2024, l’anno nero delle carceri. In arrivo il Papa a Rebibbia di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 dicembre 2024 Suicidi, morti e sovraffollamento record: l’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone. A Firenze deceduto un 28enne somalo, aveva fatto ricorso contro le condizioni inumane delle celle. La drammatica situazione delle carceri è una delle criticità più evidenti dell’anno che sta per finire. Con l’immagine tanto simbolica quanto straziante di un giovane somalo di 28 anni trovato morto per cause ancora da accertare ieri notte nella sua cella della casa circondariale fiorentina di Sollicciano (era, secondo l’associazione Altrodiritto, “uno di quei cento che avevano fatto ricorso ai magistrati per le condizioni di detenzioni inumane”). Con un’amministrazione penitenziaria decapitata dopo le dimissioni di Giovanni Russo, un numero record di suicidi tra i detenuti, un picco di morti per altre cause, un sovraffollamento che sfiora quello del 2012 (148%), anno nefasto per il quale la Corte Edu condannò l’Italia per violazione dei diritti umani con la famosa sentenza Torreggiani diventata una pietra miliare nella giurisprudenza europea, e con un ddl in itinere già contestato dal Consiglio d’Europa e che rischia di essere il cerino acceso in una camera a gas. In questo scenario, certificato dal report di fine anno dell’Associazione Antigone, il 26 dicembre Papa Bergoglio si recherà nel carcere di Rebibbia per l’apertura di una delle Porte sante del Giubileo. Per aggiungere carne al fuoco dell’evento religioso, i dati aggiornati al 16 dicembre 2024 riferiscono di un affollamento medio effettivo arrivato al 132,6% (62.153 persone detenute, a fronte di una capienza effettiva di circa 47.000 posti). Con picchi del “225% a Milano San Vittore, 205% a Brescia Canton Mombello, 200% a Como e a Lucca, 195% a Taranto e a Varese del 194%”: “ormai sono gli 59 istituti con un tasso di affollamento superiore al 150%”. Alla fine del 2023, scrive Antigone, “i detenuti erano 60.166, circa 2.000 in meno di oggi e da allora i posti detentivi effettivamente disponibili sono diminuiti significativamente”. Evidentemente nulla ha potuto il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio nominato tre mesi fa. Spiega infatti il rapporto, numeri alla mano, che se nelle carceri italiane si contano oggi mille posti disponibili in più rispetto al 2016 - ma con 8 mila detenuti in più - “da quando è entrato in carica questo governo, la capienza effettiva è ulteriormente diminuita”, perché sono aumentati i posti da sottrarre alla capienza regolamentare per inagibilità o manutenzioni. Con il Ddl Sicurezza sono dunque in arrivo 16 mila anni di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso alle misure alternative. Associazione Antigone E il personale? Sarà aumentato dopo due anni di “governo” Delmastro, il sottosegretario alla Giustizia con delega alla polizia penitenziaria che ora si è liberato perfino di un capo Dap silente come Antonio Russo (sostituito per il momento dalla vice, Lina Di Domenico)? No, secondo il report: “Se si guarda al personale di polizia penitenziaria si registra un calo in rapporto alle presenze. C’era in media un agente ogni 1,7 detenuti nel 2022, uno ogni 1,9 detenuti nel 2023 ed uno ogni 2 detenuti nel 2024”. In questo contesto dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita 88 persone. “Mai si era registrato un numero così alto, superando addirittura il tragico primato del 2022 che, con 84 casi, era stato fino ad ora l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Oltre ai suicidi - aggiunge il documento - il 2024 è stato in generale l’anno con il maggior numero di decessi. Se ne contano 243 da inizio gennaio”. Un dato confermato anche dal Garante nazionale dei detenuti che nel focus aggiornato al 20 dicembre mostra un trend crescente dei decessi in carcere (esclusi i suicidi) dal 2015: nel 2018 per esempio, quando il numero dei detenuti aveva nuovamente superato dopo cinque anni la soglia dei 60 mila, i morti erano 174. Un punto importante sottolineato da Antigone riguarda il nuovo reato di rivolta nelle carceri contenuto nel ddl Sicurezza: “È impossibile sapere come la norma verrà interpretata in futuro, ma di eventi simili fino al 9 dicembre del 2024 ne abbiamo contati solo nelle carceri per adulti ben 1397. Sono classificati come forme di protesta collettiva (tra cui battitura delle sbarre e rifiuto di rientrare nelle celle). Eventi in cui non si faceva male nessuno e che fino ad oggi erano puniti con sanzioni disciplinari”. Supponendo che ad ogni protesta collettiva abbiano partecipato tre reclusi, e supponendo di applicare le condanne previste nel ddl in discussione al Senato, una “media di 4 anni di carcere l’uno”, secondo l’associazione “sono dunque in arrivo 16 mila anni di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso alle misure alternative. Una ricetta perfetta per far definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra i più vulnerabili (minori, persone affette da problemi psichici, tossicodipendenti)”. Carceri e numeri: la situazione, il passato e la dignità di Paolo Fallai Corriere della Sera, 24 dicembre 2024 Si chiude l’anno, è tempo di bilanci, di quelli che guardiamo distrattamente con un pensiero alla tavola imbandita e l’altro ai regali. Prendiamo due estratti: “I detenuti vivono abbandonati alla rinfusa in indecenti, asfissianti cameroni o costretti in parecchi in celle infelicissime”. E ancora: “Oltre tremila persone vivono là, dove non ne dovrebbero essere più di mille e cinquecento. Per sorvegliare un numero così ingente di detenuti necessiterebbe un adeguato corpo di sorveglianti, mentre le guardie e i carabinieri sono duecento in tutto. C’è poi il problema dei detenuti in attesa di giudizio che sono la quasi totalità: essi vedono passare i mesi senza sapere spesso di che cosa siano imputati”. Parole molto dure. La prima citazione è tratta da “Il problema carcerario italiano, Relazione sulle deficienze del vigente sistema penitenziario e sulla necessità di una urgente riforma. Roma, 1944”. La seconda da un articolo del Corriere d’Informazione del 10 agosto 1945. Se a qualcuno occorressero altri articoli simili, grazie al prezioso lavoro del Centro di documentazione del Corriere della Sera, siamo a disposizione. E oggi? Ottant’anni dopo? Secondo l’Associazione Antigone “Il numero delle persone detenute nelle carceri italiane ha superato le 62.000 unità. Era dal 2013, cioè dall’anno della Sentenza Torreggiani con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva condannato l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti generalizzati nelle carceri italiane, che non si registravano numeri così elevati. Solo nell’ultimo anno sono quasi 3.000 i detenuti in più presenti nelle carceri, laddove i posti disponibili conteggiati dal Ministero della Giustizia sono 51.196, mentre a metà ottobre sappiamo che tra questi 4.445 non lo erano realmente”. In 23 delle 73 carceri visitate da Antigone nell’ultimo anno sono state trovate celle che non rispettavano il parametro minimo dei 3mq. “Una condizione riconosciuta dagli stessi Tribunali di Sorveglianza italiani che sistematicamente condannano l’Italia”. Una differenza rispetto a quel lontano passato c’è e non è di poco conto: secondo Antigone nel 2024 ci sono stati 86 suicidi nelle carceri italiane, un numero contestato dal Dap che ne riconosce “solo” 79. Fossero solo 7 rimarrebbe una scandalosa ferita alla dignità del nostro Paese. Non sei un numero, non sei una matricola e non sei il reato che hai commesso: sei una persona di Cardinale Matteo M. Zuppi Il Dubbio, 24 dicembre 2024 Pubblichiamo di seguito un estratto dalla prefazione del Cardinale Matteo M. Zuppi al libro “I volti della povertà in carcere” di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero. Desidero ringraziare di cuore i tanti che hanno contribuito a questo viaggio nel pianeta carcere. Non si tratta di un altro pianeta, ma dell’altra faccia del nostro, quella che non vogliamo vedere, che speriamo resti buia, ma che rappresenta quello che siamo; dobbiamo conoscerla e illuminarla con l’attenzione e l’amore, perché solo così siamo in grado di comprendere il resto. È un libro che ha coinvolto tanti, perché il metodo è lavorare insieme. Ringrazio Rossana Ruggiero e Matteo Pernaselci, autori del volume, nonché la Casa Circondariale “F. Di Cataldo” - Carcere di San Vittore di Milano, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, L’Osservatore Romano e L’Osservatore di Strada nelle persone di Giacinto Siciliano, Arnoldo Mosca Mondadori, Andrea Monda, Piero Di Domenicantonio, sostenitori del progetto. Il libro è come una visita che siamo aiutati a compiere e forse anche a decidere di organizzare. “Ero in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25, 43), afferma il Vangelo. Non si dice nulla delle caratteristiche della persona rinchiusa, non si cercano meriti o al contrario condanne per giustificare la scelta di abbandonare i detenuti. “Ero in carcere e non mi avete visitato”, ma noi siamo chiamati a non lasciare soli questi uomini e queste donne. Non andiamo in carcere per giudicare, per fare pesare il reato o la condanna, ma iniziando con l’ascolto per incontrare e per portare un aiuto e affrontare i problemi concreti, a volte drammatici, ed anche per cercare modalità che li possano risolvere, a cominciare dal lavoro. Il libro ci fa incontrare l’altro e “vedere” pezzi diversi del carcere già in chi deve affrontarne le violenze e la disperazione, dirigendo una struttura così complessa, ma anche in chi vive dentro le celle; sono storie tratte dalla banalità del male che debbono essere conosciute perché la dignità inizia da questo: non sei un numero, non sei una matricola, non sei il reato che hai commesso, ma sei una persona. La condanna peggiore è il non senso. Il carcere non è l’altro mondo in terra, il luogo dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro mondo, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio. Il contrario dell’inferno non è il limbo, attesa senza speranza e quindi inutile indugio. Papa Francesco si interroga sempre su questo quando va in carcere: “Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro” (dal Discorso del Santo Padre ai cappellani delle carceri, ottobre 2013). Ci viene chiesto di garantire e riconoscere la dignità umana sempre a tutti e camminare insieme ai fratelli carcerati, senza paura, con amore perché l’amore vince la paura e ci fa riconoscere nell’altro la persona che è, degna sempre della nostra “compassione”, che vuol dire pensarsi insieme, e non si esaurisce nell’esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo. Il libro ci restituisce i nomi - che vogliono dire le storie di vita e le caratteristiche peculiari di ciascuno - di quei fratelli più “piccoli” che dobbiamo visitare. Nel percorso tracciato nel libro, riconosciamo l’angoscia di non fidarsi più di nessuno, l’umiliazione, i turbamenti. Comprendiamo i racconti delle compagnie sbagliate e le conseguenze purtroppo prevedibili, ma anche la banalità del bene; vediamo cioè possibilità di umanità e di quella generosità che riaccende i sogni, quelli che preparano il futuro e iniziano a realizzarlo, scoprendo dietro il volto - grazie all’attenzione di qualcuno - le doti che non si sa di avere. Capiamo i problemi psichiatrici - così importanti e che tanta attenzione richiedono, e strumenti adeguati per essere finalmente affrontati - perché altrimenti resta, come viene raccontato, solo la convinzione di “essere morto”. Certo conosciamo anche comunità che sono luoghi di speranza perché la sfida è credere che l’errante non sarà mai il suo errore! “L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva; in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità” (Giovanni XXIII, Pacem in terris, 83). La professoressa Marta Cartabia, nella già citata settimana sociale dei cattolici italiani a Trieste, ha ricordato come nella Costituzione non si parli di carcere, bensì di “pene”, secondo la previsione dell’articolo 27, sottolineando il plurale, e come queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Appunto. Rieducazione e pene. Guai a credere che l’unica scelta sia “farla pagare” all’autore della sofferenza, come è giusto sia e come spesso anche il condannato cerca. Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al sovraffollamento - problema decennale -, siamo costretti a credere che esso non sia visto come reale emergenza che richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità. In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove godere di pene alternative. Un carcere solamente punitivo non è né civile, né umano e nemmeno “italiano” perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza. La sicurezza non è data dalle famose chiavi da buttare, ma anzi esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione, con tutto quello che comporta. Certo, è indispensabile la certezza e la sicurezza delle pene. Sappiamo quanto al contrario si favorisca il cattivismo e la vendetta. Ma proprio per questo sono importanti le pene alternative che, proporzionate e amministrate con saggezza, sono le uniche che possono aiutare a cambiare, a guardare il futuro. Non sono scorciatoie, concessioni “buoniste”, ma esercizio di vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di amore. Solo il “riparativo” risana la ferita e offre sicurezza. Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene. Come è raffigurato in una delle bellissime foto del volume, il muro ha come una sottile crepa. Filtrerà sempre un raggio di luce! Questo libro ci aiuta a capire come e anche quanto è decisiva la luce, fosse solo uno spiraglio, nel buio della disperazione e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi. Dare un senso alla sofferenza affinché la pena non sia solo vendetta di Massimo Zanchin* vocididentro.it, 24 dicembre 2024 È successo una sera nel bagnetto della mia cella, un ripostiglio cieco adibito in tal senso, mentre mi preparavo per andare a dormire. Ho prolungato lo sguardo allo specchio riflettendo su tutti i miei anni di detenzione e sull’imprecisato numero di anni che ancora dovrò vivere in questa situazione e in queste condizioni. Ad un certo punto, mentre mi fissavo preso da questo pensiero, mi sono posto una domanda: fino a che punto una persona, nella penosa e difficile condizione in cui vive, può definirsi ancora un essere umano? Qual è il limite? Inizialmente avevo l’impressione che fosse una di quelle domande destinate a rimanere nel vuoto; invece, una risposta istintivamente me la sono data: l’umano arriva fino a dove arriva l’amore dell’uomo, che non ha limiti se non quelli che noi diamo in quanto uomini. Questa risposta mi è rimasta in testa facendomi capire che ero io a pormi dei limiti, ero io stesso custode di una prigionia senza scopo se non quello disposto in sentenza. Insomma, la disumanità della mia condizione di vita non era dettata solo dai limiti imposti dalla carcerazione e dall’indifferenza, ma ero io ad essermi disumanizzato non provando più amore per me stesso e verso il prossimo fatta eccezione per i miei cari, amore che tra l’altro in questi anni ha avuto poche occasioni per poter essere trasmesso. E allora che fare? Cosa posso offrire al prossimo in segno d’amore volendo ancora considerarmi ed essere considerato umano, aldilà della mia vita per i limiti esistenziali che mi sono stati imposti e che poco hanno a che fare con il senso di umanità? Ci ho pensato e qualcosa da offrire credo di averla: la mia sofferenza, e il suo valore sta proprio nel darle un senso, uno scopo. Non l’espiazione di un’inutile pena fine a sé stessa, ma lavorandola, elaborandola, affinché possa essere spiegabile non come semplice conseguenza di una punizione ma come occasione di approfondimento e di riflessione di ogni sofferenza, di mancanze e di disagi altrui. La mia sofferenza invece di irrigidirmi può rendermi più sensibile verso il prossimo, mi appartiene, è parte di me e ne avrò la giusta cura; anziché lasciarla in disordine per tutta la cella la raccoglierò e la piegherò per bene come ogni mattino faccio con le lenzuola. La mia sofferenza sarà terreno su cui far germogliare giusti pensieri, giusti ragionamenti, atti a sensibilizzare la società ad accorgersi degli ultimi, ad essere solidali con chiunque viva nelle varie prigioni della vita o verso chi ha perso un proprio caro per mano di altri uomini; un percorso che mi consenta di parlare con gli adolescenti mettendo a disposizione la mia esperienza con un’occhiatina virtuale sulla sofferenza. Insomma, se la mia prigionia non ha alcuno scopo se non quello di subire una vendetta, e magari avendo anche sbagliato indirizzo, la mia sofferenza invece un buon scopo lo può avere dando senso alla mia esistenza, abbandonando il desiderio di essere un grande uomo, considerandomi e desiderando essere considerato semplicemente un buon essere umano. *Ergastolano, Casa di reclusione di Opera Avete mai guardato negli occhi un bambino prigioniero? di Michela Di Biase* L’Unità, 24 dicembre 2024 Mentre scrivo sono 17 i piccoli reclusi da innocenti nei nidi delle carceri e delle Icam, luoghi che ne pregiudicano la socialità, lo sviluppo, la salute fisica e psichica. La prima volta che ho incontrato la sguardo di un bambino in carcere è stato durante una visita a Rebibbia. Nel carcere femminile c’è una sezione nido dedicata ad accogliere le detenute madri con i loro bambini, uno spazio ricavato per loro, all’interno dell’istituto penitenziario, che affaccia su un quadrato di verde all’esterno delimitato da alte mura perimetrali. Quello che lo distingue dai comuni luoghi detentivi sono i colori tenui e qualche immagine di cartoni animati dipinti sulle pareti. Per il resto nulla di quel luogo parla di infanzia, semmai ogni cosa ne è la negazione: le porte chiuse a chiave, l’esiguità degli spazi, le sbarre alle finestre, la solitudine. Non giova raccontare il mio stato d’animo nel vedere quel bambino recluso, serve forse, raccontare la sua reazione nel vedermi. Si è coperto il viso con le mani e cosi è rimasto per tutto il tempo del mio colloquio con la madre, non era abituato a vedere un’estranea, le persone con cui si rapportava erano sempre le stesse: le donne della Polizia penitenziaria e le operatrici che gli facevano visita. Mentre scrivo, i bimbi detenuti da innocenti all’interno dei nidi degli Istituti penitenziari e delle Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, al 30 novembre, sono diciassette. (Fonte dipartimento amministrazione penitenziaria). Entrambi questi luoghi non sono adatti all’infanzia di un bambino perché ne pregiudicano la socialità con i coetanei, gli impediscono di rapportarsi agli altri e crescere grazie a quel rapporto. Quando si esce dopo una visita in un carcere ci si porta dietro quel rumore metallico e ripetitivo delle porte che si chiudono ad ogni passaggio, il freddo di inverno che ti entra nelle ossa e quel caldo insopportabile d’estate che ti leva il respiro, si va via con la sensazione che il tempo lì dentro scorra e sia scandito in modo diverso dal nostro. Ci si porta dentro le storie di chi il carcere lo abita: detenute e detenuti, uomini e donne della polizia penitenziaria, personale sanitario, assistenti sociali, insegnanti e volontari, molto spesso stremati dalla fatica e senza adeguati strumenti per far fronte alla drammatica situazione delle carceri. Ma quando tutto questo riguarda un innocente, quando tutto questo riguarda un bambino la nostra coscienza non può non scuotersi. Fosse anche uno solo il bambino a cui viene negata l’infanzia, varrebbe la pena battersi. Tra le tante misure repressive introdotte dal ddl sicurezza quella che prevede la non obbligatorietà del rinvio della pena per le donne incinte e per le madri di bambini fino a un anno di età è la più ideologica e vigliacca perché ignora completamente le conseguenze per la salute e l’equilibrio fisico e psichico delle donne e dei bambini. Una norma che è stata scritta, nonché pubblicamente raccontata, come norma anti-rom, (non ho memoria di una norma della nostra Repubblica voluta per colpire un’etnia) partendo dal pregiudizio che le donne rom siano tutte dedite al furto e che scelgano la maternità per sottrarsi alla carcerazione. Eppure, i dati ci dicono altro: le donne rom in carcere sono poche decine e tale esiguità dovrebbe da sola scardinare ogni pregiudizio. Il rinvio, che oggi è obbligatorio, non solo diventa facoltativo ma può essere rifiutato laddove si ritenga che la donna possa commettere ulteriori reati. Lo abbiamo detto durante la discussione alla Camera e stiamo continuando a farlo ora in Senato: con questa norma, il governo riesce a peggiorare persino il codice Rocco di epoca fascista, facendo fare al nostro paese un salto indietro di decenni. Eppure la nostra carta Costituzionale detta all’art.31 la tutela della maternità, dell’infanzia e della gioventù, sancendo l’interesse del minore. Nella stessa direzione le disposizioni internazionali e sovranazionali che ne arricchiscono e completano il significato. D’altronde l’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sancisce con estrema chiarezza il principio che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino o dell’adolescente sia preminente. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’art.24 ribadisce la preminenza dell’interesse superiore del minore, con l’obiettivo di garantirgli la protezione e le cure necessarie al suo benessere. Questi bambini, detenuti anche loro pur non avendo colpe, sono costretti, sin dalla nascita, a pagare le colpe delle madri, eppure una consolidata evidenza scientifica conferma che i primissimi anni di vita dei bambini, al pari della gestazione, sono fondamentali per il loro sviluppo cognitivo. Farli nascere e crescere in carcere significa mettere a rischio il loro sviluppo, pregiudicare il loro futuro. Questa norma esporrà un numero sempre maggiore di detenute incinte ad un rischio per la loro salute, come drammaticamente hanno evidenziato alcuni casi avvenuti all’interno degli Istituti penitenziari. Abbiamo chiesto e continueremo a chiedere di stralciare dal ddl sicurezza questa norma. Avevamo sperato in una presa di coscienza di alcuni partiti della maggioranza affinché si potesse modificare un testo iniquo che se la prende con gli ultimi. Con i fragili, con chi non può difendersi. La legge 62 del 2011 prevede l’istituzione delle case famiglia protette che, a differenza delle carceri o degli Icam, sarebbero luoghi maggiormente idonei ad ospitare un minore, luoghi pensati per rispondere alle difficoltà incontrate nell’accedere a misure alternative alla detenzione da detenute madri prive di un domicilio ritenuto adeguato dalla magistratura. Spazi di esecuzione penale che hanno dimostrato di funzionare e che potrebbero rappresentare una migliore soluzione per conciliare l’aspetto della certezza della pena con l’interesse superiore del minore. Per questo continueremo a chiedere il rifinanziamento del fondo per la realizzazione delle case famiglia protette, riteniamo che debbano essere presenti in tutte le regioni. Pochi giorni fa nel comune di Quarto, in Campania, una villa confiscata alla mafia è stata destinata a casa famiglia per madri detenute. Dopo l’esperienza di Milano e di Roma, questa è la terza casa famiglia nel nostro paese. Cinque bambini sono reclusi nell’istituto a custodia attenuata di Lauro, in Campania, due nel carcere di Rebibbia, due a Milano San Vittore, quattro nel carcere della Giudecca a Venezia, due a Torino Le Vallette, uno nel carcere di Sassari ed un altro minore nel carcere di Reggio Calabria. Dal nord al sud, un’ingiustizia profonda che attraversa il Paese. Questi bambini sono in carcere non avendo colpe, a loro stiamo facendo scontare quelle degli adulti: delle madri che hanno commesso un reato e di quelli che, accecati dal furore ideologico, non gli consentono di vivere la loro infanzia. All’Icam di Lauro, dove ci eravamo recati in visita con altri colleghi parlamentari per verificare le condizioni loro e delle detenute madri, abbiamo trovato personale premuroso, stanze ordinate e ben tenute ed un’area esterna attrezzata per il gioco. La cucina ed i luoghi comuni erano curati ed ampi. Abbiamo passato un intero pomeriggio nell’Istituto, abbiamo giocato con loro e ci hanno raccontato della mattina a scuola. Abbiamo avuto un’impressione di normalità. Poi, nel momento dei saluti, una bambina è scoppiata in un pianto inconsolabile e tra le lacrime ci ha detto: “Non andate via che io poi rimango da sola”. Quella bambina era poco più piccola della mia. *Deputata del Partito Democratico Russo “dimissionato” dal Dap? Delmastro: “Nessuna tensione” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 dicembre 2024 Il sottosegretario alla Giustizia smentisce le frizioni ipotizzate per la testimonianza nel processo a suo carico. “Nessun clima teso, nessun problema con Giovanni Russo”: così al Dubbio il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove smentisce le ricostruzioni che ipotizzano forti frizioni tra lui e l’ormai ex capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che si è dimesso venerdì scorso. Secondo alcune fonti, Russo sarebbe stato “dimissionato” dal potente sottosegretario di Fratelli d’Italia. La ragione principale risiederebbe nel fatto che proprio Russo sia andato a testimoniare nel processo a carico di Delmastro per rivelazione di segreto d’ufficio, nell’ambito della vicenda Cospito. I documenti - di Gom e Nic -, inviati a Delmastro erano “a limitata divulgazione”, ha sostenuto Russo, quindi sarebbero dovuti rimanere all’interno dell’amministrazione e non finire all’attenzione del collega parlamentare Giovanni Donzelli, che poi ha reso noto il contenuto durante una seduta dell’Aula della Camera. Questa testimonianza avrebbe fatto infuriare il numero tre di Via Arenula, che avrebbe creato intorno a Russo un’aria irrespirabile, tanto da spingerlo a dimettersi, nello sconcerto di tutti i colleghi e collaboratori al Dap. Ma Delmastro ribadisce: “Esiste la libertà di informazione, come quella di disinformazione. Ho letto i retroscena su alcuni giornali ma ribadisco che non sono veri”. Altre fonti, provenienti sempre dal Dap, ci hanno riferito che Delmastro, con tono sarcastico, avrebbe detto ad alcuni magistrati di essere troppo attenti ai diritti dei detenuti. Al Dubbio smentisce anche questa circostanza: “Penso di non aver mai interloquito con un magistrato della Direzione generale dei detenuti, atteso che io non ho quella delega. Poi è chiaro che quando vado al Dap vedo decine di persone e chiacchiero con molte di loro ma non ho mai detto quello che mi sta riferendo”. Abbiamo chiesto un commento e una ricostruzione anche a Giovanni Russo, ma né lui né il suo entourage ci hanno risposto. Russo era stato nominato l’11 gennaio 2023, lascia adesso per un incarico in altro ministero, probabilmente come consigliere giuridico alla Farnesina, dopo che si era liberato un posto. Non è rimasto neanche due anni quindi alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Al suo posto andrà l’attuale vice del Dap Lina Di Domenico, nipote di Giuseppe Falcone. Lina Di Domenico è stata in precedenza magistrato di Sorveglianza a Novara ed è la prima donna a dirigere il Dipartimento che si occupa delle carceri. Nessun comunicato ufficiale da parte del Ministro Nordio. Tralasciando le speculazioni, comunque, c’è da registrare che il nuovo possibile incarico di Russo, pur essendo di rilievo, non è prestigioso come quello di capo del Dap. E allora perché questa scelta? Sarebbe ragionevole pensare ad un clima non facile intorno a lui o al senso di impotenza per una situazione drammatica degli istituti di pena, caratterizzata da sovraffollamento e suicidi. Ma ora che succede? Considerata la concomitanza delle festività natalizie, l’iter per il passaggio di consegne a Largo Luigi Daga potrebbe essere più lungo del normale, non ci dovrebbe essere alcun riscontro del Csm prima del 7 gennaio. Non si sa quindi se Giovanni Russo la prossima settimana presenzierà, come previsto, ad uno degli appuntamenti più importanti del Giubileo: l’apertura della Porta Santa da parte di Papa Francesco al carcere romano di Rebibbia la mattina del 26 dicembre. Sulle dimissioni, i dirigenti di Nessuno tocchi Caino, la presidente Rita Bernardini, il segretario Sergio D’Elia, e la tesoriera Elisabetta Zamparutti hanno dichiarato: “Siamo profondamente dispiaciuti per le dimissioni del capo del Dap Giovanni Russo, persona straordinaria, di grande rigore e umanità. Chi ha vissuto come lui l’esperienza di Presiedere del Dipartimento (e pensiamo in particolare a Santi Consolo e a Dino Petralia) sa come quella struttura elefantiaca fatta di incrostazioni sedimentate nel tempo, abbia bisogno di una seria riforma che la conduca finalmente all’efficienza costituzionale e convenzionale europea. In questo senso, auguriamo al prossimo Presidente del DAP, buon lavoro”. Per la responsabile Giustizia Pd Debora Serracchiani, il capogruppo dem nella Bicamerale Antimafia Walter Verini e i due capigruppo dem delle commissioni Giustizia Senato e Camera Alfredo Bazoli e Federico Gianassi, “le dimissioni di Giovanni Russo dal vertice del Dap sono una conferma del fallimento di una politica carceraria di questo Ministero, di questo Governo. Questi due anni hanno aggravato una situazione difficile, con il dramma dei suicidi dei detenuti, con un sovraffollamento disumano, con condizioni difficilissime anche per il lavoro della Polizia Penitenziaria. E con risposte inesistenti e ciniche da parte di Ministro e Sottosegretari. Anche le condizioni di lavoro del Dap sono state rese certamente più difficili. Chiameremo Nordio a riferire alle Camere sulla gravità ulteriore della situazione”. Anche per il deputato di +Europa Riccardo Magi “le dimissioni del capo del Dap Giovanni Russo sono il segno evidente del fallimento delle politiche del governo sul carcere a fronte delle tragiche condizioni in cui versano”. Nomine, potere e fedelissimi: il carcere secondo Delmastro di Nello Trocchia Il Domani, 24 dicembre 2024 L’addio di Giovanni Russo dal Dap e i rapporti complicati con il sottosegretario, che ha impiegato due anni per occupare i gangli decisivi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I “graditi” avanzano ai vertici del dipartimento di gran carriera, alcuni sindacati pendono dalle sue labbra, anche in carcere tra i comandanti c’è la corsa a chiedergli udienza perché lui dalla tolda di comando ascolta e decide. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, ha impiegato due anni per occupare i gangli decisivi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e prendersi definitivamente il carcere, fieramente rivendicato come il suo regno, in nome del padre. Sandro Delmastro Delle Vedove, infatti, è stato senatore di An, nostalgico dei tempi andati e del saluto romano, avvocato e strenuo difensore degli agenti. Una passione di famiglia, insomma. Il meloniano doc, già avvocato della premier, ha impiegato 24 mesi per plasmare a sua immagine e somiglianza il Dap, quel dipartimento che si occupa di carceri, detenuti e polizia penitenziaria. A dire addio in questi giorni è stato proprio il capo del Dap, Giovanni Russo, magistrato con un passato alla Direzione nazionale antimafia, fratello del mite Paolo, già deputato di Forza Italia nei tempi d’oro del berlusconismo. Giovanni Russo ora dovrebbe andare a fare il consigliere giuridico di Antonio Tajani, capo dei forzisti e ministro degli Esteri. Il fantasma di Russo - Russo al ministero era diventato un fantasma, assente negli appuntamenti decisivi, in ritardo sulle promesse fatte e silente quando sulle carceri italiane si allungava l’ombra delle violenze con arresti e retate. Le sue dimissioni hanno sancito il suo fallimento e la vittoria di Delmastro, ormai vero padrone di quel dicastero. Il rapporto tra Russo e il meloniano non è mai stato idilliaco a partire dal pasticcio sulle visite e le frequentazioni dell’anarchico, Alfredo Cospito, ristretto al 41 bis, e in particolare sul documento “a limitata divulgazione”. Un documento che ha inguaiato, mandandolo a processo, il sottosegretario che, nei giorni scorsi, in aula ha chiarito chi comanda dalle parti di via Arenula: “Io non avevo alcuna urgenza, era Giovanni Russo, capo del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che si mosse con urgenza per fare ottenere a me, sottosegretario, quanto richiesto. E mi sembra normale: Russo prende 250mila euro all’anno, come minimo se gli chiedo una cosa da dieci giorni deve farmela ottenere”. Pochi giorni dopo l’udienza, Russo, rassicurato sul suo destino, ha fatto la valigia e lasciato l’incarico. Domani, quattro mesi fa, aveva previsto le dimissioni e indicato in Lina Di Domenico il futuro del Dap. Proprio quest’ultima sarà testimone nella prossima udienza del processo che vede imputato il sottosegretario per rivelazione di segreto d’ufficio. Non c’è solo lei in rampa di lancio nel ministero, al Dap avanza anche un altro nome, quello di Augusto Zaccariello, promosso dirigente superiore, prima capo del Nic, poi capo del Gom, ora vicedirettore generale del personale e pronto a nuovi incarichi. I fallimenti - Una squadra che gode di stima e considerazione nell’ambiente sindacale e tra gli agenti, apprezzata anche da Delmastro, il sottosegretario che ha superato indenne ogni tipo di bufera: dall’imputazione per il pasticcio Cospito, passando per lo sparo di Capodanno che ha coinvolto l’amico e fedelissimo, il deputato Emanuele Pozzolo, fino alle dichiarazioni improvvide sullo stato che si bea dell’aria che manca ai detenuti nella nuova auto della penitenziaria. Avvicendamenti che servono anche a cancellare i fallimenti che le destre al governo hanno ereditato e peggiorato nella gestione delle carceri. I detenuti hanno superato quota 62mila a fronte di una capienza ufficiale di 51mila posti, cifra dalla quale bisogna sottrarne oltre 4mila non disponibili. C’è un altro dato che spiega il fallimento, il numero di suicidi in carcere sfiora i 90, cifra da paese incivile. Delmastro gongola mentre le carceri cadono a pezzi. Un atto di clemenza, per peccatori e per i loro giudici di Luigi Manconi La Repubblica, 24 dicembre 2024 Rivolgendosi alla classe politica Papa Francesco chiede che “si assumano iniziative di speranza, forme di amnistia o di condono delle pene”. Così l’indulgenza religiosa incontra la norma giuridica, laica e civile che ritroviamo nella nostra Costituzione. Chi ascolterà e farà sue queste parole? Il Giubileo è il luogo e il tempo dove si incontrano - sin dalla Bolla pontificia che lo indice - due parole preziose e ormai rare: indulgenza e clemenza. In particolare, c’è oggi una parola al mondo più maltrattata e mortificata, irrisa e umiliata di “clemenza”? Nelle relazioni interpersonali, e in quelle tra gli Stati, tra i gruppi sociali e tra le etnie, tra maggioranze e minoranze, sembrano prevalere altre categorie semantiche e concettuali: innanzitutto la sopraffazione come modalità di rapporto e stile di approccio. Non è solo il trionfo della violenza come tecnica di regolazione delle controversie, è qualcosa di più profondo: è l’imposizione che non conosce limiti, il dispotismo senza deroghe, la prepotenza che non concede scampo, la sanzione senza attenuanti. La clemenza è l’esatto contrario di tutto ciò. Non coincide con il perdono, che presuppone un atteggiamento spirituale di rinuncia alla rivalsa e alla vendetta e che richiede un vero processo di catarsi. Qui siamo, piuttosto, nel campo delle scelte umane e della loro traduzione in atto solidale; qui l’indulgenza rimanda alla riconciliazione e alla ricomposizione della frattura inferta al corpo sociale. Il senso più profondo del Giubileo della Chiesa cattolica risiede in questo: nella volontà di tenere insieme la conversione, il mutamento dell’anima, la metanoia e i provvedimenti orientati alla riappacificazione tra diversi e ostili. Non a caso, gli ultimi due giubilei hanno avuto un importante segno ecumenico nella tensione a conciliare e a unire tutte le chiese e tutti i credo cristiani. Ma questa prospettiva è tanto più possibile quanto più si garantisca una condizione preliminare: la remissione dei peccati, a partire dal riconoscimento dei propri peccati. Dunque, il Giubileo non è una procedura generalizzata di assoluzione. È, invece, un percorso faticoso e doloroso di ammissione di colpa come premessa di riconciliazione tra chi offende e chi è offeso, tra chi infligge il male e chi lo subisce, tra il colpevole e la vittima. Nella consapevolezza che quei ruoli non sono fissati una volta per tutte, ma tendono a invertirsi, a dislocarsi diversamente, a trascorrere da uno stato all’altro. A reggere tutto ciò c’è una categoria ineludibile, quella di reciprocità. In altri termini: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (dal Padre nostro). È proprio la reciprocità a costituire il primo fondamento di ogni legame umano e di ogni rapporto sociale. Così che quella clemenza di cui si diceva non è la concessione del Generoso nei confronti del Bisognoso, bensì l’idea, profondamente umanistica, che “siamo tutti peccatori” e che la clemenza che oggi esercito verso altri potrà essere esercitata in futuro da altri verso di me. Di conseguenza, termini come indulgenza e remissione sono davvero le parole chiave di un Giubileo autenticamente vissuto, al di là delle dimensioni di un evento che minaccia di essere abnorme, consumistico e mondano. È inevitabile che, almeno in parte, sia così: il Giubileo vive dentro le moltitudini, le loro derive economicistiche e i loro trionfi pubblicitari, tra la capillarizzazione bed & breakfast e la produzione seriale di icone di plastica. La fede popolare non si trova negli esercizi spirituali delle università vaticane e nei collegi degli ordini religiosi; e dunque la critica della speculazione commerciale-religiosa è tanto obbligata quanto ovvia. Qui preme assai più evidenziare come all’interno della Bolla di indizione del Giubileo spes non confundit, Papa Francesco si rivolge a tutti coloro che sono “privi della libertà e che sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. E aggiunge: “Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”. Infine, rivolgendosi alla classe politica e di governo, il pontefice chiede “che si assumano iniziative di speranza, forme di amnistia o di condono delle pene”. Ecco che l’indulgenza religiosa si fa provvedimento giuridico e norma civile. E quella parola incontra quell’altra, clemenza, dalla robusta radice costituzionale (art. 79 della nostra Carta), fino a coincidere con essa e a darle energia e slancio. Chi farà sue queste parole? Persino all’interno della chiesa cattolica italiana sembrano prevalere prudenza e tatticismo. Il presidente della Pontificia accademia per la vita, Monsignor Vincenzo Paglia, si è unito a quanti - di fronte alle tragiche condizioni di vita all’interno del sistema penitenziario italiano - sollecitano un provvedimento di amnistia e indulto, ma presuli e movimenti religiosi si mostrano reticenti. Eppure, quello di Papa Francesco appare come un messaggio allo stesso tempo popolare e profetico, che può dare concretezza all’appello alla conversione che accompagnerà l’anno giubilare. La “remissione dei peccati” vale per tutti, e il peccatore, eventualmente riconosciuto come tale anche da una sentenza della magistratura, non assolve i suoi accusatori e i suoi giudici dai loro stessi peccati. Certo, le misure e i pesi sono diversi e incomparabili e non tutti i peccati sono capitali, ma d’altra parte è il Salmo 9,13 ad ammonire che “l’egoismo, come tutto ciò che impedisce la carità, è scandaloso perché schiaccia i piccoli, umiliando la dignità delle persone e soffocando il grido dei poveri”. Il Giubileo può rappresentare l’occasione giusta per ricordare che una delle sette opere di misericordia corporale raccomanda di “visitare i carcerati”, ma anche per dare risalto a quanto si legge nel Vangelo di Luca: “Mi ha inviato per annunciare la liberazione dei prigionieri”. Carriere separate, il Governo accelera: “Parola al popolo” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 dicembre 2024 Per il viceministro Sisto “deciderà il referendum”. Michelotti (FdI): “Si tratta di una riforma sacrosanta”. “Quella sulla separazione delle carriere è la riforma delle riforme” ha ribadito ieri il vice ministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto per cui “vogliamo che l’arbitro non sia della stessa città di una delle due squadre”. Quindi un giudice terzo ed imparziale. Ma che succede se, secondo statistiche ufficiali in primo grado la percentuale di assoluzioni è del 50 per cento, e se proprio due processi, per alcuni definiti “politici”, come quello contro Matteo Renzi e Matteo Salvini, si concludono con un nulla di fatto? E chi si aspettava un depotenziamento della battaglia rimarrà assai deluso. A poche ore dalla sentenza Open Arms, qualcuno si era infatti convinto di una soluzione dialogante. E invece dalla maggioranza tornano a rivendicare la necessità della riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario. Perché, per il centrodestra, c’è sempre un magistrato che sbaglia, che perseguita, che fa carriera grazie alle correnti. Per lo più un pm. Dunque nessun freno, occorre arginare il loro strapotere. “Devo dire - ha dichiarato Matteo Salvini - che in Tribunale a Palermo ho visto una corretta, giusta, sana separazione di chi giudica rispetto a chi indaga, non sempre è così”. Ci ribadisce il capogruppo di Fi in commissione Giustizia alla Camera, Tommaso Calderone: “La separazione delle carriere è una riforma costituzionale storica. E la Storia prescinde dai fatti contingenti. Le assoluzioni di Salvini e Renzi sono utili a dimostrare un’altra verità. Il tonfo delle ipotesi accusatorie. Il proscioglimento in udienza preliminare di Renzi ha un solo significato: l’azione penale non andava esercitata. Non poteva reggere in dibattimento. L’assoluzione “perché il fatto non sussiste” di Salvini ha un solo significato. Si è sottoposto per anni a un ingiusto procedimento penale il vicepremier per un fatto che non sussisteva. La separazione delle carriere la richiede l’ordinamento processuale e la Costituzione. E non vi è dubbio che vedrà la luce in questa legislatura”. Stessa convinzione del deputato Francesco Michelotti, relatore del provvedimento per Fd’I: “I casi Renzi e Salvini e nel passato quelli di tanti altri esponenti politici che hanno trovato ragione nell’ultimo grado del giudizio, confermano una verità che nessuno può negare: la stragrande maggioranza della magistratura giudicante è indipendente, autonoma e terza fra le parti. Ed è anche molto preparata e competente. Non abbiamo mai pensato il contrario”. E quindi verrebbe da dire che non serve la separazione. Tuttavia, prosegue Michelotti “non possiamo nemmeno ritenere che due casi plastici come quelli di Renzi e Salvini possano bloccare una riforma necessaria, voluta dal Governo Meloni” e che “sancisce in modo netto la terzietà della magistratura giudicante e la rafforza, affidando al solo Giudicante l’ultima parola; oggi purtroppo fa notizia l’indagine, l’ordinanza cautelare, la richiesta di rinvio a giudizio. Noi vogliamo ribaltare questo schema e dare centralità alla sentenza, non all’azione del pm, che spesso si rivela infondata” . Sullo sfondo lo scontro a distanza tra Unione delle Camere Penali e Associazione Nazionale Magistrati. L’Ucpi guidata da Francesco Petrelli ha diramato una durissima nota: le assoluzioni di Renzi e Salvini “ci confermano che nel nostro Paese l’uso politico dello strumento giudiziario da parte della magistratura, che ha avuto nel nostro Paese tratti eversivi, non è mai cessato. Le recenti assoluzioni testimoniano tuttavia che la magistratura è composta in larga maggioranza da magistrati che non seguono queste logiche ma ne sono in qualche modo vittime, posto che esiste una magistratura che fa carriera e gestisce il potere, e una magistratura che subisce la delegittimazione e la mancanza di fiducia che deriva dall’uso strumentale del potere giudiziario”. Per alcuni avvocati, che per il momento preferiscono rimanere anonimi per non alimentare botta e risposta ufficiali, questo comunicato dell’Ucpi sarebbe però “un autogol assoluto” perché, “come rilevato da molti nelle nostre chat”, questo epilogo dei processi contro Renzi e Salvini “avvalora l’ipotesi contraria” ossia “che non sia necessaria la separazione delle carriere. Essa è necessaria ma non con questo argomentare”. Il comunicato dell’Ucpi sarebbe nato, come ci spiegano altri, dal fatto che nell’immediatezza della decisione su Salvini aveva preso piede la narrazione per cui, essendo stati i giudici non appiattiti sulla tesi accusatoria, allora la riforma non servirebbe. Da qui la necessità di “riprendere terreno” e “fare pressione sul Governo”. Non si è fatta comunque attendere l’altrettanto dura replica dell’Anm che ha accusato i penalisti di “scarsa lucidità nella lettura dei fatti”, di “bizzarra idea” quella per cui l’assoluzione di due esponenti politici “stia a dimostrare che una parte della magistratura è intenta a “fare carriera” e “gestire il potere”“, in quanto “i processi si fanno per accertare i fatti e non per validare verità precostituite”, “che in un sistema retto dall’obbligatorietà dell’azione penale, i processi sono iniziati per valutazioni non di convenienza, meno che mai politica, ma d’ordine tecnico”. Infine “è poi dissennata l’accusa alla magistratura di aver fatto uso politico, addirittura a tratti eversivo, dello strumento giudiziario. Accusa tanto grave quanto generica, perché non si dice quando e in che modo, e ad opera di chi, siano stati assunti atteggiamenti eversivi”. Insomma chi sognava la pax natalizia rimarrà deluso. Con la separazione delle carriere il governo vuole creare la casta dei procuratori di Mitja Gialuz Il Domani, 24 dicembre 2024 I due proscioglimenti di Renzi e Salvini smentiscono i luoghi comuni che giustificherebbero la separazione. Ma l’esecutivo vuole andare avanti anche se la proposta avanzata da Carlo Nordio prevede di separare non le carriere, ma le magistrature. Con un effetto potenzialmente devastante. “Non luogo a procedere per Renzi, assoluzione per Salvini; quindi bisogna accelerare la separazione delle carriere”. Questo il mantra che risuona da alcuni giorni nel dibattito politico, rilanciato dalla presidente Giorgia Meloni subito dopo il verdetto di Palermo. Il “sillogismo” è del tutto privo di fondamento logico e giuridico. È evidente, infatti, che i due proscioglimenti smentiscono i luoghi comuni che giustificherebbero la separazione. Essi dimostrano, in modo lampante, che i giudici italiani non sono affatto appiattiti sui colleghi pubblici ministeri e che non si fanno in alcun modo condizionare dalle tifoserie che si agitano nell’opinione pubblica. Eppure, quel “sillogismo” dice molto dei reali - anche se sottaciuti - obiettivi della riforma costituzionale in discussione alla Camera. Il problema è il pubblico ministero: i giudici hanno dimostrato - ancora una volta - che i pubblici ministeri hanno costruito teoremi infondati. Quindi, bisogna controllare l’operato dei rappresentanti dell’accusa e “responsabilizzarli”. O, meglio, “normalizzarli”. Il pm e l’esecutivo - Sia chiaro: l’idea di ricondurre il pubblico ministero al circuito democratico, per fornire legittimazione alle scelte relative all’azione penale, non è assolutamente peregrina. Sul piano storico, merita ricordare che, in Assemblea costituente, essa era sostenuta dalla Democrazia cristiana, con Giovanni Leone (poi sesto presidente della Repubblica), il quale proponeva di assoggettare il pubblico ministero all’esecutivo. Ma la politicizzazione dell’ufficio dell’accusa era condivisa anche dai comunisti, che propugnavano l’elezione popolare diretta dei magistrati. Nel panorama contemporaneo, in quasi tutti i paesi europei il pm è un organo che dipende dall’esecutivo. Pure negli Usa è un ufficio fortemente politicizzato, posto che, a livello statale, è eletto direttamente dal popolo e, a livello federale, è nominato dall’esecutivo. Il modello americano - Negli Stati Uniti, l’elettività dei prosecutors è all’origine di tante degenerazioni, tra cui l’incarcerazione di massa e la diffusione incontrollata di prassi di giustizia sommaria fortemente discriminatorie. Nelle democrazie europee, è da decenni che si lotta strenuamente (e spesso invano) per assicurare l’indipendenza del pubblico ministero rispetto alle ingerenze (dirette e indirette) del ministro e per garantire, di conseguenza, l’eguaglianza dei cittadini. Già un secolo fa, Piero Calamandrei scriveva: “Affermare da una parte che la legge è eguale per tutti e dall’altra lasciare al potere esecutivo la possibilità di farla osservare soltanto nei casi in cui non dispiace al partito che è al governo, è un tale controsenso, che non importa spendervi su molte parole”. Proprio grazie all’opera di Calamandrei, che si batté in Costituente contro democristiani e comunisti, noi quell’indipendenza del pm - strettamente correlata all’obbligatorietà dell’azione penale - ce l’abbiamo scolpita in Costituzione. Negli anni scorsi, la riforma Cartabia ha cercato di aggiornare il modello italiano, assicurando una (necessaria) razionalizzazione dell’obbligatorietà: per un verso, attraverso la definizione dei criteri di priorità, in un dialogo aperto e trasparente tra parlamento e procure; per altro verso, introducendo il criterio della ragionevole previsione di condanna (ossia proprio quello che ha portato al non luogo a procedere nel processo Open). Un mostro giuridico - Oggi le forze politiche di maggioranza vogliono sovvertire il modello costituzionale; ma per sostituirlo con un mostro giuridico. La proposta avanzata da Carlo Nordio prevede di separare non le carriere, ma le magistrature e di dar vita a una magistratura requirente, che continuerà a essere (asseritamente) indipendente dall’esecutivo. Un vero ossimoro costituzionale, con un effetto potenzialmente devastante. Quello di creare una casta separata di procuratori, protetta da un proprio Csm e titolare di un potere autonomo rispetto al giudiziario; un potere capace di entrare in sintonia con l’opinione pubblica e destinato a rafforzarsi senza ostacoli in un limbo istituzionale; un “non spazio”, sottratto a qualsiasi controllo democratico. Insomma, qualcosa che non esiste in alcuna democrazia liberale. Il che fa sospettare che i modelli a cui guardano i novelli riformatori siano altri. L’auspicio è che i tanti sostenitori in buona fede della manovra se ne rendano conto; prima che sia troppo tardi. Giudici e accusa: i cambia-carriera che non esistono di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2024 In 18 anni i passaggi sono stati in media 45 l’anno: lo 0,53% delle toghe. Otto giudici su 6.665, lo 0,12%, diventati pm. Ventisei pm su 2.186, l’1,19%, diventati giudici. Tanti sono i magistrati che nel 2023 hanno “traslocato” dalla funzione giudicante a quella requirente o viceversa: in totale 34 toghe su 8.851, lo 0,38%. Il dato è riportato in una tabella (riprodotta qui a fianco) allegata alle due bozze alternative - una di maggioranza e una di minoranza - del parere che il Consiglio superiore della magistratura dovrà esprimere sul ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, in discussione in prima lettura nell’Aula della Camera. Una riforma definita “epocale” dai suoi firmatari, la premier Giorgia Meloni e il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nonostante riguardi un fenomeno ormai risibile: i limiti rigidissimi imposti dalla politica a partire dal 2006, infatti, hanno reso il cambio di funzione una scelta piuttosto scomoda, che quasi nessun magistrato prende più in considerazione. E i numeri lo dimostrano, tanto che lo 0,38% di passaggi dell’anno scorso è addirittura il dato più alto dell’ultimo quinquennio: nel 2020 e nel 2022 erano stati 25, lo 0,28%; 31 nel 2021, lo 0,34%; 24 nel 2019, lo 0,27%. In media si tratta di meno di 28 “salti di barricata” l’anno, appena lo 0,31%. Per capire le ragioni di questa tendenza basta guardare ai “paletti” già esistenti. Dalla riforma dell’ordinamento giudiziario “Castelli-Mastella” del 2006, un giudice che vuol diventare pm o viceversa deve spostarsi in un’altra regione. Quella legge aveva anche fissato un limite massimo di quattro passaggi in carriera, che nel 2022 la riforma Cartabia ha ridotto ulteriormente a uno solo, per di più consentito esclusivamente nei primi dieci anni dall’assunzione delle funzioni. In sostanza, il ruolo scelto all’inizio sarà quello che si conserverà per tutta la vita lavorativa. Risultato: negli ultimi 18 anni, da quando è entrata in vigore la “Castelli-Mastella”, i cambi di funzioni sono stati in media 45 l’anno, pari allo 0,53% dei magistrati in servizio. A partire dal 2019, poi, come abbiamo visto la media è scesa sotto i 28 l’anno, mentre quella dei 13 anni precedenti sfiorava i 53. Sulla base di questo quadro, la proposta di maggioranza del parere in discussione al Csm contesta il mantra secondo cui la separazione delle carriere serve a realizzare il principio costituzionale del giusto processo, cioè della “parità delle armi” tra accusa e difesa. Se il problema sono i passaggi da un ruolo all’altro, si legge, “la quantità dei cambiamenti di funzione e le regole che li governano sembrano offrire elementi idonei a neutralizzare le preoccupazioni”. Se invece il tema è “di carattere, per così dire, psicologico, vale a dire la circostanza che la natura di parte pubblica del pm e il connesso rapporto di colleganza tra questi e il giudice possa indurre il secondo a dare maggiore credibilità al primo, non risulta del tutto agevole comprendere come la separazione delle carriere possa porre rimedio a questa presunta (ancorché indimostrata) propensione: la riforma lascerebbe, infatti, del tutto inalterata tanto la natura pubblica dell’accusa, quanto la comune appartenenza di giudici e pubblici ministeri all’ordine giudiziario”. Peraltro, la tesi dell’appiattimento delle toghe giudicanti sui colleghi requirenti “non sembra trovare riscontro nell’esperienza concreta, sol che si pensi che in più del 40% dei casi le decisioni giudiziarie non confermano l’ipotesi formulata dalla pubblica accusa”, aggiunge il testo. La bozza da cui sono tratti i virgolettati ha ottenuto cinque voti su sei nella Commissione competente del Csm (la Sesta): a sostenerla i consiglieri togati Antonello Cosentino (della corrente progressista di Area) Roberto D’Auria (dei “moderati” di UniCost) Eligio Paolini (dei conservatori di Magistratura indipendente) e Roberto Fontana (indipendente) più il laico Roberto Romboli, eletto in quota Pd. Una proposta alternativa, dai toni favorevoli alla riforma, è stata votata solo dal laico Felice Giuffrè, scelto da Fratelli d’Italia. Il plenum, l’organo al completo, sceglierà l’8 gennaio, ma il testo di maggioranza dovrebbe passare senza problemi. Il senso di Santalucia per la giustizia e gli errori giudiziari di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 24 dicembre 2024 L’addio all’Anm del presidente diventa una difesa corporativa dei colleghi “dimenticando” le decine e decine di vittime degli errori giudiziari. Non una parola di autocritica (qualche errore l’avrà pur fatto), ma rivendicazione a palate delle parole magiche con cui si difende la categoria, che sono sempre Autonomia e Indipendenza e mai, per dimenticanza, Imparzialità, valore costituzionale di rango come le precedenti. Certo, evocare Enzo Tortora e la proposta parlamentare di istituire una giornata all’anno in cui, nel nome del giornalista morto di malagiustizia, si ricordino le migliaia di suoi fratelli e sorelle che hanno vissuto gli stessi drammi, molti con la vita distrutta fino al suicidio, per i quali nessuno ha assunto la propria responsabilità, va a toccare nervi scoperti. I nervi di coloro che, di fronte a questi strazi, sanno di essere sempre al riparo della propria impunità, perché non pagheranno gli “errori” commessi, che spesso andrebbero chiamati con atri nomi, come sciatteria o imperizia, né sul piano disciplinare né su quello civile. Ma intanto lo Stato, cioè i cittadini, continua a pagare per loro. Loro, le toghe, l’unica vera casta ormai in circolazione, su cui però non si scrivono libri che aprano la strada a una nuova stagione di Mani Pulite. Dobbiamo proprio ogni giorno, mentre il sindacato dei magistrati annuncia scioperi contro ogni tipo di riforma, il ministro si chiami Cartabia o Nordio, ricordare i numeri che con un lavoro prezioso ci offre da 25 anni l’associazione Errorigiudiziari.com? Ebbene facciamolo una volta di più, consapevoli del fatto che ci saranno sempre tanti Santalucia a replicare che chiunque esibisca la carne viva delle loro manchevolezze, in realtà vuole solo “controllare il pubblico ministero” e trasformarlo nel burattino del ministro di giustizia. Ecco perché non interessa al capo del sindacato toghe non solo la giornata di ricordo delle migliaia di martiri di ingiustizia, ma neanche la stessa figura di Enzo Tortora. “… risale a quarant’anni fa - liquida nell’intervista al Corriere- e tanti passi avanti sono stati fatti nella gestione dei pentiti, dei maxiprocessi, fermo restando che allora furono commessi gravi e tragici errori”. Ma siamo sicuri che davvero siano stati fatti tanti passi in avanti? Basterebbe citare quel che succede ogni giorno nei tribunali della Calabria, fino all’ultima sentenza della cassazione che ha annullato con rinvio uno dei processi più scandalosi del secolo scorso, quello chiamato “‘ ndrangheta stragista”. Quello in cui un “pentito” raccontava di aver visto Berlusconi e Craxi a passeggio in un agrumeto con un capomafia calabrese. Processo in cui è centrale un atro eroe del “pentitismo”, quel Franco Pino che tanti anni fa aveva cercato di mandare in galera chi scrive insieme a Vittorio Sgarbi sulla base di fantasie farneticanti. Del resto basta guardare i dati dell’amministrazione della giustizia in Calabria per verificare che sia Reggio che Catanzaro sono in fondo alla lista dei buoni amministratori di giustizia, ma in testa a quella sul risarcimento dei danni per numero di errori giudiziari. Ma basta attraversare il mar Tirreno per trovare il caso più clamoroso avvenuto in Sardegna, quello di Beniamino Zuncheddu, il pastore sardo rimasto in carcere 33 anni proprio per le parole di un cosiddetto “pentito”, uno di quelli la cui gestione sarebbe cambiata completamente dai tempi di Tortora, secondo la lettura del dottor Santalucia. Dobbiamo dunque ricordargli ogni giorno i numeri dei risarcimenti che lo Stato, cioè, ricordiamolo ancora, i cittadini, ha dovuto versare alle vittime di errori giudiziari e ingiuste detenzioni? Ebbene, repetita juvant: dal 1991 fino alla fine del 2023 i casi sono stati 31.397, quasi mille all’anno, e la spesa va a toccare il miliardo di euro. È sufficiente per far arrossire qualcuno? Passiamo allora a esaminare gli altri dati, quelli della responsabilità. A fronte dei tanti casi in cui una o più toghe ha preso lucciole per lanterne, qualcuno di loro è almeno andato in punizione dietro la lavagna? Neppure per sogno. Partiamo dalla responsabilità civile, e limitiamoci agli ultimi dieci anni. Tra il 2010 e il 2022 lo Stato italiano ha avviato 644 azioni di rivalsa nei confronti di altrettante toghe, ma solo 8 magistrati sono stati condannati, cioè l’1,2%. Chi l’ha deciso? Qualcuno di loro. Ma saranno almeno stati sgridati, quelli che hanno sbagliato, una piccola tiratina d’orecchi, da quell’organismo che si chiama Csm e che pare intoccabile da qualunque riforma, sul piano disciplinare? Pura illusione. Delle 90 azioni disciplinari, che sono già poche rispetto ai danni prodotti, avviate l’anno scorso, sono stati solo 15 i magistrati puniti, 8 dei quali solo con la censura, il provvedimento più lieve. La classica tiratina d’orecchi, insomma. Ma che importa tutto ciò? I giornali (alcuni, per lo meno) li scrivono tutti i giorni, questi dati. Lo Stato spende quasi 30 milioni all’anno per la scarsa professionalità di tanti magistrati, quasi nessuno dei quali viene sanzionato né in sede civile né in quella disciplinare. Ovvio che la corporazione tutta intera si stringa compatta contro ogni riforma che possa portare a cambiamenti che intacchino lo status quo. Soprattutto che possano spezzare in due, con la separazione delle carriere, la complicità, fatta spesso di ricatti reciproci tra giudici e pm, come ci ha ben spiegato Luca Palamara, sulla gestione del proprio potere, errori giudiziari compresi. Ecco perché per la Anm la giornata di ricordo delle vittime di malagiustizia non si deve fare, neanche nel ricordo di Enzo Tortora, robetta di 40 anni fa. Il tema dell’errore giudiziario non diventi scontro populista di Gian Carlo Caselli Il Dubbio, 24 dicembre 2024 Gentile Direttore: su “Il Dubbio” del 17 dicembre 2024 l’avvocato Francesco Petrelli polemizza con una mia intervista su “La Stampa” del 13 dicembre. La polemica è garbata e civile, per cui volentieri proverò a rispondere. Prima di tutto però debbo dire che non capisco l’accusa di ridurre a “incidenti” gli errori giudiziari, perché leggendo e rileggendo la mia intervista la parola’ “incidenti” non la trovo proprio. Ma veniamo al merito. L’avv. Petrelli mi contesta l’uso dei termini demagogico e populista in quanto riferiti a un fenomeno grave ed esteso come l’errore giudiziario che impone di riflettere sul corretto uso della giustizia. Ora, senza ricorrere ad artifici retorici (salvo una punta di paradosso) si dà il caso che io sia d’accordo con l’avv. Petrelli. Proprio perché l’argomento è grave ed esteso occorre una riflessione seria. Mentre una giornata dedicata rischia di trasformarsi in qualcosa- appunto - di populista e demagogico, una palestra di recriminazioni e di sfoghi contro i magistrati, qualcosa come la battaglia delle arance di Ivrea. Di qui la preoccupazione che possa pure risentirne la fiducia nella giustizia, pilastro del sistema democratico: che non significa condivisione delle singole decisioni, né generale consenso sull’operato dei giudici; significa accettazione della giurisdizione come garante dei diritti dei cittadini e delle regole della civile convivenza. Ma la cosa ancor più grave che mi rimprovera l’avvocato Petrelli è quella di far passare l’errore come un dato fisiologico del sistema, perché la giustizia penale non è un gioco di società nel quale a volte si vince e a volte si perde. Nella mia intervista si parla effettivamente di dato fisiologico, ma a conclusione di un ragionamento. Eccone i principali passaggi: ciò che al magistrato il sistema chiede è di valutare la persuasività (o la non persuasività) degli “indicatori” che le parti gli hanno addotto a sostegno delle rispettive versioni; questi indicatori, perlopiù, sono controvertibili, per cui la valutazione del materiale raccolto è strutturalmente opinabile; ciò può condurre, nei vari gradi di giudizio, a esiti contrastanti, che comprensibilmente possono creare scandalo; ma è un dato non patologico bensì fisiologico e proprio di qualunque ordinamento articolato (come il nostro) in più gradi di giudizio, nel senso che la pluralità di gradi comporta per definizione la possibilità di giudizi diversi di grado in grado, altrimenti la pluralità di gradi sarebbe un finzione inutile. Può sembrare una forzatura, ma la difformità di esiti è segno di un sistema sano, attento alle sollecitazioni delle parti e capace di correggere i propri errori. L’alternativa è il processo USA alla Perry Mason, dove c’è un solo grado di giudizio nel quale si decide con un bigliettino su cui sta scritto guilty (colpevole) oppure no guilty. E nessuno saprà mai il perché della scelta, non essendoci obbligo di motivazione. Tornando al nostro sistema, ovviamente non si deve dimenticare che esiste il problema della certezza e della prevedibilità della pena, che non sono incompatibili col pluralismo giudiziario. Certezza e prevedibilità di comportamenti sono requisiti tipici di ogni servizio pubblico in un sistema democratico rispettoso dei diritti dei cittadini. Si tratta, allora, di raggiungere un equilibrio soddisfacente tra queste esigenze e la specificità delle funzioni giudiziarie. Ma ho già preso persino troppo spazio e non mi resta che ringraziare l” avv. Petrelli per aver creato un’occasione di confronto con qualche chiarimento da parte mia. A lei, Direttore, grazie per l’ospitalità. Firenze. Detenuto trovato morto a Sollicciano, fece ricorso per le condizioni del carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 24 dicembre 2024 Mohammed Wardi Ahmed, 28 anni, era arrivato a ottobre. Incerte le cause del decesso, si parla di assunzione di alcol e farmaci. Trovato morto in cella a Sollicciano nella notte tra domenica e lunedì un detenuto somalo di 28 anni. Si tratta di uno dei cento carcerati che avevano fatto ricorso ai magistrati per avere la pena ridotta a causa delle condizioni “disumane e degradanti” del carcere fiorentino. A dare l’allarme, intorno alle 4.45, è stato il compagno di cella, che ha chiamato gli agenti penitenziari che hanno constatato il decesso. Ancora da accertare le cause, se morte naturale o altro, tra cui un’ipotesi di overdose anche se non sembra che il giovane facesse uso di sostanze. Sul corpo dell’uomo verrà adesso eseguita l’autopsia. Il ragazzo sarebbe dovuto uscire dal carcere a novembre 2025. “Era uno di quei detenuti che aveva fatto un reclamo - ha spiegato Emilio Santoro dell’Altro Diritto - per avere la riduzione della pena perché era tanto che stava in quelle condizioni, ma per fare delle considerazioni più approfondite dobbiamo capire meglio dall’autopsia e parlare con persone che l’hanno visto più di recente”. Il recluso africano, che si trovava all’interno delle celle del reparto penale, “era arrivato da Roma tre mesi fa, una persona tranquillissima che non aveva mai avuto nessun problema”. A dirlo è Giuseppe Fanfani, garante regionale dei detenuti, che due settimana ne fa aveva visitato l’istituto penitenziario fiorentino. “Ho visto un po’ di celle e confermo che non è umano vivere in quel modo, non ci sono condizioni corrette di detenzione, è una realtà incivile”. Il giovane, ribadisce il garante dei detenuti di Firenze, Eros Cruccolini, “non era assolutamente attenzionato poiché non aveva mai dato segnale di alcuna problematicità”. Tuttavia, “la situazione nelle carceri è drammatica e lo sarà sempre di più perché con non si fa niente per il sovraffollamento. Sollicciano ha poi l’aggravante della struttura, il ministro Nordio dovrebbe venire a vederla, faccio appello alle istituzioni locali per invitarlo. La prima cosa da fare, però, è quella di ascoltare i detenuti. Dobbiamo costruire un nuovo padiglione ed abbattere quelli invivibili”. Di “carcere allo sbando più totale” parla Eleuterio Grieco, segretario generale regionale della Uil Pa polizia penale. “Manca la direttrice, che è in malattia da un mese, in alcuni giorni non c’è l’acqua in una cella, altri giorni non c’è acqua in un’altra cella. E poi il riscaldamento va a singhiozzo. Insomma, sembra che il mondo degli ultimi non interessi più a nessuno”. La condizione direttiva è assai precaria visto che, come raccontato nei giorni scorsi dal Corriere Fiorentino, si alternano al vertice almeno un direttore ogni settimana, all’indomani dell’assenza per malattia della direttrice titolare Antonella Tuoni. Si tratta dei direttori e delle direttrici che provengono da altri istituti penitenziari della Toscana e che svolgono quindi funzioni part time in due carceri diverse. Parma. Carcere, visita del Garante: “750 detenuti, un numero mai visto” di Christian Donelli parmatoday.it, 24 dicembre 2024 Il Garante Regionale dei detenuti Roberto Cavalieri ha fatto visita al carcere di Parma, nella nottata tra il 23 e il 24 dicembre. “Sono da poco passate le due di notte e da poco sono uscito dal carcere di Parma. Ho voluto effettuare una visita notturna durata 3 ore per vedere dal vivo il lavoro notturno della Polizia penitenziaria. Con un giovane vice-ispettore, a capo della sorveglianza generale dell’istituto, ho fatto il cosiddetto “giro della conta” seguendolo. Si è trattato di una visita a tutti i reparti e sezioni, controllo e firma dei registri, aggiornamenti sulle diverse situazioni che riguardavano i detenuti (per lo più per inviii per le visite d’urgenza) e il personale della polizia. Alla conta si è arrivati ormai a 750 detenuti un numero mai visto prima nel carcere di Parma. Il lungo percorso del responsabile della sorveglianza è stato interrotto una volta per condurre un detenuto in infermeria dove doveva essere curato a seguito di un gesto di autolesionismo. Questa notte è “una notte tranquilla” hanno commentato il medico e gli agenti. Quello della Polizia penitenziaria è un pianeta fatto di dedizione, resilienza, frustrazione, delusione, stress (tanto stress) messo troppo spesso sotto i riflettori della critica. Ma è un mondo molto interessante e che andrebbe conosciuto e studiato dedicandogli maggiore attenzione. Buon Natale alla Polizia penitenziaria”. Trieste: Il Garante regionale in visita al carcere: “Rafforzare il servizio sanitario” stampaparlamento.it, 24 dicembre 2024 Ieri mattina il Garante dei diritti della persona della Regione Friuli Venezia Giulia, Enrico Sbriglia, assieme a Piero Mauro Zanin, già presidente del Consiglio regionale, e ad Anna Malisani del Partito Radicale, hanno effettuato una visita alla casa circondariale “Ernesto Mari” di Trieste, al fine di conoscerne meglio le criticità. Lo si legge in una nota del Garante. Accolta dalla direttrice in missione, che è direttore titolare della casa circondariale di Gorizia, Caterina Leva, dalla comandante Annamaria Peragine e dagli altri operatori, la delegazione ha constatato come fossero in corso importanti lavori di risistemazione interna degli spazi detentivi. Com’è noto, nel luglio scorso c’era stata una protesta violenta da parte delle persone detenute che aveva portato a devastazioni di ambienti e attrezzature, in particolare negli spazi dove era presente l’infermeria; a seguito degli eventi, si registrò anche la morte di un detenuto. Prontamente il direttore titolare del carcere, Graziano Pujia, ora assente per ferie, ha però avviato tutti gli interventi di risanamento nonché di una migliore utilizzazione degli spazi. Percorrendo le sezioni dell’istituto, infatti, si poteva rilevare come esso apparisse un febbrile diffuso cantiere, nonostante la compresenza delle persone detenute. Nello studio del direttore c’è stata poi una riunione con i responsabili dei diversi servizi gestiti in carcere, grazie ai quali sono emerse le maggiori criticità che abbisognano di urgenti iniziative da parte della Regione. Esse, sostanzialmente, sono riferite al servizio sanitario: si rileva il bisogno del rafforzamento dello stesso, nonché di rendere più attrattivo il lavoro degli infermieri e dei medici in carcere. Franca Masala, responsabile del servizio sanitario in carcere, forte anche della sua esperienza sul campo, sottolineava tali strategiche esigenze condivise da tutti. Il Garante ha convenuto pienamente al riguardo, ricordando come fosse stato importante il lavoro degli operatori sanitari durante il periodo dell’emergenza Covid, ma nonostante il loro impegno, poco rispetto alle aspettative si era poi realizzato a favore degli stessi in termini di riconoscimenti concreti, anche di natura economico-contrattuale: “Pure tale circostanza, infatti, rende il lavoro della sanità penitenziaria demotivante, inducendo gli operatori sanitari a preferire altri ambiti lavorativi, compresi quelli della sanità privata”. “È perciò importante - si legge ancora nella nota del garante Sbriglia - che la Regione, che ha competenza esclusiva in medicina penitenziaria, a seguito del passaggio intervenuto anni addietro dallo Stato alle Regioni, forte anche della propria autonomia, compia uno scatto in avanti, addirittura sperimentando modelli organizzativi più confacenti alle esigenze del mondo penitenziario, anche sfruttando al massimo le nuove tecnologie, ivi comprese quelle della telemedicina”. Per quanto, infatti, non si potrà mai prescindere dall’assicurare nelle carceri un continuo presidio “in presenza” di medici e infermieri all’interno delle strutture penitenziarie, pure al fine di un maggior contenimento delle spese sanitarie, “non sfuggirà che ricorrendo all’esterno solo quando fosse davvero necessario si eviterebbe l’eccessiva occupazione di posti letto negli ospedali e/o l’intasarsi pericoloso dei pronto-soccorso”. L’auspicio, per il Garante, è che si pervenga a una migliore caratterizzazione amministrativa della medicina penitenziaria, pure al fine di avere una “regia” unica dei servizi sanitari nelle cinque carceri della regione dove invece, e questo rappresenta un evidente segno di criticità, risulta assicurato un servizio diverso in ogni struttura, determinando una ingiustificata disparità di trattamento che potrebbe esporre a ulteriori censure e rischi la stessa Amministrazione regionale. “Il Garante, al riguardo, confida nell’impegno che certamente ci sarà da parte dell’assessore alla Salute Riccardo Riccardi”. Altra criticità osservata è quella riferita “alla carenza di copertura di psicologi nella struttura triestina, in quanto i professionisti in questione sono pagati, in questo caso dal ministero della Giustizia, ad ore, con corrispettivi economici assolutamente inadeguati. È stato riferito che non solo verrà ridotto il numero delle ore, già insufficiente, ma anche quello delle unità impiegate. Questo a partire dal prossimo mese di gennaio”. Si comprenderà, pertanto, come tale circostanza rappresenti un pericolosissimo vulnus per la gestione delle persone detenute le quali, interrelazionandosi con lo psicologo, possono trarne importanti benefici che si riflettono sulle condotte personali, favorendo il calo di pulsioni suicidarie, la migliore comprensione delle proprie condotte antisociali, l’aggressività e via dicendo. Il Garante ha inoltre rimarcato la circostanza che pur trattandosi, quella penitenziaria, di una sola grande comunità, essa è contraddistinta da più famiglie: quella delle persone detenute e l’altra delle persone detenenti, ma identico è il tetto sopra le loro teste. A sua volta, la famiglia dei detenenti è essa stessa costituita da più sottocomunità: quella del personale della polizia penitenziaria, del personale specialistico e amministrativo del Dap, della Sanità, del mondo della scuola, della formazione professionale, del volontariato... Realtà finalizzate a realizzare il bene della sicurezza. Una sicurezza che deve sapere guardare e sollevare le persone, giammai piegarle, stritolarle e annichilirle. “Nel corso dei colloqui con gli operatori penitenziari - aggiunge il Garante - si è pure parlato dell’importanza di consentire alle persone ristrette di coltivare le proprie fedi religiose improntate al rispetto degli altri. Il padre gesuita Silvio Alaimo, storico cappellano del carcere, ha poi portato la delegazione a visitare la locale cappella, non mancando di sottolineare come essa venga ‘rispettata’ da tutti i detenuti presenti in carcere, perché luogo di conciliazione e di ripensamento, a prescindere dalle fedi professate dagli stessi”. La coincidenza del termine di un corso di pasticceria a favore delle persone detenute di sesso femminile ha consentito al Garante e alla delegazione in visita, prima di congedarsi dalla struttura carceraria, di assaggiare alcuni dolciumi: “Si percepiva - conclude la nota - il sapore dell’impegno di chi è alla ricerca di una seconda chances: anche in questo modo si fa sicurezza, però permanente”. Bergamo. Fra le detenute in cerca di riscatto: “Dopo due anni in cella, ho rivisto i miei tre figli” di Donatella Tiraboschi Corriere della Sera, 24 dicembre 2024 Il vescovo Beschi in visita in via Gleno: “Come Elisabetta, vorrei diceste “no” a cosa non è giusto”. La detenuta più giovane ha 19 anni ed è finita dentro per una rapina, la più anziana ne ha 73. È il sorriso di don Fausto Resmini che segna il percorso nella visita al carcere. Le sue foto si trovano appese un po’ dovunque, sui muri e sulle porte fino all’ingresso della sezione femminile. Le sbarre del portone di ferro, oltre il quale si intravedono le 16 celle, sono addobbate con un festone verde, il colore della speranza, mentre lo stipite della porta del locale che funge da piccola chiesa (una semplice stanza con immagini sacre e sedie) è sormontato da una scritta: misericordia e perdono. Non è la porta santa che Papa Francesco aprirà a Rebibbia tra qualche giorno, ma il significato è lo stesso: credere nella possibilità di riscatto. Le detenute aspettano il vescovo Francesco Beschi, le sue parole. Lo ringraziano, gli offrono un regalo, un portacandela con la capanna, gli affidano i messaggi incentrati sul tema dell’attesa. Ognuna delle 39 detenute declina, in modo personale, il significato di questa parola: attesa come “aspettare che finisca la mia condanna”, come “aspettare e rassicurare i miei figli”, come “poter sperare che si realizzino le mie aspettative, dopo essere sprofondata in un mare di guai e pensare di non rifare gli stessi errori”. Suor Margherita, che con due altre consorelle vive in carcere con loro, tiene la mano sulla spalla della più giovane, 19 anni, finita dentro per una rapina sei mesi fa, mentre la più anziana ha 73 anni. Per la ragazza sarà il primo 25 dicembre in carcere, per la seconda solo l’ultimo di una lunga serie. Lunga come la serie di reati che la inchioda qui da anni. Sono donne, figlie, ma soprattutto madri a una delle quali questo Natale ha portato il regalo più bello. “Dopo due anni ho rivisto finalmente i miei tre figli, il più grande ha 15 anni ed è cresciuto tantissimo”, racconta con orgoglio. L’emozione è forte, ma il vescovo riesce a stemperarla complimentandosi per l’esecuzione delle canzoni, rivelando come incontrandole “lo sguardo su di voi è diverso. Non mi capita di incontrare tante donne tutte insieme”, afferma strappando a tutte un sorriso, richiamando in particolare la figura di Elisabetta come la donna che “ebbe il coraggio di dire di no, chiamando suo figlio Giovanni. Ed è lo stesso no che vorrei anche voi foste capaci di dire guardando al vostro futuro, dicendo “no” a ciò che non è giusto e umilia la vostra dignità. Anche il tempo del carcere è tempo di Dio”. Nell’accogliere il regalo delle detenute (tre pigne di ceramica realizzate nel laboratorio del carcere), la direttrice Antonina d’Onofrio richiama il valore del tempo e del dialogo, anche con la città. La presenza della presidente del Consiglio comunale Romina Riccardi e dei rappresentanti di varie associazioni testimonia la vicinanza alla struttura penitenziaria, dove, rimarca d’Onofrio, “il compito di chi lavora è di impiegare il tempo, dando valore alle persone perché possa, da luogo di costrizione, diventare di rinascita. È un percorso positivo che devono affrontare tutti per garantire la possibilità di una seconda e anche terza rinascita”. Gli uomini che, nelle parole di Beschi alle carcerate, erano rimasti sullo sfondo, si prendono la scena nella sezione penale, dove l’aria si fa pesante in una sala dove tutte le sedie sono occupate. In piedi ci sono diversi stranieri, in lontananza arrivano urla e qualche bestemmia, mentre un detenuto si avvicina al podio per il saluto a “sua eccellenza”. Lo pronuncia con una voce stentorea, da oratore perfetto, snocciolando, un foglio dopo l’altro, numeri e percentuali che danno l’esatta misura della gravità della situazione carceraria in Italia. “Anche a Bergamo c’è un tasso di sovraffollamento del 150% e chi parla dello svuotacarceri come regalo dello Stato alla criminalità non sa che cosa è il carcere e la sua realtà infernale. Anche gli operatori sono in emergenza, ma ci permettiamo di dire che forse una forma di apertura potrebbe servire per evitare disagi più gravi in futuro”. “Senza grazia e misericordia non si può vivere e voi stessi siete capaci di misericordia”, li rincuora il vescovo, con D’Onofrio che si impegna a reperire a breve una nuova stanza dove i 12 carcerati universitari possano trovarsi per studiare. Il brillante oratore è uno di loro. Studia Giurisprudenza con profitto. Fermo. Natale in carcere con tante attività Il Resto del Carlino, 24 dicembre 2024 Grazie alla collaborazione tra la Casa di Reclusione di Fermo e le tante associazioni sportive e di volontariato presenti sul territorio e che hanno risposto positivamente all’invito della direzione di prendere parte con le loro iniziative alle attività da proporre ai ristretti per il periodo delle festività natalizie, il Natale è arrivato anche nella Casa di Reclusione di Fermo. Dopo il successo che ha avuto la iniziativa della “Pallina sospesa” patrocinata dal Comune di Fermo, molteplici sono le attività che si stanno svolgendo in questi giorni in favore dei detenuti. Nel pomeriggio di sabato 21 dicembre 2024, si è svolto un torneo di freccette organizzato dalla sezione territoriale della Federazione Italiana Gioco Freccette. Domenica, invece, è stato il momento de “Li Pistacoppi”, gruppo musicale folkloristico noto non solo nel territorio fermano. Inoltre, la Santa Messa della quarta ed ultima domenica di avvento è stata celebrata dall’Arcivescovo di Fermo, Mons. Rocco Pennacchio, insieme con il Vescovo Emerito Mons. Armando Trasarti. Si è trattato di un momento di grande commozione, che ha visto uniti i detneuti assieme ai volontari ed agli altri operatori del carcere. Presenti anche il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, dott.ssa Loredana Napoli ed il Direttore, dott.ssa Serena Stoico. Lunedì mattina si è esibita la Mabo Band accompagnata da una delegazione dell’Ente Clown&Clow Festival di Monte San Giusto. Il gruppo ha portato una ventata di allegria tra i detenuti che hanno partecipato numerosi. Nei prossimi giorni è previsto uno spettacolo di Alessandro Marziale della scuola di musica “Il Misiquario”, nonché, un pomeriggio di arte con l’associazione “La valigia delle meraviglie”, una giornata di Pet Therapy, un corso di fumettistica ed un momento Karaoke. Infine, tra gli eventi più attesi vi è la tombolata che si terrà con lo Staff ed i giocatori della Fermana F.C. il 3 gennaio. “Come noto -spiega la direzione - il periodo delle festività natalizie è particolarmente difficile per quanti si trovano in stato di privazione della libertà personale, lontani dai propri affetti e dalle proprie famiglie. Le attività organizzate vogliono contribuire ad alleviare il disagio che investe i detenuti in questi giorni”. Milano. “Fuori di cella”: su Radio Popolare gli auguri dei detenuti alle famiglie di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2024 Mogli, figli, mamme, papà, fratelli di persone detenute, dalle nove alle dieci e mezza del 25 dicembre, potranno telefonare in diretta allo 02.33001001 e rispondere ai messaggi di auguri raccolti nelle carceri. A portare il Buon Natale nelle carceri di Bollate, Rebibbia e Lodi quest’anno ci hanno pensato i volontari e “Radio Popolare” che domattina farà da “ponte” tra i detenuti e i parenti che grazie alle frequenze della storica radio milanese potranno scambiarsi gli auguri pur non vedendosi in faccia. Protagonista dell’iniziativa “Fuori di cella” sarà la parola: quella delle persone in cella, registrata nei giorni scorsi con l’autorizzazione delle direzioni; quella di mogli, figli, mamme, papà, fratelli che dalle nove alle dieci e mezza potranno telefonare in diretta allo 02.33001001 per far arrivare i loro messaggi a chi è in stato di detenzione; quella di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, presidente e coordinatrice di Antigone, ma anche conduttori a “Radio Popolare” di “Jailhouse Rock” che saranno in studio per concertare le voci di tutti. L’idea è nata dai volontari che da quest’anno all’interno della casa circondariale di Lodi hanno ridato vita al mensile dei detenuti pubblicato all’interno del quotidiano “Il Cittadino”. A raccontare a “Il Fatto Quotidiano.it” la gestazione di quest’iniziativa è Andrea Ferrari, presidente del circolo Arci “Ghezzi” di Lodi ed ex assessore alla Cultura del Comune: “Anni fa quando pubblicavamo il giornale “Uomini Liberi” lo storico direttore del carcere Luigi Morsello ci concedeva di trascorrere, vestiti da Babbo Natale, la notte in cella con gli “ospiti” del carcere. In quelle serate ci siamo accorti della solitudine, dell’ulteriore emarginazione, della tristezza che si respira in galera in quelle ore in cui tutti sembrano essere felici, in cui tutti possono almeno abbracciarsi. Qualche anno fa avevamo fatto un primo esperimento con Radio Lodi. Ora abbiamo pensato di fare la stessa proposta a Radio Popolare estendendola ad altre realtà”. Immediata la risposta positiva ed entusiasta della direttrice Lorenza Ghedini e di Claudio Agostoni che hanno messo a disposizione gli studi per rendere realizzabile quanto pensato da Ferrari e dagli altri. Nei giorni scorsi gli operatori della Cooperativa “Articolo 3” del carcere di Bollate e i volontari di Roma e Lodi hanno raccolto decine di messaggi dei detenuti che saranno messi in onda domattina e potranno essere ascoltati dai parenti sintonizzandosi sui 107.6 di Radio Popolare. Allo stesso tempo, in diretta, quest’ultimi potranno ricambiare gli auguri che saranno ascoltati in cella. Non solo. In questi giorni al circolo “Ghezzi” sono state raccolte decine di radioline che sono state donate agli ospiti della casa circondariale. “Ciò che facciamo - continua Ferrari - è solo un dono del nostro tempo a chi a Natale non può nemmeno abbracciare i più cari. È simbolico che in questo storico momento in cui si parla spesso di carceri e delle loro condizioni, la radio diventi un’occasione per costruire relazioni. Un primo passo per magari, un giorno, realizzare un’emittente dietro le sbarre che dia la possibilità a chi deve scontare la pena di avere comunque voce”. Milano. Diventa un video il progetto di Sacra Famiglia nel carcere di Opera chiesadimilano.it, 24 dicembre 2024 “La cura improbabile” è il toccante documento di un’esperienza straordinaria di incontro e rinascita. Una storia di Natale fuori dagli schemi. Un video per dare voce e visibilità a un progetto unico in Italia: “Emozioni all’Opera”. Promosso dalla Fondazione Sacra Famiglia in collaborazione con l’Associazione In Opera, l’iniziativa coinvolge un gruppo di pazienti psichiatrici e una ventina di detenuti del carcere di massima sicurezza di Milano Opera. Il video, disponibile sul canale YouTube di Fondazione Sacra Famiglia, documenta questa esperienza straordinaria e offre uno sguardo inedito sul potere delle relazioni. La forza delle relazioni - Il progetto nasce per abbattere gli stereotipi legati a due mondi spesso tenuti ai margini della società: quello dei detenuti e quello dei pazienti psichiatrici. L’obiettivo è superare etichette come “delinquente” o “matto”, favorendo il dialogo, lo scambio di esperienze e l’amicizia in un contesto del tutto inaspettato come il carcere. Proprio da questa consapevolezza è nato il titolo del video, “La cura improbabile”, che racconta un percorso di terapia basato su relazioni autentiche, apertura, incontro e vicinanza. Una “cura” che non utilizza farmaci ma offre risultati tangibili: come racconta uno dei protagonisti del video: “Tra noi sono nate amicizie fraterne”. Un progetto che guarda al futuro - Attivo dal 2018, “Emozioni all’Opera” si svolge in collaborazione con l’Associazione In Opera e coinvolge sei utenti del Centro Psichiatrico Il Camaleonte della Fondazione Sacra Famiglia e circa 20 detenuti del carcere di Opera, di origini italiane e straniere. Due volte al mese, i due gruppi si incontrano all’interno del carcere per condividere attività terapeutiche, momenti di dialogo e confronto. Le attività seguono il metodo del Camaleonte, puntando su parole chiave che favoriscano empatia e conoscenza reciproca. Fondamentale per il successo del progetto è stata la collaborazione della direzione del carcere di Opera e il sostegno attivo del personale di polizia penitenziaria, che ha fatto sentire a casa gli ospiti di Fondazione. Un video per raccontare un’esperienza unica - Il video, ideato da Barbara Migliavacca e Giovanna Musco, con testi di Gabriella Meroni e regia di Roberto Morelli, è una testimonianza diretta di quanto l’incontro e la relazione possano cambiare la vita delle persone. Ora disponibile sul canale YouTube di Fondazione Sacra Famiglia, “La cura improbabile” è un invito a guardare oltre e costruire ponti tra mondi apparentemente lontani; una dimostrazione di come l’amicizia e la libertà possano sbocciare anche nei luoghi più inaspettati. Giotto, la “normalità eccezionale” di una cooperativa in carcere di Ilaria Dioguardi vita.it, 24 dicembre 2024 Vera Negri Zamagni, storica dell’Economia, ha analizzato per due anni il lavoro della cooperativa sociale nata nell’istituto di pena di Padova. Ne ha tratto un libro per l’editrice Il Mulino. Spiega a Vita: “Dovrebbe essere normale che nelle carceri si dia lavoro alle persone detenute, invece ahimè non lo è. Mi è sembrato importante, con questo mio lavoro, mostrare che si può fare e come si può fare”. La cooperativa sociale Giotto “oggi non esisterebbe, se le persone che ne hanno dato il via nel lontano 1986 non avessero incontrato la figura di un prete straordinario impegnato con la vita fino nel midollo. Si tratta del servo di Dio don Luigi Giussani. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo sa bene quanto amasse la vita. Ci ripeteva spesso: “Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione”“. Lo scrivono Nicola Boscoletto e Andrea Basso nella prefazione del libro La cooperativa sociale Giotto. La normalità eccezionale (casa editrice Il Mulino) di Vera Zamagni, studiosa di storia economica e docente all’Università di Bologna e al Sais-Europe di Bologna. A metà degli anni Ottanta una piccola compagnia di laureati in Scienze agrarie e forestali decide di fondare una cooperativa per offrire servizi di creazione e manutenzione di parchi e giardini. Nacque così Giotto. Zamagni, perché ha scelto di dedicare un libro a questa cooperativa sociale? Sono 30 anni che studio il movimento cooperativo e ne ho scritto tanto, ma mai di cooperative sociali. Ero incuriosita. Poi Giotto ha una caratteristica molto particolare, è una cooperativa di tipo B: mette al lavoro persone svantaggiate di vario genere, tra cui i detenuti, come quelli del carcere di Padova. Molto spesso le cooperative danno lavoro ai carcerati, ma a quelli che possono uscire di giorno o che sono già usciti dal carcere, quindi li mettono al lavoro fuori. Questa cooperativa ha procurato lavori di svariato genere dentro il carcere. Ad esempio, c’è una pasticceria che produce dolci di vari tipi, in particolare i panettoni che vengono venduti in tutta Italia (nell’ultimo periodo hanno avuto molto da fare). E poi anche le colombe a Pasqua e tanti altri dolci che vendono tutto l’anno. Quali altri lavori si fanno nel carcere Due Palazzi di Padova, grazie alla cooperativa Giotto, che vi opera da circa 30 anni? Il montaggio di vari prodotti, dalle valige alle biciclette, ai gioielli. In tempi più recenti, anche il lavoro di contact center, che loro hanno anche fuori: la cooperativa oggi occupa 600 addetti, di cui più di una metà con qualche tipo di disabilità. La cooperativa non può lavorare solo in carcere chiaramente, ha anche tutta un’attività fuori, in uffici e in ambiti edilizi diversi dal carcere. Giotto si occupa anche di gardening: mette a posto i parchi e i giardini, fa lavori di piantumazione. E si occupa anche della raccolta dei rifiuti. Questa cooperativa trova un lavoro per includere: questo è il suo marchio. “Dal 2015 Giotto è tra i principali promotori del “Coordinamento Carcere Due Palazzi”, che riunisce circa una ventina di realtà sociali attive all’interno delle carceri patavine”, si legge nel capitolo settimo “La sussidiarietà circolare”, nel quale si parla delle collaborazioni che la cooperativa mantiene con i più svariati soggetti: profit, non profit e cooperativi. Quanti sono i detenuti che, nel carcere di Padova, sono coinvolti in lavori tramite la cooperativa Giotto? Più di un centinaio, hanno dei contratti nazionali, come tutti i detenuti che lavorano. Dipende anche dalla situazione del carcere perché, ovviamente, non tutti i carcerati possono essere messi al lavoro. Ma lavorano anche degli ergastolani: non dipende dalla lunghezza della pena, ma dal tipo di persona. Anche il carcere di Opera, vicino Milano, dà lavoro a detenuti; in molti casi, i numeri dei ristretti che hanno un lavoro in carcere sono piccoli. Quello della cooperativa Giotto è un caso molto particolare, ha fatto anche un lavoro culturale molto importante con i ministeri, per varare leggi che permettano questo, anche se poi, in realtà, non sono tante le carceri che sono andate in questa direzione. C’è, per esempio, un bellissimo accordo, che spiego nel libro, con l’istituto penitenziario di Alcamo in Sicilia. Però, carceri in cui ci sono accordi di questo tipo sono una rarità. Come spiega anche con il sottotitolo del suo libro: “La normalità eccezionale”... Dovrebbe essere normale che nelle carceri si dia lavoro alle persone detenute, invece ahimè non lo è. Mi è sembrato importante, con questo libro, mostrare che si può fare e come si può fare. Con il lavoro in carcere si abbatte anche, in maniera importante, la recidiva… Sì, è dimostrato scientificamente. Ma è una lezione che non si impara perché, ripeto, non sono tante le carceri che danno questa possibilità ai detenuti. Per quello ho messo questo sottotitolo “La normalità eccezionale”: dovrebbe essere normale non far “ricadere” i carcerati, invece non lo è. Mi è parso molto opportuno far vedere che, in realtà, si potrebbe, se si volesse. È molto importante guadagnare soldi per le persone in carcere: possono aiutare la famiglia, possono pagare un avvocato che li difenda un po’ meglio. Nel suo lavoro spiega anche come si riesca a tenere in piedi, e saldamente, la cooperativa Giotto... Sì, ci riesce facendo continui progetti di investimento. Giotto deve investire costantemente per rendere produttivi i progetti sia in carcere, sia fuori. Investe molto, sia in formazione che in strutture fisiche. Questo libro è il frutto di due anni di lavoro... Ho letto molti documenti della cooperativa e ho intervistato più di 30 soggetti che hanno in mano la direzione di tutte le varie aree di Giotto. Il capitale trascurato del bene di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 24 dicembre 2024 Il valore della solidarietà italiana è altissimo e sottostimato. È costituito da milioni di persone, volontari, caregivers che ogni giorno fanno qualcosa per gli altri, i più fragili. E, a volte, non ci tengono nemmeno a farlo sapere. Facciamoci un regalo. Non costa nulla. Quale? Un attimo d’attesa. L’Italia ha un grande capitale sociale che non è purtroppo un attivo patrimoniale. Invidiato da altri Paesi più ricchi di noi. Avessimo potuto contabilizzarne gli effetti nella legge di Bilancio - aggredita dalle corporazioni e veicolo di mance e mancette - trascorreremmo un Natale più sereno. Avremmo meno timori nel futuro. Il valore della solidarietà italiana è altissimo e sottostimato. È costituito da milioni di persone, volontari, caregivers che ogni giorno fanno qualcosa per gli altri, i più fragili. E, a volte, non ci tengono nemmeno a farlo sapere. Non c’è bisogno reale che non abbia un’offerta d’aiuto. Al di là di qualche eccesso di retorica, l’Italia è davvero un Paese con il cuore in mano. Semmai c’è un problema di associazioni (tantissime) troppo piccole, di slanci tanto entusiastici quanto improvvisati, di una perdonabile vanità del bene. Quello che è insopportabile è lo scialo nazionale di questo patrimonio di attività. Sono poche le sinergie, trascurabili le economie di scala. Il futuro è delle comunità. Più grandi saranno più forte risulterà il Paese. Affiancheranno o sostituiranno in molte attività uno Stato che avrà sempre meno risorse a disposizione nell’affrontare, per esempio, la non autosufficienza, l’esplosione delle malattie croniche, la povertà materiale ed educativa. E non ci si potrà affidare (come avviene con sempre maggiore frequenza nella Sanità) alle dinamiche del mercato. Non riusciamo, tranne pochi casi, a dare una dimensione nazionale a tante e lodevoli iniziative. Nell’era (forse già calante) delle autonomie differenziate, dovremmo riscoprire la centralità nazionale di molte iniziative solidali (a favore di giovani, immigrati, anziani, famiglie con disabilità). Insieme il dividendo del bene cresce. L’efficienza è un dovere verso chi dona e non mette in conto di perdere l’effetto della propria generosità. Lo spreco è un aiuto negato a chi ne ha bisogno. Non c’è fervore volontaristico che possa giustificarlo. Dobbiamo sconfiggere l’ossessione (succede così anche per le attività economiche) che la dimensione faccia perdere l’anima e trasformi le associazioni in aziende. Combattere l’idea perversa che nel mondo del volontariato e del privato sociale tutto ciò che è piccolo sia autentico e tutto ciò che è grande tradisca lo spirito originario. La sostenibilità delle aziende (il senso percepito dal pubblico della loro utilità sociale) è legata al loro rapporto con il territorio e con le comunità di riferimento. Più la relazione è forte, più saranno attraenti distretti e comprensori come destinatari di investimenti, in particolare esteri, a beneficio del reddito e dell’occupazione. Tutto ciò è anche un fattore di competitività del made in Italy. Ma non è questo l’aspetto importante, dirimente. Conta lo spirito della comunità, non la sua ricchezza. Il migliore dei regali che possiamo augurarci è di fare qualcosa - anche poco, un piccolo gesto, un impegno personale non solo un contributo monetario - a favore delle tante comunità solidali di cui è ricco il Paese. Costa poco, rende molto. È sempre un antidoto al rancore sociale. In molti casi è anche la cura della solitudine. Migliora l’umore, dà senso alla cittadinanza. Che cosa vogliamo di più? P.S. Generalmente quando si parla di questi temi, c’è sempre qualcuno che tira fuori De Amicis, con l’intento di banalizzare ogni proposito. Ma forse, con tutto il rispetto per Umberto Eco e per il suo celebre Elogio di Franti, è il momento di rivalutare Garrone e smetterla di considerare i buoni, sotto sotto, degli ingenui per non dire peggio, ma è Natale. La generazione ansia e il pifferaio magico di Silvia Avallone Corriere della Sera, 24 dicembre 2024 Ho letto il saggio di Jonathan Haidt dal sottotitolo “Come i social hanno rovinato i nostri figli” e vorrei che in Italia e nel mondo producesse lo stesso casino che ha provocato negli Usa. Erano meno ansiogeni gli anni prima dello smartphone, con il cellulare e Internet sul pc a casa. “Fossero almeno felici! Ma non lo sono: al contrario, sono tristi” mi racconta un’insegnante delle superiori, “non li abbiamo mai visti così tristi prima dell’avvento degli smartphone”. “Tutti gli anni, e sottolineo tutti, si verifica almeno un caso di una ragazza che cambia scuola dopo la diffusione di foto intime sui social” si sfoga una docente delle medie, “e non ti dico i pianti e le angosce per queste chat piene di insulti e derisioni”. “Li chiamano nativi digitali, ma conoscono TikTok e YouTube, di rado altri programmi” si sfoga una sua collega, “faticano a scrivere in corsivo. Non tutti: ci sono i ragazzini più seguiti, le ragazzine che leggono libri su libri. Ma poi ci sono quelli che si addormentano sul banco perché hanno passato la notte ai videogiochi”. “Ho dato il cellulare a mio figlio all’inizio della seconda media. Ho resistito il più possibile, poi ho ceduto. Perché come fai? Se ce l’hanno tutti... È una pressione continua. Hai paura di tenerlo isolato. Allora ti arrendi e, subito, l’ho visto trasformarsi: cupo, nervoso. Ha smesso di uscire volentieri, lo devo costringere” mi ha detto una mamma con angoscia. “Sai cosa penso? Che adesso sia più solo di prima”. “Poi glielo togli” interviene un’altra (ci troviamo a un compleanno di bambini e la conversazione cade, immancabilmente, sul tema), “e, dopo le prime proteste, lo vedi rinascere. Lo mandi a giocare a calcio tutto il giorno in un campetto, e torna lui. Non è vero?”. “Sì, è vero”. “E allora perché ci adeguiamo? Perché non facciamo niente?”. “Perché ce l’hanno tutti” è la classica obiezione che sento. Ma non è mai un’obiezione convinta: è una resa. Lo vedo, ovunque io guardi: sui treni, ai ristoranti, nelle sale d’aspetto, persino al parco giochi. Quando mi avvicino per sbirciare cosa guardano quei bambini rapiti, lo sguardo fisso, sono sempre video coloratissimi, velocissimi, che bombardano di immagini ipnotiche. E non riesco a non percepire, in questo incantamento, una potenza opposta a quella che esercitano i libri. Si intravede dagli occhi, dai muscoli del volto. Ma soprattutto dal ritorno dopo il viaggio. Quanti genitori mi hanno raccontato di crisi d’astinenza dopo aver tolto dalle mani dei figli (bambini o preadolescenti) lo smartphone. In molti mi hanno restituito uno stato di scontrosità e nervosismo: gli effetti universali di una dipendenza. D’altra parte, sono le stesse conseguenze che subisco io da adulta: lo svuotamento dopo una navigazione passiva, il contrario del pieno - di riflessioni, domande, sentimenti - dopo una lettura coinvolgente. Eppure, le biblioteche per bambini e per adulti sono, nonostante la loro bellezza e ricchezza, poco frequentate. Mentre su ogni mezzo di trasporto, per ogni strada, a ogni bar, e persino davanti a uno scivolo, vedo bambini con uno smartphone in mano accanto ad adulti con uno smartphone in mano. Sospesi in un silenzio irreale, come satelliti in orbita rispetto al mondo e agli altri. Jonathan Haidt, ne La generazione ansiosa, parla dell’esperimento più gigantesco e controverso dell’umanità. Perché fornire a un bambino uno smartphone connesso sempre e ovunque ai social network equivale a spedirlo su Marte. E noi lo abbiamo fatto: ci siamo buttati a capofitto su uno strumento senza conoscerne i possibili effetti, senza gli studi e le informazioni necessarie a padroneggiarlo con responsabilità. In buona fede, ma alla cieca, abbiamo dato questo strumento anche ai bambini e agli adolescenti. Venivamo da anni felici: quelli del cellulare e di Internet a casa sul pc. Due innovazioni che ci avevano avvicinati, spalancato il mondo, promesso più democrazia. Quindi abbiamo accolto fiduciosi i passi successivi di queste tecnologie. E poi, bisogna essere onesti, che facilitazione! Bambini e adolescenti sono ribelli per struttura: farli mangiare a tavola composti, impedirgli di non cacciarsi nei guai, è un’impresa. Non lo dicono prima, ai genitori, quanto sia difficile, faticoso, stancante, crescere un figlio. A volte ci ritroviamo così fragili, così spaventati, e quell’oggetto incantatore, come il flauto magico, ci promette una soluzione immediata, apparentemente indolore. Come il gatto e la volpe, ci imbonisce. E noi ci cadiamo. E il dolore verrà: il prezzo amaro da pagare per un’ora più facile da gestire. Qualcosa è successo, di segno opposto alle speranze iniziali, nell’impatto delle tecnologie della comunicazione sulle nostre vite. La promessa di una maggiore liberazione si è tramutata, molto spesso, in una maggiore dipendenza. Haidt individua questo momento cruciale nell’avvento dello smartphone con videocamera frontale e connessione Internet veloce. Con milioni di app, videogiochi, social sempre in tasca, sempre a chiamarci, irresistibili come il canto delle sirene. Perché questo, in fondo, è lo scopo con cui sono stati congegnati: trattenerci, rapirci (e farci spendere, e orientarci politicamente). Sussurrandoci: ogni tuo desiderio sarà esaudito. Subito. Cosa vuoi comprare? Chi vuoi sbirciare? Cosa vuoi ascoltare? A chi vuoi scrivere? Ti stai annoiando? Hai un problema di salute? Qui trovi tutto. E il “tutto” è un mostro abbagliante, il “tutto” è l’anticamera del disastro. Perché cosa siamo noi esseri umani senza desideri? Cosa siamo senza conflitti e confronti? Senza volto affacciato su un altro volto e relazioni prive di secondi fini? Ma un conto è sperimentare senza paracadute e libretto d’istruzioni da adulti, un altro è farlo da bambini, quando ci formiamo. Smartphone e social in tenera età hanno, spiega Haidt, riconfigurato l’infanzia. Sostituito il gioco e l’incontro qui e ora, nella carne del mondo, con uno stare sempre altrove. Non quello dell’arte, dei sogni, dell’immaginazione, della lettura. Bensì un altrove che per lui assomiglia a un deserto lunare, a un’assenza di tutti gli stimoli di cui un bambino ha bisogno per crescere. Povero anche di quelle opportunità e di quelle relazioni di cui gli adolescenti necessitano per fiorire. Lo si capisce leggendo Haidt, ma anche guardandosi intorno, leggendo i casi di cronaca agghiaccianti che hanno per protagonisti sedici-diciassettenni. Forse possiamo dircelo: che abbiamo sbagliato. Ad avere tutta quella fiducia, a usare senza prima sapere e capire. È difficile ammetterlo. Ma tutti noi sbagliamo continuamente, e solo grazie ai nostri errori impariamo, correggiamo il tiro. Sono i social a dirci che non possiamo sbagliare, pena insulti, perdita di follower, di status, pena il blocco. Ma è una bugia: non c’è altro modo di crescere se non cadendo. Non c’è altro modo di essere amati e amare se non negli errori e nei cambiamenti. Ho accennato ai libri, alle biblioteche, che per me sono strumenti e luoghi che allenano alla libertà, all’indipendenza. Non si pensa senza le parole; non si affrontano i problemi, non si concepiscono sogni, non si supera un dolore se non si è capaci di dare loro un nome. Ecco, le parole sono proprio il bene fondamentale che l’uso precoce, sregolato e illimitato degli smartphone ha impoverito. Le parole sono il medium per eccellenza tra l’interiorità e l’esterno, tra le nostre emozioni, i sentimenti, i ragionamenti - invisibili - e quelli degli altri. E le parole si apprendono. Attraverso maestri che guidano, pagine che si sfogliano, il dialogo a viso e cuore aperto con gli altri. Esiste un luogo deputato alla fioritura delle parole, del pensiero, delle relazioni sociali e dei sogni: la scuola. E quando penso che dobbiamo fare qualcosa per invertire l’impoverimento e affrontare la spirale di disagio giovanile che coincide anche con l’irruzione pervasiva di social e digitale nelle loro vite, penso alle classi, ai corridoi e ai cortili scolastici come primo cantiere di reazione. Alle scuole dovrebbero andare i più grossi investimenti economici, di idee ed energie, per farle diventare luoghi non solo liberati dal richiamo continuo degli smartphone per permettere a bambini e ragazzi di concentrarsi, parlarsi, giocare, ma anche agenzie che forniscono un’educazione a questi strumenti. E, aggiungo, un’alternativa formidabile al virtuale: riportare i ragazzi a terra, farli appassionare al mondo. Per cominciare, si potrebbero tenere aperte le scuole al pomeriggio. Offrire uno spazio concreto per studiare insieme alternativo alla solitudine della propria stanza (con schermo annesso). So di cosa parlo: al ginnasio ho studiato con i miei compagni a scuola al pomeriggio, e ringrazio ancora quei momenti di condivisione, collaborazione e responsabilità. Perché gli adulti ci avevano dato fiducia, ascoltati e trattati da grandi. Non ci vorrebbero chissà quali giganteschi investimenti, no? Ridimensionare le ore al telefono, ampliare quelle di relazioni reali e lavoro di squadra. Credete che i ragazzi si opporrebbero? Credo che dovremmo parlarci di più, con loro. Dovremmo mettere noi per primi in borsa il telefono, alzare gli occhi e guardarli. La figlia di un’amica, all’ultimo anno delle superiori, una sera a cena ha annunciato con orgoglio: “Ho disinstallato TikTok, mi rubava troppo tempo. Voglio studiare di più, fare di più”. Non sottovalutiamoli mai, le nostre ragazze e i nostri ragazzi. Insegniamo loro imparando da loro. Nel saggio di Haidt, il cui sottotitolo è: “Come i social hanno rovinato i nostri figli” - un libro che vorrei facesse in Italia, e nel mondo, lo stesso casino che ha provocato negli Stati Uniti - si spiega bene come le relazioni umane, che sono il cemento della nostra vita, implichino un grande lavoro. Impegno, ascolto, racconto sincero di sé, gestione dei conflitti, empatia, solidarietà, mitigazione dei propri egoismi. L’amicizia è questo. L’amore è questo. La bellezza di accettare e accettarsi, la fatica di riuscirci. E torniamo a questa parola per me centrale: fatica. Discussione costante di sé stessi, scoperta delle proprie ambizioni attraverso il confronto e l’affaccio sul complesso e magnifico mondo interiore degli altri. Ci vuole tempo, ci vuole tanto esercizio attraverso il gioco e l’apprendimento. E ci vuole il corpo: la mimica facciale, la postura, i gesti attraverso cui ci si intende “a pelle”. Il contatto di un abbraccio, di una carezza. Sui social la fatica non esiste. È tutto subito. È sì/no. È 0/1. Se mi fai uno sgarro, ti blocco. Se mi piaci nella frazione di secondo in cui ti dedico attenzione, ti metto un like. Smetto di seguirti se mi annoi. Sui social sono tutto preso a esibire me stesso, e immagino che gli altri mi amino in questa esibizione. Ma non ci può essere alcuna forma di amore in una relazione di superficie che dura tre secondi. C’è un uso, un’illusione di contatto. Un frammento di desiderio subito soddisfatto, subito esaurito. Lo smartphone può servire a molte cose: a cercare una via, a pagare una bolletta senza fare la fila, a comprare qualcosa che non troviamo nei paraggi, a sensibilizzare su un tema. Ma non ad amare, non a crescere. Quando avevo 11 anni, tutti fumavano: nei bar, nei ristoranti, in alcune carrozze del treno. Non si faceva la raccolta differenziata dei rifiuti e la coscienza ecologica era pressoché zero. L’alimentazione non teneva conto né della salute né del rispetto per l’ambiente. Miss Italia era trasmesso in prima serata sul primo canale e rappresentava il sogno obbligato per ogni ragazza: sii bella e sorridi. Ne abbiamo fatti di passi avanti da allora. E ne abbiamo fatti anche alcuni indietro. Quando avevo 11 anni, tutti i miei parenti fumavano. E qualche anno dopo avrei iniziato anche io. Perché? Perché fumavano tutti, appunto. E adesso? Sia io che i miei parenti abbiamo smesso. Se vi sembra che il paragone sia esagerato, 42 Stati degli Usa hanno chiesto l’introduzione di un’etichetta che indichi i social “pericolosi” al pari di alcol e sigarette. Quello che interessa a me, però, non sono tanto i confronti, quanto la genesi delle dipendenze. I ragazzi sarebbero così dipendenti da questi dispositivi se non vedessero noi adulti sempre incollati lì? Ho iniziato la mia personale battaglia con lo smartphone prima di diventare madre: l’ho silenziato, gli ho tolto tutte le notifiche, altrimenti non avrei scritto più niente. Avevo già iniziato ad addomesticarlo, a disubbidire alle sue esigenze per piegarlo alle mie. Ma è stata la maternità a farmi compiere il giro di boa: voglio che le mie figlie mi vedano non con il telefono in mano, ma con un libro. Dopo la notizia che d’ora in poi nelle scuole medie gli smartphone verranno chiusi in una scatola e resi inoffensivi (sono stata di recente in Francia, e lì il bando vale anche per le superiori), abbiamo deciso di farlo anche noi a casa - noi genitori, le nostre figlie sono troppo piccole per averlo. Quando siamo insieme, c’è un baule dove mettere lo smartphone. Perché l’educazione alla tecnologia siamo noi adulti i primi a non averla: mail di lavoro di sabato e di domenica, WhatsApp a qualsiasi ora del giorno e della notte, che ti raggiungono ovunque tu sia, con chiunque tu sia. Amo il computer che sta lì sulla scrivania e non mi viene dietro quando esco. Amo i ritrovi con gli amici durante i quali nessuno, per educazione, per rispetto, ma soprattutto per la voglia di stare insieme, tira fuori uno smartphone. “Ce l’hanno tutti”: ne siamo sicuri? Tutti no. Tra la miriade di articoli che ho letto sul tema ce n’è uno rivelatore. Lo trovate online (ripeto: con educazione e maturità, l’online è portentoso). Si tratta di un reportage di Milena Gabanelli e Fabrizio Tortora su Data Room del Corriere della Sera. Svela come i bambini dei big della Silicon Valley lo smartphone e il tablet non ce l’hanno, o, se ce l’hanno, devono osservare regole stringenti. I figli di coloro che hanno reso i bambini degli altri “la generazione ansiosa” sono tenuti in salvo dall’ansia. Le famiglie più avvantaggiate economicamente e culturalmente crescono i figli lontani dagli schermi, oppure applicano limiti ferrei, mentre le tante famiglie in svantaggio vi ricorrono frequentemente per abbandono sociale e solitudine. Perché se devi lavorare e non hai parenti vicino, se non hai i soldi per una babysitter o un centro estivo o un’attività sportiva, se vivi in una società senza relazioni, come fai a intrattenere un bambino? È l’ingiustizia sociale connessa all’abuso di smartphone che più mi fa rabbia. La solitudine delle famiglie senza reti parentali nelle grandi città, delle madri senza aiuti. Perché i nidi sono costosi e per pochi, le tate un lusso, le scuole al pomeriggio restano chiuse, nei quartieri e nei condomini non ci si conosce, figuriamoci aiutarsi, e allora uno non sa come fare a causa della solitudine, e la solitudine dilaga. Anche perché ci si illude - altro aspetto sviluppato da Haidt - che in casa, davanti allo schermo, i pericoli non ci siano. Laddove in strada, in cortile, in piazza, sia pieno di malintenzionati e maniaci sessuali. Ci si illude di avere tutto sotto controllo, ma in realtà lo perdiamo su quel che è più importante: l’evoluzione sana dei nostri figli, la loro serenità. I social, in cui ci si ostina a non chiedere la carta d’identità agli utenti per registrarsi (una follia), sono zeppi di pedofili che agganciano i bambini sotto mentite spoglie. Zeppi di bulli, di esempi negativi, ed è difficile per un bambino di 11 o 12 anni discernere le persone che offrono contenuti costruttivi da quelle che inviano messaggi pericolosi, le notizie vere da quelle false. A 11, 12 anni ti trovi nell’età più critica in assoluto. Devi capire chi sei, cosa ti piace. Devi staccarti dai tuoi genitori. Sei in balia del giudizio degli altri. Se ripenso alle mie scuole medie, mi tornano in mente tante di quelle crudeltà da parte dei coetanei - che per fortuna non erano amplificate e reiterate dai social. E ricordo tante di quelle stupidaggini che ho commesso - per fortuna sepolte nell’oblio della realtà. Però mi ricordo anche una cosa bella: avere le chiavi di casa, andare a scuola da sola o con le amiche. Un’opportunità che poi è diventata sempre più bella via via che sono cresciuta: la libertà di esplorare, svelarmi il mondo. La responsabilità di farlo. La vendita dei motorini è crollata insieme all’avvento degli smartphone. Se le mie figlie mi chiedessero il motorino a 14 anni proverei un lungo brivido lungo la schiena, lo ammetto. Eppure, quanto ho goduto sul mio cinquantino, a quanti appuntamenti segreti mi sono presentata, quanti posti nascosti ho scoperto, quanto mi sono sentita libera sul mio Quartz pieno di adesivi? Proverei una grande paura, se le mie figlie mi chiedessero il motorino, sì, ma non l’angoscia che provo all’idea di dar loro uno smartphone prima che siano fiorite di desideri e sogni, prima che abbiano fatto il pieno di giochi, amicizie, passioni, che abbiano la maturità e la cultura necessaria per trasformarlo in un ponte ulteriore verso il mondo, non in un suo sostituto. Non si torna indietro. Peccato che, a vedere il maschilismo, il sessismo e la violenza che circolano sul web, sorge il dubbio che questa tecnologia, così com’è impostata, abbia contribuito, certo insieme ad altri fattori, a farci involvere anziché evolvere. Sono aumentati in modo esponenziale, anche in Italia, i problemi di salute mentale e i reati tra i giovanissimi. Omicidi, bullismo, e suicidi. Certo, la società degli adulti è diventata più aggressiva: il linguaggio d’odio divampa in molte trasmissioni televisive e per strada, oltre che sui social. Quasi ogni giorno padri uccidono madri davanti ai figli. L’educazione sentimentale e sessuale non avviene attraverso un dialogo profondo a casa e a scuola, ma sui siti porno, di nuovo intrisi di violenza e disparità di genere. Allora dobbiamo compiere un passo di lato: guardarci in faccia, noi come società, senza filtri, e affrontare le crepe. Riprendere in mano gli strumenti della cultura e dell’educazione, usarli con cognizione. Riempire di nuovo le piazze di bambini che corrono, di adulti che si incontrano e si parlano, con rispetto e curiosità. Quindi piegare la tecnologia al servizio della libertà, della comunità e della giustizia sociale. Dobbiamo farlo subito, prima che anche l’Intelligenza Artificiale ci travolga. Perché non possiamo usarla contro le guerre, i cambiamenti climatici, la fame, le discriminazioni, gli incidenti sul lavoro? Perché dobbiamo delegarle proprio le cose più belle della vita: la creatività, l’affettività, le relazioni? Tra le mille storie recenti ed evanescenti da cui veniamo bombardati, ce n’è una che ha avuto il potere di restare salda nella mia mente: quella di Lesly Jacobo Bonbaire, la tredicenne che, dopo un incidente in elicottero nel giugno del 2023, dopo aver visto morire sua madre e averne abbracciato il cadavere, si è messa in marcia dentro la giungla colombiana con i suoi fratelli più piccoli di 9, 5 e 1 anno. Ha resistito un mese nella giungla, ha protetto i suoi fratelli. Ha portato sé stessa e loro in salvo. Caldo, freddo, sete, fame, insetti, piante velenose, giaguari. Quella ragazza, nel pieno della nostra epoca immateriale, ha compiuto un corpo o corpo epico con il mondo. Ha ingaggiato un duello con la vita e la morte, e ha vinto. Vinto nel senso più luminoso del termine: ha conosciuto, ha ascoltato, ha resistito, ha amato. Lo ha fatto come un’eroina. Ma le hanno anche insegnato a farlo: a distinguere le piante, a orientarsi tra gli alberi, a curare un bambino, a conquistare tempo e spazio, a cavarsela nella peggiore situazione. E a restare al mondo. Ecco, io vorrei essere così, vorrei che le mie figlie fossero così: in una misura infinitamente minore, certo, ma piantate nella realtà con coraggio. Vorrei che le mie figlie diventassero capaci di attraversare le tante giungle che occorrono per crescere. Che andassero a scuola da sole, un giorno, con le loro amiche, come è stato possibile per me: senza alcun gps, senza lo sguardo agganciato allo schermo. Le mani libere, gli occhi liberi, il cuore libero. Libere anche di gestire conflitti e cadute, persino di curare questo mondo così malato. Lo vorrei per loro e per tutte le bambine e i bambini. Perché, a differenza dei big della Silicon Valley, non me ne faccio niente di mettere in salvo loro da un pericolo, se poi gli altri ci cadono dentro. Non me ne faccio niente di essere felice da sola. Perché non sono felice da sola. Questo dibattito grande che desidero sull’uso responsabile di social e smartphone dovrebbe essere anche, insieme, un dibattito sulla ricostruzione delle nostre comunità. Un abbattimento di questa solitudine, di questo isolamento pieno di diffidenza, tristezza e rancore. Guardo con molta simpatia al ripopolamento di alcuni borghi dove ci si ritrova in presenza, come una volta, a prendersi cura insieme di un territorio e a passare le serate a parlarsi, le feste insieme. Ripopolamento permesso proprio, guarda caso, dal wifi, dal lavoro da remoto, dalle nuove tecnologie. A cui va impresso il potere dei legami. Una sera a cena in un ristorante sul mare mia figlia Nilde giocava con un paguro e un’altra bambina, più o meno della stessa età, al tavolo accanto, con un cellulare. Mi interrompo per una premessa a cui tengo: smettiamola, noi genitori, di paragonarci, giudicarci, metterci gli uni contro gli altri. Cerchiamo invece di sostenerci per fare meglio, e pretendiamo una società che ci aiuti a crescere nel modo migliore i nostri figli senza abbandonarci a noi stessi. Abbiamo tutti paure simili, fragilità simili: uniamo le nostre diversità per il futuro di chi amiamo. Torno al paguro: dopo un po’ era chiaro che dovessimo riportarlo in acqua. Siamo andate a liberarlo tra gli scogli. Osservando da una certa distanza il ristornate illuminato, i tavoli, la sua coetanea al cellulare, ho detto a Nilde: “Prova a chiedere a quella bambina se ha voglia di giocare con te”. Lei ha scosso la testa: aveva paura. E lo capisco. Quanto fanno paura le relazioni, anche a noi adulti? I possibili rifiuti. Il no detto in faccia. È sempre un rischio enorme: stringere un’amicizia, affacciarsi su un’altra persona, conoscerla, permetterle di conoscerci. E in questo gli smartphone sono micidiali, perché ci forniscono una scusa perfetta per restare trincerati nelle nostre paure. “Provaci. Se ti dice di no, ci rimarrai un po’ male, poi ti passerà” l’ho incoraggiata. “Ma tu provaci lo stesso, magari ti dice sì!”. Non è mai facile: affrontare la vita, viverla. Non è facile per i genitori vedere i propri figli che vanno, cadono e si fanno male. Ma è esattamente il nostro compito e dobbiamo darci forza l’un l’altro verso l’obiettivo per permettere loro di crescere. Che vadano, che sbaglino, che disubbidiscano. Nel mondo, insieme agli altri. Non soli in una stanza. Che diventino loro stessi, che siano liberi. Nilde è andata. Voltandosi verso me e suo padre, all’inizio, facendo il giro largo. Ma poi ha macinato la giusta determinazione e si è presentata al tavolo dell’altra bambina. Le ha parlato brevemente. Lei ha sollevato lo sguardo dallo schermo e, dopo un secondo, è scattata in piedi. Sono corse insieme al centro della piazzetta. Hanno cominciato subito a giocare a un due tre stella come se si conoscessero da sempre. Hanno riso, hanno fatto rumore, hanno dato vita a un luogo. Noi e i suoi genitori ci siamo guardati e ci siamo sorrisi. “Ciò che udivo era soltanto la melodia dei bambini che giocavano, soltanto quello, e l’aria era così limpida in mezzo a quel vapore di voci mescolate, maestose e minute, remote e magicamente vicine, schiette e divinamente enigmatiche (...), e allora capii che la cosa disperatamente straziante non era l’assenza di Lolita dal mio fianco, ma l’assenza della sua voce da quel concerto di suoni”. È uno dei passaggi finali del capolavoro di Nabokov, è il capoverso che sempre, a ogni lettura, mi commuove. Non esiste spettacolo più alto e meraviglioso dei bambini che giocano insieme. Degli adolescenti che ridono, si abbracciano. Non esiste promessa più tersa di un futuro migliore. Prova più chiara che nascere in questo mondo è un prodigio. E noi adulti abbiamo il dovere di fare il massimo affinché ogni infanzia, ogni adolescenza, sia la più felice possibile. Che faccia più casino possibile, rumore, canto, disordine, gioia. E anche noi adulti dovremmo fare più rumore, casino, gioia. Anche noi non dovremmo avere paura della libertà. Migranti in Albania, il Governo tira dritto: “C’è l’accordo con l’Ue” di Francesco Grignetti La Stampa, 24 dicembre 2024 Il vertice di Palazzo Chigi conferma il piano immigrazione: nuovi trasferimenti a gennaio. Tajani: “Le soluzioni innovative vengono apprezzate”. L’opposizione: “È un fallimento”. Nessun tentennamento sul modello Albania. La premier e l’intero governo ci si giocano la faccia e quindi ieri s’è tenuta una riunione ristretta, prima del Consiglio dei ministri del pomeriggio, per fare il punto e ribadire che quella è la strada. La “soluzione innovativa”, per dirla con le parole di Giorgia Meloni, che non s’è trattenuta dalla soddisfazione nel corso del vertice. “La Cassazione ci dà ragione. Da gennaio ripartiamo con i trasferimenti in Albania. E ora che la competenza sui trasferimenti passa alle corti d’Appello, siamo fiduciosi che le cose miglioreranno”. Nella nota diffusa da palazzo Chigi, si sottolinea infatti “la ferma intenzione di continuare a lavorare, insieme ai partner Ue e in linea con le conclusioni del Consiglio Europeo dello scorso 19 dicembre, sulle cosiddette “soluzioni innovative” al fenomeno migratorio”. Conferma il ministro degli Esteri, Antonio Tajani: “Abbiamo ribadito il nostro impegno a seguire il percorso che anche l’Unione Europea ha riconosciuto, anche all’ultimo Consiglio. Le soluzioni innovative vengono apprezzate anche da altri Paesi”. La ripartenza del modello Albania ruota tutto, insomma, attorno alla recente sentenza della Corte di Cassazione, che giuridicamente è un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, ma che il governo esalta come fosse un successo completo. “Abbiamo avuto una sentenza della Corte che conferma la bontà delle scelte del governo. Continueremo a lavorare in questa direzione”, dice ad esempio Tajani. Oppure il collega Matteo Piantedosi, Interno: “La Cassazione ha confermato la possibilità di una prossima riattivazione dei centri”. C’è da aspettarsi allora che la nave Libra riprenda la rotta per l’Albania con i primi migranti a bordo a partire dall’11 gennaio prossimo, quando ad occuparsi di chi finisce nei centri detentivi albanesi non saranno più i giudici della sezione Immigrazione del tribunale di Roma, bensì i loro colleghi della corte di Appello. Saranno questi ultimi a doversi confrontare con quanto deciso dalla Cassazione, ovvero che la lista dei Paesi sicuri non può essere ignorata, ma che caso per caso si dovrà motivare quale sia il rischio che il migrante rischia a essere rimpatriato. In prospettiva, poi, pende la decisione della Corte europea di giustizia, attesa per il marzo 2025. Nel frattempo, però, potrebbe accadere - e palazzo Chigi ci spera tanto - che i governi europei e la Commissione decidano di anticipare i tempi del nuovo Patto per l’asilo (che entrerebbe in vigore nel luglio 2026). Con l’occhio delle opposizioni, invece, la sentenza della Cassazione è una barriera quasi insuperabile. Così dice Elly Schlein: “Sono rimasti solo lei e qualche suo ministro ormai a reputare più importante la propaganda elettorale rispetto alle condizioni materiali delle persone”. Secondo la segretaria del Pd, “si tratta di un progetto inumano, inefficace, dispendioso e privo di risultati concreti. Continuare a investire risorse pubbliche in un’operazione che viola i diritti fondamentali è irresponsabile. Sbagliare è umano ma perseverare è inammissibile in un Paese in cui 4 milioni e mezzo di persone non riescono a curarsi”. Per segretario di +Europa, Riccardo Magi, “è surreale che Meloni invece di dichiarare il fallimento dell’operazione abbia deciso di andare avanti in un tragico gioco dell’oca”. E dice Chiara Appendino, M5s: “Un miliardo di euro buttati nel cesso. Meloni dice che il centro funzionerà, ma oggi non funziona e se anche dovesse funzionare parleremmo comunque di tremila migranti”. Il Consiglio dei ministri ha approvato anche un decreto Caivano-bis che estende il modello Caivano (un commissario straordinario e un impegno corale di istituzioni varie, ministeri, Invitalia, Sport e salute) a sette nuovi quartieri o città particolarmente degradati. L’intervento riguarderà Scampia e Secondigliano a Napoli, Borgonuovo a Palermo, San Cristoforo a Catania, Quarticciolo e Alessandrino a Roma, San Ferdinando a Rosarno, il comune di Rozzano in Lombardia e Orta Nova in provincia di Foggia. Migranti. Dove porta la deriva albanese di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 dicembre 2024 Ci sono molti motivi per cui il governo in carica avrebbe fatto bene a convocare un vertice straordinario l’antivigilia di Natale. Dal crollo della produzione industriale alla dinamica negativa dei salari, dall’aumento della povertà assoluta al disastro della sanità pubblica al record di analfabetismo funzionale tra i paesi industrializzati, non c’è ricerca né dato di esperienza che in questa fine d’anno non stia fotografando i problemi drammatici e urgenti del nostro paese. Ma non è di questi problemi che si sono occupati Meloni e i suoi ministri. Anteponendo ancora la propaganda al governo, sono tornati sui centri di deportazione e detenzione dei migranti in Albania. Un crudele pasticcio che dura da mesi e che non ha prodotto nulla se non sofferenza per qualche decina di migranti, traghettati avanti e indietro dalle celle d’oltremare, e lo spreco di denaro pubblico. Il vertice di ieri dice che il governo intende perseverare nel fallimento. La formula alla quale si affida Meloni e che è riuscita a imporre in un vertice informale a margine dell’ultimo Consiglio europeo è “soluzioni innovative”. Per comprenderne il senso bisogna riferire l’innovazione all’oggetto giusto, che non è l’immigrazione ma il diritto europeo. Le soluzioni che ha in mente Meloni e che sperimenta in Albania sono fuori dal diritto europeo. Contro il quale, infatti, sono andate a cozzare nel giudizio dei tribunali italiani che hanno annullato le “innovazioni” e ordinato il rapido ritorno dei migranti dall’Albania. “Soluzioni innovative” vuol dire soluzioni illegali. Almeno al momento, perché è chiaro che la nuova maggioranza che sostiene von der Leyen così come un numero crescente di paesi europei non vedono l’ora di cambiare in peggio le regole sull’asilo e sui rimpatri. Nel frattempo il governo italiano vuole portarsi avanti, vertice dopo vertice, decreto dopo decreto, ormai dichiaratamente provando ad aggirare i vincoli del diritto costituzionale e comunitario. E se non basta ancora, allora si “innova” nel racconto dei fatti - del resto Trump non ha insegnato che le falsità sono solo “fatti alternativi”? “Innovativa” è la lettura che propone il governo della sentenza della Cassazione in materia di protezione internazionale. La Corte ha chiarito che spetta ai giudici, quando devono giudicare sul diniego dell’asilo, valutare l’effettivo grado di sicurezza di uno stato estero anche se il governo lo ha qualificato come “sicuro”. Naturalmente la Corte ha ribadito l’ovvio, e cioè che la valutazione deve avvenire sulla base di specifiche circostanze, che la compilazione della lista dei paesi sicuri spetta all’autorità politica e che le ordinanze dei giudici, anche quando sfavorevoli al governo, non cancellano la lista. Su questo ovvio il governo ha costruito un racconto falso per il quale i giudici di Cassazione gli avrebbero dato ragione. E persevera. Anche perché l’assoluzione di Salvini a Palermo riporta di attualità la competizione tra il leghista e la presidente del Consiglio su chi è più bravo a “difendere i confini”, cioè chi è più feroce con i migranti. Una concorrenza che si gioca sulla pelle di un numero relativamente molto ridotto di uomini, donne e bambini sofferenti e in fuga e che dunque non può servire neanche in astratto ad affrontare il tema delle migrazioni. Serve alla propaganda, serve giorno dopo giorno a indebolire la presa dei principi fondamentali e la tenuta dello stato di diritto. Perché questo accade, alla lunga, quando è il potere costituito a prendere a spallate le leggi superiori che regolano la convivenza civile. Non si chiama innovazione, si chiama eversione. Migranti. Nessuna novità sui Cpr, il governo sull’Albania fa solo propaganda di Marika Ikonomu Il Domani, 24 dicembre 2024 La premier ribadisce che i Centri per migranti sono “innovativi”. In assenza di decisioni dei giudici, a gennaio riprendono i trasferimenti. Il governo italiano ci riprova, e fa l’ennesimo tentativo per salvare i centri in Albania, presentati come “soluzione innovativa” per la gestione dei flussi migratori. Forte dell’assoluzione in primo grado di Matteo Salvini nel caso Open Arms e in vista del passaggio di competenza sui trattenimenti dalle sezioni specializzate dei tribunali alle Corti d’appello, la maggioranza ripete a gran voce che il protocollo Italia-Albania funzionerà, che è un modello ed è guardato con interesse da molti stati dell’Unione, e che l’ultima decisione della Cassazione ha dato ragione all’esecutivo. Nei fatti è cambiato poco e il governo cerca di riscattare la propria immagine dopo quasi dieci mesi di lavori di realizzazione del valore di decine milioni di euro, eseguiti in deroga, per una non meglio specificata urgenza, circa un mese di operatività e nemmeno venti migranti ospitati. L’unico messaggio fuoriuscito dal vertice convocato a palazzo Chigi è il solito mantra: andiamo avanti, ribadendo “la ferma intenzione di continuare a lavorare sulle cosiddette “soluzioni innovative” al fenomeno migratorio”. Presieduto dalla premier Meloni, alla riunione hanno partecipato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, degli Esteri Antonio Tajani, della Difesa Guido Crosetto, il ministro per gli Affari europei, il Pnrr e le Politiche di coesione Tommaso Foti e il sottosegretario Alfredo Mantovano. I Paesi sicuri - Tutto ciò, scrive palazzo Chigi, “anche alla luce della recente sentenza della Cassazione che ha indicato le competenze relative all’individuazione dei paesi di origine sicura a livello nazionale”. Essere originario di un paese considerato sicuro non significa non poter richiedere asilo, ma avere tempi ristretti e meno garanzie. L’esecutivo si ostina a interpretare la sentenza della Corte suprema sui paesi sicuri dello scorso 4 dicembre, pubblicata il 19, a suo favore perché i giudici hanno sì ribadito che la designazione di un paese “sicuro” spetta al governo, ma non si tratta di un atto politico e, quindi, non è “un atto fuori dal diritto e dalla giurisdizione”. Al contrario di quanto detto per mesi da diversi ministri e dalla stessa premier, mettendo in dubbio in continuazione la discrezionalità dei magistrati, la Cassazione nella pronuncia ha ricordato che il giudice ha un potere-dovere di valutare la legittimità della scelta di inserire un paese nella lista di quelli considerati sicuri ed eventualmente disapplicare il decreto in via incidentale. Questo, com’è risaputo, è il compito dei giudici, che da parte loro non hanno mai avocato a sé il potere di redigere l’elenco dei paesi sicuri né di annullare il decreto legge. Un gioco delle tre carte, secondo il segretario di +Europa, Riccardo Magi, con cui “l’esecutivo ha scelto di travisare volontariamente la pronuncia della Corte di Cassazione”. Non è però questa la sentenza della Cassazione che interessa direttamente il trattenimento in Albania. Il governo ha deciso di riprendere i trasferimenti con la nave Libra, già allertata, senza attendere che la Corte suprema si esprima sulle decisioni di non convalida del primo gruppo di migranti trattenuti a ottobre a Gjader. È possibile che decida di sospendere il giudizio in attesa della pronuncia della Corte di giustizia dell’Ue, attesa in aprile. Quest’ultima è la seconda sentenza che può influenzare il futuro dei centri costruiti oltre Adriatico. Giudici europei che la premier, in vista del Consiglio europeo, ha avvertito, invitandoli a prendere le distanze dai colleghi italiani, firmatari di provvedimenti giudiziari, “dal sapore ideologico, che se fossero sposati nella loro filosofia di fondo dalla Corte di Giustizia Ue rischierebbero di compromettere le politiche di rimpatrio di tutti gli stati membri”. I giudici e gli avvocati della Corte Ue, pur offrendo tutte le garanzie di indipendenza, sono nominati di comune accordo dai governi degli stati membri. Le corti d’appello - Mentre l’Albania di Edi Rama è stata scelta per la partenza del giro d’Italia 2025 (il 9 maggio con la tappa Durazzo-Tiana), il governo ha individuato l’11 gennaio come data per riprendere i trasferimenti. Coincide infatti con l’entrata in vigore della modifica di competenza dalle sezioni specializzate alle Corti d’appello, stabilita dall’esecutivo nella speranza che il carico di lavoro e la mancanza di specializzazione non ostacolino i piani politici. Tribunali di secondo grado, non specializzati e non organizzati per gestire i turni per le convalide dei trattenimenti entro i tempi necessari per decidere sulla privazione della libertà. “Un disastro annunciato”, avevano avvertito 26 presidenti di corte d’appello in una lettera, perché, già in affanno, rischiano di raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Alla Corte d’appello di Roma, da quanto si apprende, entro quella data dovrebbero essere integrati nell’organico i sei giudici con cui era stata ampliata la sezione specializzata. Per le opposizioni questo nuovo impulso non è altro che propaganda. “Meloni taglia la sanità pubblica e nega il salario minimo, ma continua a insistere col fallimentare piano dei centri in Albania”, ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein. Mentre il leader di Iv, Matteo Renzi, ha ironizzato: “È più facile credere a Babbo Natale che all’utilità dei centri albanesi”. I molti problemi e i lenti progressi della giustizia penale internazionale di Stefano Marinelli ilpost.it, 24 dicembre 2024 “L’inefficacia nel far eseguire i mandati di arresto contro Putin e Netanyahu non dipende dai difetti di un singolo procuratore o di un singolo stato, ma da un difetto strutturale della giustizia internazionale che è priva del potere di far eseguire le proprie decisioni. Ma in anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera manifesta, con i responsabili che ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia internazionale sta vivendo un’evoluzione silenziosa. La denuncia di violazioni delle regole internazionali, anche quando perpetrate dagli stati più potenti, e il proliferare di strumenti locali per far fronte alle atrocità di regimi e guerre, costituiscono la funzione più realistica e realizzabile della giustizia internazionale nelle condizioni attuali”. Il recente mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro Benjamin Netanyahu sembra ricalcare quello emesso nel marzo del 2023 contro Vladimir Putin, accusato di crimini internazionali senza che l’uomo fosse fermato, né che le operazioni militari in Ucraina ne fossero scalfite. Le decisioni degli organismi di giustizia internazionale - difficilmente distinguibili per chi legge e a volte anche per chi scrive - sembrano accomunate da un aspetto: dopo la loro adozione, non succede niente di significativo né agli accusati, né sul campo. Le persone incriminate e i loro sostenitori gridano allo scandalo e all’oltraggio, mentre il beneficio per le vittime dei crimini rimane inesistente. Come scrisse in un commento online un esperto in materia, sarebbe bello se la Corte penale internazionale avesse il potere che i suoi critici le attribuiscono. L’inefficacia nel far eseguire i mandati di arresto contro Putin e Netanyahu non dipende dai difetti di un singolo procuratore o di un singolo stato. La giustizia internazionale si rivela inefficace per un suo difetto strutturale: è priva del potere di far eseguire le proprie decisioni, esecuzione che a livello nazionale è demandata alle forze dell’ordine. La scelta di eseguire o meno un mandato d’arresto dipende interamente dalla volontà degli stati. È quindi inevitabile che il funzionamento dei tribunali internazionali rifletta l’equilibrio di potere tra i vari paesi, che li hanno creati in modo da conservare la sovranità necessaria affinché le loro decisioni non gli si ritorcessero contro. Se il sostegno politico c’è, la giustizia internazionale è efficiente. È successo quando i processi di Norimberga e Tokyo punirono i leader di Germania e Giappone sconfitti nella Seconda guerra mondiale, o quando negli anni ‘90 le grandi potenze riunite nel Consiglio di sicurezza dell’ONU decisero di occuparsi dei crimini commessi nelle guerre nei Balcani e in Ruanda, creando tribunali specifici che poterono pronunciare sentenze contro centinaia di persone e tenerle in custodia. L’efficienza viene meno quando perseguire crimini internazionali non è nell’interesse delle grandi potenze. La debolezza dei tribunali è quindi strettamente legata al problema dei doppi standard, cioè dell’applicare le regole in maniera selettiva, a seconda di chi sia lo stato o l’individuo che le viola. Da molte ricerche emerge che la giustizia del vincitore è una condizione congenita, nata insieme agli organismi di giustizia internazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il tribunale di Tokyo - istituito dalle potenze vincitrici Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito - non si occupò della lampante violazione del diritto bellico costituita dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki; e così il Tribunale internazionale penale per l’ex Jugoslavia, istituito dal Consiglio di sicurezza dell’ONU (contenente le medesime potenze, più Francia e Cina) non perseguì nessuno dei casi controversi che avevano coinvolto il personale della NATO, come la distruzione di un treno di civili o di una stazione radio di Belgrado. Allo stesso modo, e per la stessa ragione, nessuna corte si è ancora occupata dei principali conflitti armati degli ultimi decenni, dall’invasione dell’Iraq del 2003 alla guerra civile in Siria, cominciata nel 2011 e appena conclusasi con la caduta del regime di Assad, dove sono coinvolti gli Stati Uniti e la Russia. Una grande speranza per superare il problema dei doppi standard era riposta proprio nella Corte penale internazionale, tribunale fondato nel 1998 da un nuovo trattato internazionale, lo Statuto di Roma, indipendente dal Consiglio di sicurezza dell’ONU (che però conservò il potere di attivare la giurisdizione della Corte e di sospenderla per un anno). Invece dal 2002, anno in cui è entrata in funzione, fino agli ultimi mandati d’arresto, la Corte si è occupata solo di situazioni che non intaccavano gli interessi delle grandi potenze, di crimini commessi prevalentemente nel continente africano, senza oltretutto ottenere, il più delle volte, il sostegno politico necessario a perseguire i responsabili. Russia, Cina e Stati Uniti, che non sono entrati a far parte dello Statuto, non sono vincolate a cooperare con la Corte. Le superpotenze hanno utilizzato strumentalmente il tribunale attivando la sua giurisdizione in altri stati che non aderiscono al trattato, il Sudan e la Libia, senza poi sostenerne le decisioni. E ne hanno ostacolato l’azione quando si è trattato di difendere i propri cittadini. All’indomani della sua nascita gli Stati Uniti hanno adottato una legge che autorizza il presidente a usare qualsiasi mezzo, incluso l’uso della forza, per liberare persone di nazionalità statunitense o di paesi suoi alleati detenute dalla Corte nei Paesi Bassi, tanto che la norma è stata soprannominata “legge di invasione dell’Aia”. Il risultato è che in oltre 20 anni di attività la Corte penale internazionale è riuscita a condannare per crimini internazionali appena quattro persone, peraltro a seguito di complessi dilemmi etici (è il caso, per esempio, del militante del gruppo armato ugandese Lord’s Resistance Army, Dominic Ongwen, che ha commesso crimini internazionali dopo esserne stato vittima, essendo stato rapito dallo stesso gruppo armato e arruolato come “bambino soldato” quando aveva nove anni). Negli anni scorsi, anche quando ne ha avuto l’occasione, la Corte ha sempre evitato di intraprendere azioni contro cittadini di grandi potenze colpevoli di crimini internazionali, come nel caso dell’attacco a una nave di aiuti umanitari a Gaza o delle indagini contro membri degli eserciti occidentali in Afghanistan. Per questo i mandati d’arresto contro Putin e Netanyahu costituiscono un’azione senza precedenti nella storia della giustizia penale internazionale. Sebbene non abbiano avuto al momento conseguenze tangibili sul campo, se non possibili limitazioni alle missioni internazionali dei leader incriminati, rappresentano un punto di svolta storico nella pratica dei tribunali, che potrebbe portare a un superamento del problema dei doppi standard, ma anche mettere a rischio l’esistenza stessa della giustizia internazionale. È quello che nei giorni scorsi ha detto la presidente della Corte Tomoko Akane, lamentando gravi minacce, pressioni e atti di sabotaggio ricevuti a seguito degli ultimi mandati d’arresto. Il paradosso è che se la Corte penale internazionale arriva a colpire il presidente di un membro permanente del Consiglio di sicurezza come la Russia o il primo ministro di un paese alleato dei membri permanenti occidentali (Regno Unito, Francia e soprattutto Stati Uniti) fa emergere o aggrava la propria incapacità di dare esecuzione alle decisioni prese. Quello che sta accadendo è che diversi stati membri, tra cui l’Italia, stanno per la prima volta mettendo in dubbio la loro collaborazione con la Corte, sebbene le loro stesse leggi lascino poca discrezionalità nel decidere se seguirne o meno le decisioni. Più che una scelta politica, la questione chiama in causa la separazione tra poteri esecutivo e giudiziario, un indice della qualità di una democrazia. Un altro governo democratico come quello del Sudafrica, per esempio, avrebbe voluto accogliere Putin senza eseguire il mandato d’arresto, ma la magistratura locale ha ribadito l’obbligo di arrestare l’accusato e la visita del presidente russo è stata cancellata. L’esistenza stessa di corti internazionali non è un dato scontato. Fino al secolo scorso i concetti di diritti umani, che proteggono gli individui dagli abusi degli stati, o di crimini internazionali, che colpiscono non solo le vittime dirette, ma anche la comunità internazionale nel suo complesso violando principi universali, erano pressoché inesistenti. Anche dopo la Seconda guerra mondiale, negli anni in cui si costituiva l’ONU e con essa l’attuale assetto della comunità internazionale, il primo ministro britannico Winston Churchill si oppose ai processi di Norimberga, preferendo esecuzioni sommarie per i leader nazisti. Furono il presidente degli Stati Uniti Roosevelt e il capo della Russia Stalin a insistere perché fosse celebrato un processo, il primo per il suo valore per l’opinione pubblica americana, il secondo per il suo utilizzo propagandistico. Negli ultimi anni i tribunali internazionali sono stati meno cauti nell’occuparsi delle violazioni perpetrate dagli stati più potenti, e i mandati di arresto della Corte penale internazionale vanno in questa direzione. Un’altra tendenza recente è il forte aumento, se non l’”esplosione”, di stati che ricorrono alla giustizia internazionale per denunciare violazioni commesse da altri stati. Negli ultimi anni, per esempio, la Corte europea dei diritti umani ha visto crescere le dispute tra stati in materia di violenze di massa, come nel caso dell’Ucraina contro la Russia. Anche per la Corte europea, tra gli organismi internazionali più efficaci nell’attuare sentenze e garantire risarcimenti a individui, dare esecuzione alle decisioni nelle controversie tra stati può essere un processo lungo e complesso, in particolare in quelle contro la Russia, che dopo l’aggressione all’Ucraina del 2022 è stata espulsa dal Consiglio d’Europa, e quindi dal trattato istitutivo della Corte. Sono aumentate anche le azioni contro le grandi potenze della Corte internazionale di giustizia, che a differenza della Corte penale internazionale è un organo dell’ONU attivo dal 1946 e si occupa di responsabilità statale e non di persone fisiche. Lo scorso luglio si è pronunciata sull’illegalità dell’occupazione dei territori palestinesi e negli ultimi anni si è occupata di accuse di genocidio, nel 2019 chiamata in causa dal Gambia per le persecuzioni dei Rohingya in Myanmar, nel 2022 dall’Ucraina per dimostrare l’infondatezza delle ragioni dell’aggressione russa, e nel 2024 dal Sudafrica per le violazioni di Israele a Gaza. Ma anche in questi casi le misure cautelari stabilite dalla Corte internazionale di giustizia hanno avuto scarse conseguenze politiche e non hanno migliorato la condizione delle popolazioni coinvolte, perché, ancora una volta, la loro esecuzione dipende dalla volontà degli stati. La tendenza a occuparsi dei crimini commessi dalle grandi potenze suggerisce un possibile passo verso il superamento del problema dei doppi standard e della giustizia dei vincitori. Ciò costituisce un punto di svolta, un passaggio necessario per ottenere una giustizia efficace oltre che imparziale. L’efficacia della giustizia internazionale è, invece, già più affermata a livello locale con la diffusione di strumenti, istituiti sulle specificità di singoli stati, volti a sostenere processi di riconciliazione nazionale o di democratizzazione. Nel 2013 la docente di Harvard Kathryn Sikkink aveva definito una “cascata di giustizia” il recente proliferare di tribunali e commissioni internazionali nei paesi in fase di transizione democratica. Ormai in numerosi casi diffusi su tutti i continenti, dalla Tunisia alla Colombia, dal Nepal al Gambia, la giustizia per i crimini internazionali e la violazione di diritti umani si è affermata come una componente indispensabile per i processi di pace o di sostegno alla democrazia. In Guinea è stata istituita una commissione per la riconciliazione nazionale e si sta lavorando per offrire risarcimenti alle vittime di episodi di violenza di massa attraverso meccanismi di giustizia locali, così come raccomandato dal report finale della commissione. Il processo innescato dalla commissione ha resistito anche ai cambi di regime, come il colpo di stato del 2021 che ha interrotto la transizione democratica. Nell’agosto scorso è stato infatti condannato per crimini contro l’umanità il leader militare Moussa Camara, responsabile del cosiddetto “massacro dello stadio” del settembre 2009, quando represse le proteste contro di lui nella capitale Conakry con le forze armate, che uccisero e stuprarono centinaia di persone. L’idea alla base di questo tipo di commissioni è istituire una “giustizia di transizione”, che ponga al centro le vittime e non i carnefici, per focalizzarsi sulle esigenze delle prime, non sempre immediate da intuire. In Afghanistan, per esempio, le vittime civili di attacchi delle forze occidentali affermavano di dare importanza a una riparazione simbolica, come il riconoscimento del danno e le scuse, non meno che al risarcimento materiale offerto dagli eserciti. Sono esempi di una giustizia riparativa, alternativa al tradizionale approccio penale solitamente limitato ai crimini più efferati, che predilige il soddisfacimento dei bisogni delle vittime rispetto alla necessità di punire i carnefici per favorire il passaggio da un conflitto armato alla pace o da un regime autoritario a una democrazia. Questo approccio, sempre più diffuso, pone al centro le parti lese e le loro esigenze mentre le persone individuate come responsabili sono invitate a riconoscere le proprie azioni, a offrire delle scuse e a contribuire alla ricostruzione del contesto sociale attraverso il raggiungimento di una verità condivisa. Pene e sanzioni verso i responsabili non sono una condizione essenziale e possono essere limitate ai casi più gravi. Un altro principio fondamentale è il focus sulla prevenzione di futuri crimini, che passa dall’individuazione delle cause strutturali, spesso sociali ed economiche, che hanno portato alla sua commissione. L’importanza per le vittime di affermare una verità condivisa emerge anche dalle testimonianze ascoltate nei processi internazionali del passato. Antonio Cassese, docente di diritto internazionale e presidente di diversi tribunali internazionali (dall’ex Jugoslavia al Libano) scomparso nel 2011, ha raccontato la vicenda di un ex calciatore jugoslavo arrestato, torturato e costretto ad assistere agli abusi e all’omicidio della sua famiglia, che rimase in vita solo per poter testimoniare: una volta ascoltato, si tolse la vita. Per lui, riportare la propria storia e contribuire alla costruzione di una narrazione condivisa era l’unica ragione per sopravvivere. L’economista e filosofo indiano Amartya Sen ha detto che la giustizia è un concetto astratto e difficile da definire, mentre l’ingiustizia è un elemento più tangibile, di cui tutti abbiamo un’idea precisa. In anni in cui gravi crimini internazionali vengono perpetrati in maniera palese e manifesta, con i responsabili che ostentano sicurezza per la propria impunità, la giustizia internazionale sta vivendo un’evoluzione silenziosa, come una foresta che cresce. In assenza di riforme praticabili dalle attuali istituzioni globali, la denuncia di violazioni delle regole internazionali, anche quando perpetrate dagli stati più potenti, e il proliferare di strumenti locali per far fronte alle atrocità di regimi e guerre, costituiscono la funzione più realistica e realizzabile della giustizia internazionale nelle condizioni attuali. Vista da vicino, la giustizia internazionale ha problemi ancora più profondi di quelli evidenti dall’esterno. È incapace di far rispettare le più elementari regole a tutela della dignità umana, per problemi strutturali che discendono dalla stessa natura delle istituzioni. Da vicino, però, si vedono anche i progressi di corti che cercano per la prima volta di infrangere l’impunità garantita finora alle grandi potenze, e di strumenti locali di giustizia di transizione considerati sempre più indispensabili ai processi di riconciliazione e democratizzazione. Per quanto non abbiano prodotto risultati soddisfacenti, e rischino di far perdere il sostegno di diversi paesi, questi progressi costituiscono un punto di svolta essenziale per realizzare la grande ambizione delle corti internazionali di affermare una giustizia imparziale per contribuire a contrastare le violenze di massa. Stati Uniti. Biden risponde all’appello del Papa: commutate in ergastolo 37 esecuzioni di Elena Molinari Avvenire, 24 dicembre 2024 “Sono più convinto che mai che dobbiamo abolire l’uso della pena di morte a livello federale”, ha detto il presidente uscente. Tre detenuti rimarranno nel braccio della morte. Un atto finale, e storico, di pietà, e coraggio prima di uscire di scena. Raccogliendo l’appello di papa Francesco e di decine di associazioni religiose, per i diritti umani, di procuratori e di familiari di vittime di omicidio, Joe Biden ieri ha commutato le condanne a morte di 37 dei 40 detenuti nelle carceri federali. La conversione della pena in ergastolo arriva a un mese dal ritorno di Donald Trump, che nel suo primo mandato volle un numero elevato di iniezioni letali, promettendo di fare lo stesso a partire da gennaio. La decisione lascia solo tre detenuti di alto profilo ad affrontare possibili esecuzioni, che Biden aveva sospeso. “Queste commutazioni sono coerenti con la moratoria imposta dalla mia Amministrazione sulle esecuzioni federali, in casi diversi dal terrorismo e dagli omicidi di massa motivati dall’odio”, ha affermato il presidente. I tre detenuti che rimarranno nel braccio della morte federale sono Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due autori dell’attentato alla maratona di Boston del 2013, Dylann Roof, un dichiarato suprematista bianco che nel 2015 ha sparato e ucciso nove fedeli neri a Charleston, nella Carolina del Sud, e infine Robert Bowers, che nel 2018 uccise 11 fedeli ebrei durante una sparatoria di massa nella sinagoga Tree of Life di Pittsburgh. “Non fraintendetemi: condanno questi assassini, provo dolore per le vittime dei loro atti spregevoli e provo pena per tutte le famiglie che hanno subito perdite inimmaginabili e irreparabili - ha spiegato Biden -. Ma guidato dalla mia coscienza e dalla mia esperienza sono più che mai convinto che dobbiamo porre fine all’uso della pena di morte a livello federale”. Negli ultimi giorni del suo mandato, come ora, il presidente Usa tradizionalmente concede grazie e clemenze e questo mese Biden ha già commutato la pena a 1.500 persone, firmando il più grande provvedimento del genere nella storia americana. Nelle stesse ore, Francesco, con il quale il capo della Casa Bianca ha parlato giovedì scorso, lo aveva però invitato ad andare oltre, facendo “un gesto concreto che possa favorire la cultura della vita” che la condanna capitale “compromette, annientando ogni speranza umana di perdono e di rinnovamento”. Nelle ultime due settimane anche i vescovi statunitensi avevano rivolto un appello ai cattolici del Paese affinché chiedessero a Biden di commutare le condanne dei detenuti nel braccio della morte, un’iniziativa duplicata poi dal Catholic Mobilizing Network, l’organizzazione che si batte per l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. Più tardi anche una coalizione di ex funzionari carcerari, parenti di vittime di omicidi, difensori dei diritti civili e leader di altre religioni ha esortato il presidente democratico a svuotare il braccio della morte, mantenendo la promessa fatta durante la campagna elettorale di quattro anni fa di abolire la pena capitale a livello federale, che è stata ripristinata nel 1988 dopo essere stata sospesa dalla Corte Suprema nel 1972. Il pubblico americano da trent’anni sta prendendo gradualmente le distanze dalla condanna a morte. Secondo la società di sondaggi Gallup, il sostegno all’uccisione di stato è attualmente ai minimi storici: a ottobre il 53 per cento degli americani era favorevole alla pena di morte, un numero che maschera notevoli differenze tra gli americani più anziani e quelli più giovani, che si oppongono alla condanna capitale in larga maggioranza. A parte rari casi di competenza del federale, l’amministrazione della pena di morte spetta ai singoli Stati americani. Al momento 27 su 50 prevedono la condanna capitale nel loro ordinamento, ma solo 20 hanno il potere di mettere a morte un prigioniero. Gli altri sette, così come il governo federale e l’esercito, hanno sospeso le esecuzioni.