Giubileo per le carceri e la giustizia di Aldo Torchiaro Il Riformista, 27 dicembre 2024 Storica iniziativa del Papa: apre la Porta Santa a Rebibbia Nelle carceri si guarda a un nuovo orizzonte di speranza? Papa Francesco va nel carcere romano di Rebibbia e non delude. Quando parla di politica internazionale zoppica, a volte vacilla. Quando parla di giustizia no, la forza del suo magistero si vede e si sente tutta. Tira fuori la rabbia dell’ingiustizia sociale - suo motore da sempre - e la unisce a quel dovere della speranza che è insito nella sua natura di prete di strada, di sacerdote di frontiera. E proprio da quelle sue radici di pastorale tra gli ultimi, di testimone del Vangelo tra i poveri, Francesco trae l’energia per lottare contro i mulini a vento del sistema giudiziario italiano. Che culmina nei dimenticatoi disumani delle carceri, in quei gironi danteschi dove anime dannate si avvitano e si contorcono senza sapere se mai, per loro, ci sarà giustizia. 19mila detenuti stranieri, 17mila tossicodipendenti, più di 4mila malati di mente in carcere. In quello che - per chi si occupa di diritti - è senz’altro l’anno nero del carcere, l’iniziativa del Pontefice è senza precedenti. Sua Santità apre la seconda Porta Santa del Giubileo nel carcere di Rebibbia, tra quegli ultimi, dimenticati e dannati (per i tribunali penali, non certo per la giustizia divina) che compongono l’umanità dolente alla quale il Santo Padre si avvicina con maggior trasporto. “Questa di Rebibbia oggi può dirsi una Basilica”, dice il Papa al termine della cerimonia. Come a mettere la sua mano, e suo tramite quella di Dio, sulla testa degli ultimi. Dei dimenticati. La giustizia penale italiana condanna ogni anno - in media - mille innocenti alla pena detentiva. Quando non in un istituto di pena, ristretti al domicilio. C’è chi subisce un ingiusto processo - perché proprio non andava giudicato - e chi nel processo subisce un’ingiusta condanna, perché poi si scoprirà innocente. C’è chi torna in carcere perché un domicilio fisso non lo ha, e quindi non può andare ai domiciliari, e chi subisce la carcerazione preventiva ancora prima di essere processato e giudicato: sono migliaia, ogni anno, i casi inaccettabili per lo Stato di diritto. Francesco a Rebibbia lo sa e lo dice. Mette il dito nella piaga. E si avvicina a ciascuno dei detenuti con una umanità profonda, che colpisce anche i cuori più distanti. Lui, solitamente restio al bacio dell’anello, dai detenuti si lascia stringere le mani, si lascia avvicinare e a ciascuno dedica un gesto, una parola, un cenno di rispetto. Compie quello che il radicale Riccardo Magi, laicissimo leader di +Europa, definisce “un gesto molto più che simbolico e che, oltre al significato religioso legato alla celebrazione dell’avvio del Giubileo, è carico di un profondo significato civile e costituzionale che dovrebbe far riflettere tutti sulla condizione inumana e illegale delle carceri italiane”. Non si tratta del beau geste di Natale ma di una presa di posizione solida, ribadita da Giovanni Paolo II a Papa Francesco con la stessa indomita passione, con l’intensione profonda di non lasciare l’imbarazzante gestione del pianeta carcerario così com’è. Il senatore Filippo Sensi, Pd, lo grida forte: “Speriamo che la porta spalancata dal Papa oggi a Rebibbia apra i cuori non tanto di chi è dentro, ma di chi sta fuori, di chi decide chi è fuori e chi è dentro. I suicidi in carcere portano il nome e il cognome di chi ne porta responsabilità”. Antonio Tajani, leader di Forza Italia e vicepresidente del Consiglio, la mette giù così: “La decisione di Papa Francesco di aprire la porta Santa a Rebibbia impegna tutti noi ad affrontare il tema carceri. Che fare? Intervenire sulla carcerazione preventiva, pena in comunità per i tossicodipendenti, più giudici di sorveglianza e agenti della Penitenziaria. La pena è privazione della libertà, non della dignità”. L’urgenza non più rinviabile è chiara: adottare subito misure che riportino i numeri a un livello, se non ideale, quantomeno legale: amnistia, numero chiuso, depenalizzazioni. E parallelamente, adottare misure che realizzino una riforma strutturale delle case di detenzione. La luce di Bergoglio nel buio del carcere di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 27 dicembre 2024 Il Papa apre la porta santa del Giubileo anche a Rebibbia. “I cuori chiusi non aiutano a vivere. Grazia è spalancare”. “Ricordatevi: aggrappatevi sempre alla corda della speranza, mai lasciarla. E poi spalancate la porta del vostro cuore”, ha sottolineato più volte Papa Francesco ai circa 600, fra detenuti e personale penitenziario, presenti nella chiesa del Padre Nostro all’interno del carcere romano di Rebibbia. Con un gesto che passerà alla storia, nel giorno di Santo Stefano, il Papa ha voluto aprire per la prima volta una Porta Santa del Giubileo all’interno del più grande istituto di pena della Capitale, da lui definito una cattedrale di “dolore”. “Molto importante essere qui perché dobbiamo pensare che tanti di questi non sono pesci grossi, i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanere fuori e dobbiamo accompagnare i detenuti” ha detto il Papa al termine della messa, citando anche le parole del vangelo di Matteo: “Gesù dice che il giorno del Giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. La chiesa cattolica fra le opere misericordia corporale annovera la visita ai detenuti. Il Papa degli ultimi e delle periferie, con il suo stile, ha così lanciato un messaggio forte per una amnistia. Tanti detenuti al termine della messa lo hanno voluto salutare, baciandogli la mano o sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Fra i doni ricevuti, la riproduzione in miniatura della porta della chiesa del Padre Nostro, creata all’interno del laboratorio “Metamorfosi” utilizzando i legni dei barconi dei migranti, un cesto contenente olio, biscotti, ceramiche e bavaglini, e un quadro che raffigura un Cristo salvifico realizzato dall’artista Elio Lucente, ex poliziotto penitenziario. A tutti il Papa ha donato una medaglia del Giubileo e alla direzione di Rebibbia una pergamena a ricordo della visita giubilare, “come segno di speranza, per recuperare fiducia d stima da parte della società”, ha sottolineato monsignore Rino Fisichella. Il gesto del Papa arriva al termine di un anno orribile per i penitenziari italiani con 88 detenuti che si sono tolti la vita. I problemi sono sempre gli stessi: sovraffollamento, anche a causa di soggetti psichiatrici incompatibili con il carcere, strutture fatiscenti, assenza pressoché totale di attività che dovrebbero, come recita la Costituzione, favorire il reinserimento nella società del condannato. “In questa situazione anche il ritorno in libertà è vissuto con angoscia, soprattutto da chi non ha reti familiari e sociali. Una condizione in cui si perde la speranza. Ci auguriamo che la politica sappia ascoltare l’appello di Papa Francesco e che il 2025 possa essere un anno in cui si mettano mano a riforme che guardino ai principi costituzionali di una pena che sia dignitosa, umana e guardi alla reintegrazione sociale di chi è in carcere”, ha commentato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Nel 2002 era stato il Santo Padre Karol Wojtyla, a chiedere un atto di clemenza per i detenuti. Papa Francesco aprendo la Porta Santa a Rebibbia ha parlato di atto di amnistia, auspicando che le Istituzioni promuovano un’attenta analisi della situazione carceraria. Chiediamo un atto di buon governo sottolineando l’urgenza di un ampio dibattito parlamentare che possa arrivare a trovare soluzioni concrete per porre fine con immediatezza a tale violazione di legalità”, ha ricordato dal Partito Radicale il segretario Maurizio Turco. “Chiediamo al governo di emettere provvedimenti di clemenza ma soprattutto provvedimenti che vadano a deflazionare: abbiamo tanti, troppi detenuti in carcere, circa 10 mila che hanno una pena minima, definitiva da scontare al di sotto di un anno”, ha affermato invece il segretario generale del sindacato autonomo Polizia Penitenziaria (SaPpe), Donato Capece. “La decisione del Papa di aprire la porta Santa a Rebibbia impegna tutti noi ad affrontare il tema carceri. Che fare? Intervenire sulla carcerazione preventiva, pena in comunità per i tossicodipendenti, più giudici di sorveglianza e agenti Penitenziaria. La pena è privazione della libertà non della dignità”, ha scritto su X il ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, Antonio Tajani. Dall’opposizione è arrivato il commento del segretario di Demos Paolo Ciani, vice capogruppo del Pd-Idp alla Camera: “Il Santo Padre non dimentica i detenuti ed esorta tutti i fedeli del mondo a volgere lo sguardo anche verso quella parte di umanità che pochi vogliono vedere. Dinanzi al dramma che vivono le carceri italiane - sovraffollamento, poco personale e che quest’anno hanno visto il massimo dei suicidi mai accaduti - penso sia necessario riflettere sulla possibilità di realizzare misure deflattive per migliorare la vita dell’intero universo carcere”. “È evidente che sulle soluzioni Papa Francesco c’è, lo Stato ossia governo e Parlamento no”, ha dichiarato Riccardo Magi, segretario di +Europa. “Di fronte a sovraffollamento e suicidi record, negazione del senso costituzionale della pena il governo Meloni non ha fatto altro che aggravare la situazione con la continua e compulsiva invenzione di nuovi reati e aumenti di pena mentre si vagheggia di fantomatici piani di edilizia che rivelano solo l’incapacità di guardare in faccia una realtà insopportabile”, ha proseguito Magi, richiamando anch’egli la necessità di una amnistia. “Questa solenne e commossa cerimonia si inserisce nel progetto del Santo Padre che evita quella che lui stesso definisce “cultura dello scarto”. Il detenuto deve essere un soggetto da rieducare, come dispone la Costituzione, ma anche da comprendere nel suo dramma interiore e da aiutare per superare i momenti difficili della privazione della libertà”, ha commentato infine il ministro della Giustizia Carlo Nordio, anch’egli presente ieri a Rebibbia. “Dal punto di vista operativo insisto nel progetto che porti lo sport e il lavoro nelle carceri, perché sono due momenti essenziali per attenuare le tensioni. Inoltre intendo patrocinare la cultura: in diversi istituti sono presenti piccoli teatri, orchestre e laboratori e stiamo affinando i protocolli per portare nelle carceri attori e artisti, molti dei quali si sono offerti con generosa gratuità”, ha concluso poi Nordio. “Mai venga a mancare la speranza di perdono e libertà ai detenuti” di Roberto Montoya ansa.it, 27 dicembre 2024 Papa Francesco propone ai Governi iniziative di speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società. È la prima volta che Papa Francesco apre una Porta Santa in un penitenziario, un momento storico che segna la storia dei Giubilei ordinari e da il via ai festeggiamenti dell’Anno Santo 2025. Per i detenuti è un gesto altamente simbolico di speranza. L’apertura della quinta Porta Santa avverrà nel carcere romano di Rebibbia, luogo già visitato nove anni fa in occasione del Giovedì Santo, una delle realtà più grandi d’Italia che ospita 1.585 detenuti a fronte di una capienza di 1.170 unità. Nella festa di Santo Stefano il pensiero del Papa va rivolto a queste anime che, prive della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Francesco vuole offrire loro un segno concreto di vicinanza: “Io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”. Nel carcere di Rebibbia Francesco parla davanti ai detenuti: “Oggi, in questo carcere, apriamo una porta. È la porta del Giubileo, cioè di un evento che unisce tutti i cristiani nella gioia. In un luogo chiuso, la speranza apre una strada nuova: dove ci porta? Al perdono e alla libertà. La porta che apriamo in questo carcere è segno di Cristo, nostro fratello e Redentore, che spalanca la nostra vita a Dio. Iniziando insieme il Giubileo, riflettiamo su queste due mete: il perdono e la libertà”. Il Papa ha come unico interesse la vita delle persone. Il suo compromesso con gli ultimi come “pellegrino di speranza” lo porta ad essere idealmente accanto ai detenuti di tutte le carceri sparse nel mondo. Cita un passaggio del Vangelo di Isaia: “Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore”. Il Giubileo della Speranza vuole incarnare l’effettiva centralità dei sofferenti, dei peccatori, di coloro che pagano il prezzo degli errori compiuti. Nei suoi anni di pontificato Papa Francesco ha visitato 15 penitenziari, la maggior parte in Italia. L’azione del pontefice argentino non sarà solo rappresentativa, ma si baserà su un accordo tra la Santa Sede, il Ministero della Giustizia italiano e il Comune di Roma. Nella bolla Spes non confundit Francesco propone ai Governi che si assumano iniziative che restituiscano speranza, come “forme di amnistia” o di “condono della pena” volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società, a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi. È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare. Il gesto straordinario, fortemente voluto dal Santo Padre, sottolinea l’importanza del prendersi cura dei detenuti e del loro reinserimento sociale. “In ogni angolo della terra i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso - ha affermato Mons. Fisichella -, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento”. L’unica geopolitica che Papa Francesco ha è quella di entrare nel cuore delle persone. Nel luglio 2015 aveva visitato il Centro penitenziario di Santa Cruz “Palmasola” in Bolivia. In quella terra latinoamericana aveva dichiarato che il “compito è innalzare e non di abbassare, nobilitare e non umiliare, incoraggiare e non affliggere i detenuti”. Questo processo, ha aggiunto, “chiede di uscire da una logica dei “buoni e cattivi” per passare a una logica incentrata sull’aiuto alla persona che vi salverà da ogni tipo di corruzione e migliorerà le condizioni di tutti. Perché un processo vissuto così ci nobilita, ci incoraggia e ci solleva tutti”. Francesco ricorda che il cristiano deve essere inquieto e pietra di inciampo, e se lungo il suo cammino vuole seminare speranza deve gridare contro le ingiustizie nel mondo. Nessuna vita, infatti, è persa; i carcerati, come figli di Dio, hanno diritto a una possibilità di riconversione e di reinserimento sociale. È questa l’immagine dell’universalità della Chiesa, sempre pronta ad abbracciare tutti. “La Salvezza non è soltanto per alcuni, non è uno spettacolo meramente folkloristico e mediatico, solenne e fine a sé stesso”. Per Papa Francesco “tutti abbiamo il diritto alla speranza, al di là di ogni storia e di ogni errore o fallimento. Con Dio al nostro fianco possiamo superare la disperazione e ricominciare”. Qual è il significato delle parole pronunciate da Papa Francesco a Rebibbia? di Sergio D’Elia* L’Unità, 27 dicembre 2024 Al potere pubblico ha indicato la riforma necessaria. Dissotterrare gli esseri viventi dalle celle, perdono, amnistia e indulto. Ha affermato che nella sua dottrina spirituale subito dopo Dio vengono i carcerati. Ha spiegato che la giustizia non è la pena. Non si ripara il male con altro male. Atto straordinario quello di Papa Francesco, non solo simbolico, ma anche teologico e politico. Ha aperto la porta santa in un luogo chiuso, dimenticato, di privazione non solo della libertà ma di tutto, financo della vita. Con questo atto simbolico, di apertura, il papa ha chiuso il carcere, un istituto anacronistico, ormai fuori dal tempo e fuori dal mondo che del significato letterale della parola, che dall’aramaico “carcar” trae origine, ha svelato tutta la sua essenza, quella di sotterrare, tumulare. Ottantotto detenuti che si sono tolti la vita in questo anno che volge alla fine. E otto detenenti che si sono suicidati. Altri cento cinquantasei sono morti per altre cause, molti di “morte naturale”, semmai può essere certificato come naturale e non criminale quel che avviene in carcere. Con l’apertura della porta santa a Rebibbia Francesco ha aperto le porte del paradiso a detenuti e detenenti, le porte della vita, dell’amore, della speranza. In tutto il messaggio di Francesco a Rebibbia risuona il motto di Paolo di Tarso: Spes contra spem. È stato il motto che ha ispirato la visione e l’azione di Marco Pannella, il suo modo di pensare, di sentire e di agire nella vita e nella lotta politica. L’essere speranza contro ogni speranza è “il vento dello spirito che muove il mondo”, aveva scritto Marco in una lettera struggente, la sua ultima prima di andarsene, proprio a Papa Francesco. Un atto teologico è stato anche quello di Francesco. Dopo la prima porta santa, quella aperta a Dio, la seconda porta santa è stata aperta all’uomo. C’è il Signore nell’alto dei cieli e c’è l’uomo sulla terra. Ma chi è per papa Francesco l’uomo sulla terra che merita di essere prima di tutti santificato? Non il “buono”, ma il “cattivo”, non il libero ma il carcerato. È l’uomo della pena che merita di essere liberato. Ecco l’atto teologico, di una vera a propria teologia della liberazione. Che non è limitata, localista, terzomondista, ma infinita, immensa, universale. Francesco con l’atto compiuto a Rebibbia all’esordio dell’anno giubilare ha aperto gli occhi al mondo, lo ha illuminato di amore, di coscienza, di speranza. E lo ha fatto a Natale, la festa che segna l’inizio di una nuova storia con l’avvento sulla terra di un salvatore dell’umanità. Cioè del nostro dover essere umani, anche nell’atto di fare giustizia. Il monito cristiano “chi è senza peccato scagli la prima pietra” è un monito per i lapidatori e i giustizieri del nostro tempo. L’ancor più radicale suo dire “non giudicare!” è fonte di ispirazione per chi è impegnato nella ricerca non di un diritto penale migliore ma di qualcosa di meglio del diritto penale. Francesco è andato a Rebibbia, nel luogo dove abitano Caino e Abele, il detenuto e il detenente, insieme, parti della stessa comunità penitenziaria, vittima l’uno e l’altro di condizioni inumane e degradanti. Da Rebibbia, Francesco indica la via, quella non della pena alternativa ma della radicale alternativa alla pena. Quella della liberazione dal carcere, di un luogo che non è più, semmai è stato, solo di privazione della libertà. Perché la pena inflitta è corporale, in carcere la perdita è totale: della salute, del senno, della vita, degli stessi sensi fondamentali e dei più significativi rapporti umani. Francesco è andato a Rebibbia, non solo da capo spirituale, ma anche da leader politico. Perché la sua visita è stata anche un atto politico. Al potere pubblico, al parlamento, al governo ha indicato la riforma necessaria per ridurre il danno connaturato a un istituto non a caso detto penitenziario, perché è strutturalmente di tortura, volto a infliggere dolore e sofferenze gravi. Amnistia e indulto, ha invocato Francesco. Sono la soluzione politica, immediata, una riforma di per sé strutturale, necessaria e urgente per ridurre il carico di pena in un luogo dove sono sotterrati esseri viventi che lo abitano e ci lavorano. Quindicimila detenuti in più rispetto allo spazio vitale, civile, umano, regolamentare. Diciottomila detenenti in meno ad assicurare in quel luogo di privazione di tutto, non solo la sorveglianza, ma anche il compito di “despondere spem”, seminare la speranza. Lo Stato, il Parlamento, il Governo seguano l’esempio di Francesco. Aprano la porta santa della Grazia senza la quale la Giustizia è monca, crudele, letteralmente spietata. Non sarebbe la resa dello Stato, ma un atto di clemenza per il bene di tutti. Sia di Abele sia di Caino, fratelli diversi ma gemellati dallo stesso dolore che arreca il luogo della pena violento e malsano dove vivono, dove l’umanità, la civiltà, la stessa pietà sono morte. Come Nessuno tocchi Caino, nella nostra opera laica di misericordia corporale, spesso insieme alle Camere penali, abbiamo visitato negli ultimi due anni oltre duecentoventi istituti di pena. E possiamo dire che non esiste un carcere migliore. Che l’unica riforma dell’istituto penale è la sua abolizione. Che è giunto il tempo di liberarsi di un sistema inutile e dannoso sia per i carcerati sia per i carcerieri. Se vogliamo continuare a dirci “cristiani”. Se vogliamo tornare a essere civili, semplicemente, umani. *Nessuno tocchi Caino Una porta aperta tra il carcere e la città per dire no a una visione punitiva di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 27 dicembre 2024 Rappresenta un unicum nella storia della cristianità anche perché mette simbolicamente in contatto la comunità dei reclusi con quella dei liberi. L’Apertura voluta da Papa Francesco della Porta Santa nel carcere di romano di Rebibbia ha uno straordinario significato simbolico. L’invito a “spalancare le porte del cuore alla speranza” suona come un rimprovero netto e chiaro a chi di fronte alla tragedia delle carceri dichiara la propria indifferenza. Mentre, infatti, il governo continua a rimarcare la propria volontà di negare ogni possibile soluzione clemenziale e a voler imporre al Paese una visione securitaria e carcerocentrica, questo gesto esemplare apre all’idea della speranza come chiave di ogni possibile politica. Se all’origine del numero spaventoso di ottantanove suicidi, che segna il drammatico conteggio dell’anno che finisce, è la disperazione come mancanza di ogni possibile prospettiva di vita, la Porta di Rebibbia apre invece a quella alternativa. Ci dice che esiste ancora una possibile alternativa al buio della sofferenza della pena. Dietro l’idea securitaria e carcerocentrica di chi continua a negare ogni possibile misura deflattiva, vi è l’idea della condanna, non solo alla pena detentiva e alla perdita della libertà che essa comporta, ma anche della condanna alla perdita della speranza e della dignità. Quella porta è un unicum nella storia della cristianità anche perché mette simbolicamente in contatto la comunità dei reclusi con quella dei liberi, apre alla relazione fra il carcere e la città. Una apertura che viene dalla nostra cultura corrente, al contrario, negata. E non si tratta di una negazione che nasce dall’indifferenza ma da una ridicola presunzione, diffusa fra i più, di essere, senza dubbio alcuno e senza tentennamenti, dalla parte del bene. Un bene “chiuso” e “duro” che rinnega ogni debolezza ed ogni possibilità di errore. Il carcere, in questa prospettiva, viene visto come un luogo da rimuovere e la vita carceraria come una parte di esistenza indegna che deve essere “oscurata”. Una visione “chiusa e dura” che serve a costruire l’inutile menzogna secondo cui il male è chiuso dietro quelle mura e che la durezza della pena serve a tutelare il bene che è tutto e solo fuori da esse. Il male e il carcere in esso rinchiuso non appartengono alle città. In una delle molteplici iniziative promosse dalle Camere penali durante questo mese a favore dell’amnistia vi è stata a Udine una marcia contro la “vergogna civile” dei suicidi e del sovraffollamento del carcere cittadino di via Spalato, dove il numero dei detenuti è il doppio dei posti disponibili. Apriva il corteo uno striscione con su scritto “via Spalato è della città”, proprio a ricordare a tutti i cittadini che il carcere è parte viva della comunità e dove fallisce il carcere fallisce anche quella società che è incapace di dialogare con il problema della devianza, dell’illegalità e del suo recupero. I destini delle carceri e quelli delle loro città sono inevitabilmente legati. Davanti al bivio della civiltà o della disperazione, ogni comunità deve fare la sua scelta. Mai messaggio è stato più chiaro e più puntuale. Ed è per questo motivo che la forza simbolica della Porta che a Rebibbia si apre con speranza alla città ha un significato universale che non dobbiamo lasciar passare invano. *Presidente Unione Camere Penali Italiane “Se il carcere è inferno, si cancella il futuro” di Matteo Maria Zuppi La Stampa, 27 dicembre 2024 Pubblichiamo la prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, al libro “I volti della povertà in carcere”, di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero (Edb). Solamente le pene alternative possono aiutare a cambiare il sistema. A ciascun detenuto va data la possibilità di progettare un futuro di bene. “Ero in carcere e non mi avete visitato”, ma noi siamo chiamati a non lasciare soli questi uomini e queste donne. Non andiamo in carcere per giudicare, per fare pesare il reato o la condanna, ma iniziando con l’ascolto per incontrare e per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti, a volte drammatici, ed anche per cercare modalità che li possano risolvere, a cominciare dal lavoro. Il libro ci fa incontrare l’altro e “vedere” pezzi diversi del carcere già in chi deve affrontarne le violenze e la disperazione, dirigendo una struttura così complessa, ma anche in chi vive dentro le celle; sono storie tratte dalla banalità del male che debbono essere conosciute perché la dignità inizia da questo: non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, ma sei una persona. La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio. Papa Francesco si interroga sempre su questo quando va in carcere: “Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro” (dal Discorso del Santo Padre ai cappellani delle carceri, ottobre 2013). Ci viene chiesto di garantire e riconoscere la dignità umana sempre a tutti e camminare insieme ai fratelli carcerati, senza paura, con amore perché l’amore vince la paura e ci fa riconoscere nell’altro la persona che è, degna sempre della nostra “compassione”, che vuol dire pensarsi insieme, e non si esaurisce nell’esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo. Il libro ci restituisce i nomi - che vogliono dire le storie di vita e le caratteristiche peculiari di ciascuno - di quei fratelli più “piccoli” che dobbiamo visitare. Nel percorso tracciato nel libro, riconosciamo l’angoscia di non fidarsi più di nessuno, l’umiliazione, i turbamenti. Comprendiamo i racconti delle compagnie sbagliate e le conseguenze purtroppo prevedibili, ma anche la banalità del bene; vediamo cioè possibilità di umanità e di quella generosità che riaccende i sogni, quelli che preparano il futuro e iniziano a realizzarlo, scoprendo dietro il volto - grazie all’attenzione di qualcuno - le doti che non si sa di avere. Capiamo i problemi psichiatrici - così importanti e che tanta attenzione richiedono, e strumenti adeguati per essere finalmente affrontati - perché altrimenti resta, come viene raccontato, solo la convinzione di “essere morto”. Certo conosciamo anche comunità che sono luoghi di speranza perché la sfida è credere che l’errante non sarà mai il suo errore! “L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva; in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità” (Giovanni XXIII, Pacem in terris, 83). La professoressa Marta Cartabia, nella settimana sociale dei cattolici italiani a Trieste, ha ricordato come nella Costituzione non si parli di carcere, bensì di “pene”, secondo la previsione dell’articolo 27, sottolineando il plurale, e come queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Appunto. Rieducazione e pene. Guai a credere che l’unica scelta sia “farla pagare” all’autore della sofferenza, come è giusto sia e come spesso anche il condannato cerca. Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al sovraffollamento - problema decennale -, siamo costretti a credere che esso non sia visto come reale emergenza che richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità. In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove godere di pene alternative. Un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno “italiano” perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene. Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che possono aiutare a cambiare, a guardare il futuro. Non sono scorciatoie, concessioni “buoniste”, ma esercizio di vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di amore. Solo il “riparativo” risana la ferita e offre sicurezza. Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene. Come è raffigurato in una delle bellissime foto del volume, il muro ha come una sottile crepa. Filtrerà sempre un raggio di luce! Questo libro ci aiuta a capire come e anche quanto è decisiva la luce, fosse solo uno spiraglio, nel buio della disperazione e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi. La persona non è il suo reato di Stefano Anastasia* L’Unità, 27 dicembre 2024 Non ci sono chiavi da buttare nella Chiesa del Pontefice che ha cancellato l’ammissibilità della pena di morte dalla dottrina ecclesiastica e che ha detto che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. Non ci sono chiavi da buttare nell’insegnamento di Bergoglio perché la persona non è il suo reato. L’apertura della Porta Santa a Rebibbia ha un significato particolare, di vicinanza alla sofferenza dietro quelle mura. Di fonte a questa sofferenza, Francesco si rivolge ai detenuti: “La speranza non delude”. “È un bel gesto quello di spalancare, aprire: aprire le porte” dice Papa Francesco davanti alle detenute e ai detenuti, agli operatori e alle autorità intervenute all’apertura della seconda Porta Santa dell’anno giubilare, nel carcere romano di Rebibbia nuovo complesso. Nelle parole del Papa, “aprire le porte” significa aprire i cuori alla speranza: “I cuori chiusi, quelli duri, non aiutano a vivere. Per questo, la grazia di un Giubileo è spalancare, aprire e, soprattutto, aprire i cuori alla speranza”. Non ci sono chiavi da buttare nella Chiesa del Pontefice che ha cancellato l’ammissibilità della pena di morte dalla dottrina ecclesiastica e che ha detto che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”. Non ci sono chiavi da buttare nell’insegnamento di Bergoglio perché la persona non è il suo reato. L’apertura della Porta Santa a Rebibbia, all’indomani di quella aperta in San Pietro, ha un significato particolare, di vicinanza alla sofferenza umana che si consuma dietro quelle mura tutti i giorni, la sofferenza delle persone detenute, cui si aggiungono quella dei familiari e la frustrazione degli operatori. Di fonte a questa sofferenza, Francesco si rivolge ai detenuti e al mondo di fuori. “La speranza non delude”, dice Bergoglio - citando la lettera di San Paolo ai Romani e chiosando assertivamente: “Mai!”. “Nei momenti brutti uno pensa che tutto è finito, che non si risolve niente. Ma la speranza non delude mai” aggiunge il Papa, rivolgendosi alle donne e agli uomini detenuti che gli sono davanti, invitandoli ad aggrapparvisi come alla fune che lega l’ancora alla terra. In pochi luoghi come il carcere è necessario il messaggio di speranza del Giubileo, tanto più in questo Paese in cui la disperazione ha portato a livelli intollerabili il numero dei suicidi tentati o consumati in carcere e tra i poliziotti penitenziari. Ma il messaggio di speranza del Pontefice è rivolto anche al mondo di fuori: aprendo i cuori alla speranza anche noi, la cosiddetta “società civile”, possiamo cercare una giustizia che non si rinsecchisca nella riproduzione per equivalente della sofferenza che riteniamo di aver subito, ma si apra invece alle possibilità di un mondo nuovo e di una giustizia sociale fondata sulla eguale dignità degli esseri umani. I nostri “cuori chiusi, quelli duri”, che “non aiutano a vivere”, al contrario, alimentano sfiducia reciproca e, alla lunga, disperazione. Bisogna prenderlo sul serio, questo messaggio giubilare e adoperarsi per una politica che sia all’altezza della domanda di giustizia che esso muove, una domanda di pace e di convivenza, tra i popoli e le generazioni, attraversati da inaudite sofferenze, nelle guerre e nelle minacce al futuro del pianeta. Nel nostro piccolo, in quel fondo di bottiglia in cui si depositano gli scarti delle società ineguali, bisogna rovesciare l’abitudine di scambiare la domanda di giustizia con quella dell’inflizione di una sofferenza in capo a un capro espiatorio. Progetto di tempi lunghi, per una politica dallo sguardo lungo. Intanto, però, come scrive Francesco nella bolla di indizione del Giubileo, siamo chiamati a “essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio”, a partire dai detenuti che, “privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Per questo Francesco propone ai governi che nell’anno del Giubileo “si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. È questa l’urgenza di oggi, in Italia più che altrove. *Garante delle persone private della libertà della Regione del Lazio La porta Santa a Rebibbia nell’anno nero delle carceri: il segnale di speranza da Papa Francesco di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 27 dicembre 2024 Suicidi, morti, sovraffollamento, raddoppiato il numero dei detenuti in attesa di giudizio, 19mila detenuti stranieri, 17mila tossicodipendenti, più di 4mila malati di mente dietro le sbarre. Il carcere è diventato una discarica sociale, un ospizio per i poveri, dove regna la parola “punizione”, un termine drammatico che ogni epoca tenta di riscrivere. E il valore dell’accudimento, dell’inclusione sociale? La certezza della pena passa attraverso la qualità della pena che si coniuga con il diritto al lavoro, alla salute, allo studio, all’affettività, alla territorialità. Mi colpiscono i 24 detenuti morti per cause ancora da accertare. La prima Regione per suicidi è la Campania con 11 vittime; segue il Veneto con 9. I primi tre istituti penitenziari per numeri di suicidi sono stati Poggioreale, Verona e Prato con 4 morti. E oltre agli 88 suicidi non possono sfuggire i 2.035 tentativi di togliersi la vita. Non c’è stata una strage solo per il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Il 2024 è stato l’anno nero del carcere. Come si può non valorizzare la scelta di ieri del Papa di aprire la Porta Santa in un carcere? È la prima volta che succede nella storia del Giubileo. Un unicum nella tradizione della cristianità che - non a caso - arriva nel giorno di Santo Stefano, primo martire della Chiesa cattolica. Dichiarare il carcere di Rebibbia una Basilica: un segno di speranza per tutte le carceri del mondo che fa di Rebibbia un’icona universale della vicinanza della Chiesa ai detenuti. Il Papa, nel documento di indizione dell’Anno Santo, ci dice: “Nell’anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Un carcere che diventa Basilica - Questa è la ragione per cui è particolarmente preziosa la decisione del Papa di aprire una Porta Santa anche nel carcere di Rebibbia per ricevere l’indulgenza. Nelle carceri di tutto il mondo si guarda adesso a un orizzonte nuovo di speranza e di misericordia. Un carcere che diventa Basilica deve essere per i governanti, in particolare per quelli che si professano cristiani, un esempio concreto. Spero che abbiano letto la bolla d’indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, “Spes non confundit”, in cui ai governanti si chiedono apertamente “forme di amnistia o di condono della pena”. *Garante campano dei detenuti, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale Il giudice Marcello Bortolato: “L’unica soluzione ora è l’amnistia o l’indulto” di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 dicembre 2024 Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze: “Lo Stato si arrende se continua a custodire i suoi condannati in condizioni di estremo degrado”. Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, alla cerimonia religiosa di ieri a Rebibbia hanno partecipato molti di coloro che hanno il potere di adeguare le carceri al dettato costituzionale, oltre che alla legge di Dio. Che peso ha questo evento simbolico? Bisognerebbe raccogliere l’invito del Papa quando parla di dare un nuovo orizzonte di speranza ai detenuti, gli ultimi. La situazione ormai ha raggiunto livelli intollerabili sia per il sovraffollamento - siamo quasi ai numeri che hanno condotto alla condanna di Strasburgo nella sentenza Torreggiani del 2013 -, sia per le condizioni strutturali che stanno progressivamente peggiorando, con celle infestate da cimici, roditori, e detenuti ammassati in condizioni igieniche molto precarie. La politica, l’unica che può agire, non dovrebbe perdere questa occasione per riflettere e adottare soluzioni, anche per non trovarci fra pochi anni di nuovo una condanna della Corte dei diritti dell’uomo. Il ministro Tajani ha una sua ricetta: “Intervenire sulla carcerazione preventiva, pena in comunità per i tossicodipendenti, più giudici di sorveglianza e agenti della penitenziaria”. Le sembra una giusta riflessione? Va tutto bene, ma mancano altre cose e così non risolve il problema dei grandi numeri. L’abbiamo sentita molte volte la promessa di mandare in strutture adeguate i detenuti con problemi di dipendenza ma onestamente ancora non abbiamo visto nulla. L’unica soluzione trovata è il commissario straordinario per l’edilizia carceraria, che è una buona cosa, purché i tempi siano contenuti. Il primo passo doveva essere nel Decreto carceri, dove tra le urgenze c’era la lista delle comunità per la detenzione domiciliare dei tossicodipendenti e dei malati psichiatrici... Questa lista ancora non c’è. E soprattutto non basta, perché troppo spesso c’è carenza di posti nelle comunità. Che sono costose e quindi c’è un problema di finanziamento. Riguardo la carcerazione preventiva si è fatto già molto: i detenuti in attesa di giudizio sono notevolmente diminuiti rispetto a molti anni fa, non credo si possa fare ancora granché. La popolazione detenuta è fatta oggi soprattutto di condannati definitivi, la stragrande maggioranza dei quali ha residui di pena al di sotto dei 2 o 3 anni: bisogna agire su questa fascia. Occorre investire sulle misure alternative ma anche sul ritorno alla vita libera. Quindi oltre ai giudici di sorveglianza ci vogliono più educatori, assistenti sociali e funzionari giuridico pedagogici, perché il programma di trattamento è fondamentale per il reinserimento esterno. Un’amnistia o un indulto avrebbero senso oggi? Sarebbe l’unica soluzione efficace, anche se sicuramente non strutturale, per risolvere subito il problema. Ovviamente si può anche pensare a un provvedimento di clemenza condizionato ad alcune attività riparatorie, come previsto dalla legge, per ridurre l’impatto sull’opinione pubblica. Perché io penso che al momento non vi siano le condizioni politiche per un’amnistia o un indulto, anche se si dovrebbe approfittare dell’anno del Giubileo per questo atto di clemenza che non è una resa dello Stato. In tutti gli Stati del mondo esistono gesti di clemenza e lo prevede la nostra Costituzione. Credo, invece, che arrendersi significa proprio consentire che lo Stato continui a detenere i suoi condannati in condizioni di estremo degrado. Cosa ha fatto aumentare ancora di nuovo vertiginosamente i numeri dei reclusi? Se si creano anche nuove ipotesi di reato, se diminuiscono le possibilità di accesso alle misure alternative, e se si fanno mancare all’esterno le strutture di supporto necessarie per prevenire reati bagatellari, è ovvio che i detenuti aumentano sempre più. A partire dagli Stati generali del 2015, e poi con la commissione Giostra del 2017, da anni si fanno progetti per il reinserimento sociale. Progetti che rimangono nel cassetto. Se invece si continua solo sulla strada della repressione, il carcere si riempirà sempre di più e quindi bisognerà ogni tanto fare necessariamente dei provvedimenti di clemenza. Non c’è altra soluzione. Dice Bergoglio che in carcere ci sono solo “pesci piccoli”... La maggior parte dei reati non è caratterizzata da violenza alla persona. Per questo tipo di detenuti però immaginare qualcosa di diverso dal carcere implica una riforma del sistema penale. Allora una misura immediata che secondo me avrebbe potuto dare un po’ di respiro era quella liberazione anticipata allargata contenuta nella proposta che c’era in Parlamento (Giachetti, ndr). Non c’era nessun regalo: solo per chi lo meritava, a giudizio del magistrato di sorveglianza, i giorni di riduzione della pena ogni sei mesi aumentavano da 45 a 60. E invece secondo me la situazione è peggiorata con il decreto 92 del 4 luglio (Dl Carceri, ndr) che ha modificato la modalità di concessione del beneficio della liberazione anticipata, con un impatto sulla ciclica aspettativa del detenuto che aveva una funzione di incentivo, uno sprone per la rieducazione. Che effetti avrà il ddl sicurezza se non verrà modificato? Limitandomi agli aspetti che riguardano il carcere, vedo soprattutto due punti molto problematici: l’eliminazione dell’obbligatorietà del differimento della pena per le madri detenute, perché apre ad una decisione del magistrato che rende di fatto il percorso più lungo e difficile, in quanto ogni volta bisogna valutare se prevale l’interesse del minore o la sicurezza sociale. E poi c’è l’introduzione del reato di rivolta in carcere, configurato come qualunque comportamento di opposizione anche pacifica del detenuto. Chi conosce il carcere sa che ogni giorno c’è un detenuto che si rifiuta di tornare in cella, perché magari ha paura di qualcosa o per altri mille motivi. Non si può ritenere reato il semplice opporsi a un ordine dell’autorità interna al carcere. E allora per tornare alla domanda iniziale, è stata solo una passerella politica questa giornata a Rebibbia? Queste sono valutazioni che non spettano a me: da tecnico posso solo dire che sono seriamente preoccupato perché quotidianamente vedo situazioni insostenibili. Anche il carcere di Sollicciano è emblematico per lo stato di degrado. Vedo molta sofferenza, molto disagio e anche psichico, vedo abuso di psicofarmaci. Questi sono problemi che dovrebbero essere affrontati seriamente. Trovare soluzioni per dare a questa enorme popolazione reclusa un po’ di speranza. Pinelli (Csm): “I partiti ragionino sulla possibilità di un indulto parziale” di Angelo Picariello Avvenire, 27 dicembre 2024 Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Drammatico il numero dei suicidi dei detenuti e degli agenti penitenziari. Il carcere deve essere luogo di speranza, non di morte”. “Auspico che le forze politiche, tutte insieme, possano dare dimostrazione di un momento di dialogo e dare speranza specialmente alle persone che si sono macchiate di delitti non gravi perché come ci ha ricordato papa Francesco - la speranza non delude mai”. La proposta che avanza il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, avvocato, è quella di “ragionare, tutti insieme, sulla possibilità di “un indulto parziale”, ovviamente che non riguardi i delitti di criminalità organizzata, per affrontare l’emergenza nazionale di un sovraffollamento carcerario di oltre 11mila detenuti sulla capienza prevista e che incide sul rispetto della dignità delle persone e sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria. Come dice il presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, la dignità non si compra per merito e non si perde per demerito”. Quanto influisce l’emozione di aver partecipato, a inizio Giubileo, a quest momento emozionante, a Rebibbia, con papa Francesco? Emozione è la parola giusta. Per una volta le istituzioni, i detenuti, la polizia penitenziaria sono riusciti a “fare comunità”, insieme al Papa. Facendo passare il messaggio che il carcere non è un mondo separato, ma una realtà di cui ci si deve occupare. Al di là dell’emozione, la riflessione che mi permetto di proporre è tutt’altro che emotiva. Un filo logico lega le parole del Papa, il diritto penale più avanzato e la Costituzione... Ed è su quello che bisogna lavorare. Come diceva il Papa in occasione dell’udienza ai partecipanti al Congresso Mondiale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale occorre contenere l’irrazionalità punitiva, perché la pena non può mai essere vendetta e al compimento di un male non si deve mai replicare infliggendo un altro male. Lei però ha detto che “per una volta” si è registrato questo clima di “comunità” a Rebibbia. Normalmente non è così. Che fare? La società deve riallacciare i rapporti con il reo. Il carcere non può essere una ulteriore scuola del crimine, ma deve contenere un percorso rieducativo come vuole la Costituzione, e un percorso di risocializzazione. In ogni caso bisogna uscire da una visione carcerocentrica. Con quali misure? La prima cosa da mettere a tema è il ruolo stesso del diritto penale che, una moderna liberal democrazia del 21esimo secolo, andrebbe ripensato profondamente. I tribunali non possono risolvere ogni conflitto che sorge nella società. Va ripensato anche il rapporto tra sanzioni pecuniarie e sanzioni detentive. Non si rischia una depenalizzazione per “censo”. Evita la galera solo chi può pagare? L’entità della pena andrebbe naturalmente commisurata alla capacità retributiva. Vi sono una serie di delitti colposi che sono ancora nel circuito penale, pur essendo il tema sostanzialmente risarcitorio. Questo comporta l’aumento dei tempi dei processi anche per reati più gravi. Così dilatando indirettamente anche i tempi di carcerazione preventiva. In gran numero, i detenuti in attesa di giudizio sono in carcere da presunti innocenti... La pena dovrebbe sempre seguire l’accertamento della responsabilità oltre il terzo grado di giudizio. Non è tollerabile la tendenza a trattare la custodia cautelare come un anticipo della pena. E la giustizia riparativa? Può avere un ruolo fondamentale, come già avviene in altri Paesi europei. La sanzione pecuniaria, unitamente al risarcimento del danno, è considerata una valida risposta per i delitti colposi. Ma per umanizzare la giustizia, e favorire le misure alternative, occorrono investimenti... Per prima cosa bisogna investire sulle risorse umane: educatori, magistrati di sorveglianza e anche le associazioni di volontariato e terzo settore. E contestualmente, compiere una riflessione di politica giudiziaria più ampia, di largo respiro. Gli 88 suicidi in carcere quest’anno sono la spia di un malessere enorme... È un dato drammatico. Ma ci sono anche 6 agenti che si sono tolti la vita, a dimostrazione che il carcere oggi è un luogo drammatico, per tutti. Ci sono poi 243 persone morte in carcere, e questo non dovrebbe mai accadere. Si dovrebbe morire a casa o in ospedale, con l’affetto dei propri cari. Il carcere non può essere mai un luogo di morte, ma di speranza di una vita migliore, nel rispetto della legalità. Nordio: “Non basta rieducare i detenuti. Bisogna aiutarli” di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 27 dicembre 2024 Il pontefice inaugura la Porta santa nell’istituto romano e lancia un messaggio di speranza ai reclusi. I buoni propositi del Guardasigilli (in attesa dei fatti): “Sport, lavoro e cultura nelle carceri, Stiamo affinando un protocollo con attori e artisti”. Intanto nel 2024 record di suicidi, mentre le condizioni dei detenuti continuano a peggiorare. “Questa solenne e commossa cerimonia si inserisce nel progetto del santo padre ed evita quella che lui stesso definisce la ‘cultura dello scarto”, dice Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia ha appena partecipato alla messa pronunciata dal Papa a Rebibbia dove ieri, per la prima volta nella storia, il Giubileo ha varcato le soglie di un istituto di pena. Il Pontefice ha aperto qui la seconda Porta santa, un’iniziativa fortemente simbolica che torna a interrogare la politica sul tema delle carceri, dopo un 2024 che ha fatto segnare un nuovo record di suicidi e ancora una volta drammatici tassi di sovraffollamento. “Non basta rieducare il detenuto”, aggiunge il Guardasigilli. Che fare allora? “Porteremo nelle carceri progetti che parlino di sport e lavoro. E poi la cultura, con attori e artisti”. Annunci e buoni propositi, in attesa dei fatti. “Ho voluto che la seconda Porta Santa fosse qui, in un carcere”, ha spiegato il ieri Papa. Ha definito l’istituto di Rebibbia “una basilica”, invitando i detenuti a tenere duro. “Nei momenti brutti uno pensa che tutto è finito, che non si risolve niente. Ma la speranza non delude mai. Perché la nostra speranza è come l’àncora sulla terra”, è stata la metafora usata dal Pontefice che poi ha avuto un colloquio con il Guardasigilli. I due - ha fatto sapere lo stesso Francesco - hanno parlato delle condizioni dei detenuti ma non di indulto, tema che ultimamente è tornato attuale come risposta, quantomeno parziale, alle criticità del sistema carcerario italiano, incontrando però le resistenze di gran parte del governo. Secondo Nordio, che ha consegnato al Foglio alcune delle sue riflessioni, “il messaggio del Papa è quello di una speranza concepita come ‘ancoraggio’, come corda da trattenere nei momenti bui da parte di tutti noi, consapevole della nostra fragilità”. Per il Guardasigilli, “il detenuto deve quindi essere considerato un soggetto non solo da rieducare, ma anche da comprendere come racconta il suo dramma interiore. Bisogna aiutarlo a superare i momenti difficili della privazione della libertà”. Parole che in concreto, annuncia Nordio, dovranno tradursi in specifiche progettualità, le stesse che in realtà sono mancate fino a oggi. “Dal punto di vista operativo insisto nel progetto di carceri che parlino di sport e lavoro, perché rappresentano momenti essenziali per alleviare la tensione. Inoltre - ha assicurato il ministro - intendo patrocinare anche la cultura, in alcuni istituti sono già operativi piccoli teatri e laboratori e piccole orchestre. Ora stiamo mettendo a punto protocolli per portare all’interno delle carceri attori e artisti, molti dei quali si sono offerti con generosa gratuità”. Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani, leader di FI, si è espresso ieri invocando “interventi sulla carcerazione preventiva e pene da scontare in comunità per i tossicodipendenti”. Annunci che arrivano in una giornata dal forte potere simbolico, grazie al Papa, rispetto a una questione che continua a essere dipinta come un’emergenza. Ma che in realtà, dati alla mano, ha assunto da anni il carattere di un problema strutturale. E non potrà certo essere risolto con provvedimenti spot, innalzamento delle pene, nuovi reati. O, ancora peggio, con dichiarazioni non esattamente garantiste alla Del Mastro, il sottosegretario alla Giustizia. In base all’ultimo report dell’Associazione Antigone, pubblicato pochi giorni fa, il tasso di affollamento effettivo delle carceri è al 132,6 per cento - 62.153 detenuti su una capienza di 51.320 posti, anche se di questi oltre 4 mila sarebbero non disponibili. Uno scenario in cui il numero dei suicidi ha raggiunto la cifra record di 88, mai così tanti. La denuncia di Antigone fa il paio con i dati forniti dal Garante dei detenuti (fonte Dap): i suicidi al 20 dicembre sono stati “solo” 83 (66 nello stesso periodo del 2023 e 81 nel 2022). Di questi ben 45 hanno riguardato persone con meno di 40 anni. Mentre altri 20 decessi vengono ascritti a “cause da accertare”. Scorrendo il report inoltre emerge un’altra impietosa statistica: il 38,5 dei detenuti che si è suicidato quest’anno era ancora “in attesa del primo giudizio”. Un dato che chiama in causa tutto il sistema giustizia e che dovrebbe indurre la politica ad andare oltre i soliti proclami, a mettere in campo soluzioni reali. Prima di battere l’ennesimo drammatico record. Nordio e la concezione autoritaria del diritto: la giustizia si fa con la forza di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 27 dicembre 2024 Dopo le polemiche per il calendario della Penitenziaria il ministro ci tiene a diffondere un’idea di punizioni inflessibili e di severità. Tutto questo mentre in celle invivibili si tocca il numero record di suicidi. Sessantaduemila persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di cinquantunomila; un tasso di crescita della popolazione carceraria in continuo aumento, così come il tasso di affollamento medio; in diminuzione invece, in rapporto alle presenze, il personale di polizia penitenziaria; celle prive di spazio vitale; ottantanove suicidi, il numero più alto di sempre. Sono alcuni dei dati contenuti nel Report di fine anno sulle carceri pubblicato in questi giorni da Antigone, e sono dati perfettamente allineati alla concezione del diritto e della giustizia che attraversa i nostri tempi: un diritto fondato sulla forza e sul controllo, una giustizia inflessibile e votata alle punizioni più severe. Lo stesso ministro della giustizia, di recente, ha compiuto affermazioni molto significative a questo riguardo. Lo ha fatto rispondendo all’interrogazione parlamentare presentata da un gruppo di deputati avente ad oggetto il calendario del 2025 della Polizia penitenziaria. Debora Serracchiani, in particolare, aveva sottolineato la violenza veicolata da certe foto (ad esempio un “addestramento commesso a terra e contenimento fisico di una persona con tre poliziotti addosso”, nel mese di marzo; “agenti in tenuta antisommossa con manganelli, scudi e caschi in bella vista”, nel mese di aprile; un “agente che spara al poligono” nel mese di giugno); e gli aveva chiesto ragione di queste raffigurazioni. Nordio le ha risposto quasi stupito: non è forse vero che la giustizia, da sempre, “reca la bilancia e la spada” nell’immagine che offre di sé? E non è altrettanto vero, d’altronde, che la spada oggi sia stata sostituita dalle “armi da fuoco”? È “l’evoluzione tecnologica”: niente di più e niente di meno. Ma ora il punto non è tanto quello di sindacare nel merito le affermazioni del ministro, né quello di negare che anche il momento secondario, e cioè il momento della forza e della punizione, appartenga in effetti al diritto come il suo momento primario, consistente nel comportamento richiesto. Il punto è che una concezione autoritaria venga presentata come l’unica possibile, a sostegno e giustificazione di politiche anche carcerarie sempre più repressive. Come se, per legittimarsi, il diritto avesse sempre necessariamente bisogno della forza, in ogni dove; come se a connotare il diritto fosse una natura di per sé intimidatoria, se non addirittura persecutoria. È lo spirito del tempo, d’accordo, è l’idea pervasiva. È la medesima idea espressa anche da Ernesto Galli della Loggia in un intervento di qualche settimana fa sul Corriere della Sera al quale ha replicato benissimo, su queste stesse pagine, Roberta De Monticelli. L’intervento di Galli della Loggia era specificamente riferito al diritto penale internazionale, ma i concetti non cambiano: non c’è legge che tenga, la forza e la violenza sono una necessità (all’interno come all’esterno delle carceri), e chi pensa il contrario è solo un’anima candida. Come a dire: è la realtà, bellezza, è inutile sognare. Ma ecco, il punto è precisamente questo: non si tratta di sognare bensì, come ha sottolineato Roberta De Monticelli, di non “ridurre le norme ai fatti”. Una concezione autoritaria del diritto non è l’unica possibile. Ne esiste anche una diversa, che interpreti il diritto in un senso mite e pacifico: come relazione e reciprocità, in primo luogo, anziché come esclusione o come conflitto permanente. Anzi: è semmai proprio questa la concezione corrispondente alla funzione più autentica e più nobile del diritto, la quale dovrebbe essere proprio quella di contribuire a costruire relazioni sociali prima ancora che di sanzionare e punire. Occorre solo provare a cambiare lo sguardo, o a spostarlo: anche se qui, certo, a venire in gioco non è solo il diritto ma anche una concezione piuttosto che un’altra del vivere sociale, della convivenza civile. In definitiva, della vita. Vogliamo chiamarla utopia? Perché no? Coltivare utopie non significa in fondo resistere all’idea secondo cui il mondo che abitiamo sia l’unico in cui sia possibile abitare? E non è forse questo ciò che dovrebbe fare la politica, ciò che sarebbe bello che facesse? Pene alternative e comunità: i dossier sul tavolo di Nordio di Valentina Errante Il Messaggero, 27 dicembre 2024 L’annus horribilis per le carceri italiane e la richiesta di clemenza da parte di Papa Francesco. A fronte delle cifre diffuse dall’associazione Antigone, che raccontano come quelli trascorsi siano stati i mesi più difficili per i detenuti, nel giorno dell’apertura della Porta Santa a Rebibbia si riapre il dibattito politico. Il report è all’esame di via Arenula. Dall’inizio del 2024, secondo Ristretti Orizzonti, in Italia si sono tolte la vita 88 persone detenute. Mai si era registrato un numero così alto, che ha superato addirittura il tragico primato del 2022 che, con 84 casi, era stato fino ad ora l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Oltre ai suicidi, evidenzia il rapporto, il 2024 è stato in generale l’anno con il maggior numero di decessi. Se ne contano 243 da inizio gennaio. Il Papa, alla presenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio, ha chiesto anche provvedimenti che sono l’anima di tutti i Giubilei: “Forme di amnistia o di condono della pena” per i carcerati e la remissione dei debiti per i Paesi in via di sviluppo. Un impegno che trapela dalle parole del vicepremier Antonio Tajani. E proprio Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, chiede al governo di accogliere l’invito del Papa: “Nonostante questi numeri, nonostante anche i richiami del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’attenzione sul carcere è minima e le uniche politiche attive sono quelle che continuano a riempire spazi che ormai da tempo non ci sono più. Ci auguriamo che la politica sappia ascoltare l’appello di Papa Francesco”. Degli 88 suicidi molti erano giovanissimi. Nel 2024 se ne contano almeno 23 di età compresa tra i 19 e i 29 anni. Tante le persone straniere, almeno 40. Ma un altro dei nodi è il sovraffollamento: al 16 dicembre 2024, i detenuti erano 62.153, a fronte di una capienza regolamentare di 51.320 posti. Di questi posti, però, 4.462 non erano disponibili, per inagibilità o manutenzioni, e dunque la capienza effettiva scende a circa 47mila posti, ed il tasso di affollamento effettivo arriva al 132,6%. E la crescita, sottolinea Antigone, è ormai insostenibile. Alla fine del 2023, i detenuti erano 60.166, circa 2.000 in meno di oggi, e da allora i posti detentivi effettivamente disponibili sono diminuiti significativamente. Nelle 87 carceri visitate dall’Osservatorio, negli ultimi 12 mesi in 28 istituti nel 32% dei casi, c’erano celle in cui non erano garantiti 3 metri quadrati calpestabili per ogni persona detenuta. Tra i primi a commentare l’apertura della Porta Santa a Rebibbia è stato il vicepremier e leader di Fi, Antonio Tajani, che ha invitato ad affrontare il tema, proponendo anche alcune soluzioni. Un intervento che ha favorito l’apertura al dialogo da parte del Pd e una indiretta chiusura da parte dell’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci. Anche il ministro Carlo Nordio ha avanzato una serie di risposte “operative” al gesto religioso del Papa, che non richiedono nuove leggi ma solo interventi dell’amministrazione penitenziaria, in questo momento in fase di transizione dopo le recentissime dimissioni di Giovanni Russo. Dal punto di vista “operativo” il ministro ha annunciato il miglioramento dei protocolli per portare “lo sport e il lavoro nelle carceri”, così come esperienze culturali che coinvolgano i detenuti. Il Partito Radicale, con Maurizio Turco e Irene Testa, ha rilanciato l’amnistia, così come Riccardo Magi (+Europa). Sul tema spinge da tempo anche Forza Italia. Non a caso il gesto di Bergoglio viene seguito con grande attenzione da Antonio Tajani: “Impegna tutti noi - rimarca il ministro degli Esteri - ad affrontare il tema carceri”. Da qui, alcune ipotesi: “Intervenire sulla carcerazione preventiva, pena in comunità per i tossicodipendenti, più giudici di sorveglianza e agenti della Penitenziaria. La pena è privazione della libertà, non della dignità”, ha aggiunto. Anche Maurizio Gasparri ha proposto che i detenuti tossicodipendenti possano ottenere i domiciliari in comunità di recupero, mentre l’altro senatore “azzurro”, Raffaele De Rosa, ha definito “doveroso” intervenire secondo le indicazioni di Tajani. Da Fdi è arrivato solo silenzio alle sollecitazioni di Tajani, mentre Roberto Vannacci è andato giù duro anche con il Papa ed ha lanciato una proposta alternativa: i detenuti devono lavorare “duramente” e “devolvere i propri emolumenti per risarcire le vittime”. Le parole di Tajani sono invece state colte dalla responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani, che si è detta pronta al dialogo chiedendo di “passare dalle parole ai fatti”. “L’opportunità concreta”, ha spiegato, arriva subito in Senato, dove a breve si voterà la norma del ddl Sicurezza sul carcere per le mamme con neonati. Alla Camera Fi, pur avendo presentato un emendamento, si era adeguata a Fdi e Lega. Ora può votare e abrogare “quella norma incivile”. Carceri, la politica si divide sulle parole del Papa. FI: “Ora soluzioni”. Vannacci: “Raro si parli delle vittime” di Adriana Logroscino Corriere della Sera, 27 dicembre 2024 Serracchiani (Pd): Tajani faccia seguire alle parole i fatti. Magi: “Il governo inventa nuovi reati e aggrava la situazione. Serve amnistia”. I radicali: urgente un ampio dibattito in parlamento. L’appello del Papa, la richiesta di un “atto di clemenza” contenuto nella bolla di indizione del Giubileo e le parole rivolte ai detenuti di Rebibbia sollecitano la politica a schierarsi - e a polemizzare - sulle condizioni nelle carceri e sulle misure da introdurre per porvi rimedio. In prima fila alla messa, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, con il quale Francesco si intrattiene anche per un breve colloquio. “Ma non abbiamo parlato di un atto di clemenza per il Giubileo”, riferisce dopo lo stesso papa ai cronisti. “Francesco vuole farci capire che il detenuto non è uno scarto ma un soggetto da rieducare e da comprendere - commenta invece il guardasigilli, evitando il tema di un eventuale indulto -. Operativamente insisto nel progetto per migliorare i protocolli che portano lo sport e il lavoro nelle carceri, e intendo patrocinare iniziative culturali”. Entra nel merito dell’invito del Papa, invece, Antonio Tajani: “La pena è privazione della libertà, non della dignità. La decisione di Francesco di aprire la porta Santa a Rebibbia impegna tutti noi ad affrontare il tema carceri” dice il vicepremier e segretario di Forza Italia, il partito di maggioranza che ha avanzato più proposte contro il sovraffollamento. Le elenca Tajani: “Che fare? Intervenire sulla carcerazione preventiva, riconoscere la pena in comunità per i tossicodipendenti, incrementare i giudici di sorveglianza e gli agenti di polizia penitenziaria”. L’opposizione però attacca le forze di maggioranza accusando il governo di inerzia. “C’è una distanza enorme tra le parole del papa e la volontà del governo di mostrare la faccia cattiva” dice il senatore pd Franco Mirabelli. Debora Serracchiani, responsabile giustizia del partito, sfida Tajani a “passare dalle parole ai fatti” rivedendo la norma che rende facoltativa la sospensione della pena per le mamme contenuta nel ddl Sicurezza a breve in discussione in Senato. Alla Camera Fi, pur avendo presentato un emendamento, si adeguò alla contrarietà di Fdi e Lega. Ora può votare e abrogare - dice Serracchiani - “quella norma incivile”. Durissimo Filippo Sensi: “I suicidi in carcere hanno il nome e cognome di chi ne porta la responsabilità”. Il segretario di +Europa, Riccardo Magi, rimprovera all’esecutivo di “aggravare la situazione con la continua e compulsiva invenzione di nuovi reati e aumenti di pena” mentre “vagheggia di fantomatici piani di edilizia”, quando invece servono “misure straordinarie: amnistia, depenalizzazione”. I radicali provano a mediare: il segretario Maurizio Turco e la tesoriera Irene Testa invocano “un atto di buon governo”, chiedono “l’amnistia” e un “urgente e ampio dibattito parlamentare”. Per il M5S è Mariolina Castellone vicepresidente del Senato a ricordare: “Il 2024 è stato l’anno nero per le carceri italiane. Non solo i detenuti, ma anche gli agenti penitenziari si tolgono la vita. E il governo, però, non ha una strategia”. E l’europarlamentare di Alleanza verdi e sinistra, Ilaria Salis, che a Natale ha visitato il carcere di Monza, protesta per le “condizioni degradanti, indegne di un Paese civile”. Davide Faraone di Iv accusa di ipocrisia il ministro Nordio, per la sua presenza alla Messa del Papa a Rebibbia: “Il governo sta peggiorando le condizioni di vita di carcerati e agenti”. Ma se FdI tace, il leghista Roberto Vannacci replica a muso duro anche al Papa: “Raramente si ascoltano parole contro le vittime di quei detenuti che hanno rapinato, violentato, ucciso, che oggi Francesco ha visitato”. Quindi propone che i detenuti “lavorino duramente per devolvere i propri emolumenti ai risarcimenti delle vittime”. Partiti in campo sulle carceri. Tajani: “Ora soluzioni”. Serracchiani: “Il Governo passi dalle parole ai fatti” di Giovanni Innamorat ansa.it, 27 dicembre 2024 L’apertura della porta santa del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia da parte di Papa Francesco ha riacceso il dibattito politico sul problema delle carceri. Tra i primi a commentare l’evento è stato il vicepremier e leader di Fi, Antonio Tajani, che ha invitato ad affrontare il tema, proponendo anche alcune soluzioni. Un intervento che ha favorito l’apertura al dialogo da parte del Pd e una indiretta chiusura da parte dell’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci. Anche il ministro Carlo Nordio ha avanzato una serie di risposte “operative” al gesto religioso del Papa, che non richiedono nuove leggi ma solo interventi dell’amministrazione penitenziaria, in questo momento in fase di transizione dopo le recentissime dimissioni di Giovanni Russo. Nordio ha osservato che il gesto di papa Francesco vuol farci capire che il detenuto non è “uno scarto” bensì “deve essere un soggetto da rieducare”. Dal punto di vista “operativo” il ministro ha annunciato il miglioramento dei protocolli per portare “lo sport e il lavoro nelle carceri” così come esperienze culturali (teatro, ecc) che coinvolgano i detenuti. Ma è il drammatico sovraffollamento dei penitenziari italiani, segnato dal triste record di suicidi, tanto di detenuti che di guardie carcerarie, ad aver sollecitato i commenti politici. Il Partito Radicale, con Maurizio Turco e Irene Testa, ha rilanciato l’amnistia, così come Riccardo Magi (+Europa), e soprattutto ha chiesto un dibattito parlamentare. L’urgenza di misure deflattive è sottolineata anche da Filippo Sensi (Pd), per il quale “i suicidi in carcere hanno il nome e cognome di chi ne porta responsabilità”, cioè della maggioranza che finora ha respinto tutte le proposte delle opposizioni. Altri esponenti Dem si sono spesi in questa direzione, come Paolo Ciani, Franco Mirabelli e Roberto Speranza. Sul tema spinge da tempo anche Forza Italia. Non a caso il gesto di Bergoglio viene seguito con grande attenzione da Antonio Tajani: “impegna tutti noi - rimarca il ministro degli Esteri - ad affrontare il tema carceri”. Da qui, alcune ipotesi: “Intervenire sulla carcerazione preventiva, pena in comunità per i tossicodipendenti, più giudici di sorveglianza e agenti della Penitenziaria”. “La pena è privazione della libertà, non della dignità”, ha aggiunto. Anche Maurizio Gasparri ha proposto che i detenuti tossicodipendenti possano ottenere i domiciliari in Comunità di recupero, mentre l’altro senatore “azzurro” Raffaele De Rosa ha definito “doveroso” intervenire secondo le indicazioni di Tajani. Da Fdi è arrivato solo silenzio alle sollecitazioni di Tajani, mentre Roberto Vannacci, è andato giù duro anche con il Papa ed ha lanciato una proposta alternativa: i detenuti devono lavorare “duramente” e “devolvere i propri emolumenti per risarcire le vittime”. Le parole di Tajani sono invece state colte dalla responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani, che si è detta pronta al dialogo chiedendo di “passare dalle parole ai fatti”. “L’opportunità concreta”, ha spiegato, arriva subito in Senato, dove a breve si voterà la norma del ddl Sicurezza sul carcere per le mamme con neonati. Alla Camera Fi, pur avendo presentato un emendamento, si adeguò a Fdi e Lega. Ora può votare e abrogare “quella norma incivile”. Carceri, l’Associazione Coscioni chiede accesso a relazioni Asl e promuove denunce anonime umbriajournal.com, 27 dicembre 2024 L’Associazione Luca Coscioni ha formalmente richiesto alle 102 Aziende Sanitarie Locali (Asl) di fornire le relazioni relative alle ispezioni sanitarie effettuate nelle 189 carceri italiane. Questa richiesta segue le difficoltà riscontrate dalle Asl nell’adempiere al loro ruolo di monitoraggio delle condizioni di salute dei detenuti, previste dalla legge. La denuncia è diventata ancora più urgente dopo che i dati sul sovraffollamento delle carceri italiane hanno raggiunto numeri allarmanti. Al 9 dicembre 2024, le carceri italiane ospitano 62.283 detenuti, a fronte di una capienza di 51.165 posti. Tuttavia, 4.478 posti non sono disponibili, portando il tasso di affollamento a un 133,4%. Questo tasso, che durante l’estate era sceso sotto il 130%, evidenzia una situazione di grande difficoltà. Nel mese di agosto 2024, di fronte al silenzio delle istituzioni, l’Associazione Coscioni ha intrapreso un’azione legale inviando una diffida alle Asl per sollecitarle a garantire i servizi socio-sanitari ea monitorare le condizioni delle carceri. Nella diffida, si specificava che la responsabilità per eventuali ritardi o inadempimenti nel fornire assistenza sanitaria ai custodi sarebbe ricaduta sul Direttore Generale delle Asl. Tuttavia, meno della metà delle Asl ha risposto, costringendo l’Associazione a fare richiesta di accesso agli atti per ottenere le relazioni delle visite effettuate. Il portavoce dell’iniziativa, Marco Perduca, ha dichiarato che, nonostante la mancanza di riscontri, l’Associazione ha deciso di portare avanti la richiesta di accesso agli atti per conoscere i dettagli sulle ispezioni sanitarie effettuate nelle carceri italiane. Le richieste includono informazioni precise su quando e dove sono state effettuate le visite, cosa è stato visitato e quali anomalie sono state riscontrate. Inoltre, l’Associazione ha richiesto la divulgazione di eventuali linee guida utilizzate per condurre le ispezioni, specificando se queste siano state fatte a sorpresa o a campione, e se la visita sia stata accompagnata da garanti o altre figure istituzionali. Infine, sono state richieste informazioni sulle istituzioni destinatarie delle relazioni, come il Provveditorato Regionale delle Carceri, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Ministero della Giustizia e il Ministero della Salute, nonché eventuali risposte ricevute dalle autorità competenti. Nel frattempo, per consentire a chiunque fosse a conoscenza di irregolarità all’interno delle carceri di segnalazione in modo sicuro e anonimo le problematiche, l’Associazione Coscioni ha promosso l’uso della piattaforma FreedomLeaks.org, un sito dedicato alla raccolta di denunce riguardanti la violazione dei diritti dei detenuti. Il sito consente di inviare informazioni riservate tramite un canale sicuro, garantito dalla piattaforma Globaleaks, utilizzando il browser TOR per proteggere l’anonimato dell’utente. Come spiegato da Andrea Andreoli, uno dei responsabili della piattaforma, FreedomLeaks è pensato per permettere a chiunque abbia accesso alle carceri-che siano parenti, volontari, assistenti sociali, educatori, o dipendenti delle Asl e delle amministrazioni penitenziarie-di denunciare in modo anonimo e sicuro le criticità riscontrate nel sistema carcerario italiano. A detta di Marco Perduca, il problema del sovraffollamento carcerario è una delle principali cause delle condizioni di vita invivibili nelle prigioni italiane. Il sovraffollamento impedisce di fatto l’accesso a spazi sufficienti per ciascun detenuto, creando una situazione di grave disagio. Già nel 2013, la Corte Europea dei Diritti Umani aveva condannato l’Italia per la violazione dei diritti dei detenuti in relazione al sovraffollamento, con una sentenza nota come la sentenza Torreggiani, che stabiliva che la disponibilità di meno di tre metri quadrati di spazio per detenuto è da considerare un trattamento inumano e degradante, che può configurarsi come tortura. La grave situazione carceraria ha portato l’Associazione Coscioni a sollecitare ulteriori interventi, ricordando che il rispetto delle normative internazionali sui diritti umani deve essere una priorità per le istituzioni italiane. L’Associazione ha continuato a denunciare la mancanza di volontà politica nel risolvere i problemi strutturali delle carceri italiane, tra cui la scarsità di risorse, il sovraffollamento e la carenza di personale sanitario. In particolare, la criticità del sistema sanitario penitenziario è aggravata dalla difficoltà di accesso alle cure mediche, dalla mancanza di specialisti e da condizioni igieniche precarie, che mettono a rischio la salute dei detenuti. L’invito dell’Associazione Coscioni a denunciare in modo sicuro e anonimo si inserisce in una strategia di sensibilizzazione che mira a rendere il sistema penitenziario più trasparente e responsabile, permettendo a chi ha informazioni dirette di portarle all’attenzione pubblica senza temere ritorsioni. Il sito FreedomLeaks.org, con la sua infrastruttura sicura, si propone come uno strumento fondamentale per garantire che le segnalazioni giungano alle autorità competenti in maniera protetta e anonima. Nonostante la difficoltà nel raggiungere risultati immediati, l’Associazione continua a battersi affinché le carceri italiane non siano solo luoghi di detenzione, ma anche ambienti dove i diritti umani e la dignità delle persone siano rispettati, come previsto dalle leggi italiane e internazionali. L’azione di denuncia e sensibilizzazione, purtroppo, appare necessaria, dato che le istituzioni italiane non sembrano essere in grado di risolvere da soli i gravi problemi che affliggono il sistema penitenziario. Il mito delle carceri buone. Tra Papi, Ministri e Radicali di Vincenzo Donvito Maxia aduc.it, 27 dicembre 2024 Anche oggi si è consumato il rito (ormai diventato mito) delle carceri buone, che dovrebbero rieducare i coscritti e indirizzarli ad una vita di civile convivenza. C’è il solito papa… non ce ne voglia, ma la sua eucaristica solitudine va di pari passo coi ministri in passerella: oggi a Rebibbia/Roma, con lui c’è quello della Giustizia e un ex-ministro oggi presidente Cnel, e poi quell’altro e quell’altro ancora. Poi ci sono i soliti (bontà loro) radicali ex-pannelliani, che non contano nulla ma accumulano segnalazioni e denunce che, quando qualcuno di potere prende in considerazione (tipo i leader del partito di governo Forza Italia), anche lì è la solita passerella. Infine ci sono alcuni rappresentanti delle istituzioni di secondo livello (consiglieri regionali e comunali e qualche sindaco) che, in ordine sparso, dopo le denunce, bene che vada riescono a far arrivare in carcere qualche ventilatore per l’estate. Ah, e poi, quando capita ci sono alcuni, anche esponenti dello stesso governo e dello stesso ministero di chi oggi è col papa a Rebibbia/Roma, che auspicano le peggiori torture per chi finisce dietro le sbarre. È Natale - come succede anche a Pasqua, Ferragosto e altre feste comandate - e dissacrando il presunto sacro, in diversi esprimono il proprio modo di essere buoni. Fine di una storia scritta male? C’è una svolta? Macché! Domani sarà come ieri e come dopodomani. Per (dicono) rimediare ci sono quelli - molti al governo ed ex-governanti - che dicono di voler rendere le carceri più umane, a partire dal rispetto delle leggi di reinserimento… che non vengono applicate (tranne qualche rarità che, proprio per questo, diventa oggetto di trasmissioni della tv di Stato…a Natale abbondano). E ci sono quelli che vorrebbero edifici migliori. Ma non succede nulla e quelli fatiscenti che ci sono ospitano anche il doppio di detenuti della loro capienza. Questo mentre, sempre il governo di quel ministro della Giustizia che oggi è a Rebibblia/Roma e il cui sottosegretario auspica maggiori torture per i reclusi... sempre questo governo “investe” quasi un miliardo in Albania per qualcosa che assomiglia ad un carcere per non-italiani colpevoli di essere nati in qualche Paese disgraziato, ma dove non riesce a trasferirci i “suoi” detenuti. Al netto del papa che fa la sua opera di sensibilizzazione, e delle tradizioni dei radicali ex-pannelliani… entrambi girando a vuoto, mentre i vari politici “raccattano” qualche voto di qualcuno che si illude delle loro capacità (riformatrici o torturatrici che siano), e mentre - garantito - nel prossimo messaggio del presidente della Repubblica per il nuovo anno ci verrà detto il possibile, in concomitanza del messaggio del capo del governo che ci dirà che lei e i suoi sodali sono all’opera (come quelli anche dei governi precedenti)... che gli racconto a mia figlia per stimolarla a credere nelle istituzioni e contribuire al loro miglioramento? E che cosa racconto a consumatori, utenti, contribuenti, risparmiatori perché contribuiscano e stimolino il nostro regime? Sono in difficoltà. Ma sono necessarie le carceri? I poveri bersagli della passione punitiva di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 27 dicembre 2024 Era il 2014 quando Papa Francesco, in un discorso sulle carceri rivolto all’associazione degli avvocati penalisti, rompeva con la tradizione cristiana e cambiava il lessico rispetto alla dottrina della Chiesa. In quel discorso non erano presenti parole come correzione morale, redenzione, pietà, perdono ma c’erano parola ben più pregnanti come populismo penale, capri espiatori, razzismo, disumanità. Un discorso politico più che religioso, sociologico più che teologico. Il Papa ruppe allora con la tradizione che affidava alla pena carceraria il compito di essere la medicina capace di costruire una società sana. Sono trascorsi dieci anni da allora e Papa Francesco torna ad accendere le luci sulle carceri in occasione del Giubileo appena iniziato. La sua decisione di aprire la porta del carcere romano di Rebibbia ha un forte sapore simbolico in un’epoca contrassegnata da ondate repressive, chiusure, machismo, violenze, morti e suicidi a ripetizione. “Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”. Parole che dovrebbero risuonare come macigni nelle anime e nelle menti dei presunti cristiani al potere, cultori di quella dottrina screditata chiamata diritto penale del nemico. Parole che però sono scivolate, e continuano a scivolare, senza effetto tra i nostri governanti, impegnati nel rincorrersi pericolosamente nella loro passione di punire. Eppure Papa Francesco, sin dal 2014, a loro aveva chiesto di ispirarsi al principio guida della cautela in poenam. Una cautela nell’applicazione della pena che dovrebbe essere il principio che regge i sistemi penali, e che invece è del tutto ignorato da chi, con il nuovo disegno di legge “Sicurezza”, seppellirà sotto migliaia di anni di carcere tutti quei detenuti che eventualmente disobbediranno agli ordini dei loro custodi. Questo sarà l’esito del futuro reato di rivolta penitenziaria contro cui si è scagliato di recente anche il Consiglio di Europa dopo l’Osce. Di fronte alle parole di speranza del Papa a Rebibbia i cattolici al potere fischiettano, tacciono, fanno finta di non avere capito. È a loro invece che il Papa si rivolge, nonché a un’opinione pubblica che, nel nome della propria sicurezza, alimenta la guerra contro i nuovi nemici: immigrati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti, poveri. Sono questi gli abitanti in massa delle nostre prigioni. Sono questi il target della passione punitiva che ci sta sommergendo. Di fronte al capo della Chiesa che invoca misericordia a Rebibbia davanti al ministro Nordio, ci sono ben poche speranze che si realizzi il miracolo natalizio e che la maggioranza al potere rinunci all’orgia punitiva presente nella proposta di legge sulla sicurezza, che apra alla ragionevolezza, all’umanità e alla clemenza. L’apertura della porta giubilare nel carcere romano di Rebibbia potrebbe così trasformarsi in una grande beffa, qualora ciò non dovesse comportare quanto meno il ritorno a un carcere aperto dove i poliziotti non siano trasformati in militari pronti ad andare in guerra. La missione dei giuristi e di tutti gli operatori penitenziari deve essere adesso quella di seguire le parole e i segnali del Papa, anziché quelle guerresche, e poco cristiane, di qualche governante e qualche sindacato loro amico. *Presidente dell’Associazione Antigone L’innamoramento per la vendetta di Massimo Donini L’Unità, 27 dicembre 2024 Se si crede che infliggere pene sia giustizia, anziché necessità sociale nei limiti dell’utilità collettiva e del senso di umanità, ci si può innamorare di questi riti. Ma senza una forma di riparazione nessuna pena ha mai restituito un bene che sia stato leso. Proporre un movimento contro ogni innamoramento punitivo è nello spirito del tempo? Parrebbe di no, perché come osservatori registriamo costanti flussi di opinione orientati al punire. Il modo di sentire, di reagire e di vivere i conflitti sociali e le delusioni subìte dai comportamenti illeciti o criminosi riguarda la famiglia, la scuola, l’ambiente di lavoro, i rapporti fra le persone, la società civile e politica, lo Stato e il diritto nazionale e internazionale. Riguarda tutti e tutto. Ridefinire la percezione e la reazione a misfatti e delitti ha valore educativo, filosofico, politico, giuridico. Solo l’ostracismo all’insegnamento della Costituzione e del diritto privato e pubblico come base formativa, grandi assenti dai licei e da troppe scuole, ha perpetrato l’ignoranza collettiva che assegna primati miopi ad altre materie classiche e scientifiche, lasciando il diritto agli avvocati, ai magistrati e ai giornali. Ma tant’è. Perché la Costituzione e la storia del diritto, anche di quello punitivo, non fanno parte di storia e filosofia e comunque sono ritenuti meno formativi della chimica? Non si tratta di contrastare la passione punitiva della società - istinto ineliminabile - ma di rifondarla dalle basi. Il modello di Beccaria, di una risposta penale rapida, ma anche temperata e mite, è contraddittorio. Più è immediata quella risposta e più somiglia a qualcosa che supera il taglione (occhio per occhio), perché aggiunge un male in eccesso a quello commesso, dovendo intimidire la generalità dei consociati e soddisfare il bisogno di rivolta contro il delitto. La stessa proporzione è già taglione, retribuzione, simmetria, cioè un raddoppio del male commesso, chiamato da millenni giustizia se eseguito dallo Stato. Perché se è pena inflitta e non mero risarcimento o riparazione, che restano davvero più misurati nel quantum e aggiungono in entità quasi aritmetica un bene al male (si ripeta come giaculatoria: aggiungono un bene al male), la pena aggiunge un male al male. Un male che si somma al bene eventuale del risarcimento o della riparazione. Se poi quel male è “proporzionato” e simmetrico, è davvero un raddoppio del male così sicuro da superare ogni altra logica risarcitoria che resta una eventualità. Il male è sicuro, è “legge” (una legge sociale che ripete la logica predittiva delle leggi fisiche), il bene no, è scelta privata. Fuori dello Stato poi, la risposta simmetrica diventa facilmente sproporzionata e si trasforma in vendetta. La passione per la vendetta è travolgente e trova un suo limite solo nel modello punitivo pubblico, che tuttavia perpetua il ciclo violento. Nessuno e niente come le rappresentazioni della tragedia greca ha saputo riprodurre questo ciclo di violenze infinito. Nell’Antico Testamento, invece, si presenta spesso quel ciclo come giustizia divina, ma alla fine la si legittima. “A me appartiene la vendetta e la retribuzione”. Pensavamo di essercene liberati con la scomparsa delle divinità dalla narrazione collettiva degli eventi storici (è ancora presente in Manzoni: nelle celebrazioni collettive del suo centocinquantesimo anno dalla morte pochi lo hanno ricordato), ma l’abbiamo solo sublimata: la politica esprime maggioranze che sono una nuova religione civile e la pena resta un suo strumento di governo (“a me appartiene la vendetta e la retribuzione”), quasi una religione di massa essa stessa. Questa è la logica punitiva. Nei rapporti di coppia o interpersonali, in famiglia, nella società, come per gli Stati, la giustizia sostituisce il perdono e l’amore, e pure la prevenzione e il controllo. Non si tratta allora di limitare semplicemente la passione punitiva del nostro tempo, ma di qualcosa di più universale, che abbiamo bisogno di comprendere, perché l’informazione e dunque il giornalismo, i media e i social stanno enfatizzando il bisogno collettivo di vendetta pubblica oltre ogni limite. Parliamo della vendetta pubblica, non di quella privata. Perché la vendetta pubblica, sublimata in giustizia, quando c’è, è la risposta a quella privata. Ma deve esserci affinché la vendetta privata non ritorni, e ne prenda il posto. Questo discorso, un po’ critico, è davvero quasi scontato. Ma non del tutto, se svela l’orribile equazione fra risposta simmetrica e giustizia (una equazione millenaria!), chiamandola invece raddoppio del male. Vorremmo invece fare comprendere, quasi un canto di Natale, il limite antropologico dell’innamoramento punitivo. Una volta che si pensi che infliggere pene sia giustizia, anziché necessità sociale nei limiti dell’utilità collettiva e del senso di umanità, ci si può innamorare di questi riti. Accade spessissimo pressoché a tutti, perché è nell’antropologia che si risponda al male con azione uguale e contraria, e attorno alla sua mitizzazione si sono celebrate le rappresentazioni più varie nella storia. Noi, invece, consapevoli come mai prima dei meccanismi collettivi di vendetta che social e media riflettono o sostengono, abbiamo il privilegio di capire quello che forse per la prima volta storicamente appare con tanta chiarezza. Mai una pena ha restituito un bene che sia stato leso, a meno che si tratti di, o si accompagni a, una forma di riparazione. Se dunque si desidera il bene sociale, occorre operare per ripristinare, riconciliare, restituire, ricostruire, risarcire, ricomporre interessi, valori, beni, rapporti. Anche se ci sono crimini, o semplicemente atti, che non si possono perdonare, o che non si possono riparare in senso fisico o economico, una persona non si identifica mai con quello che ha fatto, non azzera il suo valore in quelle condotte. Per questo motivo non ammettiamo la pena di morte, che suppone l’annullamento del valore del condannato nel suo gesto, o nella sua non-vita. Una persona può sempre agire per ricostruire rapporti, quando non siano possibili risarcimenti, restituzioni o riparazioni, mettendo in gioco la propria vita nel suo futuro, anziché annullarla nel suo passato. Ecco: l’innamoramento punitivo ha sempre cercato di annullare le persone nel loro passato, nell’atto, nel fatto che si vuole compensare o retribuire. Salvo diminuire, attenuare, condonare le pene dopo la loro inflizione almeno parziale. In questa logica è avvolto il destino dell’innamoramento punitivo, che chiama giustizia il male aggiunto, anche se non ci sia nessuna forma positiva di bene aggiunto. Dato che il delitto non può e non deve pagare, si chiama bene il male della privazione di libertà, e altri diritti. Occorre comprendere la perversione di questa antropologia antica, che giustifica la punizione del singolo in vista della prevenzione di illeciti futuri, del consolidamento della coscienza collettiva e della fiducia nell’ordinamento che si autotutela contro i suoi trasgressori. Ogni rieducazione ed emenda sono eventuali in questo meccanismo millenario. Ma è solo la necessità a giustificare il meccanismo di cui non ci si può innamorare come non si può farlo con una legge della fisica. Fermare il delitto, del resto, non appartiene alla pena retrospettiva normale, minacciata per tutti, ma alle misure cautelari, alla polizia preventiva, al controllo sociale, e alla selezione dei soggetti veramente programmati al crimine, per neutralizzarli. Il bene da costruire appartiene invece al post-fatto, a ogni forma di solidarietà e ricostruzione sopravvenuta. La sensazione drammatica di ogni autore di reato di non potere più “tornare indietro” dovrebbe quindi essere sostituita da programmi che, fermo un residuo di pena compensativa ritenuto insuperabile dalla società (ma ci sono forme molto diverse di riduzione, trasformazione e anche di degradazione delle pene inflitte verso programmi positivi di intervento, di pene prescrittive orientate al futuro), indirizzi al bene la sanzione penale. Tutto ciò costituisce la base per ripensare e riprogrammare ogni forma di innamoramento punitivo: in famiglia come nella scuola, nella società e nei tribunali. È questo un canto di Natale. Perché Natale significa che la storia non è più come prima, non è un ciclico eterno ritorno, ma viene divisa tra un prima e un dopo l’evento salvifico, al punto di condizionare lo stesso calendario universale. Il Natale delle passioni punitive significa che niente è uguale a prima se si attribuisce alle punizioni lo scopo di ricostruire beni, interessi, rapporti diversi dalla mera finalizzazione della pena sull’individuo. Nulla è più concentrato sulla sola persona di un colpevole, perché c’è una dimensione sociale del punire che, in famiglia, nel lavoro, come nei tribunali, spegne le nostre passioni ossessionate dalla colpa personale e le riconverte in forme di responsabilità che attuano programmi, elidono le conseguenze dell’illecito, sono costruite su una misura dei danni e non unicamente su quella delle colpe. Come il diritto civile risarcisce e restituisce, anche quello punitivo promette alle vittime riparazione e risarcimento e alla società ricostruzione di rapporti quali parti essenziali del rapporto punitivo con lo Stato e la persona offesa. La socializzazione delle conseguenze allontana l’attenzione dal rimprovero individuale, il quale è solo una parte della misura della sanzione. Siamo finalmente liberi dal passato delle sanzioni assillate dalla misura del male interiore, della personalità, o di una colpevolezza sociale che deve esprimere il singolo nel fatto commesso. Quanti fatti commettiamo che non sono noi stessi? Dobbiamo dirlo ai figli come agli imputati. Che si puniscano i fatti senza rimproverare sempre le persone che non si conoscono, e devono rappresentare un valore permanente, mentre sarà assai più agevole conoscerle dopo che avranno agìto per recuperare, restaurare, riconciliare. È Natale quando la passione punitiva diventa impegno sociale che supera il passato e il concentrarsi sulle colpe come soluzione del problema, come soluzione finale della giustizia. Non è questo un Dio con noi? Una speranza di cieli e terre nuove? Tutte le categorie del punire dovranno allora essere ripensate e riviste. Separiamo le toghe incapaci da quelle capaci: è questa la vera riforma che può cambiare la giustizia di Alberto Cisterna Il Dubbio, 27 dicembre 2024 “Memorie dal sottosuolo” sarebbe da titolare la storia della magistratura italiana degli ultimi due decenni. Senza la cupa visione di Fëdor Dostoevskij sulla fragilità umana, ma comunque nella consapevolezza che la stragrande maggioranza delle toghe italiane si trova a vivere le conseguenze di una “spedizione punitiva” che la politica ha intrapreso, e che intende portare a termine, pur non avendo colpe particolari da scontare o peccati originali da emendare. Un sottosuolo fatto di cunicoli stretti e polverosi, di strettoie impraticabili e senza luce. Con migliaia di fascicoli da gestire, personale esiguo su cui contare, sistemi informatici obsoleti e precari da adoperare, con un’avvocatura in bilico tra rassegnazione e rivolta che assiste sfiduciata a un declino che inevitabilmente la coinvolge e la risucchia. Questa magistratura non ha alcuna responsabilità per la gestione dei processi che - assurti al clamore delle cronache - sono falliti alla prova giurisdizionale, si sono arenati in indagini abortite, sono inciampati nelle prove nascoste. Basterebbe ricordare agli “assolti” di oggi le entusiastiche elegie e i tête-à-tête di ieri, per rammentare loro che le colpe devono essere ampiamente condivise. Le toghe più che una separazione delle carriere avrebbero bisogno di una netta separazione tra capaci e incapaci, tra spericolati giocolieri e severi scrutinatori di carte, tra ambiziosi al soldo di una certa stampa e taciturni artigiani della decisione. Per attuare questo “vasto programma” sarebbe sufficiente costringere chi aspira a incarichi di rilievo, o anche solo ambisce di proseguire il proprio lavoro, a segnalare nei propri curricula anche l’esito dei processi di cui si è occupato, senza lasciare al Csm o a qualche antagonista il compito della rilevazione o della delazione. Per carità un controllo del genere sarebbe pure previsto, ma sanno tutti che è approssimativo e procede a spanne; così che le schede di valutazione trasudano di indagini e di arresti, poi finiti in bolle di sapone, ma entusiasticamente allestiti da chi ha interesse. Il crivello delle valutazioni e delle promozioni dovrebbe essere fine e, inevitabilmente, infastidisce e mette ansia. Si dice: “ma esiste il libero convincimento” oppure “il sistema opera su tre gradi di giudizio e le oscillazioni, anche clamorose, sono inevitabili”. Giusto, ma che il convincimento sia libero non vuol dire che sia per ciò solo anche giusto e il processo pretende di rimediare alle ingiustizie, non punta certo a coartare il pensiero altrui. La separazione delle carriere, da questo punto di vista, non serve a nulla. Anzi. Pubblici ministeri valuteranno pubblici ministeri, giudici valuteranno giudici e in splendida solitudine si monderanno di ogni peccato e di ogni infamia e si può forse profetizzare con il principe di Salina: “chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli o pecore, continueremo a crederci il sale della terra”. Le correnti in tanto hanno deviato dal loro, insostituibile e irrinunciabile, percorso culturale in quanto hanno inteso per troppo tempo essere onnivore; hanno preteso di metabolizzare tutta la magistratura italiana senza badare troppo alle qualità di adepti e sostenitori. Un pericoloso “uno vale uno” che ha portato a perdonare folgoranti carriere basate su indagini farlocche, claque mediatiche e supporter interessati a inserirsi nella mainstream dei vincitori. In fondo lo sanno tutti, al netto di ipocrisie e fariseismi, nessuno era esente dalle ingordigie dell’Hotel Champagne; un’inaspettata Caporetto della magistratura italiana che, lungi dall’essere stata il frutto di un nemico astuto e geniale (il tenente Erwin Rommel nel 1917), è apparso piuttosto una porzione avvelenata con cui fazioni di toghe in lotta hanno (provvisoriamente) regolato i propri conti. Nel sottosuolo, intanto, centinaia di instancabili toghe, tutti i giorni affrontano i disagi, le precarietà, i tormenti di una funzione resa complessa da una società multipolare che sviluppa una domanda enorme di giustizia che deve essere soddisfatta. La chiamata alle armi contro la riforma che il Parlamento intende approvare, l’intenzione di essere addirittura parte attiva della probabile campagna referendaria, sconta - oggi - un problema ulteriore di cui la politica non tiene alcun conto. Stanno inserendosi e si inseriranno nei ranghi della magistratura centinaia e centinaia di nuovi giudici in pochissimi anni. Occorre riconoscere al Ministero della giustizia di aver portato a segno un compito immane su questo versante, con bandi a ripetizione per assumere nuovi giudici (l’ultimo, di pochi giorni or sono, prevede altre 350 assunzioni). Un’opera, invero, straordinaria che rischia però di immettere negli uffici - soprattutto in quelli di frontiera - magistrati “cicatrizzati” dalle fiamme dello scontro in atto; giustamente esaltati dall’importanza delle funzioni loro assegnate e profondamente frustrati dalla ruvidezza (talvolta ingiuriosa) degli attacchi all’intera corporazione. Sono, saranno le toghe del futuro, la giustizia sarà nel giro di pochi anni nelle loro mani - nelle procure e nei tribunali - e non si può e non si deve né addestrarli alla battaglia e alla contrapposizione con la politica, né coinvolgerli indistintamente in un attacco per errori e manchevolezze che hanno precisi nomi e cognomi, padrini e padroni. Oddio, anche madrine e padrone, woke culture. Scatta il reato per il rifiuto di esami in ospedale anche se la polizia non ha effettuato test stradali di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2024 L’obbligo che. se violato fa scattare il reato, discende non solo dall’esito positivo degli esami fatti con apparecchi portatili, ma anche se il comportamento del guidatore denota l’assunzione di sostanze psicotrope. Il conducente che fermato dalla Polizia si rifiuta di recarsi in ospedale per accertare se si sia posto alla guida dopo l’assunzione di sostanze psicotrope, commette il reato previsto dall’articolo 187 del Codice della strada. E non può invocare come scriminante del proprio rifiuto la circostanza che gli agenti su strada non avessero la dotazione di apparecchi portatili per la rilevazione sul posto dell’avvenuto consumo di droghe. Non è, infatti, vera la tesi sostenuta dalla difesa secondo cui l’accompagnamento presso strutture dove operino gli ausiliari sanitari della polizia per il prelievo di campioni biologici, sarebbe giustificato solo a seguito dell’esito positivo dell’esame condotto con le apparecchiature mobili al momento dello stop stradale. Ciò che giustifica l’invito (che se rifiutato determina il reato) a essere accompagnato presso una struttura autorizzata a effettuare tali esami nell’ambito della circolazione stradale, non è solo la riscontrata positività per mezzo delle dotazioni portatili della polizia, ma anche l’esame ictu oculi che gli agenti fanno del comportamento della persona fermata. Così la Cassazione penale - con la sentenza n. 47325/2024 - ha respinto il ricorso che sosteneva appunto l’irrilevanza del rifiuto del conducente del veicolo stradale di essere accompagnato in ospedale, per i prelievi di liquidi e reperti delle mucose, quando la richiesta proveniente dagli agenti di polizia non sia stata preceduta dalla rilevazione delle sostanze stupefacenti tramite gli apparecchi di cui sono solitamente dotate le pattuglie che controllano la sicurezza stradale. Sosteneva, infatti, il ricorrente che solo a seguito di un esito positivo di questo primo step di esami la polizia avrebbe potuto richiedergli di lasciarsi condurre in una struttura sanitaria autorizzata a svolgere esami più approfonditi sullo stato di alterazione o meno. Ciò è però smentito dalle norme del Codice della strada e dall’interpretazione giurisprudenziale in base alle quali nono solo l’esito positivo dei test effettuati con apparecchi portatili, ma anche il rilievo immediato delle stesse forze di polizia sullo stato del conducente giustifica la richiesta di approfondire tramite esami di laboratorio il sospetto di essere al cospetto di persona colta nell’atto di guidare sotto l’influenza di stupefacenti. In effetti, il ricorrente aveva sostenuto di essere affetto da balbuzie e da zoppia e per tale motivo aveva manifestato difficoltà a esprimersi e a deambulare. La Cassazione respinge il motivo in quanto tocca accertamenti di merito che il ricorrente avrebbe dovuto sollevare in appello e non per la prima volta in sede di legittimità. Torino. “Emergenza sovraffollamento e carenze strutturali” di Pasquale Quaranta La Stampa, 27 dicembre 2024 Una delegazione del Partito Radicale ha visitato la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino nell’ambito dell’iniziativa “Anche Natale in carcere” promossa nei penitenziari di tutta Italia. L’iniziativa mira a portare attenzione e solidarietà ai detenuti durante il periodo natalizio. La visita ha messo in luce le difficoltà e le criticità del sistema penitenziario italiano, sottolineando la necessità di interventi urgenti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e del personale. Il giorno di Natale, per lo storico leader Marco Pannella, non era mai come gli altri. Era una tradizione, un appuntamento che si ripeteva ogni anno: passare la giornata di festa a Regina Coeli. Una tradizione che, per il Partito Radicale, dura dal 1976, quando i radicali fecero il loro ingresso in Parlamento. Mentre il resto del paese si ferma per le festività, con famiglie riunite e luoghi di vacanza affollati, i radicali scelgono da sempre di essere altrove. In luoghi spesso dimenticati, come le carceri italiane, dove la loro presenza rappresenta un atto di solidarietà e di denuncia delle condizioni di vita dei detenuti. Anche a Ferragosto, quando tutti vanno in vacanza, i radicali continuano a fare la loro visita, portando attenzione e voce a chi vive ai margini del sistema. L’anno nero delle carceri italiane - Il 2024 è stato un anno particolarmente difficile per le carceri italiane, con un record di suicidi tra i detenuti e il personale penitenziario. Secondo l’Associazione Antigone, sono stati registrati 88 suicidi, il numero più alto mai registrato. Questo dato riflette una crisi profonda del sistema penitenziario, caratterizzato da sovraffollamento e condizioni di vita insostenibili. La delegazione - La delegazione era composta da Mario Barbaro, componente della Segreteria del Partito Radicale, Roberto Capra, presidente della Camera Penale del Piemonte e della Valle d’Aosta, Claudio Desirò, segretario di Italia Liberale e Popolare, e l’onorevole Alberto Nigra, già parlamentare. Alla visita ha preso parte anche il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano. Gestione di patologie psichiatriche - “La gestione dei detenuti con patologie psichiatriche risulta particolarmente critica, soprattutto nella sezione femminile - aggiunge la delegazione - dove non è prevista una sezione apposita per le detenute affette da tali disturbi”. Il peso delle carenze del sistema grava sugli operatori di polizia penitenziaria, “che sono pesantemente sotto organico, con circa 700 unità sulle 900 previste”. Anche chi presta servizio nel carcere a vario titolo risente di queste mancanze. L’impegno storico dei radicali - Il Partito Radicale ha una lunga storia di impegno nelle carceri italiane, caratterizzata da numerose iniziative volte a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e a promuovere i diritti umani. Fin dagli anni 70, i Radicali hanno condotto campagne per la riforma del sistema penitenziario, denunciando le condizioni disumane e il sovraffollamento delle carceri. Il “Dossier Carceri” - Uno degli strumenti più noti utilizzati dai Radicali è il “Dossier Carceri”, un rapporto dettagliato che fotografa la situazione all’interno degli istituti di pena. Questo dossier, aggiornato periodicamente, ha spesso messo in luce le gravi carenze strutturali e organizzative del sistema penitenziario italiano. Un episodio emblematico dell’impegno radicale è la visita di Marco Pannella al carcere di Regina Coeli nel 1975. Durante quella visita, Pannella denunciò pubblicamente le condizioni inumane dei detenuti, attirando l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Un altro momento significativo fu la campagna per l’abolizione del 41-bis, il regime di carcere duro. I Radicali hanno sempre sostenuto che questo regime violi i diritti umani fondamentali e hanno organizzato numerose manifestazioni e scioperi della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema. Il ruolo della formazione e del lavoro - Studi recenti hanno dimostrato che la formazione e il lavoro in carcere possono ridurre significativamente il tasso di recidiva. Secondo i dati del CNEL, chi riceve formazione e lavoro in carcere ha una recidiva del 2%, contro il 68,7% di chi non ha accesso a queste opportunità. Questo sottolinea l’importanza di trasformare le carceri in luoghi di riscatto e rieducazione. Teramo. Il carcere scoppia. I desideri dei detenuti: “Voglio vedere i miei familiari” di Rosalba Emiliozzi Il Messaggero, 27 dicembre 2024 Tre suicidi, un malore fatale in cinque mesi e tante storie difficili e di malattia. Dietro le sbarre di Castrogno prima di Natale sono arrivati cento detenuti in più, per un totale di 440 reclusi rispetto ai 255 di capienza. E un altro primato: “L’indice di sovraffollamento è del 172,5 per cento”, dice Grifoni, consigliere del partito Radicale. I numeri da anni parlano del carcere di Teramo, un caso nazionale che a volte offusca le storie che lo popolano. “I cento detenuti di Regina Coeli sono stati trasferiti senza essere avvertiti, tra loro ci sono solo 12 italiani - dice Adele Di Rocco del Coordinamento Codice Rosso che con Grifoni ha visitato i detenuti la vigilia di Natale - tutti stavano facendo un percorso che accedere a strutture alternative, che ore devono ricominciare da capo. Molti sono malati, altri con problemi di droga, ho notato un uso eccessivo di psicofarmaci”. Di Rocco racconta alcune delle tante vicende che si intrecciano nel carcere. “Una detenuta 40enne, che soffre di endometriosi, aveva un appuntamento ad Avezzano per un intervento importante e risolutivo, ma non l’ha potuto fare perché il carcere di Castrogno non l’ha trasportata in ospedale”. Poi c’è la storia di un 60enne con tumore e diabete, arrivato da Regina Coeli: “Mi ha chiesto aiuto - dice Di Rocco - ha ulcere alle gambe, ha bisogno urgente di cure”. E la vicenda di una donna, madre di due figli, che deve scontrare una pena cumulativa per più furti: “Non vede i suoi bambini, che le sono stati tolti, da nove anni perché nessuno le concede un permesso, che è un suo diritto, per un colloquio protetto. È grave”. Tre detenuti si sono tolti la vita: a gennaio il 37enne macedone Jeton Bislimi, accusato del tentato omicidio della moglie a Capestrano; a marzo il ventenne rom Patrick Guarnieri di Giulianova, finito in carcere per furto; a giugno Giuseppe Santoleri, 74enne giuliese che doveva scontare una condanna definitiva a 18 anni per aver ucciso insieme al figlio Simone la ex moglie Renata Rapposelli, pittrice di Chieti. “Giuseppe Santoleri, che era in attesa di essere trasferito per motivi di salute in una struttura alternativa ad Atessa, non riusciva più ad accettare le lungaggini burocratiche - dice Di Rocco - poi c’è il caso di Patrick Guarnieri, autistico, sordomuto, iperattivo e cleptomane, patologie riconosciute, non doveva essere in carcere, è l’unica caso che vede un’inchiesta aperta, stiamo facendo una battaglia per portare alla luce la verità”. Poi c’è un altro detenuto morto, un 41enne marocchino deceduto per malore (un infarto), ma per gli attivisti sarebbe un suicidio. Si è aperto uno spiraglio di luce con l’arrivo della nuova direttrice Maria Lucia Avantaggiato. “È molto aperta alle iniziative di riqualificazione, voglio presentare due progetti che consentono ai detenuti di frequentare corsi e avere attestati di lavoro - dice Di Rocco - Più di un detenuto mi ha chiesto di poter lavorare”. Grifoni, nella Pasqua scorsa, aveva sollevato il caso di un detenuto di 23 anni violentato da bambino da un uomo adulto che aveva ritrovato in carcere, e che aveva riconosciuto per le scale di Castrogno, uno choc per lui che aveva poi raccontato tutto al suo piantone, cioè al compagno di cella che si occupava di lui in quanto carcerato con patologie. “Quel ragazzo, ridotto a uno zombie, non è più in carcere, è stato affidato a una struttura protetta”, dice Grifoni. “La guerra ai poveri di Meloni che rovina l’Italia” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 27 dicembre 2024 Intervista a Chiara Braga, Presidente del gruppo Pd alla Camera dei Deputati. “Il Pd, con la segreteria di Schlein, sta raccogliendo sempre più consensi: i cittadini si rendono conto delle leggi assurde di questo governo e della sua assenza in ambito sociale. C’è spazio per l’opposizione per costruire un’alternativa”. Il 2024 sta per chiudere i battenti. Sono tempi di bilanci. Che anno è stato per il Partito democratico e per l’opposizione? È stato l’anno della consapevolezza, quello in cui prendere atto delle condizioni in cui il governo più a destra della storia sta portando il paese e del ruolo fondamentale che può e deve svolgere il Partito democratico. È stato l’anno del consolidamento della segreteria di Elly Schlein. Un anno di prove elettorali importanti, dove abbiamo dato un contributo determinate all’argine contro le forze sovraniste in Europa, vinto elezioni amministrative importanti e mobilitato milioni di cittadini nelle regioni dove abbiamo votato. Il Pd è ora la forza intorno alla quale costruire l’alternativa. Non abbiamo nessuna presunzione di autosufficienza però è sempre più forte un clima di fiducia e speranza verso il Pd, figlio anche dello spirito unitario messo in campo dal nostro partito. Ora si tratta di continuare il dialogo con le altre forze di opposizione. E al tempo stesso di chiedere una mano alle migliori energie che attraversano il paese per battere le destre e scrivere una nuova pagina. Penso al mondo del volontariato e dell’impresa, al mondo della cultura e dei saperi, al civismo diffuso. Nelle campagne elettorali, nei territori, nei luoghi di lavoro e di formazione c’è gente che vuole partecipare al cambiamento, noi ci siamo. Purtroppo, è stato anche l’anno dell’intensificarsi delle guerre e dell’esplosione di nuovi conflitti. Questo non ci è, e non può esserci, estraneo. Due anni di governo Meloni. Anche qui le chiedo un bilancio... Un giudizio negativo senza appello. La legge di bilancio è l’ennesima prova di un governo privo di visione, chiuso nei palazzi, ossessionato dai complotti e incattivito dai fallimenti. Assistiamo a una continua mortificazione del Parlamento, al ricorso sconsiderato della decretazione d’urgenza con il record storico di decreti in due anni, alla gestione clientelare della cosa pubblica. Il tutto tenuto da un patto di potere fondato su tre obiettivi che puntano a scardinare l’assetto della Repubblica come l’abbiamo conosciuta finora: l’autonomia differenziata, il premierato e la riforma della giustizia. Al di là di quello che porteranno a casa - e noi faremo di tutto per impedirlo - anche solo con le loro continue spallate, hanno già fatto molto male al paese. C’è un disegno strategico, una visione dell’Italia, in tutto questo? Vogliono spaccare il paese, cristallizzando le diversità, lasciando i territori al loro destino. Vogliono la donna solo al comando, con un’insofferenza totale a ogni organismo di controllo, svuotando le prerogative del Presidente della Repubblica, una figura altissima che ha sempre garantito stabilità ed è stata punto di riferimento fondamentale nei momenti più difficili, come durante la pandemia. E poi l’attacco senza precedenti alla magistratura, alla sua terzietà e indipendenza. Una riforma che punta ad assoggettare progressivamente il potere giudiziario a quello esecutivo, alimentando un clima di sospetto e delegittimazione e non risolvendo in alcun modo i veri problemi di funzionamento della giustizia, dal personale al dramma delle carceri. Diversi analisti e commentatori politici sostengono che con questa opposizione, così divisa e rissosa al proprio interno, Giorgia Meloni può dormire tra due guanciali... È un giudizio superficiale e di comodo. Giorgia Meloni è ancora forte e gode ancora di un consenso legato per lo più alla sua persona. Ma intanto assistiamo a un lento logoramento del gradimento dei membri del suo governo e all’esaurirsi del giudizio positivo nei loro confronti e nell’operato dell’esecutivo. Tutti gli appuntamenti elettorali di quest’anno hanno segnato una diminuzione consistente dei voti per FdI e per i partiti della destra. Anche quando hanno vinto, tra astensione e voti alle opposizioni, si registra un calo significativo. Ogni giorno sono meno credibili: il “meraviglioso mondo” della Meloni, quello raccontato occupando social e tv non esiste, e questo gli italiani lo sanno. Un euro e mezzo di aumento delle pensioni, mentre si sprecano 800 milioni di euro per i centri di detenzione degli immigrati in Albania vuoti da mesi, è uno schiaffo in faccia a milioni di persone che ogni giorno devono fare i conti con l’aumento del carrello della spesa, dei costi dell’energia, delle prestazioni sanitarie private a cui sono costretti a ricorrere se non vogliono rinunciare a curarsi, come già fanno 4,5 milioni di italiani. Il che porta a quale conclusione? Questo vuol dire che c’è spazio per le forze di opposizione per costruire l’alternativa cominciando con il riportare al voto quanti hanno deciso di non farlo. Non è un percorso facile e neanche scontato, ma dobbiamo farlo per dare al paese una speranza. Al Partito democratico, in quanto principale forza di opposizione, spetta il compito di fare da punto di riferimento e baricentro valorizzando le diversità, le risorse e le potenzialità all’interno di una coalizione alternativa. È un progetto a cui sta lavorando con grande determinazione la segreteria di Elly Schlein e a cui anche noi in Parlamento diamo ogni giorno il contributo. Lavori poveri, precarizzazione diffusa, tagli alla sanità pubblica: la lotta alle diseguaglianze e per i beni comuni non dovrebbe essere il centro dell’agire politico della sinistra? Esattamente, è intorno a un’altra idea di paese che si costruisce l’alternativa. Giorgia Meloni ha condotto in questi due anni una battaglia contro i poveri, contro i fragili, contro la parte più in difficoltà del paese. A noi spetta il compito di restituire all’Italia fiducia e speranza nel futuro. Tuttavia, sappiamo che non basta la denuncia delle loro contraddizioni e inadeguatezze, e la ferma opposizione alle loro scelte pericolose e fallimentari. Serve piuttosto la capacità di proporre un’alternativa. Non partiamo da zero. C’è stata una battaglia forte in questi mesi contro la loro legge di bilancio, una manovra ingiusta che taglia servizi, non finanzia la sanità pubblica, non aumenta né salari, né pensioni. Non investe sulla scuola, sull’università e la ricerca e non aiuta settori essenziali della nostra economia come l’automotive che dovrebbe essere accompagnato nella transizione tecnologica. Con la manovra Meloni, gli ultimi saranno sempre più soli e abbandonati. Mentre i furbetti dei condoni, più ricchi e protetti. Intanto va avanti la battaglia comune sul salario minimo: la scorsa settimana abbiamo consegnato alla Camera le firme per una legge d’iniziativa popolare. Non ci fermeremo, chiederemo di calendarizzare la legge già a gennaio e prima o poi Meloni dovrà riconoscere che sotto i 9 euro non è lavoro ma sfruttamento. C’è una strategia precisa per indebolire il lavoro: lo vediamo nella crescita della precarietà nel continuo attacco ai sindacati, teso a far saltare il sistema di relazioni industriali per come lo conosciamo. Non interventi episodici ma continui, verso tutti quei settori che provano a contrastare il loro disegno reazionario. Altro? Noi continueremo senza sosta nella difesa della sanità pubblica: questo governo sta portando al minimo storico gli investimenti in sanità rispetto al Pil, a fronte di una popolazione che invecchia e che avrà sempre più bisogno di una sanità territoriale pronta ed efficiente. Il Partito democratico continuerà a battersi contro i tagli che stanno affossando la sanità pubblica universalistica e contro la privatizzazione strisciante che questa destra sta portando avanti. Perché noi abbiamo un’idea di società dove nessuno deve sentirsi solo di fronte ai problemi, nessuno deve rimanere indietro, le difficoltà e le fragilità non sono una colpa o qualcosa di cui vergognarsi. Noi abbiamo un’idea della cura che non è un peso individuale o familiare come pensa la destra, bensì la prima e più grande responsabilità collettiva. Il 2024 ci lascia un mondo in guerra, dall’Ucraina al Medio Oriente... È la grande angoscia di questi anni: la guerra mondiale a pezzi, ogni tanto se ne aggiunge un tassello, dall’Ucraina a Gaza, dalla Siria al Libano. Quello che spaventa non è solo il moltiplicarsi dei conflitti e la destabilizzazione dovuta al protagonismo di personaggi poco inclini al dialogo, ma anche il ridimensionamento del ruolo dell’Europa e dentro questa di Paesi che, insieme al nostro, per decenni hanno garantito stabilità, come Francia e Germania. In questa situazione di incertezza, l’Italia spicca per assenza. Non c’è stato un solo dossier su cui il nostro governo abbia fatto sentire la sua voce. Nel giro di un paio d’anni ci siamo giocati la credibilità della più forte forza diplomatica nel Mediterraneo. Non una sola volta la Meloni, che quest’anno era anche a capo del G7, ha imposto le ragioni del cessate-il-fuoco e del dialogo. Anche in questo caso la destra ha un’idea privatistica della politica internazionale: alla fine ognuno gioca la sua partita basandosi sulla forza e sulle proprie capacità. Noi invece pensiamo che è indispensabile, oggi più di ieri, ribadire la scelta per una politica multilaterale e per la difesa delle organizzazioni internazionali che ne sono lo strumento, ed esigere una maggiore incisività, dell’Italia e dell’Europa, come forze promotrici del dialogo e della cooperazione internazionale. Per costruire un futuro di pace, perché le ragioni dell’odio e della guerra non possono avere la meglio. Migranti. La “beffa”: tornano i giudici esclusi dal Governo Il Dubbio, 27 dicembre 2024 La Corte d’Appello di Roma “arruola” i magistrati privati della competenza in materia con l’emendamento al decreto Flussi sui trattenimenti in Albania. A decidere sul destino dei migranti intercettati nel Mediterraneo e trasportati in Albania saranno ancora loro, i giudici “estromessi” con il decreto Flussi e quindi “riammessi” per colmare i vuoti di organico. È la beffa servita nei confronti del Governo Meloni, che dopo il braccio di ferro con la magistratura aveva deciso di trasferire alcune competenze in materia di trattenimento dei migranti richiedenti asilo dai giudici delle Sezioni specializzate dei tribunali alle Corti di appello. Lo aveva fatto con il cosiddetto “emendamento Musk”, dal nome del patron di SpaceX, ora “super ministro” di Donald Trump, che dopo il no del tribunale di Roma al trattenimento di 6 migranti nei centri albanesi, aveva attaccato via social i giudici italiani scatenando l’ira delle opposizioni. E anche l’intervento del presidente della Repubblica. “Questi giudici devono andarsene”, tuonava il miliardario sudafricano. Ma le cose non sono andate così. Come Il Dubbio aveva previsto oltre un mese fa, quando aveva immaginato il risvolto paradossale che la decisione del governo avrebbe prodotto: applicare presso le Corti di appello gli stessi magistrati privati della competenza in materia. Quella che allora appariva solo come un’ipotesi astratta, ora è confermata dai fatti: come riporta Repubblica, infatti, il presidente della Corte d’Appello di Roma Giuseppe Meliadò ha deciso di “arruolare” quattro magistrati provenienti dalle Sezioni Immigrazione dei tribunali, che torneranno ad occuparsi delle convalide dei provvedimenti di trattenimento adottati dal questore. Toghe in “prestito”, dunque, per far fronte alla mole di lavoro prevista: “Una vera e propria situazione di emergenza per l’ufficio”, spiega Meliadò nel provvedimento del 18 dicembre, dal momento che “la Corte d’Appello di Roma, presso la quale attualmente sono pendenti circa 25mila processi civili e oltre 40mila processi penali, è impossibilitata a far fronte, con i suoi attuali organici, a queste nuove competenze”. Di qui la decisione di pubblicare un interpello per “soccorrere” le Corti di appello. Per sei posti disponibili, hanno dato la propria disponibilità nove “volontari”. Di cui quattro provenienti dalla sezione immigrazione del Tribunale di Roma: Antonella Marrone, Maria Rosaria Ciuffi, Cecilia Cavaceppi e Giuseppe Molfese. Le cui domande sono state accolte, si legge nel provvedimento, “perché hanno una specifica competenza”. I due posti rimanenti sono assegnati d’ufficio ad altre due magistrate competenti in materia, Lilla De Nuccio e Maika Marini. E ora altre Corti potrebbero seguire la stessa via di Roma. Quando la nave Libra farà ritorno nel Mediterraneo per trasportare in Albania i migranti intercettati in mare: al momento non c’è una data ufficiale, ma si ipotizza che il progetto del governo ripartirà dopo l’11 gennaio, quando diventerà operativa la nuova norma approvata nel dl Flussi. L’obiettivo annunciato dalla premier, infatti, è riprendere al più presto i trasferimenti dei migranti, “anche alla luce della recente sentenza della Corte di Cassazione - ha annunciato Meloni - che ha indicato le competenze relative all’individuazione dei Paesi di origine sicura a livello nazionale”. Resta dunque da sciogliere il “nodo” sollevato anche dal Csm, che dopo l’approvazione del decreto flussi aveva espresso il proprio parere contrario. Proprio rispetto alla decisione del governo di trasferire le competenze alle Corti di appello, con la conseguenza di dover ripensare l’intera distribuzione delle risorse umane per superare la potenziale incidenza negativa sui tempi di definizione dei procedimenti relativi agli altri affari civili. Francia. Che cosa sono le “piccole carceri” del ministro della Giustizia di Lorenzo Rossi Famiglia Cristiana, 27 dicembre 2024 Gérald Darmanin rilancia l’idea delle “petites prisons”, le “carceri a misura d’uomo” per risolvere il sovraffollamento penitenziario in Francia. Tuttavia, tra scetticismi e ritardi nei piani di costruzione, la proposta rischia di rimanere un’utopia. In Francia, Gérald Darmanin, tornato al governo come ministro della Giustizia, ha rapidamente occupato il centro della scena con una proposta ambiziosa: creare carceri “a misura d’uomo”, distribuite su tutto il territorio. Un progetto che, almeno sulla carta, suona come una soluzione al cronico sovraffollamento delle prigioni francesi. Mercoledì 25 dicembre, durante una visita al centro penitenziario di Liancourt, nel dipartimento dell’Oise, Darmanin ha delineato la sua visione: piccole strutture dedicate alle “piccole pene”, meno rigide nei criteri di sicurezza ma più adatte a gestire il sovraffollamento. Ma questa idea è davvero rivoluzionaria? Non proprio. Jean-François Fogliarino, segretario generale del Sindacato nazionale dei direttori penitenziari, ha sottolineato che “l’idea non è nuova”. Già Didier Migaud, il predecessore di Darmanin, aveva ventilato la possibilità di centri penitenziari più piccoli, con un modello differenziato rispetto alle tradizionali prigioni. Eppure, la storia recente della politica penitenziaria francese insegna che, più delle parole, contano i fatti. Un sistema al limite del collasso - I numeri del sistema carcerario francese sono impietosi: 80.000 detenuti a novembre, contro una capacità di 62.000 posti. Un record che evidenzia la crisi di un modello non più sostenibile. Il piano lanciato nel 2017, che prevedeva la creazione di 15.000 posti aggiuntivi entro il 2027, si è arenato: meno di un terzo delle nuove strutture è stato completato, e le previsioni più ottimistiche spostano il completamento al 2029. Darmanin eredita una situazione esplosiva, dove non si tratta solo di costruire nuovi spazi, ma di ripensare il sistema nella sua interezza. Tra le opzioni sul tavolo ci sono la riqualificazione di vecchi edifici penitenziari, l’uso di strutture modulari prefabbricate e un maggior utilizzo di modelli già esistenti come gli istituti per minori (EPM) e i centri di accompagnamento al reinserimento (SAS). La sfida delle “carceri a misura d’uomo” - Le reazioni alla proposta di Darmanin sono contrastanti. Da un lato, figure come Wilfried Fonck, segretario nazionale del sindacato Ufap-Unsa penitenziario, apprezzano l’idea: “Centri più piccoli migliorano le condizioni di detenzione e di lavoro. I grandi complessi, con 900 detenuti in strutture progettate per 600, sono un incubo gestionale.” Dall’altro, emerge un forte scetticismo. “Queste soluzioni tampone non risolveranno il problema senza una regolamentazione che consenta liberazioni anticipate in caso di sovraffollamento”, avverte Fogliarino. Il senatore dei Républicains, Antoine Lefèvre, mette il dito nella piaga: “Anche le strutture più piccole rischiano di fallire se non rispettano il principio dell’incarcerazione individuale. Cosa ci guadagniamo se continuiamo a stipare tre persone per cella, con materassi per terra?” Un’utopia da costruire - Il dibattito su questa proposta riflette un problema più grande: il sistema penitenziario francese non può più permettersi di essere semplicemente “repubblicano di nome”, come denuncia un recente rapporto. Servono soluzioni che non si limitino alla “politica immobiliare”, ma affrontino il cuore del problema: reintegrazione, dignità e gestione sostenibile della pena. Darmanin si trova di fronte a una sfida titanica. Le “piccole carceri” potranno essere un tassello del mosaico, ma senza un cambiamento sistemico rischiano di restare un’utopia. La Francia è davvero pronta a fare i conti con le sue prigioni? La risposta non arriverà solo dai cantieri, ma dalla capacità politica di trasformare una visione in realtà.