Storie di ergastolo, voglia di “pena di morte nascosta” a cura di Ornella Favero Il Riformista, 28 dicembre 2024 È importante dare voce alle persone detenute e ai loro famigliari, ma anche alle vittime che non vogliono essere usate per giustificare odio e “vendetta di Stato”. Ospitiamo i racconti delle figlie di due ergastolani. Per chi come me si occupa di fare informazione dal carcere, dando voce alle persone detenute e ai loro famigliari, ma anche alle vittime di reati, il tema dell’ergastolo resta uno dei più spinosi. Quando ci sembra di aver compiuto un passo avanti nel far crescere nella società la consapevolezza che non è la pena cattiva quella che ci rende più sicuri, e che uno Stato che sappia esercitare una giustizia mite è più forte di uno Stato che si mette al livello del criminale e risponde alla violenza con pene disumane, basta un fatto di cronaca nera particolarmente efferato per far tornare più forte che mai la voglia di ergastolo. Il tema di quale sia la pena giusta ovviamente è delicato, anche perché da buona parte della società proviene pressante la richiesta di pene più alte, spesso fatta in nome delle vittime. Ma ci sono vittime che non vogliono essere usate per giustificare odio e “vendetta di Stato”. Penso alle parole di Gino Cecchettin quando ha incontrato nel carcere di Padova le persone detenute e ha detto loro: “Nel momento in cui nella nostra società iniettiamo odio possiamo ricevere solo odio. Ma essere cattivo cosa aggiungerebbe di bello nella mia vita? Essere cattivo, arrabbiato, sarebbe umano, ma mi renderebbe peggiore come essere umano. (…) Se devo spendere un pezzo della mia vita, non lo farò senz’altro per chiedere pene più severe, ma lo farò per far sì che non ci sia un altro Filippo che faccia quello che ha fatto lui”. E penso ad Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, che ci accompagna con pazienza a capire che lo Stato non può usare, per punire, gli stessi strumenti del criminale: “Io penso che non c’è nessuna persona che noi vogliamo che si perda; il cuore della nostra Costituzione è la preziosità di ogni persona e il fatto che ogni persona deve giocare il suo ruolo perché tutti possiamo esistere davvero come Paese”. La speranza che non muore. Riflessioni di una figlia sull’Ergastolo Ostativo di Eva R., figlia di un ergastolano Ho sempre pensato che ogni vita sia un racconto unico, un intreccio complesso di scelte, errori e possibilità di redenzione. La mia storia, però, è segnata da un’assenza che pesa come un macigno, quella di un padre che ho perso, non per la morte, ma per una condanna: l’ergastolo ostativo. Mio padre è stato incarcerato quando avevo solo due anni, e da allora il carcere è diventato una parte oscura ma inevitabile della mia quotidianità. (…) Visitare mio padre in carcere è stato per anni un rito doloroso. Ricordo la trafila per entrare: i controlli, le porte che si chiudevano dietro di noi, il rumore metallico delle serrature. Ricordo l’ansia di quei momenti, ma anche la gioia di vederlo, di abbracciarlo, di sentire la sua voce. Era sempre sorridente, sempre attento a non farmi percepire il peso della sua condizione, ma io lo vedevo nei suoi occhi: la tristezza, la frustrazione, la paura di non essere abbastanza presente nella mia vita. Nonostante tutto, mio padre è riuscito a darmi molto, anche da dietro le sbarre. Oggi sono una farmacista, una professione che amo e che ho scelto anche grazie agli insegnamenti di mio padre. Lui mi ha sempre detto che il sapere è la chiave per affrontare il mondo, che la cultura può salvarci. È stato un padre amorevole, nonostante la distanza, e mi ha trasmesso valori che porto con me ogni giorno. Eppure, non posso fare a meno di sentire il peso dell’ergastolo ostativo nella mia vita. Per quanto io abbia costruito un’esistenza solida e felice, c’è sempre un vuoto, una mancanza che non posso colmare. Vorrei che mio padre fosse qui, non solo per me, ma per vivere la sua seconda possibilità, per dimostrare che è cambiato, che non è più l’uomo che era. So che molti faticano a credere che un uomo legato alla criminalità organizzata possa cambiare. Ma io credo nelle persone, credo che il cambiamento sia possibile, e mio padre ne è la prova vivente. Ha trascorso anni a riflettere, a studiare, a lavorare su sé stesso. Si vergogna profondamente del suo passato, ha interrotto ogni legame con la criminalità, e oggi è un uomo nuovo. E allora mi chiedo: perché negargli la possibilità di dimostrarlo? Perché lo Stato deve infliggere una pena che non lascia spazio alla speranza, che non permette a chi ha cambiato vita di contribuire al bene comune? L’ergastolo ostativo è, nella sua essenza, una pena di morte mascherata. Non c’è fine, non c’è possibilità concreta di redenzione. È una sentenza che punisce non solo il condannato, ma anche le persone che lo amano, che vivono nell’attesa di un futuro che non arriva mai. L’articolo 27 della nostra Costituzione non deve rimanere solo parole su un foglio. Deve essere applicato, realizzato, vissuto. Io continuerò a sperare, a credere che un giorno mio padre potrà tornare a casa. Continuo a credere in un’Italia giusta, in un sistema che sappia essere umano, che non si limiti a punire, ma che sappia costruire, ricostruire, e dare una possibilità a chi se la merita. Sono 32 Natali che aspetto mio padre di Francesca R., figlia di un ergastolano Sono Francesca, la figlia di un detenuto condannato all’ergastolo e da 33 anni aspetto che ritorni a casa. Non nascondo che purtroppo ho perso le speranze. Quando mio padre è stato arrestato io avevo solo 15 mesi, non mi ricordo mio padre a casa perché ero troppo piccola. Ora sono mamma e desideravo tanto che almeno adesso potesse tornare a casa per poter far il nonno, visto che il papà non l’ha potuto fare. Desideravo tanto che tutto quello che ha perso come padre potesse recuperarlo con i miei figli. Questo dovrebbe essere il periodo più bello dell’anno, ma purtroppo per me e per tutti i figli dei detenuti, dietro dicembre - oltre alle luci, i colori e soprattutto i regali - c’è tanta tristezza, sofferenza e mancanza. Quella mancanza che si sente ancora di più allo scoccare della mezzanotte del primo dell’anno, quando tutti si abbracciano e si fanno gli auguri per un nuovo anno. Io, oltre a non poterlo abbracciare e augurargli buon anno, dico tra me e me: “È un altro anno che se ne va senza di te, mio caro papà”. Sono 32 Natali che ti aspetto. Papà, pensavamo di avercela fatta 2 anni fa con quei pochi permessi che ti avevano dato. E invece ci hanno illuso perché purtroppo ti hanno trasferito e poi negato i permessi; tu ti sei sempre comportato benissimo in ogni permesso ed è proprio per questa illusione e soprattutto delusione che mi sento vuota. Mi sento più triste che mai perché penso che piano piano, un passo alla volta, potevamo recuperare almeno un minimo, ma invece siamo tornati indietro (anzi, peggio) perché ti hanno trasferito in un carcere ancora più lontano e difficile da raggiungere visto che è in un’isola, e proprio per questo ancora non conosci - perché non lo hai mai incontrato in presenza - il mio piccolo Tommasino, il tuo ultimo nipotino. Aspettavo un permesso per fartelo conoscere di presenza e invece te l’hanno negato e dovrò portartelo in carcere. Mi dispiace moltissimo soprattutto per te per la delusione che provi, perché avevi fatto un percorso soprattutto di cambiamento e la cosa più bella è che eri cambiato davvero. Mi dispiace per l’ennesimo Natale che passi senza la tua famiglia, senza il calore dei tuoi amati nipotini. Non so se mai ci sarà l’occasione di passarlo insieme. Purtroppo ho perso la speranza ma, come ogni anno, io sotto l’albero vorrei il mio regalo più prezioso che aspetto da tanto tempo ormai. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Quella pena infinita che può arrivare davvero fino alla morte di Sergio D’Elia* Il Riformista, 28 dicembre 2024 Il solo dire “fine pena mai” è un castigo medievale, un marchio d’infamia che scolpisce un giudizio tremendo e senza appello: tu non cambierai mai. “L’ergastolo non esiste in Italia, massimo trent’anni ed esci”, è il luogo comune che circola nei bar, nelle trasmissioni televisive di “approfondimento”, financo nelle aule universitarie. Io ho conosciuto molte persone condannate alla pena infinita che è risultata davvero fino alla morte. Parlerò di alcuni casi di ergastolo applicato “in concreto”, anche se per me quello imposto “in astratto” è già concettualmente intollerabile. Perché il solo dire “fine pena mai” è un castigo medievale, un marchio d’infamia che sul corpo del condannato scolpisce un giudizio tremendo e senza appello: tu non cambierai mai. Nel solo carcere di Opera, in 8 anni e solo tra i partecipanti ai nostri Laboratori nel teatro intitolato a Marco Pannella, sono venuti a mancare 5 ergastolani. Alfio Laudani aveva quasi 80 anni, era in carcere dai primi anni ‘90 e arrivava da noi con le stampelle e con i piedi fasciati per il diabete mellito all’ultimo stadio. Poi non lo abbiamo visto più. Se n’era andato una mattina alle 5, dopo aver pregato l’Ave Maria, come faceva ogni giorno prima dell’alba ad alta voce, talmente alta che lo sentivano in tutta la sezione. Giuseppe Di Benedetto è morto “per cause naturali”, dopo 34 “anni di branda”. Veniva ai nostri Laboratori in sedia a rotelle, tremante per il suo Parkinson, si metteva in prima fila e ascoltava i nostri discorsi. Una volta ha ascoltato in lacrime anche Antonio Aparo, un ergastolano a cui aveva ucciso il fratello, che lo aveva perdonato e che per lui aveva implorato da parte dello Stato, alla fine della sua vita, un atto di pietà che non è arrivato. Mi piange ancora il cuore a ricordare Francesco Di Dio. Veniva ai nostri incontri con la sua faccia serena e sorridente, rotonda come una luna piena. Se n’è andato in silenzio, solo nella sua cella. Aveva 48 anni ed era in prigione da 30. Soffriva del morbo di Buerger, che si è incaricato di fare quello che il potere da tempo avrebbe dovuto e non ha fatto: sospendere l’esecuzione della pena per gravi motivi di salute. La malattia lo ha scarcerato un po’ alla volta, partendo dai piedi, amputati pezzo a pezzo, finché non è “evaso” del tutto, uscito - come si dice - coi piedi davanti, con le parti rimaste. Dopo la sentenza Viola contro Italia e la successiva “riforma” dell’articolo 4 bis, la corsa verso la libertà è diventata una corsa a ostacoli di vari livelli. L’assurdo è che quello più alto e difficile è posto all’inizio. Per avere un primo permesso premio devi superare l’inversione dell’onere della prova e una prova diabolica. Si chiama “onere di allegazione” e richiede al detenuto di dimostrare di aver cessato i collegamenti con il sodalizio al quale è appartenuto, spesso circa 30 anni addietro, e, ancor più arduo, l’impossibilità di ripristino. Sta di fatto che, secondo uno studio del Professor Davide Galliani, dopo la sentenza Viola, sono stati concessi solo 30 permessi premio a fronte di “1.270 ergastolani ostativi”! Lo stesso Marcello Viola, l’ergastolano che ha dato il nome alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, è la prova vivente di quanto sia difficile per gli ergastolani ex-ostativi vedersi riconosciuto il “diritto alla speranza” affermato nella storica sentenza. Marcello ha ottenuto un primo permesso premio dopo 33 anni di detenzione, dopo 4 anni dalla sentenza che porta il suo nome, dopo 4 gradi di giudizio e per solo 6 ore. Claudio Conte aveva 19 anni quando è stato arrestato. Ignorava persino l’esistenza della Costituzione. L’ha scoperta e studiata in carcere con profitto. Ora è un dottore in legge impegnato in una ricerca sul nuovo paradigma della giustizia e della sua stessa vita: la giustizia che ripara e non separa, che non punisce ma riconcilia. Ha ottenuto il suo primo permesso premio un paio di mesi fa, dopo 35 anni di detenzione. Quando è uscito, ha chiesto solo di andare a camminare in uno spazio infinito, illimitato alla sua vista da barriere di ferro e muri di cinta. Domenico Papalia è forse l’ergastolano più ergastolano che c’è in Italia. È detenuto da oltre mezzo secolo. Quando è entrato in carcere c’era ancora la televisione in bianco e nero. Da allora, ha vissuto sempre nel grigiore e nel freddo delle sbarre e del cemento. Il carcere gli si è incollato addosso nella forma più odiosa di supplizio: la pena corporale. Le sue difese immunitarie sono venute meno, un tumore ha preso il sopravvento. Quando è cambiata la legge sui benefici, che ha modificato i requisiti per l’accesso, il tribunale di sorveglianza ha preso la palla al balzo e ritenuto inammissibile il permesso e rigettato la liberazione condizionale. In carcere, parola che deriva dall’aramaico “carcar” e che significa sotterrare, ci sono persone anche di 70, 80 anni tumulate all’ergastolo da oltre 30 anni, che rischiano di passare dal “cimitero dei vivi” - come Turati chiamava il carcere - direttamente a quello dei morti. Sono solo dei casi? Fosse uno solo, eccezionale, il caso, è proprio lì che dovrebbe valere il Diritto, cioè il limite che lo Stato pone a sé stesso nell’esercizio della sua potestà punitiva. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Il Papa ha portato il Giubileo dietro le sbarre: un gesto rivoluzionario di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2024 In un eccezionale discorso tenuto ormai dieci anni or sono di fronte alla delegazione internazionale dei penalisti, Papa Francesco metteva in guardia dal cedere a forme di populismo penale che, appellandosi a un falso concetto di sicurezza, puntano a dare in pasto all’opinione pubblica dei capri espiatori, scelti inevitabilmente tra le fasce più marginali, sui quali far ricadere tutti i mali della società. Oggi le carceri italiane, quelle dove il Papa ha deciso di aprire una Porta Santa giubilare, sono la fotografia esatta di quella ammonizione. Bergoglio ha scelto un gesto epocale per riportare l’attenzione del mondo su un universo dimenticato e rimosso. E per farlo tenendo a mente quella sua lezione del 2014 che è straordinaria per profondità, coraggio, incisività. Cosa avranno pensato le persone detenute di fronte a un Pontefice - che mai come oggi dimostra di tener fede a quanto il suo nome gli impone, di essere un costruttore di ponti - che sceglie le loro celle sovraffollate, gli squallidi corridoi, i passeggi angusti per dare inizio all’Anno Santo? Come avranno vissuto l’attenzione loro concessa dal capo della Chiesa cattolica, che ha imposto su di loro gli occhi dell’intero pianeta? Loro, che di attenzione sono abituati a non averne affatto. Loro, che hanno saputo che 88 compagni si sono tolti la vita nel solo 2024. Loro, che sentono balbettare di costruzione di nuove carceri, ma in verità si vedono chiudere sezioni su sezioni perché mancano i soldi per manutenerle e si vedono ammassare nelle sezioni rimanenti, con un sovraffollamento reale che ha ormai raggiunto il 133% e in alcuni istituti supera il 200%? Papa Francesco ha dimostrato fin dal primo giorno del suo pontificato, quando scelse di andare a visitare i ragazzini del carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, di avere a cuore la vita di quegli scarti della società che oggi affollano le nostre galere. Perché questo sono, e chiunque frequenti il carcere lo sa bene: non la grande criminalità, bensì la grande povertà. Una povertà economica, ma anche educativa, relazionale, culturale, lavorativa, sanitaria. Le celle sono piene di persone con disturbi mentali, di tossicodipendenti, di senza fissa dimora, di persone disoccupate da anni e anni, di migranti espulsi da ogni forma di accoglienza, di minori stranieri non accompagnati. Sono queste le persone che oggi l’Italia arresta. Sono queste le persone che non si vuole vedere per le strade, che si vuole togliere dagli sguardi, per le quali non si vogliono investire risorse di welfare e che si preferisce rinchiudere in scatole di cemento. Il sovraffollamento non è una calamità naturale. È frutto di politiche ben precise. Quelle politiche che l’Italia del nuovo millennio ha messo in campo con forza e che l’attuale governo ha perfezionato fino a farne la cifra distintiva della propria azione. Papa Francesco tutto questo lo sa bene. La scelta di aprire una Porta Santa nel carcere di Rebibbia non voleva risolversi in un gesto buonista e affettuoso verso dei poveri sfigati che almeno per un giorno possono andare in televisione prima di ripiombare nel buio più totale. Il Papa, come sempre in questi anni, ha scelto un’azione rivoluzionaria. Nel portare il Giubileo dietro le sbarre ha voluto dire al mondo tutto questo. Ha voluto dire che i governi che sfruttano le paure della gente per mandare in galera chi avrebbe piuttosto bisogno di sostegno sono moralmente ignobili e politicamente incapaci. Ha voluto dire che il populismo penale porterà il vivere collettivo sul baratro della rovina. Ha voluto dire che per essere cristiani non basta pregare la Madonna. Ha voluto dire che le politiche penali dell’attuale governo italiano - che continua a introdurre nuovi reati e aumentare le pene per quelli già esistenti, fingendo di credere che tutti i problemi della società si possano risolvere con il carcere - sono alla ricerca di un facile consenso che sanno di non riuscire a ottenere in altri ambiti. Tutto questo ha voluto dire quel rivoluzionario di Papa Francesco. Nessuno lo ascolterà, ma lui lo ha detto. E il suo gesto peserà per sempre sulla storia del mondo a venire. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Giubileo, il Papa apre una porta sulle carceri di Fabio Ranucci conquistedellavoro.it, 28 dicembre 2024 La forza del gesto di Papa Francesco, la sua volontà di aprire, dopo quella della basilica di San Pietro, un’altra Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia (prima volta nella storia di un Giubileo), rappresenta per più motivi un passaggio fondamentale. Ciò è avvenuto quando non si placano le violenze delle guerre, dall’Ucraina a Gaza. E poi, in una prigione, luogo da lui scelto e definito durante l’Angelus “cattedrale del dolore e della speranza”. Nei giorni in cui ha detto “basta alla colonizzazione dei popoli con le armi”. Di “lavorare per il disarmo”, augurando ai “fratelli ebrei” pace e serenità, e di condonare i debiti ai Paesi poveri. E quindi di aiutare chi deve scontare la sua pena. Proprio mentre il Cnel rilancia il suo programma “Recidiva zero” per il reinserimento dei detenuti attraverso l’organizzazione, grazie alla collaborazione con il ministero della Giustizia e di altri attori, istituzionali e non, di “iniziative di studio, formazione e lavoro” in loro favore. Un piano di intervento ambizioso, di giustizia riabilitativa se, come sostengono nell’istituto di ricerca, sei condannati su dieci sono già stati in carcere almeno una volta, con la media dei reati ascritti a ogni uomo detenuto che è pari al 2,4% contro l’1,9 di ogni donna detenuta, e si stima che il dato della recidiva possa calare fino al 2% per coloro che hanno avuto l’opportunità di un inserimento professionale. Ad oggi, circa un terzo frequenta corsi di istruzione: la formazione professionale coinvolge più o meno il 6% di chi è recluso. Il numero complessivo dei detenuti iscritti all’università non raggiunge il 3%, quelli coinvolti in attività lavorative sono il 33%, ma solamente l’1% di essi è occupato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, alle volte solo per poche ore al giorno o al mese. E fra i reclusi l’82,5% svolge servizi d’istituto. La mancata offerta di possibilità lavorative per i carcerati priva lo Stato di un ritorno sul Pil fino a 480 milioni di euro. L’86% degli istituti penitenziari ha locali all’interno adibiti ad attività di tipo lavorativo e formativo, ma quattro su dieci sono inattivi. Il 31,8% dispone di aule didattiche utilizzate per corsi di istruzione di I e II grado e per l’istruzione terziaria; il 64,7% dispone di 555 aule per istruzione primaria e secondaria, mentre il 3,5% non dispone affatto di aule. Del resto, nel maggio del 2024 l’assemblea del Cnel ha approvato all’unanimità il primo disegno di legge della XI Consiliatura, recante “Disposizioni per l’inclusione socio-lavorativa e l’abbattimento della recidiva delle persone sottoposte a provvedimenti limitativi o restrittivi della libertà personale emanate dall’autorità giudiziaria”, poi trasmesso formalmente alle Camere. In questo modo è stato dato seguito al lavoro istruttorio svolto a decorrere dalla data di sottoscrizione dell’Accordo interistituzionale con il ministero della Giustizia del giugno 2023 e culminato proprio nella giornata di lavoro “Recidiva zero” del 16 aprile 2024. Scopo principale, costruire un ponte tra i penitenziari e la società, portando il lavoro e l’istruzione al centro di un progetto di inclusione sociale, che veda protagonisti le imprese, i sindacati, il volontariato, il sistema scolastico e universitario e gli enti locali, secondo una logica win-win-win, dove tutti ne traggono vantaggi. Tra l’altro, in stretto raccordo con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), al Cnel è stato insediato un segretariato per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale, al fine di promuovere la cooperazione interistituzionale. “Questo del Pontefice è stato molto più di un gesto simbolico - afferma il presidente del Cnel, Renato Brunetta -. Si vuole così dimostrare, in giorni di festa, una particolare vicinanza alla popolazione detenuta, agli operatori carcerari, alle famiglie di chi sta scontando la pena. Il Papa, riprendendo la sua teoria di una ‘cultura dello scarto’, ha voluto sottolineare che il recupero è possibile anche se società e carcere sono ancora due mondi incapaci di comunicare efficacemente tra loro. Uno strumento per farli incontrare è sicuramente il lavoro, fuori e dentro le carceri, purtroppo finora poco sviluppato. Il Cnel - conclude Brunetta - con il suo disegno di legge intende raggiungere l’obiettivo della ‘Recidiva zero’, al fine di avviare una logica di rete che rappresenti, per l’intera popolazione dei reclusi, una prospettiva e una speranza di integrazione, dando compiuta applicazione al principio di rieducazione della pena previsto dall’articolo 27 della Costituzione”. Intanto, il mondo politico plaude all’iniziativa del Papa. “Una decisione che impegna tutti noi ad affrontare il tema carceri”, asserisce il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che chiede più giudici di sorveglianza e agenti della Penitenziaria, e di “intervenire sulla carcerazione preventiva e di far scontare la pena in comunità ai tossicodipendenti”. Per la responsabile nazionale giustizia del Pd, Debora Serracchiani, “il Partito democratico è pronto al confronto sull’argomento, ma è necessario che il governo cambi radicalmente approccio”. “Quest’anno - sottolinea Serracchiani - abbiamo visitato la gran parte degli istituti penitenziari italiani nell’ambito della campagna ‘bisogna aver visto’: siamo di fronte a una forte emergenza umanitaria. Serve più personale, investimenti infrastrutturali e una visione che restituisca alle carceri il ruolo di luoghi di rieducazione e reinserimento e il ddl Sicurezza, ora al Senato, rappresenta un’opportunità concreta. È tempo che il governo dimostri di voler affrontare davvero il problema con soluzioni strutturali e coraggiose iniziando con la cancellazione di quella norma incivile che costringe al carcere donne incinte, bambini e bambine”. Secondo Samuele Ciambriello, portavoce della conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale, “tra suicidi, morti e sovraffollamento è raddoppiato il numero dei detenuti in attesa di giudizio: 19mila sono stranieri, 17mila tossicodipendenti, più di quattromila malati di mente”. “In un anno così nero - si chiede Ciambriello - come non valorizzare la scelta del Papa di aprire una Porta Santa in un carcere? Un unicum nella tradizione della cristianità che, non a caso, è arrivato nel giorno di Santo Stefano, primo martire della Chiesa cattolica”. E un segnale di speranza per tutti. “Effetto Rebibbia” sulle carceri: si riapre il dibattito sui gesti di clemenza di Diego Motta Avvenire, 28 dicembre 2024 L’apertura della Porta Santa rilancia l’attualità di amnistia e indulto, nell’anno orribile dei suicidi e del sovraffollamento in cella. Pressing dell’opposizione su Nordio. Cosa pensano gli esperti. L’anno orribile delle carceri italiane si chiude con un gesto di speranza, che apre a nuove prospettive per il 2025. L’apertura della Porta Santa a Rebibbia da parte di papa Francesco, nel giorno di Santo Stefano, accompagnata dalle parole pronunciate nella Bolla di Indizione dell’Anno Santo, in cui il Pontefice evocava la necessità di “forme di amnistia o di condono della pena”, ha avuto l’effetto di risvegliare dal torpore in particolare il mondo politico, rimasto colpevolmente in silenzio negli ultimi 12 mesi. Eppure la situazione era sotto gli occhi di tutti. Non ci sono mai stati così tanti suicidi in cella, in un anno, dal 1992: a togliersi la vita sono stati 88 detenuti e 7 agenti. Il tasso di sovraffollamento ha superato il 132% e il picco di presenze dietro le sbarre ha riguardato anche gli istituti minorili. Non passa giorno che la cronaca non racconti di proteste per le condizioni indegne dei penitenziari, con la polizia che reclama più tutele e più personale. La riflessione degli esperti - “La mia personale opinione è che un gesto di clemenza potrebbe costituire un punto di svolta che permetta di eseguire le pene rispettando pienamente la dignità di tutte le persone coinvolte, da subito”. Per Domenico Arena, che per anni ha ricoperto il ruolo di Direttore generale per l’esecuzione penale esterna (Uepe, oggi chiamato Giustizia di Comunità) e che dal prossimo 7 gennaio sarà Provveditore regionale per l’amministrazione penitenziaria in Sardegna, un provvedimento del genere “dovrebbe essere l’inizio di un processo di riforma per un sistema di esecuzione penale più umano e giusto, pienamente aderente ai dettami costituzionali, capace di proteggere la collettività e di offrire percorsi educativi e di reinserimento sociale seri e credibili”. Parole in sintonia con quanto sostengono da tempo i cappellani, che in carcere sono interlocutori preziosi per tanti detenuti. Secondo Don David Maria Riboldi, che è cappellano a Busto Arsizio, “il governo dovrebbe ascoltare l’accorata richiesta del Papa, andando oltre logiche di irragionevole cattiveria. Bisogna infatti ridare asilo alla parola “clemenza” per ridare dignità alle persone ristrette negli istituti di pena del Paese. E a chi vi lavora quotidianamente”. L’attenzione al personale di polizia accomuna tutti gli addetti ai lavori. “Un nuovo sistema permetterebbe anche a tutti gli operatori, a cominciare dalla Polizia penitenziaria, di lavorare in condizioni più accettabili e dignitose, dedicandosi efficacemente alla propria missione” spiega Arena. Senza dimenticare che un atto come l’amnistia o l’indulto non andrebbe letto solo in una direzione. “Un gesto di clemenza può aiutare un detenuto a scavare nella propria coscienza” sottolinea don Marcello Cozzi, che ha seguito al 41 bis tanti boss mafiosi. “È giusto chiedere loro di aiutarci a portare a galla la verità in tante storie di dolore che essi stessi hanno provocato, chiedendo agli stessi detenuti gesti analoghi di distensione e di perdono verso le vittime delle loro azioni”. Un dibattito in 48 ore - Quel che è mancato, finora, è stato un dibattito pubblico su questo tema. D’improvviso, nelle ultime 48 ore, il tema ha però tenuto banco. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto che bisogna ripartire da “sport, lavoro e cultura nelle carceri” e alle sue parole ieri ha fatto seguito Maurizio Lupi, leader di Noi Moderati, secondo cui “va risolto il grave problema del sovraffollamento carcerario. Il problema non è solo svuotare gli istituti penitenziari, ma anche e soprattutto evitare la recidiva”. All’apertura del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, che su Avvenire ha chiesto ai partiti di ragionare sulla “possibilità di un indulto parziale”, non si sono però accodate altre prese di posizione da parte dei partiti della maggioranza, in particolare Fratelli d’Italia e Lega, mentre per Forza Italia, Antonio Tajani ha parlato subito di “soluzioni necessarie, a partire dalla carcerazione preventiva”. Forte il pressing delle opposizioni, con la vicepresidente Pd della Camera, Anna Ascani, che pubblicando su Instagram la foto del Papa a Rebibbia, ieri ha chiesto al governo di “impegnarsi per tutelare la dignità umana” dietro le sbarre. Attacchi all’esecutivo sono arrivati da Avs (per Ilaria Cucchi, “maggioranza e governo usano il carcere come discarica sociale”) e da + Europa (con Riccardo Magi che sottolinea come “sul carcere il Papa c’è, lo Stato no”). Sullo sfondo, c’è l’ultimo grido d’allarme lanciato dalle associazioni dei giuristi italiani, che hanno espresso “sconcerto” per la situazione in cui versa il sistema penitenziario. “Società civile e istituzioni si muovano, è in gioco la nostra civiltà giuridica”. Pinelli propone un indultino: la (sua) maggioranza lo gela di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 28 dicembre 2024 L’idea del vicepresidente del Csm vede contrari da sempre Lega e Fratelli d’Italia. Forza Italia non ha preso posizione. Divise anche le opposizioni. “Auspico che le forze politiche, tutte insieme, ragionino sulla possibilità di un indulto parziale”, ha dichiarato in una intervista al quotidiano Avvenire il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, l’avvocato padovano Fabio Pinelli. L’indulto, ha sottolineato il numero due di Palazzo Bachelet che aveva partecipato all’apertura della Porta Santa da parte di Papa Francesco all’interno del penitenziario romano di Rebibbia, permetterebbe di affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario che “incide sul rispetto della dignità delle persone”. Inoltre, ha proseguito Pinelli, serve “compiere una riflessione di politica giudiziaria più ampia, di largo respiro”, aprendo la strada alle sanzioni pecuniarie rispetto a quelle detentive. Parole indubbiamente forti che hanno però spiazzato tutta la maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni, a iniziare dalla Lega, il partito che lo ha fortemente proposto lo scorso anno in qualità di componente laico del Csm e che non ha voluto ufficialmente fare alcun commento. L’unico intervento sul tema del carcere è stato quello del generale Roberto Vannacci, eurodeputato del Carroccio molto legato a Matteo Salvini, per il quale la solidarietà è possibile solo nei confronti delle “vittime della criminalità e mai per i detenuti”. La presenza il giorno di Santo Stefano del vicepresidente del Csm a Rebibbia con il Santo Padre non è comunque passata inosservata. A parte il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che si è limitato a inviare al termine della funzione religiosa un breve comunicato, da via Arenula non si è fatto vedere nessuno. Non era presente il vice ministro Francesco Paolo Sisto e non erano presenti i due sottosegretari, il meloniano Andrea Delmastro, che ha peraltro la delega al carcere ed alla polizia penitenziaria, e il leghista Andrea Ostellari. Probabilmente c’è stato il timore di trovarsi in difficoltà davanti al prevedibile intervento del Papa, che non ha mai fatto mistero in questi anni della necessità di provvedimenti di clemenza nei confronti dei detenuti. La maggioranza di governo, invece, è da sempre contraria ad ogni ricorso all’indulto e tanto più all’amnistia per risolvere il sovraffollamento. “Non è all’ordine del giorno perché siamo contrari all’amnistia e a qualsiasi provvedimento svuota carceri che rappresentano una resa dello Stato che così certificherebbe di non essere più in grado di far rispettare le sentenze di condanna”, ha più volte affermato Delmastro. “C’è la massima sensibilità del governo rispetto agli appelli lanciati da Papa Francesco sulle condizioni nelle carceri. La richiesta di “clemenza” del Santo Padre la accogliamo nel senso di incanalarla in una serie di iniziative strutturali che rendano dignitosi i tempi e i luoghi di esecuzione della pena”, aveva invece dichiarato Ostellari in una intervista lo scorso anno sempre al quotidiano della Conferenza episcopale. “La soluzione per noi non è in provvedimenti di amnistia o indulto, ma ciò non vuol dire non prendere seriamente in considerazione il grido di dolore che viene sia dai detenuti sia dal personale penitenziario”, aveva aggiunto Ostellari. Il governo, come puntualizzato anche di recente da Nordio, spera di risolvere il problema del sovraffollamento con la realizzazione di nuove carceri (ha da poco nominato un commissario straordinario al riguardo, ndr), il miglioramento di quelle esistenti, il completamento degli organici della polizia penitenziaria e degli educatori. Oltre a stipulare degli accordi per far scontare la pena ai detenuti stranieri nei Paesi di provenienza. E poi c’è l’ostacolo insormontabile dei numeri. Per l’amnistia e per l’indulto serve la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Forza Italia, che nella compagine governativa è il partito con una maggiore sensibilità su questi temi, non ha preso posizione. Il deputato Pietro Pittalis, componente della Commissione giustizia della Camera, contattato dal Dubbio, ha affermato che il gruppo non ha al momento discusso di questo argomento e che quindi ogni decisione è prematura. Ma anche se ci fosse una apertura degli azzurri, come detto, non ci sarebbero i numeri necessari in Parlamento. Difficile dall’opposizione trovare sponda nel Movimento cinque stelle per un provvedimento del genere. L’appello di Pinelli per un indulto parziale rischia dunque di cadere nel vuoto e di esacerbare ancora di più lo scontro fra governo e Csm che, all’inizio del prossimo anno, si appresta a discutere un parere sulla separazione delle carriere, l’unica riforma costituzionale che ha la possibilità di essere realizzata. Riguardo un eventuale provvedimento di amnistia o di indulto, lo stesso Csm non ha ad oggi preso una posizione. E considerando i diversi orientamenti culturali presenti in Plenum è difficile una decisione unitaria sul punto. Amnistia e indulto sono dunque destinati a rimanere un tabù per molto tempo ancora. Nel 2006 l’ultimo atto di clemenza e solo il 10% dei beneficiari ritornò in cella di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 28 dicembre 2024 Era un secolo fa, il 14 novembre del 2002, quando dal popolo delle carceri partì l’urlo di gioia. I detenuti di tutta Italia avevano potuto vedere e sentire in diretta tv il Papa più intellettuale ma anche più umano, quel Karol Wojtyla poi diventato Giovanni Paolo II, il primo a varcare la soglia di Montecitorio con il Parlamento in seduta comune, chiedere al mondo della politica “un atto di clemenza per i detenuti”. Un fatto storico, quello che fungerà da detonatore per quel che succederà quattro anni dopo, quando sarà un ministro della Giustizia ex democristiano, Clemente Mastella, a convincere il secondo governo Prodi e il maggior partito della sinistra dei Ds a portare in Parlamento la proposta di indulto. Che passerà con una maggioranza addirittura superiore ai richiesti due terzi, grazie al voto determinante di Forza Italia e di Silvio Berlusconi, che erano all’opposizione. Un anno e mezzo dopo quel governo e quel voto, il governo Prodi non ci sarà più e neppure il ministro Mastella, dimissionario in seguito al consueto intervento a gamba tesa della magistratura. Chissà se anche quell’iniziativa di indulto, per niente gradita al sindacato delle toghe, non abbia influito su quel che avverrà in seguito, con l’arresto di Sandra Lonardo, moglie del guardasigilli e presidente del consiglio regionale della Campania. Quel 29 luglio del 2006 la Camera dei deputati fece qualcosa di grande, con i suoi 460 sì (contro i 94 no e i 18 astenuti) al diciottesimo indulto votato in via definitiva dal Parlamento, che sarà anche l’ultimo. Perché nessun governo di quelli che succederanno al Prodi secondo e nessuna maggioranza parlamentare avrà più quel coraggio, quella forza e anche quel convincimento, nonostante le carceri siano oggi più affollate di allora. Erano 60.000 i detenuti nel 2006, oggi sono duemila di più. L’ultimo “atto di clemenza” fu l’unico non collegato anche a un provvedimento di amnistia, ma batté comunque due record rispetto ai precedenti. Perché consentì uno sconto di pena di tre anni, uno in più di quelli del passato, ed estese il provvedimento a una serie di reati molto ampio. Ma le proteste che seguirono l’approvazione e che avevano punteggiato tutti i giorni dell’iter parlamentare con manifestazioni davanti a Montecitorio e palazzo Madama, ma anche nelle piazze di tutta Italia, avevano in mente solo un’immagine, quella dei “corrotti”. Mani Pulite di oltre dieci anni prima era ancora ben presente, anche se non c’erano ancora Grillo e i grillini, ma c’era Di Pietro con la sua Italia dei Valori, gli antenati del Movimento cinque stelle. Lui era membro del governo, ministro alle Infrastrutture, e il suo partito era in maggioranza. Ma fecero fuoco e fiamme, arrivando persino a pubblicare nel proprio sito i nomi e i cognomi dei deputati e senatori che avevano votato a favore, ricevendo una severa censura da Fausto Bertinotti, presidente della Camera. Di Pietro si era addirittura autosospeso dalla carica, recedendo solo dopo che lo stesso Mastella aveva minacciato Prodi di far cadere il governo. Strana nemesi della storia, visto che saranno poi le toghe a far cadere lui e il governo. Fu un momento storico, quello del 2006, per la sinistra. Fu il momento del coraggio, soprattutto per l’autonomia dal partito delle toghe. Certo c’era un segretario dei Ds come Piero Fassino, che andò a testa alta al festival dell’Unità dove i compagni forcaioli lo fischiavano. E c’erano ministri come Massimo D’Alema e Francesco Rutelli, che non si facevano certo intimidire. Si erano intanto ricompattati, nel ricordo degli antichi fulgori di dieci anni prima, gli uomini del Pool di Milano. Gerardo D’Ambrosio, che era diventato senatore dei Ds proprio quell’anno, era disperato e diceva che a saperlo, che il primo provvedimento di giustizia di quel governo sarebbe stato proprio l’indulto, non si sarebbe candidato. Si era però ben guardato dal presentare le dimissioni, si era limitato a votare contro. Di Pietro, dopo le sceneggiate nelle piazze, alla fine si era arreso, e il giorno della votazione finale non era in aula, facendo sapere che era rimasto a Milano. È tornato in procura, aveva ironizzato Mastella. Non lontano dal vero, perché da quegli uffici milanesi si era alzata forte anche la voce del loro antico capo, Saverio Borrelli. Tutti contro, insieme allo squadrone intero delle toghe, che però a quei tempi, non essendoci al governo né il “Cavaliere nero” Silvio Berlusconi né la “fascistella” Giorgia Meloni, non scendevano in sciopero. Se poi abbiamo la curiosità di sapere come è andata dopo, ci sono i dati dei primi sei mesi, soprattutto sulle recidive, che è poi quello che conta per la società e per i cittadini. Perché i contrari ai provvedimenti di clemenza usano lo strumento della paura, indotta per il timore dell’aumento dei reati. Partendo dall’ufficialità del 68%, che è la recidiva ordinaria di chi commette reati ed entra in carcere, quel che era accaduto dopo l’indulto del 2006 appare più che confortante. Dei 25.694 scarcerati, sei mesi dopo erano rientrati in cella 2.855, cioè l’11,11%. E di coloro che avevano usufruito del beneficio mentre stavano scontando la pena con misure alternative, su 5.869 erano rientrati in carcere 352, pari al 6%. Del totale di 31.563 detenuti che avevano fruito dell’indulto, erano incorsi nella recidiva del reato in 3027, con un risultato del 10,16%. Ben al di sotto di quel che succede quando i provvedimenti di clemenza sono assenti. Vale dunque la pena di provarci ancora, dopo quasi vent’anni? Certo che sì. Anche se, ricordando il voto contrario di Alleanza Nazionale e della Lega di allora, occorre fare una scommessa sul cambiamento. Delle persone, prima ancora che delle sigle di partito. E (forse) puntare ancora su Forza Italia, sia pure senza la presenza di Silvio Berlusconi. E sarà poi interessante vedere come la pensano oggi il partito delle toghe e quelli delle sinistre a loro legate e perennemente subalterne. Di Conte e dei nipotini di Di Pietro inutile parlare. “Sono un agente di Polizia penitenziaria e dico sì a indulto e amnistia” di Marica Fantauzzi Il Dubbio, 28 dicembre 2024 Il 2024 si sta per concludere con 88 persone detenute e 7 poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita. L’ultimo detenuto a morire era un ragazzo di vent’anni, nel carcere di Viterbo. Da sempre Gennarino De Fazio, segretario Generale del sindacato Uil-Pa Polizia Penitenziaria, denuncia la precarietà delle nostre carceri. Come giudica l’anno appena trascorso all’interno del sistema penitenziario italiano? Le condizioni di vita detentive sono inaccettabili. Lo sono da sempre, ma quella di quest’anno è, senza dubbio, una situazione peggiore del passato. Sono condizioni inumane che pesano su chi è recluso e su chi, quotidianamente, lavora all’interno degli istituti. Vorrei ricordare che nell’ottobre del 2022 nel discorso di insediamento alle Camere di Giorgia Meloni, la Presidente citò espressamente l’inciviltà delle carceri sia per chi vi è detenuto, sia per chi vi lavora. E indicava il numero dei suicidi come elemento di riflessione collettiva. Vorrei far notare che all’ottobre di quest’anno, ma soprattutto ora, i suicidi rispetto al dato a cui faceva riferimento Meloni sono notevolmente aumentati. Ovvero: è aumentato il livello di inciviltà delle carceri. È evidente che questo governo ha ereditato almeno 25 anni di abbandono degli istituti da parte di tutte le forze politiche che si sono alternate alla guida del Paese, ma è anche vero che in due anni non solo non c’è stata una inversione di tendenza ma c’è stato un peggioramento. E non è una opinione, è la restituzione di tutti gli indicatori numerici. In questi giorni lei ha sottoscritto un appello promosso da venticinque tra giuristi, funzionari pubblici, docenti universitari e garanti per arrivare all’approvazione di una iniziativa di clemenza nelle carceri. È quindi d’accordo all’ipotesi di un provvedimento di amnistia o di indulto all’interno degli istituti come forma immediata di rimedio al sovraffollamento? Io sì, sono assolutamente d’accordo. Mi sembra l’unica soluzione percorribile e che possa avere un effetto in tempi ragionevoli. Abbiamo 16.000 detenuti oltre la capienza regolamentare, più di 18.000 unità mancanti alla polizia penitenziaria e carenze di ogni genere. È chiaro che bisogna deflazionare la densità detentiva. Io credo che questo sia sotto gli occhi di tutti e non può essere negato. Non lo negano neanche dal governo. Ma si tratta di mettere in atto rimedi credibili. Per capirci, credo che il Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria non servirà a nulla o a molto poco. In passato è già stata sperimentata questa strada con effetti fallimentari (da lì a poco ci sarebbe stata la sentenza Torreggiani e la condanna dell’Italia per trattamenti inumani e degradanti). È evidente che non ci possa essere un incremento della capienza detentiva, e d’altronde anche se riuscisse, bisognerebbe fare i conti con la mancanza di personale. L’unica misura che in questo frangente permette di intervenire drasticamente, per poi procedere con delle riforme complessive che possano stabilizzare il sistema (come del resto è specificato nell’appello), è un provvedimento di clemenza nei termini proposti. E questo al di là di qualsiasi convinzione ideologica. Sui suicidi in carcere c’è disparità tra i numeri effettivi e quelli del Dap. Nel 2020 lei dichiarò che era in atto un “oscurantismo dei dati reali da parte del Dap” sui contagi Covid. Anche per i suicidi si può parlare di oscurantismo dei dati? Non lo so, non vorrei dire questo. Più che oscurantismo, mi pare ci sia una lettura asettica di quelle che sono le certificazioni del medico legale. Mi spiego: è successo che un detenuto in un penitenziario del sud-Italia si fosse suicidato (secondo noi) ostruendo le vie respiratorie con la carta igienica. Per il medico legale pare che non sia evincibile direttamente il fatto che il detenuto volesse suicidarsi: potrebbe essere stata una causa accidentale. Quindi questa morte, come altre, viene inserita direttamente tra i casi da accertare. Ecco, io credo che il Dap dovrebbe fare uno sforzo maggiore che porti anche all’individuazione delle fenomenologie tipiche che precedono e conducono al suicidio. Voglio sottolineare, inoltre, il passaggio offensivo di quella nota in cui ci si riferisce al numero dei morti “per mera informazione statistica”. Peccato che qui non si sta parlando di statistica, ma di vite consegnate nelle mani dello Stato e che vengono spezzate. Come risponde a chi, come i cappellani degli istituti penitenziari lombardi, ha denunciato l’aumento degli eventi critici a seguito dell’interruzione della sorveglianza dinamica? Il fenomeno andrebbe indagato maggiormente, ma la correlazione sicuramente c’è con il sovraffollamento e quindi, di conseguenza, con l’insufficienza di tutti i servizi penitenziari che vengono offerti. I servizi sono carenti già in condizioni normali, figuriamoci in questa situazione di sistematico sovraffollamento. Comunque, quando era stata declamata la sorveglianza dinamica (concepita, tra l’altro, quando vicecapo del Dipartimento era l’attuale parlamentare della Lega Simonetta Matone che disse che la sorveglianza dinamica era un concetto “di cui tutti si sono riempiti la bocca”), era stata spacciata per qualcosa che non è mai stata. Era una apertura generalizzata delle celle senza offrire ai detenuti un qualcosa con cui impegnare il tempo. E questo ha provocato una serie di effetti collaterali, tra cui soprusi di detenuti più forti a danno dei più deboli. Le cause dei suicidi possono essere molteplici, ma la ragione principale è un sistema penitenziario - o a celle aperte o a celle chiuse - diffusamente illegale. A proposito di soprusi, attualmente sono 200 i poliziotti penitenziari indagati per violenze nelle carceri italiane. Dopo i fatti denunciati nell’Ipm di Milano Beccaria, lei ha detto che la disfunzionalità del sistema incattivisce le coscienze generando atrocità da ambo le parti. C’è, secondo lei, una correlazione fra le condizioni di vita all’interno degli istituti e l’acuirsi di fenomeni di violenza a danno delle persone recluse? Il carcere è un generatore di violenza. È criminogeno e lo dimostrano tutte le inchieste in corso. Per argomentare meglio voglio anche dire che sono circa 3.500 quest’anno le aggressioni subite dagli operatori penitenziari da parte dei detenuti. Polizia che evidentemente è mal organizzata e mal gestita e si trova a operare in un sistema che non riesce a proteggere né i detenuti - come sarebbe doveroso - né le persone in divisa. Dopo il Beccaria ci sono state altre inchieste, l’ultima quella di Trapani e anche in quella occasione ho detto che non si può parlare di mele marce, ma di una cesta marcia che fa imputridire tutto quello che c’è dentro. È chiaro che, se non si interviene rispetto a tutti questi fenomeni degenerativi, si crea l’effetto Lucifero di Zimbardo. È impensabile che ci sia una premeditazione di base. È, piuttosto, l’intero sistema patogeno che induce alla degenerazione. Nordio: “No ad amnistia e indulto. Ecco il mio piano” di Elisa Calessi Libero, 28 dicembre 2024 Il ministro della Giustizia: “Il Papa guarda alle coscienze. Un indulto incondizionato sarebbe inutile. Tre mosse per ridurre i carcerati. Servono anche pene alternative”. “Amnistia e indulto” non sono la strada per risolvere i problemi delle carceri, a partire dal sovraffollamento ormai strutturale. Questi atti di clemenza, spiega a Libero il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha accompagnato il Papa al carcere di Rebibbia, durante la cerimonia di apertura della Porta Santa, “sono plausibili come segno di forza e di magnanimità, ma se vengono interpretati come provvedimenti emergenziali svuota-carcere sono manifestazioni di debolezza”. Il Papa, aprendo con un atto simbolico fortissimo una Porta Santa nel carcere di Rebibbia, cosa mai fatta in precedenza, ha riportato al centro dell’attenzione di tutti, cristiani e non solo, la situazione gravissima delle carceri. Cosa ne pensa? “È un gesto evangelico, davanti al quale dobbiamo inchinarci. Esso ubbidisce all’insegnamento di Gesù, e del resto anche Giovanni XXIII era andato a benedire i carcerati a Regina Coeli. Ma oltre alla vicinanza cristiana, questa visita ci ammonisce a evitare quella “cultura dello scarto” che ci fa dimenticare chi sta espiando una pena”. Nel 2024 sono stati 88 i suicidi, il dato più alto degli ultimi anni. L’indice di sovraffollamento è al 133,4%, secondo il Garante dei detenuti. Qualcuno diceva che le carceri sono la cartina di tornasole della civiltà di un Paese. Che voto darebbe all’Italia? “Il fenomeno dei suicidi è un fardello di dolore collettivo, e quando avviene in carcere lo sentiamo ancora più gravoso. Tuttavia esso non è correlato al sovraffollamento, ma piuttosto alla solitudine, al dolore, alla mancanza di prospettive. Sotto questo profilo stiamo lavorando molto per potenziare il sostegno psicologico e cogliere i segnali di allarme di queste fragilità. Il sovraffollamento è problema altrettanto grave, ma non è certo di oggi. La percentuale oscilla secondo variabili diverse. Il numero dei carcerati in certi momenti aumenta in modo significativo ed in questo momento tutti i Paesi d’Europa: ne soffrono, Francia e Gran Bretagna assai più dell’Italia. Pensi che il nostro è uno dei pochi Paesi non sanzionati dalla Cedu per le condizioni dei detenuti, dal momento che in Italia sono rispettati i limiti fissati dalla Ue che, per poco si possa ritenerli, sono 3 metri quadrati per detenuto. Non va dimenticato, poi, che più di un terzo dei detenuti è costituito da immigrati senza lavoro e questo è un dato oggettivo che va studiato senza pregiudizi”. Nella Bolla di indizione del Giubileo, il Papa ha chiesto alla politica provvedimenti concreti, in particolare due: amnistia e indulto. Cosa risponde il governo? Si potranno fare? “Il Papa, come è suo compito, guarda alle coscienze, e sotto questo profilo nessuno di noi può dirsi migliore di un altro. E questo il significato del “non giudicate e non condannate” che ci viene da Gesù. Ma lo Stato guarda alla certezza del diritto, alla sicurezza dei cittadini e alle aspettative delle vittime, e non può chiudere i tribunali. Amnistia e indulto sono plausibili come segno di forza e di magnanimità, ma se vengono interpretati come provvedimenti emergenziali svuota-carcere sono manifestazioni di debolezza, che inducono alla prospettiva dell’impunità e alla commissione di nuovi reati. Il giusto equilibrio si trova nella umanizzazione della pena, con il lavoro, l’attività sportiva e anche culturale all’interno di una struttura che non è necessariamente fatta di sbarre. Penso alle comunità o ad altre forme di detenzione domiciliare per tossicodipendenti o autori di reati di minore allarme sociale. Ci stiamo lavorando, ma non sono cose che si improvvisano”. Non si fa amnistia e indulto perché i partiti della maggioranza sono divisi o, invece, sono tutti contrari a provvedimenti di clemenza? “No, siamo tutti d’accordo che un indulto incondizionato sarebbe inutile e nocivo. Del resto è la stessa dottrina cattolica a insegnarci che il perdono non è gratuito, presuppone la confessione, la penitenza, e il fermo proposito della redenzione. In termini laici, questi concetti si esprimono, come ho detto, con una umanizzazione della pena e la detenzione differenziata”. Qual è il piano che il governo ha in mente, in alternativa ad amnistia e indulto, per diminuire il sovraffollamento delle carceri? “Ci sono varie direzioni su cui ci stiamo indirizzando. Intanto, dei 16mila detenuti in custodia cautelare o in esecuzione della pena in carcere, migliaia non dovrebbero trovarsi lì. La quasi totalità di questi casi è composta da stranieri arrivati clandestinamente nel nostro Paese. Molti hanno i requisiti per andare agli arresti domiciliari, ma non hanno un domicilio e per questo finiscono in carcere. L’idea su cui stiamo lavorando è di creare delle strutture, dei condomini, dove permettere a questi stranieri senza domicilio di scontare gli arresti, con un controllo periodico, non continuo, delle forze dell’ordine. Un’altra direzione è quella degli accordi coi Paesi d’origine: ci sono tanti detenuti stranieri che potrebbero espiare le proprie pene nei Paesi da cui provengono, occorre fare accordi in questo senso. Terza direzione: bisogna limitare la carcerazione preventiva, enfatizzando la presunzione di innocenza. Solo in questo modo si potrebbero togliere dal carcere 18mila detenuti in attesa di giudizio. Stiamo, poi, siglando accordi con le comunità terapeutiche per i reati connessi con la tossicodipendenza. Aggiungo che su questo tema è intervenuta anche la Chiesa, con il cardinal José Tolentino de Mendonca, (prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione del Vaticano, ndr.). L’ho incontrato giovedì a Rebibbia e prima ancora alla Giudecca. Infine, stiamo lavorando sulle pene alternative alla carcerazione e sulla ristrutturazione di caserme dismesse”. Che fine ha fatto il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, nominato con un decreto legge dal governo su sua proposta? “Sta ultimando il progetto, che diventerà esecutivo tra breve. Esso renderà possibile la ristrutturazione di carceri e l’adattamento di edifici compatibili con una detenzione sicura, superando molte lungaggini dovute alla burocrazia e alla complessità normativa. Entro un tempo ragionevole ne vedremo i risultati”. Sisto: “Agire sulle carceri ma senza amnistie, non sono rieducative” di Luca Fazzo Il Giornale, 28 dicembre 2024 Dopo il monito del Papa, così il viceministro della Giustizia: “Va limitata la carcerazione preventiva”. “Questo è il primo governo che si occupa seriamente di carceri. Nel 2015 ci fu un richiamo da parte del Papa che ebbe come risposta un assordante silenzio da parte dei governi di sinistra: noi, sul monito di Papa Francesco, invece rifletteremo ed agiremo”: parola di Francesco Paolo Sisto. A ventiquattr’ore dalla visita di Bergoglio nel carcere di Rebibbia è il viceministro della Giustizia a raccogliere dall’interno del governo il grido di dolore lanciato dal Papa aprendo la seconda “porta santa” del Giubileo. Un solo distinguo, ma rilevante, dalle richieste del Pontefice: di amnistia non si parla. Per il resto, Sisto ricorda come “già abbiamo licenziato alcuni provvedimenti utili, prevedendo interventi a favore dei detenuti tossicodipendenti”, “ora è necessario un new deal su limitazione della carcerazione preventiva, incremento delle pene alternative, aumento dei giudici di sorveglianza”. Su questo, assicura Sisto, le parole del Papa non resteranno inascoltate. Ma nessuno “svuotacarceri”: “la pena deve tendere alla rieducazione, e amnistia e indulto non sono certo provvedimenti a tanto finalizzati”. E la speranza, che Bergoglio ha invitato i carcerati a non perdere? “Per restituire speranza ai detenuti è necessario intervenire sul trattamento: lavoro, sport, cultura sono componenti che consentono a chi ha sbagliato di capire che si può e si deve ripartire. Il tutto in un contesto in cui la privazione della libertà non fa mai venire meno la dignità”. Le dichiarazioni del viceministro azzurro, rese ieri sera a Tagadà, su La7, raccontano come nella componente più garantista del governo i temi sollevati da Bergoglio siano ben presenti in agenda (come aveva assicurato a botta calda il vicepremier Antonio Tajani, “il Papa impegna tutti noi ad affrontare il tema carceri”). Mentre sia Lega che Fratelli d’Italia continuano a essere più freddi: “quando parla il Santo Padre lo fa partendo da una cattedra che è quella della dottrina cattolica”, puntualizza Marco Osnato di Fratelli d’Italia, mentre al leghista Roberto Vannacci, secondo cui Bergoglio aveva “visitato persone che hanno derubato, rapinato, ferito, violentato, abusato, ucciso” fa eco ieri il collega di partito Jacopo Morrone, deputato del dipartimento Giustizia, “non ci si stupisce del Pontefice che chiede di spalancare le porte del cuore e parla di speranza rivolgendosi ai soli detenuti”: mentre nessuno “si occupa delle vittime dei reati, persone non considerate quando non del tutto abbandonate, che hanno subito crimini spesso orribili e gravissimi”. Sull’altro versante, come si può immaginare, reazioni di applauso a scena aperta a Francesco, che per la sinistra ha messo il dito sulla piaga: il sovraffollamento, il degrado, la piaga dei suicidi. Per Ilaria Cucchi, deputata di Avs, il Papa “ha squarciato il velo del silenzio” su una realtà dove “i suicidi sono all’ordine del giorno e continuano ad aumentare nell’indifferenza del ministro e del governo”, mentre per il pd Walter Verini nel governo “prevale soltanto una linea carcerocentrica e vendicativa, contraria al recupero e al reinserimento sociale”. E il senatore dem Filippo Sensi chiede che Bergoglio sia invitato in aula a perorare e ottenere il varo dell’amnistia: “Credo che il Parlamento dovrebbe tornare a invitare il Santo Padre in questo anno giubilare a parlare in aula delle carceri, perché le Camere possano agire di conseguenza con un atteso, indifferibile, umano provvedimento di clemenza”. Non buttate le chiavi, aprite le porte di Stefano Anastasìa L’Unità, 28 dicembre 2024 “È un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte” dice Papa Francesco davanti alle detenute e ai detenuti, agli operatori e alle autorità intervenute all’apertura della seconda Porta Santa dell’anno giubilare, nel carcere romano di Rebibbia nuovo complesso. Nelle parole del Papa, “aprire le porte” significa aprire i cuori alla speranza: “i cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza”. Non ci sono chiavi da buttare nella Chiesa del Pontefice che ha cancellato l’ammissibilità della pena di morte dalla dottrina ecclesiastica e che ha detto che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. Non ci sono chiavi da buttare nell’insegnamento di Bergoglio perché la persona non è il suo reato. L’apertura della Porta Santa a Rebibbia, all’indomani di quella aperta in San Pietro, ha un significato particolare, di vicinanza alla sofferenza umana che si consuma dietro quelle mura tutti i giorni, la sofferenza delle persone detenute, cui si aggiungono quella dei familiari e la frustrazione degli operatori. Di fonte a questa sofferenza, Francesco si rivolge ai detenuti e al mondo di fuori. “La speranza non delude”, dice Bergoglio - citando la lettera di San Paolo ai Romani e chiosando assertivamente: “mai!”. “Nei momenti brutti uno pensa che tutto è finito, che non si risolve niente. Ma la speranza non delude mai” aggiunge il Papa, rivolgendosi alle donne e agli uomini detenuti che gli sono davanti, invitandoli ad aggrapparvisi come alla fune che lega l’ancora alla terra. In pochi luoghi come il carcere è necessario il messaggio di speranza del Giubileo, tanto più in questo Paese in cui la disperazione ha portato a livelli intollerabili il numero dei suicidi tentati o consumati in carcere e tra i poliziotti penitenziari. Ma il messaggio di speranza del Pontefice è rivolto anche al mondo di fuori: aprendo i cuori alla speranza anche noi, la cosiddetta “società civile”, possiamo cercare una giustizia che non si rinsecchisca nella riproduzione per equivalente della sofferenza che riteniamo di aver subito, ma si apra invece alle possibilità di un mondo nuovo e di una giustizia sociale fondata sulla eguale dignità degli esseri umani. I nostri “cuori chiusi, quelli duri”, che “non aiutano a vivere”, al contrario, alimentano sfiducia reciproca e, alla lunga, disperazione. Bisogna prenderlo sul serio, questo messaggio giubilare e adoperarsi per una politica che sia all’altezza della domanda di giustizia che esso muove, una domanda di pace e di convivenza, tra i popoli e le generazioni, attraversati da inaudite sofferenze, nelle guerre e nelle minacce al futuro del pianeta. Nel nostro piccolo, in quel fondo di bottiglia in cui si depositano gli scarti delle società ineguali, bisogna rovesciare l’abitudine di scambiare la domanda di giustizia con quella dell’inflizione di una sofferenza in capo a un capro espiatorio. Progetto di tempi lunghi, per una politica dallo sguardo lungo. Intanto, però, come scrive Francesco nella bolla di indizione del Giubileo, siamo chiamati a “essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, a partire dai detenuti che, “privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Per questo Francesco propone ai Governi che nell’Anno del Giubileo “si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. E’ questa l’urgenza di oggi, in Italia più che altrove. Chi si straccia le vesti per le carceri sa che non servirà a niente, senza interventi radicali di Marco Perduca huffingtonpost.it, 28 dicembre 2024 Tanto rumore che ha generato il nulla legislativo di questi tanti anni. La lamentazione sulle carceri è ormai diventata una pappa talmente tanto riscaldata che anche chi continua a propinarla la vive come un inevitabile automatismo da cui, per educazione, immagine o “empatia”, non può sfuggire, ma che a nulla serve. Sono anni che la politica si straccia le vesti di fronte al sovraffollamento strutturale di cui è causa. E non passa giorno senza che l’ultimo arrivato lanci l’ennesimo appello affinché le cose finalmente cambino perché è “intollerabile”, “oltraggioso”, “insostenibile”, “barbaro” eccetera. “Una situazione del genere è indegna di un paese democratico”. Lasciando da parte gli appelli papali che, tranne che su questioni reazionarie, lasciano da sempre il tempo che trovano, abbiamo un governo che ritiene che la “riforma della giustizia” sia uno dei motivi per cui ha vinto le elezioni; allo stesso tempo, dalla presidente del Consiglio in giù non ci si pone neanche lontanamente il problema che a nulla servirà separare le carriere della magistratura requirente da quella giudicante se resterà in piedi l’obbligatorietà dell’azione penale, non si introdurrà una responsabilità civile dei magistrati e, soprattutto, se quotidianamente si continueranno a creare nuove fattispecie di reati inasprendo le pene di un codice penale nato durante il regime fascista. Non passa giorno che non escano notizie sul sovraffollamento carcerario, sulle morti di detenuti e agenti di polizia penitenziaria, casi di malagiustizia, rapporti dei garanti dei diritti delle persone private di libertà e documenti di ong, oltre che libri di vario genere e impostazione e gli immancabili dibattiti su Cesare Beccaria. Tanto rumore per nulla, anzi, tanto rumore che ha generato il nulla legislativo di questi tanti anni - l’ultimo indulto è dell’estate del 2006. Tutta questa agitazione non entra nelle aule parlamentari e sistematicamente fallisce nel tentativo di convincere il legislatore che un problema strutturale come quello della illegalità delle carceri italiane non possa che esser affrontato con proposte che vanno al cuore del problema - una volta le si sarebbero chiamate radicali: amnistia, indulto, depenalizzazione e decarcerizzazione. Secondo il sito che l’analista indipendente Marco Della Stella aggiorna quotidianamente, al 26 dicembre 2024 in Italia erano 61.841 le persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 51.312 posti (di questi, però, 4.436 posti non sono disponibili). Il tasso di affollamento è quindi del 131,925%. Durante l’estate era poco sotto il 130%, prima delle feste oltre il 133%. In attesa della veglia in risposta quanto detto dal Papa all’apertura della seconda porta santa al carcere romano di Rebibbia, che comunque non ci sarà, ci sono passi concreti che possono esser fatti. Ad agosto scorso l’Associazione Luca Coscioni ha diffidato le 102 Asl competenti per la salute nelle 189 carceri italiane per chiedere loro di adempiere al ruolo, previsto per legge, di fornire servizi socio-sanitari e di monitorare le condizioni di igiene e profilassi degli istituti. Le diffide ricordavano che “la responsabilità per la mancata applicazione e/o i ritardi nell’attuazione delle misure previste per lo svolgimento dell’assistenza sanitaria penitenziaria sono imputabile al Direttore Generale della Asl”. A conferma del fatto che l’attenzione, anche quella istituzionale preposta, dura il tempo di un balletto su TikTok, meno della metà delle Aziende sanitarie ha risposto. Per questi motivi l’Associazione Luca Coscioni a inizio dicembre ha deciso di procedere con altrettante richieste di accesso agli atti per ottenere: la relazioni complete delle visite; eventuali linee guida sul modo con cui queste vengono effettuate, se a sorpresa, a campione o in tutte le zone e reparti, alla presenza dei garanti o altre figure istituzionali etc; la lista delle istituzioni a cui sono stati inviati i resoconti, per es. provveditorato alle carceri regionale, Dipartimento per l’Amministrazione della giustizia, Ministero della giustizia e Ministero della salute; eventuali risposte dall’autorità competente con promesse di messa in opera di quanto necessario per ripristinare eventuali manchevolezze. Le relazioni delle visite in carcere verranno studiate e incrociate con informazioni pubbliche raccolte in modo indipendente e messe in relazione con informazioni condivise in modo sicuro e anonimo sul sito FreedomLeaks. Il sito FreedomLeaks si rivolge a chi, perché parente, volontario, assistente sociale, educatore, formatore o difensore, oppure dipendente delle Asl o dell’amministrazione penitenziaria, entra negli istituti di pena e ritiene di voler trasferire informazioni e segnalazioni relative al mancato rispetto delle leggi che riguardano i diritti e le libertà delle persone ristrette. Grazie alla tecnologia della piattaforma Globaleaks è possibile attivare un canale criptato per inviare le proprie segnalazioni. Dal sito occorre collegarsi al corrispondente indirizzo TOR, usando la sicurezza garantita dal TOR browser, e condividere quanto visto durante la propria presenza in carcere. È arcinoto che il sovraffollamento crea condizioni invivibili ed è proprio per questi motivi che nel 2013 la Corte europea dei diritti umani ha adottato una sentenza, nota come Torreggiani, che ricordò che uno spazio inferiore ai tre metri quadri a persona è di per sé sufficiente a integrare un trattamento inumano e degradante altrimenti noto come tortura. In attesa che le Asl inviino la documentazione richiesta c’è da augurarsi che la notizia dell’esistenza di FreedomLeaks e delle sue possibilità di whistleblowing possa concorrere ad arricchire la conoscenza di come le istituzioni si comportano in ossequio ai loro obblighi di legge relativi (anche) al diritto alla salute in carcere. Chissà che la voce di persone qualunque, che hanno avuto l’occasione o la ventura di entrare in un carcere, riesca smuovere le intenzioni di chi si batte il petto senza però recitare mail il “mea culpa”. Il “garantismo” di Nordio non è una delusione, perché è sempre stato un equivoco di Carmelo Palma linkiesta.it, 28 dicembre 2024 Un tempo il ministro della Giustizia era favorevole alle pene alternative, a limitare la custodia cautelare e perfino a provvedimenti di indulto e amnistia. Ma in realtà è un giurista reazionario, come tanti a destra e sinistra, per cui la giustizia penale è solo la continuazione della politica con altri mezzi. Accogliendo il 26 dicembre a Rebibbia Papa Francesco, il ministro della Giustizia avrà pensato a quante rognose polemiche si sarebbe portata appresso questa corvée post-natalizia da portinaio delle galere, su cui comanda come incontrastato podestà il suo sottosegretario e superiore politico Andrea Delmastro Delle Vedove. Se l’è cavata con due battute, che avrebbe potuto sottoscrivere pure Fofò Bonafede, sulla necessità di portare in carcere sport e lavoro, arte e cultura. Neppure mezza frase sull’opportunità di portare fuori dal carcere un po’ di detenuti, condannati ad aspettare un fine pena più o meno prossimo in condizioni di cattività bestiale, e di non stiparvi migliaia di innocenti in attesa di giudizio, destinati a gonfiare il conto e le spese delle ingiuste detenzioni. Eppure la situazione fuori controllo è documentata proprio da chi la dovrebbe, per così dire, controllare. Secondo l’ultimo report del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute i cosiddetti eventi critici (dalle aggressioni alle sommosse, dagli atti di autolesionismo ai suicidi) sono aumentati a dismisura nell’ultimo anno. Gli atti di autolesionismo sono stati dodicimila cinquecento quarantaquattro, circa un caso ogni cinque detenuti; i tentati suicidi sono stati duemila trentacinque. I suicidi tristemente riusciti sono stati finora ottantotto; il suicidio è la prima causa di morte tra i detenuti e il complesso delle cause di morte naturale lo sopravanza di poche decine di unità. Nelle carceri vi è una diffusa e generalizzata condizione di degrado strutturale e sociale, di cui sovraffollamento e assenza di servizi sono una manifestazione evidente, ma non esaustiva e neppure del tutto rappresentativa, visto che la degradazione della galera, nel concetto del legislatore patriottico, è il giusto sovrapprezzo dell’afflizione penale, quindi non è un’anomalia rimediabile, bensì un complemento necessario del sistema carcerario, come spiegava il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove in orgasmo politico per il soffocamento dei reprobi nei blindati della polizia penitenziaria. La destra, peraltro, non è la sola responsabile della condizione incivile delle carceri italiane, ma fa per libidine e profitto ciò che altri governi, anche di sinistra, hanno fatto in precedenza per viltà o timore del guadagno altrui: lasciare che la sofferenza dei galeotti dilaghi a misura della sua legittimazione politica, sacrificare la “prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” della legalizzazione delle carceri, come la definì Giorgio Napolitano nel 2011 da Presidente in carica e la ribadì due anni dopo in un drammatico messaggio alle Camere, al fomento dell’ideologia della galera come sola igiene del mondo e risarcimento espiatorio dell’indignazione popolare. Il ministro della Giustizia, nel suo passato da tenorino del garantismo convegnistico, ha gorgheggiato pregevolmente anche sulla funzione rieducativa della pena, sulle misure alternative alla detenzione e perfino sui provvedimenti di clemenza, quando il ricavo della sua testimonianza accademica superava il costo del disallineamento politico dallo schieramento, alla cui causa pure continuava a prestare apertamente servizio, come ad esempio sulla legittima difesa o sull’immigrazione. Nordio mostrava di vedere i problemi della galera e di apprezzare soluzioni invise a destra fino a che questo è servito ad accrescere il suo capitale reputazionale e la sua spendibilità politica. Passato all’incasso con l’ingresso in Via Arenula i suoi divertissement para-pannelliani sulla dignità dei detenuti non avevano più ragione di essere. L’errore di chi vorrebbe ricongiungere il Nordio pre-ministeriale a quello post-ministeriale è di ritenere che il suo garantismo calligrafico abbia ceduto, alla prova dei fatti, a una patologica e colpevole assenza di coraggio e di disciplina. Invece occorre rassegnarsi al fatto che quella garantista è per l’ex pubblico ministero veneziano una delle maschere carnevalesche di un reazionario di buone letture, che ritiene che la giustizia penale sia solo la continuazione della politica con altri mezzi e dunque che la garanzia dei diritti non possa riguardare i nemici. Donde un’idea galantomistica e discriminatoria del garantismo, applicabile solo a persone di molto rispetto, tra cui sarebbe contraddittorio comprendere i detenuti. Il Guardasigilli, come tutta la destra italiana senza alcuna eccezione, non pensa affatto che il diritto penale sia un farmaco proprio perché è un veleno e che la pretesa punitiva dello Stato sia di per sé una forma di potere smisurato, eccezionalmente necessario e mai comunque innocuo, da limitare proprio per ragioni di libertà, prima che di giustizia. Pensa, come tutti i reazionari (compresi ovviamente quelli di sinistra), che ognuno debba avere il diritto penale che si merita e che gli immeritevoli stiano tutti nel campo opposto a quello delle persone dabbene, che egli deve rappresentare e difendere. Un diritto penale, diciamo così, modulare, ristretto ed espanso a seconda della diversa rispettabilità dei suoi beneficiari o dei suoi bersagli. Da quando è arrivato a Via Arenula sono svariate decine i nuovi reati (spesso semplicemente duplicati) e gli aggravi di pena stabiliti da una legislazione penale tanto bulimica, quanto indifferente a quell’etica delle conseguenze che dovrebbe sempre ispirare l’azione di governo, a maggior ragione quando si tratta della libertà e della dignità delle persone. I detenuti sono cresciuti di oltre il dieci per cento (quelli minori addirittura del cinquanta per cento) e sono tornati ai livelli di dodici anni fa, pure a fronte di un numero di delitti denunciati di gran lunga inferiore. Le uniche garanzie che Nordio considera pertinenti sono quelle relative al target dei presunti meritevoli, non a quello dei sacrificabili a quella teoria del diritto penale d’autore o del nemico che deriva la colpevolezza dalla persona stessa dell’indiziato - il drogato, lo zingaro, l’immigrato, il pregiudicato… - e non dalla prova della sua condotta illecita. Infatti il garantismo di Nordio è a misura del tipo antropologico della destra italiana, chiamiamolo il retequattrista collettivo, per cui la presunzione di innocenza, alla fine, è un diritto dei veri innocenti e non può diventare un privilegio dei veri criminali. Alla fine sarebbe bene che tutti - a partire dai garantisti apolidi della politica italiana - iniziassero a considerare Nordio per quello che è: non una delusione, per quello che avrebbe potuto essere e fare, ma un equivoco, per quello che è sempre stato e ha sempre fatto, pure come pm, dietro ai camuffamenti dottrinari liberal-garantisti. Margara, Gozzini e la legge (tradita) che voleva umanizzare il sistema penitenziario di Mario Lancisi Corriere Fiorentino, 28 dicembre 2024 Qualche giorno prima di essere consacrato nuovo arcivescovo di Firenze, il 24 giugno scorso, Gherardo Gambelli si è recato a Sollicciano a salutare i detenuti di cui era cappellano. Un saluto, il dono di una bibbia, molti abbracci. E sull’emergenza carceraria, intervistato dal Corriere Fiorentino, disse: “Serve investire sulle misure alternative, anche per diminuire il sovraffollamento delle carceri. Se non vengono attuate queste misure, è forse anche perché esiste un pregiudizio verso queste persone, ma non può esistere solo la giustizia vendicativa, serve anche quella ripartiva”. Da allora per i detenuti non è cambiato nulla e Sollicciano resta un inferno, come ha denunciato l’arcivescovo, che nei giorni prima di Natale è tornato nel carcere fiorentino a celebrare la messa. Così come il Papa è stato nel carcere romano di Rebibbia. Un’attenzione al mondo del carcere che affonda le radici nel Vangelo, come scrisse nel novembre del 1943, il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer che visse il dramma della prigionia nella Germania hitleriana: “La cella di una prigione è un ottimo termine di verifica per la situazione di Avvento”. L’arcivescovo Gambelli però non si limita a predicare speranza, ad abbracciare i prigionieri, ma disegna una via di uscita dall’emergenza: “Investire sulle misure alternative”. Una via concreta, politica. Che è dentro la storia di Firenze. Per non tornare troppo indietro nel tempo, al Granducato di Toscana, che vietò la pena di morte il 30 novembre 1786, diventando il primo Stato al mondo ad abolirla, basta indicare due nomi del nostro secondo Novecento: Mario Gozzini e Alessandro Margara. Gozzini, fiorentino, da senatore cattolico eletto come indipendente nelle liste del Partito comunista, fu il fautore della riforma carceraria approvata dal parlamento nell’ottobre del 1986. Riforma, la cosiddetta legge Gozzini, che prevedeva una serie di misure alternative e rieducative del detenuto. Gambelli allora aveva solo 17 anni ma è probabile che la sua proposta di misure alternative per i detenuti si riallacci alla legge Gozzini, che con il tempo è stata rivista sempre al ribasso, modificata, fino a spolparla dei suoi aspetti più innovativi. L’emergenza delle carceri tornata al centro del dibattito pubblico ripropone però l’attualità di Gozzini, insegnante, scrittore e giornalista, morto il 4 gennaio 1999, a 79 anni, con il dolore, e la rabbia, di vedersi svuotare, dimezzare la sua legge. L’indomani Adriano Sofri, detenuto allora nel carcere di Pisa, scrisse sul Foglio: “Benché in questi giorni, per contenere i telegiornali, la sorveglianza nelle galere sia più stretta, migliaia e migliaia di detenuti, nostrani e stranieri, sono usciti e hanno partecipato, senza chiedere il permesso, invisibili e disciplinati, all’estremo omaggio a Mario Gozzini, uomo giusto. Poi sono tornati dentro”. La legge Gozzini ebbe un grande impulso per opera di un altro illustre toscano, Alessandro Margara, massese, giurista, magistrato di sorveglianza, garante dei detenuti per la Toscana, morto a Firenze nel 2016 a 86 anni. Ispiratore e poi difensore della legge Gozzini, Margara, da buon cattolico era solito dire “il carcere dopo Cristo”. Faceva riferimento non alla nascita, ma alla morte di Gesù. Detenuti come crocifissi, carcere come Getsemani. Margara operò per riforme anche piccole, concrete ma molto apprezzate dai detenuti. Portò avanti battaglie fondamentali per i detenuti come quella per il riconoscimento del diritto ai “rapporti affettivi”. Alla sua morte qualcuno scrisse che trattava i detenuti “come persone umane”. Tradito il carcere della Costituzione, è stato trasformato in una gabbia di matti di Cesare Burdese L’Unità, 28 dicembre 2024 Ho visitato di recente la Casa circondariale La Dogaia di Prato in compagnia di esponenti di Nessuno tocchi Caino, avvocati della Camera penale, rappresentanti delle istituzioni locali e persone impegnate in attività di volontariato in carcere. Non tornavo a Prato dal 1988, quando ero stato al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, reduce da un convegno sul rapporto del carcere con la città, alla presenza del grande architetto toscano Giovanni Michelucci ed esponenti della Fondazione che porta il suo nome. Allora erano passati grossomodo 13 anni dal varo della riforma dell’Ordinamento penitenziario e 2 da quello della legge “Gozzini”, due strumenti giuridici incentrati sul concetto di pena finalizzata alla risocializzazione del condannato. In quel convegno venne denunciata l’inerzia con la quale i due provvedimenti legislativi erano attuati e quanto poco si fosse avviato. La conclusione era che il carcere continuava di fatto a essere quello di sempre: un luogo di emarginazione, di condanna all’ozio ed alla perdizione e dove la Costituzione veniva quotidianamente tradita. A distanza di decenni, mi ritrovo a sentire e dire le stesse cose. Rifletto su come due realtà tanto diverse tra loro, il Luigi Pecci e La Dogaia, ma pur sempre inserite nello stesso contesto socio culturale che nei decenni si è evoluto, possano avere avuto sorti tanto contrapposte. La prima ha seguito le dinamiche di una società in evoluzione, adeguandosi di volta in volta, certamente anche nella sua dimensione spaziale, allo spirito del momento, la seconda quasi è rimasta immobile, dentro un edificio immutato dalle origini, concepito per contenere e incapacitare. Il carcere, refrattario ai cambiamenti, è condannato ad avere una duplice identità: quella ideale della norma e quella reale manifestata dai fatti. È con quella reale, sempre vincente su quella ideale, che nelle carceri che visito mi ritrovo a confrontarmi sugli stessi motivi. Resta il fatto che ogni visita sia per me sempre un evento unico, foriero di emozioni, riflessioni e stimoli. La visita a La Dogaia mi porta a rimarcare, per l’ennesima volta, la contraddizione della presenza in carcere di detenuti dipendenti da sostanze di ogni tipo e con disagio psichico e di detenuti condannati all’ozio forzato nella loro quotidianità di assenza di significativi contatti umani, il tutto in un contesto materiale inadeguato e degradato e con carenza di mezzi e di personale. La maggioranza dei detenuti presenti a La Dogaia ha comportamenti problematici, difficilmente gestibili da poliziotti penitenziari nuovi assunti, freschi di studi e inesperti. Un quadro desolante che rafforza in me la convinzione del tradimento reiterato nei confronti della pena costituzionale e dei principi della pena riformata. A La Dogaia mi sono imbattuto in due detenuti che lo fotografano: uno che dice di essere un Bluetooth con il quale i suoi compagni detenuti possono interloquire e uno ergastolano, che ci ha urlato la condizione di ozio forzato che, contro la sua volontà, è costretto a vivere. Il primo vive insieme agli altri, molti come lui, in una sezione invasa dalle cimici, costretto a dormire su di un materasso infestato dalle zecche in lenzuola che vengono cambiate ogni tre mesi, dove nel bagno l’impianto idrico è dotato di sola acqua fredda, senza doccia anche se prevista dalla norma del 2000, e il vitto giornaliero insufficiente rispetto alle presenze. Il secondo vive in una delle due sezioni ad alta sicurezza presenti a La Dogaia, insieme ad altri quarantanove detenuti, potendo deambulare per otto ore al giorno fuori della cella da due, ma condivisa con altri due. Gli spazi a sua disposizione, oltre la cella con il wc dove si cucina, sono un lungo corridoio sul quale si affacciano le celle e che porta a una stanza disadorna, denominata pomposamente “stanza della socialità”. All’aperto egli dispone di un cortile tutto cementato dove poter trascorrere le ore d’aria. La maggior parte del tempo la vive al chiuso, in locali anonimi e malamente arredati quando lo sono, per lo più illuminati artificialmente e con affacci fortemente limitati sull’esterno; il colore dove presente è quello del carcere, il verde una chimera. Il detenuto lamenta il fatto di non avere l’opportunità di formazione lavorativa o di lavoro, in questo modo costretto come è a vivere unicamente la sua quotidianità nell’ambiente limitato e circoscritto della sezione detentiva. Con rimpianto ci ha evocato gli anni di quando era detenuto in un carcere spagnolo dove la sua giornata era molto movimentata. La mattina usciva dalla sua cella, per andare a lavorare altrove nel carcere, per ritornarci la sera per dormire. Sono uscito da La Dogaia con la sensazione di essere uscito da un fossile, una “terra di lacrime” per detenuti e detenenti, accomunati dalla stessa sorte. Suicidi in carcere: quella strage va fermata. Adesso di Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale* Il Dubbio, 28 dicembre 2024 L’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (Aipdp) e l’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D.” Pisapia (Aspp), letto il report sui suicidi in carcere predisposto dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, aggiornato al 20 dicembre 2024, esprimono il proprio sconcerto per la sempre più allarmante realtà delle carceri italiane e richiamano l’attenzione della società civile e delle istituzioni su un prioritario problema di civiltà giuridica e di tutela dei diritti fondamentali nel nostro Paese. Il 2024 ha segnato, infatti, il record dei suicidi in carcere negli ultimi trent’anni. Il Garante Nazionale riferisce che sono stati 83 al 20 dicembre 2024: 17 in più rispetto al 2023. Ciò significa, in media, che quest’anno ogni quattro giorni un detenuto si è tolto la vita. Il dato è verosimilmente sottostimato, perché vi sono stati nel 2024 altri 20 decessi in carcere “per cause da accertare”. I tentati suicidi sono stati 2.035 (179 in più rispetto al 2023), gli atti di autolesionismo 12.544 (483 in più rispetto al 2023). Questi e altri dati sono il segno tangibile e drammatico delle condizioni di grave sofferenza nelle quali versano i detenuti e, con loro, il sistema penitenziario italiano, ormai da anni afflitto da un cronico sovraffollamento e in molti casi assai lontano da standard compatibili con i principi costituzionali, con le carte sovranazionali dei diritti, e con le regole stabilite dalla legge sull’ordinamento penitenziario, della quale nel 2025 ricorrerà il cinquantesimo anno dall’approvazione. Se è vero che il livello di civiltà di un Paese si misura anche dalle condizioni delle sue carceri e dal trattamento riservato ai detenuti, i dati sui suicidi e sugli atti di autolesionismo negli istituti penitenziari devono indurre tutti a una seria riflessione, tanto più che, come si evince dal report del Garante Nazionale, sembra esservi una correlazione tra quegli “eventi critici” e la saturazione degli istituti penitenziari, dove sono detenute oggi oltre 10.000 persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Il Paese, undici anni dopo la condanna della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per le condizioni di sovraffollamento (sentenza Torreggiani), vive una nuova crisi carceraria, che è ora anche una drammatica “emergenza- suicidi”. Le riforme del sistema sanzionatorio realizzate nell’ultimo decennio hanno certamente evitato il collasso dell’esecuzione penale: sono state necessarie ma, come appare evidente, non sono ancora sufficienti. Va infatti considerato che agli oltre 62.000 detenuti (dato più alto dell’ultimo decennio) devono essere sommate: le circa 95.000 persone che si trovano in esecuzione penale fuori dal carcere per effetto di misure alternative alla detenzione, di pene sostitutive, della sospensione del procedimento con messa alla prova e di altre misure; le persone, molte delle quali non detenute, affidate agli uffici esecuzione penale esterna per valutare e programmare una misura alternativa (complessivamente 46.000); nonché le almeno 90.000 persone che si trovano nella preoccupante e inaccettabile condizione di “liberi sospesi”: condannati a pena detentiva fino a 4 anni che attendono per anni risposta all’istanza di applicazione di una misura alternativa alla detenzione. Si tratta, nel complesso, di un numero esorbitante, che ormai si avvicina alle 300.000 persone e che il sistema dell’esecuzione penale e la magistratura devono poter gestire, dentro e fuori dal carcere, con adeguate risorse e personale formato. Questi numeri palesano la necessità e l’urgenza di interventi normativi e di amministrazione attiva, volti a rendere più efficiente l’esecuzione penale, a ridurre il sovraffollamento carcerario, a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e a garantire il rispetto dei loro diritti, anche sotto il fondamentale profilo dell’assistenza medica, psichiatrica e psicologica. Non è un caso che - come riferisce il Garante Nazionale - il 77% dei suicidi si è verificato in sezioni chiuse. Occorre maturare, a tutti i livelli, la consapevolezza che sul carcere, sugli uffici di esecuzione penale esterna e sugli uffici della magistratura di sorveglianza, che versano in situazione di perdurante e grave carenza di organico, devono essere investite adeguate risorse del bilancio pubblico. La realtà qui sinteticamente ricordata, pur lontana dai riflettori, è da tempo ben nota a quanti, in situazione di disagio quando non di degrado, lavorano ogni giorno per l’amministrazione pubblica dell’esecuzione penale, dentro e fuori le mura di un carcere. Un pensiero va in particolare a quanti, tra il personale dell’amministrazione penitenziaria e della Polizia penitenziaria, lavorano con impegno e dedizione ogni giorno, anche e proprio per sventare i tentativi di suicidio dei detenuti. Non va dimenticato, d’altra parte, che il profondo disagio del lavoro in carcere è testimoniato anche dal dato dei suicidi degli agenti della polizia penitenziaria, che quest’anno sono stati sette, di cui uno, all’Ucciardone di Palermo, sul muro di cinta del carcere. Il Paese ha l’urgenza di adoperarsi per rendere l’esecuzione della pena non solo efficiente ed efficace sul piano della prevenzione, ma anche e non secondariamente compatibile con il suo volto costituzionale, improntato ai principi di umanità, finalismo rieducativo ed extrema ratio della detenzione. Continuare a introdurre nuovi reati e a inasprire le pene, senza considerare che il carcere e le sue alternative non sono risorse illimitate, sarà privo di conseguenze sul piano dell’effettività dei principi su cui si fonda il nostro sistema giuridico e finanche sotto il profilo della mera deterrenza. D’altra parte, senza una riduzione cospicua del numero dei detenuti e seri investimenti sull’esecuzione penale esterna (Uiepe) e le connesse forme di assistenza sociale, la situazione, già insostenibile, potrà solo peggiorare. Senza tralasciare che l’affollamento penitenziario è irrobustito dal frequente (e, talvolta, eterodosso) ricorso alle misure cautelari custodiali anche di lunga durata (oltre il 40% dei detenuti suicidatisi nel 2024 si trovava in carcere in attesa del giudizio di primo grado, ovvero quale appellante o ricorrente per cassazione). In linea con la tradizione dell’Illuminismo italiano, che ricordiamo nel 260° anniversario della pubblicazione della seminale opera “Dei Delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, la sensibilità verso l’umanizzazione della pena rappresenta un tratto distintivo del nostro impegno di giuristi. Per questo, anche e proprio in questi giorni, che per molti ma non per tutti sono di festa, ci sentiamo in dovere di richiamare l’attenzione su ciò che è facile prevedere sin d’ora: senza azioni concrete e una chiara e generalizzata presa di coscienza, il 2025 dell’esecuzione penale segnerà, con ogni probabilità, un altro triste record, di cui il Paese non potrà che vergognarsi. Il nostro auspicio è che ciò non accada e siamo disponibili a tal fine a collaborare in ogni sede, fornendo un apporto di scienza, conoscenza ed esperienza. *Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (Il Presidente, Prof. Gian Luigi Gatta) *Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G. D. Pisapia” (Il Presidente, Prof. Adolfo Scalfati) Suicidi in cella, stillicidio infame macchia l’Italia di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 28 dicembre 2024 Sono 86 caselle sottolineate con un pennarello rosso e indicano le giornate nelle quali una persona detenuta in una delle carceri italiane si è tolta la vita, mentre le sette segnate in blu ricordano le date in cui a suicidarsi è stato un agente della polizia penitenziaria. È il tragico calendario dell’anno che si sta concludendo con cui si chiudono le pagine del dossier “Morire di carcere - raccolta di riflessioni sui suicidi in carcere 2024”. La pubblicazione - che raccoglie in forma sintetica gli interventi di coloro che hanno preso parte a una serie di iniziative promosse nel corso dell’anno dall’Ufficio della garante delle persone private della libertà personale della Città di Torino, organizzate allo scopo di discutere e soprattutto di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno dell’elevato numero dei suicidi in carcere e sulla drammaticità della vita delle persone recluse negli istituti di pena del nostro Paese - è stata presentata dalla garante Monica Cristina Gallo giovedì scorso nella Sala Rossa di Palazzo Civico. L’occasione il tradizionale incontro di fine anno del Consiglio comunale di Torino con i giornalisti. Perché una serie di incontri sui suicidi negli istituti di pena e la pubblicazione del dossier “Morire di carcere”? (alla campagna di sensibilizzazione ha preso parte anche il nostro giornale). “Perché non possiamo restare indifferenti a quello che sta succedendo nei nostri penitenziari. C’è un malessere diffuso e ovviamente incidono tantissimo le condizioni degradate e fatiscenti del nostro carcere: non si può fare la doccia in ambienti ammuffiti, non si può pensare di condividere la cella con una persona che ha altre abitudini o una cultura diversa e non si può neanche pensare che il contributo dei volontari possa risolvere le criticità che ormai sono diventate così tante e così importanti”. Parole, tra quelle riportate dalla pubblicazione, che evidenziano che cosa in parte sta all’origine delle criticità che, purtroppo spesso si sono trasformate in tragedia. Cosa fare per uscire da questa terribile spirale di acuta sofferenza dietro le sbarre che miete vittime sia tra le persone in stato di reclusione, sia tra gli agenti della polizia penitenziaria? Per Benedetta Perego dell’Associazione Antigone, “bisogna dare un senso alle giornate di detenzione con concrete opportunità che non possono essere fermate dalle burocrazie e dai limiti degli istituti stessi, bisogna agevolare e incentivare i collegamenti con l’esterno, i rapporti affettivi, colloqui, chiamate, videochiamate quotidiane, permessi e non permettere che dei trasferimenti per mere questioni organizzative allontanino famiglie da persone detenute; modernizzare e umanizzare luoghi critici, come quelli dedicati ai nuovi ingressi. Occorre inoltre migliorare e modernizzare le articolazioni per la tutela della salute mentale in carcere che non sono adeguate al loro compito”. Negli interventi raccolti dal dossier, più di un relatore segnala nell’alto numero dei detenuti rispetto ai posti disponibili una delle maggiori cause del disagio e anche delle conseguenze ben più gravi. “I tassi di sovraffollamento” evidenzia Andrea Natale di Magistratura Democratica “non consentono di tutelare la salute delle persone e i loro reinserimenti, di garantire, permettere e rafforzare il reinserimento sociale delle persone. L’azione di rieducazione è impossibile in carceri sovraffollate con percorsi detentivi sovrapposti l’uno all’altro che rendono impossibile un serio lavoro sulla vita delle persone. Tutto questo è tradimento della promessa costituzionale”. “Siamo tornati nelle stesse condizioni per cui l’Italia era stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo” aveva sottolineato il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della Regione Piemonte, Bruno Mellano “Le condizioni sono identiche, le questioni sono uguali, le persone sono chiuse in stanza venti ore su ventiquattro, le attività ci sono ma non raggiungono la totalità dei detenuti, e le condizioni degli istituti sono le stesse, anzi peggiorate da decenni di sovraffollamento”. Per superare le criticità, il sistema penitenziario, da quanto emerge dal dossier, ha bisogno di urgenti interventi nelle strutture, colmare gli ampi vuoti degli organici della Polizia penitenziaria e delle altre figure professionali che operano all’interno degli istituti di pena, forse anche di qualche intervento legislativo. Ma non solo, perché, pensando al percorso giudiziario e penale nel suo complesso, occorre anche e sempre agire con umanità, pietas, come ricordava nel suo contributo l’avvocato Roberto Capra, presidente della Camera Penale “Vittorio Chiusano”. “Se non c’è una componente di umanità non si va da nessuna parte, perché tutti possono fare delle scelte legittime ma se la scelta di chi è chiamato a decidere non è caratterizzata anche da un po’ di umanità, pietas, attenzione al profilo dell’errore e alla volontà che impone anche la Costituzione di recuperare questa persona, ma ancor prima di recuperare di attenzione verso chi ha sbagliato cercando di capire anche perché si è arrivato a commettere determinati errori, non si va da nessuna parte”. Il ritorno al passato della sicurezza punitiva di Marco Pelissero Il Riformista, 28 dicembre 2024 La riforma che dimentica la Costituzione e abbraccia il Codice Rocco. Una costante delle scelte di politica criminale in tema di sicurezza pubblica è costituita dall’inasprimento del trattamento sanzionatorio dei reati commessi a danno di soggetti esercenti funzioni pubbliche. In questa direzione va il recente disegno di legge in materia di sicurezza pubblica. Per comprendere il senso delle scelte che il Parlamento si appresta ad approvare (il testo, approvato dalla Camera dei deputati, è ora all’esame del Senato), è necessario fare un passo indietro e collocare le norme che si vogliono introdurre entro una chiara linea di sviluppo. Il presidio penale - Già nella versione originaria del codice penale Rocco, connotato dal generale rafforzamento del controllo penale rispetto alle scelte del liberale codice penale Zanardelli del 1889, abbiamo assistito ad un significativo rafforzamento del presidio penale rispetto all’esercizio di funzioni pubbliche. Da un lato, il codice sanzionava con pene severe la violenza e la resistenza a pubblico ufficiale, nonché il delitto di oltraggio (punito ben più severamente dell’ingiuria realizzata a danno di un qualsiasi consociato privo di qualifiche pubblicistiche) e prevedeva una circostanza aggravante applicabile a qualunque reato, se commesso a danno di un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio; dall’altro lato, aveva soppresso la norma, presente nella disciplina previgente, che consentiva di non punire questi reati, qualora fossero stati commessi come reazione ad una condotta arbitraria del pubblico ufficiale; al contempo, introduceva nel sistema una nuova causa di giustificazione che ai pubblici ufficiali che avessero in dotazione armi ne garantiva l’uso legittimo quando ciò fosse necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza, ampliando così le possibilità di utilizzo di qualunque mezzo di coazione fisica, ben al di là dei limiti ammessi dalla legittima difesa o dall’ordine impartito da un’autorità superiore. La causa di non punibilità - Caduto il regime fascista, già nel 1944, venne reintrodotta la causa di non punibilità della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale al fine di riequilibrare il rapporto tra la tutela dell’esercizio di funzioni pubbliche e la garanzia dei consociati da prevaricazioni dei soggetti con qualifica pubblicistica. La stessa giurisprudenza, più attenta ad inquadrare entro la cornice dei princìpi costituzionali il rapporto tra esercizio dei poteri pubblici di polizia con il rispetto dei diritti individuali, ha riconosciuto legittimità all’uso delle armi solo a condizione di rispettare il principio di proporzione. Per il resto, questo comparto della disciplina penale era rimasto immutato, fino a quando il legislatore decise di abrogare nel 1999 il delitto di oltraggio, nella consapevolezza che la tutela del prestigio dei pubblici ufficiali potesse essere assicurata dalla disciplina penale dell’ingiuria, come per qualsiasi altro consociato. La stagione dei pacchetti sicurezza - Il quadro comincia a cambiare per effetto della stagione dei pacchetti sicurezza che andavano anche ad ampliare e inasprire l’intervento penale. Nel 2007, nell’ambito di un complesso di “misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza connessi a competizioni calcistiche”, venne inasprita la disciplina delle lesioni personali arrecate ad un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive (la riforma fu sollecitata da un caso di cronaca che vide la morte di un poliziotto in servizio per effetto della violenza scoppiata a margine di una partita di calcio); nel 2009, nell’ambito di un “pacchetto sicurezza”, venne reintrodotto il delitto di oltraggio, pur contraendone l’ambito di applicazione; nel 2019 i delitti di violenza, resistenza e oltraggio, quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, sono esclusi dalla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (una scelta irragionevole, in quanto queste fattispecie, in molti casi, presentano in concreto modalità di realizzazione che denotano un tenue disvalore che giustificherebbe l’applicazione di questo istituto). Le garanzie per le parti - In questo contesto il disegno di legge sicurezza interviene ad inasprire ulteriormente la disciplina sanzionatoria per alcuni fatti commessi a danno di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Viene introdotta una aggravante speciale in relazione ai reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, con una corrispondente riduzione del potere discrezionale del giudice nella quantificazione in concreto della pena, perché il giudice sarà limitato nel far valere eventuali circostanze attenuanti presenti. Ulteriormente aumentate sono le pene per le lesioni personali, sempre quando sono commesse a danno di ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o anche solo a causa delle funzioni esercitate (un considerevole inasprimento sanzionatorio, che per le lesioni gravissime arriva a sedici anni, rispetto agli stessi fatti commessi a danno di chi non esercita queste funzioni, dove la pena può andare sino a dodici anni di reclusione); per questi fatti si applica la c.d. flagranza differita che consente, quando non è possibile procedere immediatamente all’arresto, di considerare presente lo stato di flagranza e procedere all’arresto entro quarantotto ore, quando dalla documentazione video-fotografica emerge inequivocabilmente il fatto e l’autore. A garanzia di chi è soggetto ai poteri di polizia è previsto l’uso di dispositivi di videosorveglianza indossabili dalle forze di polizia impiegate nel mantenimento dell’ordine pubblico o di controllo del territorio, idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento: solo che la disciplina prevede non l’obbligo di utilizzo di questi mezzi ma la mera possibilità, condizionata dall’impegno finanziario di spesa necessario per l’acquisto di queste dotazioni. Invece a garanzia delle forze di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria è prevista la copertura delle spese legali in caso di processo penale, civile o amministrativo. L’inasprimento sanzionatorio - Il complessivo inasprimento sanzionatorio denota una chiara linea di progressivo rafforzamento della tutela penale dei poteri coercitivi di polizia senza un rafforzamento delle garanzie individuali. È amplissima la distanza di queste scelte dallo spirito con il quale la giurisprudenza aveva valorizzato il principio di proporzionalità per limitare le condizioni di uso legittimo delle armi da parte dei pubblici ufficiali. Il messaggio che sta alla base delle norme che il Parlamento si appresta ad introdurre esprime una politica criminale più vicina a quella espressa dal codice Rocco che al quadro dei valori costituzionali che dovrebbero sempre costituire il contesto nel quale, a prescindere dalle contingenti forze politiche di maggioranza, ogni scelta sull’esercizio del potere punitivo dovrebbe essere collocata. Carriere separate, battaglia tra Csm e maggioranza di Valentina Stella Il Dubbio, 28 dicembre 2024 Dopo il parere negativo sulla riforma, la maggioranza reagisce: “Si rischia un’invasione di campo”. Secondo l’articolo 10 della legge 24 marzo 1958 - n. 195 “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura” - il Csm “dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario”. Ed è quello che si accinge a fare l’8 gennaio quando il plenum voterà tra le due proposte nate in seno alla VI Commissione: la prima contraria alla riforma costituzionale della separazione delle carriere (dei togati Antonello Cosentino, Roberto D’Auria, Roberto Fontana, Eligio Paolini, e del laico in quota Pd Roberto Romboli), la seconda favorevole (del laico in quota Fratelli d’Italia Felice Giuffrè). L’orientamento è quello di approvare la prima proposta con tutti i togati compatti (Mi, Unicost, Area, Md, Indipendenti) insieme ai laici di espressione della minoranza parlamentare. Dalle dichiarazioni raccolte nella maggioranza sembra però che la leale collaborazione tra i due organi - che prevede una “funzione propulsiva e consultiva, di carattere tecnico-giuridico, attraverso la quale il Consiglio instaura un dialogo con gli organi titolari dell’indirizzo politico e che si esprime attraverso tre tipologie di atto (proposte, pareri, relazione)” - (Marcello Basilico sulla rivista Giustizia Insieme, 4/01/2024) stia per saltare e aprire una nuova voragine tra magistratura e laici di sinistra da un lato e Governo e maggioranza dall’altro lato. La sintesi è: il Csm dica quello che vuole, ma alla fine decidiamo noi. Del resto i pareri non sono vincolanti e le leggi alla fine le fa il Parlamento. Certo è che i toni tra organi e poteri della Repubblica sono al minimo storico. Già a inizio dicembre abbiamo assistito ad uno scontro sul ruolo del Csm da parte del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, e il laico di Piazza Indipendenza, eletto in quota Italia Viva, Ernesto Carbone. Il primo, quando il Csm aveva bocciato il dl Flussi che ha spostato le competenze sui trattenimenti dai Tribunali alle Corti d’Appello, aveva sostenuto: “Il governo continuerà legittimamente, forte del consenso popolare, a programmare lui le politiche migratorie e non altri attori sguarniti nel consenso popolare necessario per determinare le politiche migratorie di questo Paese”. Il secondo gli aveva replicato: “Strano concetto di democrazia ma soprattutto strano concetto del rispetto dei ruoli istituzionali, quello del sottosegretario. Da Componente laico eletto dal Parlamento in seduta comune gli suggerirei più rispetto per il parere espresso a larghissima maggioranza da un organo collegiale di rilievo costituzionale quale il Csm”. Adesso la diatriba è pronta a riaccendersi. La deputata leghista Simonetta Matone, ex magistrato e membro della Commissione giustizia, è stata tranchant: “Da tempo il Csm si arroga poteri non suoi. Invadendo campi propri del potere esecutivo e legislativo. Il vero problema è che questo è stato tollerato, se non addirittura incoraggiato per anni. Ora si è arrivati al redde rationem. La separazione delle carriere è in aula e verrà legittimamente votata da un Parlamento legittimamente eletto. Nel rispetto di ciò che la Costituzione prevede”. Più moderato il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone: “Ogni organo e potere dello Stato espletino le loro funzioni istituzionali e Costituzionali. Il Csm esprima il parere che vuole. Il Governo e il Parlamento hanno già espresso il loro convincimento. La separazione delle carriere è già in aula e verrà approvata in prima lettura a gennaio dalla Camera dei Deputati. Questo è quello che conta”. Mentre per Sergio Rastrelli, esponente di spicco di Fratelli d’Italia e Segretario della Commissione giustizia del Senato: “In questa partita decisiva sui temi della giustizia, è in gioco ancora più che la separazione tra poteri dello Stato, la dinamica del loro equilibrio. Non mi scandalizzano quindi le posizioni corporative, che a volte nascondono purtroppo la difesa di interessi più che dimostrare una resistenza culturale al cambiamento. Ciò che sarebbe invece intollerabile, è l’attività di interdizione rispetto alle prerogative sovrane del parlamento”. Dall’opposizione invece sostengono il contrario e difendono il ruolo del Csm. Per la deputata Valentina D’Orso, capogruppo M5S in commissione Giustizia alla Camera, “ormai da due anni assistiamo ad una costante opera di delegittimazione della magistratura, sarebbe grave e pericoloso se si alzassero ulteriormente i toni. Se governo e maggioranza riproponessero o intensificassero i loro attacchi al potere giudiziario, avremmo un’ulteriore dimostrazione del fatto che ai loro occhi la magistratura è un potere scomodo da addomesticare e sottomettere agli indirizzi politici del governo di turno. Il Csm ha tutto il diritto di esprimere una posizione su una riforma di enorme portata che riguarda non solo la natura dell’ordine giudiziario e l’esercizio del potere giudiziario, ma prima ancora i delicati equilibri tra poteri dello Stato consacrati nella Costituzione. Questo provvedimento, se riusciranno ad approvarlo, creerà una giustizia debole e indulgente con i potenti e meno garantista di oggi con i comuni cittadini”. Anche per la responsabile giustizia del Partito Democratico, Debora Serracchiani, “fatta la separazione delle carriere si rischia l’eterogenesi dei fini ed un indebolimento dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Chi oggi pensa che il pm sia troppo forte e il giudice poco terzo ed imparziale, otterrà con la separazione un rafforzamento del pm e un indebolimento della magistratura giudicante. E per di più si indeboliranno i presidi di legalità posti a tutela dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Più che legittimo quindi che un organo di rilevanza costituzionale quale il Csm si esprima sui rischi di una riforma che altera nel profondo l’architettura costituzionale”. Il 41 bis deve avere una scadenza anche se il detenuto è figlio di Riina di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 28 dicembre 2024 Il 41 bis non può essere applicato senza scadenza. Bisogna valutare l’attuale pericolosità del detenuto anche se ha un cognome pesante. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio il provvedimento con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha prorogato il regime del carcere duro per Giovanni Riina, figlio ergastolano del capo dei capi. Giovanni Riina è in carcere da 28 anni per mafia e omicidio, dal 2002 è rinchiuso al 41 bis. Secondo il Tribunale di Sorveglianza di Roma, il secondogenito di Totò Riina merita il regime riservato ai boss più pericolosi. “Pur in assenza di riconoscimento processuale della qualità di capo o promotore della associazione mafiosa - scrivono i magistrati - è stata rappresentata una posizione di ‘sovraordinazione’ del Riina rispetto ad altri sodali”. Ed ancora: “La associazione mafiosa è ancora attiva nel territorio di Corleone e mancano segnali di effettivo ravvedimento, in presenza di condotta carceraria non sempre regolare”. Da ciò la considerazione della “perdurante capacità del Riina di relazionarsi con soggetti esterni al circuito detentivo”. La difesa di Giovanni Riina - La difesa ha fatto ricorso sostenendo che “il decreto di proroga non contiene alcuna rinnovata valutazione della condizione soggettiva di pericolosità del Riina”. Di fatto ripropone “le motivazioni dei decreti precedenti”. Il suo ruolo “sovraordinato” risale al 1996. Il fratello Giuseppe Salvatore è attualmente libero, ma “non vi è stato alcun accertamento giurisdizionale sulla esistenza di un ruolo di comando esercitato da Giovanni Riina tramite il fratello”. In nessuno dei procedimenti recenti “che riguardano la fazione corleonese di Cosa Nostra è stato coinvolto Giovanni Riina”. Cosa dice la Cassazione - La Cassazione ha dato ragione al figlio di Totò Riina. Il Tribunale di sorveglianza non ha seguito “un percorso argomentativo effettivo ed idoneo a dare conto della perdurante necessità di sottoporre il ricorrente al regime del 41 bis”. Ci si trova di fronte ad “una mera apparenza di motivazione, con reiterazione di valutazioni correlate ai legami familiari del ricorrente e non individualizzate”. Ed ecco il rinvio ad uno nuovo tribunale di Sorveglianza che dovrà specificare meglio in cosa si concretizzi la pericolosità attuale di Giovanni Riina. Per lui si apre lo spiraglio di potere lasciare le restrizioni previste dal carcere duro. No alla consegna se le carceri Ue non garantiscono gli spazi minimi vitali di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2024 Non c’è un obbligo di richiedere informazioni integrative se alla luce dei fatti emerge che non è garantito il rispetto della dignità umana. La consegna di un condannato può essere rifiutata se le autorità dello Stato richiedente non garantiscono, per tutta la durata della detenzione, la possibilità per il carcerato di godere di spazi in linea con i parametri della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Né esiste un obbligo di richiedere informazioni ulteriori se, da quanto emerge dai dati acquisiti, non ci sono garanzie sufficienti che la persona da consegnare, nell’ambito di un mandato di arresto europeo, sia nella condizione di godere dei tre metri quadrati, al netto degli arredi fissi e “sospesi”, nella cella che gli verrà assegnata. Tre metri che devono diventare quattro nei periodi di esecuzione aperta. La Cassazione, con una sentenza in linea con i parametri fissati da Strasburgo, ha respinto il ricorso della pubblica accusa, secondo la quale l’estradizione in un paese Ue, nel caso esaminato la Romania, non poteva essere negata, senza chiedere maggiori spiegazioni allo Stato che aveva assicurato i metri “vitali” - almeno per parte del periodo di restrizione della libertà - senza però specificare se da questi erano detratti gli spazi per i mobili fissi al suolo, o per quelli collocati sul muro a un’altezza che impediva però il libero movimento. Per la Suprema corte, infatti, il paese che chiede la consegna è tenuto a chiarire il rispetto, per tutta la durata delle detenzioni, dei parametri Cedu, che consentono di scongiurare il rischio di un trattamento inumano e degradante. Nello specifico, si era parlato di una quarantena, di 21 giorni, all’arrivo, in una stanza con spazio minimo di 3 metri quadrati. Successivamente il condannato sarebbe stato assegno ad una struttura, rispetto alla quale non veniva dato alcun chiarimento in merito all’area fruibile. Le autorità giudiziarie avevano poi ipotizzato la detenzione semiaperta con 3 metri quadrati a disposizione e, nel caso, la detenzione aperta con quattro metri quadrati. Il tutto senza entrare nel dettaglio dello spazio effettivamente fruibile. Per il Pubblico ministero non c’erano margini per rifiutare di adempiere alla richiesta di estradizione, semmai si poteva, e si doveva, chiedere di più allo Stato che invocava la consegna. Di avviso diverso la Cassazione che ricorda come le informazioni fornite erano tali da non poter escludere il rischio concreto di un trattamento inumano e degradante. Un rischio che uno Stato Ue non può tollerare nel rispetto dei principi fondamentali, ai quali non si sottrae l’espiazione della pena. Emergenza sovraffollamento nelle carceri in Toscana: Sollicciano è primo per autolesionismo di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 dicembre 2024 Le carceri toscane continuano ad essere sovraffollate e questo costituisce uno dei problemi principali per chi vive e lavora tra le sbarre. L’ultimo rapporto dell’associazione Antigone relativo alla nostra regione riporta numeri chiari: su una capienza regolamentare di 3.162 detenuti, in Toscana sono recluse 3.270 persone. Il tasso di sovraffollamento è dunque del 103 per cento, ma questo dato non tiene in considerazione i tanti posti letto non utilizzabili nei penitenziari toscani: sono infatti 549 i posti non agibili per cause varie. Così il tasso di sovraffollamento reale è molto più alto e sale al 124 per cento. “In Toscana 549 posti detentivi non sono agibili — sottolinea Alessio Scandurra dell’associazione Antigone — di cui 211 a Livorno, 135 a Sollicciano e 85 ad Arezzo. Si tratta di tutte situazioni note, che si trascinano da molti anni e che, se fossero risolte, consentirebbero di ridurre significativamente il sovraffollamento a livello regionale. E intanto la situazione resta insostenibile per i detenuti e per chi in carcere ci lavora”. I numeri drammatici di Sollicciano - Secondo Scandurra, “la realtà più drammatica è sicuramente quella del carcere fiorentino di Sollicciano, dove non solo gli spazi ma anche le attività sono del tutto inadeguate e il personale in un reparto che abbiamo visitato è costretto a muoversi con le torce perché non funziona la luce elettrica”. Un problema, quello del sovraffollamento, che produce a cascata tutta una serie di altre complicazioni date dalle ristrettezze di spazi in cella e dal maggior numero di reclusi previsti. Partendo proprio da Sollicciano, tra gli istituti più complicati d’Italia, su 497 posti disponibili, 135 quelli inagibili, i detenuti sono 535. E quindi non è un caso che il carcere fiorentino sia l’istituto di pena in cui a livello italiano si sono registrati più atti di autolesionismo: nel corso del 2022 si sono verificati 375 atti di questo genere, che corrispondono a una media di 75,6 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti. Carenze strutturali e alta conflittualità con gli agenti di polizia - “Si tratta di una struttura che presenta croniche carenze dal punto di vista edilizio (infiltrazioni, cedimenti strutturali, umidità, crepe e intonaco cadente), una popolazione straniera pari al 66% del totale e un’offerta trattamentale e lavorativa insufficiente ed inadeguata” si legge nel rapporto 2024 che Antigone ha presentato lo scorso 23 dicembre. A proposito di lavoro, sempre secondo l’associazione, sono solo il 16,1% le persone coinvolte in attività lavorativa a Sollicciano e soltanto una persona si trova alle dipendenze di datori di lavoro esterni. Inoltre, Sollicciano è uno dei penitenziari dove è maggiore la conflittualità tra reclusi e agenti, il terzo in Italia per numero di aggressioni dopo la Casa circondariale di Caltagirone e quella di Augusta, entrambe in Sicilia. La situazione a Solliccianino - Spostandosi di pochi metri in linea d’aria, anche l’adiacente carcere a custodia attenuata Gozzini, denominato Solliccianino, è sovraffollato. Su una capienza regolamentare di 91 persone, ce ne sono dentro 105. Il Don Bosco di Pisa e San Gimignano - Non bene neppure il Don Bosco di Pisa, dove su una capienza regolamentare di 197, i detenuti tra le sbarre sono ben 281. E poi San Gimignano: 243 è la capienza regolamentare, mentre i reclusi effettivamente presenti sono 317. Prato, Siena e Massa - Male anche l’istituto di Prato con 614 detenuti a fronte di una capienza di 589. E poi Siena: 58 la capienza regolamentare, 74 i reclusi presenti all’interno. E ancora Massa: 239 detenuti presenti su una capienza di 174. Vanno meglio, invece, le altre carceri della Toscana, dove il sovraffollamento non raggiunge il cento per cento. Ma la situazione generale è negativa, e il tema del carcere sta diventando sempre più un’emergenza per il Paese. Non è dunque un caso che Papa Francesco abbia voluto passare il giorno di Santo Stefano nel carcere romano di Rebibbia, dove ha aperto la porta santa e dove ha celebrato la messa. Venezia. Carcere sovraffollato e troppi suicidi: in aumento le diagnosi psichiatriche di Maria Ducoli La Nuova Venezia, 28 dicembre 2024 Il rapporto di Antigone scatta una fotografia sugli istituti di pena in Italia e in Veneto. A Santa Maria Maggiore tre detenuti si sono tolti la vita: ecco la situazione delle carceri a Venezia. Sempre meno spazio, sempre più detenuti. Nelle carceri italiane si fa fatica a respirare. Secondo Ristretti Orizzonti, sono 88 i suicidi in cella avvenuti in tutt’Italia nel 2024, ben tre nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore, a Venezia. “Mai si era registrato un numero così alto, superando addirittura il tragico primato del 2022 che, con 84 casi, era stato fino ad ora l’anno con più suicidi in carcere di sempre”, si legge nel rapporto di Antigone con i dati principali raccolti nel 2024 negli istituti penali. La situazione in carcere - Suicidi che vengono letti anche come conseguenza della situazione nelle carceri, dei luoghi di fragilità prima ancora che di delinquenza dove, oltre al problema della tossicodipendenza, ben il 12% dei detenuti, circa seimila persone, ha una diagnosi psichiatrica grave, percentuale che solo l’anno scorso era al 10%. Non solo disturbi mentali, spesso a portare alla scelta estrema di togliersi la vita ci sono anche le condizioni detentive, il sovraffollamento, pari al 169% nel carcere maschile, mentre in quello femminile è dell’89%. A Santa Maria Maggiore, su 156 posti disponibili, i detenuti sono ben 263, tre per cella e tre a condividere il bagno e la doccia. “Sostanzialmente gli spazi detentivi ufficialmente disponibili sono sempre gli stessi” scrive Antigone nel report “erano 50.228 alla fine del 2016, sono 51.320 al 16 dicembre 2024. Circa 1.000 in più, ma intanto i detenuti sono circa 8.000 in più di allora”. Mentre diminuisce il personale di polizia penitenziaria. “C’era in media un agente ogni 1,7 detenuti nel 2022, uno ogni 1,9 detenuti nel 2023 ed uno ogni due detenuti nel 2024”. A Venezia, dei 149 agenti previsti ne sono attualmente presenti 147, ma per la UilPa ne servirebbero ben 240. La situazione sul fronte del personale è più complessa alla Giudecca, dove su 135 agenti di polizia penitenziaria ce ne sono solo 110 e mancano anche sei dipendenti amministrativi. Migliore, invece, la situazione riguardante i funzionari giuridico pedagogici a livello nazionale: se nel 2022 gli educatori erano in media uno ogni 87 detenuti, sono diventati uno ogni 76 lo scorso anno e, nel 2024, uno ogni 68. Uno sguardo al futuro - A far preoccupare Antigone non sono solo le condizioni delle carceri italiane - non solo sovraffollate ma spesso anche fatiscenti, con celle in cui il riscaldamento non è funzionante e altre in cui l’acqua calda non viene garantita tutto il giorno e per tutti i periodi dell’anno - ma anche il Ddl sicurezza, che introduce il reato di rivolta penitenziaria, che punirà con pene elevate chi protesta senza violenza e con forme di resistenza passiva nonviolenta. “Eventi simili fino al 9 dicembre 2024 ne abbiamo contati solo negli istituti di pena per adulti ben 1.397” fa sapere Antigone, “sono forme di protesta collettiva come la battitura delle sbarre e il rifiuto di rientrare nelle celle. Eventi in cui non si faceva male a nessuno”. E ci si chiede, allora, come e quando il carcere potrà diventare più umano, se ai detenuti viene proibito di difendere i loro diritti, che non sono altro che diritti fondamentali dell’essere umano, al di là di ogni reato. Monza. L’inferno oltre il muro di cinta: sovraffollamento e solitudine di Barbara Calderola Il Giorno, 28 dicembre 2024 Attivisti e amministratori pubblici in visita nel carcere di Monza: 716 detenuti, ma i posti sono 411 “Molti hanno problemi psichiatrici o di droga e non dovrebbero essere rinchiusi in una cella”. Un suicidio e dieci tentativi, 411 posti, 716 detenuti: numeri che raccontano il sovraffollamento del carcere di Monza. Ieri, la visita della più numerosa delegazioni di attivisti e amministratori che sia mai entrata nelle sue celle, “per toccare con mano cosa voglia dire viverci”, dice Roberto Rampi, della segreteria di “Nessuno tocchi Caino”, ex senatore del Pd, in prima linea per la causa dei detenuti. Con lui Sergio D’Elia alla guida del gruppo. Per tutti, “un pugno allo stomaco” fra i tentativi di umanizzare una struttura che non riesce a garantire i diritti costituzionali e la speranza che nasce dall’immagine di papa Francesco che “apre la porta santa del Giubileo a Rebibbia. Il Papa ha scelto l’uomo cattivo - dice D’elia -, un invito alla riflessione per tutti”. Nel pomeriggio a Concorezzo, alla sede dell’associazione Minerva, una riflessione pubblica sull’esperienza. In questo “inferno in terra” si consumano ogni giorno storie di dolore. “Il teatro e la palestra sono inagibili - ricorda Rampi - in alcune celle convivono in tre, ma la terza branda va aggiunta di sera, altrimenti i reclusi non ci stanno”. Un paio di loro sono diventati padri in carcere, hanno figli di 12 e 4 anni con i quali non sono mai stati un giorno e da gennaio “si vedranno tagliare la quarta telefonata settimanale di 10 minuti, le nuove norme ne impongono al massimo tre”. Scampoli di una quotidianità sempre più critica che coinvolge il personale, “sempre sottostimato” e dirigenti, “ci sono anche tanti Abele che condividono con Caino le difficoltà”, sottolinea D’Elia. Fra chi “non dovrebbero essere rinchiuso qui”, le 398 persone con problemi di droga, i 298 con problemi psichiatrici e i 233 in attesa di giudizio, per i quali cioè non c’è una sentenza di colpevolezza. “Numeri che ci dicono che risolvere il problema delle celle pollaio sarebbe facile”, sottolinea Vincenzo Di Paolo, consigliere provinciale dem. “Il nostro scopo - ancora Rampi - è aiutare sempre più persone a varcare la soglia del mondo carcerario”. La visita “può aiutare a cambiare il proprio punto di vista su chi sta dentro. Spesso alla base di tutto c’è già il fallimento della società che non ha saputo offrire opportunità a chi finisce per sbagliare. Si sconta una pena e poi si esce, ma in molti casi fuori non ci sono punti di riferimento e si torna dentro”. Palermo. Il Garante: “Troppi sucidi in carcere, non si parli delle difficoltà solo a Natale” palermotoday.it, 28 dicembre 2024 “La politica del buttate le chiavi per i detenuti non ha funzionato nemmeno quest’anno: i suicidi certificati fra i detenuti sono 88 e 7 fra gli agenti della polizia penitenziaria, un numero record. Ma non sono solo numeri, ci sono nomi e cognomi e nella maggior parte dei casi si tratta di giovani ed immigrati. Pannella definì il carcere discarica sociale e il Papa, in questi giorni, andando controcorrente con la politica che gioisce se un detenuto soffre, apre una seconda porta del Giubileo a Rebibbia e fa appello sul trattamento umanitario e sul principio del recupero della persona”. Lo afferma Pino Apprendi, Garante dei detenuti di Palermo. “Chi frequenta il carcere tutto l’anno lo ripete come un mantra e trova insufficiente che se ne parli solo a Natale per mostrare la parte buona di noi - aggiunge Apprendi - Antigone ha fatto la campagna ‘Il carcere è un pezzo di città’, volendo con questo sollecitare le coscienze di chi amministra le città. In carcere oltre che per suicidio si muore per malasanità, malgrado l’impegno dei pochi medici ed infermieri. Si trascurano perfino patologie gravi come i tumori. L’impegno di psicologi, educatori e assistenti sociali viene reso vano e prevale il sovraffollamento e la burocrazia. Trionfa la ‘domandina’ senza la quale non si muove nulla, sempre che la stessa arrivi a destinazione”. Torino. La speranza del Natale, anche nel carcere minorile di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 28 dicembre 2024 Chi ha partecipato, nella mattinata di venerdì 20 dicembre, alla Messa di Natale all’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti” ha compreso perché proprio qui don Bosco - come scrive nelle “Memorie dell’oratorio” - ha avuto l’intuizione del “sistema preventivo”. “Chi sa, dicevo tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o al meno diminuire il numero di coloro che ritornano in carcere? Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar modo di effettuarlo”. Siamo nel 1855 alla “Generala” (oggi il “Ferrante Aporti”): qui don Bosco, su invito del suo padre spirituale don Giuseppe Cafasso, incontra nelle sue visite i ragazzi detenuti ed è da quei pomeriggi trascorsi con i “giovanetti discoli e pericolanti” che inventa l’oratorio che lo consacrerà il “santo dei giovani”. Ed è per questo che da allora i cappellani che si sono succeduti fino ad oggi sono salesiani. Don Silvano Oni, successore di don Domenico Ricca, scomparso nel marzo scorso dopo 40 anni al “Ferrante”, ha preparato la Messa presieduta dal Vescovo ausiliare mons. Alessandro Giraudo, invitando il coro delle ragazze dell’oratorio salesiano San Paolo guidato dal confratello don Piero Bossù. La prima lettura del profeta Isaia è stata letta in arabo da un novizio salesiano che ha studiato in Tunisia, perché la maggior parte dei 46 giovani reclusi è musulmano. Con lui erano presenti gli altri novizi che ogni sabato, con il loro maestro don Enrico Ponte, vanno all’ “oratorio” del “Ferrante” sulle orme di Bosco che trascorreva i suoi pomeriggi alla Generala a chiacchierare e a giocare con i ragazzi reclusi. Alla Messa, accanto ai giovani detenuti, c’era il direttore Giuseppe Carro, il Procuratore dei minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta Emma Avezzù, il vicesindaco Michela Favaro e poi gli educatori, gli agenti penitenziari, gli insegnanti. All’inizio della Messa, dopo i saluti di don Silvano, uno dei ragazzi ha letto una lettera a nome di tutti i compagni che sono al Ferrante perché hanno sbagliato. Parole semplici e dirette, di chi vuole trasmettere un messaggio profondo in una lingua che non è la sua. È straniero, come la maggior parte dei suoi compagni e si trova in Italia da solo e senza famiglia. Passa velocemente in rassegna le sue disavventure: dormire per strada, essere senza soldi e senza mangiare, aver patito il freddo, aver avuto paura, aver rubato, spacciato. E poi essere stati in balia di persone senza scrupoli e non aver nessuno che dicesse loro cosa fosse giusto fare e cosa no. Racconta l’angoscia e il nodo alla gola che sale quando si vive in un contesto in cui si viene privati della libertà, cosa si prova nel vedere gli uccelli che volano in libertà, quando loro questa libertà non ce l’hanno. Descrive il momento delle videochiamate in cui le loro mamme piangono per loro… Ma nonostante tutto, dentro l’Istituto ci sono anche cose buone: le attività, la scuola, tante persone che ci vogliono bene, un bravo direttore, un comandante che aiuta chi vuole cambiare e le educatrici che fanno tante cose per noi. Conclude la lettera augurando a tutti i presenti feste felici, ringraziandoli per la loro presenza e chiede una preghiera per loro, perché una volta usciti, possano trovare un lavoro, l’unica cosa che desiderano veramente. Parole che commuovono tutti, anche mons. Giraudo che, nell’omelia, ricorda che il Bambino che a Natale nasce al freddo in una grotta le viene per tutti: “Dio ha scelto di farsi piccolo e di abitare nella nostra vita: anche lui è stato straniero, solo, ha avuto paura, fame. Ha condiviso la nostra condizione umana per essere presente anche quando sembra crollarci tutto addosso. Per questo in ognuno dei vostri c’è un riflesso del volto di Dio. Pensiamoci quando ci guardiamo negli occhi”. I poveri dal Papa: lavoro e dignità di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 dicembre 2024 Palazzo Migliori fu messo a disposizione dei senzatetto alla fine del 2019, per volere di Francesco. Gestito dalla comunità di Sant’Egidio con i volontari, ha accolte e avviate a nuova vita più di 150 persone. L’attesa del Natale: Emilia, la “nonna” di tutti, il muratore romeno, la mamma che inventa Stati. Luciano apre le imposte e il colonnato del Bernini irrompe nella stanza pulita, ordinata, con tre letti dal copriletto blu. Di giorno condivide la libertà dolente e infreddolita con i senza fissa dimora, ma la notte lui una casa ce l’ha. In un palazzetto del Settecento con vista su San Pietro che mostra orgoglioso: “Ti piace?”. Molti avrebbero voluto destinarlo a hotel di charme. Invece papa Francesco è convinto che i poveri non meritino solo coperte e cibo, qui distribuiti tutte le sere. Ma anche la bellezza. Così cinque anni fa, quando Carlo Santoro della Comunità di Sant’Egidio lanciò l’idea di destinare loro l’ex convento delle suore calasanziane, e padre Konrad se ne fece latore a Santa Marta, la risposta fu entusiasta e fulminea: “Verrò io a inaugurarlo”. E andò proprio così. Con il Pontefice, era il novembre del 2019, che girava tra le stanze, dispensando benedizioni, saluti e buon umore: alla vista di un fotomontaggio sul muro che lo ritraeva accanto a Gesù e a San Francesco aveva sorriso: “Dove mi avete messo? Mi viene in mente la canzone sugli amici al bar...”. Da allora più di centocinquanta homeless sono andati e venuti nelle suite panoramiche dei poveri. Anziani, stranieri, disoccupati, vittime di malattie, di raggiri o solo di se stessi. Arrivano ricevono biancheria, sapone, shampoo e qualche regola: niente liti né cose prese nei cassonetti. “Manco da miliardaria potrei vivere come qua”, esulta Viola, calcando il cappellino di lana che l’ha protetta dal freddo nell’affaccendarsi senza meta quotidiano. “Qui sono incredibili”, dice arrotando la erre come ha imparato a Bruxelles, prima che suo marito andasse via e il Covid ingoiasse i risparmi suoi e di suo figlio. E poi? “E poi... si mangia benissimo” taglia corto, spazzando via con una risata i ricordi confusi un po’ su tutto. Ma sulle cene no. Il menù del 25 - Se ne ha la conferma nel refettorio con soffitto a cassettoni e terrazza mozzafiato. Il minestrone fumante e il merluzzo gratinato con piselli sono finiti in un batter d’occhio. “Hanno spazzolato anche l’arrosto” dice Francesco rientrando con due fiamminghe vuote in cucina, dove ognuno sta facendo proposte per il menù di Natale scatenando sorrisi e battute. Ogni giorno c’è un turno volontari. “La nostra è una squadra di scalmanati”, dice felice Valentina: architetta quarantenne, come Francesco. E sua compagna. “Era tanto che volevamo fare volontariato. Non pensavamo fosse così: fai bene agli altri e fai bene a te stessa”. Francesco concorda: “È più ciò che ricevi di quello che dai. È quasi una droga”. Marco, il custode, annuisce. Lui è qui dall’inizio, l’unico con uno stipendio. Un riferimento per gli ospiti. Li ricorda tutti: “Qualcuno scrive. Altri dimenticano. O rimuovono. La mia preferita? Emilia”. Ha 83 anni. È vissuta in Svizzera. Parla di case e patrimoni. Ma è stata dura toglierla dalla strada. Pian piano si è ambientata. E ora è la nonna di tutti. Vive nella stanza del piano terra che fu di Miroslaw: l’uomo invisibile. “Viveva in un parco con un asciugamano sulla faccia devastata da una malattia. Si preparavano a mandarlo via con i carabinieri. Padre Konrad mi disse: “Portiamocelo a casa”. Io pensavo “ma come faremo?”, racconta il responsabile della casa Santoro incrociando gli ospiti che scendono in cappella per la messa. A ciascuno chiede: com’è andata oggi? Sei stato dal medico? “Chi entra qui sa di poter contare su una presa in carico totale. Curammo così anche Miroslaw. Aveva una grande cultura. Creammo una rete di religiosi dell’Est a far da traduttori. Resistette un anno”. Contro la solitudine - Va così. C’è chi lo porta via la malattia o torna sulla strada. Ma l’intento è dare a tutti una spinta per ripartire. Risolutiva per tanti. Come Annarosa: “Non avevo lavoro, avevo perso speranza e fiducia. Mi hanno aiutato. Domani torno in Perù”. O Costantin, muratore romeno: “Dormivo in strada. Era un brutto periodo. Qui ho ritrovato la forza. Ho un lavoro, tra poco andrò via”. Il gorgo di solitudine, perdita del lavoro, spesso alcol e disagio mentale inghiotte gran parte dei senza tetto. Ci si racconta che vogliono sentirsi liberi e ci si volta altrove. Ignorando che si possono aiutare anche i più restii. Come la mamma anziana che, assieme al figlio, in un angolo sotto la casa, ha stabilito la sede del suo Stato immaginario, con tanto di bandiera inventata. Accetta solo i panini. Santoro li distribuisce dall’83: “I primi li preparavamo nella mia cucina e andando a calcio ci fermavamo, li distribuivamo, parlavamo con loro. La gente non capisce. Ma siamo tutti un po’ soli. E proprio da chi pensi che non possa darti niente ricevi la grande ricchezza dell’amicizia e della famiglia che si allarga”. Migranti. 25 anni dalla strage del CPT di Trapani emergency.it, 28 dicembre 2024 Nella notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999, dopo l’ennesimo tentativo di fuga, viene appiccato il fuoco ad alcuni materassi in una camerata, ed è l’inferno. La cella non viene aperta e nel rogo che ne scaturisce muoiono bruciati vivi tre giovani tunisini, altri tre moriranno in ospedale a causa delle ustioni riportate: Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim. Sono passati 25 anni dalla strage del centro di detenzione amministrativa di Trapani. Le prime di una lunga serie di morti tragiche avvenute all’interno dei vari centri per i rimpatri forzati sparsi per l’Italia. 25 anni di violazioni ininterrotte della dignità di migliaia di persone. 25 anni di morti sospette, suicidi, autolesionismo, psicofarmaci e di violenza generalizzata, insita nella natura stessa di questi centri. 25 anni di barbarie. Una vera vergogna di stato. Eppure a leggere i proclami e le dichiarazioni di esponenti dell’opposizione, ed i titoli di alcuni giornali, sembra che tutto accada solo adesso, che lo scandalo sia solo recente, ora che al governo ci sono i cattivoni di destra. La detenzione amministrativa delle persone prive di permesso di soggiorno l’ha istituita invece, nel 1998, la legge che porta il nome dell’ex presidente della Repubblica, Napolitano, funzionario storico del Pci-Pds-Ds, e da allora la c.d. sinistra quando è stata al governo non l’ha mai messa in discussione, come anche il reato di immigrazione clandestina. Eppure “la storia italiana ce lo ha insegnato, emigrare non è reato!”, come urlavamo alle manifestazioni. Nessuna persona può essere considerata illegale, per questo motivo i Cpr non si possono “migliorare”, perché sono un mostro giuridico, una aberrazione. Sarebbe come dire “rendiamo più dignitosi i metodi di tortura”, o come dire “guerra umanitaria”, come dire “centri di permanenza temporanea ed assistenza” (così li avevano chiamati nel 1998), trucchi semantici che celano quantomeno coscienza sporca o imbarazzo politico. Sono passati 25 anmi, e se nulla è cambiato, se quello che denunciavamo allora accade ancora oggi, ciò non dipende da chi li gestisce o da chi sta al governo, ma dalla ragione per cui questi centri esistono, il rimpatrio forzato di donne e uomini che migrando esercitano e rivendicano il proprio diritto di fuga, la libertà di sottrarsi a condizioni di vita infelici, inaccettabili, pericolose, ed è per questo motivo che i centri per I rimpatri non si possono umanizzare, ma si devono solamente abolire. Migranti. Mediatore curdo libero dopo 7 mesi: era accusato di essere prestanome di un boss turco di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 28 dicembre 2024 Il suo avvocato, Giacomo Giuliano: “È in Italia da 30 anni ed è anche traduttore per alcune procure”. Il mediatore culturale curdo Abutalip Burulday, conosciuto col nome di Havel, immigrato in Italia dal 1997 e residente con la famiglia a Catania, è stato scarcerato dopo sette mesi di detenzione dal penitenziario di Piazza Lanza su disposizione del tribunale del riesame di Milano che, al termine di un lungo excursus giudiziario, ha ritenuto valide le richieste del legale, l’avvocato Giacomo Giuliano che, al termine di questa vicenda, ha dichiarato “Il mio assistito è stato scarcerato per insussistenza dei gravi indizi”. L’uomo ha potuto riabbracciare i propri cari in attesa del dibattimento cui sarà sottoposto insieme ad altri stranieri. Havel, nel maggio scorso era finito invischiato in un delicato intrigo internazionale con l’accusa della Procura di Milano di aver favorito un boss giunto in Italia dai Balcani. In favore di Abutalip Havel nel corso di questi mesi sono state raccolte in tutta Italia migliaia di firme che ne chiedevano la scarcerazione. Tra queste c’è anche quella dell’ex tre volte sindaco di Riace, Mimmo Lucano, oggi europarlamentare per i Verdi-Sinistra. Secondo quello che emerge dalle indagini Havel, che ha alle spalle oltre vent’anni di professione come mediatore culturale a supporto di richiedenti asilo, sarebbe coinvolto in una inchiesta (che ha riguardato anche altre 18 persone) su presunti atti di terrorismo e in particolare sarebbe finito in manette per il supporto che avrebbe offerto al boss turco Baris Boyun, un “signore del crimine” dedito al terrorismo, traffico di droga e sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Secondo l’accusa proprio Havel, fino a pochi giorni fa rinchiuso in una cella, oltre a essere un interprete personale di Boyun sarebbe anche il suo prestanome per far giungere in Italia dalla Turchia somme di denaro di provenienza illecita. L’avvocato Giuliano, lette le carte e sentito il suo assistito, l’ha da subito pensata diversamente: “Il signor Talip da oltre 30 anni si trova in Italia ed è persona allo stato perbene che si è sempre spesa per fare il mediatore culturale oltre che il traduttore per conto di diverse Procure italiane. Mai il mio assistito è stato raggiunto da notizia negativa, come se avesse tradito il suo mandato. Nel 2022 conosce Bayoun Boris, di cui mi ha detto, prima di allora, non conoscere nulla. Il signor Bayoun arriva in Italia e viene presentato al mediatore come un politico curdo perseguitato dal governo turco. Tra i due nasce un rapporto e a Havel viene chiesto di fare da mediatore e traduttore anche perché nel frattempo il signor Bayoun viene raggiunto da una richiesta di estradizione da parte della Turchia. Ne viene fuori un procedimento penale per cui era necessario che qualcuno facesse da interprete e traduttore. Quindi il mio assistito ha fatto solo questo. Ora in tutte le intercettazioni in cui figura il mio assistito mai si fa cenno a qualcosa di illegittimo e illegale di cui il signor Havel possa essere venuto a conoscenza per individuare la vera identità del boss”. E l’avvocato Giuliano continua: “Invece, secondo la costruzione accusatoria il signor Havel, essendo componente della comunità curda, non poteva non sapere che il signor Bayoun fosse un noto criminale della Turchia. Ma il mio assistito ha più volte detto che da oltre 25 anni non mette piede in Turchia e non è a conoscenza dei fatti che accadono in quel paese”. “In un primo tempo mi sono rivolto al tribunale del riesame di Milano per ottenere la scarcerazione. Ma il tribunale ha rigettato. Quindi ho fatto ricorso in Cassazione chiedendo la scarcerazione del mio assistito per assenza della gravità indiziaria perché non c’erano secondo me indizi che si potessero qualificare gravi ai sensi della norma di legge. E poi anche perché non sussisteva una esigenza di reiterazione del reato e di nessuno dei reati fini, reati gravi come terrorismo spaccio, contrabbando… ma semplicemente c’era una mera partecipazione… La Cassazione ha infine annullato il provvedimento del riesame rinviando le carte al tribunale milanese. Pochi giorni fa, con grande soddisfazione, il Riesame di Milano è dovuto tornare indietro riconoscendo che tutti i “vulnus” che noi avevamo individuato nell’ordinanza erano fondati, concludendo la parte cautelare e disponendo la scarcerazione del mio assistito”. Il mediatore adesso sarà sottoposto a giudizio immediato. “Ma - aggiunge l’avvocato Giuliano - a fronte di una diversa e più articolata incolpazione provvisoria il decreto di giudizio immediato contemplerà relativamente al mio assistito solo l’imputazione di partecipazione semplice all’associazione criminale. Invece prima al signor Haver Abutalip contestavano sia la partecipazione alla associazione, sia il reato di autoriciclaggio che quello di ricettazione”. Non cadiamo nella trappola dell’odio di Agostino Giovagnoli Avvenire, 28 dicembre 2024 I cinque morti e gli oltre duecento feriti del mercatino di Natale a Magdeburgo non possono essere archiviati in fretta. Sono le vittime di Taleb Al Abdulmohsen che ha colpito a caso cittadini tedeschi perché la Germania non odia abbastanza i suoi nemici, i musulmani. Un arabo ateo, dunque, che ha assunto i panni di un suprematista bianco, il quale però ha ucciso altri bianchi perché odiano troppo poco. Troppe contraddizioni. Quello che è avvenuto a Magdeburgo non ha senso, è tragico ma anche irrazionale. Va capito in profondità, esige una riflessione adeguata. Ma la politica ha fretta, la Germania è in campagna elettorale, il 23 febbraio si voterà per consultazioni cruciali per il futuro del Paese. Bisogna monetizzare subito - in termini di consenso - ciò che è accaduto. Tra i suoi ispiratori, Al Abdulmohsen ha indicato Elon Musk e Afd, Alternative für Deutschland. Il partito neonazista - che sente di vivere la sua grande occasione e la possibilità di un definitivo “sdoganamento” - non ha perso tempo. Ha prima denunciato un’inesistente matrice islamista; ha poi cercato di liberarsi dell’imbarazzante coinvolgimento da parte dello stragista dichiarando sbrigativamente che non è un suo iscritto; e ha, infine, parlato di esasperazione per una politica troppo permissiva verso gli stranieri. Dopodiché è sceso in piazza al grido di “Remigration!”, deportazione: non importa che si tratti di un islamofobo invece di un islamista, conta che è uno straniero e che “ormai ce ne sono troppi” a causa di una politica “sbagliata”. Per chi grida “espulsione, espulsione”, non solo i terroristi ma tutti gli stranieri vanno cacciati perché “non sono tedeschi” e “non ragionano come noi” (anche se c’è bisogno del loro lavoro, come in tutti i Paesi europei). A sua volta, Elon Musk ha rilanciato affermando che solo il partito neonazista può salvare la Germania, postando su X fake news in tema. Naturalmente, né Afd né Musk hanno giustificato la strage. Ma la fretta della politica produce effetti pericolosi. In mezzo a tante contraddizioni, infatti, una cosa è certa: la mano di Al Abdulmohsen è stata armata proprio dall’odio. Per lo stragista saudita si parla di personalità disturbata e instabile, ma la sua violenza è anche il segno di una società malata. Ci sono patologie che non colpiscono solo gli individui, ma anche le collettività. L’odio è la più grave del nostro tempo. Genera posizioni contraddittorie e irrazionali che non restano nella sfera privata ma invadono quella pubblica. Se la politica se ne lascia contagiare, ne diventa un tramite che lo diffonde sempre di più. Elon Musk e Afd non sono casi isolati. Anche colpire pesantemente civili ucraini proprio il giorno di Natale conferma che oggi prevale una politica tanto priva di empatia da compiere con naturalezza molte atrocità. Avviene anche in Medio Oriente, in Sudan, in Sud Sudan e altrove. Una politica che insegue l’odio ne assorbe la carica distruttiva e ne mutua l’irrazionalità. Solo apparentemente offre soluzioni, in realtà moltiplica i problemi, con inevitabili effetti boomerang. Non accade solo in modo eclatante quando la politica conduce al terrorismo o alla guerra. È possibile inseguire l’odio anche in forme meno vistose e più sofisticate, come fanno molti protagonisti apparentemente contrapposti ma uniti dalla stessa logica. Assumendo pure i panni della legalità e nascondendosi dietro procedure democratiche: “È il popolo che lo vuole”. Si va dall’intolleranza per il diverso al “cattivismo verbale” (disconoscimento della comune dignità umana), dalle urla della piazza (per spaventare o allontanare gli indesiderati) alla crudeltà legislativa (norme discriminatorie) o amministrativa (trattamenti disumani), dalla violenza poliziesca (immotivata e sui più deboli) a misure contro la solidarietà (come quelle che ostacolano il soccorso in mare). “La menzogna è più veloce della verità - ha ammonito il vicecancelliere tedesco Habeck, alludendo anche al ruolo dei social -. Prendetevi il tempo per la verità. Prendetevi il tempo per il dubbio, per la riflessione e per fare domande. Non lasciatevi contagiare dall’odio”. C’è chi non lo ha fatto. Contemporaneamente alle manifestazioni di Afd, nel mercatino di Natale luogo della strage, in tanti hanno formato una catena umana per lanciare il messaggio: “Non diamo una possibilità all’odio”. Ma chi vorrebbe fermare l’odio appare spesso sulla difensiva. Opporsi apertamente a idee, slogan, azioni correnti - che non vuol dire condivise da tutti e neanche dalla maggioranza - fa sentire a disagio. Condannare l’odio suona anacronistico, un po’ ridicolo e forse inutile. È possibile invertire la rotta? La speranza che non delude è quella che non accetta la realtà ma la cambia, ha spiegato Papa Francesco. Il quale, dopo aver aperto la porta Santa in San Pietro, l’ha aperta a Rebibbia, un gesto che parla da solo. Nel secolo scorso si è parlato molto di rivoluzione cristiana, oggi il termine non va più di moda ma è sempre possibile una rivolta dei buoni, cristiani e non. Cecilia Sala arrestata in Iran, è in isolamento senza sapere perché di Mario Di Vito Il Manifesto, 28 dicembre 2024 La giornalista da 10 giorni a Evin. Teheran sapeva del suo lavoro. Si muove la diplomazia, il governo chiede “discrezione” ai media. Sulle trattative pesa il caso di un ricercatore in prigione in Italia su mandato Usa. Era a Teheran da una settimana Cecilia Sala e lì aveva registrato diverse puntate del suo podcast Stories, prodotto da Chora Media. Poi, il 19 dicembre, un giorno prima del suo rientro in Italia, è stata arrestata dalla polizia iraniana, nonostante fosse provvista di regolare visto giornalistico e avesse preventivamente concordato le sue interviste con le autorità locali. Le accuse, al momento, sono ancora ignote e solo ieri l’ambasciatrice italiana Paola Amadei è riuscita a incontrarla nel famigerato carcere di Evin, dove vengono messi i nemici politici del regime e dove lei si trova in cella d’isolamento. Sala era riuscita ad avvisare i suoi familiari della situazione con una breve telefonata il 20 dicembre, subito dopo è stata attivata l’Unità di crisi della Farnesina. Al momento i comandamenti che la diplomazia italiana sta seguendo per cercare di riportarla a casa sono due: fare presto e fare con discrezione. Ieri mattina, a Roma, si è tenuto un vertice tra il ministro degli Esteri Antonio Tajani, quello della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano, che svolge la funzione di autorità delegata per la sicurezza, cioè di direzione politica delle attività di intelligence. Oltre che per fare il punto della situazione a nove giorni dai fatti, l’incontro è servito soprattutto a definire la linea da tenere ora che la notizia dell’arresto di Sala è divenuta di dominio pubblico. “In accordo con i genitori della giornalista - si legge nelle ultime righe di una nota - la Farnesina invita alla massima discrezione la stampa per agevolare una veloce e positiva risoluzione della vicenda”. Prosegue su X il ministro della Difesa Guido Crosetto prosegue: “Le trattative con l’Iran non si risolvono, purtroppo, con il coinvolgimento dell’opinione pubblica occidentale e con la forza dello sdegno popolare ma solo con un’azione politica e diplomatica di alto livello. L’Italia lavora incessantemente per liberarla, seguendo ogni strada”. Un’ammissione implicita del fatto che le interlocuzioni portate avanti dal 20 dicembre non hanno portato a nulla se non alla concessione di alcune telefonate a casa, alcuni libri e qualche pietanza in più sul carrello del vitto. È plausibile insomma che il governo pensasse di risolvere la faccenda prima dell’inevitabile momento in cui la notizia sarebbe infine trapelata. Che la trattativa diplomatica sia di quelle complicate, per il resto, non è un mistero, anche perché si intreccia con le rimostranze di Teheran per l’arresto del 38enne iraniano Mohammad Abedini, di professione ricercatore all’École polytechnique fédérale di Losanna, avvenuto all’aeroporto di Milano Malpensa nel pomeriggio di lunedì 16 dicembre. La vicenda nasce da una richiesta delle autorità statunitensi: sull’uomo, infatti, pende un’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla violazione dell’International Emergency Economic Power Act - una legge federale varata ai tempi di Jimmy Carter che in sostanza consente di perseguire anche all’estero chiunque sia considerato una minaccia per la sicurezza, la politica estera e l’economia degli Usa - e di aver fornito componenti per la costruzione di “armi letali” al Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. In particolare, secondo l’affidavit dell’Fbi arrivato alla Corte d’Appello di Milano che presto dovrà decidere sull’estradizione di Abedini, si fa riferimento ai droni utilizzati da alcune milizie sciite sostenute dai Pasdaran per attaccare, causando 3 morti e 47 feriti, un avamposto militare statunitense (il “Tower 22”) a Rukban, nel nord-est della Giordania, il 28 gennaio scorso. Questo arresto avvenuto in Italia e quello quasi contestuale del 42enne Mohammad Sadeghi in Massachusetts sono stati definiti “ingiusti e illegali” dal viceministro degli Esteri iraniano Vahid Jalalzadeh. Secondo l’agenzia stampa Tasnim, poi, le autorità iraniane avrebbero anche protestato formalmente attraverso il loro ambasciatore a Roma. Intanto, per quanto riguarda Cecilia Sala, in Italia si moltiplicano gli appelli in solidarietà e le richieste al governo di risolvere il caso nel minor tempo possibile. Tajani però mette le mani avanti e predica prudenza: “Non sono chiare le imputazioni che vengono attribuite alla ragazza, ora cercheremo di fare quello che abbiamo fatto con Alessia Piperno, l’altra giovane italiana arrestata qualche mese fa che siamo riusciti a portare a casa. Speriamo di poter fare lo stesso con quest’altra nostra connazionale”, ha detto ieri sera i in collegamento con il Tg4. “Temo che si tratti di una trappola a tutti gli effetti perché le autorità di Teheran, che in genere rifiutano i visti ai giornalisti occidentali, sapevano benissimo che lei è una reporter”, è il commento rilasciato all’Ansa da Alessia Piperno, la blogger che nel 2022 è stata reclusa per 45 giorni nello stesso carcere dove si trova adesso Sala. Iran. La prigione di Evin è un simbolo del regime iraniano di Luca Sofri ilpost.it, 28 dicembre 2024 Il carcere dove è detenuta la giornalista italiana Cecilia Sala è la struttura in cui sono imprigionati oppositori politici e cittadini stranieri. La giornalista italiana Cecilia Sala è detenuta da oltre una settimana dal regime iraniano nel carcere di Evin, a Teheran. La prigione di Evin è nota per essere la struttura in cui sono imprigionati oppositori politici, giornalisti e cittadini stranieri. È operativa dal 1972 e già prima della Rivoluzione islamica del 1979 vi venivano rinchiusi dissidenti politici. Da quando il movimento antigovernativo guidato dall’ayatollah Ruhollah Khomeini portò alla fine del regno dello scià e alla creazione della Repubblica Islamica dell’Iran, una teocrazia guidata da religiosi sciiti, Evin è diventata un temuto simbolo del regime. La prigione è composta da due sezioni maschili e una femminile. I prigionieri vivono o in celle comuni sovraffollate e in pessime condizioni igieniche; oppure in celle di isolamento, piccole, senza finestre e con nessun contatto con altre persone. Cecilia Sala è detenuta in una cella di isolamento da giovedì 19 dicembre. Dopo un giorno di detenzione le sono state concesse due telefonate, alla famiglia e al suo compagno, il giornalista del Post Daniele Raineri; dopo una settimana ha potuto incontrare l’ambasciatrice italiana Paola Amadei. Sala e Amadei hanno dovuto parlare in inglese, in modo che le autorità iraniane presenti potessero controllare che cosa si dicevano. Negli anni dissidenti iraniani e cittadini stranieri che hanno passato periodi di detenzione a Evin e sono riusciti a uscirne hanno raccontato le condizioni di vita all’interno. L’imprenditore britannico-iraniano Anoosheh Ashoori ha passato quattro anni in una cella di isolamento della sezione maschile: ha raccontato a Deutsche Welle che la stanza era di circa 8 metri quadrati, che la luce restava sempre accesa giorno e notte, rendendo difficile dormire, e che dalla sua cella poteva sentire urla e lamenti provenienti dalle altre celle. Nizar Zakka, imprenditore libanese detenuto nel 2015, ha detto sempre a Die Welt: “Nelle celle di isolamento non hai nulla, solo un tappeto e una coperta per coprirti. Ho preso ogni tipo di infezione perché la maggior parte dei cuscini e delle coperte è sporca e infestata da insetti”. Secondo altre testimonianze gli unici altri oggetti che si possono avere in una cella di isolamento sono il Corano e alcuni libri di preghiere islamiche. Quasi sempre non ci sono letti o brandine, ma si dorme per terra. Nel 2022 un’altra cittadina italiana, la blogger e viaggiatrice Alessia Piperno, fu detenuta per oltre un mese nel carcere di Evin. Piperno fu arrestata per motivi mai completamente spiegati, ma probabilmente con l’accusa di essere “complice”, insieme ad altri otto cittadini stranieri, delle proteste che erano in corso contro la polizia religiosa e il regime, iniziate dopo la morte di Mahsa Amini. Amini era morta in carcere dopo essere stata arrestata perché non indossava correttamente il velo islamico. Piperno fu detenuta per la maggior parte del tempo nelle celle comuni, fu liberata grazie a una mediazione diplomatica e un anno dopo ha scritto un libro in cui ha raccontato il periodo nel carcere. In un’intervista al Corriere della Sera di settembre del 2023 disse: “Evin è un luogo disumano, sporco, puzzolente. Dormi per terra, hai 5 minuti d’aria il martedì e il giovedì, una doccia alla settimana, una turca con escrementi che nessuno puliva. Il cibo era poco e rivoltante. Si sentivano le urla delle persone torturate”. Altre detenute hanno raccontato a BBC che le stanze comuni ospitano anche venti persone e che sono prive di riscaldamento. Il carcere di Evin era particolarmente affollato nel periodo delle proteste iniziate dopo la morte di Amini, che furono per questo represse molto violentemente, con oltre 500 manifestanti uccisi. In un anno furono arrestati oltre 19mila manifestanti, non tutti ovviamente detenuti ad Evin. Il 15 ottobre all’interno della prigione si sviluppò un incendio e ci furono delle sparatorie, al termine delle quali almeno otto prigionieri furono uccisi. È anche vietato scattare fotografie all’esterno della struttura. Nel giugno del 2003 la fotografa e giornalista Zahra Kazemi, che aveva una doppia cittadinanza iraniana e canadese, fu arrestata perché aveva scattato alcune foto dell’ingresso della prigione: morì a Evin 19 giorni dopo, ufficialmente per un infarto. Due anni dopo emersero prove di torture e violenze. Il carcere ha una capacità di circa 15mila persone, con sezioni destinate espressamente agli stranieri e agli oppositori politici. Le condizioni di detenzione dei dissidenti di solito sono molto più rigide e crudeli: varie ong hanno denunciato violazioni dei diritti umani, episodi di tortura e violenza, fisica e psicologica. Nel 2009 vi fu detenuto il giornalista iraniano-canadese Maziar Bahari, di Newsweek, accusato di spionaggio: gli venne estorta una confessione, ma dopo 118 giorni di prigione fu rilasciato su cauzione. Gli fu chiesto di spiare alcuni oppositori del regime, ma riuscì poi a raggiungere la famiglia a Londra. Jason Rezaian, capo dell’ufficio del Washington Post a Teheran, fu arrestato per spionaggio nel luglio del 2014, detenuto a Evin e rilasciato nel gennaio del 2016. A Evin sono ancora rinchiusi, fra gli altri, l’attivista iraniana Narges Mohammadi, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2023, e lo scienziato svedese-iraniano Ahmadreza Djalali, condannato per spionaggio per conto di Israele. Ma sono stati detenuti anche la nota attrice iraniana Taraneh Alidoosti e il regista iraniano Jafar Panahi: entrambi erano stati arrestati per motivi politici e sono poi stati rilasciati.