Del coraggio e della speranza in carcere di Massimo Stefano Russo girodivite.it, 29 dicembre 2024 La scelta del Papa di aprire una porta del Giubileo nel carcere di Rebibbia è un segno di coraggio e di speranza rivolto ai detenuti, a quanti lavorano e operano nelle istituzioni carcerarie. La scelta del Papa di aprire una porta del Giubileo nel carcere di Rebibbia è un segno di coraggio e di speranza rivolto ai detenuti, a quanti lavorano e operano nelle istituzioni carcerarie. Focalizzare l’attenzione sulle problematiche che riguardano il contesto carcerario e chiedere di occuparsi e preoccuparsi delle carceri è un segno di civiltà e umanità. Il coraggio in carcere, dove il tempo richiede pazienza e il pensiero esige riflessione, acquista un valore infinito che passa attraverso il quotidiano per riuscire a vivere o meglio sopravvivere. Il carcere lo si può raccontare solo attraverso chi lo vive sul proprio corpo e la propria mente. Il 19 dicembre sono “entrato” in carcere, o meglio sono “ritornato” alla casa circondariale di Fossombrone (vi mancavo da più di un anno) per tenere un seminario sul tema del coraggio: mi sono soffermato a lungo sul senso da assegnare al coraggio nel vivere la quotidianità del carcere. “Scortato” e supportato dalla tutor Vittoria Terni de Gregory che segue con impegno e passione il percorso avviato dall’Università di Urbino “Carlo Bo” intrapreso con determinazione dalla prof. Daniela Pajardi sin dal 2015: negli anni ha dato i suoi frutti per numero di corsi attivati e studenti già laureati. Avevo chiesto a Chatgpt uno schema di riferimento sugli argomenti da sviluppare, mi ha dato degli spunti interessanti con riferimento alle varie forme di coraggio che ritroviamo in quel particolare contesto. Nel corso dell’incontro ho fatto riferimento a esempi materiali di coraggio per sfatare il mito degli eroi coraggiosi; ho riportato l’attenzione sulla storia di Virginia Piazza Di Porto che il 16 ottobre salvò il figlio Emanuele scacciandolo dal camion che l’aveva catturata per deportarla ad Auschwitz, al comandante Salvatore Todaro alla guida del sommergibile “Cappellini” che salvò dal naufragio in mare nemici che aveva sconfitto. Abbiamo riflettuto su come il coraggio si traduca in resistenza e resilienza, ma anche sopportazione hanno voluto precisare e sottolineare i miei interlocutori. Puntare gli occhi sul carcere ci fa vedere un mondo ai più sconosciuto. In carcere si entra in contatto con la logica e l’irrazionalità del male. Del carcere si ha paura, il carcere mette paura. Del carcere si temono le restrizioni severe e i provvedimenti eccezionali a cui si va incontro. L’esperienza del carcere, senza interesse alcuno per la vita, ha delle conseguenze traumatiche. Difficile immaginare quale trasformazione subisce chi viene condannato. La società considera il carcere un’organizzazione istituita in forma preventiva e repressiva quale sistema che si propone come garante di sicurezza. L’intento di colpire le attività criminali e illecite lo ritroviamo nella pena detentiva da scontare in carcere, per evitare di continuare a rimanere un pericolo, ma il carcere spesso si rivela luogo di riproduzione dell’esperienza di attività illecite. Bisogna tenere in mente che in carcere si trovano soggetti fortemente disagiati espressione degli strati più deboli della società. Entrare in carcere da “visitatore” quale significato assume? Bisogna dare senso ai valori in cui riconoscersi e da ricreare insieme, consapevoli dello spazio e del luogo di sofferenza in cui ci si ritrova. Si tratta di mettere in campo tutte le proprie forze per affermare un nuovo ordine e una nuova vita. In carcere nel tenere fisso lo sguardo sul palmo della mano e seguire il filo del discorso, ci si racconta poco per volta e si rimane a inseguire la propria fantasia, nello scambio di brevi frasi, spesso parlottando a bassa voce. Le idee che circolano, ispirate dal desiderio di concrete attività di riscatto, alimentano i sogni e le speranze. Diventa estremamente importante promuovere strumenti alternativi, in modo efficace e coraggioso. La speranza, come motivazione esistenziale in prospettiva, la si proietta con fiducia in un futuro aperto alla libertà. Le conseguenze del carcere innescano timori molto forti che permangono nello shock di rimanere oltre che reclusi anche esclusi, emarginati dalla società. L’immagine del detenuto viene svalutata in ragione dei reati commessi e delle pressioni della società. In carcere nel chiamare alla responsabilità si cerca di arrivare a costruire buone relazioni da condividere, indispensabili per migliorarsi. In carcere si apprende attraverso il mettersi in discussione nel divenire capaci di rivisitare il passato e gli errori, i reati commessi: il darsi e farsi coraggio evita che tutto appaia sbiadito e deteriorato. Con i cardini che cigolano e il rumore dei passi ad avvertire che sta per arrivare qualcuno i suoni assumono una risonanza insolita. Rassegnati allo scorrere del tempo che in silenzio trafigge il cuore, sono i sogni a lasciare una impressione profonda e duratura nel ricordare vividamente i minimi particolari della vita vissuta e i fatti veramente accaduti. Senza sapere bene cosa rispondere capita di soffermarsi ad annuire in silenzio, capaci con gli occhi di leggere e interpretare l’altro, nel dare senso all’intendersi, così da evitare le domande inutili, le parole confuse e sconnesse. Ci si vuole ritrovare capaci, nel parlare con facilità, di esprimere i propri pensieri e sentimenti. Nell’immaginare il carcere bisogna affrontare il dolore e superare i sensi di colpa. Chi si rende conto di aver sbagliato, senza poter rimediare al danno fatto vive conseguentemente il suo senso di colpa. In carcere la dimensione della libertà viene annullata, vittime di sé stessi e della tragicità del proprio destino. Si tratta di tenere conto e affrontare con coraggio il dolore delle persone che si sono fatte soffrire e farlo proprio. Un dolore che porta a una nuova consapevolezza di sé. Nel sentirsi in colpa il pensiero attiva un dialogo interiore. L’espiazione della pena è una componente necessaria, nell’andare oltre il ruminare per il dispiacere che si prova per come sono andate le cose rispetto a come sarebbero potute andare. Come accogliere la sofferenza e il dolore? Si tratta di avere consapevolezza dell’atto compiuto, le motivazioni che hanno spinto all’azione e le conseguenze da subire per averla compiuta. In lotta con sé stessi bisogna trasformare l’energia distruttiva in opportunità di crescita e cambiamento. Responsabilizzare l’individuo porta a sviluppare le forze interiori per restituire alla persona dignità e valori. Spetta al perdono ripristinare il rispetto. Come impegnarsi concretamente nel riparare la colpa commessa? In carcere si riflette a partire dall’ordinaria routine della propria vita quotidiana, di un vissuto carico di luci e ombre, amore e rabbia, di vita e di morte, in un turbinio di emozioni e sensazioni. In carcere dove non si ha fretta di tempo, perché se ne ha quanto se ne vuole, nel sentire vaghi e confusi mormorii si rivedono spezzoni sfocati di immagini di vita. Si segue l’ordine prestabilito, con calma, metodo e sguardo concentrato nella sequenza dei propri gesti, spesso senza un criterio temporale nel portarsi dietro la propria ombra. Oltrepassato il portone e varcata la soglia, con l’animo dilaniato, consapevoli che tutto non sarà più come prima, bisogna abituarsi alla nuova condizione e stringere taciti patti con sé stessi, nel dover lasciare il mondo esterno. Consapevoli che per confessare una colpa occorre poter saper dire Io e arrivare così a sentire chi si è veramente, mentre il silenzio senza bisogno di parole ravviva i ricordi e la memoria, con i passi incerti che rendono il rumore qualcosa di malinconico. La pacificazione, nel carcere richiede il coraggio di ragionare in termini di giustizia, per arrivare a celebrare il perdono, con la consapevolezza che se il tempo resta vuoto facilmente ci si smarrisce. L’indulto parziale può riumanizzare le carceri e abbattere la recidiva di Renato Brunetta* Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2024 L’appello del vicepresidente del CSM Fabio Pinelli è la parte che mancava alla definizione di un progetto olistico di restituzione della pena alla propria funzione specifica: l’ipotesi di un indulto parziale, che coinvolga i detenuti per reati meno gravi, cioè coloro che il lavoro può recuperare alla società e il carcere può cronicizzare in professionisti criminali. Si dice, nel gergo giuridico ma ormai anche nel linguaggio comune, “certezza della pena”, per intendere la preoccupazione che questa esprima gli effetti per i quali è stata prevista e adottata, e tra questi anche quelli che la Costituzione non prevede. E cioè: il risarcimento per le vittime, il primato della giustizia nelle relazioni umane, la deterrenza rispetto ai comportamenti illeciti o propriamente criminali. Non ho citato volutamente la rieducazione del condannato, l’unico principio che la Carta fa suo nell’articolo 27, perché si tratta di un principio controintuitivo della civiltà giuridica, mentre voglio qui, anzitutto, riferirmi al modello di giustizia percepita dal corpo sociale nel nostro momento storico. In questo mi associo alla nobile esortazione del vicepresidente del CSM Fabio Pinelli, che in un’intervista all’Avvenire ha esortato le forze politiche a ragionare sulla ipotesi di un indulto parziale, con argomenti dello stesso segno. In un carcere sovraffollato, luogo di isolamento, umiliazione, malattia e morte, la pena rischia di perdere la certezza dell’esempio, che è la vera fonte di legittimazione della potestà punitiva, per trasformarsi invece in certezza della recidiva. Lo Stato può punire perché, a differenza di chi si macchia di un reato, non cede all’irrazionalità, non pratica la vendetta, che invece è la leva del male, non punta all’isolamento e all’emarginazione degli individui, ma fa piuttosto comunità. Nelle condizioni date c’è il rischio che la pena venga meno alla sua certezza, intesa nel senso più ampio. Perciò una riflessione pragmatica sul rischio di questo tragico capovolgimento diventa ineludibile per qualunque responsabilità politica. Carceri in cui, in un solo anno, 89 detenuti si tolgono la vita e 243 muoiono diventano luoghi in cui l’obiettivo della pena si capovolge nel suo opposto. Anziché risarcire le vittime e la società, si cade in una crudeltà che è solo un simulacro di giustizia, mentre la deterrenza viene tradita, trasformando la detenzione in una scuola del crimine. Se si comprende il senso di questo ribaltamento, si può capire perché lo stesso lungimirante intento ebbero i padri costituenti quando indicarono nell’articolo 27 l’unica funzione che la Carta attribuisce alla pena, e cioè la rieducazione del condannato. Che non è un principio di indulgenza cristiana, e neanche un sociologismo deresponsabilizzante che scarica sulla società le colpe del reo, ma piuttosto l’unico obiettivo di politica criminale che la Carta riconosce alla giustizia. Recuperando il condannato, la giustizia risarcisce le vittime e la società, scongiura il rischio che delinquisca nuovamente e che il male si replichi tra una generazione e l’altra, come una sorta di religione incivile. Così la pena torna a essere esempio, anzi “exemplum”, oserei dire con un termine tratto dalla retorica medievale, cioè percorso che porta alla salvezza a beneficio di tutti. Se si accetta questo approccio pragmatico, certezza della pena diventa rieducazione, istruzione, formazione e lavoro, ricostituzione di un capitale umano che parrebbe perduto, ma anche risarcimento delle vittime, poiché i proventi della produttività che questo percorso sviluppa possono essere destinati a sostenere le famiglie colpite dai reati. Ma non basta. La certezza della pena è anche prevenzione: significa investire nei contesti sociali più fragili. L’intervento su Caivano rappresenta un fiore all’occhiello di questo governo, ma deve trasformarsi nel modello di una rete più ampia e capillare, capace di offrire protezione e promuovere la rigenerazione sociale. Non finisce qui. Perché la certezza della pena ha effetti anche all’interno del sistema della giustizia. Vuol dire restituzione della pena alla sua funzione di mezzo, cioè rinuncia a una supplenza che la pena è venuta assumendo, facendosi carico di altre parti mancanti del sistema, fino a costituire una giustizia carcero centrica, che sembra dipendere unicamente dal suo rimedio estremo. Ne è prova l’abuso della custodia cautelare nel nostro sistema, che si spiega solo con la funzione debordante e anticipatrice che la pena ha finito per svolgere, perdendo la sua certezza, cioè il suo ineludibile ancoraggio alla condanna. L’impegno del Cnel - È con il medesimo approccio pragmatico che il CNEL, che rappresento, d’intesa con il ministro guardasigilli Carlo Nordio, ha inteso impegnarsi per restituire alla pena la sua certezza, gettando un ponte tra il carcere e la società, portando il lavoro e l’istruzione al centro di un grande progetto di inclusione sociale che vede protagonisti le imprese, i sindacati, il volontariato, il sistema scolastico, universitario e gli enti locali. L’obiettivo è trasformare gli interessi, di cui i corpi intermedi sono portatori, in responsabilità e virtù civiche, cioè in valore aggiunto per la comunità, attraverso un’operazione vantaggiosa per tutte le parti coinvolte: i detenuti, a cui sarebbe offerto un percorso autentico di risocializzazione; la società e l’economia, che vedrebbero trasformata la spesa del sistema penitenziario in un investimento produttivo; e le vittime dei reati, a cui sarebbe restituita anzitutto la speranza che il male da loro sofferto non si ripeta, e nel cui fondo dedicato sarebbe convogliata una quota della ricchezza prodotta. È quella che si dice una scommessa “win-win”, da vincere in tre: detenuti, società e vittime. Il Ministero della giustizia e il CNEL hanno deciso di affrontarla insieme e con un accordo interistituzionale hanno assunto l’impegno di garantire percorsi di formazione e lavoro per contrastare la recidiva e dare compiuta applicazione al principio costituzionale di rieducazione della pena. Nel maggio del 2024 l’Assemblea del CNEL ha approvato all’unanimità il primo Disegno di legge della XI Consiliatura, recante “Disposizioni per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà personale emanate dall’autorità giudiziaria”, trasmesso alle Camere. Ha istituito un Segretariato permanente per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti, che persegue l’obiettivo di “Recidiva Zero”, coinvolgendo tutte le parti sociali e i corpi intermedi presenti nel CNEL. Capacità punitiva dello Stato e inclusione sociale - Da questo punto di osservazione l’appello del vicepresidente del CSM Fabio Pinelli è la parte che mancava alla definizione di un progetto olistico di restituzione della pena alla propria funzione specifica: l’ipotesi di un indulto parziale, che coinvolga i detenuti per reati meno gravi, cioè coloro che il lavoro può recuperare alla società e il carcere può cronicizzare in professionisti criminali, realizza almeno quattro obiettivi: umanizzare le carceri, concorrere ad abbattere la recidiva, risarcire vittime e società, produrre ricchezza. Una pena così “certa” realizzerebbe i propri effetti retributivi, deterrenti e, naturalmente, rieducativi, in una visione d’insieme, la sola vincente, indirizzando la capacità punitiva dello Stato verso un obiettivo di inclusione sociale. Ma, soprattutto, non avrebbe controindicazioni politiche. *Presidente del Cnel “No amnistia e indulto. Comunità terapeutiche e meno carcere preventivo per sfollare le carceri” di Silvana Palazzo ilsussidiario.net, 29 dicembre 2024 Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è contrario ad amnistia e indulto: ecco il piano del governo per risolvere l’emergenza del sovraffollamento. Né l’amnistia né l’indulto sono per Carlo Nordio la soluzione all’emergenza carceri. Possono essere segni di forza, non come provvedimenti per svuotare le carceri, perché in questo caso sarebbero “manifestazioni di debolezza”. Per Nordio non bisogna mandare alcun segnale di impunità, invece bisogna “umanizzare” la pena con attività in carcere o modi diversi per scontrare la propria pena. Infatti, il Guardasigilli è al lavoro con il resto del Governo. Per quanto riguarda l’emergenza suicidi, si tratta di un fenomeno che per Nordio non ha legami con il sovraffollamento, ma a fattori psicologici. Quindi, l’obiettivo è migliorare il sostegno psicologico. Sempre a proposito di sovraffollamento, bisogna anche tener conto del fatto che oltre un terzo dei detenuti è di fatto composto da immigrati privi di occupazione. Di amnistia e indulto ha parlato Papa Francesco, ma Carlo Nordio va verso un’altra direzione, in cui bisogna trovare un equilibrio. Il ministro della Giustizia, parlando di “umanizzazione della pena” nell’intervista a Libero, fa riferimento a comunità e modalità per consentire la detenzione domiciliare ai tossicodipendenti o alle persone condannate per reati di allarme sociale minore. Il perdono non è automatico, ma frutto di un processo, anche a livello religioso. Entrando nel merito del piano del governo, ci si può soffermare sull’idea di creare delle strutture per gli stranieri che non hanno una dimora. La proposta nasce dalla consapevolezza che ci sono migliaia di detenuti che potrebbero essere mandati agli arresti domiciliari, ma ciò non è possibile in quanto appunto non hanno un domicilio dove scontare la loro pena. Un’altra idea è quella far scontare in patria la pena ai detenuti stranieri. Ma Nordio non trascura neppure l’importanza della presunzione d’innocenza, che deve prevalere rispetto alla carcerazione preventiva. Per quanto riguarda Marco Doglio, nominato commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, il ministro garantisce che il progetto a cui sta lavorando sta per essere completato e diventerà presto esecutivo, con l’obiettivo di ristrutturare le carceri e adattare gli edifici compatibili con la detenzione. Nordio dice no all’amnistia: “Inutile segno di debolezza, non serve a svuotare le carceri” di Conchita Sannino La Repubblica, 29 dicembre 2024 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dice “no all’amnistia e indulto”, non sono la strada per risolvere i problemi delle carceri, a partire dal sovraffollamento ormai strutturale. Questi atti di clemenza, spiega in un’intervista a Libero il Guardasigilli che ha accompagnato il Papa al carcere di Rebibbia, durante la cerimonia di apertura della Porta Santa, “sono plausibili come segno di forza e di magnanimità, ma se vengono interpretati come provvedimenti emergenziali svuota-carcere sono manifestazioni di debolezza”, che mandano un segnale di “impunità” e di invito “alla commissione di nuovi reati”. Piuttosto, aggiunge, bisogna lavorare “all’umanizzazione della pena”, prevedendo attività culturali, lavorative o sportive dentro il carcere o modalità diverse dai penitenziari per scontare il proprio debito con la giustizia. Il 26 dicembre papa Francesco ha aperto la seconda Porta Santa del giubileo, nel carcere di Rebibbia a Roma, accolto da Nordio. E ha fatto un appello per “forme di amnistia o di condono della pena” dei detenuti e “percorsi di reinserimento” a loro dedicati, nonché per “l’abolizione della pena di morte”. A chi gli ha domandato se aveva parlato con il Guardasigilli della possibilità di un gesto di clemenza, il Papa ha risposto di no. Ma il tema del carcere è stato affrontato da Francesco anche in occasione della benedizione urbi et orbi pronunciata a Natale, quando ha sottolineato che Gesù “attende i carcerati che, nonostante tutto, rimangono sempre figli di Dio”. “Il Papa, come è suo compito, guarda alle coscienze, e sotto questo profilo nessuno di noi può dirsi migliore di un altro. È questo il significato del ‘non giudicate e non condannate’ che ci viene da Gesù - commenta adesso Nordio - Ma lo Stato guarda alla certezza del diritto, alla sicurezza dei cittadini e alle aspettative delle vittime, e non può chiudere i tribunali. Il giusto equilibrio si trova nella umanizzazione della pena, con il lavoro, l’attività sportiva e anche culturale all’interno di una struttura che non è necessariamente fatta di sbarre. Penso alle comunità o ad altre forme di detenzione domiciliare per tossicodipendenti o autori di reati di minore allarme sociale. Ci stiamo lavorando, ma non sono cose che si improvvisano”. Non si fa amnistia e indulto perché i partiti della maggioranza sono divisi o, invece, sono tutti contrari a provvedimenti di clemenza? “No, siamo tutti d’accordo che un indulto incondizionato sarebbe inutile e nocivo. Del resto è la stessa dottrina cattolica a insegnarci che il perdono non è gratuito, presuppone la confessione, la penitenza e il fermo proposito della redenzione. In termini laici, questi concetti si esprimono, come ho detto, con una umanizzazione della pena e - aggiunge - la detenzione differenziata”. In alternativa ad amnistia e indulto, “ci sono varie direzioni su cui ci stiamo indirizzando”, dice Nordio, compreso un piano del governo per diminuire il sovraffollamento delle carceri. “Intanto, dei 16mila detenuti in custodia cautelare o in esecuzione della pena in carcere, migliaia non dovrebbero trovarsi lì. La quasi totalità di questi casi è composta da stranieri arrivati clandestinamente nel nostro Paese. Molti hanno i requisiti per andare agli arresti domiciliari, ma non hanno un domicilio e per questo finiscono in carcere. L’idea su cui stiamo lavorando è di creare delle strutture, dei condomini, dove permettere a questi stranieri senza domicilio di scontare gli arresti, con un controllo periodico, non continuo, delle forze dell’ordine. Un’altra direzione - spiega Nordio - è quella degli accordi coi Paesi d’origine: ci sono tanti detenuti stranieri che potrebbero espiare le proprie pene nei Paesi da cui provengono, occorre fare accordi in questo senso. Terza direzione: bisogna limitare la carcerazione preventiva, enfatizzando la presunzione di innocenza. Solo in questo modo si potrebbero togliere dal carcere 18mila detenuti in attesa di giudizio. Stiamo, poi, siglando accordi con le comunità terapeutiche per i reati connessi con la tossicodipendenza. Aggiungo che su questo tema è intervenuta anche la Chiesa, con il cardinal José Tolentino de Mendonca, (prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione del Vaticano). L’ho incontrato giovedì a Rebibbia e prima ancora alla Giudecca. Infine, stiamo lavorando sulle pene alternative alla carcerazione e sulla ristrutturazione di caserme dismesse”. Qualche dato. L’indice di sovraffollamento è al 133,4%, secondo il garante dei detenuti. E nel 2024 sono stati quasi 88 i suicidi, il dato più alto degli ultimi anni. Questo fenomeno “è un fardello di dolore collettivo, e quando avviene in carcere lo sentiamo ancora più gravoso. Tuttavia esso non è correlato al sovraffollamento, ma piuttosto alla solitudine, al dolore, alla mancanza di prospettive - commenta Nordio - Sotto questo profilo stiamo lavorando molto per potenziare il sostegno psicologico e cogliere i segnali di allarme di queste fragilità. Il sovraffollamento è problema altrettanto grave, ma non è certo di oggi. Non va dimenticato, poi, che più di un terzo dei detenuti è costituito da immigrati senza lavoro e questo è un dato oggettivo che va studiato senza pregiudizi”. Il Papa spera nell’amnistia o nell’indulto, il Guardasigilli spiega che non servono di Franca Giansoldati Il Messaggero, 29 dicembre 2024 Inizia il Giubileo, il Papa apre la Porta Santa chiedendo forme di clemenza, come amnistia e indulto, ma il governo Meloni replica che non è certo la strada per risolvere i problemi delle carceri, a partire dal sovraffollamento ormai strutturale. Lo spiega bene il ministro della Giustizia Carlo Nordio che, in una intervista a Libero, dopo avere accolto il Papa nel carcere di Rebibbia, durante la cerimonia di apertura della Porta Santa, sottolinea che semmai c’è bisogno di lavorare “all’umanizzazione della pena”, prevedendo attività culturali, lavorative o sportive dentro il carcere o modalità diverse dai penitenziari per scontare il proprio debito con la giustizia. Indulto o amnistia “sono plausibili come segno di forza e di magnanimità, ma se vengono interpretati come provvedimenti emergenziali svuota-carcere sono manifestazioni di debolezza”, che mandano un segnale di “impunità”. “Lo Stato guarda alla certezza del diritto, alla sicurezza dei cittadini e alle aspettative delle vittime, e non può chiudere i tribunali. Il giusto equilibrio si trova nella umanizzazione della pena, con il lavoro, l’attività sportiva e anche culturale all’interno di una struttura che non è necessariamente fatta di sbarre. Penso alle comunità o ad altre forme di detenzione domiciliare per tossicodipendenti o autori di reati di minore allarme sociale. Ci stiamo lavorando, ma non sono cose che si improvvisano”. In ogni caso il Guardasigilli ha ribadito che in Parlamento “siamo tutti d’accordo che un indulto incondizionato sarebbe inutile e nocivo. Del resto è la stessa dottrina cattolica a insegnarci che il perdono non è gratuito, presuppone la confessione, la penitenza, e il fermo proposito della redenzione. In termini laici, questi concetti si esprimono, come ho detto, con una umanizzazione della pena e la detenzione differenziata”. Come diminuire il sovraffollamento delle carceri? “Ci sono varie direzioni su cui ci stiamo indirizzando. Intanto, dei 16mila detenuti in custodia cautelare o in esecuzione della pena in carcere, migliaia non dovrebbero trovarsi lì. La quasi totalità di questi casi è composta da stranieri arrivati clandestinamente nel nostro Paese. Molti hanno i requisiti per andare agli arresti domiciliari, ma non hanno un domicilio e per questo finiscono in carcere. L’idea su cui stiamo lavorando è di creare delle strutture, dei condomini, dove permettere a questi stranieri senza domicilio di scontare gli arresti, con un controllo periodico, non continuo, delle forze dell’ordine. Un’altra direzione -spiega Nordio - è quella degli accordi coi Paesi d’origine: ci sono tanti detenuti stranieri che potrebbero espiare le proprie pene nei Paesi da cui provengono, occorre fare accordi in questo senso. Terza direzione: bisogna limitare la carcerazione preventiva, enfatizzando la presunzione di innocenza. Solo in questo modo si potrebbero togliere dal carcere 18mila detenuti in attesa di giudizio. Carceri, struzzi e cemento di Stefano Fabbri Corriere Fiorentino, 29 dicembre 2024 La discussione pubblica sul carcere, innescata dall’apertura della Porta Santa a Rebibbia da parte di Papa Francesco e dall’impietoso rapporto di Antigone centrato soprattutto sul sovraffollamento, rischia di prendere la brutta scorciatoia edilizia, come se tutto si potesse risolvere con la costruzione di nuovi istituti di pena. Insomma, mettiamoci qualche ballino di cemento sopra e non parliamone più. Peccato che, ammesso serva, per realizzare nuove carceri non basterebbe un decennio. E l’urgenza di una giustizia che non sia vendetta non può aspettare oltre. La pena, che come prevede la Costituzione è finalizzata al reinserimento, si esplicita attraverso la perdita della libertà. Non c’è alcuna sanzione accessoria prevista che contempli il tentare di sopravvivere in ambienti fatiscenti e umidi, di soffrire il freddo glaciale o il caldo insopportabile, di convivere con uno zoo di parassiti. E sarebbe dunque meglio che quel cemento fosse intanto impiegato per rendere gli istituti di reclusione un po’ più vivibili, per chi vi è costretto e per chi vi lavora. Ma anche questo non può bastare, senza una politica della giustizia che cominci a far funzionare alcuni preziosi strumenti che già esistono, a cominciare dalle misure alternative alla detenzione, giacché nella nostra Carta non ricorre mai il termine “carcere”. I lungimiranti padri (e madri) costituenti immaginarono forse che la saggezza dei legislatori avrebbe fatto venire loro in mente non solo sbarre, celle e muri di cinta. Un ottimismo tradito, tranne che per qualche tentativo. In Toscana, dove nel capoluogo sorge il carcere di Sollicciano considerato tra i più disgraziati del Paese, ci sono più di 8 mila persone in esecuzione penale esterna, cioè che scontano la condanna fuori dal carcere con prescrizioni comunque restrittive della loro libertà. Una cifra più che doppia rispetto ai circa 3.300 detenuti in carcere. Apparentemente potrebbe essere un raffronto incoraggiante, ma all’aumentare del numero dei primi non diminuisce - anzi cresce - pure quello dei reclusi, complice l’introduzione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene previste. Strumenti, questi ultimi, ritenuti dalla politica più popolari e forieri di consenso. Una cosa, tuttavia, accomuna condannati “fuori” e reclusi: l’estrema difficoltà di pensare al proprio futuro di reinserimento e la facilità di ricadere nella recidiva e quindi nel ritorno in cella o nella marginalità. olo con un’intensa attività di formazione e di processi di inserimento lavorativo, che oggi coinvolge solo una minuscola percentuale di essi, si può pensare di arginare questo pericolo. Che non riguarda solo loro, ma l’intero tessuto sociale, a cominciare dalla stessa sicurezza che tanto sembra stare a cuore a tutti. La misura di questa vertigine, della paura di un dopo senza speranza, la può dare un terribile indicatore. Anche in questo anno-record per i suicidi di detenuti in carcere, molti dei reclusi che hanno compiuto tale gesto non erano persone appena entrate in cella, ma quelle che ne sarebbero uscite presto per fine-pena. Inutile quindi pensare che le soluzioni siano solo quelle del calcestruzzo. O, peggio, dello struzzo. Carceri piene e indulto: un tragico dilemma di Luca Ricolfi Il Messaggero, 29 dicembre 2024 Ci sarà un indulto o un’amnistia per i detenuti? Dopo la visita del Papa a Rebibbia e le parole dette in carcere (e prima ancora nella Bolla di indizione del Giubileo), la domanda è tornata di attualità. Ma per la verità, e giustamente, la domanda aleggiava da tempo grazie ai rapporti delle associazioni che - come Antigone - si occupano della condizione carceraria. Credo dovremmo essere grati a quanti, nella società civile e pure nel mondo politico (penso in particolare ai Radicali), tengono viva l’attenzione sul dramma delle carceri italiane: vecchie, spesso fatiscenti, indegne di un paese civile. Un dramma che, negli ultimi anni, si è aggravato per il sovraffollamento: attualmente il numero di detenuti supera del 32% i posti effettivamente disponibili, e il numero di suicidi di detenuti (89 quest’anno) ha toccato il massimo storico. In breve, le condizioni che suggeriscono un provvedimento di alleggerimento ci sono tutte. Eppure, un tale provvedimento non arriva, e non da oggi (l’ultimo indulto è di quasi 20 anni fa). Perché? Una spiegazione ovvia è la convenienza elettorale: né la destra né la sinistra sono pronte a intestarsi un provvedimento di clemenza, che inevitabilmente contrasterebbe con la domanda di sicurezza che proviene dall’opinione pubblica. E anche nel caso in cui, grazie alle aperture di Forza Italia e del Pd, un fronte pro-indulto si formasse, i voti in parlamento non sarebbero sufficienti: l’articolo 79 della Costituzione, infatti, prescrive che un provvedimento del genere sia sostenuto da una maggioranza qualificata (2/3 dei senatori e 2/3 dei deputati). Ma queste sono cattive ragioni per respingere la domanda di un atto di clemenza. La domanda vera è: vi sono anche buone ragioni? Temo di sì. La prima buona ragione è che l’esperienza del passato mostra che questo genere di provvedimenti non è risolutivo: nel giro di 2-3 anni la situazione torna ad essere quella precedente. A questo argomento si può obiettare che, per evitare un ritorno alle cifre pre-clemenza, si può - insieme all’atto di parziale svuotamento delle carceri - varare un mix di misure di alleggerimento collaterali: aumento dei posti in carcere, depenalizzazione di molti reati, potenziamento delle misure alternative al carcere. Ma qui interviene una seconda buona ragione contraria a un atto di clemenza: anche se le misure di alleggerimento collaterali, per lo più costose e di non immediata attuazione, fossero effettivamente adottate, resterebbe il fatto che una parte non trascurabile degli scarcerati tornerebbero a commettere reati più o meno gravi, di cui sarebbero vittime diverse migliaia di cittadini. Detto brutalmente: le pagine di cronaca si riempirebbero, come accadde dopo l’ultimo indulto, di nuovi crimini commessi proprio dai beneficiari dell’atto di clemenza. Il che potrebbe non fare molta impressione finché si trattasse solo di furti e borseggi, ma diventerebbe emotivamente insostenibile di fronte ad aggressioni, rapine, violenze sessuali, uccisioni, femminicidi compiuti da soggetti che, senza l’indulto, sarebbero stati ancora in carcere. Che diremo quando scopriremo che l’ennesima ragazza stuprata o uccisa è stata vittima di un indultato? Quello che spesso si dimentica è che, accanto alla fondamentale (e troppo poco attuata) funzione di rieducazione, il carcere svolge una non meno importante funzione di “incapacitazione”, ossia di protezione dei cittadini mettendo (temporaneamente) in condizione di non nuocere chi ha commesso reati abbastanza gravi da comportare il carcere. Ecco perché il gesto di clemenza, pur giustificato dalla inaccettabile condizione di degrado di tanti carceri, risulta ingiustificabile da altri punti di vista, primo fra i quali quello delle future vittime. Ciò di fronte a cui ci troviamo, in altre parole, è un formidabile dilemma etico, che non vede coinvolti due soggetti - i detenuti e lo Stato - ma ne vede implicati tre: detenuti, Stato, future vittime. Se il rapporto fosse solo fra Stato e detenuti, varrebbe unicamente il principio che uno Stato non può privare della libertà un cittadino se non è in grado di assicurargli una detenzione umana. Ma essendo il rapporto a tre, vale la domanda: può lo Stato scaricare su cittadini innocenti la sua incapacità di gestire le carceri? Non sono dilemmi nuovi, anche in campo giuridico. Se ne occuparono magistralmente, quasi mezzo secolo fa, Guido Calabresi e Philip Bobbit in un celebre libro (Tragic choices, 1978), che metteva di fronte alle decisioni che, specie in una situazione di risorse scarse, l’azione pubblica è costretta ad assumere. Ebbene, quella di un eventuale indulto è una di tali decisioni tragiche, perché qualsiasi cosa il decisore pubblico scelga, ci saranno effetti negativi e vittime incolpevoli. Possiamo avere convinzioni più o meno ferme su quale dei due sia il male minore, ma dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che, qualsiasi decisione prendiamo, non potrà mai essere una decisione giusta. Ecco perché la certezza della pena non si negozia di Corrado Ocone Libero, 29 dicembre 2024 L’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia da parte del Santo Padre è stata un gesto altamente simbolico e significativo, che non poteva essere ignorato dalla politica. Così come sarebbe stato opportuno che esso non fosse strumentalizzato, come pure è avvenuto, da parte della sinistra. Se non altro per rispetto verso una figura come quella del Papa che ha come bussola di riferimento il trascendente e non le divisioni del mondo immanente. Ma quale migliore occasione, avranno pensato i nostri, per chiedere amnistia e indulto incondizionati a un governo che viene descritto come autoritario e che quindi non può non avere che una concezione punitiva e repressiva del potere? Per smascherare la malafede di questi garantisti filo-papisti dell’ultima ora, occorreva un intervento al più alto livello e di forte impronta liberale. Il Ministro Carlo Nordio, che liberale e garantista vero è non da oggi, non si è sottratto e ha concesso una magistrale intervista al nostro giornale. Scomparse come d’incanto le vestali del laicismo che avevano segnato in altri momenti la storia patria, è toccato a Nordio ergersi a campione di quella laicità che è inscritta nel Dna della nostra Repubblica e che è caratteristica dei moderni Stati liberali. La laicità correttamente intesa si fonda su una rigorosa distinzione fra l’etica della convinzione, che è propria della Chiesa, e quella della responsabilità, a cui deve in prima istanza guardare la politica. Non si tratta tanto di una astratta rivendicazione di prerogative da parte dello Stato laico, quanto piuttosto di un modo per garantire l’assoluta autonomia e libertà della Chiesa nell’ambito spirituale che le è più proprio. È un segno di attenzione e rispetto che Nordio ha ricalcato più volte nel corso dell’intervista. Egli ha sottolineato che il Papa guarda alle coscienze e chiunque, anche un laico, deve inchinarsi davanti a quello che è stato un vero e proprio “gesto evangelico”. Lo Stato deve invece guardare necessariamente alla giustizia, la quale in un ordinamento liberale deve fondarsi su alcuni principi imprescindibili: certezza del diritto, presunzione di innocenza, proporzionalità della pena, dignità del detenuto. Lungi dall’essere intesa come punizione, tanto meno come vendetta, la pena deve tendere poi, secondo la nostra Costituzione, al reinserimento del detenuto nella società. Ora è evidente che, alla luce di quello che è anche in senso logico il primo principio, la pena deve essere certa, sicura: è qui che si misura la forza di uno Stato democratico non sulla severità della punizione. Far passare un provvedimento generalizzato di amnistia e indulto, senza distinguere i singoli casi, minerebbe proprio questo principio e con esso la fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni e che è la base del contratto che li lega allo Stato. Certamente il sovraffollamento delle nostre carceri è un problema serio che non va sottovalutato, nonostante si tratti di una condizione comune anche ad altri Stati occidentali. Sgombrato tuttavia il terreno dal più insidioso e falso dei sillogismi, che cioè sia proprio il sovraffollamento la causa dei suicidi che si verificano in carcere, Nordio ha buon gioco a non fare di tutta l’erba un fascio e a individuare soluzioni nella drastica limitazione della carcerazione preventiva, nelle pene alternative, in un aiuto psicologico dato ai più fragili, in un incremento dell’edilizia penitenziaria. La stessa folta presenza in carcere di immigrati senza lavoro e domicilio non può essere elusa e va affrontata in modo laico, senza ideologismi, con una attenzione ai dati e alle situazioni. Non escludendo per loro soluzioni abitative diverse dal carcere in cui scontare la pena. Insomma, il problema delle carceri va affrontato in modo strutturale non con le operazioni demagogiche e una tantum tanto care alla sinistra. Esse tradirebbero sia i cittadini sia i detenuti soprattutto quelli che meritano un trattamento diverso perché diverso è il loro caso o perché diverso è stato il loro comportamento in carcere. Insomma, il messaggio che ci manda Nordio è che certezza e umanizzazione della pena sono obiettivi che debbono e possono procedere di pari passo. E su di essi convergeranno sicuramente tutti gli uomini di buona volontà, credenti o no che siano. Tutto si può dire di Nordio non che non abbia visione. Che le resistenze degli apparati e gli ostacoli siano pure ancora tanti, è però elemento che non si può tacere. “Bisogna limitare il ricorso alla custodia cautelare” di Angelo Picariello Avvenire, 29 dicembre 2024 Parla Paolo Emilio Russo, capogruppo di Forza Italia nella Commissione Affari Costituzionali della Camera: dal Papa un gesto potentissimo. “Il gesto del Papa è stato potentissimo e interroga le coscienze di tutti coloro che hanno responsabilità pubbliche: c’è un tema di diritti e anche di rispetto della nostra Costituzione”. Paolo Emilio Russo, capogruppo di FI in commissione Affari Costituzionali della Camera dà la sua disponibilità a studiare misure e iniziative in grado di migliorare la condizione carceraria e abbassare il tasso di sovraffollamento che ha più volte messo il nostro Paese sul banco degli imputati. Se il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli ha proposto un “indulto parziale”, Russo preferisce, a nome di Forza Italia, parlare di potenziamento delle misure alternative, interventi per ammodernare e umanizzare le strutture, aumentando l’accesso al lavoro all’interno e all’esterno del carcere, il ricorso alla giustizia riparativa, e gli investimenti in uomini e mezzi per ridurre i tempi della carcerazione preventiva. Un partito garantista come Forza Italia non può essere insensibile al dato che vede circa un terzo dei detenuti in attesa di giudizio, quindi in una situazione di presunzione d’innocenza... Le carceri sono diventate dei “non luoghi”, chi ci entra - da colpevole, ma non di rado anche da innocente - rischia di non uscire più e, a dispetto della Costituzione, quando esce, è una persona peggiore. Come ha sottolineato Antonio Tajani, “la pena è privazione della libertà, non della dignità”. Il principio sacrosanto della certezza della pena non può tradursi nel fatto che chi sbaglia in carcere viene trattato come un rifiuto umano. Gli 88 suicidi tra i detenuti ma anche i 6 agenti che si sono tolti la vita, nel 2024, parlano da soli... È la dimostrazione che il carcere oggi - in molti, troppi casi - è un luogo malsano per tutti coloro che lo frequentano, anche per chi ci lavora per garantire la sicurezza. Anche quelle 243 persone morte in carcere rappresentano un dato terribile: nessuna donna e nessun uomo, di qualunque colpa si sia macchiato, dovrebbe morire solo in una cella. Come intende muoversi Forza Italia? Le carceri per noi rappresentano una priorità. Su sollecitazione del segretario Tajani, la scorsa estate c’è stata una grande mobilitazione: tutti gli eletti sono andati a visitare e a verificare le condizioni delle carceri italiane, maschili e femminili, ne è scaturita una relazione sulla base della quale abbiamo preparato, con il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, una serie di proposte per affrontare il problema in modo strutturale. Io stesso ho ispezionato il carcere femminile di Rebibbia che, tra l’altro, ospita madri con figli piccoli. Altro tema molto delicato. Che fare, allora? Bisogna investire innanzitutto sull’edilizia carceraria, ammodernare strutture ormai obsolete in molti casi, ritagliate su un sistema e un sentire comune molto diverso dall’attuale, creare le condizioni perché tutti i detenuti vedano rispettati i loro diritti minimi. Servono carceri di nuova generazione ma, contemporaneamente, è già possibile intervenire per limitare il sovraffollamento modificando le leggi sulla carcerazione preventiva: la custodia cautelare non può e non deve essere trattata come anticipo della pena. Purtroppo spesso è proprio così. Dove intervenire? Per andare incontro al dettato costituzionale si dovrebbe riconoscere, ad esempio, ai tossicodipendenti la possibilità di scontare la pena in comunità e creare le condizioni perché i detenuti possano lavorare dentro agli istituti e, per quelli che scontano pene minori, fuori durante il giorno. Serve a loro per reinserirsi, a limitare il sovraffollamento diurno ed è anche giusto. Servono più educatori e accordi con le imprese, associazioni del Terzo settore e volontariato, ma anche semplificare le regole. Un altro intervento strutturale riguarda la giustizia riparativa, che può avere un ruolo fondamentale come accade negli altri Paesi europei specie nei delitti colposi. E occorre potenziare le misure alternative. Per fare tutto questo servono più risorse umane... Quasi ovunque negli istituti c’è carenza di organico. Consapevoli di ciò stiamo investendo. Da inizio legislatura sono state assunte - tra assunzioni ordinarie e straordinarie - ben 7mila figure: mille sin dalla prima legge di Bilancio, mille ancora lo scorso luglio, col Dl Carceri. Hanno riguardato il personale di Polizia penitenziaria e i giudici di sorveglianza. Questi ingressi consentiranno tra l’altro di avere un direttore e un comandante in pianta stabile in ogni istituto. Le assunzioni, in particolare, di giudici di sorveglianza si tradurranno in una valutazione più oculata, caso per caso, della posizione di chi è in carcere ma non dovrebbe essere lì. Viaggio nelle carceri, voci di dentro e di fuori: l’Italia non ascolta i reclusi di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2024 Al via un ciclo di reportage negli istituti per adulti e minori tra sovraffollamento, disagio psichico e marginalità. Se è vero che “nessun uomo è un’isola”, per capire le voci di dentro bisogna ascoltare anche quelle di fuori. Come in certe sere romane alle Mantellate, quando il vento ripete nomi di mariti, figli, fratelli urlati a squarciagola da donne che fanno giungere così il loro abbraccio al di là di blindo e cancelli. Ma il mondo di dentro e quello di fuori non sempre parlano la stessa lingua. E non di rado, quello che vive al di là delle alte mura di cinta resta un universo distante. Salvo balzare al centro dell’agone politico ora per il dramma dei suicidi in particolare d’estate (l’ultimo un trentenne il 18 dicembre a Viterbo); ora per l’ingresso di detenuti eccellenti; ora per inchieste per torture o scandali vari. Così in un dibattito emotivo e manicheo, non c’è spazio per la complessità; si perde la pluralità degli attori e di sicuro non si illuminano gli sforzi dei tanti che cercano di avvicinare il condannato ad una prospettiva di cambiamento. Nella consapevolezza che “la sua personalità - secondo il richiamo della Corte costituzionale - non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso”. Una sfida ancor maggiore quando si tratta di giovanissimi, 584 nei 17 Istituti penali per minori. Un ciclo di reportage - Il mondo di dentro però non progredisce senza quello di fuori. Come dissero le anime degli scomunicati a Dante, “qui per quei di là molto s’avanza”. E solo quando tra carcere e territorio esiste un proficuo dialogo, crolla la recidiva e aumenta la sicurezza. Abbiamo per questo deciso di andare a vedere con i nostri occhi, di andare ad ascoltare le voci del carcere, dove Papa Francesco ha appena aperto una delle porte sante del Giubileo. Un viaggio a tappe tra istituti diversi, per adulti e minori. Un viaggio nella quotidianità di un mondo dove sono recluse 62 mila persone e vi lavorano altre 40 mila (36 mila della Polizia penitenziaria, 4 mila civili), oltre ai volontari. Un mondo dove i detenuti della cosiddetta “alta sicurezza”, i più pericolosi, sono una minoranza, mentre aumentano coloro a cui il vento non ha baci da consegnare: naufraghi di vita che “nel vuoto affettivo”, per dirla col Pontefice, rischiano di più di togliersi la vita. Il carcere specchio del territorio. Scarso supporto psicologico - Al contempo il supporto psicologico, nonostante i 5 milioni in più stanziati tempo fa dal Ministero della Giustizia, continua ad essere insufficiente, per concorde valutazione degli operatori. E nell’autonomia delle competenze regionali, i compensi assegnati dalle Asl agli specialisti vanno dai 24 euro lordi all’ora a Siracusa - in media 30 euro al Sud (a fronte di grandi responsabilità) - ai 96 euro a Trento. Emergenza salute mentale e poche Rems - Solo 600 invece i posti disponibili nelle 31 Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), create dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Lunghissime le liste d’attesa. Al momento 664 persone aspettano un posto in una delle Rems e nel frattempo, 26 restano in carcere, indebitamente, le altre sono fuori. Col rischio di fare del male a sé o ad altri. La salute mentale dietro le sbarre e la salute in genere è una delle principali urgenze. E se ad Oristano la Asl ha appena deliberato l’assunzione di cinque medici per la casa circondariale (non più uno solo), in Sicilia un assessore confessò ad un alto dirigente Dap: “se do risorse ai detenuti non mi votano”. Garantire la salute diventa poi ancor più arduo quando di notte in un istituto con 90 presenze, come ad Avezzano, si ritrovano tre agenti in turno: “se due devono accompagnare d’urgenza in ospedale un detenuto con un infarto, dentro resta uno solo?”, obietta chi si è trovato in passato in analoga situazione. O di quella volta che fu portato dentro, per evasione dai domiciliari, un diabetico con entrambe le gambe amputate: restò in infermeria solo una notte, poi fu rimandato a casa. I tanti volti del carcere - Ecco che allora visitare le carceri significa anche vedere le difficoltà di dialogo talora tra attori diversi; significa realizzare quanto resti inattuato dell’ordinamento penitenziario e dei richiami della Corte costituzionale (dal monito per “una complessiva riforma delle Rems”, al diritto all’affettività, un tabù). Entrare in carcere significa ascoltare dei tantissimi suicidi evitati, significa avvertire l’impotenza di quell’agente torinese (che indossa la stessa divisa di colleghi accusati di torture in più inchieste) davanti ad un uomo piegato dal mal di denti, ma significa anche rendersi conto che per sempre più detenuti il carcere è il primo accesso ad un sistema di welfare. Talora un’occasione. Un paradosso solo in apparenza. Visitare le carceri significa anche scoprire angoli di eccellenza, come gli ambulatori per la dialisi a Poggioreale per restare in ambito sanitario, o ascoltare gli sforzi degli operatori di Padova quella volta che arrivò un obeso di 230 kg. Visitare le carceri significa toccare con mano quanto il dialogo col territorio, dal pubblico al privato, sia decisivo nel percorso di risocializzazione, in particolare attraverso il lavoro. E questa - come più volte richiamato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - è “la migliore garanzia di sicurezza”. Ma a Milano o Bologna non è come a Reggio Calabria o Taranto. Vecchie e nuove emergenze - Bisogna aver attraversato vecchi ballatoi e affollate celle; aver percorso anguste scale come a Bolzano o varcato l’antico portone di Regina Coeli a Roma. Bisogna aver ascoltato le emergenze nel tempo di Sollicciano a Firenze, Canton Mombello a Brescia o Le Vallette a Torino, tra mancanza di acqua calda, cimici e carenze di personale, nonostante le assunzioni per far fronte al turn over. Bisogna aver visto la successione dei letti a castello, in spazi dove a turno si riesce a mettere i piedi a terra; e bisogna averne sentito gli odori tra sudore, ormoni, rabbia e paura. Bisogna aver ascoltato la voce di chi, come Laura a San Vittore, potrebbe andare in affidamento ma non ha un indirizzo e resta in cella (l’albo delle comunità per accogliere profili come il suo, previsto nel decreto carcere della scorsa estate, è ancora in itinere). Bisogna entrare per scoprire che due portali in pietra hanno rallentato i lavori di due padiglioni chiusi a Poggioreale in un momento ad altissimo affollamento. Bisogna aver visto, per comprendere l’attualità delle parole di Filippo Turati sull’assenza di “comunicazione tra il nostro mondo e quei cimiteri di vivi che sono le carceri”. Cantieri aperti e laboratori - Allo stesso modo, solo girando tra raggi e padiglioni, si comprende come anche i piccoli (grandi) cantieri aperti possono migliorare le condizioni di vita, con la rimozione ad esempio delle turche dai bagni o la realizzazione delle docce in cella, come da regolamento. Stando dentro assume poi un altro sapore il panettone che sempre più persone acquistano dal carcere di Padova o dall’Ipm di Nisida o il cioccolato di Busto Arsizio, il caffè di Rebibbia o la birra di Alessandria. Come varcando i cancelli, può capitare di imbattersi in una lezione sul Salvator Mundi o in un seminario del Politecnico; è possibile visitare laboratori di formazione professionale, dall’ informatica alla sartoria dai modem alla fibra: tanti ma non abbastanza per provare a dare una prospettiva al tempo della detenzione; e si incontrano autentici miracoli come il call center di Rebibbia per le prenotazioni all’ospedale Bambin Gesù. Perché in attesa che da fuori qualcosa cambi, dentro migliaia di persone continuano a lavorare, provando ogni giorno a migliorare le cose. Nonostante le difficoltà e le quotidiane aggressioni soprattutto agli agenti. Ma come dimostra il “modello Bollate”, pur nelle sue contraddizioni, il carcere della Costituzione può esistere. Censimento delle celle in disuso - Nei 189 istituti per adulti è in atto un censimento delle celle in disuso recuperabili in poco tempo e si attendono gli interventi del commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, nominato a settembre su proposta dei ministri Carlo Nordio e Matteo Salvini. Parlare in modo organico di carcere significa però chiamare in causa l’intero Governo, se decidesse di farne una priorità: dal ministero della Giustizia alle Infrastrutture, da Salute al Mimit, dal Lavoro all’Università, oltre al Mef. E quanto più il mondo di fuori potrà vedere al di là della porta - aperta simbolicamente dal Papa nel carcere di Rebibbia - più comprenderà come quel pezzo di Repubblica che vive dietro le alte mura di cinta chiami in causa ciascuno di noi. E anche se forse ci crediamo assolti, siamo lo stesso tutti coinvolti. C’è un “modello cattolico” per curare i detenuti con disturbi mentali di Paolo Viana Avvenire, 29 dicembre 2024 A San Maurizio Canavese, i frati Fatebenefratelli gestiscono la Rems “Anton Martin”: in una palazzina è ospitata una comunità formata da 20 ospiti, tutti psichiatrici ad “alta pericolosità sociale”. Esistono anche piccole basiliche in cui è più difficile aggrapparsi alla speranza, ma ci si prova. Viene spontaneo ripensare alle parole di papa Francesco a Rebibbia, quando si varca la porta - blindata e allarmata - della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) Anton Martin di San Maurizio Canavese, in provincia di Torino. L’unica Rems cattolica in Piemonte, gestita dai frati Fatebenefratelli. Gli stessi del Presidio sanitario Fatebenefratelli, più noto come ospedale Beata Vergine Consolata. Una comunità di venti ospiti, circondata da recinzioni alte quanto discrete. Non è ancora chiaro se difendono chi sta fuori o chi sta dentro. I pazienti sono tutti psichiatrici ed autori di reato per i quali la magistratura ha indicato un’alta pericolosità sociale. Sovente arrivano qui, ci raccontano i sanitari e gli educatori che li assistono (una trentina), dopo aver assaggiato la quotidianità delle patrie galere, “e non è un toccasana per un malato di mente” commenta il direttore sanitario Alessandro Jaretti Sodano. Dall’esterno, questa sembra una palazzina come altre. Gli ambienti non sono quelli dell’ospedale psichiatrico giudiziario ed infatti la legge 81 del 2014 che ha istituito le Rems punta a superare il momento della custodia applicando a questi malati la logica sanitaria, quella della cura e della riabilitazione. Se non che, diversamente da Rebibbia, quando le sbarre sono nella mente, è più difficile aggrapparsi alla speranza perché il “fine pena mai” è tutt’uno con la propria vita. Eppure ci si deve provare, come si prova a guarire un tumore inoperabile. Con i farmaci, con la psicoterapia, con i lavori di gruppo e le attività educative… “Mi fa sorridere chi dice che è inutile curare una psicopatologia complessa che non si può guarire. Neanche dal diabete si guarisce ma non lasciamo morire chi ne è affetto” commenta il medico. E il direttore del presidio ospedaliero Fatebenefratelli, Dante Viotti, ricorda che la Rems non opera da sola: “Avere la Regione vicino, operare in sinergia, ci ha permesso di costruire un percorso virtuoso che comprende una Srp di primo livello forense, la comunità di secondo livello San Benedetto Menni, e la comunità alloggio di terzo livello il Melograno”. L’obiettivo è quello di “riaccompagnare a un reinserimento nella società con la giusta dignità il paziente, nel rispetto dei valori che ci ha trasmesso san Giovanni di Dio”. Che poi ci si riesca dipende dalla tipologia del disturbo mentale. In alcuni casi, dopo qualche anno, il giudice riconosce che la pericolosità si è attenuta e il paziente viene dimesso per passare in comunità o ad un alloggio. Un giovane omicida oggi è cuoco in una struttura sanitaria e vive un’esistenza normale. Molti altri possono solo aggrapparsi alla speranza di riuscirci ed in qualche caso non hanno neppure consapevolezza di poterci arrivare. “Fuori di qui c’è tanta paura per ciò che potrebbe fare un paziente che sta seguendo il nostro percorso e viene dimesso, noi invece ci preoccupiamo per chi raggiunge la piena consapevolezza del reato: “guarire” è raro e quando avviene i sensi di colpa sono schiaccianti. Il rischio suicidario va sempre tenuto in considerazione”, commenta Jaretti Sodano. Un altro luogo comune riguarda le terapie: i pazienti non sono più imbottiti di psicofarmaci, come negli opg. Esistono tecniche più sofisticate per riabilitare un malato di mente. Una realtà molto diversa dal passato, che recentemente è stata illustrata da una mostra fotografica di Max Ferrero a Pianezza. In quell’occasione, Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Piemonte, ha dichiarato che “il Piemonte ha deciso di operare in convenzione con strutture private e così facendo ha creato un modello che ha funzionato meglio che in altre Regioni, in quanto ha potuto far leva sulla competenza e sulla passione di operatori già esperti del settore che hanno messo in campo anche la disponibilità personale”. Privacy e pregiudizi: l’intelligenza artificiale in carcere è ancora un tabù di Simone Matteis Il Domani, 29 dicembre 2024 Il Consiglio d’Europa ha chiesto di usare le potenzialità dell’IA per tutelare i diritti dei detenuti. Ma gli strumenti oggi in uso in tutto il mondo sollevano ancora dubbi, mentre in Italia l’intero sistema si mostra tendenzialmente “resistente a questo tipo di innovazioni”. Sfruttare le potenzialità dell’intelligenza artificiale per migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere e tutelare i diritti dei detenuti, a cominciare dalla privacy. È questo il contenuto della Raccomandazione elaborata dal Consiglio d’Europa sui risvolti etici degli ultimi ritrovati tecnologici all’interno del sistema penitenziario. Partendo dall’assunto che “la raccolta di dati biometrici e l’uso di algoritmi da parte del sistema di giustizia penale stanno avanzando a grande velocità in Europa, acquisendo sempre più importanza in tutte le fasi e in ogni settore del sistema di giustizia penale”. Per questo, pur non avendo carattere vincolante, il Consiglio ha acceso una lampadina a livello internazionale sul tema. Il dibattito europeo sull’uso dell’IA in carcere si è sviluppato a partire dal 2019, soprattutto sulle potenzialità dei nuovi strumenti per il monitoraggio dei reati e il calcolo della recidività in termini predittivi. La ricercatrice di Antigone Rachele Stroppa ha spiegato che “l’utilizzo dell’IA in ambito penitenziario vive una tensione costante con il principio di normalità: essendo al centro del dibattito nella società libera, è giusto ragionare anche sulle sue possibili applicazioni in carcere”. La questione, però, non sta nel quanto se ne parla, piuttosto nel come: “Parlare di IA apre a una serie di rischi, discriminazioni e possibili violazioni dei diritti di chi è privato della libertà, amplificate dal carcere rispetto alla sfera della società libera. Tanto per cominciare, si potrebbe ragionare sui possibili utilizzi rispetto alla formazione professionale del personale e dei detenuti oppure in ambito medico, per potenziare i servizi di telemedicina”. I dubbi - Pur rimanendo il più delle volte un tabù, l’uso delle tecnologie in carcere ha registrato un incremento a partire dalla pandemia, con l’introduzione graduale delle videochiamate tra detenuti e familiari. Mentre in Italia la digitalizzazione all’interno degli istituti di pena è ancora in fase embrionale pur con alcuni progetti pilota, l’intero sistema si mostra tendenzialmente “resistente a questo tipo di innovazioni”, mentre in Europa gli esempi non mancano. È il caso del software RisCanvi, un algoritmo utilizzato in Catalogna per determinare il rischio di recidiva dei detenuti attraverso il calcolo di un rate a partire da un’ampia serie di informazioni. “L’uso di questo sistema può impattare direttamente sulla situazione della persona detenuta, che in base al valore di RisCanvi potrà vedersi collocata in un regime più duro o faticare per accedere a una serie di benefici”, sottolinea Stroppa. Il software elabora diverse informazioni sotto forma di dati “statici”, che non potranno cioè mai essere modificati dal soggetto a cui si riferiscono. Da qui, secondo la ricercatrice di Antigone, possono derivare problemi di natura etica: “Il fatto che una persona detenuta sia cresciuta in un ambiente marginalizzato o abbia avuto precedenti penali finisce per innescare, il più delle volte, una sorta di automatismo che implica la probabilità che questo tipo di condotte vengano replicate”. A rischio, dunque, la riabilitazione stessa dei detenuti, che invece dovrebbe rappresentare l’obiettivo finale del sistema penitenziario, ma anche la privacy all’interno del carcere. Chi ha accesso a questi dati, per quanto tempo vengono conservati e chi riguardano, oltre ai detenuti stessi? Per questo l’utilizzo dell’IA nel contesto carcerario rappresenti ancora una sfida a tratti inedita, e l’incombere di bias pregiudiziali potrebbe mettere a repentaglio, piuttosto che tutelare, la dignità e i diritti umani. L’uso all’estero - Intanto, sparsi per il mondo, non mancano esempi di hardware che sfruttano l’IA per stringere le maglie del controllo sulla popolazione carceraria, dagli Stati Uniti fino in Cina e in Corea del Sud, dove la supervisione dei detenuti è affidata a guardie robot. “Il sistema utilizzato in Catalogna è un algoritmo, ma pochi mesi fa è stata presentata la proposta di dotarsi di strumenti fisici per individuare i detenuti potenzialmente più pericolosi e analizzare così le zone più critiche negli istituti: l’idea non è andata in porto, ma la sensazione è che l’attuazione sia solo rimandata”, continua Stroppa. Che poi conclude: “Prevedere una digitalizzazione del mondo penitenziario a tutto tondo credo possa essere la chiave per accogliere un possibile utilizzo dell’intelligenza artificiale in carcere, il cui obiettivo rimane quello di ridurre la distanza tra il dentro e il fuori tutelando la dignità e favorendo il reinserimento in società delle persone”. Umbria. Detenuti psichiatrici senza strutture apposite di Giulia Bianconi rainews.it, 29 dicembre 2024 In Umbria non ci sono Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Intervista a Simona Materia, responsabile regionale dell’associazione Antigone. Un sovraffollamento che riguarda tutti gli istituti, in modo lieve solo Spoleto, e che va di pari passo alla carenza di personale. Nell’anno che sta per concludersi nelle carceri umbre è calato il numero dei suicidi, uno si è verificato a Terni, ma molti sono stati i tentativi e gli atti di autolesionismo. Situazione più complessa a Terni e a Perugia, che ospitano circa 100 detenuti in più della capienza. L’associazione Antigone compie ogni anno visite ispettive nei penitenziari. Nel carcere di Capanne il 34% dei detenuti è tossicodipendente, oltre la metà fa uso costante di sedativi e ipnotici. 19 reclusi su cento presentano patologie psichiatriche gravi. Sulla gestione di detenuti psichiatrici e sulla mancanza di una rems in Umbria, la struttura per l’esecuzione delle misure di sicurezza, era tornato a insistere il procuratore generale Sergio Sottani. Un tema su cui si è confrontato con la neo governatrice Stefania Proietti che promette: “Non resteremo ancora per molto una delle poche regioni senza una rems”. Nessun progetto ancora sul tavolo, una vaga proposta di project financing su Gualdo Tadino avuta in eredità dalla precedente amministrazione. La vera partita sarà quella del budget, elevato per la gestione di una struttura riabilitativa che ha anche precise esigenze di sicurezza, e dei numeri: sono infatti già diverse decine i detenuti potenzialmente accoglibili, una sola struttura potrebbe risolvere poco o nulla. Venezia. “Chi sbaglia ha diritto a una seconda chance, 4 detenuti su 10 qui si formano e lavorano” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 29 dicembre 2024 “Ogni persona deve avere una possibilità di riscatto”. È questa la filosofia dell’attuale direttore della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore Enrico Farina. Nato a Salerno nel 1977, Farina in un anno ha già dimostrato che si possono aprire le porte di un istituto di pena per dare una seconda chance a chi è ristretto. Farina non sta incentivando solo le opportunità di lavoro per i detenuti, ma anche quelle della loro crescita personale. Lo dimostra il percorso “Crescere protagonisti della propria libertà”, ideato per sostenere la genitorialità e realizzato in collaborazione con la cooperativa sociale Rem, Caritas e Comune di Venezia. Nell’anno con il maggior numero di suicidi e di morti in carcere e con un problema di sovraffollamento crescente che vede il Veneto al terzo posto in Italia, Farina sta concretamente facendo la differenza. Direttore, quando ha iniziato a lavorare in carcere e perché? “La mia carriera è iniziata con il desiderio di lavorare a contatto con le persone e contribuire in modo concreto al loro percorso di cambiamento. Ho iniziato come educatore, ruolo che mi ha dato l’opportunità di conoscere da vicino il funzionamento di un ambiente complesso come il carcere. Le mie prime esperienze sono state nella Casa di reclusione Sant’Angelo dei Lombardi ad Avellino con il compianto direttore Massimiliano Forgione e poi nel carcere di Eboli. Da educatore, ho lavorato per supportare i detenuti nel costruire percorsi di recupero e reinserimento, convinto che ogni individuo debba avere una possibilità di riscatto”. Quando ha deciso di diventare direttore? “È stato una naturale evoluzione che mi ha permesso di incidere direttamente sulla gestione complessiva del carcere. Questo incarico mi consente di creare un ambiente in cui sicurezza e trattamento si integrano, favorendo non solo l’ordine, ma anche il cambiamento. Dirigere un istituto penitenziario significa cercare continuamente di trovare un equilibrio tra disciplina e opportunità di crescita, affrontando ogni giorno nuove sfide con l’obiettivo di migliorare la struttura e il percorso dei detenuti”. Come ha trovato il carcere di Venezia quando è arrivato? “Come molte strutture italiane, affrontava le sfide del sovraffollamento e offriva ai detenuti opportunità lavorative limitate. Al contempo, ho riscontrato un corpo di polizia penitenziaria e un gruppo di educatori motivati, con un forte senso del dovere e attenzione al benessere delle persone detenute. Questo contesto mi ha permesso di lavorare fin da subito per valorizzare le risorse esistenti e avviare nuove collaborazioni esterne, costruendo reti di supporto e progetti di reinserimento che rientrano a pieno titolo tra le best practice dell’amministrazione penitenziaria”. Quanti sono i detenuti attualmente e che misure avete adottato? “Ospitiamo 262 detenuti in un carcere con 159 posti. Quest’anno abbiamo affrontato momenti difficili che hanno profondamente segnato tutti noi. Ogni perdita rappresenta una ferita, non solo per l’istituzione penitenziaria, ma per l’intera comunità. Grazie alle risorse stanziate a livello centrale, abbiamo potenziato il servizio offerto dagli psicologi e, grazie alla direzione sanitaria penitenziaria, possiamo contare su una psichiatra a tempo pieno. Abbiamo reagito rafforzando i rapporti con il mondo esterno, per offrire ai detenuti una luce di speranza verso un futuro di reinserimento sociale e lavorativo. Inoltre, stiamo investendo nei percorsi formativi di aiuto reciproco tra detenuti”. Come si sono ampliate le possibilità lavorative? “Grazie a numerose collaborazioni con cooperative sociali e aziende del territorio e a protocolli d’intesa con l’associazione albergatori, l’associazione esercenti e Seconda Chance, e alla preziosa collaborazione con Veneto Lavoro che si occupa della profilazione dei detenuti in base alle loro competenze professionali, facilitando il loro inserimento nel mercato del lavoro esterno. Oggi, circa il 40% della popolazione detenuta è coinvolto in attività lavorative, interne o esterne. Tra le più rilevanti ci sono la serigrafia, la pelletteria artigianale e il servizio Cup, di recente attivazione, che impiega sei detenuti e due operatori esterni”. Come ha risposto il mondo delle imprese? “Già tredici aziende hanno richiesto di assumere detenuti, sfruttando i vantaggi della Legge Smuraglia che riduce significativamente il costo del lavoro. Questi risultati dimostrano come il carcere possa diventare un’opportunità di riscatto e integrazione sociale, un modello da replicare”. Che progetti avete per il prossimo anno? “Nel 2025 vogliamo ampliare i progetti di inserimento lavorativo, rafforzare i percorsi di pubblica utilità a favore della collettività e proseguire con i programmi di sostegno alla genitorialità. Quanto è importante l’aspetto affettivo per un detenuto? “I detenuti che mantengono rapporti solidi con le famiglie, in particolare con i figli, hanno maggiori possibilità di reintegrarsi positivamente nella società. Per questo organizziamo incontri e laboratori dove i detenuti, sotto la guida di educatori e psicologi, imparano a gestire il proprio ruolo di genitori. Si tratta di aiutarli a scrivere lettere, leggere fiabe o partecipare a momenti educativi che rafforzino il rapporto con i figli. Spesso, la detenzione separa in modo drastico e traumatico, e questo può avere effetti devastanti, non solo sui detenuti ma anche sui bambini”. Nel suo nuovo approccio quanto conta la sua esperienza di educatore? “Sicuramente è un elemento importante. Credo che il carcere non debba limitarsi alla custodia, ma possa diventare un luogo in cui si lavora sulle persone, cercando di offrire loro opportunità di crescita. Oltre alla laurea in giurisprudenza, mi sono laureato in psicologia, che mi aiuta a comprendere meglio le persone, e in scienze della pubblica amministrazione, che mi ha dato gli strumenti per affrontare le sfide organizzative con maggiore consapevolezza. Sono convinto che, con i giusti percorsi, la detenzione possa diventare un’occasione di cambiamento. Il mio obiettivo è fare il possibile per creare opportunità di reinserimento che possano aiutare chi esce dal carcere a guardare al futuro con più fiducia. L’ascolto e la valorizzazione delle persone sono alla base di molte delle iniziative che portiamo avanti”. Che cosa spera per Santa Maria Maggiore? “Il mio sogno è che diventi un modello di carcere orientato alla formazione e al lavoro, dove i detenuti possano acquisire competenze utili per il reinserimento nella società. Vorrei vedere un istituto che offre opportunità concrete di crescita personale e professionale. Immagino un carcere che dialoga con il territorio veneziano, coinvolgendo scuole, università e imprese, così da creare progetti che favoriscano il reinserimento lavorativo una volta scontata la pena. Credo che investire nella formazione e nel lavoro all’interno del carcere sia il modo più efficace per ridurre la recidiva e contribuire alla sicurezza collettiva. Santa Maria Maggiore potrebbe diventare un punto di riferimento per l’innovazione nell’amministrazione penitenziaria, un luogo dove la detenzione non è solo privazione di libertà, ma un’occasione per ricostruire una prospettiva di vita diversa”. Qual è la ricaduta sociale di un carcere che funziona? “Un carcere che funziona non è solo un luogo di detenzione, ma un ponte verso la società. Quando i detenuti escono con competenze nuove, con una visione diversa della vita, la società nel suo complesso ne beneficia. Si riducono i reati, si abbassano i costi sociali legati alla criminalità e si favorisce un clima di sicurezza. Inoltre, i detenuti che hanno svolto attività lavorative o di volontariato durante la detenzione tornano in libertà con una mentalità diversa, contribuendo al tessuto sociale in modo positivo”. Bergamo. Camera penale e Nessuno tocchi Caino in visita al carcere: “Degrado strutturale” di Luca Bonzanni Corriere della Sera, 29 dicembre 2024 I detenuti sono 586, a fronte di 319 posti: “È necessario incentivare le pene alternative”. Il sovraffollamento cronico con 586 detenuti a fronte di 319 posti regolamentari (tasso di affollamento del 184%), una diffusa condizione di disagio (tra il 40 e il 45% dei detenuti soffre di disagio mentale o di dipendenze) e le carenze di personale (in primis della polizia penitenziaria, con un organico sottodimensionato del 30%). È la situazione fotografata dall’associazione Nessuno tocchi Caino e dalla Camera penale di Bergamo, che nella mattinata di sabato 28 dicembre hanno fatto visita al carcere di Bergamo. “Nel carcere troviamo sempre più quelle situazioni che la società non vuole affrontare: la dipendenza, il disagio mentale, l’immigrazione - ha commentato Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino. Da parte della direzione e della polizia penitenziaria c’è buona volontà, ma si sconta una situazione di degrado strutturale, in linea con la media nazionale”. Per l’avvocato Federico Perelli, rappresentante della Camera penale di Bergamo, “è necessario incentivare le misure alternative: molti detenuti potrebbero accedervi, ma vi sono tempi lunghi o situazioni di fragilità che impediscono si arrivi a queste soluzioni”. Forlì. Marcia della Pace, si parte dentro il carcere: “È un segno di speranza” di Pietro Pace Il Resto del Carlino, 29 dicembre 2024 Il 1° gennaio dalle 15.30 alle 17.30: insieme al vescovo Livio Corazza un momento di preghiera all’avvio e poi la messa all’arrivo in Duomo. Mercoledì 1° gennaio si terrà la tradizionale Marcia della Pace, in concomitanza con la giornata mondiale. Quest’anno, a Forlì, l’evento si distingue per alcune importanti novità, tra cui la partenza dal carcere e il legame con il Giubileo, per un profondo cammino di riflessione, speranza e integrazione. Quest’anno la Marcia pone l’accento su temi cruciali: la remissione del debito personale e dei Paesi poveri; il rispetto per la vita umana; l’eliminazione della pena di morte e l’educazione come pilastro e strumento di pace e sviluppo. “Il carcere va considerato come una porta di speranza - ha detto il vescovo Livio Corazza, invitando a un maggiore impegno verso le persone detenute e le loro necessità spirituali e materiali -. Partire dal carcere significa mettere al centro chi vive in situazioni difficili, per costruire un cammino di fiducia e integrazione”. Il carcere, percepito come luogo di punizione, sarà reinterpretato come spazio di redenzione, speranza e cammino verso una nuova vita. Per questo, il percorso della marcia comprenderà un’entrata simbolica nel carcere. Quattro detenuti - autorizzati e accompagnati - parteciperanno all’evento, un gesto che testimonia il desiderio di inclusione e dialogo. Don Enzo Zannoni, da 11 anni cappellano della casa circondariale di via della Rocca (nella foto, a destra, con il vescovo Corazza), ha evidenziato le difficoltà logistiche legate all’organizzazione in un contesto complesso come il carcere, ma ha espresso grande soddisfazione per la partecipazione e il coinvolgimento dei detenuti. “Molti di loro si sono avvicinati alla fede attraverso momenti di ascolto e condivisione”. Luciano Ravaioli, direttore dell’ufficio diocesano per la pastorale sociale e del lavoro, ha illustrato l’itinerario: il vescovo presiederà un momento di preghiera nella cappella del carcere alle 15; poi, i delegati del carcere incontreranno i partecipanti alla marcia per condividere un messaggio di speranza e fiducia. Il percorso farà tappa presso il Municipio, dove il messaggio del Papa verrà consegnato al sindaco Gian Luca Zattini. Infine, davanti alla Prefettura, il prefetto di Forlì-Cesena Rinaldo Argentieri consegnerà un documento del Ministero degli Interni per farlo firmare dalle diverse comunità religiose del territorio, un gesto simbolico per sottolineare l’importanza del dialogo. La giornata si concluderà con l’ingresso in Cattedrale, dove Corazza celebrerà la messa alle 17.30. Matteo Camorani, vicedirettore della Caritas di Forlì-Bertinoro, ha descritto l’operato della Caritas in tema di riduzione del debito e sostegno alle famiglie in difficoltà. “Tra le iniziative, il Fondo di Solidarietà, attivo dal 2009, e il Microcredito Sociale, introdotto dopo l’alluvione, strumenti concreti per aiutare persone e nuclei familiari. Inoltre, l’Emporio della Solidarietà, un supermercato basato su un sistema di crediti, che assiste oltre 600 famiglie, garantendo supporto a 2500 beneficiari, di cui 800 minori”. La Marcia della Pace non è solo un momento di preghiera, ma anche un richiamo all’azione e alla consapevolezza verso le problematiche sociali. Attraverso la collaborazione tra istituzioni civili e religiose, e il coinvolgimento di cittadini, si vuole promuovere un cammino condiviso verso una società più giusta e solidale. Nel segno della speranza e dell’impegno comune. Napoli. Pranzo in carcere, il cardinale Battaglia: nessuno è irrecuperabile Giuliana Covella Il Mattino, 29 dicembre 2024 Detenuti, a tavola con De Martino Secondigliano. Ha ballato, riso e mangiato con loro in un clima di festosità e gioia, come fossero stati vecchi amici. In tuta e scarpe da ginnastica Stefano De Martino è entrato in punta di piedi nel Centro penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano, in occasione del pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. “Nessuno di noi si deve sentire escluso”, le parole di vicinanza che ha rivolto agli 82 detenuti seduti a tavola con lui, con l’arcivescovo don Mimmo Battaglia e col referente della Comunità di Sant’Egidio Antonio Mattone Tra i partecipanti i reclusi più poveri, quelli che non fanno colloqui, perché ormai privi di legami familiari e molti stranieri. Aggiunti inoltre due tavoli per le donne provenienti dal carcere femminile di Pozzuoli, sgomberato per lo sciame sismico nei mesi scorsi. Tra gli invitati il sindaco Gaetano Manfredi, il procuratore generale Aldo Policastro, la presidente della Corte di Appello Maria Rosaria Covelli, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Campania Lucia Castellano, il presidente del Tribunale di Napoli Elisabetta Garzo, il presidente del Tribunale di sorveglianza Patrizia Mirra, la garante nazionale dei detenuti Irma Conti e il garante regionale Samuele Ciambriello, l’assessore regionale al lavoro Antonio Marchiello, il presidente dell’Unione Industriali Costanzo Jannotti Pecci. Come il “Convivio” di Dante simboleggiava il “banchetto” del sapere e della conoscenza, così il pranzo al carcere di Secondigliano ha rappresentato la convivialità umana, arricchendo l’animo di ciascun commensale. Un pranzo (“il settimo - ricorda Mattone - e arriveremo a nove coinvolgendo 700 detenuti e 300 volontari”) che ha richiamato l’apertura - avvenuta pochi giorni prima - della Porta Santa a Rebibbia da parte di Papa Francesco. “Una ulteriore dimostrazione dell’attenzione della Chiesa verso il mondo dei detenuti”, sottolinea il referente di Sant’Egidio, che ha improvvisato insieme a De Martino uno sketch ispirato ad “Affari tuoi”, la trasmissione condotta dallo showman su Rai 1. Tanta commozione durante l’evento, specie quando l’ex ballerino di Torre Annunziata ha incontrato un detenuto che all’epoca abitava nel suo palazzo. “Un momento condiviso di allegria, convivialità e riflessione ha detto la direttrice Giulia Russo - sull’errore, sulla capacità di crescita come ha dimostrato la presenza di una rete prestigiosa fatta da istituzioni, Chiesa, vertici della magistratura e imprenditoria. Un pranzo che ha incarnato la nostra mission verso la politica di quelle che io chiamo le tre “r”: rieducazione, risocializzazione, riabilitazione. Oggi ospitiamo 1.485 detenuti, di cui 91 donne evacuate da Pozzuoli, ai quali offriamo una formazione “performante” ossia di qualità che va dalle attività tradizionali ai corsi professionalizzanti per le nuove figure che il mercato richiede”. Ha sottolineato che “bisogna partire da un principio: nessuno è irrecuperabile”. Così il cardinale Battaglia ha salutato i detenuti di Secondigliano convenuti al pranzo di Natale. “Spesso mi capita di dire che vivere non è altro che l’infinita pazienza di ricominciare - ha detto l’arcivescovo di Napoli - e celebrare qui la speranza significa soprattutto credere che per tutti c’è una possibilità e che la vita di una persona non coincide mai con i suoi sbagli e i suoi errori. La vita è sempre più grande”, ha concluso. Un Natale dunque per non dimenticare chi vive recluso, per dire che è possibile cambiare e rimettere in gioco la propria vita e stare vicino a chi vive in un momento di difficoltà, può accendere sempre una luce di speranza. “Sulla scia del messaggio del Papa possiamo dire che questo è un pranzo di speranza - ha detto Mattone non solo per i detenuti ma per tutta la società esterna, da cui il carcere è visto sempre come un mondo da cui non si può cavare niente. Dobbiamo invece accompagnare queste persone in percorsi umani e lavorativi e aiutarle a ritrovarsi e ad avere fiducia in loro stesse”. Al termine del banchetto è arrivato poi un Babbo Natale in slitta, che ha distribuito doni a tutti i reclusi con pacchetti di caffè e prodotti per la cura del corpo. Donne e violenza economica, serve un reddito di libertà Federica Pennelli Il Domani, 29 dicembre 2024 È tra le più subdole e meno note forme di abusi. La ricerca: “Una su due ha dichiarato di esserne stata vittima”. Private della gestione quotidiana del denaro. Il sostegno economico può salvarle, ma le risorse sono poche. Sara ha 42 anni e lavora in banca. Quando le chiediamo che tipo di rapporto ci sia tra le donne che attraversano la sua filiale e la libera gestione del denaro, risponde: “Si può pensare che tutte le donne gestiscano a pieno il loro denaro, ma non è così: allo sportello vedo anche donne senza conto corrente o accompagnate dai mariti per le operazioni, donne che mi chiedono in modo timoroso come funzioni l’apertura di un conto e anche donne che, quando vengono da noi, raccolgono tutti gli scontrini delle spese nel portafoglio perché devono consegnarli al marito”. Il tema della libera gestione delle finanze da parte delle donne, dunque, non è scontato e può sfociare in controllo, sfruttamento e sabotaggio economico, come dimostrano i dati: in Italia, secondo una ricerca Ipsos, almeno una donna su due è vittima di violenza economica. Il 49 per cento delle donne intervistate ha dichiarato di averne subito nella vita almeno un episodio, il 67 per cento dei casi riguarda donne separate o divorziate e una donna su dieci ha ammesso che il proprio partner le ha negato la possibilità di lavorare, peggiorando la situazione economica. La violenza economica - Carlotta Romagnoli è psicologa, psicoterapeuta e operatrice del centro antiviolenza “Sonia”, della rete dei Centri antiviolenza Iside di Venezia. A Domani racconta come il tema della violenza economica sia centrale nel loro lavoro: “È una delle tante forme di violenza che le donne ci raccontano. Nel 2019 abbiamo collaborato a un progetto finanziato dalle Pari opportunità che ha voluto indagare, con 245 donne che si sono rivolte ai centri, il fenomeno e la sua consapevolezza”. Più del 70 per cento delle donne “aveva dichiarato di aver subito violenza economica e, nel restante 30 per cento dei casi, le donne avevano scoperto attraverso alcune domande di controllo che, seppur non immediatamente consce della violenza, l’avevano subita in forme di controllo del denaro o di indebitamento per oggetti che sarebbero rimasti all’uomo”. Ci sono due tipi di violenza economica, quella di tipo privativo e quella di tipo coercitivo: la prima ha a che vedere con il non erogare denaro per spesa o farmaci, basato prettamente sul controllo: non ti permetto di andare a fare la spesa da sola, non ti erogo il mantenimento dei figli in caso di divorzio o ti obbligo a vedermi per fornirtelo. La violenza coercitiva, invece, è legata all’obbligo che viene imposto alle donne su cose specifiche: firmare assegni in bianco, intestare alla donna tutti i finanziamenti, sottoscrivere contratti di cui non si ha consapevolezza. Romagnoli spiega a Domani che spesso le donne non riconoscono nell’immediato questo tipo di violenza, perché “la gestione del denaro è permeata di costrutti patriarcali, è una cultura molto difficile da sradicare. Spesso queste donne non si concedono nemmeno di sapere quale sia lo stato patrimoniale del nucleo familiare, sovente abbandonano il lavoro dopo che diventano madri e il partner non collabora nella conciliazione del tempo di lavoro e di vita delle donne”. Tutto questo crea una dipendenza economica. Storie dai Centri antiviolenza - La violenza economica non viaggia mai da sola, come tutte le forme di violenza maschile sulle donne “si struttura correlata alla violenza psicologica”, dichiara Romagnoli, ed “è un atto di costrizione che nasce da un substrato di violenza psicologica che poi diventare anche violenza economica”. Nei centri arrivano donne che, dopo la separazione, “si accorgono che il partner aveva svuotato il conto condiviso. Tante storie riguardano anche il mantenimento dei figli: ex mariti o partner che negano l’assegno di mantenimento o le ricattano, dicendo loro che per averlo devono per forza vedersi. Tutte queste cose impediscono alle donne di ricostruirsi una vita autonoma e indipendente”. Le donne spesso riportano che l’uomo maltrattante impediva loro anche la minima gestione del denaro, a partire dal non avere un conto corrente: “Arrivano da noi dicendo: “Io non ho nulla”. Casa e automobile sono intestate al marito, non hanno conto corrente o se lo hanno è cointestato, ma senza l’autorizzazione al prelievo di contanti, come anche l’uso del bancomat”. Le donne hanno spesso timore delle reazioni di controllo e potere del partner e, nel tempo, “questo si incardina nella relazione: il partner può decidere a che ora la donna debba rincasare, cosa sia autorizzata o meno a comprare”; dunque a controllare ogni aspetto della sua vita e del suo tempo. Romagnoli spiega che ciò ha esiti pesanti anche sul lavoro stesso delle donne: “Il partner maltrattante si presentava sul posto di lavoro per controllarle o le chiamava insistentemente, arrivando a farle licenziare”. I Centri antiviolenza, però, lavorano anche nei contesti in cui la relazione non si interrompe: “Ho lavorato con una signora anziana che aveva una pensione che girava interamente nel conto condiviso con il marito. Ad un certo punto lei ha detto basta. L’abbiamo accompagnata ad aprire un conto corrente e per la prima volta ha usato un bancomat. Da tempo frequentava il nostro centro, e dopo un percorso si è sentita più forte ed è riuscita ad agire in questo senso, un primo passo per costruire qualcosa di differente”. Reddito di libertà - Senza reddito, dunque, non può esserci libertà e fuoriuscita dalla violenza. Nonostante ciò, come già denunciato da Domani, i fondi per il reddito di libertà sono insufficienti e tardano ad arrivare. La conferma nelle difficoltà inerenti all’erogazione del reddito di libertà arriva dal lavoro dei centri antiviolenza, come spiega Romagnoli: “Appena è uscita la misura avevo fatto fare domanda a cinque donne e ne hanno accettate solo due. Di fatto, ci sono un sacco di domande inevase”. C’è poi il dato legato alla scarsità dello stanziamento rispetto alla ripartizione regionale: “Erano pochissime le domande ammissibili e i fondi si esaurivano immediatamente”. Il tutto è legato anche alle macchinose modalità di richiesta: “Le donne dovrebbero farsi fare, dai servizi sociali, una certificazione di bisogno economico, però non sempre se la sentono di andare dai servizi a raccontare la loro storia”. In aggiunta, alcuni Comuni hanno richiesto l’Isee per poter erogare il reddito: “Ma se la donna risultava essere ancora residente con il partner, aveva un Isee troppo alto per poterlo richiedere”. La legge di bilancio 2024, inoltre, ha stabilito l’esonero dei contributi previdenziali per i datori di lavoro privati che, nel triennio 2024-2026, assumono donne disoccupate vittime di violenza, beneficiarie del reddito di libertà. Ma, come ricorda Romagnoli, “pochissime possono accedere al reddito di libertà, di conseguenza questa misura è uno specchietto per le allodole”. Ancora una volta, dunque, ci si trova a ribadire come il reddito di libertà sia una risorsa con fondi insufficienti e con una cifra erogabile, portata ora da 400 a 500 euro al mese per soli 12 mesi, troppo esigua per poter realizzare una vita libera e autonoma. Migranti. Open Arms: la verità dei fatti e la verità del processo di Mauro Palma Il Manifesto, 29 dicembre 2024 I rischi della delega al giudiziario: riflessioni dopo l’assoluzione di Salvini a Palermo. Quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico sociale e sul piano politico. Sarà interessante leggere nelle motivazioni come il Tribunale ha valutato gli aspetti da me segnalati come Garante nazionale all’allora presidente del Consiglio. Anche troppo semplice esaminare l’esito della vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’ex ministro degli interni Matteo Salvini e che si è conclusa con il “fatto non sussiste”, pronunciato dal Tribunale di Palermo. Semplice, perché è un chiaro esempio della difficile interconnessione di tre aspetti: la rilevanza penale di fatti, accadimenti e comportamenti; la loro dimensione etico-sociale con la relativa responsabilità, diversa da quella penale ma anche più sostanziale per chi ha una funzione pubblica; lo spazio proprio dell’agire politico, mai delegabile ad altri ambiti d’intervento. Tutti e tre questi aspetti sono interrogati da quel pronunciamento. Si può procedere per gradi: innanzitutto partendo dal significato della dichiarata insussistenza del fatto. Pur tenendo, ovviamente, saldo il principio della doverosa accettazione delle sentenze, va, infatti, chiarito che non esiste identità o sovrapposizione tra il fatto così come configurato nell’attribuzione di una fattispecie penale e il fatto in sé. Al tribunale spetta affermare la sussistenza o meno del fatto come penalmente configurato e non certo il giudizio sull’effettività storicamente determinata di ciò che è avvenuto. Il fatto in sé nel caso della vicenda della nave Open Arms è che la nave è stata trattenuta per diciotto giorni senza indicazione del place of safety (in acronimo Pos) cioè porto sicuro; che questo deve essere, anche in base alla sua previsione sul piano logico, un luogo dove potesse ritenersi conclusa l’operazione di salvataggio; che l’indicazione di rivolgersi ad autorità di altri Paesi è una rinuncia all’esercizio della propria responsabilità rispetto a navi che hanno a bordo persone raccolte in mare, che hanno sofferto la vicenda di una difficile navigazione. Molto spesso persone con già proprie fragilità e tutte con la fragilità intrinseca alla vicenda stessa del cercare un “altrove” diverso per l’impossibilità di continuare a vivere nel proprio alveo. Questo è il fatto. Confermato da rapporti, prese di posizione, testimonianze di persone salite a bordo e perfino dalla consapevolezza stessa delle autorità italiane che peraltro hanno provveduto a far scendere, dopo un buon lasso di tempo, le persone più vulnerabili per malattia o per età, proprio a seguito dello stallo che si era venuto a determinare. Che la situazione fosse insostenibile è del resto testimoniato anche dall’esito di quei giorni, dopo la visita a bordo del procuratore di Agrigento che ha ordinato lo sbarco immediato. Il fatto penalmente configurato è invece che tale situazione si inserisca nelle previsioni penali del sequestro di persona e del rifiuto d’atti di ufficio. Questo “fatto” per il Tribunale di Palermo non sussiste - e leggeremo le motivazioni che hanno portato a tale decisione - mentre certamente sussiste il fatto in sé così come si è determinato in quei giorni di agosto. Del resto, la non sussistenza del fatto penalmente configurato si è giocata attorno alla connotazione dell’agire dell’allora ministro dell’interno quale atto amministrativo, da cui far discendere la responsabilità della non concessione del porto a una nave carica di naufraghi, o quale atto politico che rinvia alla responsabilità collettiva dell’esecutivo sulla base di decisioni non direttamente sindacabili sul piano penale. Restano di sfondo alcune considerazioni circa la distorsione interpretativa di obblighi internazionali allora operate dai responsabili del fermo rifiuto. Obblighi che vanno dalla valutazione di “non inoffensività” (da notare la doppia negazione) rispetto a una nave che aveva prestato soccorso in adempimento di norme del diritto del mare, alla sottovalutazione della possibile violazione dell’inderogabile divieto di trattamenti inumani o degradanti (e tali si andavano configurando) nonché alla pretesa di considerare “sicuro” il luogo di permanenza sulla nave ove peraltro era impossibile esercitare il diritto alla ricerca di protezione internazionale, non essendo state ancora identificate le persone soccorse. Sarà interessante leggere come questi aspetti - segnalati allora anche direttamente al Presidente del Consiglio da me, quale Garante nazionale - siano stati considerati dal Tribunale nella delineazione della conclusiva verità processuale. Perché quest’ultima è l’esito naturale di un processo e non va mai confusa con una verità sostanziale e le due verità non vanno confuse. La verità di una sentenza, infatti, è un enunciato che però vuole esprimere un elemento fattuale: quindi, si fonda sul rapporto tra un atto sostanzialmente linguistico e un atto extra-linguistico, oggetto del giudizio. L’unica modalità per esprimerlo è di tipo inferenziale, deduttivo, ricavandolo cioè da prove e testimonianze connesse in una rete, appunto, di successive deduzioni. Questa linea di inferenza logica connette, tuttavia, qualcosa che è avvenuto nel passato - e come tale densa della situazione contingente, della sua emotività, del suo vissuto - ad affermazioni nel presente che, pur volendo astrarsi da suggestioni contingenti restano svincolate da ciò che il fatto esprimeva. Questo non limita certamente l’importanza fondamentale della verità giuridica che l’enunciato della sentenza afferma, ma lo rende distante dalla verità sostanziale di ciò che fu e apre lo spazio per altre valutazioni più collegate alla materialità dell’evento. Si apre lo spazio della valutazione etica di chi ha agito in quel contesto. La dimensione dell’etica sociale che dovrebbe guidare le azioni e i comportamenti di chi ha responsabilità pubblica interroga allora la funzione della politica, nella sua dimensione evolutiva del sentire comune e non, come avviene attualmente, nell’inseguimento preventivo del consenso, così consolidandolo. La politica non è riassumibile nella dualità, troppo spesso ricordata, che Rino Formica formulò a suo tempo, né nella gestione entro i margini di un presunto “possibile” inteso come limite dell’azione. Risiede invece nella capacità di praticare terreni non di immediato consenso né sottoponibili preventivamente al consenso stesso bensì basati su valori e diritti fondanti una data comunità - e riassunti nel nostro Paese nella Carta costituzionale - estendendoli alla massima applicazione possibile. Solo così la politica è maieutica e assolve alla sua funzione costruttiva di futuro. Molte delle riforme che hanno caratterizzato un passato non troppo lontano anche del nostro Paese hanno avuto questa connotazione: penso alla riforma sanitaria, alla riforma dell’attenzione psichiatrica, all’abolizione delle classi differenziali, alla stessa riforma penitenziaria. Nessuna sarebbe stata adottata soltanto sulla spinta di un presumibile consenso; sono state invece tappe per la costruzione di un consenso più avanzato. Così hanno avuto la dimensione di affermazione di etica sociale. Per questo non soltanto quanto avvenuto per responsabilità dell’allora ministro dell’interno ha una valutazione definitiva negativa sul piano etico-sociale, ma anche sul piano politico - proprio quel terreno che la sua difesa in processo ha considerato come elemento risolvente sul piano giudiziario - perché fortemente regressiva e divisiva. La giustizia assolve, ma la coscienza collettiva non subalterna esprime la sua condanna. Non penale: al contrario, indicativa di quanto questi atteggiamenti e queste azioni siano da contrastare e sconfiggere sul piano della capacità di contrasto politico, senza alcuna delega a quello giudiziario, che ha altre priorità, altre dinamiche e giunge ad altre conclusioni. Migranti. La sentenza sul caso Open Arms: un amaro spartiacque di Luigi Patronaggio* Avvenire, 29 dicembre 2024 Il procuratore di Cagliari: chiudere i porti a dei disperati che fuggono da guerre, carestie e malnutrizioni non ha nulla a che fare con una seria lotta ai trafficanti di esseri umani. Lungi dal commentare una sentenza le cui motivazioni non sono state ancora depositate e nella quasi certezza che le motivazioni della stessa saranno sorrette, sia in punto di fatto che in diritto, da una loro intrinseca ed inappuntabile coerenza, ciò che mi spinge a scrivere queste righe - non senza esitazioni e nella piena consapevolezza di espormi a critiche e censure - è l’amara constatazione che il contrasto all’immigrazione clandestina a partire dal 20 dicembre scorso non sarà più lo stesso. Non sarà più quello che, pur nella severità dei controlli dovuti per la sicurezza nazionale, ha contraddistinto l’Italia come un Paese di accoglienza rispettoso del diritto delle genti e del mare, dei trattati internazionali e della Costituzione repubblicana. Va ricordato, infatti, che la Costituzione, memore di essere stata l’Italia una terra di migranti e di perseguitati politici, afferma in modo netto il diritto di asilo e riconosce, come ripetutamente affermato dal Giudice delle Leggi, in determinate situazioni, la protezione umanitaria internazionale. Questa amara considerazione non ha nulla a che vedere con le ragioni giuridiche che hanno spinto i giudici di Palermo, al termine di un processo che nonostante il clamore mediatico è stato celebrato secondo le regole del giusto processo e nel pieno rispetto dei diritti e delle prerogative dell’imputato, ad assolvere l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma si fonda sull’uso distorto e propagandistico che di tale sentenza da più parti si sta operando. La Corte costituzionale e la Corte di cassazione, in conformità alle pronunzie della Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno più volte affermato che il contrasto all’immigrazione clandestina non possa prescindere dal rispetto degli human rights, dei fondamentali diritti alla vita e alla salute, dal riconoscimento del diritto alla presentazione ed un serio esame di una istanza di asilo o di protezione umanitaria internazionale. Gli stessi giudici hanno affermato che il rispetto dei trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia sul dovere di salvataggio in mare, prevale sulle indicazioni amministrative di contenimento dell’immigrazione clandestina. E ancora, più volte, è stato autorevolmente sentenziato che “porto sicuro” per i migranti che provengono dal mare non è un semplice posto dove essere messi in salvo, ma il luogo più vicino al punto di salvataggio dove gli stessi possono avere riconosciuti i loro diritti fondamentali, articolando con una valida assistenza legale le loro istanze di protezione internazionale e di asilo. L’amarezza nasce invece dalla vulgata secondo cui, d’ora in poi, per difendere i confini nazionali sarebbe legittimo imporre fantasiosi quanto impraticabili blocchi navali, ordinare alle navi delle Ong di percorrere, dopo pericolosi e sfiancanti salvataggi in mare, migliaia di miglia nautiche per raggiungere un porto sicuro scelto dall’autorità nazionale secondo estroversi disegni elettoralistici del momento, negare ai migranti il diritto alla corrispondenza telefonica con i loro cari, imporre loro pesanti cauzioni in denaro, ritenere aprioristicamente senza una valida istruttoria, assistita e in contraddittorio fra le parti, che si provenga da un Paese ritenuto, con una sorta di presunzione iuris et de iure, “sicuro”, chiudendo loro le porte del Paese che pure riconosce un ampio diritto di asilo a chi fugge da persecuzioni, discriminazioni politiche, sociali, religiose, razziali o sessuali. Queste mie amarezze non sono frutto della fantasia di un giurista di parte, che per sgombrare il campo non appartiene ad alcuna corrente o congrega, ma si fondano su diverse e ripetute sentenze della Corte costituzionale e della Corte di cassazione e sulle stesse prudenti parole del Presidente della Repubblica. Potrei in questa sede citare sentenze e numeri di repertorio ma a nulla varrebbe a fronte della forza mediatica del dispositivo di assoluzione della sentenza di Palermo. Nel piatto di questa mia amarezza si potrebbe aggiungere che il fenomeno migratorio in Italia è in decrescita, non ha la virulenza di altri Paesi dell’Unione Europea e che, dati alla mano, non costituisce l’unico problema d’ordine pubblico del nostro Paese. Un Paese, l’Italia, che a parte le complesse problematiche delle periferie delle grandi città metropolitane, riesce ad assorbire i flussi migratori, a impiegare preziosa mano d’opera in settori produttivi poco appetibili ai sempre numericamente inferiori cittadini italiani e che ha bisogno dei contributi previdenziali dei lavoratori stranieri per garantire le pensioni alla popolazione nazionale che invecchia sempre più velocemente. Una concreta politica sociale e di integrazione, peraltro, sarebbe in grado di contenere i riflessi negativi di una immigrazione irregolare molto più efficacemente dei denari spesi per le c.d. esternalizzazioni (leggasi trasferimento coatto dei migranti verso Paesi terzi) che non solo i giudici italiani ed europei hanno ritenuto illegittime ma che perfino la Supreme Court inglese ha ritenuto illegittima richiamandosi al principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra e dalla Corte europea dei diritti umani. Mi rendo conto, peraltro, quanto impopolari siano queste mie osservazioni, che hanno la forza del diritto e, mi sia permesso, anche la forza dell’etica politica, in un mondo che sempre più spesso usa un linguaggio violento che riprende temi che ritenevamo la storia avesse cancellato per sempre. In un Occidente democratico, che ha posto le sue aspettative di pace post-belliche sulla Convenzione dei Diritti dell’Uomo e sulle altre Carte sovranazionali, sentire il più importante degli uomini politici statunitensi parlare impunemente di volere porre in essere “la più grande deportazione di massa” mette i brividi e ci riporta alla mente le composte file di ebrei, di oppositori politici, di zingari, di omossessuali, o soltanto di soggetti ritenuti diversi, avviati verso i campi di concentramento nazisti o verso i gulag sovietici. Così come il giurista, già esperto di criminalità transnazionale, non può non sobbalzare quando, come in un volgare gioco di carte napoletane, si mischiano i temi del contenimento dell’immigrazione clandestina con quelli della lotta ai trafficanti di esseri umani. Sia ben chiaro, infatti, che chiudere i porti a dei disperati che fuggono da guerre, carestie e malnutrizioni non ha nulla a che fare con una seria lotta ai trafficanti di esseri umani. I grandi criminali internazionali di essere umani non sono gli scafisti occasionali che ci vantiamo di arrestare nei “mattinali” delle Questure costiere, ma sono potenti delinquenti, spesso protetti da governi e milizie di oltremare, che operano con metodi violenti e spregiudicati. Sono criminali che muovono grandi rimesse di denaro, che corrompono autorità nazionali, che hanno reti di protezione internazionali e che non hanno nessuna remora a ricorrere a torture, stupri sistematici ed omicidi di massa ove ce ne fosse bisogno. Eppure, su questo fronte non ho contezza di indagini internazionali, di rogatorie internazionali, di iniziative di Procure e Tribunali Internazionali e meno che mai mi sembra che siano state emanate leggi o direttive volte a rescindere accordi e intese con autorità estere impresentabili o, di contro, a promuovere accordi credibili ed autorevoli in tema di investigazioni comuni. Di tutto questo avevo necessità di scrivere perché odio gli indifferenti e i mistificatori e perché, cosa più importante, continuo a credere nella forza del diritto sul diritto alla forza. *Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Cagliari, già procuratore della Repubblica di Agrigento Migranti. Suicidi e traumi sottovalutati dopo i naufragi, il lato oscuro della Guardia costiera di Antonia Ferri e Arianna Egle Ventre Il Domani, 29 dicembre 2024 Nel 2023 i militari che si sono tolti la vita sono stati quattro. In calo chi si rivolge allo psicologo interno: si teme per la propria carriera. Le testimonianze di un gruppo di ufficiali e il tormento dopo i salvataggi dei migranti. E la storia di Cinzia Conti che ha lasciato il corpo. Il 10 agosto 2023 il sole batte sullo scafo rovente del pattugliatore CP 940 mentre naviga verso numerose barche alla deriva in acque internazionali. La missione, per la nave “Luigi Dattilo” della Guardia costiera italiana, è di sorveglianza marittima. Un membro dell’equipaggio sta cercando Giuseppe Conigliaro: 52 anni, capo componente delle telecomunicazioni, che non si vede da un po’. Alla fine lo trova dopo che con una corda ha deciso di togliersi la vita. I medici del Cisom (Corpo di soccorso dell’ordine di Malta) accorrono nella speranza di rianimarlo: dopo quaranta minuti e quattro fiale di adrenalina non c’è più modo di salvarlo. Il 16 agosto la missione termina. A più di un anno di distanza, l’ufficio centrale della Guardia costiera non ha mai risposto alle domande in merito a questa morte. Domani ha parlato con diversi militari interni alla Guardia costiera, alcuni hanno deciso di parlare con la garanzia dell’anonimato. Uno di loro conosceva Conigliaro: “C’erano delle registrazioni: le ho ascoltate. Diceva che non era in grado di sopportare la pressione del compito che gli era stato assegnato”. Conigliaro organizzava le missioni e indagava ascoltando le persone appena salvate per capire se erano stati commessi reati connessi all’attività migratoria irregolare. “So di questi racconti fatti in lacrime: era disperato. Minacciava il suicidio”, racconta un secondo militare. Entrambi sostengono che il comando fosse a conoscenza sia dei racconti sia delle registrazioni. Per questo motivo e per le temute ripercussioni, hanno deciso di rimanere anonimi. E la denuncia del primo militare è netta: “Un intervento più tempestivo avrebbe potuto aiutarlo”. I numeri e il sommerso - Secondo i dati ottenuti tramite richiesta di accesso agli atti dal ministero della Difesa, il numero dei suicidi all’interno della Marina militare, di cui la Guardia costiera fa parte, non segue una linea costante: nel 2023, i militari che si sono tolti la vita sono stati quattro (nel 2022, uno, così come nel 2024, aggiornato a inizio dicembre). Ma gli accessi agli sportelli di aiuto psicologico gestiti dalla Commissione medica militare (Cmo) sono in calo continuo: dai 7.507 del 2018 ai 1.965 del 2023. “Il ministero mostra quei numeri sui suoi documenti, ma è una forzatura: la verità è che le persone hanno paura di recarsi agli sportelli perché temono di perdere il lavoro”, commenta una fonte interna alla Cmo. Quest’ultima è composta da medici militari che forniscono anche il giudizio sull’idoneità psico-fisica dei militari: un timbro che può obbligare a uno stop forzato dal lavoro, fino alla decurtazione dello stipendio e al licenziamento. E che quindi per molti non può essere uno spazio sicuro. In una mail, a precise domande inviate dagli autori di questa inchiesta sui metodi di tutela degli equipaggi e sull’accompagnamento psicologico, oltre ché sul ruolo degli psicologi militari, la Guardia costiera riferisce che “le procedure di idoneità vengono svolte dal preposto servizio sanitario con visite mediche periodiche e occasionali”, senza perciò un sostegno sistematico. Aggiungono nella stessa mail che, “a questo, si aggiunge il supporto fornito dal Cisom (Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta) a seguito di un accordo sottoscritto con il Comando generale della Guardia costiera, che grazie a personale specializzato fornisce, a richiesta dei comandi, supporto psicologico di gruppo ed individuale al personale che opera nello scenario del soccorso in mare in favore di migranti”. Assenza di un sostegno - Si nota la mancanza di un sostegno continuativo, vista la discrezionalità dei comandi nel richiedere supporto psicologico per i soccorritori. Antonella Postorino degli Psicologi per i popoli, che si occupano di fornire gli strumenti della psicologia dell’emergenza, lo dice chiaramente: “L’evento del soccorso in mare è sempre critico. Sono necessari programmi che mirano a sviluppare le abilità emotive che permettono di gestire le proprie emozioni e quelle degli altri”. Per militari e soccorritori ai fattori di rischio si sovrappongono anche quelli derivanti dalla struttura gerarchica militare, spesso mobbing vero e proprio. Dietro l’incombenza delle ripercussioni e davanti al potere della Cmo, quindi la maggior parte dei militari non può farsi riconoscere, anche dopo essere transitati a ruoli civili. Cinzia Conti, che ha trascorso dodici anni nel corpo della Marina militare, è colei che invece ha deciso di esporsi pubblicamente. “L’aborto e la convalescenza che ne è seguita sono stati un’esperienza traumatica. Sono arrivata a chiedere al medico di farmi idonea e tornare in servizio per i sensi di colpa”. Un sentimento nato dall’atteggiamento dei superiori, che ha il suo apice nel giorno in cui il capo la manda a chiamare e le chiede di trovare una ricevuta. Cinzia, che la nota in un faldone sotto il braccio di lui, gliela indica, senza avvicinarsi per prenderla. La risposta è secca: “Qui il capo sono io e tu fai quel che dico io”. Cinzia esce dalla porta in preda a un attacco di panico, per cui viene portata al pronto soccorso con una maschera per l’ossigeno sul volto. Dopo giorni di convalescenza, intorno a lei c’è il vuoto: nessuno si è fatto vivo. Solo il suo superiore le chiede di chiamarlo: “Ti sei comportata male”, si sente dire al telefono, “quel giorno potevi chiarire, anziché andare in ospedale”. La storia personale di Cinzia Conti è un simbolo: “Ci vuole un gran coraggio”, dice, “anche per togliersi quella divisa per sempre”. Eppure non è l’unica; altrove, chi ancora non ha deciso di mostrarsi dichiara la sua denuncia anche verso il personale sanitario: “L’aiuto da parte del personale militare medico, psichiatri o psicologi, è inesistente, perché loro fanno solo un lavoro di conferma delle disposizioni dei capi” spiega un terzo militare. “Non riconducono mai il disagio al lavoro: sviano su fattori esterni. Ma io sono entrato sano e mi ritrovo con un disturbo ansioso-depressivo”. Ansia, depressione, disturbi dell’adattamento e ipersensibilità. “Ho vissuto degli atteggiamenti vessatori sistematici”,aggiunge un altro dei testimoni interni al Corpo: “Dopo mesi a casa ho pensato al suicidio. Mio figlio mi diceva che ero una nullità e che ero incapace a subire. Oggi se vedo un ufficiale che rimprovera un sottoposto mi viene da piangere, come se stesse succedendo a me”. A questo si sommano le operazioni in mare. Uno dei militari che ha deciso di raccontare la sua esperienza spiega che “l’impatto dei naufragi è devastante: c’è chi scoppia in un pianto isterico e chi magari la prima cosa che fa appena tornato a casa è abbracciare i suoi figli”. Ma a differenza delle reazioni individuali, la denuncia è univoca: “Non c’è un’assistenza psicologica: al di là delle belle parole, subito dopo i soccorsi, sparisce tutto”. Iran. Il silenzio di Teheran su Cecilia Sala: mistero sull’ordine di arresto di Mario Di Vito, Francesca Luci Il Manifesto, 29 dicembre 2024 Contrasti tra governo e intelligence in Iran. E Roma predica ancora calma e pazienza. Caso Abedini, gli Usa chiedono l’estradizione. E anche la procura di Milano indaga. A Teheran il silenzio sul caso di Cecilia Sala è totale. La notizia del suo arresto del 19 dicembre e della sua reclusione in isolamento nella prigione di Evin non è stata diffusa da nessun canale ufficiale, né è apparsa tra i lanci dell’agenzia Mizan, che normalmente funge da portavoce del sistema giudiziario iraniano. Così come il ministero degli Affari esteri si rifiuta di commentare, e così le notizie che filtrano sui media di lingua persiana all’estero, al massimo, si limitano a riportare la versione italiana della storia. La voce più ricorrente, come sempre quando in Iran le comunicazioni tardano ad essere diffuse, è che ci siano disaccordi tra la classe politica e i servizi di sicurezza: un’impressione che pare confermata dai recenti contrasti emersi tra il presidente Masoud Pezeshkian, che voleva allentare le maglie della censura online, e gli apparati di intelligence, che si sarebbero messi di traverso rispetto a questa decisione. Che in Iran non si parli della vicenda di Cecilia Sala - prima giornalista straniera arrestata nel paese, negli altri casi si trattava di persone di origine iraniana o con la doppia nazionalità - significa inoltre che il governo avrebbe deciso di mantenere un profilo basso e che ci sono state interlocuzioni con la Farnesina. E se ancora non si sa nulla su quali siano le accuse che hanno portato all’arresto della giornalista italiana, resta in sospeso anche un’altra domanda, forse anche più pesante: chi ha dato l’ordine di fermarla? L’esecutivo o i servizi di sicurezza? Nelle ultime settimane, vista e considerata l’alta tensione sul fronte mediorientale, la diplomazia di Teheran è molto impegnata a stemperare i toni e, di certo, il caso Sala non va in quella direzione. Sembrerebbe escluso, comunque, che l’arresto sia legato al lavoro che la voce del podcast Stories stava facendo nel paese dal 12 dicembre, data del suo arrivo. L’unico elemento in qualche modo problematico per il governo potrebbe essere l’intervista fatta a Hussain Kanani Moghaddam, ultraconservatore e sostenitore delle ambizioni nucleari del regime, ma nel colloquio si parla per lo più di eventi passati, senza particolari agganci con l’attualità. Più caldeggiata, anche dai media in lingua farsi, è l’ipotesi di un nuovo episodio di “diplomazia degli ostaggi”, dottrina che l’Iran utilizza a fasi alterne da quasi mezzo secolo. E qui arriva la coincidenza con l’arresto in Italia del ricercatore Mohamed Abedini, 38 anni, avvenuto il 16 dicembre scorso (tre giorni prima di quello di Sala, dunque) su mandato degli Stati Uniti, che lo accusano di aver fornito componenti per droni al Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. Gli arresti di scienziati e ricercatori iraniani all’estero hanno registrato un aumento significativo negli ultimi anni: un dettaglio che a Teheran non si può di certo ignorare e che rimanda a un caso avvenuto nel 2019, quando lo studente di Princeton Xiyue Wang, imprigionato in Iran, venne scambiato con il ricercatore Masoud Soleimani, detenuto negli Usa. Alla Casa Bianca c’era Donald Trump - che, per così dire, tornerà a spadroneggiare tra pochi giorni - e il negoziato venne condotto da un team di diplomatici svizzeri. Il Caso Abedini, in tutto questo, appare però più complicato: la red notice nei suoi confronti è stata emessa dagli Stati uniti il 13 dicembre e l’uomo è stato preso all’aeroporto di Milano-Malpensa il 16. La decisione, pressoché obbligata, di arrestarlo e poi di tenerlo in carcere è stata presa sulla base di un affidavit dell’Fbi e solo nel pomeriggio di ieri è arrivata la richiesta di estradizione da parte degli Usa. Adesso il procuratore generale della Corte d’appello competente, quella di Milano, dovrà produrre una requisitoria scritta sulla vicenda, poi, nel giro di dieci giorni, dovrà tenersi un’udienza in seduta camerale per stabilire se ci sono o no i requisiti per la consegna a Washington del ricercatore. La decisione finale, infine, spetta al ministero della Giustizia. Intanto, già all’inizio della prossima settimana, l’avvocato italiano di Abedini, Alfredo De Francesco, presenterà il suo ricorso contro la convalida dell’arresto, nel tentativo di ottenerne l’uscita dal carcere di Opera dove è attualmente detenuto. “Dall’analisi dei documenti in mio possesso, la posizione del mio assistito risulta molto meno grave di quanto può sembrare. Lui respinge le accuse e non riesce a capire i motivi dell’arresto”, dice De Francesco, annunciando anche che si opporrà alla richiesta di estradizione. Su tutto questo incombe anche l’apertura di un fascicolo “modello 45” (senza indagati né ipotesi di reato) della procura di Milano, che, per cominciare, ha intenzione di focalizzarsi sulle modalità con cui la digos ha prelevato l’uomo a Malpensa, ma non è escluso che si deciderà di approfondire anche gli eventuali profili penali specifici legati alle sue attività. Cioè se ci sono motivi per indagarlo anche in Italia. Naturalmente i tempi della macchina giudiziaria non sono quelli della diplomazia e l’obiettivo italiano resta quello di riportare Cecilia Sala a casa a prescindere dagli sviluppi dell’affaire Abedini, che potrebbe andare per le lunghe. Non sarà facile: le autorità iraniane, nei giorni intorno a Natale, hanno espresso formale protesta ai diplomatici di Roma per quello che ritengono essere un arresto “ingiusto e ingiustificato”, una posizione che in ogni caso ha un suo peso sulla trattativa diplomatica. È soprattutto per questo motivo che il ministro degli Esteri Antonio Tajani continua a predicare la massima calma e la più assoluta prudenza, anche perché le accuse verso la reporter sono ignote persino al governo italiano - che, come da stringata nota di palazzo Chigi, “segue con costante attenzione la complessa vicenda” - e si attende che l’avvocato della giornalista possa averne notizia quanto prima. “Cecilia Sala sta bene e il governo lavora con discrezione per riportarla presto a casa”, ha scritto Tajani su X. Quanto presto, però, ancora non si può dire. Iran. Cecilia Sala, la liberazione legata a quella dell’ingegnere iraniano arrestato in Italia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 dicembre 2024 L’ostacolo degli Usa che hanno chiesto l’estradizione. Il legame tra i due casi e i contatti avviati dall’intelligence. Con il passare delle ore e dei giorni, il sospetto che l’arresto di Cecilia Sala sia legato a quello dell’ingegnere iraniano Mohammad Abedininajafabani, avvenuto tre giorni prima a Milano, sta diventando sempre più concreto. Quasi una certezza: la liberazione dell’una possibile solo se arriva quella dell’altro. Un intreccio tanto realistico quanto complicato da sciogliere, perché la giornalista italiana è stata presa dalle forze di sicurezza della Repubblica islamica che ora ne dispongono direttamente, mentre l’iraniano (che ha pure un passaporto svizzero) è stato catturato dalla polizia italiana per conto degli Stati Uniti d’America, che ne reclamano l’estradizione. Cioè un Paese alleato di cui è difficile disattendere le richieste nell’attuale scenario di crisi internazionale, che vede gli Usa frontalmente contrapposti all’Iran. Operazione congiunta - È in questo strettissimo e scivoloso sentiero che da dieci giorni si sta tentando di intavolare una trattativa dove le strategie dell’intelligence si sovrappongono a quelle delle diplomazie. Entrambe piene di ostacoli, sebbene in casi come questi si faccia solitamente maggiore affidamento sui contatti tra servizi segreti rispetto a quelli fra consolati e ambasciate. Ma dal giorno in cui Cecilia Sala è stata prelevata nell’albergo dove alloggiava a Teheran l’Italia sta valutando ogni possibilità e ogni ipotesi. Per la prima settimana tutto s’è svolto sottotraccia, cercando una soluzione prima che trapelasse la notizia dell’arresto della reporter; ora è tutto più difficoltoso. A confermare la complessità della situazione è la circostanza che il fermo di Abedini, scattato lunedì 16 dicembre, non è stato casuale né determinato dalla segnalazione del sistema di allerta alle frontiere al momento del suo ingresso in Italia. Si è trattato invece di un’operazione congiunta, condotta dall’Fbi insieme alla Polizia di prevenzione e alla Digos di Milano, che stavano aspettando l’iraniano al varco. Tre giorni prima, venerdì 13, il tribunale federale del Massachusetts aveva emesso un ordine d’arresto internazionale nei confronti dell’ingegnere accusato di associazione per delinquere, violazione delle leggi sull’esportazione e supporto a un’organizzazione terroristica (i pasdaran dei Guardiani della rivoluzione); reati che gli Usa collegano all’attentato realizzato con droni commercializzati dai due inquisiti che nel gennaio scorso ha ucciso tre soldati americani in Giordania. Subito dopo l’Fbi ha avvisato la polizia italiana che il ricercato aveva prenotato, per il lunedì successivo, un volo diretto da Istanbul a Milano Malpensa. Gli investigatori dell’Antiterrorismo hanno verificato l’informazione e l’hanno atteso al varco, identificandolo all’arrivo per notificargli il provvedimento e accompagnarlo in carcere. La via giudiziaria - L’indomani i giudici della Corte d’appello milanese hanno convalidato il fermo, ma per diffondere la notizia si sono attese altre 24 ore, perché nel frattempo negli Usa veniva arrestato un presunto complice di Abedini, Mahdi Mohammad Sadeghi, cittadino iraniano-statunitense residente nel Massachusetts. Un’azione coordinata da cui è arduo, adesso, tornare indietro con un rigetto dell’estradizione di Abedini che potrebbe facilitare il rilascio di Sala. Quando dagli Usa arriverà tutta la documentazione a supporto delle accuse a suo carico, la Corte d’appello milanese tornerà a riunirsi per decidere se consegnare o meno il detenuto. In caso di rifiuto Abedini tornerebbe libero, mentre se la domanda venisse accolta l’ultima parola toccherebbe comunque al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che potrebbe dire no come fece un anno fa per un religioso ultraottantenne reclamato dell’Argentina per crimini contro l’umanità commessi nel periodo della dittatura militare; ma in questa vicenda un diniego “politico” all’estradizione sembra poco probabile. Soprattutto nei confronti dell’alleato più importante. Il prossimo 9 gennaio è fissata una visita in Italia del presidente uscente Joe Biden, accompagnato dal segretario di Stato Antony Blinken, e se Cecilia Sala non verrà rilasciata prima è possibile che la premier Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani affrontino con loro la connessione tra le due situazioni. Sebbene dopo dieci giorni a guidare gli Usa e la diplomazia a stelle e strisce saranno nuovi interlocutori: Donald Trump e il suo staff. Le altre ipotesi - In questo intrigo internazionale che coinvolge i governi di tre Paesi potrebbe fare ingresso un quarto Stato, la Svizzera, di cui Abedini è pure cittadino. In queste ore c’è chi ipotizza una consegna dell’ingegnere iraniano non agli americani bensì alla Confederazione elvetica, di cui è cittadino. Ma la Svizzera rappresenta gli interessi statunitensi in Iran, tanto che dopo gli arresti scattati in Italia e negli Usa, il governo della Repubblica islamica ha protestato con le ambasciate di Berna e Roma a Teheran. In ogni caso sarebbe una procedura slegata dall’estradizione negli Stati Uniti per cui Abedini si trova in carcere. Il suo avvocato avrebbe trovato un’abitazione e sarebbe pronto a chiedere gli arresti domiciliari, ma dopo il precedente di Artm Uss, il russo reclamato dagli Usa e scappato dall’abitazione dove i giudici milanesi l’avevano mandato in attesa del verdetto, da oltreoceano è giunto un documento in cui si sottolinea il pericolo di fuga dell’estradando. I testimoni iraniani - Nel frattempo, dopo dieci giorni di reclusione, le autorità iraniane non hanno ancora formalizzato le accuse a Cecilia Sala. Ad arresto avvenuto sarebbero state interrogate alcune persone che la giornalista ha incontrato nella settimana di lavoro a Teheran per i suoi reportage, forse nel tentativo di dare qualche contenuto ai “comportamenti illegali” inizialmente contestati. Tuttavia sono in pochi a credere che la sorte di Sala sia legata alle eventuali accuse che dovessero arrivare. Se davvero la reporter è finita al centro di una ritorsione per la cattura dei due iraniani in Italia e negli Usa, è lì che va cercata una via d’uscita. Stati Uniti. Detenuto picchiato a morte a New York, c’è un video che incastra gli agenti di Massimo Basile agi.it, 29 dicembre 2024 Robert Brooks, 43 anni, è morto il 10 dicembre al Wynn Hospital di Utica. Condannato a dodici anni per l’accoltellamento dell’ex fidanzata, appare ammanettato e indifeso, mentre viene steso sul lettino del pronto soccorso e picchiato. Sono state diffuse le immagini del pestaggio mortale a cui è stato sottoposto un detenuto nella stanza del pronto soccorso di un carcere di New York da parte di più di dieci poliziotti e guardie carcerarie. Il caso è sotto inchiesta da parte dell’attorney generale dello Stato, Letitia James, che ha pubblicato il video di circa cinque minuti sul sito ufficiale della procura generale. Le immagini sono sconvolgenti. Robert Brooks, 43 anni, è morto il 10 dicembre al Wynn Hospital di Utica. Condannato a dodici anni di prigione nel 2017 per l’accoltellamento dell’ex fidanzata, Brooks appare mentre, nonostante fosse ammanettato e indifeso, viene steso sul lettino del pronto soccorso e picchiato ripetutamente dai poliziotti, con pugni e calci. Il volto del detenuto appare sanguinante e tumefatto, l’uomo sembra stordito. La procuratrice generale James ha definito le immagini “sconvolgenti e nauseanti”, la famiglia della vittima ha parlato di “scene devastanti che tutti devono vedere”. “Non ho preso la decisione alla leggera - ha spiegato - nel diffondere queste immagini, specie in mezzo a un periodo di vacanze, ma come attorney general io pubblico questi video perché ho il compito e il dovere di garantire alla famiglia di Brooks e a tutti i newyorkesi trasparenza e l’individuazione delle responsabilità”. L’inchiesta potrebbe sfociare in incriminazione di una serie di poliziotti e agenti del centro di detenzione di Marcy, una città che si trova cinquecento chilometri a nord da New York. La storia era emersa nella sua gravità già ieri, quando la governatrice dello Stato di New York Kathy Hochul aveva annunciato l’avvio della richiesta di licenziamento in tronco di quattordici dipendenti del carcere, tutti quelli coinvolti nel pestaggio. Hochul aveva parlato di “immagini terrificanti”, ma soltanto oggi sono state rese pubbliche le riprese registrate dalle telecamere in dotazione agli agenti. Alcune scene sono state oscurate. I compagni di Brooks hanno parlato di scene “terribili”, mentre le rappresentanze sindacali degli agenti hanno definito “incomprensibile” il comportamento dei poliziotti. I video sono senza audio perché, ha spiegato l’attorney general, le telecamere non erano state attivate in modalità piena. Ma quello che si vede in quei cinque minuti di filmato appaiono eloquenti: Brooks non fa niente per provocare la violenta reazione. Non parla, non si rivolge agli agenti, non sfida nessuno. Resta seduto, stordito mentre gli agenti lo prendono a pugni, poi lo trascinano verso la finestra. Qui le immagini vengono oscurate e non è chiaro che cosa gli facciano. Nessuno cerca di fermare i colleghi più feroci. L’autopsia sul corpo di Brooks non è stata ancora completata, ma le prime indicazioni parlano di “asfissia dovuta a compressione del collo”. I tredici agenti e l’infermiere sono stati sospesi in attesa che l’inchiesta arrivi a una conclusione. Algeria. Boualem Sansal, detenuto per le sue idee: la sua libertà è anche la nostra di Guido Salvini Il Dubbio, 29 dicembre 2024 L’appello per chiedere la scarcerazione dello scrittore e giornalista franco-algerino arrestato 16 novembre al suo rientro nel Paese natio. Forse è un nome che non dice molto ma è uno scrittore e giornalista franco-algerino, con doppia nazionalità, è cresciuto accanto alla casa di Albert Camus e ha pubblicato in Francia romanzi importanti come “Il giuramento dei barbari” nel 1999, un libro profetico sulla deriva terroristica dell’islamismo e 2084 la fine del mondo che anche nel titolo riecheggia la critica alle società totalitarie del romanzo, 1984, del grande scrittore inglese George Orwell. I suoi libri sono tradotti anche in italiano. È chiamato il Voltaire algerino e nei romanzi il tema delle sue critiche non è solo l’islamismo ma il regime autoritario algerino dove, a dispetto delle speranze accese dalle primavere arabe, le elezioni sono una farsa, in realtà comandano i militari, la corruzione dilaga, la minoranza berbera viene emarginata e la violenza contro gli oppositori è quotidiana. Il 16 novembre ha voluto comunque coraggiosamente tornare nella sua terra natale dove aveva già perso il lavoro, come la moglie, e aveva ricevuto minacce di morte. È stato subito arrestato all’aeroporto di Algeri con una accusa fantasiosa come quelle di tutti i regimi autoritari: “attentato all’unità nazionale”, equiparato ai sensi dell’articolo 87 bis del Codice penale algerino ad un atto di terrorismo e che prevede la pena sino all’ergastolo. Un atto di terrorismo con la penna, tutto qui. In realtà egli è detenuto per le sue opinioni. Ha 75 anni ed è seriamente malato. In Francia, in molti paesi, non solo le istituzioni ma la Federazione della Stampa e intellettuali come Salman Rushdie e premi Nobel come Annie Ernaux e Oran Pamouk si stanno mobilitando. In Italia sinora si è mossa per la libertà dello scrittore solo la sua casa editrice Neri Pozza, con un appello all’ambasciatore algerino in Italia. L’Italia ha tante relazioni e scambi con l’Algeria, soprattutto in tema di energia. Il gas è importante ma ci sono principi che non sono negoziabili. Anche noi abbiamo il dovere di non tacere ed esigere con un intervento ufficiale la liberazione dello scrittore. La libertà di espressione e di critica è il patrimonio che l’Europa ha offerto al mondo e senza di esso non vi sarebbero stati, pur tra tanti errori e storture, le conquiste civili e il progresso sociale e scientifico che conosciamo. Alla fine la libertà di espressione è anche il miglior antidoto alle guerre cui oggi assistiamo. Se ci dimentichiamo di questo ci dimentichiamo di noi stessi e nessuno nel mondo deve essere incarcerato per avere esercitato tali diritti. Un anno migliore a Boualem Sansal e a tutti.