non è stata capita. Sui casi dei giudici di Roma, ora, si pronuncerà la Cassazione e vedremo. Nel secondo caso, quello di Bologna, dove forse hanno studiato meglio la questione, non hanno rifiutato la convalida. E infatti nell’ordinanza del decreto dicono ‘noi non ci pronunciamo sulla legittimità o meno del fermo’, diciamo soltanto che ‘la questione va devoluta alla Corte internazionale”. Sono due cose molto diverse e la seconda, devo dire la verità, è tecnicamente molto più oggetto di riflessione anche da parte nostra. Ora, mi rendo conto che la domanda è un’altra: hanno ragione o hanno torto? Dal mio punto di vista, diciamo, squisitamente giuridico, la definizione di paese sicuro spetta alla normativa statale. Quindi siamo noi, stato, che con la nostra responsabilità dobbiamo dire quali sono i paesi sicuri e quali no. Detto questo, siamo d’accordo con l’Olanda, sarebbe bene che l’Europa una volta per tutte si pronunciasse”. Ministro, ma il punto è un altro. E il punto sollevato dal suo governo è chiaro: c’è la volontà di mettere in difficoltà il governo sul tema dell’immigrazione utilizzando una interpretazione discrezionale delle leggi da parte della magistratura, sì o no? “Lo escludo, perché sarebbe un sacrilegio, che i magistrati o alcuni magistrati abbiano dato un’interpretazione come quella che è stata data per mettere in difficoltà il governo. Cioè non voglio nemmeno pensare da ex magistrato che un magistrato interferisca. Poi uno la può pensare come crede, ma io non lo penso. D’altro canto però credo che le prime decisioni, proprio perché erano assolutamente carenti di motivazione, fossero abnormi. Le seconde, spero che vengano risolte in via giurisdizionale, e noi abbiamo fatto ricorso anche su quelle”. In teoria, ministro, tutto si potrebbe risolvere in modo lineare. Le norme che oggi sono oggetto di interpretazione, ovvero i tempi rapidi per rimpatriare alcuni migranti, ovvero l’extraterritorialità nella gestione dell’immigrazione, sono norme che sono già state validate all’interno di un trattato europeo che entrerà in vigore il primo gennaio del 2026. Sarebbe sufficiente anticipare l’entrata in vigore di quel trattato per risolvere ogni problema. Perché il governo invece che combattere una battaglia con i magistrati non combatte una battaglia politica per anticipare la messa a terra del patto europeo sull’asilo e suoi migranti? “Posso anticiparvi che è un’opzione che stiamo considerando. E stiamo cercando di capire se sia possibile farlo attraverso una battaglia in Italia o attraverso una battaglia in Europa. Non c’è dubbio: questa sarebbe la via migliore per risolvere il problema perché saremmo in linea con la direttiva europea, si tratterebbe solo di anticiparla”. È vero che il ministro Nordio si augura che non vi sia la maggioranza dei due terzi, nell’approvazione del disegno di legge costituzionale sulla giustizia, per poter andare al referendum e chiamare i cittadini a esprimersi sulla riforma? “È così. E non è solo il mio parere. Perché se ci fosse un accordo, magari risicato, dei due terzi del Parlamento, accordo che come è noto darebbe la possibilità di non celebrare il referendum, credo che la polemica su un tema così delicato continuerebbe sulla base di una cattiva consuetudine italiana di pensare che ci siano stati accordi sottobanco o do ut des. Mentre su una materia così cruciale e così costituzionalmente importante - separazione delle carriere, nuovo Csm, Alta corte di giustizia - penso sia necessario che si pronunci il popolo italiano”. Rispetto alle riforme che sono state già approvate sulla giustizia, penso all’abuso d’ufficio, penso alle intercettazioni, penso alla volontà di tutelare la privacy delle persone terze estranee alle indagini, ci sono stati dei cambiamenti che possono considerarsi concreti? “Li abbiamo visti e ne vedremo ancora tanti. Intanto, ci sono state più di trenta chiusure di provvedimenti disciplinari nei confronti di magistrati per abuso d’ufficio al Csm e al disciplinare, segno che il tema delle indagini su questo fronte non riguardava solo la politica ma anche la magistratura, ma ci sono state reazioni tutto sommato composte anche nel mondo dei tribunali, e solo due, in modo spericolate se mi consente, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale. Gli effetti ci sono, sono della vita quotidiana, ma sono anche culturali: l’abuso d’ufficio era una tipologia di reato inafferrabile, portava a un numero irrisorio di condanne, offriva la possibilità a un qualsiasi magistrato di bloccare l’attività di un amministratore locale e averlo rivisto è un atto di civiltà, di cui sono orgoglioso io e di cui sono sicuro sia orgoglioso anche un pezzo di quel mondo politico che non appoggia il governo ma che su questo punto è certamente d’accordo con noi”. Ci sono dati incoraggianti anche sul tema delle intercettazioni irrilevanti? “No, sulle intercettazioni irrilevanti non abbiamo i dati perché sono coperti dal segreto. Ma su questo bisogna essere chiari. Era un atto di civiltà anche questo, proteggere le persone terze che finivano spiattellate sui giornali solo perché intercettate pur non essendo indagate, e su questo fronte abbiamo fatto semplicemente il minimo sindacale. E, se posso confidarmi, in verità sulle intercettazioni stiamo facendo dei progetti più radicali, anche il Parlamento sta portando avanti degli emendamenti importanti, come quello firmato dal collega di Forza Italia Zanettin, che fissa per alcune tipologie di reato un termine di 45 giorni alle intercettazioni. Questo però all’interno di una cornice di fondo: le norme sulle intercettazioni che riguardano mafia e terrorismo non si toccano, tutte le altre norme devono e possono essere riviste radicalmente. Su questo punto non mi stancherò mai di dire che abbiamo tre obiettivi. Primo: salvaguardare la dignità e la riservatezza delle comunicazioni dei cittadini che sono previste dall’articolo 15 della Costituzione. Secondo: limitare le spese, perché spendiamo centinaia di milioni di euro l’anno per intercettazioni a strascico ed è inaccettabile. Terzo: per evitare che ci siano dei processi, non faccio allusione a nessuno, o meglio delle indagini, che partono con la contestazione o supposizione di un reato, tipo quello associativo, che consente le proroghe senza limite di queste intercettazioni, e poi anche se il reato associativo cade le intercettazioni rimangono e la legge viene elusa. È inaccettabile”. Perché un limite di 45 giorni alle intercettazioni? “Innanzitutto per evitare intercettazioni a strascico che siano a tempo indefinito, poi per allinearci con la media europea: l’Italia effettua intercettazioni dieci volte di più rispetto al Regno Unito, il quadruplo della Francia. E poi, e anche questo è importante, per risparmiare risorse che possono essere invece devolute alle vere intercettazioni che contano, cioè quelle contro la mafia. Quando ho detto in Parlamento che la mafia non parla al telefono, e mi hanno detto che volevo fare un regalo alla mafia e altro, bè, oggi quel punto è ammesso da tutti. Al cellulare, neanche con il trojan riesci a intercettare le grandi organizzazioni, che comunicano attraverso piattaforme inaccessibili o accessibili soltanto attraverso forti investimenti tecnologici. Allora la mia idea è quella di risparmiare sulle intercettazioni a strascico che durano tre anni nei confronti di un sindaco e devolvere quelle risorse proprio per poter investire in nuovi strumenti per portare avanti una grande lotta alla criminalità organizzata”. A proposito di intercettazioni a strascico. Negli ultimi mesi abbiamo visto emergere tantissimi casi, che potrebbero essere definiti di spionaggio, di dossieraggio, di realtà varie tutte impegnate a raccogliere abusivamente informazioni e intercettazioni sulla vita degli altri. Possiamo dire che negli ultimi anni c’è stata troppa attenzione a controllare i potenti e poca attenzione a controllare i controllori? E il ministro Nordio, rispetto ai casi di dossieraggio registrati negli ultimi mesi, pensa che in Italia vi sia una qualche forma di spionaggio organizzato o pensa vi sia solo un mercato nero che attinge quando può a varie realtà criminali? “Credo che siano vere tutte e due le ipotesi. La conoscenza è potere, e quindi la grande criminalità, attraverso captazioni fatte in proprio o attraverso grandi corruzioni, cerca in tutti i modi di captare notizie di interesse strategico, e a volte ci è riuscita. Questo non esclude che per il piccolo cabotaggio, per curiosità personale o per l’assegnazione di incarichi anche per sospetti tradimenti coniugali, vi siano stati degli eccessi impropri perché non c’è stato abbastanza controllo. Su questo sono perfettamente d’accordo: il vecchio adagio quis custodiet custodes in Italia è valido più che mai, ma sono trent’anni che lo stiamo predicando perché da trent’anni, da quando escono intercettazioni, anche quelle legali, però coperte dal segreto, nessuno ha mai indagato su chi avesse l’obbligo di custodire queste intercettazioni. Se si diffonde l’idea che vi sia una carenza di indagini anche nei confronti dei controllori e dei magistrati, è ovvio che ci si senta legittimati ad agire nell’impunità. Lo dico con un paradosso: se la magistratura può entrare illegalmente nella vita degli altri, con il bollino dello stato, perché non possiamo farlo tutti?”. Ministro Nordio, venerdì scorso, a La Spezia, si è registrato il suicidio numero ottantatré in un carcere. È un’emergenza nazionale, un dramma sociale e culturale di cui il governo purtroppo non sembra accorgersi... “Il problema è grave, esiste, e noi non ci sottraiamo. Abbiamo purtroppo ereditato una situazione complicata che non si può risolvere limitandoci a guardare i numeri. Il problema è ancora più grande, i suicidi sono la punta di un iceberg, sono un fardello di dolore - anche se il trend per fortuna mi sembra non seguire quello ancora più drammatico dei primi mesi dell’anno: eravamo a 61 a metà anno, ora siamo a 83. Come lo risolviamo? Qualcosa abbiamo fatto, molto possiamo ancora fare. Perché il problema dei suicidi c’entra fino a un certo punto con il sovraffollamento carcerario. C’entra prima di tutto con la capacità delle istituzioni di saper organizzare le carceri. Non è necessariamente la promiscuità che porta al suicidio. Vi sono altri fattori meno evidenti e prima di tutto psicologici. Per esempio, molti detenuti si suicidano quando arrivano, all’ingresso, e diversi anche quando sono sulla via dell’uscita dal carcere. Questo è un aspetto misterioso che stiamo cercando di capire con tutta una serie di studi. Quello che sappiamo, con certezza, è ciò su cui dobbiamo investire. L’edilizia carceraria, per esempio. Abbiamo nominato per la prima volta nella storia un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, che si è già messo al lavoro per trovare degli edifici da ristrutturare compatibili con la situazione carceraria e che abbiano spazi utili per lavorare, per fare sport”. È vero che è allo studio una nuova legge sulle carceri per arrivare all’obiettivo di distinguere le strutture penitenziarie nelle quali far scontare le misure cautelari, separando i destini di coloro che hanno una pena definitiva da coloro che invece devono considerarsi presunti innocenti? “Sì, lo confermo. Ci stiamo muovendo su tre direzioni. Una è quella, diciamo, di espellere i detenuti stranieri che possono già essere espulsi dal giudice di sorveglianza. La seconda più importante è quella di fare una sorta di detenzione differenziata soprattutto per i tossicodipendenti, molti dei quali più che essere delinquenti da punire sono malati da curare e su questo siamo già in contatto con molte comunità religiose e laiche. E un’altra strada, non da poco, è quella che stiamo per deliberare sul tema della carcerazione preventiva. Il 25 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio. E sarebbe sufficiente intervenire su questi per risolvere molti problemi legati al sovraffollamento”. E dove andrebbero i detenuti in attesa di giudizio? “Lo dobbiamo definire, ma il tema centrale è prevedere una differenza di percorso. Un esempio però posso farlo. In molti avrebbero il diritto, anche secondo gli stessi magistrati, di avere la detenzione domiciliare, ma non avendo un domicilio non saprebbero dove andare. Stiamo cercando delle strutture e delle soluzioni per ovviare a questo problema. Vedrete, ci riusciremo”. Una domanda al Nordio liberale: è preoccupato o no dall’ascesa del trumpismo? “Io credo alla frase che è stata attribuita a Bismark: ‘Non si raccontano mai tante balle come prima delle elezioni e dopo la caccia’, quindi le cose che si dicono prima delle elezioni poi vengono sottoposte al vaglio dalla Realpolitik. Non credo che Trump costituisca minimamente una minaccia né alla tenuta della Nato né alla tenuta delle libertà anche perché in America esiste un check and balance estremamente diffuso”. Trump non è pericoloso se non fa quello che ha promesso? Cioè, è pericoloso per quello che ha detto ma lei è certo che non lo farà? Complimenti per il suo ottimismo... “Bè, guardi, magari Trump riuscisse a mettere fine alla guerra in Ucraina in ventiquattro ore, come ha detto. Non succederà. E in ogni caso, su questo non si scherza, si tratta di vedere come le metterà fine perché se dovesse farlo come hanno fatto a Monaco nel 1938, facendo capitolare l’Ucraina, allora sarebbe pericoloso. Però scommetto la carica ministeriale che entro 24 ore dal suo arrivo alla Casa Bianca non farà la pace e non cederà l’Ucraina a Putin”. Domanda ancora al liberale Nordio: cosa pensa della scelta della Corte penale internazionale di emettere un mandato di arresto nei confronti di Netanyahu? Non fanno bene gli Stati Uniti d’America, che quella Corte non l’hanno mai riconosciuta, a considerare oltraggiosa l’equiparazione tra un leader democraticamente eletto, che difende il suo popolo, e i terroristi di Hamas? “Io partirei da lontano, nel senso che questa forma di diritto penale internazionale è stata fondata proprio dagli Stati Uniti ed è stata avallata in primis da Robert Jackson che ha voluto fortemente il processo di Norimberga e là sono cominciate le discussioni sulla retroattività della legge penale, sul nullum crimen sine lege, sulla legittimità del processo fatto dai vincitori. Dopo di che, malgrado questo enorme processo, tutti gli altri sono falliti. Ho l’impressione che il progetto della pace perpetua voluto da Kant sulla base di una Corte penale internazionale abbia molte difficoltà, abbia molte lacune. Per di più manca un diritto penale internazionale: se non hai un diritto penale sostanziale è difficile avere un processo credibile. Poi è significativo il fatto che non solo gli Stati Uniti, ma anche stati come la Russia, la Cina, lo stesso Israele siano fuori dalla Corte penale internazionale. Perché questo? Perché, secondo me, essendo stati che possono essere coinvolti più di altri in conflitti bellici, sono anche quelli nei confronti dei quali queste corti possono interferire. Non vorrei sbilanciarmi sul tema della Corte, fatto salvo che è semplicemente ridicolo mettere sullo stesso piano un terrorista che colpisce un ebreo in quanto ebreo e il leader di un paese democratico che, pur con i suoi eccessi, difende il suo popolo. Dico solo che in genere processi di questo tipo, per essere credibili, si fanno quando le guerre sono finite, non durante le guerre, quando possono influenzarne l’esito”. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando è stato rieletto nel suo discorso di insediamento ha messo al centro la giustizia. Lei ha capito se il capo dello stato oggi condivide o no il percorso riformatore del governo su questi temi o se anche la giustizia rientra all’interno di quel perimetro di leggi che il presidente della Repubblica firma senza esserne d’accordo? “Non cado nel tranello. Non mi permetterei mai di interpretare i pensieri del Presidente. Con lui abbiamo avuto vari incontri, qualche volta di ordine tecnico con suggerimenti che abbiamo accolto perché erano corretti, penso che possiate anche immaginare quali, e lo abbiamo fatto, tra l’altro, perché il Presidente oltre a essere garante della Costituzione è anche un fine giurista. Lo abbiamo sempre ascoltato. Per quanto riguarda le scelte strategiche, non posso non apprezzare il fatto che siano sempre state firmate dal Presidente. Essendo un liberale e avendo fatto molti discorsi anche sulla indipendenza della magistratura e l’impossibilità del diritto creativo, penso che il Presidente comprenda che l’intenzione delle nostre riforme non è affatto punitiva nei confronti della magistratura, ma serve a delimitare meglio la separazione dei poteri e, lo dico da ex magistrato, anche a rialzare il prestigio della magistratura, che come ho detto prima è crollato. Le andrebbe di mandare un messaggio alla maggioranza, che in questo periodo è un po’ litigiosa, con picchi di paraculismo acuto, per citare un suo collega di Forza Italia? “Io mi occupo essenzialmente di giustizia. Qualche volta, chiedendo scusa a Tajani, ma solo a fini culturali, parlo di politica estera, ma in termini storici come faccio ogni tanto con Churchill”. E allora proviamoci con Churchill. Esiste una frase di Churchill che potrebbe spiegare ai litiganti della maggioranza perché dovrebbero darsi una calmata? “Sì, una sì. Ci sono persone che abbandonano il proprio partito per amore delle proprie idee e altri che abbandonano le proprie idee per amore del partito. Chi vuol capire capirà”. Tolto l’abuso d’ufficio. Cosa sta succedendo di Luigi Ferrarella e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 2 dicembre 2024 Il professore che favorisce il proprio allievo in un concorso universitario. Il carabiniere che, siccome alcune ragazze extracomunitarie rifiutano di farsi fotografare in spiaggia, chiede loro, senza ragione di servizio, di esibire i documenti di soggiorno. Il pm che fa processare l’ex della sua fidanzata. Il poliziotto che manda un’ispezione nella discoteca che non ha fatto entrare suo fratello senza invito. L’assessore che, di fronte a due contemporanee richieste di comizi elettorali in piazza, ne nega l’uso alla lista avversaria e concede invece la piazza al comizio del proprio partito. Sono alcune delle situazioni che in passato avevano portato a condanne per il reato di abuso d’ufficio, e che invece adesso restano penalmente “scoperte” dopo che il Parlamento, il 25 agosto scorso, ha abrogato l’articolo 323 del codice penale. Due secoli di storia - Dal punto di vista storico, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è davvero epocale: ininterrottamente da 205 anni esisteva una norma di difesa del privato cittadino dalle prevaricazioni dell’autorità pubblica, persino nel Codice del Regno delle due Sicilie del 1819, e poi (con l’unità d’Italia) nel Codice Zanardelli del 1889, sino al codice Rocco che nel 1930 all’articolo 323 sull’abuso innominato d’ufficio puniva il “pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurarsi un vantaggio, qualsiasi fatto non previsto come reato da una particolare disposizione di legge”. Il match che ha portato all’abrogazione dell’abuso d’ufficio si è sempre svolto fra due scuole di pensiero: da una parte coloro che ravvisavano nella norma una genericità tale da consentire ai magistrati troppa discrezionalità nell’individuare il reato; motivo per cui gli amministratori pubblici, per “paura della firma”, si rifugiavano in una paralizzante burocrazia. Dall’altro lato coloro che rimarcavano come l’abuso d’ufficio funzionasse spesso anche come “reato spia” che portava ad accertare reati più gravi, quali la corruzione e la concussione. Eppure la norma in questione, negli ultimi 30 anni, ha subito diverse modifiche che ne hanno ristretto via via il campo di applicazione. Le tappe verso l’abolizione 1990 (governo Andreotti VI) prima riforma: ridefinisce l’abuso e le pene: da un minimo di 2 anni (se il pubblico ufficiale reca un vantaggio ingiusto) a un massimo di 5 (se il vantaggio è in cambio di denaro), e la conseguente possibilità di arresti e intercettazioni. 1997 (Governo Prodi) seconda modifica: il campo si restringe alla violazione di una legge, regolamento, o per mancata astensione se in conflitto di interessi, come per esempio il sindaco che dà una concessione edilizia su un terreno di proprietà della moglie. Scendono anche le pene: da un minimo di 6 mesi ad un massimo 3 anni, dunque niente più arresti e intercettazioni. 2012 (Governo Monti) terza modifica: ritocco della pena, che passa da un minimo di un anno a un massimo di 4. 2020 (Governo Conte II) quarta modifica: non conta più la violazione di un regolamento o di una circolare, ma va applicata solo la legge che non lascia margini di interpretazione. Il dirigente del comune da una concessione edilizia sul mare ad un suo elettore? O la legge dice espressamente “li no”, o l’abuso non c’è. La legge prevede la selezione di personale competente per svolgere una certa funzione? C’è abuso solo se per quel certo posto la legge prescrive requisiti ben precisi. A questo punto l’abuso è già quasi sparito. Resta sanzionato l’abuso per conflitto di interesse, per esempio il pubblico ufficiale che partecipa alla commissione in un concorso pubblico per dare una mano ad un proprio parente. Agosto 2024 (Governo Meloni), quinta modifica: abrogato tutto, e quindi anche questi due casi residui non danno più luogo a reato. Le statistiche delle sentenze La campagna pro-abrogazione ha dato molto peso al fatto che l’80% delle denunce vengono regolarmente archiviate, e che addirittura nel 2021, su 5.418 fascicoli iscritti, le condanne e sentenze di patteggiamento sono state 62. Numeri inevitabili visto che il reato è stato man mano depotenziato negli anni. Va inoltre ricordato che il nostro codice prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, vuol dire che quei 5.418 non erano processi, bensì fascicoli aperti in seguito a denunce. Certo, non è raro vedere il tal partito denunciare per abuso d’ufficio il sindaco del tal altro partito al solo scopo di poter poi dire ai giornali che quel sindaco è indagato, anche se poi magari la Procura si accorge subito che non c’è sostanza e chiede l’archiviazione. Peraltro nella maggior parte dei casi di archiviazione il diretto interessato non lo veniva nemmeno a sapere. Tuttavia il dato dell’80% non è così straordinariamente superiore alla media di archiviazioni degli altri reati, che si attesta al 62%. E comunque così tanto indefinibile non doveva essere l’abuso d’ufficio, se in 23 anni ci sono state più di 3.600 condanne. Di sicuro l’abolizione del reato non impedirà ai cittadini di fare esposti, e i magistrati avranno sempre l’obbligo di aprire altrettanti fascicoli. Ma cosa cambia d’ora in poi? I concorsi universitari In concreto, dopo l’abrogazione, cambia tutto, ad esempio per i concorsi universitari truccati, che venivano perseguiti o con il reato di turbativa d’asta o con l’abuso d’ufficio. L’anno scorso la Cassazione, con una sentenza, ha cristallizzato un orientamento in corso da tempo: la turbativa può valere per le gare nell’acquisizione di beni o servizi, ma non per le assunzioni di personale nella pubblica amministrazione attraverso i concorsi pubblici e in particolare quelli universitari, per i quali invece va applicato il reato di abuso d’ufficio. Che però ora è stato abolito, lasciando dunque i concorsi truccati fuori dal penale, a meno che non vi sia un falso in atto pubblico o una corruzione in denaro. In pratica la faranno franca tutti i professori che vogliono agevolare il loro allievo, parente o figlio di amici. Mani libere Si spalancano praterie per il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che non si astengano in presenza di un conflitto di interesse: sentenze come quelle finite in Cassazione non ci saranno più. A partire da quella che ha condannato il comandante della Polizia municipale, che con procedura diretta aveva affidato il servizio di autovelox alla società di suo cognato; o quella del dirigente comunale che ha presieduto la commissione di concorso che poi ha dichiarato vincitrice sua nipote. Ma nemmeno quella del sindaco che ha sciolto una seduta del Consiglio comunale per impedire ai consiglieri di votare la costituzione di parte civile del Comune in un processo a suo carico. Restano penalmente “scoperte” anche condotte ritorsive o prevaricatorie di chi detiene poteri pubblici (salvo i casi di violenza o minaccia che possano far scattare altri reati come la concussione). Mano libera al direttore generale di una Asl che illegittimamente dequalifichi un servizio ospedaliero da struttura complessa a struttura semplice per demansionare il primario; e persino al sindaco che, con l’apparente argomento di voler contenere le spese, revochi l’incarico dirigenziale ricoperto da un dipendente “reo” di essersi candidato in una lista contrapposta. Fino al vuoto - ancor più paradossale visti i furori anti-toghe del governo Meloni - di esentare dalla sanzione penale un magistrato che per semplice astio, chieda il rinvio a giudizio dell’ex fidanzato della sua compagna. Non a caso anche il Csm a inizio ottobre ha archiviato in blocco 20 procedimenti disciplinari aperti a carico di altrettanti magistrati sotto indagine per abuso d’ufficio. Cosa succede adesso Nel futuro, per i fautori dell’abolizione dell’abuso d’ufficio basterebbero gli altri reati di peculato, corruzione, concussione e rivelazione di segreto. Oltre alla possibilità per i cittadini di ricorrere al Tar e alla responsabilità dei dipendenti pubblici per danno erariale di fronte alla Corte dei Conti, ci sono i procedimenti disciplinari in seno alle varie amministrazioni. Peccato che i disciplinari vengono quasi sempre congelati in attesa dell’esito del giudizio penale (che non ci sarà più), e l’esperienza mostra che mai nessuno nella Pubblica amministrazione promuove di propria volontà un disciplinare senza il pungolo del penale. Per quel che riguarda la Corte dei Conti è in cantiere un progetto di legge per circoscrivere la responsabilità per danno erariale alla sola ipotesi del dolo, con esclusione della colpa grave. Sono perfino stati resi possibili affidamenti diretti di beni o servizi sino a 140mila euro di soldi pubblici senza nemmeno confrontare due preventivi. Il conflitto d’interessi è passato in cavalleria; l’attività di lobbying non è regolata. Del resto, nel gennaio 2024 finanche la Commissione Giustizia della Camera, nel dare il via libera all’abolizione dell’abuso d’ufficio, aveva contestualmente approvato un ordine del giorno con il quale impegnava il governo “a costituire un Osservatorio volto a monitorare l’impatto dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio”. Se ne è saputo più nulla. Il governo invece, Il giorno prima della pubblicazione in Gazzetta ha dovuto correre a varare il “peculato per distrazione” e infilarlo al volo nel decreto sull’emergenza carceri, perché essendo stato assorbito anni fa nell’abuso d’ufficio, era sparito pure quello. In pratica il direttore generale di un ospedale avrebbe potuto per esempio “distrarre” tranquillamente i soldi destinati all’acquisto di una Risonanza magnetica verso l’arredamento del suo ufficio. I ricorsi e il colpo di spugna per i condannati Da Firenze a Reggio Emilia, a Locri, già sei tribunali nelle scorse settimane hanno sollevato davanti alla Consulta la possibile incostituzionalità della legge che ha abrogato l’abuso d’ufficio: sarebbe in contrasto con l’articolo 117 della Costituzione per la possibile violazione degli obblighi derivanti dal diritto internazionale della Convenzione Onu di Merida, e con l’articolo 97 della Costituzione sui principi di imparzialità della pubblica amministrazione. Occorre poi fare i conti con la proposta di direttiva del Parlamento Europeo del 3 maggio 2023 che all’articolo 11, rubricato “Abuso d’ufficio”, prevede tra l’altro che gli Stati membri “prendono le misure necessarie affinché sia punibile come reato l’intenzionale esecuzione o omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo”. Se la proposta venisse approvata, l’Italia sarebbe costretta a reintrodurre l’abuso d’ufficio. Nell’attesa della decisione della Corte Costituzionale e del Parlamento Ue, gli oltre 3.600 condannati per abuso d’ufficio dal 1997 al 2020, hanno diritto di ottenere dal giudice dell’esecuzione la cancellazione dal casellario giudiziario e tornare “immacolati”. Dalla mafia 4.0 all’antimafia 4.0: la ricetta della Fondazione Caponnetto di Filippo Conte La Stampa, 2 dicembre 2024 Il vertice ha ribadito che siamo ad un punto critico nella lotta contro la piovra ed è necessario un salto di qualità negli strumenti a disposizione della magistratura. Per ora il decreto giustizia è rimasto nel cassetto del governo. Venerdì scorso la parte del Dl che conteneva eventuali nuovi poteri all’antimafia non si è vista nel provvedimento del governo. Eppure i magistrati, da mesi lanciano l’allarme. E anche stavolta è stato ribadito con il convegno, “Dalla Mafia 4.0 all’Antimafia 4.0”. Su quetsi temi e con questo titolo, infatti, si è svolto il 34° vertice antimafia, promosso dalla Fondazione Antonino Caponnetto, presso la Basilica di Santo Spirito a Firenze. In apertura dell’incontro il presidente della Fondazione, Salvatore Calleri, ricorda come lo scopo del vertice sia “fare il punto di quello che serve per combattere la mafia, cercando di codificare le strategie necessarie per continuare a lottare contro un’organizzazione che è sempre in evoluzione”. Non si può, però, combattere la mafia del presente e del futuro senza comprendere quella del passato e, soprattutto, senza capire quale sia la mentalità mafiosa e cosa spinga un giovane a scegliere la via dell’illegalità. Il mafioso, infatti, non è un criminale come gli altri e non è nemmeno un detenuto come gli altri. Come spiegato da Claudio Caretto, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, “il mafioso è un detenuto quasi modello, ha un comportamento solitamente più rispettoso del delinquente comune, perché si crede parte di una forza statale. Si interfaccia, quindi, con i vari organi dello Stato in maniera paritaria, come se fosse un confronto tra appartenenti a due stati certamente contrapposti, in guerra, ma posti sullo stesso piano”. Per capire e contrastare il fenomeno mafioso, quindi, è necessario partire da questa consapevolezza e comprendere che non si è di fronte ad un’organizzazione criminale comune, ma ad una struttura quasi statuale che riesce a permeare nella società e ad essere attrattiva, anche nei confronti dei giovani. Senza una cultura della legalità, infatti, un ragazzo, come spiegato dal magistrato, “può fare una valutazione dei pro e dei contro. Andando a lavorare in fabbrica per 1200 euro al mese potrà fare un certo stile di vita, mentre se fa il mafioso avrà un tenore di vita diverso e, anche nel caso fosse particolarmente sfortunato e venisse arrestato, sa che il carcere non è particolarmente stringente perché, con la riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (norma sul regime dei permessi premio ai detenuti per reato ostativo, n.d.r.), sono consentiti sempre più benefici ai mafiosi, cosa che prima non era possibile”. Insomma, invece di dare più strumenti ai magistrati per combattere la criminalità organizzata, si indeboliscono le armi già esistenti. Eppure le nuove tecnologie, ormai ben sfruttate dalla mafia, potrebbero essere decisive anche per l’antimafia se venissero messe a disposizione. Silvia Civitella, autrice del libro “Intelligence against international mafia-like criminal organizations”, spiega infatti che “contro una mafia sempre più imprenditoriale, tecnologica, interconnessa e senza più confini, noi possiamo usare i dati per sviluppare delle strategie di contrasto. Attraverso un database contenete lo storico criminale di un soggetto, a quale cosca appartiene, le varie operazioni di polizia che si sono susseguite, le sentenze, eccetera, noi possiamo, grazie a queste informazioni, realizzare un grafico che ci mostra molto chiaramente come si struttura quella cosca, su quali territori insiste, che interessi ha. Con uno strumento di questo tipo, quindi, io potrei aprirlo e decidere di far partire la mia analisi da un determinato territorio andando a vedere che cosche insistono su quel territorio, quali attività svolgono, come sono strutturate, quali sono i membri di appartenenze e monitorare i loro spostamenti, quali sono state le operazioni di polizia che si sono susseguite e posso, così, risalire a tutte le aziende e le attività imprenditoriali legate a quelle determinate cosche. In sostanza, posso mettere insieme tanti pezzi di un puzzle per avere un quadro complessivo della situazione dell’organizzazione criminale che possa guidare le investigazioni future, fino al punto di anticipare l’attività criminale”. Affinché tutto questo sia possibile, però, servirebbe una collaborazione sovranazionale, europea. I vari stati membri stanno solo recentemente iniziando a comprendere che la mafia non è un problema solo italiano, ma è ormai una realtà globalizzata e senza confini, che necessita una risposta comune. In un’Unione Europea sempre più divisa e dominata dalle idee sovraniste dei singoli stati, la lotta alla mafia deve comunque essere trasversale e comunitaria. In un vertice dedicato alla Mafia 4.0 non poteva poi mancare un intervento dedicato ai social e all’uso che ne fa la criminalità organizzata. Sonia Alfano, che da sempre svolge un’intensa attività antimafia, proprio sui social è stata minacciata dal figlio di Riina. Perché bisogna sottolineare che la mafia si è evoluta, è cambiata, ma non si è intenerita. E, come sottolinea Alfano, “la Camorra utilizza le piattaforme social come cassa di risonanza. Le utilizza per lanciare messaggi ai collaboratori di giustizia, per organizzarsi come accaduto recentemente con TikTok, ma soprattutto le utilizza per ostentare uno status. I social vengono usati come strumento per cercare manovalanza, per veicolare il messaggio che è molto meglio spacciare e rubare che andare a lavorare. TikTok, in particolare, è una piattaforma riconducibile alla Cina e non si riesce ad avere su questo nessuna forma di dialogo o a far capire loro la fonte di pericolo che rappresenta. Dopo le 22 di sera su TikTok si vende di tutto, dalla droga alle armi, senza nessun controllo. Parlando della mia terra, la Sicilia, c’è una tendenza preoccupante, con Cosa Nostra che, complici anche le fiction che veicolano un messaggio sbagliato, sta cercando sempre più di assomigliare a Gomorra con attività che sono soprattutto di microcriminalità. A Palermo vengono registrati dai 10 ai 15 furti di auto al giorno e la gente non denuncia perché è spaventata e mi dispiace dire che in questo la riforma Cartabia non ha aiutato. C’è questa tendenza preoccupante di invertire il ruolo di vittima e carnefice, che porta il figlio di Riina a scrivere sui social il 17 novembre, giorno della morte del padre, che lui vivrà per sempre in noi e con noi. Questo post, ho controllato personalmente tutti i commenti che sono più di 1000, ha ricevuto apprezzamenti dalla Sardegna, dalla Germania e tantissimo dalla Sicilia. Questo soggetto, invece, non dovrebbe avere voce ma dovrebbe sparire nell’ombra della vergogna e del disprezzo”. Il 34° vertice antimafia ha ribadito che siamo ad un punto critico nella lotta alla mafia, è necessario un salto di qualità negli strumenti a disposizione della magistratura e di tutte le realtà che la combattono. Sarebbe necessario, inoltre, smettere di commemorare personaggi simbolo come Falcone e Borsellino e allo stesso tempo demolire le leggi da loro volute. La lotta alla mafia deve essere una priorità trasversale a tutti i partiti, italiani ed europei. Salerno. Un dono per spezzare le sbarre dell’indifferenza. il diritto alla spensieratezza per i figli di detenuti di Angelica Armenio* Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2024 In un mondo spesso distratto, dove la sofferenza di chi vive ai margini rischia di passare inosservata, arriva un’iniziativa che unisce studenti universitari e bambini che vivono situazioni di grande vulnerabilità. Promossa dalle associazioni Alf, Artisticamente e Futura dell’Università degli Studi di Salerno, la raccolta di giocattoli per i figli di genitori detenuti rappresenta un gesto di grande valore simbolico ed educativo. In occasione delle festività natalizie, ma non solo, l’iniziativa mira a riempire gli spazi gialli delle carceri campane con giochi, colori e momenti di leggerezza, rispondendo a un bisogno troppo spesso ignorato: il diritto dei bambini alla normalità. La pedagogia della cura: un impegno - Dietro questo gesto si cela un messaggio profondo: ogni bambino ha il diritto di vivere un’infanzia serena, indipendentemente dalle circostanze familiari. Lo sottolinea la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che nell’articolo 9 afferma il diritto del minore a mantenere relazioni regolari con i genitori, anche in caso di loro detenzione. Tuttavia, la realtà è spesso diversa: i figli di detenuti vivono un doppio stigma, quello della separazione e quello della colpa riflessa, in un contesto sociale che tende a ignorarli. Tanti pedagogisti hanno evidenziato come l’educazione possa abbattere le barriere dell’ingiustizia sociale, restituendo dignità a chi vive ai margini. Questo progetto, inserito nel contesto degli spazi gialli - ambienti dedicati ai figli di detenuti all’interno delle carceri - va oltre la semplice donazione di un oggetto: diventa un atto di riconoscimento e di affermazione dei diritti dell’infanzia. Il potere simbolico del gioco - Il gioco, come spiegano pedagogisti e psicologi dell’età evolutiva, non è solo uno strumento di intrattenimento, ma una chiave fondamentale per il benessere psicologico e lo sviluppo emotivo del bambino. Donare un giocattolo a un bambino che vive l’esperienza traumatica di avere un genitore in carcere significa offrirgli uno strumento per costruire, attraverso la fantasia, una realtà temporaneamente libera dalle difficoltà quotidiane. Allo stesso tempo, un gesto di questo tipo porta con sé un messaggio educativo rivolto agli adulti: i figli di detenuti non devono essere colpiti dalla colpa o dal giudizio destinati ai genitori. L’educazione inclusiva e affettiva si costruisce anche attraverso piccoli gesti come questo, che riaffermano il diritto alla spensieratezza e alla dignità di ogni bambino. L’importanza degli spazi dedicati ai figli delle persone detenute - Gli spazi gialli (o altri analoghi) sono aree appositamente progettate all’interno delle carceri italiane per accogliere i bambini in modo dignitoso durante le visite ai genitori detenuti. Nati grazie alla collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria e Bambinisenzasbarre, questi luoghi cercano di mitigare l’impatto emotivo delle visite, trasformandole da momenti di tensione a opportunità di contatto affettivo e comunicazione. In questo contesto, la donazione di giochi e materiali creativi assume un valore doppio: non solo arricchisce questi spazi, rendendoli più accoglienti, ma rappresenta un segno tangibile di attenzione e cura verso bambini spesso dimenticati dalla società. Pennarelli, colori e giochi creativi, in particolare, offrono ai piccoli la possibilità di esprimersi e di sentirsi, anche solo per qualche ora, come tutti gli altri bambini. Educare alla solidarietà: un messaggio per la comunità - L’iniziativa non è solo un atto di beneficenza, ma anche un’occasione per sensibilizzare la comunità accademica e cittadina sul tema dei diritti dell’infanzia. Coinvolgere studenti, docenti e cittadini nella raccolta dei giocattoli significa educare alla solidarietà, trasformando il gesto del donare in un atto consapevole. In una società che spesso fatica a guardare oltre le proprie mura, questa campagna vuole essere un richiamo a una responsabilità condivisa: quella di garantire ai bambini la possibilità di sognare, anche in contesti difficili. Un piccolo gesto, un grande impatto - Il Natale 2024 diventa così un’occasione per riflettere sul valore dei diritti dell’infanzia e sull’importanza di costruire una società più inclusiva. La raccolta dei giocattoli, ospitata presso la sede dell’associazione Futura nel Campus di Fisciano, è aperta a tutti. L’obiettivo è semplice ma significativo: regalare ai bambini non solo un gioco, ma anche un segno di attenzione, un ponte verso un’infanzia più serena. Come sottolineava Paulo Freire, “l’educazione non cambia il mondo, ma cambia le persone che cambieranno il mondo”. Questo progetto, nato da un ricordo personale e trasformato in azione collettiva, rappresenta un piccolo passo verso una società più giusta, dove nessun bambino è lasciato indietro. Donare un giocattolo significa donare speranza. E la speranza, si sa, è il primo passo per spezzare le sbarre dell’indifferenza. N.B. I giocattoli si portano presso la sede dell’associazione Futura, nell’edificio C dell’Università degli Studi di Salerno. *Educatrice Vercelli. “Lib(e)ri dentro”, Giorgio Vicari protagonista del primo appuntamento di Andrea Borasio vercellinotizie.it, 2 dicembre 2024 Il progetto di lettura dedicato ai detenuti del carcere di Vercelli. Mercoledì 27 novembre, nel salone-teatro della casa circondariale di Billiemme si è svolto il primo appuntamento del progetto “Lib(e)ri dentro. Licenza di leggere”. Un’iniziativa realizzata dal Comune in collaborazione con la Biblioteca Civica per promuovere la lettura all’interno della struttura carceraria: lo scopo è quello di migliorare il welfare dei detenuti e delle detenute e fornire un’importante fonte di riscatto culturale. Il primo appuntamento ha avuto per protagonista l’ex procuratore capo della Repubblica di Vercelli Giorgio Vicari che, dialogando con il giornalista Enrico De Maria, ha parlato del suo ultimo libro con protagonista il pm Ròtari: “Il procuratore e l’Isotta Fraschini”. Presenti all’evento il direttore della Casa circondariale Giovanni Rempiccia, la responsabile dell’Area educativa Valeria Climaco, la conservatrice della Biblioteca civica Alessandra Cesare e il garante dei dritti dei detenuti e delle detenute Pietro Oddo. L’incontro, durato circa due ore, è stato molto interessante. Gran parte dei detenuti presenti, che avevano formato un gruppo di lettura, avevano già letto il libro e hanno subissato di domande il dottor Vitari, che ha risposto a tutti, in modo efficace ed esaustivo. Ad una domanda specifica sulla verità processuale, che non sempre coincide con la realtà dei fatti, il dottor Vitari ha preso come esempio uno dei primi, clamorosi fatti, in cui egli si imbatté, pur non avendolo avviato, una volta arrivato a Vercelli: il caso Matilda. Lo ricorderete tutti: la piccola, che non aveva ancora due anni, morì il 2 luglio del 2005 in una casa di Roasio in cui, al momento del colpo fatale alla schiena (probabilmente un calcio) che le danneggiò fegato e reni, c’erano solo la madre, Elena Romani, e il suo compagno Antonio Cangialosi. Quindici anni di processi, prima alla madre, poi all’ex bodyguard, non sono riusciti a stabilire chi l’avesse uccisa. Ha detto l’ex pm: “La piccola Matilda non ha avuto giustizia, e purtroppo accade. Noi tutti non possiamo garantire che le sentenze siano infallibili, ciò che lo Stato deve assolutamente garantire è invece la validità dei processi, con tutte le parti in causa che devono essere poste sullo stesso piano con gli stessi diritti”. Prossimo appuntamento con “Lib(e)ri dentro - Licenza di leggere” il 14 gennaio: il personale della Biblioteca civica dialogherà con Cristina Frascà, su “L’ora di felicità”, un divertente romanzo ambientato nel mondo della scuola. Poi, il 28 gennaio, Giorgio Pogliano, autore di “Pennsylvania; la vita, la storia, il destino” dialogherà con l’ex garante nazionali dei diritti dei detenuti e delle detenute Emilia Rossi. Pontremoli (Ms). La giustizia riparativa in mostra: il modello APAC dal Brasile alla Lunigiana ecodellalunigiana.it, 2 dicembre 2024 Venerdì 29 novembre è stata inaugurata presso l’ex Tribunale di Pontremoli la mostra fotografica “Dall’amore nessuno fugge. L’esperienza APAC - CEC dal Brasile all’Italia” alla presenza dei Sindaci di Pontremoli, Jacopo Ferri e di Mulazzo, Claudio Novoa. Presente anche il Giudice Cosimo Ferri. Il Sindaco Jacopo Ferri ha sottolineato come sia motivo di orgoglio per il comune di Pontremoli poter ospitare questa mostra: “Si è tenuto da pochi mesi un festival importante in merito al tema giustizia: “Curae festival 2024. L’ Altro - Teatro, Giustizia minorile, Mediazione, Giustizia Riparativa”. Il Comune già da anni si muove per operare nel delicato ambito della giustizia, un esempio è la presenza dell’IPM (Istituto Penale Minorile) femminile. È fondamentale la sinergia di territorio e servizi, il rapporto con l’UEPE e la Magistratura per poter attivare le misure alternative e le MAP (Messe alla Prova) in modo educativo e costruttivo. La parola centrale è AMORE. Chi amministra la giustizia ha il compito di assicurarsi che la pena da scontare venga eseguita in modo efficiente ed educativo. L’Associazione Papa Giovanni XIII porta avanti questo compito contribuendo a sviluppare una società sana che ha al centro amore, speranza ed accoglienza per contribuire a costruire una società più giusta.” Il 30 novembre 1786 il Granduca Pietro Leopoldo aboliva la pena di morte nel Granducato di Toscana, è un passo importante che sta alla base del sistema giuridico italiano. La giustizia deve mettere al centro la persona per poterla rieducare e per permetterle di riscattarsi e reinserirsi in società. Le pene devono essere rieducative. L’amministrazione comunale deve collaborare per rendere questo processo possibile. L’obiettivo finale è l’inclusione. È una responsabilità di tutti perché arrivare all’inclusione significa arrivare ad una grande conquista: una società inclusiva è una società positiva. Oggi ci sono esperienze ormai consolidate ma all’inizio del percorso con l’Associazione Papa Giovanni XIII non è stato così semplice: le persone avevano paura, erano diffidenti perché non conoscevano la realtà del CEC (Comunità Educante con i Carcerati). Un ringraziamento è dovuto anche alle Camere Penali che garantiscono una giustizia giusta. I valori di questi percorsi sono cristiani, sociali, democratici e si fondano sulla partecipazione attiva della cittadinanza. È un tema di grande attualità che interessa tutti” L’esposizione, frutto del lavoro di J. R. Martinéz, M. Lorusso, A. Veneri e a cura della Comunità Papa Giovanni XXIII, ci racconta il dramma delle carceri e il tentativo di alcuni uomini che non hanno voltato lo sguardo di fronte alle tragedie umane ma hanno cercato di darvi una risposta concreta. La mostra ci ha fatto conoscere il caso di Mario Ottoboni, fondatore dell’esperienza brasiliana APAC, Associazione per la Protezione e Assistenza ai Condannati o, nel suo senso più spirituale, Amando il Prossimo Amerai Cristo, che non si è girato dall’altra parte e come diceva don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, “ha cominciato a trattare i poveri come li trattava Gesù”. Le carceri APAC, infatti, cercano di recuperare il detenuto, proteggere la società, soccorrere le vittime e promuovere la giustizia riparativa. Un vero progetto di vita nato come segnale di luce e speranza per coloro che si trovano in situazioni di oscurità, dimenticanza e privazione della libertà. Attraverso queste fotografie e le storie delle persone in esse ritratte, abbiamo potuto cogliere come a differenza del sistema penitenziario in cui violenza e disumanità diventano, purtroppo, caratteristiche fondanti la realtà carceraria stessa, le carceri APAC pongano al centro la valorizzazione umana del “recuperando”. Questo termine, diversamente da “carcerato”, “condannato” o “detenuto” che nascondono disprezzo e disumanizzazione, indica un cammino di rinascita, di rispetto per le vittime e di riscatto del reo che sconta la sua pena vivendo un recupero che riguarda tutti gli aspetti della persona umana: salute, educazione, istruzione, professionalizzazione, spiritualità. Soffermandoci sugli ultimi pannelli in esposizione è emerso come su questi stessi valori, già nei primi anni 2000, anche in Italia si è lavorato sul tema delle carceri: la Comunità Papa Giovanni XXIII non ha voluto voltarsi, allora come oggi, dall’altra parte per poter dichiarare che un’alternativa al carcere è possibile! Ha sviluppato il servizio carcere e aperto le prime due case d’accoglienza specifiche per detenuti nelle province di Massa Carrara e di Rimini. Nel 2008 su invito di don Oreste, che venuto a conoscenza dell’esperienza APAC ne intuì la profezia, un gruppo di sette persone della Comunità è andato in Brasile. L’esperienza indimenticabile ha portato ad elaborare, tornati in Italia, il Progetto CEC: Comunità Educante con i Carcerati, riconosciuto poi come affiliato alle APAC e che ancora oggi continua ad affinare il suo metodo all’interno delle proprie case. COMUNITÀ perché composta da 3 soggetti, operatori - volontari - recuperandi, che insieme condividono un percorso di cambiamento di vita in un clima familiare. EDUCANTE, da e-ducere cioè “tirare fuori” perché la grande sfida è riscoprirsi dono per sé e per gli altri. CON I CARCERATI, “con” e non “per” i carcerati perché sono loro i protagonisti di questo percorso di rinascita. Don Oreste diceva che “nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti” e che “per recuperare uno ci vuole il coinvolgimento di tutti”. Questa mostra fotografica, visitabile ancora fino a giovedì 5 presso l’ex tribunale di Pontremoli e poi ancora venerdì 6 presso la Cooperativa Il Pungiglione a Mulazzo, è tornata allora a chiamare ciascuno di noi alla propria responsabilità morale, etica e sociale. E lo ha fatto proprio nel territorio lunigianese, luogo in cui la Comunità Papa Giovanni XXIII è presente con diverse realtà e Case Famiglia e, nel Comune di Mulazzo, con il CEC Rinascere all’interno del “Villaggio dell’Accoglienza” e con la Casa Famiglia San Francesco dove vengono accolte persone in misura alternativa. Luoghi in cui si cammina insieme sulla via del perdono nella certezza che “l’uomo non è il suo errore” …come amava dire don Oreste Benzi. Tali iniziative divulgative, Mostra e Convegno, vedono il Patrocinio dei Comuni di Pontremoli e Mulazzo, l’appoggio e il contributo della Caritas Diocesana di Massa Carrara e Pontremoli, del Rotary Club Lunigiana e la partecipazione della Magistratura di Sorveglianza di Massa con la Dottoressa Mencattini e dell’Ulepe di Massa con la Dottoressa Necchi che hanno accolto l’invito della Comunità Papa Giovanni XXIII e delle Camere Penali di Massa-Carrara e della Spezia. Il Convegno previsto venerdi 6 dicembre per le ore 17.30 presso la Cooperativa Il Pungiglione in Località Boceda a Mulazzo, che vedrà moderatori i Presidenti delle suddette Camere Penali, gli Avvocati Claudia Volpi e Fabio Sommovigo, sarà un momento di riflessione, sensibilizzazione proposta e confronto tra istituzioni, servizi, avvocati per i quali è previsto il riconoscimento di crediti formativi, e privato sociale per rinforzare una rete di accoglienza e sostegno e, partendo da una esperienza concreta, rendere sempre più estesa questa opportunità. Prima del Convegno dalle ore 16 sempre presso la Cooperativa Il Pungiglione sarà possibile visitare la mostra e il Villaggio dell’Accoglienza, vero e proprio microcosmo multietnico che raccoglie in strutture contigue una Comunità di tipo familiare per ragazze vittime di tratta e di violenza domestica, un Ostello e un Centro di Accoglienza per migranti convenzionato con la Prefettura di Massa - Carrara e il Centro di Accoglienza per adulti CEC Rinascere. Tutto nato 30 anni fa dall’intuizione di Mauro Cavicchioli e di sua moglie Norina Piagneri che hanno aperto la loro casa condividendo la vita con i detenuti. Il percorso educativo si sviluppa attraverso la vita di comunità con altre persone accolte, con gli operatori e volontari che coordinano le attività. Il percorso prevede lo sviluppo di Fasi in successione in base al grado di crescita e maturità sperimentato e verificato attraverso diversi momenti significativi che vengono costantemente monitorati e riportati per una precisa valutazione nella Equipe Educativa settimanale: il rispetto delle regole, il rispetto degli altri conviventi e di tutte le persone che entrano in contatto con il villaggio, la partecipazione e il coinvolgimento ai gruppi (almeno due incontri settimanali) e nella gestione della vita di casa, la disponibilità ai colloqui di conoscenza e di approfondimento con gli operatori preposti, i colloqui psicoterapeutici con un nostro psicologo. Le persone vengono inserite durante il giorno in laboratori ergotarapici limitrofi al Centro di Accoglienza: coordinati da responsabili della Comunità le persone inserite si formano e si attivano in merito alla attività di produzione - la finalità é l’apprendimento professionale, relazionale ed educativo in ambiente protetto. Visto il legame con il territorio, è sovente che vengano organizzati eventi di sensibilizzazione e promozione del progetto: la possibilità di creare contatti positivi con l’esterno è dunque garantita in un ambiente dinamico. L’inserimento è curato dalla Cooperativa Sociale il Pungiglione (www.ilpungiglione.org), specializzata da più di vent’anni in servizi, ambito alimentare ed agricolo. È una eccellenza a livello nazionale per la produzione di miele biologico - DOP della Lunigiana e gestisce un centro altamente specializzato nell’ambito dell’apicoltura: dalla gestione del parco api (circa 700 famiglie in produzione), alla produzione, lavorazione e invasettamento miele ed altri prodotti dell’alveare (propoli - cera - polline - pappa reale), rivendiamo attrezzature apistiche nel un punto vendita “La Bottega dei Buoni Frutti”. Gestiamo insieme all’Associazione Toscana Miele di cui siamo soci il laboratorio alimentare di estrazione e stoccaggio miele a servizio di più di 50 aziende agricole della regione. In questo Villaggio sono ospitate durante tutto l’anno scuole, gruppi parrocchiali, giovani che condividono le attività della nostra Comunità: nel solo anno 2024 abbiamo avuto ospiti più di 500 giovani. Tutto questo per rispondere all’urgente bisogno di curare le nostre ferite, per creare un nuovo patto di convivenza sociale che ponga il dialogo tra le persone al centro di una idea di comunità riscoperta e per superare il singolarismo a cui oggi giorno siamo spinti. E per dare speranza alle giovani generazioni. Bari. Se un salto diventa respiro di libertà di Rossella Cea Gazzetta del Mezzogiorno, 2 dicembre 2024 Realizzata dai detenuti del carcere di Bari, la mostra fotografica è visitabile fino al 31 dicembre. Uno, due, tre... ed è salto. Come quando da bambini, con gli occhi chiusi per l’emozione, a pieni polmoni si respirava quella rincorsa che toglie il fiato, per spiccare il volo. Ma l’aviazione è solo un’illusione, come scriveva Jean Giraudoux : “Il solo volo che l’uomo abbia potuto mai realizzare fino a oggi è il salto”, e arriva sempre il momento di ricadere al suolo. In quell’attimo che si fa eterno però, risiede tutta la potenza di quella alterità rigenerante dell’infanzia. Così i detenuti del carcere di Bari, attraverso un ambizioso progetto, ritrovano speranza e voglia di reagire alla sofferenza della reclusione, grazie alla mostra Saltando Respiro - Fotografia fuori e dentro il carcere, inaugurata ieri, e visitabile fino al 31 dicembre, presso l’ex Palazzo delle Poste a Bari. Esposte le fotografie scattate nel Carcere di Bari da Daniele Notaristefano, un progetto unico nel suo genere che vede la luce grazie agli sforzi e all’ impegno congiunto di Uniba, tramite il Polo didattico universitario penitenziario, coordinato dal prof. Ignazio Grattagliano, e la casa Circondariale di Bari, in collaborazione con il Dipartimento ForPsiCom per il Centenario di Uniba. Il frutto di un anno di attività e ricerca, in sinergia con la direttrice del Carcere la dott.ssa Valeria Piré, che ha reso possibile l’ingresso e la realizzazione delle fotografie con un gruppo di detenuti a cui, contestualmente, sono anche state affidate delle macchine fotografiche. Intensa e a tratti commovente la semiotica di suggestioni vive che, attraverso il linguaggio fotografico di Notaristefano, acquisiscono senso e colore nuovo: “Analizzando quella che per molti anni ha rappresentato la modalità fotografica scelta in ambito penitenziario, per molti scatti ho deciso di orientarmi verso le suggestioni degli anaglifi, le cui sovrapposizioni sono in grado di cogliere profondità e spontaneità del soggetto in movimento. Il rinvio al colore azzurrino e rosso delle sagome poi lascia spazio all’ immaginifico in grado di suggerire efficacemente la molteplicità di sensi che contiene. Quando si salta non è mai possibile controllare la propria mimica facciale, questo rende tutto più spontaneo ed è una sorta di liberazione anche metaforica rispetto alle gabbie imposte. Purtroppo non è stato possibile esporre alcune fotografie scattate ai membri del servizio di vigilanza del carcere. Avremmo voluto dare voce anche al loro difficile, e spesso mal compreso, punto di vista”. All’interno della sala circolare dell’ex Palazzo delle Poste è stata ricostruita una cella dove sono esposte anche vibranti polaroid dal valore catartico: tra spavaldi e improvvisati abbracci di compagni di cella, e spazi di ambienti che sembrano ingigantiti a dismisura, spiccano le note di colore di una tappezzeria improvvisata:” I luoghi concessi per gli scatti sono stati tre: il cortile, la biblioteca e un corridoio, a cui si aggiungono immagini decisamente significative del reparto femminile inutilizzato da anni. Un’esperienza che ci ha davvero toccati nel profondo, soprattutto perché siamo venuti a contatto con una realtà di sofferenza che può essere senz’altro vista con occhi diversi. La fotografia poi è un mezzo artistico immediato ed accessibile a tutti. La fierezza di questi ragazzi, le loro pose alla Gomorra, rappresentano un messaggio che va oltre la colpa, l’orrore e la grigia vita da reclusi. La via di fuga verso una libertà, innanzitutto di pensiero, che può costituire la vera salvezza, e fare la differenza. Interessante è stato scoprire quelle tracce di luoghi del carcere ormai dismessi, che ci hanno ricondotto alla dimensione vissuta da chi li ha abitati.” Spiega la prof.ssa Attimonelli, docente di studi visuali e cultura digitale e curatrice della mostra. Milano. Grande successo della raccolta di indumenti per i senza dimora e i detenuti comune.milano.it, 2 dicembre 2024 Raccolti duemila tra scatoloni e sacchi nei nove punti di ritiro allestiti in città. Sono tantissimi i milanesi e le milanesi che hanno contribuito alla raccolta degli indumenti invernali per i senza dimora organizzata oggi dalle 9.30 alle 17.30 in nove diversi punti della città. I cittadini e le cittadine hanno aderito all’invito del Comune e delle associazioni del Terzo Settore che hanno allestito i banchetti di ritiro, donando giacche, cappotti, pantaloni, scarpe e altri indumenti invernali di buona qualità. In totale sono stati raccolti circa 2.000 tra scatoloni e sacchi. Gli indumenti verranno distribuiti tra le strutture di accoglienza presenti sul territorio e le diverse associazioni che hanno partecipato alla giornata li utilizzeranno per gli utenti dei centri diurni, in strada, nelle mense, nelle docce e nei guardaroba. Le donazioni saranno inoltre indirizzate anche alle associazioni che lavorano nelle carceri di Milano e provincia. L’Amministrazione è impegnata a offrire accoglienza e assistenza anche attraverso il numero unico 0288447646, attivo 24 ore su 24 tutti i giorni, per segnalare le persone in difficoltà. “Anche quest’anno - dichiara l’assessore al Welfare e Salute Lamberto Bertolé - le cittadine e i cittadini hanno risposto con grande entusiasmo al nostro appello, dando un aiuto concreto a chi vive una condizione di difficoltà. La giornata è stata anche un’occasione per incontrare e conoscere le operatrici e gli operatori delle associazioni che, in collaborazione con il Comune, organizzano e portano avanti il Piano Freddo. Un ringraziamento particolare va a loro e a tutto il Terzo settore che condivide con noi la responsabilità di costruire risposte efficaci per contrastare la grave marginalità”. Napoli. Fondazione Entain, l’inclusione sociale gioca in attacco di Alessia Cruciani Corriere della Sera - L’Economia, 2 dicembre 2024 “Rigiocare il futuro” è il progetto da 400 mila euro che porterà due campi da padel e uno da calcio nel carcere di Secondigliano. Ci sono investimenti in infrastrutture che generano valore perché rendono migliore la vita di un’intera comunità. Sono investimenti che fanno passare un messaggio importante, e più è forte la voce di chi lo manda, più sarà efficace la reazione. Per questo pubblico e privato si sono uniti per sostenere il progetto “Rigiocare il futuro - lo sport per ripartire”, ideato da due onlus (Seconda Chance e Sport Senza Frontiere) e che vedrà la luce grazie al sostegno della Fondazione Entain. L’obiettivo è la realizzazione del più grande polo sportivo carcerario d’Italia, che sarà realizzato nel penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano. La Fondazione Entain è un’organizzazione no-profit istituita nel 2019 per coordinare e sostenere le attività di Csr del Gruppo Entain in tutto il mondo. E si è impegnata a donare Zoo milioni di sterline in cinque anni. La Fondazione è attiva in tre ambiti principali: a sostegno dello sport, come strumento di crescita e di inclusione; nei territori, per la realizzazione di progetti di forte impatto sia ambientale che sociale all’interno delle comunità in cui opera; per la promozione dell’innovazione, come nella natura di una realtà tecnologica, anche per lo sviluppo di soluzioni a tutela della salute mentale delle persone. In particolare, questa nuova cittadella sportiva nel carcere di Secondigliano svolgerà un ruolo decisivo per permettere ai detenuti di “giocarsi” un futuro diverso, all’insegna dell’educazione che lo sport assicura soprattutto come scuola di vita: qualsiasi sia la disciplina, il rispetto delle regole è fondamentale per vincere. Questo progetto è nato proprio grazie alla forza del partenariato: oltre alla Fondazione Entain, infatti, sostengono l’iniziativa Ita Airways, Aib (All Insurance Broker), Miri Spa e Tangenziale Napoli Spa. Nel carcere di Secondigliano sarà riqualificata un’area non agibile per la ristrutturazione di un campo di calcio e la realizzazione di due campi da padel (all’occorrenza, alzando la rete, si trasformeranno anche in campi da pallavolo). Terminati i lavori, sarà avviato un percorso formativo di 24 mesi che, grazie al supporto dell’Aia (Associazione italiana arbitri) potranno anche ottenere l’abilitazione a diventare “fischietti”. “Il progetto nel complesso vale 400 mila euro, abbiamo quasi raggiunto il budget completo ma abbiamo deciso di partire ugualmente con i lavori che inizieranno 1’8 gennaio 2o25”, ha spiegato Giuliano Guinci, direttore public affairs, sustainability & retail operations del Gruppo Entain in Italia. “Se vuoi portare dei messaggi, questi devono essere positivi. Soprattutto in una struttura dove c’è tanto dolore, per far capire tutti insieme che qualcosa di diverso può esserci - continua il manager. Così con il partenariato il messaggio è più forte, anche se nella realtà non è stato facile. Infatti, in questo progetto abbiamo deciso non solo di essere sostenitori economici ma di mettere a disposizione le nostre competenze, e il tempo per creare il partenariato: parlare con altri imprenditori, gestire la parte organizzativa, collaborare con il carcere. Lo abbiamo presentato alle istituzioni che poi l’hanno patrocinato”. Qual è stata la parte più difficile? “Spiegare alle altre aziende “perché?”. Devi trovare interlocutori disposti a capire non solo la finalità del progetto ma anche l’importanza di farlo insieme - conclude Guinci. Chi ha praticato sport sa che si perde, ma quando impari a gestire quella parte diventi ogni volta più forte. Per ogni “no” bisogna aprire almeno altri due fronti, e così stiamo facendo”. Il Papa: “La guerra un orrore, l’Avvento ci alleggerisca i cuori” di Mimmo Muolo Avvenire, 2 dicembre 2024 Guerra e pace, ancora una volta nei pensieri del Papa, ieri all’Angelus della prima domenica dell’Avvento che porterà all’inizio del Giubileo della speranza. Francesco ha espresso infatti la sua preoccupazione per l’inverno in Ucraina, dove non si ferma il conflitto, “orrore che offende Dio e l’umanità”; ha accolto come un segno buono il cessate il fuoco in Libano, auspicando che si estenda anche a Gaza, dove ha detto di avere a cuore la liberazione degli ostaggi israeliani ancora detenuti e la cura per la popolazione stremata dai combattimenti. E, riferendosi al periodo che precede il Natale, ha anche augurato che l’Avvento, tra mille difficoltà, possa alleggerire i cuori. Il Medio Oriente. “Mi rallegro per il cessate-il-fuoco che è stato raggiunto nei giorni scorsi in Libano - ha detto il Pontefice nel dopo Angelus - e auspico che esso possa essere rispettato da tutte le parti, permettendo così alla popolazione delle regioni interessate dal conflitto, sia libanese sia israeliana, di tornare presto e in sicurezza a casa, anche con l’aiuto prezioso dell’esercito libanese e delle forze di pace delle Nazioni Unite”. Perciò il Papa ha rivolto “un pressante invito a tutti i politici libanesi, affinché venga eletto subito il Presidente della Repubblica e le istituzioni ritrovino il loro normale funzionamento, per procedere alle necessarie riforme e assicurare al Paese il suo ruolo di esempio di convivenza pacifica tra le differenti religioni. È mia speranza - ha proseguito - che lo spiraglio di pace che si è aperto possa portare al cessate-il-fuoco su tutti gli altri fronti, soprattutto a Gaza. Ho molto a cuore la liberazione degli israeliani che ancora sono tenuti in ostaggio e l’accesso degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese stremata. E preghiamo per la Siria, dove purtroppo la guerra si è riaccesa causando molte vittime. Sono molto vicino alla Chiesa in Siria. Preghiamo”. L’Ucraina nella duplice morsa del freddo e della guerra. Preoccupazione e dolore sono stati poi espressi da Francesco “per il conflitto che continua a insanguinare la martoriata Ucraina. Assistiamo da quasi tre anni a una tremenda sequenza di morti, di feriti, di violenze, di distruzioni. I bambini, le donne, gli anziani, le persone deboli, ne sono le prime vittime. La guerra - ha denunciato ancora una volta il Pontefice - è un orrore, la guerra offende Dio e l’umanità, la guerra non risparmia nessuno, la guerra è sempre una sconfitta, una sconfitta per l’umanità intera! Pensiamo che l’inverno è alle porte, e rischia di esacerbare le condizioni di milioni di sfollati. Saranno mesi difficilissimi per loro. La concomitanza di guerra e freddo è tragica. Rivolgo ancora una volta il mio appello alla comunità internazionale e ad ogni uomo e donna di buona volontà, affinché si adoperino in ogni modo per fermare questa guerra e per far prevalere dialogo, fraternità, riconciliazione. Si moltiplichi, ad ogni livello, un rinnovato impegno. E mentre ci prepariamo al Natale, mentre attendiamo la nascita del Re della pace, si dia a queste popolazioni una speranza concreta. La ricerca della pace è una responsabilità non di pochi, ma di tutti. Se prevalgono l’assuefazione e l’indifferenza agli orrori della guerra, tutta, tutta la famiglia umana è sconfitta. Tutta la famiglia umana è sconfitta! Cari fratelli e sorelle, non stanchiamoci di pregare per quella popolazione così duramente provata e di implorare da Dio il dono della pace”. L’Avvento di speranza. Commentando quindi il Vangelo della domenica, in cui si racconta di sconvolgimenti cosmici e di angoscia, il Papa ha però rimarcato la “parola di speranza” che Gesù dice a tutti i suoi discepoli: “Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. “La preoccupazione del Maestro - ha chiosato papa Bergoglio - è che non si appesantiscano i loro cuori e che attendano con vigilanza la venuta del Figlio dell’uomo. Può succedere, infatti, “che le ansie, le paure e gli affanni per la nostra vita personale o per quanto accade anche oggi nel mondo, gravino come macigni su di noi e ci gettino nello scoraggiamento - ha notato il Pontefice -. Se le preoccupazioni appesantiscono il cuore e ci inducono a chiuderci in noi stessi, Gesù, al contrario, ci invita ad alzare il capo, a confidare nel suo amore che ci vuole salvare e che si fa vicino in ogni situazione della nostra esistenza, ci chiede di fare spazio a Lui per ritrovare la speranza. Questo tempo di Avvento - ha concluso Francesco - sia un’occasione preziosa per alzare lo sguardo verso di Lui, che alleggerisce il cuore e ci sostiene nel cammino”.?Il Papa ha infine ricordato il 40° anniversario del Trattato di Pace e di Amicizia tra Argentina e Cile. “Con la mediazione della Santa Sede - ha detto -, esso pose fine a una disputa territoriale che aveva portato l’Argentina e il Cile sull’orlo della guerra. Questo dimostra che, quando si rinuncia all’uso delle armi e si fa il dialogo, si fa un buon cammino”. Stato e burocrazia, il doppio errore da evitare di Sabino Cassese Corriere della Sera, 2 dicembre 2024 Due proposte di norme stanno andando avanti in Parlamento. Esse regolano il potere dello Stato nei confronti della galassia semipubblica e privata che lo circonda e l’opera della Corte dei conti. Entrambe le proposte sono giuste nelle finalità, ma sbagliate nei mezzi. Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sui conflitti interni alla maggioranza e all’opposizione, che cosa succede nelle stanze del potere? Due proposte di norme, che debbono essere ambedue approvate, per motivi diversi, entro la fine dell’anno, stanno andando avanti in Parlamento. Esse regolano il potere dello Stato nei confronti della galassia semipubblica e privata che lo circonda e l’opera della Corte dei conti. Entrambe le proposte sono giuste nelle finalità, ma sbagliate nei mezzi. La prima è contenuta nella legge di bilancio per il 2025 e prevede la presenza di un rappresentante del Ministero dell’economia e delle finanze nei collegi dei revisori e dei sindaci di società, enti, organismi e fondazioni che ricevono, anche in modo indiretto, e sotto qualsiasi forma, contributi significativi a carico dello Stato. Essa prevede altresì un contenimento della spesa e limiti ai compensi degli amministratori di organismi para-pubblici. È giusto controllare l’uso che soggetti terzi fanno delle risorse pubbliche; ma non si poteva fare diversamente? Una norma di questo tipo, sproporzionata ed intrusiva, finisce per cambiare i rapporti tra Stato ed economia, per essere un’invasione nell’autonomia di organismi privati, inapplicabile nei casi in cui vi sia un sindaco unico o una società esterna di revisione. Inoltre, crea una zona grigia tra responsabilità civilistica e responsabilità contabile, aggiunge altre funzioni alle molte che sono proprie del collegio sindacale, fa sorgere problemi per la Ragioneria generale dello Stato, costretta ad impegnare molte persone per svolgere questo compito. Ci si può chiedere se, piuttosto che istituire questa larga rete di rapporti, non si potrebbero imporre agli organismi finanziati obblighi di rendicontazione al Ministero dell’economia e delle finanze e al Parlamento. La seconda proposta, presentata dal capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati, che va approvata entro dicembre, quando scade l’attuale “scudo erariale” per i dipendenti pubblici, appresta una difesa per la sempre bistrattata burocrazia, prevedendo un tetto alle condanne irrogate dalla Corte dei conti, una esclusione della responsabilità per colpa grave per i fatti derivanti da atti sottoposti al controllo preventivo di legittimità, un limite alla responsabilità, un obbligo e un incentivo ad assicurarsi contro il rischio di danno erariale per i dipendenti pubblici. Inoltre, è disposto il risarcimento delle spese per chi viene assolto, ed ampliato l’ambito del controllo preventivo di legittimità sugli enti territoriali. Ma la proposta, anche se introdotta per una finalità giusta, consiste di rimedi e scappatoie, dilatando la funzione consultivo-preventiva per fare da scudo nei casi di colpa grave, ed escludendola per gli atti conformi a pareri della Corte dei conti; fa diventare la Corte stessa un consulente dell’amministrazione, un controllore a richiesta del controllato, come è già successo in passato, con la conseguenza di aumentare i controlli preventivi, che riescono a vedere le pagliuzze, ma non le travi, e di allungare i tempi delle procedure. La proposta ha suscitato reazioni ufficiali e ufficiose della Corte dei conti. Questa ha richiesto un “confronto” e un “percorso condiviso” con il governo, minacciando uno “stato di agitazione”. Ma la Corte è una parte dello Stato, non un sindacato. Purtroppo, la Corte dei conti intende il suo compito principalmente quale giudice della responsabilità erariale. Non si rende conto della sua scarsa efficacia sul lato risarcitorio: 14 mila giudizi negli ultimi 5 anni, ma solo il 10 per cento incassato, con l’effetto, però, di spaventare chi deve decidere e di rallentare tutta l’azione amministrativa (Andreotti diceva che, se la Corte dei conti gli chiedeva un risarcimento di un miliardo non si preoccupava, mentre temeva se gli chiedeva mille euro). Non è con la “funzione deterrente” della Corte dei conti e delle sue procure, che scimmiottano quelle penali, che si fa operare meglio la pubblica amministrazione, né con i controlli preventivi di legittimità, disposti dalla Costituzione esclusivamente per gli “atti del Governo”, non per tutti gli atti amministrativi (Massimo Severo Giannini, richiamando l’attenzione, nel 1979, sulla Commissione Hoover americana, che ha operato nel 1947-49 e poi nel 1953-55, scriveva che i controlli formali sono “poco più di una burla” e conviene abbandonarli), come pure i “controlli concomitanti”, che sono una forma di cogestione. Occorrerebbe, viceversa, sviluppare il compito principale della Corte, quello di occhio del Parlamento, mediante il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Un compito questo richiesto dalla Costituzione ed essenziale, al quale purtroppo la Corte è impreparata, perché, composta solo da fini giuristi e cultori del “combinato disposto”, attaccati al ruolo di magistrati. Con questa configurazione, la Corte non è in grado di fare analisi economiche e di valutare i risultati dell’azione amministrativa. Sarebbe ora — come ha osservato Ernesto Galli della Loggia nel magistrale articolo scritto su questo giornale il 28 novembre scorso — che la classe politica mutasse il suo modo di intendere la politica e il relativo dibattito pubblico e che l’opinione pubblica, invece di farsi distrarre dalle quotidiane battaglie di posizione all’interno dei partiti e tra i partiti, prestasse maggiore attenzione a ciò che avviene sotto traccia, negli strati profondi del potere, dove si decidono le sorti future dello Stato, e cioè di tutti noi. Scuola. Occupare a rischio della bocciatura: “Così il Governo reprime il dissenso” di Chiara Sgreccia Il Domani, 2 dicembre 2024 Anche quest’anno è iniziata la stagione delle occupazioni delle scuole. Per l’Associazione nazionale presidi: “Un atto deprecabile che va estirpato”, per gli allievi: “Un modo di riappropriarsi di uno spazio che è anche loro e di creare spazi di discussione”. Liceo Gullace, Pilo Albertelli, Enzo Rossi, Plinio Seniore, Cavour, Virgilio, Gian Battista Vico. Come ogni anno, sono iniziate le occupazioni delle scuole, romane e non solo: per ricordare che nonostante i tentativi di criminalizzare il dissenso dei giovani o di raffigurarli come una generazione in balia di violenza e disagio, da disciplinare, molti adolescenti non hanno perso la fiducia nel futuro. Né la voglia di immaginare una società migliore di quella che c’è. A unire le occupazioni degli istituti superiori, che sono cominciate con l’inizio di novembre, oltre alle reti studentesche, anche l’opposizione alle politiche del governo Meloni “che puntano a limitare la possibilità di manifestare il pensiero, come con il Ddl sicurezza e la riforma del voto in condotta”, spiega Tommaso, responsabile nazionale dell’organizzazione studentesca Osa (Opposizione studentesca d’alternativa): “E il supporto al popolo palestinese che si è evoluto nella richiesta di porre fine al genocidio a Gaza e di condanna nei confronti di Israele che viola il diritto internazionale”. Un altro modello di scuola - Come sottolinea Ernesto, ad esempio, studente che fa parte di Osa, del liceo Camillo Cavour, al centro di Roma, “la nostra occupazione è soprattutto politica. Parte di un percorso che stiamo costruendo per dimostrare la nostra contrarietà alle azioni del governo e al modello di scuola vigente: contro l’alternanza scuola-lavoro, la riforma del voto in condotta, un’istruzione che privilegia il merito invece del contrasto alle disuguaglianze. Contro la riforma degli istituti tecnici e professionali che formano studenti come manodopera per le aziende più che come menti critiche”. A pensare che costruire un’alternativa sia possibile. E a spiegare che le occupazioni delle scuole sono uno dei mezzi che servono per realizzarla, c’è anche Matteo, al quarto anno del liceo Gian Battista Vico di Napoli. Matteo è un nome di fantasia per tutelare l’identità del minorenne che teme ripercussioni sul percorso scolastico: “Abbiamo occupato il 26 novembre. Con il supporto di tutti gli studenti, la decisione è stata presa in assemblea. Il nostro obiettivo è quello di informare, politicizzare, sensibilizzare le persone su temi importanti, come le guerre che ci toccano da vicino. Temi che riguardano tutti, perché siamo sulla stessa barca: per questo organizziamo assemblee, conferenze e corsi a cui invitiamo anche gli studenti delle altre scuole”. La volontà di manifestare dissenso nei confronti delle politiche del governo che provano a reprimerlo e il desiderio di esprimere solidarietà alla popolazione della Striscia di Gaza, stremata dai bombardamenti, sono tra le ragioni che hanno spinto anche gli studenti del liceo Plinio Seniore di Roma a occupare l’istituto, dallo scorso 23 novembre fino al 28. Ma non sono le uniche motivazioni: “Abbiamo scritto un documento con le nostre istanze che vanno dalla richiesta di un’aula autogestita, al piano per ristrutturare l’edificio che cade a pezzi. Fino al ripristino della “settimana dello studente”, giorni di cogestione di alunni e professori che facevamo ogni anno. Che adesso, però, è stata soppressa”, chiarisce Emiliano che racconta come prima di occupare, gli studenti abbiamo cercato un dialogo con la dirigenza scolastica. Rischiare la bocciatura - “La nostra occupazione è stata molto partecipata perché abbiamo parlato di temi che toccano tutti come l’acqua che cade dal soffitto quando piove o le finestre vecchie da cui entra il freddo”. Emiliano spiega di essere tra gli studenti che la preside del liceo ha riconosciuto quando è iniziata l’occupazione. Teme il 5 in condotta e quindi la bocciatura, visto che la riforma voluta dal ministro dell’Istruzione e del merito Valditara è entrata in vigore. Ma non abbastanza dall’esimersi dal lottare per le sue idee. Come chiarisce, infatti, Paolo Notarnicola, coordinatore nazionale del sindacato studentesco Rete degli studenti medi, “non è ancora possibile prevedere gli esiti pratici della riforma del voto in condotta, se quest’anno la stagione delle occupazioni, ad esempio, sarà più leggera rispetto al passato, per la paura degli studenti di esporsi. Certo, il clima di repressione si sente. La scuola, soprattutto quella di Valditara, dà sempre meno spazio alla discussione, alla cittadinanza attiva, all’educazione alla democrazia. Così gli studenti cercano di riappropriarsi di uno luogo che è anche loro, di fare comunità e politica. Forse è proprio nel momento in cui le voci dei giovani vengono delegittimate che diventa necessario alzare il livello?”. Cosa dicono i presidi - Per Antonello Giannelli, presidente nazionale dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi, “non c’è alcun clima di tensione nei confronti dei giovani, è una visione ideologica. Mentre le occupazioni delle scuole sono atti illegali che negano il diritto allo studio e spesso causano danni gravi agli istituti. Un fenomeno deprecabile, praticamente solo italiano, che va estirpato”. Per Rosa Palmiero, invece, la dirigente del Liceo Pilo Albertelli di Roma, dove l’occupazione dell’istituto si è trasformata in una settimana di cogestione grazie a un accordo preside-studenti, serve il dialogo: “È fondamentale in ogni aspetto della vita. A scuola è condizione necessaria. Nel documento degli studenti prima dell’occupazione, insieme al mio staff abbiamo colto la sete di conoscenza, l’esigenza di comprendere le radici della realtà, il bisogno di rendere funzionale lo studio a quanto vivono tutti i giorni: la necessità di spazi attivi di partecipazione, che abbiamo reputato sacrosanta. Ecco perché abbiamo parlato con loro e siamo arrivati alla cogestione”. Palmiero racconta che la settimana organizzata dagli studenti è stata ricca di incontri interessanti, dal focus sulla vicenda di Stefano Cucchi, al dialogo con Andrea Segre, il regista del film “Berlinguer. La grande ambizione”: “È stata un’occasione per riflettere. Infatti, ora pensiamo, tra i corsi finanziati con i decreti ministeriali, come quelli Pnrr, di organizzarne alcuni co-progettati con i rappresentati degli studenti”. Migranti. Progetto Tirana-flop, piano B: da Cpr vuoto a carcere per detenuti albanesi di Alessandro Mantovani Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2024 Se il ricorso dell’esecutivo sarà bocciato, il centro potrebbe essere destinato a ospitare i detenuti di quella nazionalità. Per il momento tocca ancora ai giudici, il 4 dicembre c’è la Cassazione e a febbraio, con decisione prevista ad aprile, sarà la volta della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Saranno loro a decidere se il governo Meloni può stabilire un elenco rigido di Paesi sicuri, trattare le richieste d’asilo dei loro cittadini con la procedura accelerata (leggasi sommaria) e nel frattempo rinchiuderli nei centri di permanenza (leggasi detenzione) anche in Albania, per poi rimpatriarli (sempre che il Paese di destinazione sia d’accordo). Il governo ostenta fiducia, finché può non abbandonerà il progetto di portare i migranti oltre Adriatico a Shëngjin e Gjader, tanto più che in Europa non era stato accolto troppo male anche da forze distanti dall’italian far right. Può costare fino a un miliardo di euro, difficilmente inciderà davvero sui grandi numeri degli sbarchi, sia pure come cinica “deterrenza”, ma a quanto pare funziona benissimo sul piano della propaganda, almeno agli occhi dell’elettorato conservatore. Anche quando si trasforma in conflitto istituzionale con la magistratura che fin qui ha negato la convalida dei “trattenimenti” automatici dei migranti. Un nemico fa sempre comodo, il giudice “comunista” (cit. Salvini) come lo straniero. Ma nell’ipotesi che l’avventura coloniale dovesse finire male si discute già, nelle sedi del governo, di un piano alternativo, che permetterebbe di salvare almeno in parte i soldi investiti. L’idea sarebbe quella di portare in Albania gli albanesi, cioè i detenuti con passaporto di Tirana condannati in Italia. Andrebbero a scontare la pena al di là del mare, più vicino ai parenti, in un penitenziario costruito a Gjader sulle macerie del centro di permanenza. Sono tanti gli albanesi nelle celle italiane: al 31 ottobre erano ben 1.947, quasi il 10 per cento degli stranieri (oltre 19 mila: solo i marocchini, tunisini e romeni sono più numerosi) che sono poco meno di un terzo del totale (62 mila). Tra loro ce n’erano ben 1.382 condannati in via definitiva, quindi almeno potenzialmente interessati. Esiste dal 2002, del resto, un accordo italo-albanese che consente il trasferimento reciproco di detenuti da un Paese all’altro: Roberto Castelli, il ministro della Giustizia dei governo Berlusconi II e II (2001-2006), si vantava dei charter per Tirana. Sul trasferimento dei detenuti, del resto, c’è la Convenzione di Strasburgo del 1983 a cui l’Italia aderisce: ha permesso di portare nel carcere di Verona Chico Forti, condannato per omicidio in Florida e accolto come un capo di Stato da Giorgia Meloni all’aeroporto militare di Pratica di Mare. Ci sono poi accordi bilaterali con diversi Paesi, quelli con l’Albania sono stati rinnovati nel 2017 e arricchiti anche di recente. Dev’essere però il detenuto a chiedere il trasferimento, o almeno deve acconsentire. Non è facile perché le carceri italiane sono poco degne di un Paese civile, ma quelle albanesi ancora meno. Parliamo di poche decine di trasferimenti negli ultimi anni, in crescita grazie alla pressione del ministro della Giustizia Carlo Nordio sull’omologo albanese Ulsi Manja. Qui invece si lavora per costruire un meccanismo tendenzialmente automatico, almeno pro quota, ammesso che sia possibile. Ma è tutto di là da venire. Per il governo è stato già un brutto colpo vedere i 12, poi 8 stranieri portati in Albania e ritrasferiti subito in Italia dopo le mancate convalide. Per non dire di poliziotti, agenti penitenziari, medici e infermieri distaccati con le opportune diarie oltre Adriatico per fare poco o nulla, quindi costretti a rientrare dopo il secondo schiaffone dei giudici. La rinuncia definitiva al progetto di esternalizzare le frontiere sarebbe una sconfitta clamorosa per Meloni e i suoi. Una soluzione per non buttare tutto al vento dovranno trovarla. Nel frattempo, da ieri, in Albania è in corso una due giorni di mobilitazione in occasione del Network Against Migrant Detention. Dal dopoguerra al nuovo secolo: così si è formata la Corte Penale Internazionale di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 2 dicembre 2024 Il faticoso cammino delle Nazioni per istituire un tribunale universale che individui e giudichi i crimini di guerra contro l’umanità. L’idea di istituire un tribunale internazionale per perseguire i crimini di guerra e contro l’umanità e e di genocidio nasce all’indomani della Seconda guerra mondiale, dalle macerie di un conflitto devastante che ha svelato al pianeta gli orrori della Shoah. Questo spinse gli alleati vittoriosi a istituire due tribunali militari ad hoc, quello di Norimberga per giudicare i criminali tedeschi e quello di Tokyo per giudicare i criminali giapponesi: per la prima volta, i responsabili di un genocidio furono condannati per crimini contro l’umanità. Nel 1946, un congresso riunitosi a Parigi, chiese l’adozione di un codice internazionale che proibisse i crimini contro l’umanità e la rapida istituzione di un tribunale penale internazionale. Dopo l’adozione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948, le Nazioni Unite hanno affidato alla Commissione di diritto internazionale (ILC) la stesura di un progetto di statuto per una giurisdizione penale internazionale permanente. Per oltre mezzo secolo i progetti furono sepolti uno dopo l’altro per ragioni chiaramente politiche. La divisione in blocchi del mondo e la Guerra Fredda e la contrapposizione delle sovranità hanno impedito un accordo tra le potenze, così l’idea di una giurisdizione internazionale per i crimini più gravi è rimasta lettera morta. Tutto cambia alla fine degli anni 80; il crollo del socialismo reale dà un nuovo impulso alle nazioni rimuovendo i vecchi equilibri. Anche le organizzazioni non governative hanno partecipato attivamente al movimento come testimonia la creazione nel 1995 della Coalizione per la Corte penale (Cicc) che raggruppa centinaia di ong tra cui Amnesty International e Human right watch solo per citare le più conosciute. Nel 1989, in occasione di un’iniziativa di Trinidad e Tobago volta a creare un tribunale internazionale sul traffico di droga, alla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni unite è stato affidato il progetto di elaborare gli statuti di un tribunale competente per tutti i crimini internazionali. Subentrò un comitato ad hoc, che sfociò nel 1996 nel Comitato preparatorio, sulla base del quale nel 1998 sarebbe stata convocata la conferenza diplomatica a Roma. Parallelamente al lavoro svolto da comitati di esperti, in seguito alla commissione di crimini internazionali in diversi luoghi del mondo, l’Onu ha istituito diversi tribunali ad hoc negli anni ‘90 e 2000. Queste corti vedevano la loro giurisdizione limitata nel tempo (ratione temporis), nello spazio (ratione loci) e per alcuni eventi specifici (ratione materiae). Tra i più noti il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY): istituito nel 1993, competente nel giudicare i crimini commessi sul territorio dell’ex Repubblica Socialista di Jugoslavia dal 1° gennaio 1991. Oppure il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (ICTR): creato nel 1994 dalla risoluzione 955 del Consiglio di sicurezza e con sede ad Arusha, Tanzania, competente nel giudicare i crimini commessi sul territorio del Ruanda e sul territorio degli Stati confinanti “in caso di grave violazione del diritto internazionale umanitario commessa da cittadini ruandesi”. È stata proprio la creazione dei due tribunali per l’ex Yugoslavia e il Ruanda che ha riportato all’ordine del giorno il progetto di fondare una giurisdizione penale universale. Nel 1993, la Commissione di diritto internazionale ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite un progetto di statuto per la Corte penale internazionale su cui aveva iniziato a lavorare nel lontanissimo 1948, ed è proprio su quella “bozza” che si sono poi svolti negoziati intergovernativi. Il 17 luglio 1998, 120 Stati hanno adottato a Roma lo Statuto che istituisce la Corte Penale Internazionale (CCI). Per la prima volta nella storia dell’umanità, gli Stati hanno deciso accettare la giurisdizione di un tribunale penale internazionale permanente, incaricato di perseguire i reati più gravi commessi sul loro territorio o da loro cittadini, dall’entrata in vigore dello Statuto di Roma il 1° luglio 2002. Sebbene creata sotto la guida delle Nazioni Unite, la Cpi è indipendente dal Consiglio di sicurezza, il che in teoria ne garantisce l’indipendenza rafforzandone la credibilità. La Corte può giudicare solo atti commessi dopo tale data, in virtù del principio di irretroattività della legge penale. Questo ovviamente limita la sua forza. Ma ci sono diversi punti molto significativi nel suo statuto, come l’imprescrittibilità dei reati presi di mira e l’assenza di immunità per i capi di Stato e i leader politici (in carica e in pensione). Un altro grandissimo passo avanti è l’impossibilità di pronunciare la pena di morte, con l’ergastolo che rappresenta la sanzione più grave che possa essere comminata in alternativa. Tuttavia l’adesione alla Cpi non fa ancora l’unanimità e ben tre membri su cinque del Consiglio di sicurezza dell’Onu non hanno mai ratificato il suo statuto; stiamo parlando di potenze planetarie come Stati Uniti, Russia e Cina. A queste si aggiungono nazioni attualmente impegnate in conflitti armati come Israele e l’Ucraina (che però ha annunciato l’imminente adesione) e decine di Paesi più o meno democratici come il Sudan, l’Iran, l’India, l’ Indonesia, il Pakistan o la Turchia. Può la Corte perseguire i leader di Stati non membri? di Eva Sampson e Marlise Simons Il Dubbio, 2 dicembre 2024 La giurisdizione del Tribunale dell’Aja può occuparsi anche di chi non ha aderito allo statuto di Roma. Anche Russia Cina e Stati Uniti non la riconoscono. I mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale nei confronti dei leader di Israele e di Hamas, per i crimini che li accusa di aver commesso a Gaza, offrono importanti spunti sia sulla portata della giurisdizione della corte sia sui limiti del suo potere. Ecco cosa sapere sulla portata legale della corte, che chiede l’arresto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, del suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, e del capo dell’ala militare di Hamas, che potrebbe essere ancora vivo o morto. Perché il tribunale rivendica la giurisdizione sul caso? Oltre 120 paesi hanno aderito a un trattato internazionale, lo Statuto di Roma, e sono membri della corte. La corte, con sede all’Aia, nei Paesi Bassi, è stata creata più di due decenni fa per perseguire i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, il genocidio e il crimine di aggressione. La corte ha accusato il signor Netanyahu e il signor Gallant di aver usato la fame come arma di guerra, tra le altre accuse, nel conflitto con Hamas a Gaza. E ha accusato Muhammad Deif, uno dei principali ideatori dell’attacco del 7 ottobre 2023 in Israele, di crimini contro l’umanità, tra cui omicidio, tortura, violenza sessuale e presa di ostaggi. I paesi potenti, tra cui Russia, Stati Uniti e Cina, non riconoscono l’autorità della corte. Non hanno ratificato lo Statuto di Roma, non onorano i mandati internazionali emessi dalla corte e non consegnerebbero i propri cittadini per essere perseguiti. Né Israele né Gaza sono membri della corte. Ma mentre molte nazioni non riconoscono uno Stato di Palestina, la corte lo ha fatto dal 2015, quando i leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, che controlla gran parte della Cisgiordania, hanno firmato. Sebbene Gaza sia controllata da Hamas dal 2007 e il gruppo militante non riconosca la sua sottomissione a uno Stato palestinese, la corte ha stabilito che ha giurisdizione sui territori palestinesi di Gaza, della Cisgiordania occupata e di Gerusalemme Est. “Vorrei sostenere che ciò rende le azioni di Hamas ancora più suscettibili alla giurisdizione della CPI perché Hamas ha dimostrato il suo ruolo di autorità di governo di quella parte dello Stato di Palestina e, quindi, con tale autorità derivano responsabilità, anche per la commissione di crimini atroci”, ha affermato David Scheffer, ex ambasciatore statunitense e capo negoziatore dello statuto che ha istituito la corte. Fondamentale per il potere della corte, la sua giurisdizione può estendersi oltre gli stati membri. Lo Statuto di Roma autorizza il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, agendo ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, a deferire i crimini di atrocità commessi in qualsiasi paese, membro della corte internazionale o meno, all’organismo legale per le indagini. Il Consiglio di sicurezza ha deferito alla corte il Sudan nel 2005 per la situazione umanitaria nel Darfur e la Libia nel 2011, sebbene nessuno dei due paesi faccia parte della corte. Gli esperti hanno affermato che, date le attuali tensioni tra i cinque membri permanenti del Consiglio (Gran Bretagna, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti), è improbabile che il Consiglio deferisca all’unanimità un individuo alla corte per essere perseguito penalmente nel prossimo futuro. “Dato il carattere disfunzionale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite negli ultimi anni, è improbabile che una proposta di deferimento di una particolare situazione nel mondo possa sopravvivere a un veto”, ha affermato il signor Scheffer. La Corte ha cercato di perseguire penalmente i leader di Paesi non membri? Sì. La Russia non è un membro della corte, ma nel 2023 ha emesso un mandato di arresto per il presidente russo, Vladimir V. Putin, per l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte di Mosca, che non è ancora un membro ma ha concesso la giurisdizione della corte e l’ha invitata a indagare. L’Ucraina è sulla buona strada per diventare un membro della corte nel 2025. La corte ha inoltre emesso mandati di arresto per Omar Hassan al-Bashir, ex presidente del Sudan, e per il colonnello Muammar el-Qaddafi, ex leader della Libia. Nessuno dei due paesi è membro della corte. Nel 2017, il procuratore della corte ha iniziato a indagare sulle accuse di crimini di guerra in Afghanistan, compresi quelli che potrebbero essere stati commessi da americani. In risposta, Washington ha imposto sanzioni e revocato il visto a Fatou Bensouda, all’epoca procuratore capo della corte. In seguito, la corte ha abbandonato le indagini. Il Tribunale può eseguire i mandati di arresto? Anche se in teoria la portata della corte può essere virtualmente universale, il suo potere è in ultima analisi nelle mani dei suoi membri. La corte non può processare in contumacia gli accusati di reati e non ha alcun meccanismo per far processare gli imputati. Si affida agli stati membri affinché agiscano come esecutori e trattengano i sospettati prima che possano essere processati all’Aja. Tuttavia, non tutti gli stati membri rispettano l’accordo. Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha dichiarato venerdì di aver invitato il signor Netanyahu a visitare il suo paese, che è membro della corte, e che avrebbe ignorato il suo obbligo formale di agire in base al mandato di arresto della corte. A settembre, il signor Putin ha visitato la Mongolia, un altro membro, senza essere arrestato. Il signor al-Bashir ha visitato il Sudafrica, che è anche membro, per partecipare al summit dell’Unione Africana del 2015. Ma se n’è andato in fretta per sfuggire agli ordini imminenti di un tribunale locale. Per quanto riguarda il signor Deif, non è chiaro se sia vivo o morto. Israele ha annunciato ad agosto di averlo ucciso in un attacco aereo nella parte meridionale di Gaza, che ha ucciso decine di palestinesi, sebbene Hamas non abbia ancora confermato la sua morte. *New York Times Il processo contro Miloševic, pietra miliare nella giustizia globalizzata di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 dicembre 2024 Cominciato nel febbraio 2002 e mai concluso a causa della morte del protagonista, si svolse nel Tribunale Penale Internazionale, antenato dell’odierna Cpi. In principio fu il Tribunale Penale Internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (Tpi). Antenato dell’attuale Corte Penale Internazionale (Cpi) e tribunale ad hoc istituito il 25 maggio 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, fu infatti qui che il 12 febbraio 2002 si aprì il processo contro Slobodan Miloševic, presidente della Serbia dal 1989 al 1997, presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia dal 1997 al 2000 e tra i protagonisti politici delle guerre nella ex-Jugoslavia. Prima corte per crimini di guerra costituita in Europa dalla seconda guerra mondiale, il Tpi fu chiamato a giudicare gli eventi avvenuti in 4 differenti conflitti: in Croazia (1991-95), in Bosnia- Erzegovina (1992-95), in Kosovo (1998-99) e in Macedonia (2001). A Miloševic furono contestati 32 capi d’accusa, tra i quali genocidio e crimini contro l’umanità. Dopo la fine della guerra in ex-Jugoslavia, isolato a livello internazionale e interno (il Montenegro non riconosceva più le istituzioni federali), Miloševic si ricandidò alle elezioni del 24 settembre 2000, grazie ad una riforma costituzionale. Venne sconfitto da Vojislav Koštunica, un nazionalista moderato, a capo di tutta l’opposizione, e il 5 ottobre fu costretto, dopo una grande manifestazione con l’occupazione del parlamento, a riconoscere la sconfitta. Il primo ministro serbo Zoran Dincic decise di consegnarlo al Tip il 28 giugno 2001, nonostante la contrarietà di Koštunica e di parte dell’opinione pubblica serba. Miloševic non riconobbe la validità legale del tribunale, facendo appello alle leggi del diritto internazionale e il suo trasferimento aprì una crisi politica nel paese portando alle dimissioni di Dincic ed evidenziando contrasti e malumori all’interno dell’alleanza politica che sosteneva Koštunica. Tra il 2 febbraio 2002, giorno dell’apertura del processo, e l’11 marzo 2006, quando Miloševic fu trovato morto nella sua cella mentre era ancora in attesa di giudizio, successe di tutto. Secondo alcuni con il tentativo di difendersi politicamente non riconoscendo la legittimità del Tribunale, Miloševic volle rievocare il proprio ruolo di pluriennale interlocutore dell’Occidente e impedire che i giudici lo considerassero soltanto un criminale. La “Norimberga balcanica”, come fu soprannominato il processo, non avrebbe dovuto limitarsi alla ricostruzione poliziesca dei delitti, ma affrontare la genesi dei delitti stessi. Per punire il massimo responsabile dei massacri, ma anche per rivederli nel contesto politico, individuando complicità e responsabilità nella ex Jugoslavia e internazionali. Inoltre, poiché il Tpi è stato istituito con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n°827 del 1993, è stato sostenuto da parte di alcuni studiosi che la presa in carico da parte dello stesso tribunale di casi risalenti al periodo 1991-93 potesse violare il principio di nullum crimen sine lege, in quanto la Corte si sarebbe trovata a giudicare casi commessi prima della sua stessa istituzione. Tuttavia, lo statuto del Tpi prevede che il tribunale applichi il diritto umanitario internazionale che è parte del diritto consuetudinario, in modo da evitare il problema dell’aderenza di alcuni ma non di tutti gli Stati a convenzioni specifiche. In ogni caso, inevitabilmente gran parte delle attenzioni nel processo si concentrarono sul ruolo e la figura di Miloševic. Miloševic fu accusato di aver svolto un ruolo chiave nel fomentare i conflitti etnici e nel dare ordine alle atrocità commesse durante i conflitti in Bosnia, Croazia e Kosovo e le accuse a suo carico comprendevano la pianificazione, la supervisione e l’esecuzione di crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante le guerre nei Balcani. In particolare, si riferivano alle violenze etniche e alle persecuzioni contro gruppi musulmani, croati e albanesi. Tra i crimini specifici citati ci furono il massacro di Srebrenica (dove circa 8mila musulmani bosniaci furono uccisi), la pulizia etnica durante il conflitto croato (1991-1995), e l’intensificarsi delle violenze contro la popolazione albanese durante la guerra del Kosovo (1998-1999). Il processo vide l’uso di numerose testimonianze e prove documentali, tra cui le testimonianze di vittime, esperti e ex ufficiali militari, oltre a registrazioni audio e video che documentavano gli ordini e le azioni di Miloševic. Un aspetto distintivo del processo fu l’autodifesa dell’imputato, che almeno inizialmente non si avvalse di un avvocato adottando una linea difensiva di auto-assoluzione per non aver avuto un ruolo diretto nelle atrocità commesse durante le guerre e sostenendo di essere vittima di una campagna internazionale. Il processo non si è mai concluso con una sentenza definitiva perché l’11 marzo 2006, Miloševic fu trovato morto in carcere, ufficialmente per un attacco di cuore anche se poco prima della morte lo stesso presidente serbo aveva espresso timori che lo si stesse avvelenando. Per alcuni, la sua morte ha rappresentato una perdita di giustizia, poiché non è stata emessa una sentenza definitiva. Per altri, essa ha invece impedito che venisse dichiarato formalmente colpevole, rappresentando una sorta di “vittoria” per chi lo vedeva come un simbolo della resistenza contro l’Occidente. In ogni caso, nonostante la morte il Tribunale pubblicò comunque un “riassunto” delle prove contro Miloševic, affermando che era colpevole di aver orchestrato e coordinato le politiche genocidarie e i crimini di guerra e in ogni caso il processo contro ha avuto un’importanza storica sotto diversi punti di vista. È stato infatti il primo processo contro un capo di stato accusato di crimini internazionali di tale gravità, rappresentando un tentativo di portare giustizia alle vittime dei conflitti balcanici e contribuendo alla creazione di una giurisprudenza sui crimini di guerra e il genocidio. Tuttavia, ha anche dimostrato le difficoltà e i limiti dei tribunali internazionali, sia in termini di durata e costi, sia in termini di accesso a prove e testimonianze cruciali. Il processo ha anche avuto un impatto significativo sulla politica serba e sul processo di riconciliazione nei Balcani, con molte persone che ancora oggi sono divise sul giudizio da dare alla figura di Miloševic, considerato da alcuni un martire e da altri un criminale di guerra. Quel che è certo è che il processo contro l’ex presidente serbo ha rappresentato una pietra miliare nel diritto internazionale e nella giustizia penale internazionale, anche se, come detto, la morte del principale protagonista prima della conclusione ha impedito di ottenere una condanna formale. Ecco perché la Cpi non si fida del sistema giudiziario israeliano di Dalia Scheindlin* Il Dubbio, 2 dicembre 2024 La Corte dell’Aja è convinta che la realtà politica attuale non consenta una seria auto-indagine da parte di Tel Aviv. La giustizia internazionale si basa sull’idea che se un paese può indagare sui propri crimini, non c’è bisogno che intervengano i tribunali internazionali. Ma in questo momento, è difficile affidarsi alla difesa secondo cui Israele è una democrazia occidentale con un sistema legale pienamente funzionante. Tra le tante ragioni per cui Israele e i suoi sostenitori sono furiosi con la Corte penale internazionale dell’Aia per aver emesso mandati di arresto per il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant, ce n’è una in particolare che spicca: per la prima volta la CPI sta cercando di arrestare i leader di una ‘democrazia occidentalè. Questo tema viene ripetuto costantemente nei media israeliani. Jake Wallis Simons, direttore del settimanale conservatore britannico Jewish Chronicle, ha scritto che la corte stava prendendo provvedimenti ‘contro una democrazia con un proprio sistema legale pienamente funzionantè. Nel frattempo, un editoriale del Washington Post ha criticato la CPI per “aver messo i leader eletti di un paese democratico con una propria magistratura indipendente nella stessa categoria di dittatori e autoritari che uccidono impunemente”. Anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha voluto offrire un sottinteso implicito quando ha respinto con decisione il paragone tra Israele e Hamas: uno stato democratico solido è incapace di commettere crimini come quelli di Hamas. La maggior parte degli israeliani è convinta che la CPI abbia dimostrato la sua ipocrisia. Per riflesso, vedono Israele come un membro legittimo del club delle democrazie occidentali. Tuttavia, questa appartenenza sta diventando una questione di status piuttosto che di sostanza. Il ‘sistema legale pienamente funzionantè di Israele finora non ha convinto la CPI che Israele indagherà sui suoi presunti crimini. Improbabile indagine a casa - La giustizia internazionale si basa sull’idea che se un paese può indagare sui propri crimini, non c’è bisogno che intervengano le corti internazionali. Questo principio si chiama complementarità. La Cpi non ha affrontato questo punto specifico nel suo annuncio dei mandati la scorsa settimana, ma chiaramente non crede che Israele indagherà adeguatamente su se stesso. Da dove mai potrebbe venire un’idea del genere? L’elenco delle ragioni è lungo.Il prof. Yuval Shany, ex preside della facoltà di giurisprudenza dell’Università Ebraica e studioso di diritto internazionale, ha spiegato in un’intervista che tre possibili meccanismi avrebbero costituito i mezzi classici a disposizione di un paese per esaminare in modo credibile le accuse di crimini di guerra: attraverso una commissione d’inchiesta statale guidata da un giudice della Corte Suprema; una commissione d’inchiesta governativa (meno indipendente della prima opzione, ma comunque un approccio potenzialmente legittimo, secondo lui); oppure un’indagine di polizia, con il coinvolgimento del pubblico ministero. Israele non ha fatto nulla di tutto questo. (....) Data la paralisi di una commissione d’inchiesta, su cosa altro si basa la CPI per valutare la complementarietà? Altri sviluppi legali in Israele che avrebbero potuto comunicare l’intenzione di Israele di indagare seriamente, scoraggiare e punire le violazioni delle leggi di guerra e del diritto internazionale non sono promettenti. Tre giorni prima dell’annuncio dei mandati della CPI, Haaretz ha rivelato che Baharav-Miara (Procuratore generale di Israele ndr) ha deciso di non indagare sui leader israeliani per sospetto di incitamento a crimini di guerra. Attualmente sta subendo una pressione tremenda da parte del governo, che l’ha demonizzata come un agente sovversivo che cerca di rovesciare il governo di Netanyahu e spera di licenziarla. È difficile immaginare che questo non giochi un ruolo nel suo processo decisionale. Le prospettive per Israele di autoregolamentare la propria condotta nella guerra tramite la Corte Suprema non sembrano molto migliori. A marzo, un certo numero di organizzazioni israeliane per i diritti umani, guidate da Gisha (una ONG focalizzata su Gaza), hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia per obbligare lo Stato a fornire adeguati aiuti umanitari a Gaza. Secondo un importante studio pubblicato quest’anno dall’organizzazione che esamina tre escalation di Gaza (due guerre nel 2014 e nel 2021 e le dimostrazioni della Marcia del Ritorno nel 2018), l’82 percento delle 664 indagini preliminari su possibili violazioni del diritto internazionale sono state chiuse a livello di un meccanismo iniziale di accertamento dei fatti all’interno dello Stato maggiore. Di quelle che sono state sottoposte a un’indagine penale, solo una ha portato a un’incriminazione. Dopo che le accuse sono state ridotte la sentenza è stata ‘una barzelletta’. Ma cosa ancora più importante, in quanto organismo militare, il MAG (Military Advocate General) non indaga affatto sui decisori politici, la vera fonte della politica militare. Stahl si aspetta quindi che le incriminazioni MAG affrontino casi eclatanti ma di livello inferiore, come l’accusa ai soldati che hanno saccheggiato le case dei cittadini di Gaza. Se incrimina i soldati per casi più gravi, come l’abuso dei prigionieri, ha previsto che sarà per casi in cui un soldato ha chiaramente violato gli ordini, quando ‘sono gli ordini il problema, la politica: coloro che hanno deciso che è legittimo la fame e accettare danni collaterali, o che hanno determinato le banche bersaglio’, ha detto Stahl. Di conseguenza, martedì Haaretz ha riferito che sono state presentate 15 incriminazioni contro i soldati impegnati nell’attuale guerra, per lo più per reati minori. In definitiva, la CPI non sta in realtà ignorando il fatto che Israele ha una magistratura indipendente (che ha ancora, per ora). Piuttosto, ha riconosciuto la realtà politica, l’ambiente sociale normativo e l’assenza materiale di una seria auto-indagine. Ma questi meccanismi, che siano tramite il procuratore generale, la Corte Suprema o il MAG, sono solo attori di supporto nella considerazione della complementarietà da parte della CPI. *Haaretz “Mentre il mondo stava a guardare”. A trent’anni dalla mattanza del Ruanda di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 dicembre 2024 Il genocidio del 1994 fu riconosciuto e giudicato per la prima volta come crimine internazionale. I ricordi della magistrata Silvana Arbia, procuratrice del Tpir. Trent’anni fa, correva l’anno 1994, il genocidio consumatosi in Ruanda fu per la prima volta riconosciuto e giudicato come crimine internazionale. Non si è trattato, come ha più volte evidenziato Silvana Arbia, Prosecutor del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR), di una “calamità naturale, ma di una tragedia annunciata”. L’esperienza della magistrata, una delle giuriste del nostro Paese più apprezzate all’estero, è contenuta nel libro intitolato “Mentre il mondo stava a guardare” (Mondadori, Strade Blu). La scelta di impegnarsi nel perseguire i responsabili del genocidio ruandese è stata per Arbia dettata dal desiderio di giustizia. Trent’anni fa un milione di persone, in maggioranza Tutsi di ogni età ed estrazione sociale, vennero massacrate a colpi di machete dagli Hutu, allora al potere. Nella primavera del 1994 il Ruanda è affogato nel sangue dei propri cittadini con la comunità internazionale impotente: spettatrice di crimini inenarrabili. Per quasi nove anni, fino al 2008, Silvana Arbia ha lavorato come Prosecutor e poi Chief of Prosecutions presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda. La magistrata di origini lucane è stata anche Registrar (capo della Cancelleria) della Corte penale internazionale. Nel suo libro si condensano ricordi personali e professionali, legati ad alcune delle pagine più tristi della storia contemporanea; viene messo altresì in evidenza il cammino che la giustizia internazionale ha intrapreso per combattere i crimini contro l’umanità. Un percorso faticoso ma che ha portato significativi risultati La mattanza nel Paese africano ebbe inizio in una calda giornata primaverile. “Il ricordo d’obbligo sul piano umano e su quello professionale - racconta Silvana Arbia - è l’evento occorso nella sera del 6 aprile 1994, quando l’aereo che trasportava Juvénal Habyarimana, presidente del Ruanda, e Cyprien Ntaryamira, presidente del Burundi, fu abbattuto sopra Kigali, con l’avvio dell’esecuzione del piano genocidario che si opponeva a soluzioni di spartizione del potere prospettate negli Accordi di Arusha per porre fine al conflitto armato tra il Fronte Patriottico Ruandese e il governo ruandese. Il 6 aprile 1994 è una data che, da un lato, mi unisce umanamente al popolo ruandese, che la ricorda ogni anno onorando le vittime e rafforzando l’impegno per un futuro di riconciliazione e di pace, da un altro lato, mi ricorda le tantissime volte che a quella data si è fatto riferimento nello svolgimento delle indagini, nelle aule del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, nelle testimonianze e negli atti processuali”. Il 6 aprile 1994 ha segnato, dunque, una data spartiacque nella storia dell’umanità, ma anche per il diritto. “È l’inizio - commenta Arbia - dei cento giorni più atroci della storia moderna per i massacri di civili Tutsi e Hutu moderati. Secondo dati ufficiali, tra 800.000 e 1 milione di vittime, tasso quattro volte maggiore rispetto al culmine dell’Olocausto nazista, tenuto conto dell’entità della popolazione Tutsi presente all’epoca in Ruanda. E tutti i momenti vissuti tra il Ruanda e la Tanzania, al servizio della giustizia penale internazionale per quasi nove anni, sono per me, memoria preziosa che compensa gli enormi sforzi spesi, in solitudine, senza alcun sostegno e o riconoscimento del mio Paese, sostenuta da una forte determinazione di non lasciare impunito alcuno dei responsabili di quell’orrore. Memoria in cui gli aspetti umani e quelli professionali si sono sempre intrecciati. Cercare prove, vagliarne l’attendibilità, riuscendo a controllare l’esplosione naturale dello sdegno e della compassione, con il rigore delle procedure e l’esigenza di salvaguardare la migliore qualità della prova, unico e indispensabile mezzo per sostenere le accuse. Ma anche guidare investigatori e sostituti procuratori di diverse nazionalità e di diverse culture giuridiche con rispetto e con fermezza in vista dei risultati finali, formulare accuse, interpretando per la prima volta con entusiasmo per la novità, temperato dall’umiltà del giurista serio Convenzioni internazionali e lo scarno articolato dello Statuto istitutivo del Tpir, esaltarsi per il ruolo prestigioso che, tuttavia, costringeva a vivere in condizioni durissime, con pesanti limitazioni per ragioni di sicurezza, sono state le sfide quotidiane per affrontare le quali necessariamente si interagisce con altre persone”. Medio Oriente. L’arma della fame che fa morire Gaza di Francesca Mannocchi La Stampa, 2 dicembre 2024 Tra saccheggi, bande armate e i limiti imposti da Israele la Unrwa sospende la consegna di aiuti attraverso il valico chiave di Kerem Shalom, mentre i palestinesi muoiono di stenti sotto le bombe. Ieri il commissario generale dell’Unrwa, Philippe Lazzarini, ha annunciato la sospensione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza dal valico di Kerem Shalom, cioè il principale punto da cui i beni di prima necessità entrano a Gaza. È l’unico valico tra Israele e Gaza progettato per le spedizioni di merci ed è stata l’arteria principale per le consegne di aiuti da quando, a maggio, il valico di Rafah con l’Egitto è stato chiuso. La decisione, ha scritto, è stata presa per una somma di ostacoli: l’assedio su Gaza Nord, i limiti imposti dalle autorità israeliane, uniti alle decisioni del governo di limitare gli aiuti, l’attacco di Israele alla forza di polizia gestita da Hamas, che in precedenza aveva fornito sicurezza pubblica, e la conseguente mancanza di sicurezza sulla rotta che i camion dovrebbero seguire. Dieci giorni fa cento tir sono stati attaccati da bande armate, e lo stesso è accaduto anche l’altro ieri con un carico più piccolo. Sottolinea Lazzarini che “la responsabilità della protezione degli operatori umanitari e delle forniture è dello Stato di Israele in quanto potenza occupante” ma questa protezione non c’era e non c’è, mentre la fame a Gaza avanza. Israele non commenta la decisione dell’Agenzia, ripete di consentire l’accesso dei beni - nonostante tutte le agenzie e le organizzazioni umanitarie internazionali abbiano da mesi lanciato un allarme carestia nella parte settentrionale della Striscia, ormai di fatto assediata e isolata dall’inizio di ottobre. La sospensione degli aiuti avviene a pochi giorni dall’analoga decisione dell’organizzazione umanitaria statunitense World Central Kitchen di interrompere le attività dopo che il 30 novembre un attacco aereo israeliano ha ucciso tre membri del suo staff. Era già successo ad aprile quando sette lavoratori di Wck erano stati uccisi in un altro attacco aereo. Allora, dopo l’ondata di indignazione suscitata dal bombardamento su un veicolo contrassegnato come umanitario, l’esercito israeliano aveva definito l’accaduto un “grave errore”. Stavolta Israele sostiene che una delle vittime avesse preso parte all’attacco del 7 ottobre, affermazione, ancora una volta, non sostenuta da prove. Dal canto suo l’organizzazione, per voce della portavoce Roth, precisa che “tutti i contractor di World Central Kitchen sono stati interrogati in base all’elenco Ofac del governo degli Stati Uniti”, cioè l’elenco di persone, istituzioni e Paesi considerati minacce alla sicurezza nazionale. I lavoratori di Wold Central Kitchen a Gaza erano dunque tutte persone affidabili per il governo statunitense. Eppure sono stati uccisi mentre distribuivano gli aiuti alla popolazione affamata. Le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie denunciano da mesi le impossibili condizioni in cui si trovano a operare a Gaza. A complicare le cose anche la decisione da parte di Israele di non rilasciare visti alle ong. Lo ha svelato Haaretz a settembre, riportando il contenuto di una riunione riservata della Knesset. La motivazione ufficiale sarebbe la carenza di mezzi per supervisionare le domande di ingresso, ma le organizzazioni ritengono che la decisione sia l’ennesimo tassello di un piano per impedire agli umanitari di lavorare a sostengo della popolazione palestinese. Già a febbraio la Population and Immigration Authority israeliana aveva rifiutato di rilasciare visti di lavoro alle organizzazioni che operano sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, citando una riorganizzazione in corso della procedura di rilascio dei visti. Decine di persone, per lo più provenienti da Paesi occidentali, sono state costrette a lasciare il lavoro o non sono state in grado di tornare in Israele. E poi, alla fine di ottobre, è seguita la decisione della Knesset di mettere al bando l’Unrwa entro novanta giorni, con conseguenze catastrofiche per la popolazione palestinese, che dipende in ogni aspetto della vita quotidiana dall’Agenzia ONU. Mentre Gaza Nord è di fatto assediata, e a Gaza Sud mancano cibo e assistenza medica, si pone l’ampio tema di chi gestirà la Striscia se e quando cesseranno i combattimenti. Netanyahu promette che l’esercito rimarrà a Gaza “per tutto il tempo necessario” senza specificare i criteri che chiarirebbero la tempistica, soprattutto considerando le pressioni dei coloni che aspirano a reinsediare Gaza, e che hanno visitato la Striscia dieci giorni fa, scortati dall’esercito. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite il caos è aumentato a Gaza da quando la Cogat israeliana ha iniziato a prendere di mira gli ufficiali di polizia che sorvegliavano i convogli di aiuti, questo perché Israele considera la polizia di Gaza, gestita da Hamas dal 2007, parte integrante dell’organizzazione. I testimoni e i funzionari delle organizzazioni umanitarie, hanno dichiarato che i saccheggi ai convogli di novembre sono stati opera di bande criminali e non di civili. L’episodio più grave quello avvenuto il 17 novembre, quando sono stati depredati decine di camion di farina. Centinaia di uomini armati hanno assaltato i convogli, sparando in aria o in direzione dei camion, picchiando gli autisti e costringendoli a guidare verso basi attrezzate di carrelli con cui hanno scaricato il cibo. La natura del saccheggio ha segnato un cambiamento nella condotta criminale delle bande, che negli ultimi mesi hanno lucrato sugli aiuti umanitari facendo salire alle stelle il prezzo dei beni primari. Solo il carico di novembre conteneva 400 sacchi di farina, che oggi valgono cento dollari l’uno a Gaza. Un funzionario delle Nazioni Unite - che parla in forma anonima perché si coordinana con la Cogat (l’agenzia militare israeliana che si occupa degli aiuti umanitari a Gaza) - ha detto a La Stampa da Dair el Balah, che circa un terzo degli aiuti che entrano nella Striscia vengono saccheggiati e spesso sotto gli occhi dell’esercito israeliano, dato confermato da un altro funzionario delle Nazioni Unite che ha detto al Guardian che “la maggior parte dei saccheggi si è verificata in una zona controllata dall’esercito israeliano”, e che i saccheggiatori armati “erano a distanza di sputo dai loro carri armati”. Dieci giorni fa Netanyahu e il nuovo ministro della Difesa, Israel Katz, hanno visitato il corridoio Netzarim che divide a metà la Striscia di Gaza ed è sotto controllo israeliano e promesso cinque milioni di dollari per ogni ostaggio liberato. “Hamas non governerà più Gaza” ha detto Netanyahu, che però non ha spiegato chi gestirebbe il controllo della Striscia in caso di cessate il fuoco. Un funzionario israeliano che si occupa della questione degli aiuti ha detto ad Haaretz che in assenza di un programma da parte del governo, non è possibile pianificare “né a breve né a lungo termine le sorti di Gaza. Se Israele intende rimanere lì per molto tempo, dovrà stabilire meccanismi ordinati, formare squadre, assegnare personale militare e soprattutto stanziare budget adeguati in modo da poter soddisfare le esigenze della popolazione”. Eppure, nessuno di questi aspetti è stato affrontato, mentre nel caos generale, il cibo continua a non entrare e le persone a morire di stenti o sotto le bombe.