Il Natale negato in carcere di Alessia Levantini* politicamag.it, 26 dicembre 2024 Le festività natalizie rappresentano per molti un momento di condivisione, gioia e riflessione. Tuttavia, per chi vive in carcere, queste giornate possono trasformarsi in una fonte di grande sofferenza. Non solo per la solitudine e la lontananza dalle proprie famiglie, ma anche per il peso di essere giudicati, spesso senza che la propria storia venga compresa nella sua interezza. Troppe volte si sente dire, con una certa supponenza, che chi ha sbagliato è giusto che stia in carcere, che se ‘l’è meritato’, che avrebbe dovuto pensarci prima. Ma dietro ogni errore, dietro ogni persona che si trova in una condizione di detenzione, c’è una storia, un contesto, una serie di circostanze che non possono essere ignorate. Ogni vita è segnata da esperienze uniche e complesse. Nessuno nasce con il destino già scritto, ma le condizioni in cui cresciamo, le opportunità che ci vengono offerte, la famiglia che abbiamo e l’ambiente che ci circonda contribuiscono in modo determinante alle scelte che faremo da adulti. È facile giudicare dall’esterno, guardando solo il risultato di un errore, ma spesso dimentichiamo che il percorso che porta a quella scelta è stato segnato da difficoltà, sofferenze, e, in molti casi, da una completa mancanza di alternative. Le circostanze e il destino - Molti detenuti si sono trovati a percorrere un cammino che sembrava già tracciato. Non tutti hanno avuto la fortuna di nascere in un ambiente che li spingesse a vedere le opportunità della vita, che li sostenesse nel prendere decisioni positive, che li educasse a credere nel valore del cambiamento. Per alcuni, le difficoltà iniziano molto presto: la povertà, la violenza familiare, l’abbandono, l’assenza di supporto possono diventare ostacoli insormontabili che sembrano impedire ogni via di fuga. Non si tratta di giustificare un errore, ma di comprendere che, per molti, la scelta che oggi viene condannata come “sbagliata” o “criminale” non è stata altro che l’unica possibile. Per alcuni, quella via è apparsa come l’unica via di fuga da una realtà opprimente. Chi, come tanti di noi, ha avuto la possibilità di fare scelte più consapevoli, di credere in un futuro diverso, forse non può immaginare la difficoltà di chi, invece, non ha mai avuto alternative. La sofferenza che si prova nel fare una scelta sbagliata non è meno dolorosa di quella che si prova nel vivere una vita di privazioni e di ingiustizie. Molti che oggi giudicano con fermezza, che credono che una persona che ha sbagliato debba rimanere imprigionata nel suo errore, non sempre riflettono su quanto sia stato difficile, per chi ha commesso un crimine, trovare una via d’uscita. D’altra parte, chi ha scelto un percorso diverso, chi è riuscito a superare le difficoltà, sa quanto sia importante avere la forza di affrontare il proprio dolore, di non arrendersi e di lottare per un futuro migliore. Questa stessa forza, però, non è stata data a tutti; per molti la scelta della “strada più facile”, quella che si definisce “sbagliata”, è stata un tentativo di sopravvivenza in un mondo che li ha esclusi. La sofferenza di una festività - Il Natale, come ogni altra festività, è per molti detenuti un momento particolarmente difficile. Le restrizioni, la chiusura delle comunicazioni con il mondo esterno, il ridotto personale che rende l’ambiente ancora più insicuro rendono questa stagione ancora più gravosa. Per molti, la “festa” diventa sinonimo di solitudine e impotenza. Il distacco da un proprio caro, la separazione forzata che i periodi festivi amplificano rappresenta un’esperienza dolorosa che molte famiglie devono affrontare. Tuttavia, a questo dolore si aggiunge spesso un ostacolo pratico: il costo economico per andare a trovare un detenuto. Le visite in carcere non sono semplici né a livello logistico, né finanziario. In molti casi, le famiglie devono affrontare lunghe distanze per poter accedere al carcere, con spese per il viaggio che possono essere insostenibili, soprattutto per chi vive in situazioni economiche precarie. A questo si aggiungono altre difficoltà: il tempo perso per le attese, i limiti imposti sui tempi dei colloqui e le procedure burocratiche che, a volte, rendono l’incontro ancora più difficile. Il costo fisico ed emotivo di questi viaggi è un peso che spesso grava sulle spalle di chi già vive una condizione di difficoltà. In questo contesto, il Natale, periodo in cui la lontananza dai propri cari si fa ancora più acuta, diventa simbolo di un allontanamento che non riguarda solo la persona detenuta, ma anche tutta la sua rete di affetti, che spesso si trova a lottare per mantenere viva quella connessione umana, pur tra mille difficoltà. La prima Porta Santa a Rebibbia - Il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nell’istituto penitenziario di Rebibbia Nuovo complesso, segnando un momento storico dei giubilei. “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”, aveva scritto Papa Francesco. “Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”, aveva aggiunto. Certamente si tratta di un gesto di grande portata per la collettività. D’altro canto, un aspetto negativo è che, all’apertura della Porta Santa, ci saranno più ‘civili’ che persone detenute. Questo potrebbe indurre a pensare che un evento così significativo sia più un atto simbolico per il mondo esterno, piuttosto che un gesto realmente pensato per loro. Il dovere morale di comprendere - Molti di coloro che oggi si trovano in carcere non sono necessariamente “senza speranza”. La realtà è che non hanno avuto, nel corso della loro vita, le opportunità di apprendere come affrontare la difficoltà senza ricorrere a scelte autodistruttive. Cambiare è difficile, lo sappiamo. E cambiare per chi ha passato la propria vita in un ambiente di violenza, di mancanza di supporto e di sfiducia, può sembrare un’impresa impossibile. Ma cambiare è anche l’unico modo per trovare una pace interiore, per riconoscere se stessi e, soprattutto, per vivere con dignità. Il Natale, come ogni altra occasione, dovrebbe essere un invito a riflettere su quanto sia importante che anche chi ha sbagliato possa trovare una strada verso il riscatto. La domanda da farsi è: “Se un giorno vi trovaste in difficoltà, vorreste che qualcuno non si arrendesse per voi?”. *Comunità di Sant’Egidio Giubileo, il Papa a Rebibbia ha aperto la Porta Santa di Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 26 dicembre 2024 Papa Francesco nel penitenziario romano: la banda della Polizia penitenziaria, i doni dei carcerati. In chiesa 300 persone, il ministro della Giustizia Nordio e il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Papa Francesco ha aperto la seconda Porta Santa del Giubileo 2025 nel carcere romano di Rebibbia, dopo quella già aperta la sera della vigilia di Natale nella basilica di San Pietro. “Ho voluto che la seconda Porta Santa fosse qui, in un carcere. Ho voluto che tutti noi avessimo la possibilità di spalancare le porte del cuore per capire che la speranza non delude, non delude mai”, ha detto il papa prima di compiere il rituale dell’apertura. Dopo quella di San Pietro “la seconda Porta è vostra - ha continuato Francesco durante l’omelia della messa, parlando a braccio - è un bel gesto quello di aprire le porte che significa cuori aperti. Questo fa la fratellanza. I cuori chiusi non aiutano a vivere. La grazia di un Giubileo è spalancare, aprire. Soprattutto i cuori alla speranza”. È la prima volta che succede nella storia nella storia del Giubileo. Un unicum nella tradizione della cristianità che, non a caso, arriva nel giorno di Santo Stefano, primo martire della Chiesa cattolica. Un segno di speranza per tutte le carceri del mondo che fa di Rebibbia un incona universale della vicinanza della Chiesa ai detenuti. Ad accogliere il pontefice nel penitenziario romano c’erano, tra gli altri, anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il capo dimissionario del Dap Giovanni Russo. Un momento storico che si realizza nello stesso giorno in cui si ricorda un’altra visita, che ha segnato un’epoca, di un Papa in un penitenziario. Il 26 dicembre 1958 Papa Giovanni XXIII, pochi mesi dopo la sua elezione al Soglio Pontificio, si recò infatti a Regina Coeli. Non un Giubileo certo, ma uno di quei casi di corsi e ricorsi storici, come se si chiudesse un cerchio. Il programma della cerimonia, i doni al Papa - Il Pontefice è arrivato nel penitenziario pochi minuti prima delle 9. Ad attenderlo, le note dell’Inno del Giubileo 2025 suonate dalla banda del corpo di polizia penitenziaria, diretta dal maestro Fausto Remini. Poi, il Papa è salito fino alla porta della chiesa del Padre Nostro dove si è svolto il rito di apertura della Porta Santa, la Porta della Speranza appunto. Tra le 300 persone presenti in chiesa, come ha spiegato il notiziario web del ministero della Giustizia Gnewsonline, saranno un centinaio, fra uomini e donne, i detenuti provenienti dai quattro istituti penitenziari di Rebibbia: una buona parte siederà davanti al Pontefice, altri faranno parte del coro, altri ancora parteciperanno ad alcune fasi dell’evento. Olio, biscotti e ceramiche: i doni dei detenuti - All’esterno della chiesa altre 300 persone - fra operatori penitenziari, volontari e familiari - potranno assistere alla messa su un maxischermo appositamente allestito. Al termine, Francesco riceverà alcuni doni dai detenuti: dagli uomini del Nuovo Complesso, la riproduzione in miniatura della porta della chiesa del Padre Nostro, creata all’interno del laboratorio “Metamorfosi” utilizzando i legni dei barconi dei migranti, mentre dalle donne di Rebibbia femminile, un cesto contenente olio, biscotti, ceramiche e bavaglini, frutto del loro lavoro. L’amministrazione penitenziaria omaggerà il Santo Padre con un dipinto raffigurante un Cristo salvifico, realizzato dall’artista Elio Lucente, ex poliziotto penitenziario. Vicino alle mura della chiesa, infine, sarà inaugurata l’opera, firmata dall’artista Marinella Senatore, dal titolo “Io contengo moltitudini”: un progetto di arte contemporanea - in continuità con il Padiglione della Santa Sede allestito nel carcere femminile di Venezia in occasione della Biennale - composto da una struttura ad albero, alta circa 6 metri, con luminarie in forma di strisce che riportano frasi di detenute, detenuti e personale penitenziario, scritte in varie lingue, anche in dialetto. Bergoglio e la Porta della Speranza - “Tutti noi come Chiesa e società siamo chiamati ad abbracciare le carceri con umanità. La Porta Santa che il Papa aprirà a Rebibbia ha un particolare significato. In analogia con quanto succede a Rebibbia anche in altre carceri saranno aperte altre “Porte della Speranza”. L’obiettivo è accompagnare i detenuti a vivere in modo riabilitativo e a prepararsi al rientro nella società. Il carcere non è un luogo di punizione, ma di riabilitazione. Tutto il mondo è chiamato a interessarsi di più”, ha spiegato il cardinale José Tolentino de Mendoça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, parlando del progetto “L’arte contemporanea in carcere: la sfida della speranza”, iniziativa pensata dalla Santa Sede per tenere un faro acceso sul tema carceri per tutto il 2025. “Questo progetto vuole mettere al centro il tema delle carceri e l’arte, essendo un ponte, può avere un ruolo decisivo”, ha detto ancora il cardinale Tolentino de Mendoça. Carceri che sono al centro dei pensieri di Bergoglio tanto da aprire lì una Porta Santa. Il precedente di Papa Roncalli - Oggi, come avvenne il 26 dicembre 1958 Papa Giovanni XXIII, l’intenzione era quella di portare speranza e conforto a chi si sente solo e dimenticato. La missione sempre la stessa: far comprendere che c’è una seconda possibilità per tutti, nessuno escluso. Papa Roncalli si presentò a Regina Coeli a sorpresa compiendo gesti e parole che sono entrati nella memoria collettiva. Prima volle un detenuto come ministrante durante la celebrazione della messa, poi parlò a braccio. “Son venuto - disse -. M’avete veduto. Io ho messo i miei occhi nei vostri occhi. Ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore. Questo incontro, siate pur sicuri che resterà profondo nella mia anima”. Roncallì sottolineò: “Ho ben piacere che sia proprio un’opera di misericordia”. Misericordia che divenne vicinanza, con il giro del Papa tra i carcerati e con l’abbraccio a un detenuto che si era gettato ai suoi piedi. Roncalli volle essere ritratto in mezzo ai detenuti. L’episodio che lo colpì i più però lo apprese una volta varcato il portone del penitenziario. Trecento detenuti, chiusi nelle celle di rigore perché considerati pericolosi, non avevano potuto vederlo. Volle allora inviare a ciascuno di essi un’immagine assicurando loro che non li avrebbe dimenticati nelle sue preghiere. Se per Roncalli fu “Misericordia”, per Bergoglio la visita a Rebibbia vuole essere un segno di “speranza”. Giubileo 2025, don Grimaldi: “Nelle carceri si guardi a un orizzonte nuovo di speranza” di Gigliola Alfaro agensir.it, 26 dicembre 2024 “I detenuti sperano che in questo Anno giubilare ci sia un condono, un’amnistia, un indulto: il nostro augurio è che le pene possano essere ridotte, che tutti gli Stati del mondo possano tendere una mano a coloro che hanno sbagliato cercando di offrire una speranza concreta, come il condono della pena”, dice al Sir l’ispettore generale dei cappellani. “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. Lo scrive Papa Francesco nella bolla d’indizione del Giubileo ordinario dell’Anno 2025 “Spes non confundit”, proponendo ai Governi che “nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. “In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento”, la richiesta del Pontefice. A don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, chiediamo quali sono le attese per questo Giubileo nel mondo carcerario. Don Raffaele, anche le carceri guardano con speranza il Giubileo? Il Giubileo è certamente una grande occasione per puntare lo sguardo di misericordia verso questi luoghi di sofferenza e di solitudine, molte volte dimenticati. La Porta giubilare che il Papa apre nel carcere di Rebibbia vuole essere una Porta profetica perché pone attenzione alla realtà dei nostri istituti penitenziari… La Porta giubilare di Rebibbia simbolicamente rappresenta tutte le carceri del mondo. Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo parla dei segni di speranza e tra di essi c’è proprio questa attenzione verso coloro che vivono all’interno degli istituti penitenziari. Nelle carceri si vive una grande attesa per il Giubileo e, come suggerisce il titolo della bolla pontificia, “la speranza non delude”: se poniamo la speranza sugli uomini, purtroppo, però, la speranza ci potrà deludere. Ma la nostra speranza è ancorata in Gesù, perché è Lui la nostra unica e vera speranza. La Porta Santa che si apre è anche un invito rivolto alla comunità civile a entrare e a non aver paura di sporcarsi le mani, ad impegnarsi, a creare percorsi di reinserimento e a non emarginare coloro che escono dalle nostre strutture penitenziarie. I detenuti sperano che in questo Anno giubilare ci sia un condono, un’amnistia, un indulto: il nostro augurio è che le pene possano essere ridotte, che tutti gli Stati del mondo possano tendere una mano a coloro che hanno sbagliato cercando di offrire una speranza concreta, come il condono della pena. L’Anno giubilare offre anche ai detenuti la possibilità di riguardare la propria vita e cambiare rotta? Il Giubileo può essere un grande ritiro spirituale che il mondo cattolico vivrà. Celebrazioni, momenti di catechesi, ascolto della Parola di Dio, gesti di carità andranno ad arricchire l’Anno giubilare. Non si tratta solo di un rito o di un’esperienza che vogliamo vivere solo a livello spirituale, ma è anche un impegno di vita per tutti, non solo per i detenuti, ma per ogni uomo di buona volontà. Vivere il Giubileo per noi cristiani significa un vero cammino di conversione affinché la porta del nostro cuore possa aprirsi a Cristo e implorare il Suo perdono e la Sua misericordia. Come cappellani come vi siete preparati a questo Anno Santo? Già stiamo lavorando per il Giubileo da maggio scorso. Quando abbiamo fatto il nostro convegno nazionale ad Assisi c’è stata una sezione dedicata proprio al Giubileo da vivere nei nostri istituti penitenziari. Anche per noi cappellani parlare del Giubileo nelle carceri non solo per i reclusi ma per tutti gli operatori significa parlare di una gioia spirituale affinché in questo Anno anche i nostri istituti penitenziari si possano rinnovare e possano respirare la vera speranza che non è soltanto l’addolcimento delle pene, ma deve essere per tutti uno sguardo e un orizzonte nuovo. Con che spirito state aspettando l’apertura della Porta Santa di Rebibbia? Ancora una volta vogliamo ringraziare Papa Francesco perché anche in questo Giubileo non fa mancare l’attenzione al mondo del carcere. Nel Giubileo della Misericordia è stata amplificata la misericordia verso il mondo del carcere. Nel 2025 vivremo un Giubileo ordinario e il Papa Francesco aprirà una Porta Santa a Rebibbia il 26 dicembre, ma l’auspicio è che in tutti i nostri istituti penitenziari i detenuti possano vivere il loro Giubileo. Ci saranno, infatti, molte iniziative che stiamo programmando per far sì che l’Anno giubilare possa essere vissuto pienamente nelle carceri. Un augurio per il Giubileo che inizia… L’augurio che noi cappellani rivolgiamo a tutti gli operatori, ai detenuti, alla Polizia penitenziaria, a tutti coloro che vivono il loro servizio all’interno del carcere è di sperare contro ogni speranza, come la speranza di Abramo. Ricordiamo anche che la speranza non deve essere vissuta come un’evasione dalla storia: la speranza è impegno, responsabilità. Infermieri in carcere. Succu: “Abbiamo davanti persone da curare. E basta” di Francesca Lippi agensir.it, 26 dicembre 2024 Mariaflora Succu è una donna che sprizza energia e determinazione da tutti i pori. È anche e soprattutto un’infermiera che ama e crede nel suo lavoro che svolge senza alcuna remora anche con i detenuti, pazienti che come tutti noi hanno il diritto alla salute, qualsiasi sia il motivo per cui sono in carcere. Ci racconta il suo lavoro nelle carceri toscane sottolineando l’importanza, spesso misconosciuta, della professione infermieristica in determinati contesti, spesso critici e complessi. Succu è presidente della cooperativa sociale Libera che fa parte della rete Almarei. La cooperativa è capofila, insieme allo studio Auxilium e a Sogesi, di un appalto per l’erogazione di servizi in alcuni istituti penitenziali. Gli istituti di cui si occupano le varie realtà raggruppate in un unico appalto sono Sollicciano, l’istituto Gozzini a custodia attenuata dove si trovano i detenuti lavoranti, chiamato “Solliccianino”, il Meucci per minori, la casa circondariale la Dogaia di Prato, la casa circondariale Santa Caterina di Pistoia. Gli infermieri occupati sono circa una sessantina tra le province di Firenze, Prato e Pistoia. La copertura del servizio è giornaliera per 365 giorni, anche H24. A Dogaia, ad esempio, la copertura notturna la fa un solo infermiere con il medico di guardia, a Sollicciano invece ce ne sono due: un infermiere nel settore maschile e uno nel settore femminile, mentre al Meucci e Santa Caterina il servizio è solo diurno. I detenuti seguiti dagli infermieri sono circa 1.500. Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono il vostro lavoro negli istituti di pena? Siamo degli infermieri. Quindi cosa ci portiamo dietro? Un pacchetto che è etico deontologico, insito nel Dna della professione e che noi applichiamo a qualsiasi tipo di attività che andiamo a fare. Questo è fondamentale perché al di là dell’appartenere a un credo religioso, o anche a nessuno, nel Dna della nostra professione c’è il rispetto della persona in quanto tale, indipendentemente dal motivo per cui giunge alla nostra attenzione. Noi non curiamo il detenuto in base a quello che può aver fatto o meno, e anche se casualmente veniamo a sapere il reato per cui è stato condannato, non cambia niente, perché noi siamo lì in quanto ci sono persone che hanno bisogno di noi. L’etica e la deontologia professionale sono i cardini che muovono le nostre organizzazioni. Noi ci troviamo sempre in una posizione di garanzia nei confronti delle persone che abbiamo davanti, ci muoviamo a tutela della persona in ogni fase dell’assistenza rispettando il diritto alla salute, sempre e comunque, per noi l’articolo 32 della Costituzione è un mantra. Il diritto alla salute è indipendente da condizioni sociali, etniche, religiose, di orientamento sessuale. Noi abbiamo davanti la persona da curare. E basta. Quali sono le figure professionali che ruotano intorno al detenuto? Le figure sono diverse, tra queste troviamo la polizia penitenziaria a tutela della sicurezza del detenuto e non solo, praticamente per la sicurezza dell’intero sistema, quindi sia dei detenuti che di tutti coloro che per qualsiasi motivo si trovano nell’istituto di pena. Poi ci sono gli psicologi, i medici, in alcuni contesti gli educatori, gli insegnanti. E ci siamo noi infermieri che operiamo per la tutela della salute su mandato dell’Asl. Dal punto di vista sanitario, cosa accade quando un detenuto entra in un istituto di pena? Viene inquadrato dal punto di vista infermieristico e medico e lì si vedono i farmaci che prende, può capitare che il medico che lo accoglie non sia d’accordo con la terapia e il trattamento, perciò, magari la rivede. Gli infermieri come intervengono? Gli infermieri si occupano dell’assistenza infermieristica nel complesso, quindi somministrano i farmaci, effettuano medicazioni, altre prestazioni sanitarie, fanno educazione sanitaria. Quando necessario, intervengono nelle urgenze, che possono essere di ogni genere, dall’infarto al tentativo di suicidio, non prima dell’accertamento da parte della polizia penitenziaria della sicurezza dello scenario. Se necessario si eseguono manovre rianimatorie in attesa del soccorso del 118 e in collaborazione con il medico di guardia. Cosa vorrebbe cambiare nel paradigma carcerario? Nel paradigma del carcere non basta dire vi garantiamo la socialità, bisogna dare un obiettivo, uno scopo, il detenuto va accolto in un ambiente che è confinato, ma che può offrire l’opportunità di un lavoro, opportunità limitatissima perché i detenuti lavoranti sono pochissimi, perciò andrebbe investito di più a livello economico. Esistono realtà virtuose in altri Paesi dove le persone detenute lavorano in laboratori, producono, vendono ed escono con un mestiere in mano. Ecco vorrei vedere questo: che evolvesse il concetto di carcerazione in Italia e diventasse davvero rieducativa, riabilitativa e di inclusione sociale, quindi aiutare il detenuto a non tornare a delinquere. Infatti in quei Paesi la recidiva è bassissima. Ma gli italiani non credono nella riabilitazione… Non ci credono per tanti motivi, la gente vuole vedere la punizione, però dobbiamo pensare che le nostre carceri non sono piene di persone come Filippo Turetta, lui è l’eccezione, sono piene di poveri disgraziati che sono caduti nella rete del piccolo spaccio, nella rete della truffetta, nel furtarello ripetuto. C’è chi aggiungerebbe che questi poveri disgraziati, se sono stranieri, dovrebbero tornare a casa loro. Se è per questo ci sono anche tanti italiani che fanno queste cose, non è un problema di nazionalità. Noi accogliamo queste persone straniere, ma poi le abbandoniamo, non perché manchi il lavoro per loro, ma perché li mettiamo in mano a dei caporali. E non dimentichiamo la burocrazia! È complicatissimo arrivare da un Paese straniero e districarsi nella nostra burocrazia. È l’ambiente in cui vivi, per stranieri e italiani, a spingerti a fare o non fare certe scelte, in base alle opportunità che ti offre. L’ambiente ti rende ostile, perché devi lottare per avere qualsiasi cosa. E questo ti rende arrogante. Lei entra nelle carceri abbastanza spesso per lavorare, ma se dovesse entrarci come detenuta cosa la colpirebbe di più? Non oso pensarci. Nel settore delle donne, quelle poche che ci sono tostissime. Comunque, quello che più mi farebbe male è innanzitutto la separazione, cioè quel limbo di tempo da quando entri dentro a quando riesci a parlare con qualcuno che ti spiegherà cosa è successo. L’altra cosa che mi colpirebbe è lo squallore dei luoghi fisici, perché l’ambiente, come diceva Florence Nightingale, ha un’influenza fondamentale nella salute delle persone. Se una come me, che oggi prende soltanto una pastiglia per la pressione e un integratore vitaminico, si trovasse a entrare in carcere, sicuramente il giorno dopo il suo arrivo nell’istituto di pena sarebbe imbottita di psicofarmaci che servirebbero a resistere in un mondo di quel tipo, soprattutto per l’assoluto abbandono a cui sei soggetto e lo squallore degli ambienti. Quindi uno entra che non prende psicofarmaci e esce che invece li prende, perché ha dovuto sopravvivere lì dentro. Ha mai avuto un momento in cui ha provato panico in carcere, magari con un detenuto? No. Ho un carattere ben strutturato, sono rimasta orfana di madre a 11 anni e mio padre si è perso nel suo dolore lasciandomi a gestire la mia vita, perciò ho dovuto cavarmela fin da ragazza, quindi sono serena anche nelle situazioni più critiche. Il mio comportamento quando entro dentro in carcere e incontro i detenuti nei corridoi, magari 20 detenuti e un solo agente che li accompagna, è ispirato sempre alla massima cortesia. Li saluto, li guardo in faccia e se mi devono dire qualcosa li ascolto, magari rispondo che non posso fare nulla per loro e li indirizzo altrove, però sono sempre disponibile. È questa la chiave per non dare adito a intemperanze. È chiaro che poi c’è quello agitato, quello con il tratto psichiatrico che se lo incontri nel momento sbagliato sono guai, ma a me fortunatamente non è capitato, a qualche mio collega purtroppo sì, e questo ultimamente accade sempre più spesso, c’è un reale problema di sicurezza per il personale sanitario e non solo. Quanto è difficile il vostro lavoro in questi contesti? È molto difficile perché devi avere un po’ di pelo sullo stomaco, devi essere in grado di lavorare in un ambiente che comunque è brutto anche per te lavoratore, essere capace di triangolare su diverse posizioni, la Asl che è il nostro appaltatore, la polizia penitenziaria che ha altri obiettivi a volte in contrasto con quelli sanitari, è insomma un gioco in cui bisogna destreggiarsi. Ha un ricordo bello, malgrado tutto? Sì, c’è stata una manifestazione teatrale dentro un’iniziativa e quello è stato un bel momento di condivisione. Purtroppo però anche in queste situazioni di condivisione, la tutela della sicurezza richiede separazione e questo è un grande limite. Ricordo l’esperienza che ho fatto a Regina Coeli tanti anni fa, noi infermieri avevamo il divieto di rapportarci, anche solo verbalmente, con i detenuti. Si somministrava la terapia e basta, senza parlare. Questo è sintomo di una cosa che non ho detto: ogni istituto di pena è un regno a sé, perché ogni direttore di carcere utilizza la sua leadership, segue le leggi comuni che sono le linee guida, ma vi inserisce la sua discrezionalità e l’istituto di pena si deve adeguare. A Rebibbia, faccio un altro esempio, ai tempi del direttore Mariani c’era “Rock in Rebibbia” che è andato persino in televisione e invece c’è chi va in tv solo perché c’è stata una rivolta. C’è qualche altra cosa che vuole aggiungere? Sì, una cosa che riguarda la nostra professione. Va data maggiore visibilità all’infermieristica penitenziaria a livello nazionale, recentemente la nostra federazione ha organizzato un bellissimo evento con il carcere di Bollate per sottolineare questo ambito della nostra professione, ma ci vorrebbero altri esempi virtuosi a seguire, perché i nostri infermieri si sentono abbandonati. La branca dell’infermieristica penitenziaria è lasciata un po’ a se stessa, invece va valorizzata. Giustizia, autonomia e premierato: i nodi politici per la maggioranza alla ripresa dopo le feste Il Sole 24 Ore, 26 dicembre 2024 Delle tre riforme che formavano il patto iniziale tra i tre partiti della maggioranza, e che avrebbero dovuto viaggiare assieme, la riforma Nordio sembra essere quella sul binario più semplice. La separazione delle carriere dei magistrati peraltro è il primo provvedimento all’ordine del giorno alla Camera alla ripresa dei lavori, l’8 gennaio. “L’augurio che faccio a tutti noi e alla comunità nazionale per il 2025 è mettere nello zaino solo quello che è davvero utile per andare più veloce e riuscire a vedere quello che è davvero essenziale”. Così Giorgia Meloni a Roma, all’inaugurazione di piazza Pia per il Giubileo Salvini era lì, al fianco della premier. Quell’invito ad andare veloce è stato un modo per ribadire che per adesso non c’è tempo né bisogno di cambiare caselle nel governo. È stato un nuovo stop all’ipotesi abbozzata dal segretario della Lega che, nelle ore successive all’assoluzione per il caso Open Arms, ha fatto capire che potrebbe mettere in conto l’idea di tornare a fare il ministro al Viminale. Separazione delle carriere dei magistrati alla Camera l’8 gennaio - Di ritorno dalla Lapponia, Meloni ha cominciato a “mettere nello zaino” ciò che ritiene utile. Per il 2025 dovrà far fronte alle riforme. A partire dalla separazione delle carriere dei magistrati, che per altro è il primo provvedimento all’ordine del giorno alla Camera alla ripresa dei lavori, l’8 gennaio. A chiederne l’immediata approvazione il ministro della giustizia Cardio Nordio, Forza Italia, e lo stesso Salvini. Del resto l’autonomia differenziata ha subito una brusca frenata ad opera della Corte costituzionale: che ci sia o meno il referendum abrogativo della legge Calderoli a giugno - e su questo è atteso per metà gennaio il giudizio definitivo sull’ammissibilità sempre da parte dei giudici costituzionali - dopo la sentenza 192 del 14 novembre scorso della legge Calderoli resta ben poco. Con la conseguenza che il processo di differenziazione ne risulterà in ogni caso ridimensionato nella portata e rallentato nei tempi. Le convergenze sulla riforma della giustizia - La riforma Nordio sulla separazione delle carriere è invece attesa in Aula alla Camera subito dopo la pausa natalizia. Ed è una riforma che gode di un vento migliore sia rispetto all’autonomia differenziata, ribattezzata “spacca Italia” dall’opposizione, sia rispetto al premierato caro a Giorgia Meloni, a sua volta fermo a Montecitorio dopo il primo controverso sì del Senato nel giugno scorso. Se infatti permane l’ostilità delle toghe con il niet dell’Associazione nazionale magistrati, anni e anni di inchieste sulla politica finite nel nulla hanno sensibilizzato anche parte dell’opposizione: a favore ci sono Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi, a sua volta appena uscito indenne dall’inchiesta su Open dopo 5 anni di indagini. I nodi irrisolti del premierato - Avanti tutta con la riforma della giustizia, dunque. Delle tre riforme che formavano il patto iniziale tra i tre partiti della maggioranza, e che avrebbero dovuto viaggiare assieme, la riforma Nordio sembra essere quella sul binario più semplice. Dell’autonomia si è detto. Quanto al premierato, la lunga pausa di riflessione è stata determinata sia dai nodi irrisolti - in primis la legge con cui eleggere il premier - sia dalla possibile concomitanza con il referendum sull’autonomia differenziata. Se infine si andrà al voto popolare a giugno, Meloni non ha alcuna intenzione di aggiungere altra carne divisiva al fuoco delle opposizioni. Se invece a breve arriverà lo stop al referendum da parte della Consulta, allora la “riforma delle riforme” potrà riprendere con più tranquillità il suo cammino. È l’ora della tregua, i pm non sono “controparte” di nessuno. Parola di Violante di Francesco Damato Il Dubbio, 26 dicembre 2024 Pur nel dissenso, anche lui, dalla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri e dal sorteggio per la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, l’ex presidente della Camera ha detto che le toghe “non possono essere controparte di nessuno, tanto meno del governo”. Con la solita, generosa e inconsapevole copertura del compianto Giulio Andreotti, convinto che a pensare male si facesse peccato già ai suoi tempi ma s’indovinasse, non vedo solo stanchezza per il suo “impegno intensissimo, seppure molto gratificante” nella decisione annunciata da Giuseppe Santalucia di rinunciare a proporsi per un secondo mandato quadriennale alla presidenza dell’associazione nazionale dei magistrati. Ora che si è praticamente esaurito il primo, e non credo proprio che gli sarebbe mancato e gli mancherebbe l’appoggio per un secondo. Che sarebbe tuttavia per lui ancora più intenso, ma non so francamente anche se più gratificante dell’altro, con la sfida che il sindacato delle toghe, in una recente assemblea a Roma, ha lanciato al governo nella prospettiva di scioperi e referendum abrogativi contro la riforma della giustizia intestatasi dal guardasigilli Carlo Nordio. Le cose sono cambiate di parecchio non solo e non tanto rispetto all’inizio del primo mandato di Santalucia, ma rispetto a una trentina d’anni fa, quando i rapporti fra politica e giustizia si ribaltarono con le piazze che sognavano e reclamavano sempre più arresti eccellenti, di giorno e di notte, nella lotta alla pratica diffusa del finanziamento illegale dei partiti. Si sono avvicendate persino più edizioni della Repubblica: quella vera, con sede al Quirinale, non quella di carta. E le assoluzioni sono diventate più numerose, frequenti e clamorose. Come quelle appena raccolte dai due Mattei della politica in corso: Salvini dopo essere stato processato per sequestro di persona, addirittura, avendo ritardato cinque anni fa lo sbarco di 147 migranti clandestini da una nave spagnola che li aveva soccorsi in mare e non voleva lasciarli in altri porti che non fossero italiani, e Renzi dopo essere stato neppure processato ma pre- processato, in una udienza appunto preliminare durata più di due anni, per i finanziamenti pur registrati alla sua corrente. L’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, già esperto della giustizia del Pci che una trentina d’anni fa era il più schierato con la magistratura inneggiata sulle piazze, già presidente della Camera, incorso negli anatemi dell’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, ha appena avvertito i suoi ex colleghi in un’intervista alla Verità che debbono decidersi a cambiare registro. D’altronde, senza arrivare ai giorni nostri, già qualche anno dopo le famose “Mani pulite” di rito ambrosiano Violante aveva avvertito che prima o poi qualcuno sarebbe “intervenuto” a riequilibrare i rapporti fra giustizia e politica. Pur nel dissenso, anche lui, dalla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri e dal sorteggio per la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, Violante ha detto che le toghe “non possono essere controparte di nessuno, tanto meno del governo”. E ancor meno “organizzare un referendum” superando ulteriormente da “combattenti” quel “senso della misura” necessario a “tutti”. Più chiaro di così. Messa alla prova e arresti domiciliari sono due misure compatibili ildiritto.it, 26 dicembre 2024 I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni. La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024. La vicenda - Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova. In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse. L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse. Presupposti della messa alla prova - La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni - spiegano infatti i giudici di legittimità - si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale, attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”. Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”. Portata rieducativa e afflittiva - L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022). L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali. Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena. “In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio - proseguono i giudici - la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”. Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.” La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”. Le autorizzazioni in costanza di detenzione domiciliare - In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”. Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”. La decisione - Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poiché muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio. Appropriazione indebita a chi trattiene i beni mobili del coniuge divorziato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 dicembre 2024 La mancata restituzione dei beni dell’ex presenti nella casa coniugale, inizialmente assegnata in sede di separazione, fa scattare il reato a carico dell’assegnatario solo dal momento in cui è tenuto in sede di divorzio a lasciare l’immobile. La condotta di appropriazione indebita dei beni mobili dell’ex marito presenti nella casa coniugale assegnata in sede di separazione alla moglie inizia dal momento in cui in sede di divorzio venga meno l’assegnazione del diritto ad abitare nell’immobile. E non è possibile fa retroagire la condotta al momento antecedente la separazione, cioè quando il coniuge proprietario dei beni mobili presenti nella casa coniugale ha abbandonato l’abitazione comune. Di conseguenza non può sostenersi la tardività della querela se questa è stata tempestivamente presentata rispetto il termine che va fatto appunto decorrere dal momento in cui l’ex assegnatario della casa ha perso il diritto ad abitarvi e mantenere in proprio possesso i beni mobili inizialmente assegnatigli insieme alla casa coniugale, come corredo della stessa. Per tali considerazioni la Cassazione penale - con la sentenza n. 47057/2024 - ha respinto il ricorso della ex moglie che non aveva restituito - anzi aveva addirittura venduto - beni mobili di pregio di incontestata proprietà dell’ex marito presenti nella casa coniugale in cui era rimasta a vivere la donna a e che le era stata poi assegnata in sede di separazione. Assegnazione poi revocata alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito di modifica delle statuizioni economiche. Il ricorso respinto puntava sulla retrodatazione dell’inzio dell’indebita appropriazione dei beni del marito al fine di far dichiarare tardiva la querela presentata dall’uomo dopo il divorzio che aveva invertito l’assegnazione della casa coniugale in proprio favore e non più della ex moglie. La ricorrente sosteneva anche la non punibilità della propria condotta in quanto agita sin dal momento in cu il marito aveva lasciato la casa coniugale. E che quindi la sua inziale decisione di non restituire i beni fosse addirittura scriminata dall’articolo 649 del Codice penale che prevede la non imputabilità del coniuge non separato per reati contro il patrimonio riferibile all’altro coniuge. La norma espressamente prevede - per tale categoria di reati, in cui rientra l’appropriazione indebita - la non imputabilità del coniuge non legalmente separato. Ma il reato di appropriazione sine titulo in realtà aveva cominciato a consumarsi solo a partire dalla decisione del giudice del divorzio che aveva assegnato la casa coniugale al marito proprietario anche dei beni mobili presenti nell’abitazione e non restituiti. Infatti, l’iniziale detenzione dei ben mobili appartenuti all’ex coniuge è irrilevante sulla successiva commissione del reato dovuta alla mancata restituzione al legittimo proprietario dei beni presenti nell’ex casa coniugale. Monza. Ilaria Salis in visita al carcere: “Detenuti costretti a vivere in condizioni degradanti” Corriere della Sera, 26 dicembre 2024 L’europarlamentare di Avs detenuta per più di un anno in Ungheria: “Il sovraffollamento è estremamente visibile. In Italia detenuti in condizioni indegne di un Paese civile”. Ilaria Salis ha visitato il carcere di Monza nel giorno di Natale. Ne ha dato notizia la stessa europarlamentare di Avs, detenuta per più di un anno in Ungheria, in un video su X. “L’anno scorso ho passato il Natale in carcere e so che per molti il periodo delle feste è ancora più duro del solito dentro questi luoghi. Il 2024 - aggiunge - è stato un anno terribile per le carceri italiane: il numero dei suicidi ha raggiunto le cifre più elevate da quando vengono conteggiate e i detenuti sono costretti a vivere in condizioni degradanti, indegne di un Paese civile”. “Questa mattina ho fatto una visita a sorpresa nella Casa circondariale di Monza e ho visitato le sezioni di isolamento di articolo 32 e la seconda sezione comuni. In quest’ultima - osserva ancora - il sovraffollamento è estremamente visibile tant’è che i detenuti che vivono in tre all’interno di celle che sono inizialmente progettate per una persona, di fatto, durante la giornata devono piegare una branda e metterla nel corridoio per avere sufficiente spazio per muoversi”. “Oggi, come sempre, ci tengo a esprimere tutta la mia vicinanza ai detenuti, alle detenute e ai loro cari. Forza resistete, ricordatevi che non siete soli”, conclude. Ferrara. Formazione digitale e reinserimento lavorativo, il carcere aderisce al progetto ferraratoday.it, 26 dicembre 2024 Il percorso coinvolgerà nove detenuti. In Emilia-Romagna sono quattro le realtà coinvolte dall’iniziativa. Il progetto di formazione digitale, sintetizzato dal titolo ‘Prodigi’ e rivolto alle persone in esecuzione penale o sottoposte a misure di comunità, si moltiplica sul territorio regionale. C’è infatti anche il carcere di Ferrara, oltre a quello femminile di Bologna, il reparto di media sicurezza del carcere di Parma e Casa di Lodesana a Fidenza, in provincia di Parma, fra i nuovi percorsi formativi partiti nelle scorse settimane dell’iniziativa sostenuta dal Fondo per la Repubblica digitale - Impresa sociale. Promosso dalla capofila Aeca, da Cefal Emilia-Romagna e Ciofs Fp Emilia-Romagna, il progetto, che punta a creare una seconda opportunità per 100 persone in situazione di fragilità, accompagnandole a maturare competenze digitali per la cittadinanza e l’inclusione, finalizzate al reinserimento lavorativo, si è già concluso positivamente la sezione di alta sicurezza degli istituti penitenziari di Parma e a Casa di Lodesana, a Fidenza. Alla luce del successo ottenuto dalle prime due edizioni del corso, sia gli istituti penitenziari di Parma, dove sono stati alcuni detenuti stessi a fare richiesta alla Direzione di essere coinvolti nei percorsi di alfabetizzazione informatica, sia a Casa di Lodesana hanno deciso di riproporre il percorso formativo a due nuovi gruppi di fruitori. Il progetto è stato quindi accolto con interesse sia dal carcere Costantino Satta di Ferrara che dalla sezione femminile della casa circondariale di Bologna ‘Rocco D’Amato’. All’interno delle carceri sono stati realizzati, grazie ai fondi del Fondo per la Repubblica digitale - Impresa sociale, altrettanti laboratori informatici dotati di pc e stazioni di ricarica. Attualmente, dunque, sono in fase di formazione con ‘Prodigi’ 30 uomini e 13 donne: 9 a Ferrara, 11 a Bologna (tutte donne), 13 a Fidenza (di cui 2 donne) e 10 a Parma. Sono 43, dunque, le nuove persone detenute che potranno godere gratuitamente delle tre fasi del progetto formativo: la prima di riallineamento delle competenze dei partecipanti con corsi di lingua italiana o di pre-alfabetizzazione digitale; la seconda con moduli di formazione digitale, oltre che con cicli di accompagnamento orientativo; e la terza fase con il supporto ai corsisti nel loro percorso di inserimento lavorativo, in collaborazione con gli enti partner. Nelle carceri di Bologna e Ferrara, ma anche a Parma e a Fidenza, infatti, sono state coinvolte persone in scadenza di pena, che potranno godere, grazie a ‘Prodigi’, anche di un accompagnamento personalizzato al reinserimento sociale e lavorativo. Il progetto è stato selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica digitale - Impresa sociale. Il Fondo è nato da una partnership tra pubblico e privato sociale (Governo e Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio - Acri) e, in via sperimentale per gli anni 2022-2026, stanzia un totale di circa 350 milioni di euro. È alimentato da versamenti effettuati dalle Fondazioni di origine bancaria. L’obiettivo è accrescere le competenze digitali e sviluppare la transizione digitale del Paese. Reggio Calabria. Il gruppo R.E.D. presenta mozione sulle carceri: “Necessarie maggiori risorse” reggiotv.it, 26 dicembre 2024 È stata trasmessa al Presidente del Consiglio Comunale di Reggio Calabria ed al Presidente della VIII Commissione Consiliare e per conoscenza al garante Comunale dei diritti dei detenuti una mozione a firma dei Consiglieri Comunali del Gruppo R.E.D. Carmelo Versace, Antonino Castorina e Filippo Burrone sulla questione carceri. Il documento politico che si propone di aprire un focus sulla questione carceraria parte dall’analisi delle situazioni di difficoltà che vivono le due strutture detentive presenti a Reggio Calabria alla necessità di richiede nuove risorse, nuovo personale ed avviare un intesa con le varie anagrafi comunali per la regolarizzazione dei documenti di identità dei detenuti realizzando parimenti un percorso di reale recupero del condannato anche attraverso intese e protocolli che si possano fare in relazione alla formazione professionale ed ai lavori stagionali. Il gruppo R.E.D vuole massima attenzione sui diritti umani, sul rispetto della dignità quale fondamento della democrazia ragione per cui nel periodo di festività natalizie, in un momento dove a livello nazionale emerge non solo il tema del sovraffollamento ma anche quello dei suicidi in carcere si è pensato di aprire un faro su un tema la cui trattazione riguarda la civiltà ed il rispetto di un’intera comunità. L’amministrazione comunale guidata da Giuseppe Falcomatà spiega Castorina, relatore della Mozione ha da sempre dato massima attenzione alla questione carceraria ma oggi è importante recepire gli stimoli che ha sollecitato la Camera Penale e potenziare il lavoro che l’amministrazione quale ente di prossimità può realizzare rispetto alla necessità di avere strutture dignitose ma anche prospettive di lavoro sia durante l’esecuzione della pena per chi ne ha diritto sia anche per il fine pena in ragione di quel valore costituzionale che la detenzione in carcere dovrebbe assumere quale strumento rieducativo e non solo afflittivo. Milano. Quando basta un “Mercatino” per dimenticare le sbarre e vivere davvero il Natale di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 26 dicembre 2024 Carcere di Bollate: mercatino di Natale con gli oggetti realizzati dai detenuti. La reclusione passa in secondo piano per lasciare spazio alla festa. Quanto possono essere diverse le prospettive! Se ora dicessimo “mercatini di Natale” è possibile che a molti venga in mente il rito che riempie strade o piazze delle città in dicembre. Un’idea diventata assai commerciale, ma che originalmente voleva rendere disponibili alle persone le creazioni dell’artigianato locale, o i prodotti alimentari tipici; ormai sono stati così moltiplicati che superano ogni possibilità, per cui sulle bancarelle affastellate si trovano cose di produzione iper-industriale, molto simili tra loro, anche a centinaia di chilometri di distanza. È il prezzo pagato al consumismo, che macina e rielabora qualsiasi idea per fame business, purtroppo. Però, almeno, il “mercatino” colora e rende simpatica l’uscita pomeridiana, la passeggiata serale, l’appuntamento con gli amici… Contribuiscono a dare un tocco di clima natalizio e diventano segno che le settimane prima del 25 dicembre sono speciali, diverse dalle altre. Rimane poi alla sensibilità individuale comprendere perché. Quando all’interno della Casa di Reclusione di Bollate s’è sentito che sabato 14 dicembre 2024 ci sarebbero stati i “mercatini”, Ia notizia s’è diffusa. Anche qui ci sarebbe stata un’esposizione di manufatti dai vari Laboratori presenti nel carcere e sarebbe stata aperta a visitatori esterni: gli oggetti creati in prigione avrebbero avuto visibilità e sarebbero stati venduti come autofinanziamento ai laboratori stessi, così che possano continuare la loro attività. Si sapeva pure che sarebbero venuti anche alcuni “espositori” da altre carceri, per arricchire Ia “piazza virtuale” in realtà, un lungo corridoio ove sarebbe stato allestito il mercatino. Se ne parlava in giro, ma è anche vero che non c’era poi tutta quest’aspettativa. Invece, bisognava esserci per scoprire una realtà di incredibile forza e impatto, inattesa, sorprendente, davvero formidabile. Intanto, il “prima”: un folto gruppo di detenuti ha lavorato sodo nei giorni precedenti per creare un luogo piacevole. S’è detto che era un “corridoio”: è facile immaginarsi un lungo percorso, da una parte un muro e dall’altra finestre con Ie sbarre: niente di accattivante. Ma dopo gli interventi di restyling, appariva ricco di piante e di fiori (perché a Bollate c’è una serra che coltiva molte essenze e i suoi “prodotti” sono serviti splendidamente allo scopo), di decorazioni e festoni natalizi, di luci collocate in posti strategici per illuminare ogni angolo e superare la freddezza dei neon. Poi gli stand, allestiti con tavolini e sgabelli “rubati” un po’ dappertutto, ma che sono diventati belli e accoglienti perché c’è chi ha investito per arredarli, coprire le superfici con tovaglie e tappeti, appendere poster e cartelloni: la Direzione del carcere, specialmente le persone dell’Area Trattamentale animate dall’infaticabile dottoressa Bianchi, hanno voluto che i “Mercatini” fossero attraenti, e ci sono riusciti. C’è un atrio, all’inizio del corridoio, che le loro mani operose hanno trasformato in un “garden”, con tavolini, sedie e qualche divanetto sul quale i visitatori avrebbero potuto sostare con l’illusione di un giardino, gustando prelibatezze preparate al momento - lode a quanti nel carcere di Cuneo gestiscono un panificio, accorsi con alcuni dei loro addetti e hanno sfornato in continuazione pizze, focacce, pane di vario genere, appetitose tartine. Poco lontano un banco vendeva panettoni sempre preparati a Cuneo. Al mattino del sabato sono arrivati tutti i Volontari che animano i vari laboratori a Bollate come a Varese, a Busto Arsizio, a Cuneo come s’è detto, nel carcere di Opera e in altri posti ancora… La parola “volontari” è sicuramente la chiave, perché si è assistito ancora una volta all’autentico miracolo della generosità e della disponibilità. I volontari sono “liberi”, hanno famiglia, impegni, lavoro e mille fronti da gestire, ma hanno speso un’intera giornata lì. Tempo, molto tempo regalato ai detenuti coinvolti nei laboratori e ai visitatori; tempo di qualità, perché lungo la giornata l’aspetto migliore è che ovunque si sono viste persone che conversavano, che spiegavano che cosa si fa, che chiedevano e rispondevano, chiarendo che il carcere non è solo segregazione, che i detenuti sono reclusi, ma non “cattivi”, che c’è operosità, che c’è ingegno. Un’altra parola chiave: non lo si pensa di certo, ma in galera si fanno cose stupende! C’erano quadri e disegni dipinti su ogni possibile superfice, c’era bigiotteria, c’erano oggetti in stoffa, in cafia, in legno (incredibili i “giocattoli” costruiti a Varese, interamente in legno, ma rifiniti nei dettagli più piccoli). Alcune cose erano elaboratissime e altre semplicissime (come i mini-presepi costruiti nel laboratorio RicostruiAmo che gli Scout Agesci animano nella C.R. di Opera: splendidi!), ma tutti bellissimi e curati. Come anche le “frittelle dolci di Bollate”, che un gruppetto di “ospiti” ha ottenuto di poter cucinare e offrire ai presenti: uno dei “banchetti” autogestito da chi è sì in galera, ma non è prigioniero. Quando sono arrivati i visitatori, ogni cosa è andata a ruba: ottima occasione per chi ha comprato e buon segnale di partecipazione agli sforzi. Oltre ai prodotti, c’erano anche luoghi dove varie realtà raccontavano sé stesse; le espressioni dei visitatori erano stupefatte quando si soffermavano a vedere i filmati delle produzioni teatrali dell’atelier di Bollate, o ai banchi dell’Università Statale o della Bicocca e così scoprivano che in carcere si studia, e lo si fa molto seriamente; oppure davanti allo “Sportello Giuridico”, presidiato solo da detenuti più esperti di Leggi e Regolamenti di tanti altri supposti specialisti; o dialogando con i Bibliotecari che spiegavano che ogni settimana (!!) si tengono incontri culturali con autori di saggi, romanzieri, poeti rivolti ai detenuti e sono molti quelli che vi partecipano. La giornata ha visto il transito dai Mercatini di un migliaio di persone, tra visitatori esterni che sono stati la maggior parte, volontari, detenuti coinvolti, ma anche Polizia enitenziaria, medici e infermieri, educatori… tutti ai Mercatini per rendersi conto, condividere, portare o ricevere una testimonianza che stupiva per la sua freschezza, una quantità di idee fatte concretezza che parlavano una lingua cristallina: non c’è luogo in cui non si possa promuovere la “seconda possibilità” che diventa ripartenza e rinascita. Davvero speciale quel giorno, vissuto in un carcere che non lo sembrava. Solo un giorno, sì; ma in quel giorno il Mercatino è stato davvero “di Natale”. Piacenza. L’associazione di volontariato “Oltre il Muro” cerca una nuova sede liberta.it, 26 dicembre 2024 Abbattere le barriere tra il carcere e la società, promuovendo la dignità e il futuro delle persone detenute. È questo lo scopo dei volontari dell’associazione “Oltre il Muro”, una realtà che si distingue per il suo impegno a favore dei detenuti nel carcere di Piacenza. Fondata nel 2006 l’associazione opera all’interno del carcere per promuovere il recupero e il riscatto sociale delle persone attraverso numerose iniziative. Il coinvolgimento attivo dei volontari è fondamentale in questo processo: uomini e donne che offrono il loro tempo aiutando i detenuti a riscoprire il loro valore umano. L’associazione al momento non ha una sede e il presidente Enrico Rizzo lancia un appello: “Ci sono alcuni imprenditori come Valter Bulla e Bruno Giglio che ci aiutano, per il resto i piacentini sono restii a tendere una mano quando si parla di carcere. Al momento abbiamo urgentemente bisogno di trovare una sede di appoggio. Spero che possa essere un bel regalo di Natale”. Il Giubileo di Francesco tra le macerie di un mondo finito in pezzi di Matteo Matzuzzi Il Foglio, 26 dicembre 2024 Un quarto di secolo fa, Giovanni Paolo II portava la Chiesa nel Terzo millennio. I Muri e le cortine erano crollati, imperava l’ottimismo. Oggi, si sentono solo le trombe dell’Apocalisse. Con l’apertura della Porta Santa nella basilica di San Pietro è iniziato l’Anno santo, dedicato alla speranza. Che non è quel generico “andrà tutto bene” di pandemica memoria. Com’è diverso il mondo da quel lontano 2000, quando la principale preoccupazione era il “Millennium bug”. Incedeva lento nella fredda notte dicembrina, il vecchio Giovanni Paolo II. Piegato dalla malattia e dall’età, avanzava verso la Porta Santa. S’udiva solo, sui marmi, il colpo ritmato del bastone pastorale, quello con il Cristo che piega il braccio orizzontale della croce, realizzato da Lello Scorzelli per Paolo VI. Natale del 1999, il Terzo millennio era dietro quella porta, con il suo carico di speranze e aspettative. Non era passato poi troppo tempo dalla “fine della storia” decretata con troppa baldanza da Francis Fukuyama e dai suoi cantori, convinti che ormai tutto si fosse compiuto e che dopo il crollo delle ideologie e dei fanatismi, dei muri e delle cortine, poco fuoco covasse sotto le braci di un Novecento che aveva devastato il mondo e fatto temere che l’apocalisse non fosse una mera speculazione biblica. Nulla, si diceva, avrebbe potuto superare il Male del Secolo, e pazienza per lo scontro di civiltà prospettato da Samuel Huntington. L’uomo aveva visto l’abisso: dopo Auschwitz e i gulag, il genocidio degli armeni e quello in Ruanda, le atomiche sul Giappone, il Vietnam e le rivoluzioni in nome di Dio che anziché la libertà avevano portato ghetti e burqa, niente poteva reggere al confronto. C’erano stati gli accordi di Camp David, le strette di mano e le foto tra i sorrisi, ammantati da spirito quasi kantiano. Certo, la guerra aveva rifatto capolino nell’Europa riappacificata dopo gli orrori novecenteschi, i Balcani vedevano ancora i raid sulla Serbia che strangolava il Kosovo, considerato roba sua. In Africa le bombe avevano fatto strage presso le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, ma il conflitto tra nazioni e religioni era tema riservato a dotte riflessioni, simposi e seminari ad hoc. Piccoli errori nella Storia, come sempre accaduto nelle epoche precedenti. Si dibatteva di radici giudaico-cristiane dell’Europa, come se il tema fosse davvero cogente e attuale, avvertito dai popoli e dalle loro coscienze. Gli appelli per le masse affamate che interpellano il cuore dei ricchi parevano discorsi d’altri tempi, un misto fra rivendicazioni post coloniali, memoriali d’epoca vittoriana e appelli della Chiesa che si faceva pellegrina fra i poveri e gli scartati. “Ogni anno giubilare è come un invito a una festa nuziale. Accorriamo tutti, dalle diverse Chiese e comunità ecclesiali sparse per il mondo, verso la festa che si prepara”, scriveva Giovanni Paolo II nella Bolla d’indizione. Festa, speranza, nozze. Un mondo che entrava, in quel Terzo millennio, con ottimismo. Quel che teneva sveglia la gente, all’epoca, era il “millennium bug”, il terrore di perdere i dati sugli ingombranti computer, di vedere le macchine spegnersi di botto al cambio di data. “Anno 2000, prima sfida dai computer. Millennium bug: milioni di persone mobilitate per evitare il blocco informatico”, titolava a sei colonne il Corriere della Sera. Si riducevano i voli e i collegamenti ferroviari, si parlava della “minaccia di virus elettronici”, si tratteneva il respiro aspettando di capire cosa sarebbe accaduto dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda, allo scoccare della fatidica cifra tonda, quella con i tre zeri messi l’uno dopo l’altro. E se il computer non funzionerà più? Altro che Gaza e Israele, Libano o Siria. Per non parlare di Georgia e Ucraina. La Russia faceva notizia per l’addio del giocondo Boris Eltsin, quello che faceva scompisciare Bill Clinton mentre dava Mosca in mano agli oligarchi che poi l’avrebbero accompagnato alla porta favorendo chissà quanto indirettamente l’arrivo di un giovane ex agente del Kgb venuto da San Pietroburgo. La Terra Santa che vedeva la pace a un passo e il Papa che nella Bolla scriveva “possa il Giubileo favorire un ulteriore passo nel dialogo reciproco fino a quando un giorno, tutti insieme - ebrei, cristiani e musulmani - ci scambieremo a Gerusalemme il saluto della pace”. “Novecento addio”, titolava il Mattino di Napoli, alla stregua di un urlo liberatorio per il secolo delle guerre mondiali che se ne andava per sempre. Il Giubileo era il portone d’ingresso al nuovo. Al nuovo secolo, al nuovo millennio, al nuovo mondo. Di globalizzazione si parlava, per lo più in senso positivo, se ne vedevano i lati positivi anziché quelli negativi, le storture che negli anni successivi si sarebbero fatte largo in un dibattito pubblico a ogni modo più povero e svilente. Il Giubileo fermava il tempo e consacrava il passaggio d’epoca. Le Torri gemelle svettavano nello skyline di Manhattan. C’era attesa, man mano che ci si avvicinava all’apertura della Porta Santa: “L’attuale pontificato sin dal primo documento parla del Grande Giubileo in modo esplicito, invitando a vivere il periodo di attesa come un nuovo avvento”, scriveva Wojtyla nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente, aggiungendo che “non si vuole certo indulgere a un nuovo millenarismo, come da parte di qualcuno si fece allo scadere del primo millennio; si vuole invece suscitare una particolare sensibilità per tutto ciò che lo Spirito dice alla Chiesa e alle Chiese, come pure alle singole persone attraverso i carismi al servizio dell’intera comunità. Si intende sottolineare ciò che lo Spirito suggerisce alle varie comunità, dalle più piccole, come la famiglia, sino alle più grandi come le nazioni e le organizzazioni internazionali, senza trascurare le culture, le civiltà e le sane tradizioni. L’umanità, nonostante le apparenze, continua ad attendere la rivelazione dei figli di Dio e vive di tale speranza come nel travaglio del parto”. Nella fase preparatoria tutto, sottolineava il Papa, “dovrà mirare all’obiettivo prioritario del Giubileo che è il rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani. È necessario, pertanto, suscitare in ogni fedele un vero anelito alla santità, un desiderio forte di conversione e di rinnovamento personale in un clima di sempre più intensa preghiera e di solidale accoglienza del prossimo, specialmente quello più bisognoso”. Giubileo che per definizione doveva essere “grande”: “Quanto al contenuto, questo Grande Giubileo sarà, in un certo senso, uguale a ogni altro. Ma sarà, al tempo stesso, diverso e di ogni altro più grande. La Chiesa infatti rispetta le misure del tempo: ore, giorni, anni, secoli. Sotto questo aspetto essa cammina al passo con ogni uomo, rendendo consapevole ciascuno di come ognuna di queste misure sia intrisa della presenza di Dio e della sua azione salvifica. In questo spirito la Chiesa gioisce, rende grazie, chiede perdono, presentando suppliche al Signore della storia e delle coscienze umane. Tra le suppliche più ardenti di questa ora eccezionale, all’avvicinarsi del nuovo millennio, la Chiesa implora dal Signore che cresca l’unità tra tutti i cristiani delle diverse confessioni fino al raggiungimento della piena comunione. Esprimo l’auspicio che il Giubileo sia l’occasione propizia di una fruttuosa collaborazione nella messa in comune delle tante cose che ci uniscono e che sono certamente di più di quelle che ci dividono”. Venticinque anni dopo, una guerra dopo l’altra, attentati terroristici nel cuore d’Europa, fede spenta e generale disinteresse per il fatto religioso (almeno in occidente), la Bolla d’indizione del Giubileo ha altri toni. Il tema è la speranza, che non è il generico “andrà tutto bene” di pandemica memoria. Non è il conforto intimo davanti alla paura e al mistero insondabile. Osserva il sociologo Sergio Belardinelli: “Il Giubileo del 2000 fu il Giubileo dell’incarnazione del verbo, rivolto a cristiani che, per nulla appesantiti da duemila anni di storia, si apprestavano a entrare nel Terzo millennio ‘rinfrancati dalla consapevolezza di recare al mondo la luce vera, Cristo Signorè. Sembrava insomma che il mondo fosse quasi prossimo a lasciarsi alle spalle il peggio della sua storia. Oggi di quel Giubileo resta invece l’immagine grandiosa e dolente di Giovanni Paolo II che a fatica cerca di aprire la Porta Santa. Quasi un presagio che grava come un macigno sulla cupa stanchezza dei nostri tempi”. Lo si vede e lo si sente: questa è un’altra faccenda. “Quando il prossimo 24 dicembre Papa Francesco aprirà il Giubileo del 2025 avrà negli occhi e nel cuore l’immagine di un mondo ‘che si trova immerso nella tragedia della guerra’, della superficialità, dello sconforto e spesso della disperazione. Per questo la sua Bolla d’indizione è accoratamente incentrata sull’essenzialità del messaggio cristiano: la speranza di Cristo che non delude e che può vincere ogni male. Un’essenzialità quasi insolita per Francesco, una sorta di spes contra spem per ‘non cadere nella tentazione di ritenersi sopraffatti dal male e dalla violenza’”, aggiunge Belardinelli. La speranza cristiana è più di un banale ottimismo. La speranza, scriveva Georges Bernanos, “è un atto eroico di cui i codardi e gli stupidi non sono capaci; per loro è l’illusione a tenere il posto della speranza”. Adrien Candiard, autore fra l’altro di La speranza non è ottimismo: Note di fiducia per cristiani disorientati (Emi, 2021), osservava che l’incomprensione sorge dal fatto che si confonde la vera speranza con le speranze umane: “Per difendere l’autentica speranza, Geremia non ha cessato di subire le persecuzioni di coloro che se ne facevano i campioni, di quanti dicevano ‘Non abbiate paura, andrà tutto bene!’ mentre il profeta annunciava disgrazie su disgrazie. La speranza cristiana non richiede ottimismo, richiede coraggio. Bisogna accettare di rinunciare all’illusione, alle false speranze, a tutte le false speranze”. Scrive Papa Francesco: “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza”. Il mondo che si prepara al Giubileo è quello della Terza guerra mondiale a pezzi, sfinito dai conflitti che sorgono ora dopo ora da un capo all’altro del globo e che pian piano - ma neanche poi così tanto piano - si stanno saldando, rendendo autentica la profezia che Francesco fece agli albori del pontificato, quando gli esperti nel campo non vedevano legami fra la corsa califfale nel vicino oriente, gli appetiti putiniani fra il Dnepr e il mar d’Azov, e l’attenzione di Xi per Taiwan. Il cielo è grigio metallo, sembra quasi il panorama apocalittico che fa da sfondo alla Strada di Cormac McCarthy: pochi sopravvissuti in un mondo irriconoscibile, popolato da uomini ridotti a bestie. “Il primo segno di speranza - prosegue la Bolla - si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subìto? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno ‘operatori di pace saranno chiamati figli di Dio’. L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura”. Ancora, “guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita”. Come è lontano lo slancio giovanpaolino della fine degli anni Novanta, quanto diversi sono i termini e i toni del messaggio. Qui il virus non è quello informatico, ma l’assuefazione alla guerra in un mondo, almeno nella sua parte occidentale, che alla guerra preparato non è. Diceva al Foglio il cardinale Matteo Zuppi: “Ricorrono gli ottant’anni dei momenti peggiori della Seconda guerra mondiale, l’inferno europeo. Una guerra mondiale ma interamente europea. Ma è anche una guerra da cui - insieme all’Olocausto cui è legata - è nata l’Europa. Abbiamo perso la memoria, cioè quella consapevolezza originaria. Immaginare la pace ha significato immaginare l’Europa. La generazione che l’ha costruita poi non ha fatto manutenzione e, soprattutto, non ha fatto un investimento per il futuro”. Certo, poi ci sono i simboli. Lo storico delle religioni Daniele Menozzi ricorda che “nella Chiesa cattolica l’istituto del Giubileo si caratterizza, fin dalle origini, per la concessione delle indulgenze, che, consentendo al fedele la remissione dei peccati commessi, apre la via al suo ravvedimento. Oltre al significato strettamente religioso assume dunque un più generale significato simbolico: implica una svolta rispetto al passato, un cambiamento di vita, un nuovo inizio. Questo aspetto assume particolare rilievo, quando, nel corso dell’età contemporanea, la Chiesa ha cominciato a legare l’indizione dei giubilei non solo alla vita del singolo credente, ma anche alla vita collettiva. La fine della tradizionale società cristiana comportava che il Giubileo, senza abbandonare le ricadute personali e interiori, mirasse anche a sollecitare i cattolici a inserirsi nel mondo per cambiarne condizioni giudicate incoerenti con la loro fede. Ci si può allora chiedere - continua Menozzi, il cui ultimo libro, da poco uscito, è Lezioni di Storia della Chiesa (Morcelliana) - quale sia la valutazione espressa su questo piano nella bolla Spes non confundit con cui Papa Francesco ha indetto il Giubileo del 2025. Una risposta viene dal confronto con il precedente Giubileo ordinario, quello del 2000. Quell’evento fu segnato dalla richiesta di pentimento per le deviazioni dall’insegnamento evangelico che nel corso della storia avevano macchiato i comportamenti dei fedeli. Tali deviazioni erano sostanzialmente individuate in atteggiamenti non rispondenti alle acquisizioni del dialogo tra cattolicesimo e mondo moderno promosso dal Concilio Vaticano II: violazioni della libertà religiosa; mancanza di rispetto delle autonome culture indigene; utilizzazione della violenza, anche bellica, a scopi apostolici; negazione dei fondamentali diritti della persona. Non è difficile ricondurre questa linea al contesto dell’epoca. La fine dell’ordine bipolare, che aveva fatto seguito al crollo del comunismo, apriva la strada a una presenza della Chiesa nel mondo segnata dalla sua riconciliazione con quella modernità liberal-democratica con cui si era a lungo scontrata. Restavano certo zone di attrito: Wojtyla denunciava la deriva ‘totalitaria’ delle democrazie insensibili ai ‘valori non negoziabili’. Tuttavia riteneva che l’ammodernamento della Chiesa, prodotto dalla sua revisione del passato, ne avrebbe favorito l’incontro con la cultura politica dell’occidente. In tal modo essa - dice ancora Daniele Menozzi - avrebbe contribuito a spegnere i focolai di tensione - le prime manifestazioni del terrorismo islamista, l’emergere di nuovi fondamentalismi religiosi, il risorgere di violenti nazionalismi - che ostacolavano la pacifica espansione sul globo di un nuovo ordine mondiale fondato sui diritti umani”. Un quadro, anche sul piano geopolitico, che pare compromesso, lontano dagli auspici di venticinque anni fa. Aggiunge Menozzi: “Il terrorismo islamista - per quanto sia stato sconfitto un suo primo tentativo di ergersi a stato - palesa periodicamente la sua forza; i nazionalismi, saldandosi con i populismi, hanno trovato una inaspettata capacità di diffusione internazionale; la nascita e il successo di democrazie illiberali evidenziano una profonda crisi interna allo stesso occidente. Se, all’inizio del pontificato, Francesco denunciava il profilarsi di una Terza guerra mondiale a pezzi, oggi si avvicina lo spettro dell’apocalisse nucleare. In questo contesto il ruolo della Chiesa muta profondamente: essa non è più chiamata a sostenere la diffusione di un modello politico, ma ad alimentare la speranza che è ancora possibile costruire una pacifica convivenza civile”. Resta allora da guardare alla Bolla d’indizione del Giubileo di Francesco che, “sollecitando i credenti ad approfondire la speranza cristiana della resurrezione, indica anche la via di una presenza della Chiesa nel mondo d’oggi in grado di rispondere ai suoi più urgenti bisogni. Essa ravviva infatti la fiducia che c’è ancora tempo per cambiare le cose. I credenti che, attraverso la remissione dei peccati, intraprendono la strada della metanoia, richiamano anche l’angosciata società attuale a una speranza: tutti gli uomini possono lasciarsi alle spalle gli errori che li hanno portati sull’orlo dell’abisso e avviare così l’edificazione di una pacifica comunità internazionale”, chiosa lo storico. Ma chi è disposto ad ascoltare la voce della Chiesa, divisa pure al suo interno fra correnti e fazioni che davanti alle macerie del mondo paiono fuori dal tempo? Ai governanti Francesco ha già dimostrato di credere poco, non ripone in loro grande fiducia al di là della naturale e doverosa cortesia. L’ha detto lui stesso, quando denunciò anni fa la mancanza di grandi leader, mentre gli si domandava cosa pensasse dell’Europa narcolettica, divenuta una “nonna” che non ricorda più neppure quale fosse il suo spirito originario, incapace di riconoscere la propria anima. Quell’Europa finita per diventare un’algida Babele burocratica da cui, anche nella visione del Pontefice, sono scaturiti indirettamente i vari nazionalismi di ritorno, i populismi più sfrenati e gli innamoramenti per gli autocrati petto in fuori e parole d’ordine chiarissime, può raccogliere la sfida in nome della speranza? Può farlo l’America travolta dalle sue contraddizioni, guidata fra poco da un Trump per il quale - per dirla con Angelo Panebianco sul Corriere della Sera - “la categoria ‘occidentè non significa nulla”? Come si può concretizzare la presenza tangibile della Chiesa di cui parla Menozzi in un mondo segnato da conflitti, steccati e perdita sempre più evidente di fede? Un anno fa, alla vigilia di Natale, l’arcivescovo maggiore di Kyiv, Sviatoslav Shevchuk, diceva al Foglio che “l’evento del Natale è la speranza del popolo ucraino. In questo periodo ‘dell’ora buia’, come l’ha definito Papa Francesco, abbiamo bisogno della speranza data dal sapere che Dio è con noi”. È la speranza che rende lieti i cristiani della Nigeria, nonostante le stragi compiute contro le loro comunità fin sugli altari delle chiese; è la speranza che a Natale faceva esultare di gioia i cristiani della piana di Ninive quando ancora non avevano neppure una chiesa dove radunarsi per pregare, dopo il passaggio del flagello islamista. Diceva il cardinale Giacomo Biffi che “la speranza capace di rianimare l’esistenza e ridarle significato non può stare racchiusa nelle prospettive terrene. Per quel che si riferisce alla nostra avventura di quaggiù, nessuno può illudersi: sappiamo tutti benissimo che la vita più fortunata e felice si concluderà, nel migliore dei casi, con l’umiliante declino della vecchiaia e con la catastrofe della morte che vanifica tutto. L’uomo - per essere ragionevolmente motivato a impegnarsi, a lottare, a superare i momenti di sconforto - ha bisogno di qualcosa di più che un disegno mondano. La speranza che noi proclamiamo, la speranza che ci viene dalla fede, è l’unica che non delude, è la sola che regge sino alla fine, proprio perché dischiude il nostro animo sull’eterno”. Ucraina e Nigeria, Siria e Iraq, e poi il Nicaragua. Forse è da queste periferie sempre trascurate dalle dotte analisi sul destino della Chiesa e del sentire religioso, e che più patiscono gli sconvolgimenti di questo tempo, che si può ripartire per invertire il corso delle cose, che oggi pare ineluttabile. Il Giubileo della speranza è l’occasione propizia. Dopotutto, come sosteneva Benedetto XVI, “la fede si oppone decisamente alla rassegnazione”. La propaganda tenta di prepararci alla guerra: i fronti sono tre, sta a noi resistere di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2024 “La mente è un campo di battaglia” lo afferma il nuovo Capo di Stato maggiore italiano il generale Masiello intervistato da Fanpage. Lo dice parlando delle “nuove” forme di offesa praticate nei conflitti più recenti: non soltanto droni, intelligenza artificiale e cyber-attacchi, ma anche disinformazione scientemente brandita come una spada, per confondere il nemico, per fargli perdere il bandolo della realtà, per spaventarlo o fargli dubitare del senso di ciò che fa, fiaccandone l’ardimento e la disponibilità all’ubbidienza. Che la “mente sia un campo di battaglia” è certo da sempre, la propaganda e le fake news non nascono con i social, temo piuttosto che oggi per le destre occidentali, spumeggianti di vittorie elettorali, coadiuvate da improbabili sinistri, le “menti” trasformate in campi di battaglia siano le nostre. Obiettivo: per cacciare definitivamente ogni residuo di quelle convinzioni che a carissimo prezzo si diffusero dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che conobbero una straordinaria, quanto breve, primavera globale dopo la fine della Terza guerra mondiale, cioè dopo il 1989. Quelle convinzioni che ruotano attorno ad uno slogan tanto semplice quanto provocatorio: se vuoi la pace, prepara la pace. Perché la pace va intesa come tenace ed onesta ricerca di giustizia nelle relazioni interne ed internazionali. Una pace non ingenua, che non disconosce il valore della deterrenza ed anche della forza, ma che assegna a questi strumenti un ruolo residuale, da “estrema ratio”, sicuramente subordinato alla progressiva affermazione del diritto internazionale e di conseguenza a forme ordinate di composizione dei conflitti. Non è la presenza di un estintore che preserva il bosco dall’incendio, ma la cura costante che se ne fa e la prevenzione di condotte irresponsabili. Certo l’estintore è bene che ci sia ed è importante che ci sia chi lo sappia usare. La battaglia nelle menti dei cittadini è combattuta su tre fronti e ci porterà alla guerra, se non avremo la forza di arrestarla. Il primo fronte è la bullizzazione sistematica di chi ancora prova a sostenere che il principale modo per difendere la pace sia quello di costruire la pace attraverso la cooperazione: in un altro intervento il Capo di Stato maggiore Masiello afferma “Tutti dobbiamo essere educati a questo concetto (l’Italia deve prepararsi alla guerra), io lo so che è più bello parlare di apericena, è più bello trascorrere le serate lungo il mare”, come se chi non attribuisse priorità alla sicurezza (militare) fosse un imbecille dedito ad alcol, patatine e tramonti mozzafiato. La presidente Meloni dal canto suo, in visita al contingente italiano di stanza in Lituania che dice “A quelli che si riempiono la bocca parlando di pace vorrei ricordare che…” Lasciando intendere che soltanto degli imbecilli possano aver dimenticato che “è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”. Il secondo fronte sul quale si combatte la battaglia nelle menti dei cittadini è l’insistenza con la quale si parla della necessità del riarmo, costi quello che costi: quando ho letto dell’accordo tra Italia, Regno Unito e Giappone per la costruzione del nuovo caccia militare da 100 miliardi non volevo credere ai miei occhi. Imboccata la strada delle armi come unico strumento di presidio per la sicurezza, attraverso il mito della deterrenza, non può esserci fine alla rincorsa ad avere una pallottola in più, un missile in più, un areo in più del nemico. È una gara senza fine che ingrassa soltanto i costruttori di armi. Il terzo fronte è quello dello smantellamento sistematico del diritto internazionale e delle Istituzioni messe a suo presidio: le Nazioni Unite gettate nel discredito, i “caschi blu” buttati in qualche scantinato dopo i fallimenti tragici degli anni 90, la Corte Penale Internazionale trattata, soprattutto dopo le decisioni assunte contro i vertici governativi israeliani, come un centro sociale occupato. Lo stesso principio di legalità sempre più svilito come se lo Stato di diritto fosse una zavorra inadeguata ai tempi nostri. La retorica bellicista è talmente pervasiva che diventa ogni giorno più difficile resisterle, condita come è dal vocabolario nazionalista che tutto infarcisce di amor di patria, di madre patria, di sacrificio, di onore, di fierezza e di bambini che possono andare al nido, scartare i regali, essere curati, perché c’è chi li protegge col fucile spianato. Dovremo resistere eroicamente per salvaguardare nelle nostre menti tutto quell’altro modo per costruire “pace”, quello che avevano chiaro i confinati di Ventotene, che aveva chiaro il francese Schuman mentre scriveva al tedesco Adenauer, che ci fa pretendere giustizia per Giulio Regeni, per Mario Paciolla, per Andy Rocchelli, nonostante le circostanze nelle quali sono avvenuti questi omicidi indurrebbero a disperare. Che ci fa indignare per la probabile archiviazione dell’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, senza che il governo italiano abbia nemmeno sentito la necessità di costituirsi parte civile. *Presidente Art. 21 Piemonte ed ex deputato del Partito Democratico Il Natale di guerra degli operatori umanitari: “Difficile comunicare la realtà, ora siamo un target” di Martina Castigliani Il Fatto Quotidiano, 26 dicembre 2024 Mai così tanti i conflitti in corso dalla Seconda Guerra Mondiale: crescono le spese per le armi, diminuiscono i fondi per le popolazioni. Dal Medioriente all’Ucraina fino al Sudan dimenticato: l’appello di chi è in prima linea per difendere i diritti dei civili. Aumentano i conflitti nel mondo, i morti e i feriti. Aumenta la spesa degli Stati per armarsi e il numero di persone costrette a lasciare le proprie case. Diminuiscono gli aiuti umanitari, le notizie sui giornali e la capacità di raccontare fatti, sempre più strumentalizzati a livello politico. Diminuisce la speranza che il futuro possa essere diverso. Il 2024 non è solo l’ennesimo anno di guerre, ma è anche uno dei peggiori: non ce ne sono mai state così tante dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. I report internazionali vanno tutti in un’unica direzione: mentre le crisi umanitarie in Ucraina e Gaza non vedono fine, si sono aperti nuovi fronti sanguinari. E il rischio di assuefazione, a livello mediatico, preoccupa sempre di più: se anche chi non è toccato direttamente dalle stragi non fa sentire la sua voce, sempre meno saranno le spinte politiche perché qualcosa cambi. “Quest’anno”, ha denunciato l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Volker Türk nei giorni scorsi, “è stato segnato da un numero spaventoso di vittime, con un disprezzo totale per il diritto internazionale e la vita dei civili”. E “il costo della guerra è altissimo, la sofferenza umana incalcolabile. Gli Stati devono mettere fine a conflitti e sofferenze insensate”. Parole, di nuovo, che rischiano di finire dimenticate. A raccontarlo sono gli operatori e le operatrici umanitarie, impegnati ogni giorno in prima linea. Lo racconta Medici senza frontiere, attraverso il lavoro documentato da Maddalena Oliva su il Fatto Quotidiano e sostenuto dalla Fondazione il Fatto. Lo racconta Oxfam nella sua rubrica “Voci di Gaza” su ilfattoquotidiano.it. Lo dicono uomini e donne che, mai come in questo momento storico, portano il peso della solitudine: “Siamo diventati un target”, denunciano. Inascoltati. I numeri - Secondo l’ultimo report del Peace Research Institute Oslo (PRIO), ci sono in corso nel mondo 59 conflitti. Il dato, dice il Global Peace Index che a giugno ne contava 56, è il più alto dalla Seconda Guerra Mondiale. A maggio scorso, ha riportato l’Onu, si è raggiunta la cifra record di 130 milioni di sfollati. Per l’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), il tasso di eventi conflittuali è cresciuto del 25% negli ultimi dodici mesi. E se guardiamo all’anno scorso, le spese in armi sono aumentate del 4,2 per cento con un trend di crescita che, sostengono gli analisti, rimarrà invariato. La stima dei decessi dell’ultimo anno a livello globale è di circa 230mila, anche se viene considerata “prudente”. “È dovuto”, scrivono, “in gran parte all’inizio o al riavvio di tre conflitti di grandi dimensioni in questo periodo - Ucraina, Gaza e Myanmar - insieme alle violenze in Sudan, Messico, Yemen e Paesi del Sahel. Proliferano l’esposizione dei civili alla violenza, gli incidenti e il numero di gruppi armati coinvolti”. “Non riusciamo a comunicare la realtà” - Mentre i politici si preoccupano solo di come far arrivare più armi o come ottenere una vittoria contro il nemico, chi lavora per aiutare le popolazioni colpite non riesce a nascondere l’enorme frustrazione. “È un momento difficilissimo”, dice Bruno Neri, senior program manager di Terre des Hommes. “Direi unico. Io è dagli anni ‘80 che lavoro in Medioriente e ora le organizzazioni internazionali sono finite sotto attacco. Siamo diventati dei target. Ma si dimenticano che noi rispettiamo i codici etici internazionali e facciamo parte delle comunità delle ong. Eppure per portare aiuti a Gaza servono 10mila permessi e i camion di aiuti possono restare comunque fermi per giorni”. Il primo fronte è proprio quello di Gaza: “Chiamare tutti terroristi di fronte a stragi di 40-50mila morti pesa e crea problemi anche a noi. Perché fa nascere diffidenza su quello che facciamo. Anche le testimonianze dei massacri possono essere fraintese dai media. Siamo al punto che, per noi, è diventato difficile comunicare la realtà. Non si vuole attaccare la popolazione israeliana, ma solo dire quello che succede”. Terre des Hommes lavora nel mondo per fornire assistenza, in particolare, ai minori e alle donne: a Gaza aiutano la Palestinian Medical Relief Society, in Libano portano aiuti di emergenza e continuano con le attività di educazione e sostegno psicosociale. E mai come in questo momento, ogni parola rischia di non essere abbastanza per raccontare i fatti. “Ormai si comunicano solo il numero dei morti, l’atto militare”, continua Neri. “Nulla si dice invece sulla perdita della qualità della vita che è immisurabile. Il non poter andare a scuola, non avere una casa, non potersi curare. Aver perso gli amici, i parenti. Come lo misuriamo? In Siria i bimbi in classe devono mettersi tre o quattro maglioni perché fa troppo freddo. E i bombardamenti di Israele, anche se su obiettivi militari, fanno paura. Perché la terra trema, perché si teme di essere i prossimi. In Giordania i più piccoli piangono davanti alle tv quando vedono le immagini di Gaza. Questa è la normalità”. Terre des Hommes si occupa anche di supporto psicosociale in Ucraina. “Qui stiamo lavorando per capire come affrontare il futuro. Ad esempio, chiedere di abbassare la leva a 18 anni per i ragazzi ha un impatto. Già non vedono un futuro e pensare solo che dovranno andare a combattere è pesante. Infatti sono aumentati l’uso di droga, l’alcolismo, le violenze familiari. Si parla solo dei bombardamenti, ma mai della ricaduta psicologica sulle persone. Noi lavoriamo per favorire la resilienza, il superamento delle difficoltà. Ma così è sempre più duro”. E se dovesse arrivare una pace? “Il problema è se sarà solo la pace dei potenti. Perché c’è il rischio che si crei una frattura molto forte nella società di fronte al fallimento di aver combattuto per tre anni e non essere arrivati poi a una pace giusta. Noi stiamo già pensando come aiutare le persone nelle fasi successive e una delle poche strade è quella di lavorare sulle comunità”. Nella speranza che sia sufficiente per ricominciare. “Se non vogliamo più vedere niente, almeno pensiamo ai bambini” - Damiano Rizzi, presidente della ong Soleterre, risponde dal Beit Jala Hospital, l’unico ospedale pubblico rimasto in Palestina per la cura del cancro infantile. “Io penso”, dice, “che se non vogliamo più vedere niente, almeno dobbiamo creare uno status dei bambini. Perché devono essere protetti. Non possiamo lasciarli morire in questo modo, non sanno nemmeno perché stanno morendo”. Rizzi, psiconcologo, sta lavorando anche allo sviluppo di progetti per il sostegno psicologico: “Per dialogare con i più piccoli usiamo i disegni e quello che fanno più spesso è disegnare se stessi sdraiati. Sotto il tavolo per nascondersi, insieme ai genitori: sono tutti sempre in posizione orizzontale. Cerchiamo di aiutarli a dare un senso a tutto quello che sta accadendo, di bonificare queste immagini. Ma è difficile quando l’imprevisto è dietro l’angolo”. La difficoltà è proprio il rivendicare il diritto alla salute: “Il lavoro più grande in questa fase è quello sulla prevenzione. Convincere che i bambini malati di tumore, anche in questa fase, devono e possono essere curati. E stiamo anche cercando di fare in modo che possano fermarsi qui durante le terapie per evitare di affrontare numerosi viaggi. Da quando abbiamo iniziato”, a maggio scorso, “abbiamo già più di un bambino in remissione”. Una conquista enorme, in una situazione di conflitto. Il punto, continua Rizzi, è anche la difficoltà di un contesto dove servono continue autorizzazioni per lavorare: “I diritti umani non devono essere condizionati da niente e nessuno, altrimenti diventano concessioni”. Soleterre lavora anche in Ucraina, dove si occupa di pazienti oncologici pediatrici da prima dell’inizio del conflitto. E non ha mai smesso. “Noi siamo presenti nell’ospedale pediatrico Okhmatdyt di Kyiv, uno di quelli bombardati a luglio scorso”, racconta. E a Leopoli, dove si occupano anche di evacuazione di pazienti. “E siamo attivi al fronte con ambulanze che distribuiscono aiuti sanitari e forniscono anche supporto psicologico. Il problema è che l’attenzione mediatica è calata, come è fisiologico, solo che, dell’attenzione di tutti ci sarebbe più bisogno ora rispetto a tre anni fa. Basti pensare che l’Ucraina era, prima del Covid, già il Paese più povero d’Europa e quello con i tassi di disturbi mentali più elevati. Dopo tre anni di bombe, la situazione è gravemente peggiorata”. Rizzi fa un appello: “Noi stiamo vivendo dentro un mondo che sempre di più adotta e adotterà l’economia di guerra e la guerra per regolare quello che la politica non riesce più a regolare. Siamo in un mondo in guerra, mai come il 2024. E l’opinione pubblica cerca di allontanarsene, non protesta perché non ci sia la guerra”. Salvo casi eccezionali, “come l’indignazione per quello che avviene a Gaza” o per “l’attacco all’ospedale ucraino con 400 bambini”. Per le persone però, “è insopportabile mettere la testa su qualcosa che è insopportabile”. E l’unica cosa che si può fare, in questo momento, “è donare alle organizzazioni internazionali che lavorano in zone di guerra. Che sempre di più devono muoversi con fondi privati. Ad esempio, in Palestina il governo italiano ha bloccato i soldi per i progetti umanitari per paura che finissero nelle mani dei terroristi. Ecco perché io credo che donare a una organizzazione umanitaria che lavora in una zona di guerra sia il gesto reale più importante che si possa fare ora”. “Da qui non ce ne andiamo, perché è la cosa giusta da fare” - Giovanni Tozzi è logista per Emergency e si trova in questo momento nell’ospedale Salam di cardiochirurgia a Khartoum, città quasi abbandonata a causa della guerra. Parla da uno dei fronti più dimenticati di tutti, quello che raramente viene citato quando si parla di conflitti. “Eppure l’ultimo report dell’International Rescue Committee, uscito pochi giorni fa, dice che questa è la più devastante crisi umanitaria dei giorni nostri” e che va avanti dallo scoppio della guerra, aprile 2023, tra le due fazioni delle forze armate sudanesi. “Parliamo di 25 milioni di persone in stato di insicurezza alimentare, di cui 14 milioni di bambini. La carestia si sta propagando sempre di più e a questo si aggiungono i rischi di diffusione delle epidemie. Le scuole sono chiuse e l’accesso all’80% degli ospedali non è possibile”. Un quadro spaventoso, ancora di più perché difficilmente viene raccontato. “Noi però”, dice Tozzi, “non ce ne andiamo. Emergency è l’unica ong presente nella Capitale. E nel nostro centro di cardiochirurgia visitiamo tra i 50 e i 70 bambini al giorno. E forniamo la terapia anticoagulante a chi ne ha bisogno: anche se molti di loro li abbiamo persi perché sono sfollati e la copertura telefonica è molto carente, noi cerchiamo comunque di contattarli. Qui abbiamo un piccolo staff internazionale e poi circa 400 locali che sono stati formati per gestire l’ospedale in autonomia”. E, vista la difficoltà di movimento, “abbiamo allestito qui gli alloggi per loro”, così che non debbano spostarsi continuamente. La città ora è “spettrale”: “Per strada si vedono solo le camionette dei militari, veicoli ribaltati. E da qui sentiamo molto bene i bombardamenti”. Ma le famiglie affrontano anche giorni di viaggio per arrivare e poter curare i propri figli. Anche perché, per molti di loro, le terapie sono “vitali e necessarie”. Le difficoltà sono soprattutto pratiche: “Manca spesso l’elettricità e abbiamo dovuto usare i nostri generatori anche per 90 giorni consecutivi. Generatori che consumano 2mila litri di carburante circa a 4 euro al litro. Per farvi capire i costi che vengono affrontati”. Emergency chiede a gran voce che ci sia un aiuto anche economico per la popolazione del Sudan e l’azione diventi prioritaria a livello internazionale. Intanto, in questi giorni lo staff internazionale non ha potuto lasciare l’ospedale di Khartoum e rientrare a casa per le feste: “C’è una sola strada che arriva qui e al momento non è sicura”. Soli, in una terra dimenticata dalla politica e dall’opinione pubblica internazionale. Cosa covince a continuare? “Sapere”, chiude Tozzi, “che questo è il nostro lavoro ed essere qui è la cosa giusta da fare”. Nella Terra Santa senza pace non c’è traccia del Natale nel rispetto delle vittime di Alessia Arcolaci Il Domani, 26 dicembre 2024 A Betlemme “la comunità cristiana ha deciso per il secondo anno di mantenere un bassissimo profilo, di non addobbare le città, con le luminarie, gli alberi di Natale, di non organizzare i mercatini”, racconta Bisceglia, che vive a Gerusalemme da oltre dieci anni. L’ultima volta in cui a Betlemme l’albero è stato acceso era il 2022, con migliaia di turisti. “Siamo nella Terra Santa e non c’è mai pace, non ha senso. Tutti vogliono il loro spazio”. Sami ha poco più di trent’anni, i capelli tirati indietro con molto gel e un crocefisso dorato al collo. Inizia a parlare mentre siamo in fila al checkpoint che separa Gerusalemme da Betlemme. Ripete che siamo fortunati perché oggi il traffico scorre veloce e i controlli non sembrano rigidi. “Saranno più lunghi quando rientreremo a Gerusalemme. Gli interessa più chi entra e non chi esce”, continua Sami. “Ogni volta mi fanno scendere dalla macchina, controllano il baule, i sedili posteriori, perdo molto tempo”. Ed è quello che accadrà, diverse ore dopo questo primo viaggio in auto. Arriviamo a Betlemme che la luce è quella che tende al rosso di metà pomeriggio. Si prepara il tramonto. Sulla terrazza che dà le spalle a piazza della Mangiatoia, dove si trova la basilica della Natività spicca un Gesù Bambino enorme dentro una teca e accanto è parcheggiata la jeep scoperta che accompagnò il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa nel maggio del 2014. Dieci anni dopo, Betlemme ha perso quasi ogni traccia del Natale. Per vedere un Babbo Natale bisogna addentrarsi nelle strade che circondano la basilica. Un ragazzo in strada vende palloni colorati, niente cappelli natalizi, niente Babbi Natale in miniatura, niente addobbi di nessun tipo. Ma quello che manca più di ogni cosa è il grande albero di Natale di oltre dieci metri e centinaia di luci e palline che ogni anno veniva acceso davanti alla basilica insieme a migliaia di persone arrivate per l’occasione. Tanti turisti, ma anche cristiani e musulmani insieme. Rappresentanti istituzionali, diplomatici e del mondo religioso. Un momento che sanciva l’inizio ufficiale delle festività e da cui sono stati spesso lanciati appelli per la pace. Perché in fondo, Natale è prima di tutto una festa per condividere e vivere, se possibile, un momento di serenità. È la festa, per eccellenza, soprattutto dei bambini e le bambine. L’ultima volta in cui a Betlemme l’albero è stato acceso era il 2022. “Per il secondo anno di fila la comunità cristiana in Terra Santa si appresta a celebrare il Natale in un clima di tensione, di tristezza e di cordoglio per tutte le vittime che ci sono state negli ultimi 14 mesi”, commenta Luigi Bisceglia, che vive da oltre dieci anni a Gerusalemme, dove lavora come coordinatore regionale programmi del Vis per il Medio Oriente e professore universitario. “La comunità cristiana ha deciso per il secondo anno di mantenere un bassissimo profilo, di non addobbare le città, con le luminarie, gli alberi di Natale, di non organizzare i mercatini di Natale. Non è prevista nessuna attività in rispetto e in lutto per tutte le vittime”. Sono oltre quarantacinquemila quelle dichiarate dal ministero della Salute di Gaza, dal 7 ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas in Israele. Più della metà sono donne e bambini. Mentre camminiamo è impossibile non notare le serrande abbassate dei negozi e degli artigiani, così come gli ingressi degli hotel al buio. Se dal centro della piazza della basilica si guarda il cielo si ritaglia un quadrato perfetto, sembra quello dentro cui la città è perimetrata. Quello i cui confini sono delimitati dal muro della separazione, o della vergogna, come viene anche definito da quando è stato costruito nel 2002, per oltre 700 chilometri. La barriera di cemento armato che separa Betlemme e la Cisgiordania da Israele e che costringe ogni giorno almeno centocinquantamila palestinesi ad attraversarla per andare al lavoro in Israele. Ma dal 7 ottobre 2023 non accade più perché i permessi per gli spostamenti dei palestinesi in Cisgiordania sono stati annullati dal governo israeliano (fatta eccezione per alcuni cristiani che hanno ottenuto due settimane di lasciapassare per le festività religiose) e tutte queste persone (circa 300mila, secondo le Nazioni Unite) hanno perso il lavoro e quindi lo stipendio. Betlemme nelle ore che preannunciano il Natale resiste. Ma la città simbolo per eccellenza di vita e per la tradizione cristiana custodia della nascita di Gesù Cristo ha perso almeno la metà delle attività commerciali presenti. E della sua gente. “Questa comunità cristiana è piccola e diventerà sempre più piccola”, continua Bisceglia mentre attraversiamo l’ingresso deserto della basilica. “Le famiglie cristiane palestinesi che possono andare via, non pensando di avere un futuro qui, stanno cercando di emigrare. La mia che è una famiglia mista italo-palestinese, ha deciso di trascorrere il Natale qui e saremo a Betlemme nel giorno di Natale anche per testimoniare il fatto che non pensiamo possa esistere una Terra Santa senza cristiani. Allo stesso tempo è veramente difficile guardare al futuro, pensare che possa esserci un cessate il fuoco a Gaza che possa quindi permettere di assistere un milione e mezzo di persone sfollate che vivono al freddo, in rifugi di fortuna. È difficile capire se gli ultimi ostaggi rimasti possano essere liberati presto e più di tutto se un processo di pace efficace, duraturo, possa effettivamente essere realizzato”. Oggi i cristiani in Cisgiordania sono meno del 2 per cento, fino a cinquant’anni fa erano circa il 5. Quando risaliamo in macchina a Betlemme è sera. Ci sono poche luci accese, ne spicca una con la scritta rossa Segafredo Caffè. Sami accosta in un punto panoramico per farci scattare una fotografia. “Sembra il presepe, vero?”. Sì, lo sembra, sospeso nel tempo. Gran Bretagna. Ondata repressiva, attivisti ambientalisti in carcere di Leonardo Clausi Il Manifesto, 26 dicembre 2024 La Gran Bretagna non è un paese per (i propri) dissidenti. Gli attivisti che trascorreranno le feste natalizie dietro le sbarre - esemplari vittime di una repressione draconiana che punta a scoraggiare proteste comunque destinate solo ad aumentare - sono attualmente circa una quarantina. La nazione che da sempre ha dato asilo ai perseguitati politici da tutto il mondo sta reprimendo le proteste interne - soprattutto quelle legate al disfacimento climatico e al genocidio a Gaza - con una durezza dal lezzo autoritario. Sono vittime del Serious Disruption Prevention Orders, una legge messa in vigore lo scorso aprile dall’allora governo conservatore che punta a impedire quelle azioni di disturbo e quei blocchi del traffico diventati la principale strategia di gruppi ecologisti come Extinction Rebellion e soprattutto Just Stop Oil. Proprio di quest’ultimo movimento - il più duramente represso dal governo - fanno parte una ventina degli attivisti, tra i venti e i sessant’anni, in carcere: in particolare quelli puniti con reclusioni di svariati anni per aver “cospirato” all’interruzione del traffico sulla M25, una delle maggiori arterie autostradali inglesi. Tra loro anche Roger Hallam, già fondatore di XR, e Phoebe Plummer e Anna Holland, le due ventenni che avevano imbrattato di minestra confezionata i Girasoli di Van Gogh alla National Gallery un paio di anni fa. L’altra ventina di manifestanti erano stati arrestati durante i cortei pro-Palestina: dopo il massacro del 7 ottobre e la successiva mattanza di civili palestinesi che ancora non vede la fine, un certo numero di attivisti ecologisti ha infatti abbracciato la causa palestinese. Dietro questa legge ovviamente c’era il partito conservatore, al potere dall’ultimo quindicennio: il Public Order Act - il disegno di legge presentato nel 2022, entrato recentemente in vigore e di cui fanno parte le misure - è soprattutto opera della staffetta reazionaria e xenofoba Tory delle ministre dell’Interno Priti Patel e della succeditrice Suella Breverman. È anche grazie a loro se il paese è diventato leader mondiale nella repressione legale dell’attivismo climatico: secondo uno studio pubblicato di recente, la polizia vi arresta manifestanti ambientalisti a un tasso quasi tre volte superiore alla media globale. È la denuncia dell’associazione per i diritti civili Liberty a evidenziare questo sopruso, dopo aver definito la legge “lo svergognato tentativo” da parte del governo di reprimere il diritto a manifestare. Un simile status quo repressivo era stato già lamentato dall’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Volker Turk, che nell’aprile dell’anno scorso non aveva esitato a definirle profondamente inquietanti chiedendone pubblicamente l’abrogazione. “Questa legge è del tutto inutile: la polizia britannica ha già il potere di agire contro manifestazioni violente e dirompenti”, aveva commentato Turk, chiedendo inoltre al governo del Regno Unito di “revocare questa legislazione il prima possibile”. Gli aveva fatto eco Michel Forst, Relatore speciale Onu sui difensori/difenditrici dei diritti umani dal giugno dello scorso anno, descrivendo la situazione nel Regno Unito come “terrificante”. Gli altri paesi stanno “guardando agli esempi del Regno Unito con l’obiettivo di approvarne di propri, che avranno un effetto devastante per l’Europa”, aveva aggiunto preveggente lo stesso Forst. Le destre al potere in mezza Europa non se ne stanno infatti con le manette in mano: le autorità tedesche, francesi, italiane e olandesi hanno tutte risposto alle proteste per il clima degli ultimi anni con arresti di massa, nuove leggi repressive, l’imposizione di pene severe per le manifestazioni non violente e la bollatura degli attivisti come “teppisti”, “sabotatori” o “eco-terroristi.”