A Rebibbia Papa Francesco apre la Porta della Speranza di Marco Belli gnewsonline.it, 25 dicembre 2024 Al Nuovo Complesso di Roma Rebibbia si respira l’aria dei momenti importanti, delle occasioni in cui avverti che sta per passare la storia. Tutto è pronto per il 26 dicembre, quando Papa Francesco, dopo aver aperto la Porta Santa a San Pietro, aprirà la seconda Porta Santa del Giubileo 2025 nel carcere romano. Prima volta, appunto, nella storia. Un grandissimo sforzo organizzativo, senza precedenti, per una iniziativa senza precedenti. L’Amministrazione Penitenziaria ci sta lavorando alacremente da tempo. Tutti insieme: vertici e personale del Dap e poi dirigenti, educatori e Polizia penitenziaria dell’istituto. Senza dimenticare l’entusiasmo e l’impegno dei detenuti delle case circondariali sia maschile che femminile di Rebibbia, coinvolti prima nella realizzazione dell’installazione artistica che sarà inaugurata quel giorno e poi nella creazione dei doni che una detenuta e un detenuto consegneranno al termine della Messa al Santo Padre. D’altronde è per loro che Francesco, presentando nel maggio scorso la Bolla “Spes non confundit” (la speranza non delude) con la quale ha indetto ufficialmente il Giubileo ordinario 2025, ha voluto fortemente questa iniziativa: “Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”. La mattina del 26 Francesco arriverà nel carcere romano pochi minuti prima delle 9. Ad attenderlo, le note dell’Inno del Giubileo 2025 suonate dai 52 elementi della banda del Corpo di Polizia penitenziaria, diretti dal Maestro Fausto Remini. Poi il Papa salirà fino alla porta della Chiesa del Padre Nostro. E qui si svolgerà il rito di apertura della Porta Santa, la Porta della Speranza. Una volta all’interno, il Papa sarà accolto da una persona detenuta e un agente della Polizia penitenziaria che lo accompagneranno fino all’altare. Delle 300 persone presenti in Chiesa, un centinaio, fra uomini e donne, i detenuti provenienti dai quattro istituti penitenziari di Rebibbia. Una buona parte siederà davanti al Pontefice, alcuni, in qualità di cantori, costituiranno il coro che intonerà i canti previsti dalla liturgia, mentre altri infine prenderanno parte ad alcune delle fasi. Tante le presenze istituzionali sedute in Chiesa nelle file laterali: fra questi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Antonello Aurigemma, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e poi autorità, vertici della magistratura, capi delle forze armate e dell’ordine. Al termine della messa, Francesco riceverà alcuni doni dai detenuti: dagli uomini del Nuovo Complesso, la riproduzione in miniatura della porta della Chiesa del Padre Nostro, creata all’interno del laboratorio “Metamorfosi” utilizzando i legni dei barconi dei migranti; dalle donne di Rebibbia femminile, un cesto contenente olio, biscotti, ceramiche e bavaglini, frutto del loro lavoro. Anche l’Amministrazione Penitenziaria omaggerà il Santo Padre con un quadro: un dipinto che raffigura un Cristo salvifico realizzato dall’artista Elio Lucente, ex poliziotto penitenziario. All’esterno, altre 300 persone fra operatori penitenziari, volontari e familiari sfideranno il freddo fin dalle prime ore della mattina per assistere alla Messa sul maxischermo appositamente allestito all’esterno della Chiesa. Dietro di loro, la postazione della Rai, dalla quale il vaticanista del Tg1 Ignazio Ingrao racconterà in diretta tutto l’evento insieme ad alcuni ospiti: don Filippo Di Giacomo, sacerdote e giornalista, si occuperà del commento liturgico, mentre a Mario Petruzzo e Silvio Gallo, direttori rispettivamente dell’Ufficio Trattamento dei detenuti del Dap e della Divisione Formazione della Polizia penitenziaria, sarà affidato il compito di contestualizzare l’evento all’interno del complesso sistema penitenziario. Vicino alle mura della Chiesa svetterà l’opera firmata dall’artista Marinella Senatore, “Io contengo moltitudini”. Un progetto di arte contemporanea - in continuità con il Padiglione della Santa Sede allestito nel carcere femminile di Venezia in occasione della Biennale - composto da una struttura ad albero alta circa 6 metri per un diametro di 3, dalla quale si dipartono luminarie in forma di strisce che riportano frasi di detenute, detenuti e personale penitenziario, scritte in varie lingue, anche in dialetto, e selezionate per parlare al cuore di chi legge. Sarà per tutti un giorno da ricordare. Un momento che unirà credenti e non credenti, detenuti e personale, istituzioni e volontari. Tutti insieme nel nome della Speranza, la virtù teologale a cui è dedicato l’Anno giubilare 2025. I Papi e gli incontri in carcere ansa.it, 25 dicembre 2024 È la prima volta che una porta santa viene aperta in carcere. Il 26 dicembre papa Francesco sarà a Rebibbia. Sono molti gli incontri dei pontefici con i detenuti da Giovanni XXIII a Bergoglio. Alle 8 del mattino l’automobile con Giovanni XXIII arriva a via della Lungara dove si trova il carcere romano di Regina Coeli. È il 26 dicembre del 1958, due mesi dopo la sua elezione. Ai detenuti racconta di un suo parente che finì “dentro”. Si presenta come un amico, li abbraccia. Esattamente dopo 66 anni, per la prima volta in un carcere, a Rebibbia, viene aperta una porta santa in un anno nero per gli istituti penitenziari. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, elaborati dal Sole 24 Ore nel 2024 si registrano i livelli più alti di detenuti e suicidi. Anche Paolo VI nel 1964 si reca nel carcere Romano di Regina Coeli. La parola che ripete di più è speranza e li invita a liberarsi dalle catene della disperazione. Sempre in carcere avviene un incontro storico: quello tra San Giovanni Paolo II e il suo attentatore turco Ali Agca che gli sparò il 13/05/1981. L’incontro in carcere avviene il 27 dicembre 1983, in una cella di massima sicurezza del carcere Romano di Rebibbia. Il loro colloquio dura più di 20 minuti. Il periodo di Natale ritorna nelle visite papali in carcere con Papa Benedetto XVI che va a Rebibbia il 18 dicembre 2011, era già stato nel minorile di Casal del Marmo nel 2007. Nel pontificato di Bergoglio le visite in carcere sono un cardine. È lì che celebra, più volte, il rito della lavanda dei piedi. Si china, li osserva, sorride. Gesti semplici per ritessere le loro vite sfilacciate. Con Francesco diventano costanti le visite ai detenuti in occasione dei viaggi in Italia e nel mondo. Anche dopo l’elezione a pontefice Bergoglio continua a telefonare ai carcerati dell’Argentina ai quali era abituato a fare visita quand’era cardinale. E la volontà di aprire in carcere una porta Santa è il segno tangibile che da ogni ferita può entrare luce. Detenuti, poveri, migranti: nell’anno giubilare coltiviamo la speranza di Filippo Santoro* lagazzettadelmezzogiorno.it, 25 dicembre 2024 Questa sera nella Vigilia del Natale si apre il Giubileo del 2025 con il motto “Pellegrini di Speranza” scelto da Papa Francesco. Il Giubileo già nella storia del popolo di Israele era un tempo di condono di ogni forma di debito, di remissione, di alleggerimento dei pesi accumulati nel tempo per gravami di tipo materiale e spirituale. Nel suo viaggio in Corsica del 15 dicembre scorso il Papa ha detto: “Davanti alle devastazioni che opprimono i popoli, la Chiesa annuncia una speranza certa, che non delude, perché il Signore viene ad abitare in mezzo a noi”. E il documento di indizione dell’Anno Santo annuncia: Spes non confundit, “la speranza non delude” (Rm 5,5). Il Giubileo è una pratica della Chiesa nella prospettiva di un nuovo inizio non solo per i cristiani, ma per tutta l’umanità. Il Cristianesimo in mezzo a tante cose che deludono ha l’audacia di proporre qualcosa che non delude. Con la sua nascita Gesù di Nazaret non ci dà esclusivamente un regalo, ma ci offre la ragione per cui siamo nati e il senso della nostra vita. La domanda di senso è di tutti; e per tutti è la speranza cristiana perché si fa nostro compagno di cammino uno che è all’origine e alla fine del tempo. E lo fa nella carne di un bambino che con molta discrezione si offre alla nostra libertà. Ci dice ancora il Papa nel documento di indizione dell’anno santo: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Durante il mio ministero a Taranto uno dei momenti più belli era la celebrazione del Natale e della Pasqua nella casa circondariale. I detenuti aspettavano questo momento e la conferma mi è venuta in un incontro fatto in un viaggio di ritorno da Roma a Bari. Oltre al mio bagaglio avevo ricevuto in regalo un quadro e, mentre mi trovavo in difficoltà nel sistemare le cose, mi ha aiutato un signore con prontezza e gentilezza. Poi ci siamo seduti in posti diversi. Arrivati in aeroporto a Bari mi ha raggiunto nuovamente e mi ha detto: “Don Filippo, anni fa lei mi ha stretto la mano con tanto affetto mentre ero nel carcere di Taranto e quello è stato per me il momento più bello di tutto quel periodo. Poi sono uscito e sono stato assolto, ma non ho dimenticato quell’incontro; ed oggi sono molto contento di averla rivista”. Che sorpresa dinanzi a tanta gratitudine! Ci siamo nuovamente abbracciati per qualcosa che ha segnato la nostra vita. Nel mio abbraccio c’era qualcosa di più grande: il mistero di quella nascita di Gesù che non ci abbandona mai. Il Giubileo è il tempo favorevole in cui ci spalanchiamo ad un amore grande che ha il volto della misericordia anche in mezzo a tante difficoltà e croci. Questa è la ragione per cui è particolarmente preziosa la decisione del Papa di aprire una Porta Santa anche nel carcere di Rebibbia per ricevere l’indulgenza. Ci sono tanti mali che potrebbero essere curati in questo Anno Santo a cominciare dalle guerre con 56 conflitti attivi nel mondo, ai femminicidi, ai danni prodotti alla terra dal cambiamento climatico, ai naufragi dei migranti, all’usura, alla denatalità e potremmo continuare a lungo. In tutto questo c’è un cuore ferito che ha bisogno di essere curato in tutte le latitudini. Nelle ferite umane è venuto ad abitare in mezzo a noi un Bambino, nato a Betlemme e deposto in una mangiatoia “perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Luca 2,7). E i poveri pastori furono avvolti da una grande luce mentre nell’estrema povertà e nella notte risuonò il canto “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama” (Lc 2,14). Questo insieme di povertà e di gloria ci fa sperare che il limite e il male non vincono dal momento che il Signore dell’universo è nato in quel limite ed ha preso su di sé tutte le conseguenze del male tranne il peccato. Proprio in uno dei punti più martoriati della terra è nata la speranza e a Betlemme nella grotta della natività c’è una scritta: Hic Verbum Caro factum est “Qui il Verbo si è fatto carne”. Poi quel bambino è diventato un uomo, il Destino si è fatto vicino. Quando ero in Brasile e il tema della liberazione dalla dittatura militare, dalla povertà e dalle strutture oppressive era fortissimo ho chiesto a don Giussani, una volta che venne a visitarmi, se ci fosse qualcosa di più della liberazione economica e lui mi ha detto: “Certo la libertà, la dignità e la giustizia sono le cose più care che abbiamo, ma la liberazione integrale è quando il Destino è più vicino al cuore dell’uomo”. Il compimento della libertà è l’amore, il dono di sé come ha fatto il bambino che è nato a Betlemme e che il potere ha crocifisso, che l’amore del Padre ha risuscitato per dare la vita a tutti i crocifissi del mondo. *Arcivescovo di Taranto Proposta a Nordio: 365 grazie, una per ogni giorno dell’anno di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 25 dicembre 2024 Come al solito i Radicali trascorreranno le feste visitando i carcerati. Un precetto evangelico dimenticato da tutti e un invito al ministro per un grande gesto simbolico. Ogni Natale e Capodanno (ma lo fanno anche a Pasqua e a Ferragosto), dirigenti e militanti del Partito Radicale visitano le carceri italiane. Una tradizione, ormai, inaugurata in anni lontani da Marco Pannella che ogni volta veniva accolto festosamente dalla comunità penitenziaria: detenuti, agenti della polizia penitenziaria, operatori, lo consideravano uno di loro. Il laico (e anticlericale) per eccellenza che dava corpo e sostanza a quel passo del Vangelo di Matteo dove si legge: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Anche quest’anno, dunque, la campagna “Natale in carcere”, promossa dal Partito radicale, per denunciare le condizioni di abbandono in cui versano gli istituti di pena: “È inevitabile che la condizione dei detenuti sia ulteriormente peggiorata visto che è aumentata la disattenzione verso il carcere”, dice il segretario del partito, Maurizio Turco. “Le carceri vivono una situazione di abbandono totale. Non solo i detenuti ma anche chi lavora in questi istituti si sente isolato e dimenticato dalle istituzioni e dalla politica”, aggiunge la tesoriera Irene Testa. Non si stancano di ricordarci l’urgenza di rafforzare il personale nelle carceri: “Servirebbero tanti psicologi, psichiatri ed educatori. Oggi tutto ricade sulla polizia penitenziaria, costretta a gestire situazioni incredibili come detenuti con gravissime problematiche psichiatriche”. Un altro problema è la mancanza di risorse per le comunità terapeutiche: molti detenuti non dovrebbero stare in carcere ma in comunità. Tuttavia, i finanziamenti insufficienti creano liste d’attesa insostenibili e, spesso, chi non regge il carcere finisce per togliersi la vita. E poi gli istituti minorili dove i ragazzi non accompagnati, spesso autori di piccoli furti per sopravvivere, non trovano alcun supporto adeguato. Il carcere si trasforma in un contenitore dove buttare dentro tutti e far finta che il problema non esista. Papa Francesco il prossimo 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, aprirà una simbolica Porta Santa al carcere romano di Rebibbia. Sempre Francesco rivolge un appello ai governanti per forme di amnistia e per rendere effettive possibilità di reinserimento in attività di impegno sociale dei detenuti. Per quello che riguarda carcere e detenuti, dal Vaticano giunge ancora una volta il giusto e necessario segnale. Ancora una volta viene suggerito cosa fare, come fare, quando fare. Segnale e suggerimento che sarebbe augurabile, auspicabile, che venissero raccolti dalla classe politica: quella che governa, quella che è all’opposizione. È urgente, necessario intervenire: anche perché, pervicacemente ignorata, la strage nelle carceri prosegue. Nel solo 2024 poco meno di un centinaio di detenuti sono definitivamente “evasi” togliendosi la vita. Sono i suicidi ufficiali, perché non sappiamo quanti siano da attribuire a suicidio i morti “per cause da accertare”. A questi vanno aggiunti i 7 suicidi fra gli agenti della polizia penitenziaria. Poi ci sono i suicidi per fortuna sventati; le migliaia di atti di autolesionismo. Gli istituti di pena sono letteralmente luogo di pena e pene; ogni giorno si viola il dettato costituzionale, e non per responsabilità di chi vi opera e lavora, costretto a svuotare oceani con il classico secchiello. A livello nazionale sono ormai 16mila i ristretti oltre la capienza disponibile e ben più di 18mila gli agenti mancanti. Numeri da capogiro che dovrebbero scuotere le coscienze di chi governa, di chi deve vigilare all’opposizione; di tutti e ciascuno di noi. Un appello al ministro della Giustizia, Carlo Nordio: perché non compiere un gesto simbolico ma di qualche significato, non scegliere (affidandosi alla sorte) 365 detenuti colpevoli di reati non gravi e un minimo di pena ancora da scontare, e proporli al Capo dello Stato per una domanda di grazia? Se si vuole, si può fare, e potrebbe essere un buon inizio di 2025. Tajani: i giovani tossicodipendenti scontino la pena in Comunità di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 25 dicembre 2024 Intanto un altro detenuto muore a Sollicciano. Bonifazi (Iv) si appella al ministro Nordio: “Chiuda quel carcere”. “Per risolvere il problema delle carceri dovremmo far scontare la pena ai giovani tossicodipendenti in comunità affinché la pena serva a recuperare la persona. Questo è l’obiettivo”. Il vicepremier, Antonio Tajani, durante l’abituale visita Natalizia alla “Comunità in dialogo” di Trivigliano, è tornato su un problema che si trascina da anni, vale a dire la possibilità di rendere davvero esecutiva la possibilità di pene alternative per i ragazzi con problemi di droga. Intento professato da tutti i governi, da anni. Lo stesso ministro della giustizia, Carlo Nordio, in una intervista al Corriere aveva rivendicato, come iniziativa inserita nel dl carceri, la possibilità di esecuzione della pena in ambienti diversi dal carcere, come le comunità per tossicodipendenti. Poi, aveva precisato, “sta ai magistrati decidere se mandarveli o meno. Ricordo che i detenuti non sono messi in prigione dal governo, ma dai giudici”: la detenzione differenziata dipende anche dal reato commesso. Da via Arenula fanno sapere che il progetto sta andando avanti, incrociando i dati con quelli del ministero della Salute per verificare chi ne ha diritto. La misura, comunque, secondo il ministro potrebbe combattere il sovraffollamento in carcere se unita ad un’altra, per la quale, aveva detto, “stiamo lavorando notte e giorno con la Farnesina: far tornare nel proprio Paese i detenuti stranieri”. Intanto un altro detenuto è morto a Sollicciano. E Francesco Bonifazi (Iv) denuncia: “Aveva meno di 30 anni ed era fra i 100 che avevano fatto ricorso per le condizioni di detenzione inumane. Una tragedia- di cui non si conoscono ancora le cause- che riporta alla luce il terribile stato in cui vivono i detenuti nel carcere fiorentino. Un carcere che dovrebbe essere chiuso perché viola qualunque standard di umanità”. E in una nota si appella a Nordio: “Passi dalle parole ai fatti e intervenga affinché Sollicciano sia chiuso e i detenuti trasferiti in una struttura adeguata”. “Sono 30 anni che Antonio Tajani viene qui a Trivigliano per aiutarci ed ha sempre collaborato attivamente. Si è fatto spesso portavoce dei problemi di questi giovani”, racconta don Matteo Tagliaferri, fondatore della “comunità in dialogo”. Lì, ogni anno il 24 dicembre si tiene il pranzo natalizio con i giovani ospiti: circa un centinaio che vengono assistiti nel recupero e nel reinserimento. “Sono anni che Antonio resta accanto a questi ragazzi anche dopo che hanno concluso il percorso e che sono definitivamente usciti dalla dipendenza”, spiega don Matteo. E assicura: “Dopo tanti anni moltissimi giovani si sono reinseriti positivamente nella società come coscienze nuove rispetto alla cultura che ha determinato il loro disagio. Le comunità sono un valido aiuto ai giovani”. Dimissioni del Capo del Dap, Delmastro: “Nessuna tensione con Giovanni Russo” lapresse.it, 25 dicembre 2024 “Nessun clima teso, nessun problema con Giovanni Russo”: così il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove smentisce le ricostruzioni che ipotizzano forti frizioni con l’ormai ex capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), dimessosi venerdì scorso. Secondo alcune fonti, Russo sarebbe stato “dimissionato” proprio da Delmastro, sottosegretario di Fratelli d’Italia, per via della sua testimonianza nel processo che vede Delmastro imputato per rivelazione di segreto d’ufficio, nell’ambito della vicenda legata all’anarchico Alfredo Cospito. Russo, infatti, aveva dichiarato in aula che i documenti del Gruppo operativo mobile e del Nic inviati a Delmastro erano “a limitata divulgazione” e che, pertanto, non avrebbero dovuto uscire dall’amministrazione, né finire nelle mani del deputato Giovanni Donzelli, il quale poi ne aveva divulgato il contenuto alla Camera. Secondo alcune ricostruzioni, questa testimonianza avrebbe creato un clima ostile intorno a Russo, spingendolo a dimettersi. Tuttavia, Delmastro ribatte: “Esiste la libertà di informazione, come quella di disinformazione. Ho letto i retroscena su alcuni giornali, ma ribadisco che non sono veri”. Alcune voci interne al Dap riferiscono che il sottosegretario avrebbe ironizzato con alcuni magistrati sulla loro attenzione ai diritti dei detenuti, ma anche questa circostanza è stata smentita da Delmastro: “Non ho mai interloquito con magistrati della Direzione generale dei detenuti, non avendo quella delega. Quando visito il Dap parlo con molte persone, ma non ho mai pronunciato simili affermazioni”. Giovanni Russo, nominato a capo del Dap l’11 gennaio 2023, lascia ora per un incarico alla Farnesina come consigliere giuridico, posizione che, pur di rilievo, non ha lo stesso prestigio del ruolo di guida del Dipartimento. Al suo posto subentrerà Lina Di Domenico, attuale vice del Dap e prima donna alla direzione del Dipartimento. Magistrato di Sorveglianza a Novara in passato, Di Domenico è nota per il suo rigore e la sua competenza. Intanto, la transizione alla guida del Dap potrebbe subire ritardi a causa delle festività natalizie, con il passaggio di consegne previsto non prima del 7 gennaio. Rimane incerta anche la partecipazione di Russo alla cerimonia dell’apertura della Porta Santa da parte di Papa Francesco nel carcere di Rebibbia, prevista per il 26 dicembre. Sul caso, Nessuno tocchi Caino ha espresso rammarico: “Siamo profondamente dispiaciuti per le dimissioni di Giovanni Russo, persona straordinaria, di grande rigore e umanità. Il Dap necessita di una riforma profonda per garantire efficienza costituzionale ed europea. Auguriamo buon lavoro al nuovo Presidente”. Migranti in Albania, il giudice può disapplicare il decreto sui Paesi sicuri di Bartolo Conratter Il Riformista, 25 dicembre 2024 La Cassazione chiarisce il modus operandi sulle richieste di asilo. Il magistrato può valutare se l’elenco rispetta la normativa europea o nazionale. Con la sentenza emessa in data 19 dicembre 2024 (nr. 33398), la Corte di Cassazione si pronuncia non tanto - si badi bene! - sul concetto di paese sicuro ai fini della richiesta di asilo, quanto sulla perimetrazione del potere-dovere del giudice ordinario in tali fattispecie. L’osservazione non è di breve momento, in quanto si tratta di un quadro molto tecnico che non consente a nessuna parte politica - nella crescente polemica immigratoria - di appropriarsi del suo contenuto, affermandone la pertinenza a una certa tesi o ad altra. Vale - per comprendere il contesto - soffermarsi sul meccanismo processuale che ha innescato la decisione emessa, ovvero un rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis CPC del Tribunale di Roma, che chiedeva alla Corte Suprema (C.S.) di definire l’ambito e l’ampiezza del sindacato del giudice sulla designazione di un paese di origine come sicuro per effetto del decreto del ministro degli Affari esteri del maggio 2024. Rinvio pregiudiziale, dall’aurea finalità di far emergere - da subito - un indirizzo unitario che eviterà ab origine orientamenti ondivaghi, dannosi alla certezza del diritto. Su questa premessa, la Cassazione separa - secondo una precisa linea temporale - i termini della vicenda interpretativa su cui è chiamata a fare chiarezza, atteso che la penetrante nozione di “paese sicuro” è stata prima resa a livello sub legislativo e ora con legge ordinaria. Cambiano quindi in radice le regole di ingaggio, per così dire, del giudice ordinario, che - per definizione indiscutibile - non può disapplicare la legge ordinaria, sussistendo altri rimedi ove la ritenga (secondo la sua coscienza) iniqua: qui si richiama, in primis, l’incidente di costituzionalità sollevabile innanzi alla Corte Costituzionale. Venendo al cuore della sentenza n. 33398/2024, rispetto al provvedimento sub legislativo, la Cassazione puntualizza una serie di concetti tutti di rilievo. Il provvedimento ministeriale - che definisce l’indice di sicurezza attribuibile a una nazione - non è un atto politico e, pertanto, non si giova del regime di insindacabilità propria delle espressioni della funzione politica. È un atto amministrativo: come tale non è annullabile né revocabile dal giudice ordinario, semplicemente (si fa per dire…) disapplicabile nel caso concreto (“incidenter tantum”) ove si manifesti la sua palese illogicità. Si tratta dunque del normale rapporto processuale fra giudice ordinario e manifestazioni della pubblica amministrazione, tanto (e il dato è temporalmente significativo) che la C.S. richiama la norma basica in materia, contenuta nell’allegato E della legge n. 2248 del 1865. Per la Corte, in sintesi finale, nell’ambiente normativo anteriore al decreto-legge 23 ottobre 2024, n. 158 e alla legge 9 dicembre 2024, n. 187, il giudice ordinario - se è investito di un ricorso avverso una decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale di un richiedente proveniente da un paese designato come sicuro - può valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione. Ed eventualmente può disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri, allorché - precisa testualmente la sentenza - “la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale”. Milano. Natale a San Vittore: il giorno più difficile e più bello da trascorrere in carcere di Mariarosa Maioli Il Giorno, 25 dicembre 2024 Luca, Michele e il loro 25 dicembre dietro le sbarre: dalle celle riunite alle collette per un pranzo speciale, tristezza e sofferenza si trasformano in condivisione. Le guardie diventano “amiche” e non c’è spazio per i contrasti religiosi. “Do they know it’s Christmas?”, si chiedevano i cantanti della Band Aid nel 1984. Chissà, si legge nel testo della canzone, se i bambini che soffrono la fame in Etiopia si rendono conto che è arrivato il Natale. Chissà, ci si potrebbe chiedere oggi, se a Milano c’è ancora qualcuno che non si accorge dell’unicità del 25 dicembre. Le canzoni di Mariah Carey e il caos del traffico invadono le strade e avvertono a tutti che è quel momento dell’anno ma chi si trova recluso dentro un carcere potrebbe vivere il Natale come un giorno qualunque. “È il giorno più difficile in carcere ma anche il più bello. Può sembrare un ossimoro ma non è così: è il momento più duro da affrontare perché si soffre di più rispetto a tutti gli altri giorni ma anche quello in cui si è tutti alla pari, tutti con lo stesso dolore. Una sofferenza che crea condivisione”. Così Luca, 47 anni, inverte l’idea che ci si potrebbe fare del Natale in carcere: recluso per tre anni a nel reparto La Nave di San Vittore, Luca ha trascorso il Natale dietro le sbarre per due volte, giorni a sé stanti nel calendario monotono della reclusione. La tristezza di non trascorrere le feste a casa si trasforma e sprigiona una determinazione che non trova eguali negli altri giorni. “Le festività in carcere sono l’opposto di quello che vivi tutti i giorni dietro le sbarre”, ha continuato Luca, uscito da san Vittore nel 2022. “Si tende a tenere fuori dal carcere i propri affetti: quando si deve telefonare un parente o avere un colloquio, ci si prepara come se si stesse evadendo. C’è un rito di preparazione antecedente all’incontro che presuppone una cura minuziosa dei dettagli: come se, appunto, ci si incontrasse al di fuori e fosse un avvenimento importante. Lo è. Ma l’unico momento in cui si inverte la dinamica è Natale: è in quel giorno che il detenuto porta i propri affetti dentro le mura. È impossibile non aggrapparsi alle proprie abitudini”. Si crea un rito collettivo che sopperisce alla mancanza vissuta da qualsiasi detenuto il 25 dicembre. Luca racconta di lunghe tavolate che coinvolgono l’intero reparto: le celle si uniscono (uno strappo alla regola permesso dalla polizia penitenziaria) e i più volenterosi si mettono ai fornelli per preparare un pranzo degno dell’occasione. “Abbiamo fatto una colletta tra varie celle e abbiamo comprato il pesce: gamberoni, vongole, pesce spada - ha raccontato Luca che il profumo di quei piatti l’ha riportato alle tradizioni della sua Vigilia, a casa con la famiglia. “Ci mancava talmente tanto quel giorno che almeno il dettaglio che ci potevamo permettere, eravamo riusciti a permettercelo”. E poi le sfida tra le tavolate, le tombolate e i tanti svaghi che per un giorno appianano anche le incomprensioni. Michele, 42 anni, reduce da tre festività natalizie trascorse alla Nave, ha raccontato che la lotta tra religioni, così frequente durante l’anno, a Natale si sospende: “Anche chi non è cristiano si integra e la messa del 25 dicembre è più partecipata. Tra i banchi i detenuti dei diversi raggi si mescolano per scambiare qualche chiacchiera in più”. Le stesse guardie concedono più liberta: chi ha i figli può sfruttare il Natale per vederli e ai detenuti viene concesso di spostarsi dal proprio piano per salutare chi non è del proprio raggio. L’eccezionalità del Natale in carcere non colma del tutto le mancanze: “Le mie festività erano rumorose: questo dettaglio è quello che mi è mancato di più”, ha raccontato Michele, “insieme all’immagine dei bambini che scartano i regali”. Luca ha ricordato lo zio ubriaco che si travestiva da Babbo Natale per portare i regali ai bambini: “In carcere tutte le sere si guarda fuori dalla finestra, a Natale ancora di più. Io, guardando fuori dalla mia che dava sull’ingresso di piazzale Aquileia, spesso mi sono immaginato davanti al portone d’ingresso il mio zio vestito di rosso”. Per Luca e Michele il Natale in carcere non è stato un momento di rinascita: il 26 dicembre la lenta routine riparte e la scossa del giorno prima rimane racchiusa a quelle ventiquattro ore. Un giorno che, secondo Michele, è secondo solo al momento in cui si lascia il carcere perché è l’unico caso in cui la tristezza non si raggira, si affronta e si con-divide con chi è nella stessa situazione. E tra quelle tavolate arruffate, crocevia di religioni e lingue, si ricrea l’atmosfera natalizia. Catanzaro. Tentativo di suicidio nel carcere, detenuto si taglia la gola con una lametta lanovitaonline.it, 25 dicembre 2024 Un detenuto di origine africana si è gravemente ferito, portato d’urgenza in ospedale. Un grave episodio ha scosso le mura del carcere di Catanzaro, dove un detenuto di nazionalità africana ha tentato di togliersi la vita. Secondo le prime informazioni, l’uomo si è tagliato la gola con una lametta, un gesto estremo che ha suscitato immediata preoccupazione tra il personale penitenziario e i compagni di detenzione. La situazione è stata gestita tempestivamente, con i membri della sicurezza che sono intervenuti prontamente per prestare soccorso. Il detenuto è stato rapidamente trasportato all’ospedale per ricevere le cure necessarie, dove è stato sottoposto a un intervento chirurgico per riportarlo in condizioni stabili. Questo caso solleva interrogativi seri sulla salute mentale e le condizioni di detenzione all’interno delle carceri italiane, dove spesso gli ambienti angusti e le difficoltà di gestione possono portare a situazioni critiche come questa. Le autorità locali e i responsabili del carcere hanno promesso un’indagine per chiarire le circostanze che hanno portato a questo tentativo di suicidio e per garantire che altri detenuti ricevano il supporto di cui hanno bisogno. Il carcere di Catanzaro, come molti altri in Italia, ha affrontato in passato numerosi problemi legati al sovraffollamento e alla mancanza di risorse, situazioni che possono influire gravemente sul benessere psicologico dei detenuti. La società civile e le associazioni per i diritti umani chiedono da tempo l’adozione di misure più efficaci per migliorare le condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie e per affrontare problemi di salute mentale tra i detenuti. Questo triste evento porta alla luce una realtà complessa e preoccupante, e si spera che possa servire da catalizzatore per un cambiamento necessario per garantire la sicurezza e la dignità delle persone private della libertà. Brescia. Azione sul carcere: “Canton Mombello va chiuso, Verziano ampliato” Paola Gregorio giornaledibrescia.it, 25 dicembre 2024 Il gruppo consiliare chiede inoltre con un ordine del giorno che sia proiettato nei quartieri e nelle scuole cittadine il documentario di Nicola Zambelli nel quale i detenuti raccontano la loro vita dietro le sbarre. Azione boccia senza attenuanti la direzione attuale del Governo sul tema delle carceri. “Si continuano ad aumentare i reati andando verso un sistema solo punitivo. Il carcere deve far scontare la pena, ma anche creare le condizioni per ripartire” dice il deputato Fabrizio Benzoni promotore, insieme alla collega della Lega Simona Bordonali, di un ordine del giorno, accolto nel Ddl Carceri, per chiedere la revisione del progetto attuale sul carcere bresciano. Se da un lato Canton Mombello non si profila più per essere una struttura adatta (vecchia e sovraffollata), dall’altro si propone l’ampliamento del carcere di Verziano. In questo caso si suggerisce di non costruire all’interno di Verziano un nuovo padiglione, togliendo spazi vitali ai detenuti - come ad esempio le aree verdi -, ma ampliare il carcere su aree esterne. Per procedere sarebbe necessario aprire un tavolo con il Comune e siglare un apposito accordo di programma. Al momento si è in attesa della convocazione di un incontro al quale partecipi anche l’Amministrazione carceraria, come chiesto dalla sindaca Laura Castelletti. Il documentario - “Canton Mombello va chiuso”, ribadisce Benzoni. A rafforzare l’intendimento i numeri drammatici dell’emergenza carceri, elencati dal consigliere comunale Luca Pomarici: il sovraffollamento (a Canton Mombello ha raggiunto il tasso del 210%), il 12% dei carcerati con diagnosi psichiatrica grave, l’aumento dei suicidi (70 nel 2023, 62 a fine agosto), la carenza di operatori e volontari, il tasso di recidiva, pari al 70%. “Quello del Governo - aggiunge Pomarici - è un percorso senza uscita, come testimoniano la norma anti Gandhi e la previsione della reclusione anche per le donne incinte che compiano reati. Ci stanno portando in un buco nero”. La scorsa primavera il regista bresciano Nicola Zambelli ha presentato il documentario “11 giorni” che racconta il carcere di Canton Mombello attraverso la voce di un gruppo di detenuti. Il gruppo consiliare di Azione chiede con un ordine del giorno che sia proiettato nei quartieri e nelle scuole cittadine. “Questo documentario può diventare un eccezionale strumento di prevenzione”, sottolinea Pomarici. Cagliari. Mio fratello, malato psichiatrico, abbandonato dopo un’aggressione in carcere di Arianna Atzeni reportsardegna24.it, 25 dicembre 2024 Sono Arianna Atzeni, sorella di Alessandro, un uomo che sta vivendo un calvario senza fine, reso ancora più drammatico dall’indifferenza e dalle inefficienze delle istituzioni. Alessandro è un malato psichiatrico con doppia diagnosi e, a causa della sua condizione, era stato dichiarato persona socialmente pericolosa e ristretto nella colonia penale di Isili. A luglio è stato vittima di una brutale aggressione proprio all’interno del carcere, che lo ha ridotto in coma e costretto a un intervento neurochirurgico per salvargli la vita. Da quell’episodio Alessandro è uscito con un’emiparesi alla parte destra del corpo e un forte stato depressivo, aggravato da un contesto che non tutela minimamente la sua salute fisica e mentale. Un abbandono dei più fragili. Dopo essere stato trasferito d’urgenza presso l’ospedale di Nuoro, i medici hanno indicato chiaramente la necessità di un percorso di riabilitazione in una struttura specializzata. Alessandro, infatti, ha bisogno di cure neurologiche e fisioterapiche specifiche, oltre al sostegno psicologico indispensabile per una persona con doppia diagnosi. Dopo numerose istanze e solleciti del Legale della famiglia Armida Decina del foro di Roma, il magistrato in data di ieri 23/12/2024 ha emesso un provvedimento che autorizza il trasferimento nelle strutture indicate dai medici, l’area sanitaria del carcere di Uta dove Alessandro è stato trasferito dopo l’aggressione non si è attivata per trasmettere la documentazione necessaria. Un ritardo inaccettabile Alessandro si trova ancora in carcere, intrappolato in un luogo assolutamente inadeguato per le sue condizioni. Ogni giorno che passa senza le cure necessarie rappresenta un danno irreparabile per il suo recupero. L’emiparesi e lo stato depressivo richiedono un intervento immediato, ma a causa della lentezza burocratica e dell’indifferenza delle istituzioni, Alessandro continua a soffrire in una situazione che definire disumana è poco. Oltre al danno, la beffa Come amministratrice di sostegno di Alessandro, mi sono battuta in ogni modo per tutelarlo. Ora, nonostante un provvedimento che dispone chiaramente il suo trasferimento, l’inerzia dell’area sanitaria del carcere blocca ogni possibilità di recupero. Alessandro, già vittima di una violenza inaudita, è oggi vittima di una struttura che calpesta i suoi diritti. Un appello per la dignità e la giustizia. Non posso accettare che mio fratello venga trattato così. Alessandro è un essere umano, un malato che merita cure adeguate e dignità. La sua condizione psichiatrica e fisica richiede interventi immediati, non può essere lasciato a marcire in un carcere senza assistenza. Certe vergogne sembrano esistere solo in Italia. Questa storia non è solo la storia di Alessandro, ma di tutti coloro che, come lui, vengono abbandonati da istituzioni che dovrebbero proteggerli. Mi rivolgo alle autorità e a chiunque abbia il potere di agire: fate qualcosa. Ogni giorno che passa senza cure è un giorno perso per Alessandro e un segno indelebile di una società che lascia indietro i più fragili. Mio fratello ha bisogno di cure riabilitative immediate, di rispetto e di giustizia. Non lasciate che questa vicenda finisca nel silenzio e nell’indifferenza. Cremona. Sopralluogo in carcere, circa 180 detenuti oltre capienza massima di Laura Bosio cremonaoggi.it, 25 dicembre 2024 Nella mattinata del 24 dicembre l’Associazione Radicale Fabiano Antoniani ha effettuato un sopralluogo in carcere di Cremona, insieme all’Assessora al Welfare di Cremona Marina della Giovanna, al presidente del Consiglio comunale di Cremona Luciano Pizzetti, ai consiglieri comunali Alessandro Portesani, Eleonora Sessa e Vittoria Loffi, oltre che al sindaco di Capralba, Damiano Cattaneo e al vice sindaco di Casaletto Vaprio, Edoardo Vola. Ne è emerso un quadro sempre più preoccupante: “Ad oggi nella casa circondariale a Cremona ci sono 576 detenuti, su una capienza regolamentare di 394 posti” spiega Vittoria Loffi. Un numero in crescita, considerando che pochi mesi fa erano 543. In sostanza, ci sono 180 persone più di quante ne potrebbe contenere. “Non si è al punto della violazione delle norme europee sulla metratura squadra massima per detenuto, che fanno fa fanno capo alla sentenza Torreggiani, ma è comunque una situazione di sovraffollamento, tanto che in alcuni padiglioni si sono dovuti aggiungere posti letto”. 303 dei detenuti ospitati sono stranieri, mentre 273 sono gli italiani. “Un dato importante è che ci sono 78 giovani adulti, tra i 18 e i 25 anni” continua Loffi. “Un problema importante è anche quello della salute mentale: circa 150 detenuti sono in carico al Sera. Ma nella struttura ci sono solo uno psichiatra e tre psicologi, più un quarto del Sert”. Un quadro complicato, dunque, per la casa circondariale, dove gli episodi di autolesionismo sono molto frequenti e dove la scorsa estate si è anche verificato un suicidio. D’altro canto, l’amministrazione carceraria non sta con le mani in mano: “Ci sono tante attività a livello di educazione e di socializzazione” spiega ancora la consigliera. “Un po’ carente, invece, la parte di formazione pratica con un’ottica di inserimento lavorativo”. Ed in effetti quella del lavoro è una criticità non da poco, considerando che solo otto detenuti svolgono un’attività lavorativa fuori dalla struttura. Altro fronte problematico è quello della Polizia Penitenziaria: “C’è una forte carenza di organico, tanto che il rapporto con il numero di detenuti è di uno a quattro. Addirittura, c’è un solo poliziotto su tutta una sezione del padiglione vecchio”. Questo incide anche sul lavoro perché affinché i detenuti possano lavorare fuori dal carcere serve un servizio di accompagnamento. Ma non solo: serve una sensibilizzazione del mondo produttivo, affinché gli sbocchi lavorativi per i detenuti possano aumentare: “Qualcosa su cui cercheremo di attivarci, anche con le associazioni di categoria” conclude Loffi. Teramo. Carcere di Castrogno, c’è poco da festeggiare di Fabio Lussoso rete8.it, 25 dicembre 2024 Cento detenuti in più nella Casa Circondariale di Castrogno che detiene il primato delle morti nelle carceri, 87 morti in tutta Italia, 4 a Castrogno in meno di 5 mesi. Una sola inchiesta, quella sulla morte di Patrick Guarnieri. Si vanno a sommare all’esubero di capienza per un totale 440 detenuti rispetto ai 250 di capienza. Ieri mattina il Coordinamento Codice Rosso con il Partito Radicale, il Consigliere Ariberto Grifoni, ha visitato il Carcere di Castrogno. “Resta allarmante la situazione di reali trattamenti inumani, degradanti, non solo per i detenuti ma anche per chi ci lavora, nonostante i buoni propositi e le ottime iniziative della nuova Direttrice, la Dott.ssa Maria Lucia Avantaggiato. Scarsissima condizione igieniche dato soprattutto da una struttura fatiscente dove le celle sono sprovviste di tubature che forniscono acqua calda. Mi soffermo sull’aspetto sanitario medico e infermieristico sotto organico e impreparato. La maggior parte dei detenuti hanno patologie di natura psichiatrica che dovrebbero essere collocate in strutture diverse da quella di Castrogno. La maggior parte dei Detenuti trasferiti dal Carcere di Regina Coeli seguivano un percorso di riqualificazione e molti attendevano il trasferimento nelle comunità di appartenenza già pronte ad accoglierli. Tali condizioni e Spese economiche passano alla Regione Abruzzo tenendo conto che i detenuti devono intraprendere l’iter di richieste partendo dal SERT alle strutture alternative che in Abruzzo scarseggiano”. Parma. La Garante denuncia le criticità nel carcere di via Burla gazzettadiparma.it, 25 dicembre 2024 In merito alle criticità dell’Istituto carcerario di Parma sollevate nei giorni scorsi, interviene Veronica Valenti, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma. La garante parte dal problema del sottorganico del personale che opera nel carcere di via Burla: “Al netto dell’aumento del personale dell’area giuridico-pedagogica - fatto di assoluta importanza -, diversamente da quanto scritto, si registra, purtroppo, ancora la mancanza di alcuni profili professionali all’interno della Polizia penitenziaria in servizio a Parma: risultano ancora scoperti alcuni ruoli, in particolare, il ruolo di ispettori (-39%); di sovrintendenti (-60%); di agenti (-4%)” rileva la Valenti. A fronte di “un aumento a Parma della popolazione detentiva: attualmente, si registra la presenza di 748 persone detenute, a fronte di una capienza di 655 posti. Il chè significa che, anche nell’istituto di Parma, è aumentato l’indice di sovraffollamento, arrivato al 121%”. La richiesta della garante è rivolta alla politica ed è di “impegnarsi ad individuare, nell’immediato e in via urgente, misure che siano effettivamente deflattive”. C’è infatti, innanzitutto, “il timore di una regressione al periodo in cui la Cedu ha condannato l’Italia per il livello di sovraffollamento medio raggiunto, allora, a livello nazionale (all’epoca del 148%; oggi, del 133 %)”. Si avrebbe “a che fare con un fenomeno che incide sui livelli di tensione all’interno del carcere, sull’alto numero dei suicidi in carcere (88 dall’inizio del 2024, di cui 3 a Parma), sul benessere organizzativo del personale, sull’efficacia ed efficienza dell’attività trattamentale e dei servizi di assistenza sanitaria. E ancor più, sulle condizioni della vita detentiva delle persone ristrette, che non riflettono l’immagine della dignità umana”. La Valenti passa poi “alle condizioni di vetustà dell’edificio non posso che condividerne la descrizione. Faccio presente che tali condizioni sono sempre state denunciate e, recentemente, alla luce delle molteplici segnalazioni pervenute, ho richiesto ulteriori delucidazioni alla Direzione penitenziaria, la quale ha riferito di un progetto di sostituzione della caldaia e di interventi di manutenzione provvisoriamente richiesti, quasi quotidianamente”. Aspetti “che non sono sufficienti a rispondere alle esigenze minime di vita quotidiana della popolazione detentiva. Urge che l’Amministrazione penitenziaria pervenga, il prima possibile, ad una definizione di questa annosa criticità. In attesa, è stata informata anche la Magistratura di sorveglianza, affinché possa valutare, laddove ne sussistano i presupposti, i più opportuni rimedi compensativi, a fronte dei reclami inoltrati dalle persone ristrette”. In merito ai percorsi di rinserimento sociale e lavorativo, in questo ultimo anno, “oltre a sensibilizzare la comunità di Parma in merito all’importanza dell’attivazione di tali percorsi, si è creata una giusta sinergia tra le Istituzioni locali, l’Amministrazione penitenziaria, l’imprenditoria sociale (e non) e il mondo del volontariato. Tanto che a Parma è aumentato il numero delle persone detenute semiliberi e in articolo 21 (assegnati al lavoro esterno). Questo significa che la comunità di Parma sta rispondendo. Certo, su questo tema, è necessario implementare il ‘lavoro di squadra’ e si devono fare ulteriori e costanti sforzi affinché si possano creare ulteriori occasioni di riscatto sociale e abbattere i troppi pregiudizi che ancora resistono nel substrato culturale della nostra società”. Con tale obiettivo e tale spirito, è stato sottoscritto un innovativo Protocollo tra Comune, Unione Parmense degli Industriali (Upi) e Amministrazione penitenziaria ed è stato aperto un tavolo interistituzionale, “in cui si sta discutendo, tra l’altro, del progetto della lavanderia industriale, che risale addirittura al 2016”. Infine, conclude la Garante “per gravi errori iniziali nella progettazione tecnica - emersi recentemente, in fase di prima esecuzione -, nonché in ragione di vicende che hanno riguardato un cambio nella direzione dell’impresa sociale che si farà carico della realizzazione di tale progetto, il Comune di Parma, insieme all’Amministrazione penitenziaria locale e alla nuova governance di tale ente del terzo settore, ne stanno ridefinendo le condizioni di realizzazione, al fine di assicurare, comunque, il graduale inserimento lavorativo delle 16 persone ristrette, come preventivato in origine, su cui sarà doveroso operare una rigorosa attività di monitoraggio e fare in modo che ciò concretamente avvenga”. Quanto “all’odiosa questione relativa agli esposti per maltrattamenti ai danni dei ristretti” inoltrati all’Autorità giudiziaria, a cui io, in qualità di Garante, ricorrerei con “troppa disinvoltura”, vorrei evidenziare che è mio dovere, anche in forza di uno specifico protocollo di collaborazione siglato tra l’Ufficio del Garante comunale e la Procura della Repubblica di Parma, inoltrare alla competente Autorità giudiziaria le denunce, che non risultino palesemente inattendibili, e che pervengono al mio Ufficio. Rispetto ad esse, si ricorda che solo la Magistratura inquirente, in via esclusiva, può indagare e verificarne la fondatezza”. Stati Uniti. Trump: “Subito dopo il giuramento, pena di morte per i criminali violenti” huffingtonpost.it, 25 dicembre 2024 A poche ore dalla decisione del presidente di commutare in ergastolo la pena capitale federale per 37 detenuti, arriva l’annuncio del tycoon: “Saremo di nuovo una nazione di legge e ordine”. “Non appena mi insedierò darò mandato al Dipartimento di Giustizia di applicare con forza la pena di morte per proteggere le famiglie e i bambini americani da stupratori, assassini e mostri violenti. Saremo di nuovo una nazione di legge e ordine!”. L’annuncio è stato rilasciato da Donald Trump sul suo social Truth, a poche ore dalla decisione di Joe Biden di commutare in ergastolo la pena capitale federale per 37 dei 40 detenuti che si trovano nel braccio della morte. “Non ha senso. Parenti e amici (delle vittime, ndr) sono ulteriormente devastati”, ha commentato Trump sempre sul social. Biden aveva reso noto ieri con una nota che i 37 detenuti scelti sconteranno l’ergastolo “senza possibilità di libertà condizionale”. È una scelta in linea con le sue posizioni riguardo alla pena di morte, da sempre osteggiata da democratico. Durante la sua amministrazione, il Dipartimento di Giustizia ha ripristinato la moratoria sulle esecuzioni ordinate dalla giustizia federale sospesa da Trump. Dei circa 2.300 prigionieri nel braccio della morte negli Stati Uniti, solo 40 sono stati condannati dalla giustizia federale fino alla misura di clemenza adottata ieri da Biden. I tre condannati che non hanno beneficiato della grazia presidenziale sono stati Djokhar Tsarnaev, uno degli autori dell’attentato alla maratona di Boston nel 2013; Dylann Roof, un suprematista bianco che ha ucciso nove persone di colore in una chiesa di Charleston nel 2015; e Robert Bowers, condannato per aver ucciso 11 persone in una sinagoga di Pittsburgh nel 2018. Tra i beneficiari, invece, ci sono nove condannati per l’omicidio di altri prigionieri, quattro per omicidi commessi durante rapine in banca e uno per aver ucciso una guardia carceraria. La squadra di Trump aveva già criticato la decisione definendola “abominevole”. Le organizzazioni per i diritti umani, mobilitate da settimane per convincere Biden, temono un’ondata di esecuzioni in arrivo quando Trump, fervente sostenitore della pena di morte, tornerà alla Casa Bianca. Durante la sua vittoriosa campagna elettorale, il tycoon ha chiesto di estenderne il campo di applicazione, in particolare agli immigrati condannati per l’omicidio di cittadini americani o ai trafficanti di droga e di esseri umani. Siria. L’allarme di Crosetto: “Vigilare perché dalle carceri non siano liberati i terroristi” di Mauro Evangelisti Il Messaggero, 25 dicembre 2024 Rivolto ai militari italiani il ministro ha ricordato: “Ciò che fate è essenziale affinché Daesh non divenga nuovamente un pericolo per il mondo intero”. I timori su ciò che potrebbe succedere in Siria li ha sintetizzati il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che a Erbil (nella regione autonoma del Kurdistan, in Iraq) ha visitato il contingente italiano dell’operazione Prima Parthica: “La crisi in Siria ci preoccupa e speriamo che le migliaia di terroristi detenuti nelle prigioni siriane non siano rimessi in libertà, destabilizzando anche questa aerea”. Rivolto ai militari italiani ha ricordato: “Ciò che fate è essenziale affinché Daesh non divenga nuovamente un pericolo per il mondo intero”. Promemoria: Daesh è l’Isis. E questo tipo di allarme era stato rilanciato l’altro giorno anche dal generale americano Michael Erik Kurilla, comandante di Centcom (Comando centrale degli Stati Uniti) che, dopo alcuni attacchi compiuti nella provincia della Siria settentrionale di Deir Ezzor, in cui è stato ucciso il leader dell’Isis Abu Yusif, aveva spiegato: “Come affermato in precedenza, gli Stati Uniti, lavorando con alleati e partner nella regione, non consentiranno all’Isis di trarre vantaggio dall’attuale situazione in Siria e di ricostituirsi. L’Isis ha l’intenzione di liberare gli oltre ottomila suoi agenti attualmente detenuti in strutture in Siria. Colpiremo duramente questi leader e agenti, compresi coloro che cercano di condurre operazioni all’esterno della Siria”. A Damasco le fazioni anti Assad, in particolare Hts, hanno preso la guida dei centri di potete, ma la Siria è vasta e frammentata: questo è un problema. Ha detto tra l’altro il ministro Crosetto: “Siamo tutti preoccupati per la Siria, anche perché la nuova leadership non ha il controllo totale sul Paese. Quando in Medio Oriente si sostituisce un regime con qualcosa di diverso non sempre la situazione si evolve in modo positivo. Bisogna dialogare con il presidente turco Erdogan per definire i passi da fare per evitare che la Siria sia un vulcano”. L’incubo del ritorno del Califfato, da dove spesso sono passati coloro che poi in Europa hanno avuto un ruolo negli attentati (ad esempio l’attacco al Bataclan a Parigi), resta all’orizzonte. Il leader di Hts, presidente de facto della Siria, Al Jolani (anzi più correttamente Ahmed al-Sharaa visto ce ha messo da parte il suo nickname da battaglia) sta inviando messaggi di moderazione e rassicuranti. Lo si vede anche dal suo nuovo look, visto che ha riposto negli armadi le tute mimetiche e si presenta agli incontri con delegazioni straniere con cravatta e completo scuro. Ieri a Damasco ha parlato a lungo con il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidani, che si espresso a favore della revoca delle sanzioni internazionali contro Damasco “il prima possibile”. Non solo. Ha anche ricevuto i leader libanesi drusi Walid e Taymur Jumblatt, a cui ha assicurato: “Rispetteremo la sovranità del Libano, l’unità dei suoi territori, l’indipendenza delle sue decisioni e la sua stabilità”. Uno degli altri elementi su cui c’è estrema attenzione è la risposta a questa domanda: quale tipo di stato sarà ricostituito in Siria? Una parte dei ribelli ha una provenienza vicina all’estremismo religioso. Al Jolani non si è sbilanciato, ha detto che a decidere sarà la popolazione, ha promesso un Paese che rispetterà tutte le comunità, che proteggerà le minoranze, aperto al dialogo. Chi gli è vicino ha anche escluso che ci saranno passi indietro sul fronte della condizione femminile, ad esempio sulla possibilità per le ragazze di frequentare scuole e università. Nei giorni scorsi su questo si è svolta anche una manifestazione spontanea a Damasco: “Vogliamo la democrazia, non uno Stato religioso”, “Siria, uno Stato libero e laico”, hanno gridato i dimostranti, uomini e donne. Ieri c’è stata una mossa del nuovo governo provvisorio siriano che sembra rispondere a queste richieste: una donna, Aisha al-Dibs, è stata nominata capo dell’ufficio per gli affari delle donne. Lo ha spiegato il dipartimento per gli affari Politici in una dichiarazione: si tratta della prima funzionaria donna di alto livello selezionata nella nuova amministrazione. Aisha al-Dibs, che in passato si è occupata di aiuti umanitari, sui social ricorda di essere “un’attivista concentrata sullo sviluppo delle donne e sul lavoro umanitario”.