L’anno nero delle carceri: nel 2024 i livelli più alti di suicidi e sovraffollamento di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2024 Il nodo irrisolto. Gli interventi governativi non bloccano la crescita dei reclusi che arrivano a 62.427. Da gennaio in 89 si sono tolti la vita, mai così tanti. Boom di minori in cella dopo il Dl Caivano. Mai così tanti negli ultimi dieci anni. Il 2024 si chiude segnando il peggior risultato dal 2013 a oggi per quanto riguarda il numero di detenuti: allora erano 66.028, attualmente sono 62.427 (di cui quasi 10mila in attesa di primo giudizio), a fronte di circa 52mila posti disponibili. Una situazione emergenziale testimoniata dal numero di suicidi in carcere che, nel 2024, è arrivato a 89, il più alto da sempre. Le misure adottate in passato avevano permesso di ridurre il sovraffollamento ma la soglia dei 60mila reclusi è stata di nuovo superata un anno fa e il trend in aumento continua, nonostante gli interventi messi in campo dal Governo negli ultimi mesi. E il sovraffollamento sta investendo anche gli istituti penali per minorenni, dove i reclusi al 30 novembre erano 576. L’emergenza - Sono molte le voci che si sono alzate nei mesi scorsi per lanciare l’allarme sulla grave situazione delle carceri, a partire dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Francesco, ma anche dall’avvocatura e dalle associazioni. Secondo Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri di Antigone, associazione che si batte da anni per i diritti dei detenuti, non siamo ancora ai numeri delle stagioni terribili del sovraffollamento, “quelle in cui i nuovi ingressi sono arrivati a 90mila”, ma a preoccupare non sono solo i numeri complessivi. Stanno infatti ricominciando a salire quelli degli ingressi: ben 43mila tra il 9 dicembre del 2023 e il 9 dicembre 2024. “La verità - prosegue - è che se guardiamo la storia del sistema penitenziario degli ultimi 30 anni le presenze in carcere sono sempre cresciute fino al giorno in cui non viene adottata una misura straordinaria, un provvedimento di clemenza, che le fa calare”. In questo modo il sistema si è mantenuto in equilibrio. Un equilibrio patologico, però, a causa o grazie alla presenza di questo meccanismo. “Il sistema - aggiunge Scandurra - non si è mai proposto di lavorare a saldo zero: non ci si preoccupava se entravano più persone di quante ne uscissero perché per correre ai ripari sarebbe arrivato un provvedimento di clemenza. Dal 2006, da quando per un’amnistia sono necessari due terzi del Parlamento, queste soluzioni sono diventate inattuabili”, così il sistema sta collassando. Drammatici i dati sui suicidi: “Numeri - osserva Scandurra - che neanche quando tra il 2009 e il 2010 siamo arrivati a 69mila detenuti è stato tanto alto. Questi dati sono solo la punta dell’iceberg perché non registrano gli episodi di autolesionismo, il malessere psichico sempre più crescente”. Sofferenza che coinvolge in prima istanza i detenuti ma che è altrettanto virulenta per il personale di polizia penitenziaria. Le misure varate dal Governo - In questo quadro, lo scorso luglio il Governo ha approvato il decreto legge Carceri (92/2024). L’intervento principale ha riguardato la liberazione anticipata, istituto premiale che prevede una riduzione di pena di 45 giorni per ogni sei mesi di pena scontata, se la persona partecipa all’opera di rieducazione. Il decreto legge di luglio non ha modificato la durata dello “sconto” di pena (quindi la permanenza in carcere resta inalterata), ma solo la procedura. Ora, in pratica, il pubblico ministero, quando indica al detenuto la pena, comunica sia quella con le possibili detrazioni, sia quella “intera”. Il decreto individua anche i momenti in cui il magistrato di sorveglianza valuta se concedere o meno la liberazione anticipata, finendo per irrigidirli: vengono infatti individuati nella richiesta da parte del detenuto di misure alternative o benefici o in prossimità del fine pena. Il decreto carceri prevede inoltre l’assunzione nel 2025-2026 di mille agenti penitenziari e istituisce un nuovo commissario straordinario per l’edilizia carceraria. Il ruolo è stato affidato, lo scorso settembre, a Marco Doglio, che ha una vasta esperienza nel settore finanziario e immobiliare (è stato, tra l’altro, Head of Real Estate Italy di Ubs e poi responsabile della direzione immobiliare di Cdp). Dovrà redigere un programma di interventi per costruire nuove carceri e riqualificare le strutture esistenti. È supportato da cinque esperti e resterà in carica fino al 31 dicembre 2026: durata di recente allungata dal decreto legge Giustizia (178/2024, all’esame del Parlamento per la conversione in legge), che ha anche raddoppiato i compensi per commissario ed esperti. Il reato di rivolta - Approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati e ora all’esame delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia e Senato, il disegno di legge Sicurezza prevede l’introduzione del nuovo reato di “rivolta in carcere”. Si tratta di un provvedimento nel complesso molto contestato dalle opposizioni e al centro di polemiche, tanto che non sono escluse modifiche, anche dopo la presa di posizione negativa del Consiglio d’Europa di venerdì scorso. Il nuovo reato prevede la reclusione da uno a cinque anni per chi partecipa a una rivolta con atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi in tre o più persone riunite. E negli atti di resistenza viene compresa anche la resistenza passiva quando impedisce atti o servizi necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. Il fronte minorile Preoccupa particolarmente l’incremento del numero di minori detenuti che ha ripreso a crescere dopo la stretta repressiva introdotta a settembre 2023 dal decreto Caivano, il decreto legge 123. Dopo poco più di un anno, il numero dei ragazzi e delle ragazze (under 18 o giovani adulti tra i 18 e i 25 anni) reclusi negli istituti penali per minorenni è salito del 32%, passando dai 436 di fine agosto 2023 ai 576 del 3o novembre 2024. Il decreto Caivano, varato dopo lo stupro di gruppo di due cuginette di 10 e 12 anni avvenuto nel Comune campano a opera di alcuni minorenni, ha allargato le possibilità di ingresso in carcere e, in particolare, ha ampliato la gamma di reati e ridotto la soglia di pena per la custodia cautelare (che causa la maggior parte degli ingressi negli Ipm) e ha, inoltre, consentito l’arresto in flagranza per detenzione e spaccio di stupefacenti, anche di lieve entità. Secondo Scandurra “anche se il Paese non è mai stato in grado di compiere un salto qualitativo e chiudere questi istituti di pena, in passato c’era stata una così marcata riduzione delle carcerazioni per i minori che di fatto la detenzione minorile è stata sempre di più marginalizzata. Ora invece si assiste proprio a un cambio di paradigma con l’assimilazione della detenzione dei minori a quella degli adulti”. In passato cioè la progressiva riduzione della detenzione aveva nei fatti depotenziato questa istituzione. La tendenza recente va invece verso un ribaltamento del paradigma; ne è un esempio “il fatto che anche negli Ipm gli agenti sono adesso in divisa dopo anni in cui erano presenti in borghese”, conclude Scandurra. Monica Amirante (Conams): “Il decreto carceri non ha avuto effetto sui numeri” di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2024 Il decreto legge carceri (è il Dl 92/2024) che ha modificato le regole sulla liberazione anticipata è stato varato il 4 luglio quando i detenuti erano 61.480. In quattro mesi, anziché diminuire, sono diventati 62.427, mille in più. “Che il decreto non avrebbe avuto effetto sul sovraffollamento era evidente fin dall’inizio”, dice Monica Amirante, coordinatrice nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams). La liberazione anticipata prevede lo scomputo di 45 giorni ogni semestre di pena scontata per il detenuto che partecipa alla rieducazione. La novità introdotta dal Dl carceri è legarla alla richiesta di benefici, misure alternative e al fine pena. Qual è stato l’impatto? Le vecchie regole funzionavano bene perché creavano una relazione fra magistrato e detenuto che dava speranza, tranquillizzava, evitava le rivolte. Le nuove norme cancellano questo rapporto senza incidere sul sovraffollamento. Per chi è recluso la paura maggiore è essere dimenticato. Non è una semplificazione procedurale? Probabilmente l’intento era alleggerire il carico degli uffici (i Tribunali di sorveglianza sono gli unici a non aver beneficiato dell’ufficio del processo) ma non è la strada giusta. E, senza una norma transitoria, si è creata anche confusione. Ci sono state interpretazioni differenti: alcuni tribunali hanno applicato le nuove regole subito, altri no. Il Dl carceri prevede anche l’assunzione di mille agenti di Polizia penitenziaria. Bastano? L’aumento va benissimo, purtroppo scatterà nel 2025-2026 mentre gli istituti scoppiano adesso. Ma servono anche educatori, psicologi, psichiatri. Sulle carceri bisogna investire sul serio. Una novità importante è invece la reciproca consultabilità dei dati del ministero della Giustizia e della Salute che riguarda, però solo i soggetti con disabilità psichica. Il disegno di legge Sicurezza, introduce il reato di rivolta in carcere che comprende anche la resistenza passiva se impedisce atti o servizi necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. Che ne pensa? Considerare reato anche la resistenza passiva va nella direzione sbagliata. Sono situazioni frequenti e i problemi non si risolvono puntando solo sulla forza. Un detenuto può, ad esempio, rifiutarsi di rientrare in cella per ragioni pretestuose ma anche perché teme di venire picchiato da altri detenuti. Capire se un comportamento è provocatorio o fondato è difficilissimo ma fondamentale. Il benessere della Polizia penitenziaria deve andare di pari passo con quello dei detenuti. Contrapporli è un errore. Francesco Petrelli (Ucpi): “Mettere al centro le alternative alla reclusione” di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2024 Di fronte alla crescita della popolazione carceraria, “dobbiamo sfatare il mito che da più carcere venga più sicurezza: il tasso di recidiva di chi fruisce di misure alternative precipita rispetto a quello di chi sconta la pena in carcere. Eppure si continua a pensare di investire in progetti carcerocentrici, con l’idea di costruire nuove prigioni”. Una scelta “irragionevole” secondo Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali. Perché siamo arrivati a questo sovraffollamento? La situazione è più grave di quella raccontata dai dati ufficiali e non è omogenea: in alcuni istituti i detenuti presenti sono il doppio dei posti disponibili. La verità è che la risposta della giustizia è insufficiente. Intanto, non si riesce ad aprire alle misure alternative alla detenzione, perché mancano le risorse. Poi c’è un’applicazione eccessiva della custodia cautelare. E c’è un ulteriore problema. Quale? Tra i reclusi ci sono persone in condizione di disagio psichiatrico e tossicodipendenti, che dovrebbero essere curate più che trovarsi in uno stato di privazione della libertà fine a se stessa. Tanto che il numero di suicidi è drammaticamente elevato: quest’anno sono stati 89, il dato più alto di sempre. Di fronte a questa realtà, l’inerzia del Governo è impressionante. Il decreto legge Carceri varato a luglio non è servito? Abbiamo detto da subito che quelle misure non avrebbero avuto impatto. L’intervento sulla liberazione anticipata era solo un make up: non è cambiato nulla, ma si sono illusi i detenuti di poter fruire dell’istituto, creando confusione e ritardi. Cosa bisognerebbe fare? Di fronte a questa emergenza, ci sembra assurdo che il Parlamento non trovi la forza di intervenire con un’amnistia per i reati meno gravi o con un atto di clemenza condizionato alla successiva condotta senza nuovi reati. È stata di fatto affossata anche la proposta di legge presentata alla Camera, con primo firmatario Roberto Giachetti, che proponeva di elevare la detrazione di pena per la liberazione anticipata. Invece con il disegno di legge sicurezza si intendono punire le rivolte in carcere. L’impressione è che si stia tornando indietro nei rapporti tra Stato e cittadini. Anziché rimuovere le cause del sovraffollamento, con prevenzione dei reati e misure alternative, si ricorre alla repressione e alla tolleranza zero. Sono norme che violano i principi costituzionali che dovrebbero guidare il diritto penale. Non è così che si governa il disagio della società. Antigone: “Ci auguriamo che Papa Francesco porti luce sulla condizione delle carceri” antigone.it Un report sul 2024. “Il 2024 delle carceri ci sta lasciando drammatici record, quello dei suicidi, quello delle morti in carcere, e una crescita della popolazione detenuta così sostenuta da provocare, già oggi, una situazione di reali trattamenti inumani e degradanti generalizzati. Condizione che abbiamo raccolto in un report che presentiamo oggi, pochi giorni prima dell’appuntamento Giubilare che vedrà Papa Francesco varcare le soglie del carcere di Rebibbia per l’apertura di una delle Porte Sante”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, in occasione della pubblicazione di un report con i dati principali che l’associazione ha raccolto durante l’anno. “Il prossimo 26 dicembre - prosegue Gonnella - Papa Francesco sarà infatti in carcere e ci auguriamo che questa iniziativa del Pontefice possa riaccendere l’attenzione e la speranza nelle carceri italiane. Speranza che il Governo faccia marcia indietro nei propositi più repressivi e duri. Speranza che si investa in percorsi di reinserimento sociale senza trasformare il carcere in luoghi di vendetta. Speranza che le condizioni drammatiche di detenzione siano superate da politiche attente, che guardino alla dignità della persona e ad una pena che poggi pienamente sul dettato costituzionale. Papa Francesco ha scritto nel 2014 sulle carceri parole importanti. Su quelle parole andrebbe costruito un programma di governo. Non sulla criminalizzazione dei più vulnerabili”. Scarica il report di Antigone: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/Reportfine2024.pdf La giustizia senza furori ideologici di Giovanni Verde La Repubblica, 23 dicembre 2024 Se andiamo in giro per il mondo non credo che ci siano molte Carte costituzionali che prevedano l’obbligatorietà. Sta di fatto che dove non si è accecati da furore ideologico si è consapevoli di due evidenze: a) l’esercizio dell’azione presuppone, in primo luogo e necessariamente l’indagine e in un Paese che non sia governato da un occhiuto “grande fratello” o da una “Stasi” di turno, ossia in un Paese che aspiri ad essere qualcosa di simile a uno Stato democratico, un’indagine a tutto campo, che penetri di soppiatto e per lunghi periodi nelle sfere private in base a meri sospetti o a semplici denunce, finisce per essere inevitabilmente il frutto di scelte (saggiamente) discrezionali, mai obbligate; b) conclusa l’indagine, il pubblico ministero non ha certezze da distribuire, ha soltanto da formulare ipotesi fondate sulla previsione che siano ritenute fondate. Anche in questo momento fa scelte che non sono “obbligate”, ma soltanto “ragionevoli”. In realtà - e i Costituenti non se ne resero conto (infatti il dibattito in Commissione ci appare singolarmente superficiale, tranne qualche preoccupato avvertimento di Leone) - l’obbligatorietà finisce per essere lo scudo protettivo del pubblico ministero, che viene esonerato da qualsiasi responsabilità perché ha “l’obbligo di agire” e che conviene a chi trae da processi avventati il vantaggio di un proscenio mediaticamente accattivante. Potremmo riflettere sull’art. 109 Cost. secondo cui l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. È una disposizione che si pone sulla delicata linea di confine tra la repressione (che dovrebbe essere l’obiettivo di chi esercita l’azione penale) e la prevenzione (che dovrebbe riguardare gli organismi preposti alla sicurezza). Nell’attuale evoluzione, infatti, il diritto penale della prevenzione (che nella Costituzione fa timida apparizione nell’ultimo comma dell’art. 25) si sovrappone a quello della repressione, che diviene sempre più marginale. Di più. La pena da processo finisce con l’essere assai più afflittiva della pena comminata a conclusione del processo. E il pubblico ministero da rappresentante dell’accusa si trasforma in responsabile della sicurezza (che nei modelli a cui facciamo l’occhiolino sono affidati a non so quanto affidabili “sceriffi”). Potremmo riflettere sull’intero Titolo IV della Costituzione, che inserisce nell’unico corpo (la Magistratura) giudici e pubblici ministeri. Fu una scelta legata ai tempi e divenuta obsoleta o fu una felice intuizione dei Costituenti? Vado controcorrente. I Costituenti ben sapevano dell’esistenza di sistemi in cui il “persecutore pubblico” fa parte del potere esecutivo. Consapevolmente rifiutarono questo modello, spingendosi fino a dettare l’equivoco articolo sull’obbligatorietà dell’azione penale. Ritennero che il modello anglosassone potesse minare l’equilibrio dei poteri (e, guardando a ciò che oggi succede negli Stati Uniti d’America non mi riesce di dare loro torto). Costruirono un “ibrido”, confidando nella “comune cultura della giurisdizione” (che negli anni successivi sarà sbandierata a mò di vessillo dalla magistratura associata) e ritenendo che dal reciproco confronto, quale si svolge quotidianamente nelle stanze dell’unico Csm, potesse nascere un comune modo di sentire per il quale il pubblico ministero finisce o dovrebbe finire con l’essere un po’ giudice, prima ancora che attore nel processo. Di ciò consapevoli, potremmo e dovremmo chiederci se, estraendo dalla Magistratura i pubblici ministeri, costruendoli come un corpo separato, presidiato da garanzie di autonomia e indipendenza non minori di quelle riconosciute ai giudici, non si corra il rischio di un esercizio degli inevitabili poteri d’indagine e di scelta ancora più invasivo e ancora meno controllato di quanto avviene oggi, a meno che dietro la proposta di separare le carriere non si annidi il subdolo tentativo del potere esecutivo di controllare l’operato delle Procure. Potremmo, infine, riflettere sull’art. 107 ult. comma della Costituzione. Saggiamente, infatti, i Costituenti non scrissero che i pubblici ministeri godono delle stesse garanzie stabilite per i giudici, ma di quelle stabilite nei loro riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Erano ben consapevoli che i pubblici ministeri non giudicano, ma agiscono e che, pertanto, in relazione alle loro diverse funzioni c’era bisogno di costruire diversamente le nomine, le assegnazioni, la carriera, la responsabilità disciplinare e quella civile per danni. Prima di avventurarci per riforme di assai incerto risultato, potremmo dalle ultime vicende trarre, insomma, lo spunto per abbandonare il furore ideologico, che spesso nasconde un populismo di bassa estrazione, e usare una buona volta le nostre intelligenze per un calcolo accurato dei costi e dei benefici delle riforme. A proposito dei quali il cittadino ha diritto di chiedersi quanto costino alla collettività processi come quelli qui richiamati o tanti altri in cui sembra quasi che ai giudici si chieda di fare la storia delle non commendevoli vicende che hanno visto coinvolto il nostro Paese. Si tratta di spese che potrebbero essere utilmente dirottate per rendere giustizia nelle cause riguardanti i comuni cittadini. La scarsa efficienza del nostro sistema dipende anche da questo. La riforma della giustizia: “Risarcire le vittime dei giudici” di Cosimo Rossi La Nazione, 23 dicembre 2024 Negli ultimi vent’anni ci sono stati 30mila errori e abusi a livello giudiziario. “Bisognerà pur pensare a risarcire le persone che finiscono nella graticola giudiziaria per anni, perdendo la salute, i risparmi, e magari il posto di lavoro, perché qualche pm non ha riflettuto sulle conseguenze della sua iniziativa avventata”. È quanto propone in un’intervista il ministro di Giustizia, Carlo Nordio. Ma soprattutto il ministro vede la riforma costituzionale della separazione delle carriere (in stile anglosassone) tra magistratura inquirente e giudicante la riforma con “con più possibilità di arrivare in fondo e nei tempi più rapidi”, visto che sono già passati due anni di legislatura senza nessun voto sulle riforme: né la giustizia né il premierato. Il Guardasigilli insomma non si perita a svelare le intenzioni politiche della maggioranza. Dato che l’economia stagna e il premierato “madre di tutte le riforme” non convince del tutto gli alleati (con Forza Italia e Lega da sempre propensi al cancellierato) e ancor meno il Quirinale, la maggioranza di di centrodestra deve portare a casa almeno un bersaglio grosso di legislatura. E rimane solo la riforma della giustizia con la separazione delle carriere, anche se quelli più si sono impegnati in tema di garantismo temono “una riformicchia”, visto che “in questi due anni la maggioranza di governo ha sempre votato contro tutti gli emendamenti e le proposte” volti a sanzionare e risarcire le responsabilità per gli abusi giudiziari. La questione insomma è duplice. Da un lato la partita della riforma della giustizia, che a questo punto diventa quasi un obbligo per la maggioranza, anche se il partito della premier è per tradizione solidale con le toghe e le forze dell’ordine costituito. Dall’altra parte una norma, nient’affatto semplice da varare, per risarcire le vittime e sanzionare i pm responsabili di errori e abusi giudiziari, circa 30mila negli ultimi 20 anni. Una soluzione apparentemente ragionevole quanto complicata, per quanto rischia di infrangersi sull’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale. La questione della responsabilità civile dei magistrati risale al 1987, quando i cittadini approvarono un referendum proposto dai Radicali. Da allora, solo nel 2015 è stata approvata una legge e i pm condannati superano appena la decina. Un tema che è il cruccio dell’attività parlamentare di Enrico Costa, avvocato e deputato che ha fatto la spola tra Forza Italia e Azione occupandosi in modo monotematico di giustizia. “Lo Stato garantisce, neanche sempre, la riparazione per ingiusta detenzione a chi è stato arrestato ingiustamente - dice Costa. Ma a chi è stato assolto dopo aver subito una misura cautelare reale o personale come un sequestro o un interdizione dalla professione, o un divieto di dimora, subendo un danno grave, lo Stato non risarcisce nulla”. Replicano le opposizioni di Avs che allora anche l’azione dei ministri andrebbe sanzionata. Ma il fatto che è un intervento punitivo verso certi eccessi di zelo dei pm rischia di far alzare le barricate delle toghe persino più della separazione delle carriere. E infatti finora tutti gli interventi e gli emendamenti propositi da Costa sono stati respinti dalla maggioranza. Incassata l’assoluzione di Matteo Salvini, ma a suo modo anche quella di Matteo Renzi, il centrodestra promette invece di procedere a tappe forzate verso la riforma della giustizia. Un obbligo, visto che ormai quasi metà della legislatura è trascorsa senza avviare nessuna riforma. Al riguardo Nordio ha rivelato sin troppo esplicitamente le intenzioni della maggioranza: la giustizia è la sola riforma che può andare in porto. Per la gioia di Forza Italia, che da sempre ne ha fatto una bandiera e col portavoce Raffaele Nevi risponde presente. Ma adesso anche Salvini, proprio perché assolto meno blindato di prima alla guida del Carroccio, vuole intestarsi la battaglia. Migranti in Albania e carriere separate: il Governo accelera di Federico Capurso La Stampa, 23 dicembre 2024 Vertice oggi a Palazzo Chigi per preparare nuovi trasferimenti a gennaio. Sul tavolo la riforma della giustizia: il testo alla Camera non sarà modificato. Senza sosta, con movimenti automatici, quasi ossessivi, il centrodestra continua a intrecciare il filo della gestione migratoria e quello della giustizia. I due temi si mescolano fino quasi a fondersi l’uno nell’altro, definitivamente saldati dall’ultimo tassello dell’assoluzione di Matteo Salvini nel processo Open Arms: “La giurisdizione è stata usata per condizionare la politica”, dice Giorgia Meloni dalla Lapponia. E annuncia quindi un vertice sui migranti, oggi a Palazzo Chigi, per preparare la campagna d’inverno in Albania. A gennaio, ha fatto sapere la premier ai suoi, i centri di Shëngjin e Gjadër non dovranno più essere vuoti. La premier si confronterà con il sottosegretario Alfredo Mantovano, i ministri di Interno, Affari europei e Difesa, Matteo Piantedosi, Tommaso Foti e Guido Crosetto, e il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani in video collegamento. Questo, per lei, è il momento di accelerare e la tempistica non è casuale. L’11 gennaio, a trenta giorni dall’approvazione del Parlamento, verrà trasferita alle Corti d’appello la responsabilità di decidere sui trattenimenti dei migranti. A perdere la competenza di questo genere di dossier saranno le sezioni Immigrazione dei tribunali, che il centrodestra accusava di essere una sorta di fortini abitati da giudici di sinistra, intenzionati solo a sgambettare il governo. Così, per evitare altre sentenze avverse, la maggioranza ha pensato di far decidere su casi così delicati non chi si è formato per farlo, ma magistrati che di immigrazione non si sono mai occupati. “Abbiamo avuto qualche problema di interpretazione delle regole - ha ammesso ieri Meloni - ma lo stiamo superando”. La presidente del Consiglio è convinta che una mano la darà anche la sentenza della Cassazione dello scorso 19 dicembre, con cui si stabilisce che il giudice “non può sostituirsi” al governo nella designazione dei Paesi sicuri e non può nemmeno annullare “con effetti erga omnes il decreto ministeriale” che li stabilisce. Può però valutare la necessità di disapplicare il decreto su un singolo caso. Di volta in volta, quindi, sarà chiamato a valutare la situazione del singolo richiedente asilo. Per le opposizioni è il segno che nulla cambierà. Meloni invece spera che questa sentenza porti i centri albanesi a essere popolati da qualcuno che non sia solo il personale delle forze dell’ordine. Sempre che a marzo la Corte di giustizia europea non smonti di nuovo i piani del governo, dando definitivamente ragione ai giudici delle sezioni Immigrazione. Nella stessa settimana di gennaio in cui il pattugliatore della Marina militare, Libra, avrà ripreso il mare per fare da spola tra l’Italia e l’Albania, tornerà in Aula alla Camera la riforma della Giustizia con la separazione delle carriere. Su questo punto, la maggioranza ha stretto un patto: nessuna modifica. Si procederà con il testo così com’è uscito dal Consiglio dei ministri, per arrivare a un’approvazione il più rapida possibile, almeno in prima lettura. Il percorso è ancora lungo. Trattandosi di una riforma di rango costituzionale, saranno necessarie almeno quattro approvazioni, due per ogni ramo del Parlamento. “L’opposizione e la magistratura protesteranno, lo sappiamo già, ma noi andiamo avanti spediti”, fanno sapere da Forza Italia, dove la considerano la più importante battaglia del partito. Una bandiera che la Lega, con Salvini, sta provando in questi giorni a scippare. Si è innervosito più di qualcuno nel partito di Tajani. Non è passata inosservata, infatti, la telefonata tra il leader della Lega e Pier Silvio Berlusconi, di cui poi Salvini ha dato notizia ricordando “le battaglie per una giustizia giusta” del Cav, che ora lui vorrebbe portare avanti. “È un bene che anche la Lega sia attenta ai temi della giustizia. D’altronde - sibila un peso massimo di FI - ora non gli si può chiedere di gettare tutte le energie sull’Autonomia, che va ricostruita e richiederà del tempo”. Il percorso accidentato del Ddl sicurezza: slitta a gennaio dopo le osservazioni del Quirinale ansa.it, 23 dicembre 2024 Il provvedimento è composto da 38 articoli e ne rimangono da affrontare i due terzi, la parte più controversa. Rilievi sono stati esposti anche dal Consiglio d’Europa. Il percorso del ddl sicurezza in Senato si conferma più complesso del previsto per il Governo. Varato dal consiglio dei ministri più di un anno fa, nel novembre del 2023, alla Camera è stato approvato il 18 settembre scorso. Il testo introduce oltre venti tra nuovi reati, innalzamenti di pena o aggravanti e contiene un pacchetto di misure corpose che vanno dal reato di blocco stradale o ferroviario attuato con il proprio corpo, alle norme ‘anti-Ponte’ e ‘anti-Tav’, al contrasto alle occupazioni abusive, all’autorizzazione agli agenti di pubblica sicurezza a detenere e a portare senza licenza armi anche quando non sono in servizio, sino appunto al reato di resistenza passiva nelle carceri e nei Cpr. Un percorso a ostacoli - L’11 dicembre, all’annuncio da parte del ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani di “possibili” modifiche c’è stato subito un altolà della Lega contro l’ipotesi di una terza lettura a Montecitorio. Ma poiché alcune criticità risultano essere state segnalate informalmente dallo stesso Quirinale, ignorarle rischierebbe di produrre un contraccolpo nei rapporti tra Palazzo Chigi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella chiamato a promulgare le leggi. Il tutto è slittato al 2025: nella seduta di mercoledì scorso le commissioni Affari costituzionali e Giustizia di Palazzo Madama si sono date appuntamento a gennaio, probabilmente non prima della metà del mese, complice l’iter del Milleproroghe, secondo quanto viene riferito. Come se non bastasse, venerdì, sul ddl sicurezza è esploso uno scontro tra il Consiglio d’Europa e il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Il Commissario per i diritti umani, Michael O’Flaherty, ha inviato una missiva a La Russa in cui paventa il rischio di restrizioni dello Stato di diritto in Italia e in cui lo prega di trasmettere la richiesta ai senatori di non votare il ddl se non ci saranno cambiamenti sostanziali. Secca la reazione di La Russa che ha definito il contenuto della lettera una “inaccettabile interferenza nelle decisioni autonome e sovrane di un’assemblea parlamentare. Al di fuori degli atti ufficiali, la mia personale opinione è che ho trovato non solo irrituale ma contrario a qualunque principio democratico, che il signor Michael O’ Flaherty (a me finora del tutto sconosciuto) chieda addirittura di non votare una legge per altro il cui testo è ancora in formazione e all’esame della commissione”. Inoltre in Senato le opposizioni hanno presentato oltre 1.500 proposte di modifica ed è stato interrotto ai primi emendamenti (tutti bocciati) all’articolo 14, quello che prevede il reato di blocco stradale (o ferroviario) con il proprio corpo. Una delle nuove fattispecie difese a spada tratta dal centrodestra e definite, per altro verso, “liberticide” e “anti-costituzionali” dalle opposizioni e dalla Rete nazionale ‘No ddl sicurezza’ che sabato della scorsa settimana ha visto scendere in piazza migliaia di persone e che sta mettendo in cantiere nuove iniziative. Il provvedimento è composto da 38 articoli e ne rimangono da affrontare i due terzi, peraltro la parte più controversa. Tra le norme su cui il ministro ha segnalato la necessità di una riflessione ci sono lo stop dell’obbligo del rinvio di esecuzione della pena per le madri incinte e con figli minori di un anno e il divieto di vendere una Sim ai migranti senza permesso di soggiorno. Ma altri due articoli sarebbero sul tavolo: il reato di resistenza passiva nelle carceri e nei Cpr e l’aggravante per il reato di resistenza a pubblico ufficiale nel caso di proteste contro infrastrutture strategiche. Nessuna novità ci dovrebbe essere sull’equiparazione della cannabis light alla droga, secondo quanto riferito da Ciriani. Tuttavia, la stretta ha sollevato le proteste accese di tutta la filiera della canapa industriale, anche per il suo impatto sulla normativa europea, ma su questo tema per ora l’esecutivo ha fatto muro. Ma il Governo non può controllare la Giustizia di Gian Carlo Caselli La Stampa, 23 dicembre 2024 Mai dire mai! Una formula che non condivido se riferita alla mutazione delle idee su questioni rilevanti. A comportarsi come banderuole, sono gli uomini incoerenti e inaffidabili (quelli non verticali, direbbero gli spagnoli). Oggi però faccio un’eccezione (eccoci: mai dire mai…) a riguardo di Matteo Salvini, perché sento di doverlo ringraziare per quel che ha detto a Palermo dopo l’assoluzione piena nel processo Open Arms. Lo so bene. Più d’uno mi chiederà subito: ma non eri tu quello che non accettava che un politico accusato di un qualche reato si difendesse non “nel” ma “dal” processo? Per esempio organizzando, nel caso di sentenza sfavorevole, manifestazioni di piazza dei propri sostenitori? Non eri tu che consideravi questo tipo di comportamenti ai limiti della intimidazione? Le obiezioni sono giuste, devo ammettere a capo chino. Ma rispetto a quel che pensavo ieri la situazione si è capovolta. Mi riferisco alle dichiarazioni di Salvini dopo la a sentenza di Palermo che lo ha assolto perché il fatto non sussiste, contro la richiesta di una pesante condanna da parte del Pm. Salvini ha detto: a Palermo le cose hanno funzionato bene; quello che si è visto ieri a Palermo (chi inquisisce separato da chi giudica) deve diventare normalità; occorre quindi riformare la giustizia introducendo la separazione delle carriere. Ed è a questo punto che è scattato in me l’impulso irrefrenabile di cambiare idea su Salvini fino a ringraziarlo. Eh sì, perché Salvini in sostanza ha ammesso una cosa importante: per non correre il rischio che in futuro possa esservi qualche altro Pm cui venga in mente l’idea balzana di sottoporre un politico al controllo di legalità previsto per tutti i cittadini della Repubblica, facciamo in modo che il potere esecutivo possa impartirgli direttive su che cosa fare o non fare, così da evitare che prenda iniziative scomode o spiacevoli per i politici che vogliano essere lasciati in pace. Proprio questa è la finalità ultima della separazione delle carriere: subordinare il PM al potere esecutivo, in modo che se ne stia buono buono nel suo angolino e ne esca soltanto quando piaccia a Sua Eccellenza il Guardasigilli, alias Ministro della giustizia. I politici - anche solo un po’ avveduti - sanno bene che le cose stanno così e che tutto il resto non è che fumo e propaganda. Dunque, grazie a Salvini per averci di fatto disvelato il vero in tema di separazione. Salvini ha anche raccontato una sua telefonata con Piersilvio Berlusconi, nella quale ha rivendicato il proposito di portare a compimento la riforma per una giustizia giusta iniziata dal padre. Senonché mai (con riserva di vedere che cosa farà Trump) nel mondo delle democrazie occidentali è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti del capo del Governo abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (indicati tout court come avversari politici). Questo è, invece, ciò cui si è assistito nel nostro Paese, in un crescendo che ha visto, oltre all’attacco quotidiano a Pm e giudici, l’indicazione dell’attività di indagine come “colpo di Stato”, la denuncia in sede penale degli inquirenti, la pressoché continua sottoposizione a ispezioni ministeriali e azioni disciplinari dei magistrati preposti ai processi, l’approvazione di almeno tre leggi ad personam (una nuova disciplina delle rogatorie, la legge Cirami e il “lodo Schifani”, destinati rispettivamente a rendere più difficile l’accertamento della verità, a sottrarre il processo al giudice naturale e ad allontanare indefinitamente nel tempo la celebrazione di un dibattimento), fino alla pesante pressione operata dalla maggioranza del Senato (con mozione approvata il 5 ottobre 2001) per indicare ai giudici la “esatta interpretazione della legge”. Tutto questo, secondo il Cavaliere, è stato reso necessario dall’esistenza di un complotto giudiziario. E allora, quello di B. non è certo un modello da rivendicare e seguire come vorrebbe invece Salvini. Tra problemi tecnici ed errori, il processo penale telematico non esiste di Giulia Merlo Il Domani, 23 dicembre 2024 Mentre il ministero della Giustizia pensa alla riforma dell’ordinamento giudiziario, le strutture digitali arrancano. Nel 2025 doveva partire il processo penale via APP, ma non è ancora a regime e si procede col “doppio binario”. La separazione delle carriere tra giudici e pm è il tema che più ha impegnato il ministero della Giustizia e che sta tenendo banco da mesi in parlamento, dove ora è approdata in aula alla Camera con un testo di riforma costituzionale. In realtà, però, la vera questione che ha impegnato - e complicato - la giustizia nel lavoro quotidiano di tutti i suoi operatori, negli ultimi anni, è il processo telematico. Meno politicamente scenografica ma certo più impattante per gli addetti ai lavori, la transizione dalle lunghe file in tribunale con plichi di carte al deposito degli atti in via telematica, attraverso piattaforme dedicate, è da anni una delle grandi scommesse di sistema giustizia. Ancora non vinta, però, nonostante il finanziamento in digitalizzazione di 133 milioni di euro, previsto dal Pnrr per raggiungere due obiettivi: dematerializzare quasi otto milioni di fascicoli e la realizzazione di un data lake che comprende anche un sistema di gestione e analisi dei processi civili e penali. Se il processo civile telematico è ormai una realtà esistente e rodata - anche se ancora funestata dai malfunzionamenti dei server ministeriali - il vero passo avanti, ancora non concluso, è quello del processo penale telematico. Ovvero la creazione di una piattaforma per la gestione degli atti del pm e della difesa e delle ordinanze e sentenze dei giudici, sia nella fase delle indagini preliminari sia del dibattimento. Le firme digitali - La prima riguarda i dirigenti delle Corti d’appello, che hanno ricevuto una comunicazione ministeriale secondo cui, “a causa di una direttiva vincolante europea, i certificati di firma sulle CMG (Carte multiservizi della Giustizia) emesse prima di gennaio 2024, verranno revocati da autorità a partire dal primo gennaio 2025”, con l’invito a dare “priorità al personale di magistratura ai funzionari delegati poiché maggiormente influenzati dal provvedimento”. Tradotto, i magistrati con le card vecchie non avranno più in uso la firma digitale, dunque non potranno utilizzare tutti i vari applicativi per cui è richiesta con il rischio di un blocco della maggior parte delle attività. Senza le CMG non è possibile depositare gli atti da remoto e dunque far funzionare il processo telematico. Il ministero della Giustizia ha assicurato che le attività del processo civile telematico non subiranno interruzioni e che è in corso lo studio di rimedi o la sostituzione delle card, ma a oggi agli uffici delle corti non sono pervenute altre informazioni sulla proroga. Di qui la grande agitazione, segnalata al guardasigilli Carlo Nordio anche dall’Anm. Mentre di “approssimazione, confusione, assenza di notizie e direttive chiare su una questione che è centrale per il lavoro quotidiano” ha parlato il gruppo delle toghe progressiste di Area. A oggi, il ministero ha garantito che le vecchie carte continueranno a funzionare finché non saranno sostituite, ma senza comunicazioni ufficiali. Il processo penale - In acque non meno agitate si muovono i magistrati penali e gli avvocati penalisti. Di rinvio in rinvio, il processo penale telematico previsto dalla riforma Cartabia nel 2022 dovrebbe entrare definitivamente in vigore dal 1° gennaio 2025, ma la struttura digitale è tutt’altro che pronta. Il problema si chiama APP - acronimo che sta per applicativo per il processo penale - che è l’applicativo del ministero per la gestione del processo. Negli mesi del 2024 che servivano per il rodaggio, APP ha avuto parecchi problemi di malfunzionamento tanto che a marzo dodici procure hanno chiesto di sospenderne l’utilizzo. Troppi i disguidi tecnici, causati da una progettazione iniziale del software che è stata definita non adeguata alla reale organizzazione degli uffici. Il Csm, a cui le procure si sono rivolte, ha parlato di “vizi progettuali da recuperare con urgenza”. Per sintetizzare con una battuta i problemi, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, il procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, ha detto che “il tanto annunciato processo penale telematico non è una realtà. Prima riuscivo ad archiviare un fascicolo in meno di 10 minuti, mentre oggi ci vogliono almeno 2 ore”. Il risultato è stato il rilascio, il 18 ottobre scorso, di APP 2.0 che ora è in uso sia nelle procure sia nei tribunali e che dovrebbe colmare le lacune segnalate dagli uffici giudiziari con l’aggiunta - secondo il ministero - di sistemi di ricerca dei fascicoli, la possibilità di lavorare in bozze e la visualizzazione del calendario udienze. Via Arenula ha difeso l’applicativo, dicendo che “le nuove funzionalità saranno in grado di soddisfare le richieste manifestate dai magistrati durante la sperimentazione”. Tuttavia, il ministero ha deciso di creare comunque un ulteriore cuscinetto: un regime di doppio binario, ovvero la possibilità che gli atti vengano depositati ancora sia in modalità cartacea sia telematica. Uno schema di decreto legge prevede, per i giudizi di primo grado “sino al 31 dicembre 2025”, il deposito degli atti della procura e del gip e gli atti nei procedimenti cautelari e del giudizio del tribunale del riesame possano avvenire anche con modalità non telematiche. Una proroga col doppio binario fino al 1° aprile 2025 è prevista per l’iscrizione delle notizie di reato e degli atti del rito per direttissima. Da subito, in modalità esclusivamente telematica, dovranno invece essere depositati “gli atti del processo nelle fasi dell’udienza preliminare, dei riti speciali (giudizio immediato, abbreviato, patteggiamento e decreto penale di condanna) e del dibattimento”. In altre parole, e nonostante le scadenze del Pnrr, il pieno funzionamento del processo penale telematico è stato di nuovo rinviato, “così sarà possibile assicurare un congruo periodo di sperimentazione del Ppt anche nel corso del 2025”. La decisione deve passare al vaglio del Csm, il cui parere è obbligatorio, e proprio in questa sede, i grossissimi problemi del nuovo processo penale telematico, sono stati fotografati: si arranca in tecnologia, assistenza e formazione degli operatori. Bene dunque le proroghe, ma chi attivamente sta utilizzando gli strumenti digitali spiega che, anche per quei flussi ridotti per i quali l’obbligatorietà scatterà dal 1° gennaio come per i procedimenti per rito direttissimo, “non è stata fatta alcuna sperimentazione negli uffici”. Il segretario di Area, Giovanni Zaccaro, si è fatto portatore di questa preoccupazione: “La tecnologia deve essere al servizio della giustizia, per renderla più efficace. Ma servono programmazione, investimenti e formazione degli operatori. Su tutto questo, da tempo il ministero latita. Forse, invece che a riformare la magistratura, Nordio dovrebbe preoccuparsi di fare funzionare meglio la macchina della giustizia”. Secondo fonti ministeriali, a rendere così farraginoso il passaggio - l’ultimo blocco di tutti i sistemi operativi di giustizia, e anche di Italgiure, è avvenuto il 17 dicembre su tutto il territorio nazionale - è stato anche l’avvicendamento al vertice della Dgsia, la struttura chiamata a guidare la trasformazione digitale. Il direttore generale Vincenzo De Lisi, ingegnere esperto del settore e scelto nel 2021 per gestire il processo, si è dimesso nell’ottobre scorso per dissidi - sempre secondo le ricostruzioni interne - con la capa di gabinetto del ministro, Giusi Bartolozzi. Oggi la gestione dei servizi informatici è stata affidata a una società esterna. Per i magistrati e gli avvocati si apre dunque un 2025 pieno di incognite. In attesa di risposte da parte del ministero, ormai destinate al nuovo anno. Perugia. Diritto alla salute in carcere, chiesta archiviazione dell’indagine di Andrea Rossini ansa.it, 23 dicembre 2024 L’inchiesta aperta dopo un esposto del Garante dei detenuti. Pure senza ipotesi di reato, la procura condanna lo scaricabarile di responsabilità. Le carenze e i disservizi in ambito sanitario all’interno del carcere esistono, ma sono dovute alla mancanza di risorse e alla disorganizzazione e non a comportamenti dolosi rivolti a danneggiare i detenuti. Sono le conclusioni dell’inchiesta della procura di Perugia aperta cinque mesi fa dopo l’esposto del Garante dei detenuti Giuseppe Caforio. Il procuratore capo Raffaele Cantone nel chiedere l’archiviazione al giudice perché non si configurano ipotesi di reato, neanche riguardo all’eventuale ipotesi di omissione di atti d’ufficio, “condanna” la logica dello scaricabarile tra la direzione del penitenziario di Capanne e l’azienda sanitaria locale. Seppure alcuni disservizi “possono ritenersi sussistenti” secondo Cantone sono emersi al massimo in qualche caso comportamenti non improntati all’auspicabile diligenza e/o di non ottimale organizzazione delle risorse, ma che non sono penalmente rilevanti”. “In altri termini - sottolinea il garante dei detenuti il cui proposito era soprattutto accendere un faro sulla questione - il problema organizzativo sussiste e certamente sarà necessario coordinare l’attività del Dipartimento penitenziario con quella della sanità regionale per assicurare il rispetto dei principi fondamentali dei diritti inviolabili, a cominciare dal diritto alla salute”. Udine. Carcere di via Spalato, centinaia in corteo per i diritti dei detenuti Il Gazzettino, 23 dicembre 2024 Dalla Cattedrale in centro storico al carcere di via Spalato, la marcia non violenta per i diritti e la dignità di chi vive dietro le sbarre ha radunato centinaia di persone. Il garante dei detenuti Andrea Sandra parla senza mezzi termini di “un successone. 300 persone circa per tutto il corteo”. Dopo l’apertura del vescovo Riccardo Lamba, davanti alla casa circondariale di via Spalato sono intervenuti Roberta Casco per l’associazione Icaro, Franco Corleone (ex garante) per “La società della ragione”, la parlamentare dem Debora Serracchiani e l’assessora comunale Arianna Facchini. Il coro popolare della Resistenza ha chiuso con Bella ciao. “Abbiamo consegnato al carcere le rose (circa 200) e la luce di Betlemme che è stata portata dagli scout”. Nutrita la presenza di esponenti politici. Per il Comune, fra gli altri anche gli assessori Rosi Toffano, Federico Pirone e Stefano Gasparin e i consiglieri Andrea Di Lenardo (Avs e Possibile), Anna Paola Peratoner (Pd), Lorenzo Croattini, Stefania Garlatti Costa, Lorenzo Patti, Davide Gollin e Alessandro Vigna per la civica detoniana, Antonella Fiore (Spazio Udine). Fra i consiglieri regionali presenti Serena Pellegrino e Manuela Celotti. “Una marcia per la civiltà dentro e fuori il carcere, per ribadire che il disinteresse per le condizioni di vita negli istituti di pena è un’arma a doppio taglio, che prima o poi fa male a tutta la società. Le centinaia di persone che sono scese in strada chiedono che si metta fine alla vergogna di un sovraffollamento che a Udine raggiunge percentuali insostenibili e ostacola progetti di socialità. Chiediamo che sia sostenuto il lavoro del nuovo Garante dei detenuti e Andrea Sandra e l’impegno di Franco Corleone per attuare un “modello Udine” che finalmente rispetti l’articolo 27 della Costituzione sulla rieducazione del condannato”, ha detto Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd. “Non smetteremo di ringraziare il personale che lavora nei penitenziari - ha aggiunto Serracchiani - in mezzo a tanti problemi, e non smetteremo di incalzare il ministro della Giustizia perché adotti misure immediatamente attuabili. Il Governo prenda atto del proliferare di patologie psichiche e organiche, si assuma la vergogna del crescente numero di suicidi”. Di Lenardo (anche nella segreteria nazionale di Possibile) ha ringraziato Sandra “per la riuscitissima manifestazione per le condizioni dei detenuti del carcere di Udine, che ha visto la partecipazione di diverse centinaia di persone e a cui abbiamo congiuntamente aderito. Un segnale importante di umanità e un messaggio chiaro al governo”. Per Peratoner è stato “emozionante essere qui con tante persone unite dal desiderio di sentirci parte di una coscienza collettiva che deve ripartire dagli ultimi degli ultimi, dagli invisibili”. Anche Fiore ha spiegato di aver partecipato “con convinzione alla marcia organizzata per accendere i riflettori su una questione di grande rilevanza sociale e umanitaria: il sovraffollamento nelle carceri. Questa problematica, che riguarda la dignità di detenute e detenuti, ci richiama al dovere di costruire un sistema penitenziario che rispetti i diritti umani e promuova il reinserimento sociale”. Nel ringraziare Sandra e l’associazione Icaro, per l’impegno per chi vive in carcere, si è impegnata a “mantenere alta l’attenzione su questo tema, promuovendo politiche che mettano al centro la dignità e i diritti di tutte e tutti. Solo attraverso un’azione collettiva e determinata potremo costruire una società più giusta e inclusiva”. Cremona. Carcere, il 24 dicembre ispezione dell’Associazione Radicale “Fabiano Antoniani” cremonaoggi.it, 23 dicembre 2024 Il 24 dicembre dalle 10, una delegazione dell’Associazione Radicale “Fabiano Antoniani” entrerà in visita ispettiva al carcere di Cremona, insieme all’Assessora al Welfare di Cremona Marina della Giovanna, al presidente del Consiglio comunale di Cremona Luciano Pizzetti, ai consiglieri comunali Alessandro Portesani, Eleonora Sessa e Vittoria Loffi, oltre che al sindaco di Capralba, Damiano Cattaneo e al vice sindaco di Casaletto Vaprio, Edoardo Vola. “I numeri della Casa Circondariale di Cremona sono problematici e non sono che lo specchio di una situazione nazionale che difficilmente propone soluzioni a un sovraffollamento intollerabile, tanto per i detenuti quanto per la polizia penitenziaria e il personale con il compito di risocializzare il reo” commenta Vittoria Loffi, che è anche segretaria dell’associazione. “La visita ispettiva annuale è parte di un percorso che, come Associazione, da tempo cerchiamo di portare avanti convintamente, per portare Istituzioni e cittadinanza alla scoperta di un microcosmo alle porte della città”. Secondo i vertici dell’associazione, “La Casa Circondariale di Cremona, attualmente, sfida i limiti posti dalla sentenza Torreggiani, avvicinandosi pericolosamente a un tasso di sovraffollamento fuorilegge, nonostante l’impegno profuso da personale ed educatori. Problematica peculiare della struttura sono poi le tossico e alcol-dipendenze di molteplici detenuti, oltre che diversi episodi di autolesionismo che rendono necessario un profondo intervento alla radice, nazionale e dei Ministri competenti. A conclusione della visita, verranno forniti i dati aggiornati concernenti la struttura. Verbania. La Banda Biscotti ha 20 anni e combatte (vincendo) la battaglia della recidiva di Nicolò Fagone La Zita Corriere Torino, 23 dicembre 2024 Il progetto di Verbania coinvolge dai 4 agli 8 detenuti, che escono per lavorare nel laboratorio. Farina, lievito, acqua e tanta voglia di riscatto. Sono gli ingredienti utilizzati da alcuni detenuti del carcere di Verbania che, durante tutto l’anno, si recano in un piccolo laboratorio a poche centinaia di metri dalla struttura per creare cookies, baci di dama e panettoni artigianali. Un luogo che si è trasformato nella cucina della Banda Biscotti, un progetto che mescola sapientemente lavoro nelle carceri, inclusione, prodotti biologici, mercati solidali e reinserimento sociale. E pensare che tutto è iniziato come un semplice corso di formazione all’interno del carcere, capace poi di trasformarsi in una vera cooperativa. “Il progetto nasce a metà degli anni Duemila - spiega la coordinatrice, Alice Brignone - quando i detenuti, spinti dall’entusiasmo, hanno chiesto di continuare l’attività di pasticceria all’interno di una cella nel carcere. Da lì l’iniziativa è cresciuta ulteriormente e si è formalizzata con la Cooperativa Il Sogno, in un ambiente esterno”. L’obiettivo è far lavorare i detenuti offrendo loro qualcosa di più di un semplice passatempo: un lavoro vero, retribuito, che permette di acquisire competenze spendibili. “Da agosto inizia il momento clou dell’anno - aggiunge Brignone - perché si parte con la produzione del Natale. In quel mese gli inserimenti lavorativi spesso aumentano, almeno di tre unità. Grazie alle festività recuperiamo il 70% del fatturato, che per noi significa pagare gli stipendi. Tutti i detenuti sono assunti secondo il contratto delle cooperative sociali, e per molti si tratta di una prima volta. Non hanno mai avuto un lavoro regolare”. Banda Biscotti è un esempio di come il tasso di recidiva, cioè di ritorno in carcere a un anno dall’uscita (che in Italia è sopra il 68%), possa abbattersi al 2% quando si interviene con progetti educativo-formativi. Il contrario “dell’intima gioia” di “non lasciar respirare”, il concetto espresso dal sottosegretario alla giustizia Delmastro. Con Banda Bassotti i detenuti non sono ingranaggi di un sistema che li isola, ma diventano parte di un ciclo produttivo che li collega al mondo esterno, riacquistando quella dignità spesso smarrita. “Il luogo adibito a laboratorio una volta ospitava l’istituto minorile cittadino - racconta Brignone - e i suoi detenuti venivano chiamati barabit (bambino dispettoso). Questo nome oggi viene ripreso da 2 dei nostri biscotti: uno senza farina di grano e uno senza uova e burro. Il motivo? A quei ragazzini mancava qualcosa, come ai nostri dolci, ma entrambi sono buoni”. La Banda Biscotti impiega circa 8 persone, e non solo: “Se consideriamo anche la Gattabuia (ristorante sociale) e Casa Ceretti (bar), gli altri due progetti della cooperativa, in totale occupiamo 20 persone su 70 detenuti”. Dal ragazzo classe 1995 all’adulto del 1958, pronti a darsi una seconda possibilità. Firenze. La “messa alla prova” dei detenuti, un convegno sul tema ilgiornalepopolare.it, 23 dicembre 2024 Al 2023 sono 26mila 84 le applicazioni della misura alternativa alla detenzione a livello nazionale, delle quali 5mila 51 in Toscana. Messa alla prova e lavori di pubblica utilità come strumenti di costruzione di un’alternativa alla detenzione. Di questo si è parlato nel convegno ‘Giustizia nella Comunità. Il ruolo della società civile e della comunità nella costruzione di una alternativa alla detenzione”, organizzato dal Garante della Toscana Giuseppe Fanfani nell’Auditorium di palazzo del Pegaso a Firenze. Come ha spiegato la coordinatrice del convegno Katia Poneti “introdotta nel 2014 e ampliata nel 2022 con la Riforma Cartabia, la sospensione del procedimento con messa alla prova ha lo scopo di deflazionare la giustizia penale e di ridurre gli ingressi in carcere. A tal fine sospende il procedimento penale e sottopone la persona imputata a un programma trattamentale, che comprende un’attività a favore della collettività, il lavoro di pubblica utilità appunto, da svolgere pressi gli enti convenzionati con il Tribunale. Il buon esito della messa alla prova estingue il reato”. Poneti ha ricordato alcuni numeri “al 2023 sono 26mila 84 le applicazioni di messa alla prova a livello nazionale, delle quali 5mila 51 in Toscana, un dato che fa pensare - continua- perché le presenze di detenuti in carcere sono in aumento dai 60mila del 2023 ai 62mila 427 ad oggi, questo indica che quei 26mila in messa alla prova non sono stati sottratti alle persone in carcere”. “Il progetto ha voluto creare una rete tra le associazioni toscane coinvolte nei lpu/messa alla prova, valorizzando il confronto e lo scambio di buone pratiche - ha detto l’assessora alle politiche sociali Serena Spinelli - è importante lavorare in sinergia con lo stesso obiettivo, quello di costruire percorsi che siano alternativi alla detenzione”. “Sappiamo che alle misure alternative abbiamo la necessità di far accedere più persone possibili e che talvolta quelli più fragili vi accedono con più difficoltà”. “Dobbiamo creare - conclude - cultura della misura alternativa al carcere”. Milano. Carcere di Bollate, l’idea del libraio in pensione: offrire letture ai detenuti di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 23 dicembre 2024 Duecento le richieste, 742 i testi donati. Un campione del basket anonimo ha donato 400 euro per comprare libri. Il prossimo obiettivo di Renato Mele, 82 anni: far leggere i ragazzi del Beccaria, “dove ancora non sono riuscito a creare una biblioteca come dico io”. Renato Mele, 82 anni, libraio in pensione e fin dentro l’anima, si è dedicato ad una operazione colossale: ha raccolto i desideri di Natale di duecento detenuti e li ha messi nero su bianco. Poi ha portato quella lista di titoli lunga venti pagine a tre librerie da una parte all’altra della città e diffuso quanto più ha potuto la voce presso amici e conoscenti: “Comprateli, io poi li recapiterò al carcere di Bollate”, diceva a tutti. Risultato: invece che duecento libri, la gente gliene ha affidati 742. Non solo: un campione del basket che vuole restare anonimo ha donato altri quattrocento euro, sempre destinati a comprare volumi da portare nelle celle. A Renato, a questo punto, luccicano gli occhi. Capisce di aver fatto qualcosa di grande: “Ogni libro che accende il desiderio è una finestra sul mondo. Essere affamati di storie aiuta a non rimanere prigionieri della propria”. Lui, libraio da sempre, lo pensa davvero. Ha iniziato tantissimo tempo fa a lavorare alla “Sapere” di piazza Vetra, dove oggi c’è il ciclista Olmo, poi si è spostato alla libreria di via Tadino. Decenni di avventure sempre in mezzo ai volumi e alla parola scritta. “Il primo giorno di pensione mi sono riposato un’ora e poi già ero stufo, mi sentivo solo. Stare con le mani in mano non è il mio karma, ho bisogno di avere intorno i personaggi dei libri e di farli conoscere anche agli altri. Ci provo e ci riprovo finché la gente non mi ascolta”, racconta. Così è entrato nel mondo delle carceri milanesi e ha fondato, una dopo l’altra, le biblioteche per i reclusi di San Vittore, Opera e Bollate. Ragiona Renato: “Il lavoro era la mia vita perché era con i libri, senza cui non sono capace di stare”. Per lui non è stato assolutamente facile prendere accordi con tre librerie (la “Gogol” in via Savona, la “Scamamù” a Dergano e il “Convegno” in via Lomellina) e fare la spola da un capo all’altro della città per verificare man mano se qualcuno aveva per caso risposto all’appello. Ma nel giro di due settimane la voce si è diffusa e così un mare di gente ha lasciato un libro sospeso per chi, dietro le sbarre, aspettava. “I libri regalano libertà e bellezza, fanno evadere i pensieri. Ci vuole un po’ di tempo per capirlo ma alla fine il messaggio arriva. Sono anche un ponte straordinario: aiutano noi volontari della biblioteca a trovare con chi vive in cella un terreno comune di cui parlare, su cui confrontarci attraverso le generazioni”. Pugili sconfitti, misteri che si svelano pian piano, ambizioni nate in strada, brama di denari che trascina verso la perdita del controllo di sé. Piacciono le storie forti, i personaggi in cui si possono riconoscere, “quelle che attivano emozioni”. A Bollate Renato organizza concorsi di lettura e scrittura e incontri con autori come Biondillo, Dazzieri, Balzano che grazie a lui e a un’altra volontaria, Rossella Coarelli, hanno preso a frequentare la biblioteca. “Per Natale hanno chiesto tanti titoli di cui abbiamo parlato insieme: Come Dio comanda di Ammaniti e Il castello dei destini incrociati di Calvino, ad esempio, o thriller di Joel Dicker: si sono messi d’accordo e hanno domandato titoli diversi, così possono scambiarseli”. Colpisce anche il numero di guide di viaggio, in quella lunghissima lista: “Alcuni vogliono “rivedere” almeno nelle pagine e nelle fotografie le loro terre d’origine, altri sognano viaggi in Paesi lontani che probabilmente non visiteranno mai. L’immaginazione è intimamente connessa con il rimpianto di non poter fare certe cose e a volte ricorda in modo doloroso ciò che è andato perso - ragiona ancora Renato. Altre volte i libri accentuano la rabbia per presunte ingiustizie subite o la percezione delle proprie limitazioni. Eppure sono vitali, e non solo perché creano un diversivo alla ripetitività delle giornate carcerarie”. Il prossimo obiettivo dell’instancabile Renato è farlo capire anche ai ragazzi giovanissimi del Beccaria, “dove ancora non sono riuscito a creare una biblioteca come dico io”. Non è semplice interessare gli adolescenti ai libri. Ma se qualcuno può riuscirci, magari è proprio lui. Roma. A Rebibbia per il Giubileo, una nuova opera d’arte voluta da Papa Francesco di Francesca Amé vanityfair.it, 23 dicembre 2024 “Io contengo moltitudini” è l’installazione di Marinella Senatore, svelata il 26 dicembre, dopo l’apertura della seconda Porta Santa nel carcere. È un Natale particolarmente speciale, questo. Papa Francesco la notte della Vigilia dà avvio al Giubileo 2025 con l’apertura della Porta Santa a San Pietro e poi apre un’altra porta speciale. Quella di un carcere. Sì, con i gesti fortemente simbolici che lo caratterizzano da sempre, Francesco il 26 dicembre ha scelto come Seconda Porta Santa da aprire per il Giubileo dedicato ai “pellegrini di speranza” quella del carcere romano di Rebibbia. Un simbolismo perfetto, necessario, un gesto forte per restituire la speranza a chi vive recluso, a chi spesso è dimenticato, in un momento molto difficile per le condizioni generali delle nostre case di reclusione. Un modo per spalancare porte di luoghi che ci fa comodo tenere sprangati. Quello stesso giorno, il Papa non è solo. È svelata nel cortile del carcere, visibile ai detenuti e a tutte le loro famiglie, anche un po’ di bellezza. È merito di Marinella Senatore, artista che nella sua pratica da sempre mette al centro le persone e la vita. Grazie al progetto L’arte contemporanea in carcere: la sfida della speranza, voluto dal cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, Marinella Senatore ha realizzato in collaborazione con la popolazione carceraria di Rebibbia e con la cura appassionata di Cristiana Perrella, un’opera con un titolo che non ha bisogno di troppe spiegazioni: Io contengo moltitudini. È una installazione importante, alta circa 6 metri e dal diametro di 3: è composta da luminarie e elementi che riportano frasi in diverse lingue e dialetti. “Nella sua forma, si presenta come una struttura verticale che evoca le macchine usate nei fuochi d’artificio delle festività barocche romane”, ha spiegato Marinella Senatore, “Nella mia pratica le opere sono innanzitutto esperienze condivise e trasformative, riflesso del mio impegno continuo nella partecipazione attiva e nella collaborazione collettiva. Le frasi selezionate, raccolte insieme ai membri della comunità, sono espressioni potenti di speranza e si intrecciano in una narrazione comune attraverso cui l’opera diventa un luogo di incontro e condivisione. Le luminarie, ispirate alle tradizioni popolari del Sud Italia, diventano architetture effimere che creano occasioni di incontro e partecipazione. La luce ha la capacità di trasformare un luogo in uno spazio speciale dove possano accadere cose speciali”. E ancora: “Sono convinta che l’arte possa essere molto trasformativa, che possa attivare nelle persone cambiamenti molto più veloci di altri metodi. Non è la prima volta che lavoro in un carcere, l’ho fatto in diverse altre parti del mondo, ma a Rebibbia è successa una cosa molto particolare. Quando in passato ho invitato detenuti a scegliere una frase da disegnare sulle luminarie, spesso mi proponevano parole di altri, citazioni, testi di poesie. A Roma questo non è accaduto: chi ha partecipato ha voluto usare parole personali, le sue precise parole. Questo dimostra che siamo riusciti a dare voce e ascolto a persone che non hanno voce e ascolto nella nostra società. Sono rimasta profondamente colpita dal progetto a Rebibbia: tornerò di sicuro. I detenuti, non mi vergogno a confessarlo, mi sono stati anche vicino durante un momento di grave difficoltà personale (un ricovero ospedaliero fortunatamente risolto, ndr) facendomi sentire il loro forte desiderio di portare avanti il progetto”. “Il carcere è un luogo che ha un enorme bisogno di bellezza e di cultura: ne hanno bisogno i detenuti e anche chi vi lavora”, dice Cristiana Perrella che ha curato il progetto di Senatore a Rebibbia e che sarà anche la curatrice per il 2025 del programma del nuovo spazio espositivo del Dicastero, denominato Conciliazione 5, dal numero civico della via in cui si trova. Lo spazio è concepito come una vetrina aperta 24 ore su 24 su via della Conciliazione ai pellegrini di passaggio che qui trovano esposte opere di artisti contemporanei realizzate in collaborazioni con diverse carceri: si comincia con il pittore cinese Yan Pei-Ming, famoso per i suoi intensi ritratti di grandi dimensioni. L’artista realizza alcuni nuovi lavori dedicati al carcere di Regina Coeli di Roma che ha visitato nei giorni scorsi: “Sono state giornate molto intense. L’arte, infatti, sollecita un modo differente di vedere e capire le cose, sfidando le convenzioni e generando nuove domande, nuovi pensieri e dunque aprendo a una possibilità di trasformazione”, commenta Perrella. I lavori di Pei-Ming si vedranno in occasione del Giubileo degli Artisti (15-18 febbraio) e altri progetti, altre Porte della Speranza verranno aperte in altre carceri, in Italia e nel mondo, per un Giubileo di reale speranza per tutti. Perché, come ha detto il cardinal de Mendonça, “Sono importantissime le esperienze che portano la produzione artistica contemporanea in luoghi sensibili dell’esistenza, dove si toccano con mano le nude domande. Le carceri sono luoghi così. L’arte può essere voce e volto dei drammi che rimangono di solito invisibili e può rendere le società più consapevoli della loro altissima responsabilità, che ci obbliga ad una cittadinanza attiva e condivisa”. Lecco. “Uno sguardo da dentro”, la fotografia che aiuta i detenuti di Christian Cabello interris.it, 23 dicembre 2024 Il valore della prossimità e della formazione nei confronti dei detenuti spiegata a Interris.it in occasione dell’imminente apertura della Porta Santa dal dott. Andrea Donegà, direttore delle sedi Enaip di Lecco, Monticello Brianza e Morbegno, e fautore del progetto “Uno sguardo da dentro”. Nel giorno di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, dando inizio a un evento unico nella storia. Interris.it, in merito al significato simbolico di questo momento e al valore dell’inclusione dei detenuti, ha intervistato il dott. Andrea Donegà, direttore dei presidi scolastici Enaip di Morbegno e Lecco, tra i fautori del progetto “Uno sguardo dentro”. Dott. Donegà, che obiettivi ha “Uno sguardo da dentro”? “Enaip è attivo anche sul fronte della formazione e degli interventi di inclusione in carcere in tutto il territorio lombardo. A Morbegno, area di mia competenza, abbiamo già svolto diversi corsi: uno di fotografia sul tema dei tatuaggi e delle storie impresse sulla pelle; un corso sulle tecniche di tinteggiatura, che abbiamo proposto anche nel carcere di Lecco, e uno sui lavori di manutenzione, arrivando anche a certificare le competenze dei partecipanti. C’è poi questo bellissimo progetto, sempre sulla fotografia, chiamato ‘Uno sguardo da dentro’, finanziato dalla Fondazione Pro Valtellina e tenuto da Domiziano Lisignoli, fotografo professionista e docente Enaip. Questa progettualità nasce dalla volontà di raccontare la quotidianità della vita in carcere, una realtà che tutti dovrebbero conoscere perché è parte delle nostre comunità. Raccontare il carcere e portarlo fuori significa farlo raccontare a chi lo vive. Lo sguardo delle persone detenute sulla sa cogliere attimi e particolari che sfuggono a un estraneo che osserva con lenti appannate dal pregiudizio e dall’immaginazione. Il loro sguardo, invece, arriva dritto alla quotidianità, illuminando particolari che ci interrogano perché colgono i sentimenti della vita vissuta che, ora, è fissata in quelle bellissime fotografie e deve diventare popolare, cioè di tutti.” In che modo, attraverso la fotografia, si può creare inclusione nei confronti delle persone in carcere? Questa mostra è un’esperienza da vivere perché dietro ogni quadro ci sono le storie delle persone. Ha una grande valenza civica che ci insegna che il carcere deve essere un luogo dove scontare la pena ma, soprattutto, dove esercitare il diritto di immaginare un futuro possibile che è ciò alimenta la speranza che tiene viva la persona, ovunque si trovi, consentendole di riconciliarsi con la società e preparandosi a farvi rientro a pieno titolo. Ecco, fare tutto ciò con dei corsi professionalizzanti che possano dare la possibilità alle persone di acquisire delle competenze da spendere nel mondo del lavoro sono l’onere e l’onore che vogliamo assumerci. La formazione assume un grande valore pedagogico e sociale diventando la chiave per trovare un lavoro, condizione necessaria per riprendersi in mano la propria vita e abbattere la recidiva. Quali sono i vostri desideri per il futuro di queste attività? “Stiamo già immaginando diversi progetti da realizzare anche con altri soggetti che condividono con noi questi orizzonti. Abbiamo la fortuna di aver incontrato Direttori, operatori e Comandanti della Polizia Penitenziaria e funzionari giuridici pedagogici molto disponibili e professionali. Partendo dal carcere si può costruire un futuro fatto di inclusione e prossimità ed è una palestra dove imparare a organizzare speranza. Le esperienze come questa sono dei momenti di crescita non solo professionale ma soprattutto umana che scaldano il cuore e fanno riscoprire la bellezza della gratuità delle relazioni.” Il 26 dicembre, Papa Francesco, aprirà la Porta Santa a Rebibbia. Che significato assume questo momento? “Un’iniziativa dal valore simbolico molto forte. È la bellezza dell’idea di avere un Giubileo, come ci ricorda don Virginio Colmegna, in cui la Chiesa, aprendo altre porte che non sono meno sante di quelle di San Pietro, ci insegna l’importanza di spalancare varchi in cui le opere di misericordia siano sperimentate come possibilità concreta di una nuova realtà. In fondo, se ci pensiamo bene, è un po’ l’eredità di Franco Basaglia, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita: la deistituzionalizzazione è la capacità di saper mettere in discussione l’istituzione ogni volta che la creiamo, aprendola e rimettendola al mondo, impedendole di diventare un luogo chiuso di contenimento. Uno straordinario parallelismo con il concetto di carità che contiene, in sé, l’idea di quel futuro capace di far fiorire le persone e portare speranza anche dove sembra non esserci.” Isernia. “Musica e speranza”, evento dedicato ai detenuti agensir.it, 23 dicembre 2024 La Casa circondariale di Isernia ospiterà un evento straordinario dedicato ai detenuti, dal titolo “Musica e speranza”, in programma il 23 dicembre, alle ore 10:30. L’iniziativa, promossa dalla Direzione della casa circondariale e realizzata in collaborazione con il Conservatorio “Lorenzo Perosi” di Campobasso, l’associazione “Liberi nell’Arte” - Circolo Acli e l’Unione cattolica della stampa italiana (Ucsi) del Molise, rappresenta un momento di prossimità, riflessione e condivisione in vista delle festività natalizie. “Musica e speranza è la giusta premessa per portare un messaggio di solidarietà e rinascita - ha sottolineato la presidente del Conservatorio Lorenzo Perosi, Rita D’Addona - offrendo ai detenuti un momento di formazione e di incontro attraverso il linguaggio universale della musica. L’iniziativa si inserisce in un percorso più ampio volto a promuovere l’arte come strumento di crescita personale e di reinserimento sociale”. L’evento si aprirà con i saluti istituzionali e gli interventi delle autorità presenti: il senatore Claudio Lotito; Maria A. Lauria, direttrice della casa circondariale di Isernia; Rita D’Addona, presidente del Conservatorio “L. Perosi” di Campobasso; Vittorio Magrini, direttore del Conservatorio “L. Perosi” di Campobasso; Fabrizio Raimondi, componente Mur del Conservatorio “L. Perosi” di Campobasso; don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri d’Italia. A seguire, mons. Camillo Cibotti, vescovo di Isernia-Venafro, offrirà un messaggio natalizio di speranza rivolto ai detenuti e a tutto il personale della struttura penitenziaria, dalla Direzione alla Polizia penitenziaria fino all’area educativa e ai volontari. L’ iniziativa si colloca nell’orizzonte del Giubileo del 2025, con l’obiettivo di promuovere una giornata di Giubileo presso la casa circondariale e avviare un protocollo di intesa con il Conservatorio per favorire la formazione dei detenuti attraverso la musica. La parte musicale, cuore dell’evento, sarà affidata all’interpretazione di brani natalizi tradizionali con strumenti tipici della cultura molisana, come la zampogna e il tamburo a cornice, curata dal Dipartimento di Musiche tradizionali del Conservatorio. Protagonisti saranno Paladino Alenuccio e Francesco Esposito, allievi del Conservatorio “L. Perosi” di Campobasso. “Ritengo che questo evento sia di fondamentale importanza - ha affermato Maria A. Lauria, direttrice della casa circondariale - poiché offre un’opportunità concreta di integrazione con la società esterna e ha una forte valenza terapeutica. In un periodo come quello natalizio, in cui la lontananza dalla famiglia si avverte con maggiore intensità, la musica diventa uno strumento potente di conforto e condivisione. È un linguaggio universale capace di unire e curare gli animi”. L’evento “Musica e speranza” si propone quindi come un gesto simbolico e concreto di vicinanza, valorizzando il potere della musica quale veicolo di speranza e occasione di crescita personale per tutti i partecipanti. La partecipazione è il cuore della nostra democrazia di Mauro Magatti Avvenire, 23 dicembre 2024 Negli ultimi giorni il presidente Mattarella ha fatto due interventi molto importanti. Nel primo, partendo da uno sguardo preoccupato sul disordine internazionale proposto in occasione degli Stati generali degli ambasciatori, ha ricordato che “il diritto di asilo per lo straniero cui venga impedito nel suo Paese l’esercizio delle libertà democratiche, il ripudio della guerra, il perseguimento di pace e giustizia tra le nazioni anche attraverso limitazioni alla sovranità, in condizioni di parità con gli altri Stati” sono principi costituzionali che devono essere rispettati. Certo, nessuno si può nascondere che, a fronte delle tante crisi belliche e politiche, tali principi vadano calati nella concretezza con equilibrio e saggezza. Rimane tuttavia ferma l’idea che l’Italia vuole essere un baluardo della civiltà e del senso di umanità in un mondo che rischia di finire travolto dalla barbarie. Si può e si deve discutere sulle forme concrete di questo principio, non sulla sua sostanza. E in conclusione il Presidente ha lanciato un appello accorato: “Bisogna amare la democrazia. Bisogna prendersene cura”. Alla conclusione del 2024 - e in vista del suo discorso di Capodanno - Mattarella ha voluto mandare un segnale a tutto il Paese. Sul piano formale e sostanziale. Dal primo punto di vista, il Presidente ha voluto ribadire che i principi della nostra Costituzione non si possono dimenticare. Al di là delle diverse interpretazioni (di destra e di sinistra, progressiste o conservatrici), questi principi costituiscono gli architravi della nostra comunità politica. E come tali delineano la cornice entro cui l’azione sociale, economica e istituzionale può essere svolta. La democrazia vive della diversità di opinioni. Ma tale diversità ha dei limiti. Superare i quali significa distruggere le ragioni di fondo che ci tengono insieme. Al di là degli assetti e delle regole istituzionali, la Costituzione del 1948 - ha inoltre sottolineato Mattarella - si caratterizza per l’idea partecipativa della democrazia. Che presuppone un modo attivo di pensare e praticare la cittadinanza, dove i diritti e i doveri sono i due binari sui cui si esprime lo sforzo creativo rivolto al bene comune. Piano formale e piano sostanziale si tengono reciprocamente. Quando si separano l’uno dall’altro, la democrazia si indebolisce e corre dei rischi. Immaginare una democrazia che non rispetta le forme significa distruggerla. Ma anche il solo formalismo democratico finisce per spezzare quel legame che tiene insieme il popolo. La democrazia muore anche quando perde il suo spirito vivificante. In questi ultimi anni si è parlato molto delle minacce che, in un mondo investito da innumerevoli crisi, incombono sulle democrazie. Molti hanno addirittura insistito su una lettura che vede il mondo diviso tra democrazie e autocrazie. Individuando in questa faglia la matrice di un nuovo confronto storico che non si esclude possa sfociare in un conflitto aperto. Può darsi che sia così. Anche se sarebbe prudente evitare semplificazioni eccessive che finiscono per alimentare gli immaginari bellici che vanno diffondendosi in tutto il mondo. Ma se proviamo ad ascoltare Mattarella, possiamo riconoscere che, nel quadro dei grandi cambiamenti che sono in atto, il primo compito per le democrazie è quello di rimanere in salute, sapendosi rinnovare e rigenerare. Dimostrando così ai regimi autocratici che questo modello politico rimane il migliore anche per le società più avanzate. Non c’è nulla di automatico o di scontato in tutto questo. Anzi. Senza nascondersi che tale preoccupazione è particolarmente viva per il nostro Paese, che sta attraversando anni difficili. I richiami del Presidente della Repubblica sono quindi preziosi: la democrazia vince quando non rinnega i principi che la fondano e quando rinnova il senso di una partecipazione attiva alla costruzione di un bene comune che non si esaurisce nelle istituzioni dello Stato. La democrazia è un modo di vivere insieme che ha bisogno di penetrare nelle pieghe della vita quotidiana delle imprese, delle associazioni, dei sindacati, delle scuole, delle università, dei partiti, dei media. Cioè, dell’insieme variegato degli attori che animano la vita di un intero Paese. Si deve sperare che le parole di Mattarella non cadano nel vuoto, travolte dal chiasso e dalla fretta di questi giorni: sono uno stimolo per essere capaci di inventare il futuro con i piedi ben piantati nel passato. Il secondo intervento, svolto in occasione del saluto di fine anno con i rappresentanti alle istituzioni, delle forze politiche e della società civile, si è invece concentrato sui tanti fattori di crisi delle democrazie. Poliziotti, protocolli e concorsi: la scuola militarizzata di Valditara di Valerio Cuccaroni Il Domani, 23 dicembre 2024 Un protocollo d’intesa tra il ministero dell’Istruzione e quello degli Interni per “contribuire alla formazione dei giovani” con l’aiuto di polizia e forze dell’ordine. Un bando per premiare il miglior tema sulla figura del “militare italiano nel passato e nel presente”. Si moltiplicano le iniziative per portare nelle scuole esercito e polizia (anziché più docenti, più psicologi e più fondi). Il protocollo d’intesa, firmato il 21 novembre ma finora non pubblicato, tra ministero dell’Istruzione e Dipartimento per la pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, punta a “contribuire alla formazione dei giovani, promuovendo la cultura della legalità e del rispetto delle regole, perché diventino protagonisti responsabili della propria vita e cittadini consapevoli della società civile”. Ma cosa si farà per raggiungere questo obiettivo? Si scopre leggendo l’articolo 2 dell’atto, dove i ministri Giuseppe Valditara e Matteo Piantedosi si impegnano a promuovere, per i prossimi tre anni, “un programma pluriennale di attività volto alla promozione e alla diffusione della cultura della legalità, del rispetto delle regole, del dialogo tra le culture e della conoscenza della Carta costituzionale, promozione dei temi dell’educazione e sicurezza stradale”. È evidente quanto stridano questi proclami, in particolare quello sul protagonismo giovanile, mentre il 51,4% dei ragazzi soffre in modo ricorrente di stati di ansia o tristezza prolungati, secondo un sondaggio dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Si moltiplicano le iniziative per portare nelle scuole esercito e polizia ma invece di soldati e poliziotti ci vorrebbero più docenti, più psicologi e più fondi per ridurre il numero di alunni per classe. Caro Babbo militare - Oltre che per le forze dell’ordine, il governo cerca proseliti tra le nuove generazioni anche per rimpolpare le forze armate ed ecco spuntare un bando per il miglior tema sul Militare italiano. Il ministero dell’Istruzione ha infatti lanciato il concorso nazionale sul ruolo delle Forze armate e del Militare italiano “a favore della sicurezza nazionale ed internazionale e sul significato dei principi di libertà e democrazia dagli stessi interpretati alla luce della Carta costituzionale”. Destinato alle studentesse e agli studenti delle scuole superiori scadrà il 28 febbraio. Quale miglior periodo tra Natale e Carnevale per elaborare un’opera scritta, grafica o multimediale, sulla figura del “Militare italiano nel passato e nel presente, con particolare riferimento al suo ruolo nella società civile”? Il titolo potrebbe essere: “Caro Babbo Militare, regalami un bel caccia bombardiere”. Come quello che riceve una bambina svedese per dono, in uno spot natalizio pubblicato della Nato. Agli studenti che decidessero di partecipare al concorso, dato che l’opera deve essere realizzata “alla luce della Carta costituzionale”, va segnalato che la scelta del termine “ripudia”, invece che “rinuncia”, nell’articolo 11 della Costituzione dedicato alla guerra, “racchiude in sé la condanna morale verso gli orrori causati dalla Seconda guerra mondiale e, soprattutto, il rifiuto di ogni propaganda militarista, di politiche e ideologie che giustifichino o nobilitino l’uso della guerra, oltre che come alternativa legittima allo sforzo diplomatico e al dialogo in caso di controversie internazionali”. Lo ricorda Save the children nell’articolo Come parlare di guerra a scuola e cosa c’entra l’articolo 11 della Costituzione. “I padri e le madri costituenti - continua l’organizzazione - stabilirono una rottura netta col passato, (quando) nazionalismo e imperialismo avevano portato al vicolo cieco della guerra totale”. Com’è possibile, allora, che il ministero promuova un concorso di chiara matrice militarista per spingere dei minorenni a considerare “il Militare italiano nella storia, nella letteratura, nella musica, nella cultura popolare e nell’arte: esempi e modelli da imitare”? La scuola va alla guerra - Per Antonio Mazzeo, docente siciliano tra i fondatori dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, “il processo di militarizzazione dell’istruzione appare inarrestabile anche perché alimentato dai venti di guerra globale che soffiano in Europa e in Medio Oriente”. “Mai come adesso insegnanti ed educatori sono chiamati a ostacolarlo e opporsi. Ricordiamo Don Milani: l’obbedienza non è mai una virtù”, dice l’attivista a Domani. Nel suo libro “La scuola va alla guerra” (Manifestolibri, 2024), Mazzeo ricostruisce la storia di questo “processo inarrestabile”, individuandone l’inizio in una quindicina di anni fa. Allora l’Italia si è inserita in una traiettoria tracciata dagli Stati Uniti, a partire dalla lezione degli anni Sessanta e Settanta: “Il movimento giovanile di massa che si oppose alla guerra in Vietnam - spiega Mazzeo - ha dimostrato che bisogna ottenere il massimo consenso per legittimare lo stato di guerra, soprattutto tra le nuove generazioni”. Nel sito osservatorionomilscuola.com si denunciano i casi di militarizzazione dell’istruzione, come l’incentivo a rivolgersi, in questo periodo in cui si deve scegliere come proseguire gli studi, alle varie accademie militari: la Nunziatella e la Teulié dell’Esercito a Napoli e Milano, la Douhet per l’Aeronautica a Firenze e la Morosini per la Marina a Venezia, che offrono il triennio classico e scientifico a coloro che tra i 15 e i 16 anni concludono il primo biennio. Quale Ifts? - Altro fenomeno allarmante, segnalato dell’Osservatorio, è la collaborazione tra forze armate e industria, in particolare Leonardo che, come indicato dal ministro della Difesa Guido Crosetto, punta sulla “ricerca di economie di scala e sulla capacità di operare e addestrarsi insieme ad alleati e partner internazionali come essenziale per affrontare sfide emergenti, anche attraverso la creazione di poli addestrativi all’avanguardia, come l’International Flight Training School”. Non sfugga l’acronimo Ifts, scelto per inaugurare la Scuola di Volo internazionale dell’Aeronautica Militare: è lo stesso dei corsi di Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts), consistenti per almeno il 30% delle ore in tirocini aziendali, che sono rivolti ai diplomati, in alternativa all’università. Una confusione tra industria bellica e formazione che se non fosse voluta, di certo non è evitata. Migranti. Nuovo piano Albania: Meloni convoca per oggi il vertice per rilanciare i Centri di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 23 dicembre 2024 “I giudici ci danno ragione”. La premier convoca i ministri a Palazzo Chigi, confortata da una sentenza della Cassazione. Se nel primo giorno del vertice è emerso con forza l’aspetto della difesa militare, nelle conclusioni del summit che ha visto i governi di Italia, Grecia, Svezia e Finlandia confrontarsi sulla sicurezza Ue in un formato totalmente inedito, è l’immigrazione irregolare, anche come strumento di guerra ibrida, che viene analizzata dai leader. In uno dei villaggi più a nord della Finlandia, prima di volare in Lituania per un rapido saluto ai nostri militari impegnati insieme ad altri contingenti Nato, Meloni si sofferma sulla sentenza che ha visto assolto Matteo Salvini, su Open Arms. La premier esclude che questo risultato possa preludere ad un ritorno del capo della Lega al Viminale, ma soprattutto parla di migranti e annuncia per oggi un vertice del governo sui centri rimasti sospesi in Albania. La cornice è condivisa da tutti i leader presenti: i migranti illegali, manovrati da trafficanti o direttamente dagli Stati, sono una delle minacce alla sicurezza della Ue. Meloni ritiene che “le regole del nuovo Patto europeo sulle migrazioni aiuteranno”, ma “devono esserci risposte migliori sui rimpatri”. Tra le sue richieste a Bruxelles anche quella di nuove norme sui Paesi sicuri, che però, nonostante l’impegno della presidente della Commissione europea, non arriveranno prima di marzo. Se i centri in Albania non sono ancora decollati, dice Meloni, si può essere “ottimisti” in base ad alcuni passaggi della recente sentenza della Corte di Cassazione. Che contiene anche posizioni negative per il progetto del governo, ma per Meloni il bicchiere è mezzo pieno, perché i giudici “hanno di fatto dato ragione sul diritto di stabilire quale sia la lista dei Paesi sicuri, mentre i magistrati possono entrare nel singolo caso rispetto al Paese sicuro, ma non disapplicare in toto” la materia. E quindi oggi, a Palazzo Chigi, arriveranno per fare un punto diversi ministri (Interno, Esteri, Difesa, Rapporti europei) oltre al sottosegretario Alfredo Mantovano e al consigliere diplomatico Fabrizio Saggio. “Bisogna pensare fuori dagli schemi: l’Italia è stata la prima a fare un accordo con un Paese extra Ue, stiamo avendo qualche problema nell’interpretazione delle regole ma lo stiamo superando”, ha rimarcato Meloni. Si discute poi del cambio di passo, anche finanziario, che la Ue deve fare per garantirsi un’autonomia militare. Le indiscrezioni sulle intenzioni di Trump, che vorrebbe i contributi alla Nato aumentati sino al 5% del Pil, sono per la premier solo un “rumor, su Kiev ha detto cose che dico da anni, che non possiamo avere la pace abbandonando l’Ucraina, e quindi consiglierei di aspettare per capire quale sia la volontà del nuovo presidente degli Stati Uniti”. In ogni caso la Nato “rimane” un pilastro della nostra sicurezza. Quindi dalla premier arrivano parole mai così dure nei confronti di Putin: “Dobbiamo capire che la minaccia è molto più grande di quanto immaginiamo, riguarda la nostra democrazia, l’influenza della nostra opinione pubblica, la strumentalizzazione dell’immigrazione, l’uso di materiali rari e quanto sta succedendo in Africa. Dobbiamo garantire la sicurezza e non si tratta solo del campo di guerra in Ucraina, dobbiamo essere preparati”. Le fa eco il padrone di casa, il premier Petteri Orpo, per il quale la Russia “è una minaccia permanente”. Prima di rientrare in Italia, c’è tempo per una tappa veloce per salutare i nostri militari nella base aerea di Siauliai, in Lituania, soldati che partecipano alla missione Nato Baltic Air Policing. Migranti. Natale al Cpr, tra degrado e sofferenze di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2024 L’ispezione a sorpresa demolisce le risposte del governo al Consiglio d’Europa: “Pure falsità”. Un Natale disumano, un altro. Nei Centri per il rimpatrio (Cpr) le cose non cambiano e, forse, mai potranno. Denunce, indagini, rapporti internazionali: nulla sembra scalfire l’orrore prodotto dalla detenzione amministrativa degli stranieri. Evaporano anche le risposte ufficiali del governo Meloni al duro rapporto del Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura, l’organo del Consiglio d’Europa che ad aprile ha visitato i centri italiani. Tirando in ballo prefetture, aziende sanitarie ed enti gestori, l’esecutivo ha assicurato di aver preso provvedimenti. “Pure falsità, hanno mentito platealmente”, è il giudizio di Nicola Cocco, infettivologo della Società italiana di medicina delle migrazioni. Perché i risultati non si vedono, anzi. L’ultimo tassello arriva a pochi giorni da Natale: un’ispezione a sorpresa della deputata del Pd Rachele Scarpa insieme alla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild) a Palazzo San Gervasio, comune di quattromila anime in provincia di Potenza che ospita uno dei peggiori Cpr d’Italia, dove “le persone vengono sedate e trattate come scimmie”, dichiarava la Procura di Potenza dopo l’inchiesta sulla precedente gestione. Altro che “prestazioni sanitarie tutte garantite, monitorate e controllate”, come il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva assicurato in un’intervista del 2023. L’esposto appena presentato alla Procura di Potenza da Scarpa e Cild denuncia le medesime violazioni, compreso l’abuso nella somministrazione di psicofarmaci. A Palazzo San Gervasio, il Comitato europeo aveva documentato l’uso di farmaci diluiti in acqua senza prescrizioni mediche. Una pratica definita “inaccettabile”, com’è inaccettabile che fosse già stata accertata in passato nell’indagine che ha poi travolto la gestione di Engel Italia, nel Cpr dal 2018 al 2023. Misure cautelari per dirigenti, ma anche poliziotti e medici, e accuse per frode, truffa aggravata ai danni dello Stato e maltrattamenti, tra l’altro, mentre la Procura aveva contestato addirittura la tortura. Nel 2023 il centro passa alla cooperativa Officine Sociali, già in affari con Martinina, la Srl sotto processo per il Cpr di Milano e amministrata dagli stessi vertici della Engel. Sarà un caso, ma a Palazzo San Gervasio i problemi sono rimasti. Almeno stando al rapporto del Comitato europeo che si occupa della prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, e infatti ragiona di quelle indagini chiedendo al governo “quali insegnamenti” ha tratto. A partire dalle “misure adottate per porre fine alla pratica di somministrare farmaci psicotropi alla popolazione in esame in modo incontrollato e senza prescrizione medica”. Nel documento di risposta, il governo scrive che a luglio sono state avviate ispezioni da parte dell’Azienda Sanitaria Locale (ASL) e riscontrate criticità nella gestione delle schede anamnestiche e nelle procedure relative alle visite psichiatriche e alle terapie farmacologiche. Ma che, successivamente, il responsabile del presidio medico ha confermato l’osservanza delle linee guida “escludendo in maniera tassativa la somministrazione di terapie improprie”. Un’altra ispezione del 19 luglio avrebbe poi verificato che il personale “controlla la corrispondenza tra prescrizione e somministrazione dei farmaci, che ogni ospite riceve una valutazione psichiatrica secondo protocollo, e che non sono stati trovati farmaci impropriamente prescritti”. Tutto bene? Nemmeno per sogno. Lo scorso 16 dicembre nel Cpr c’erano 79 persone, per lo più provenienti da Tunisia, Egitto e Marocco. Dalla documentazione sanitaria di alcuni detenuti, denuncia la delegazione in vista quel giorno, “emerge l’abuso nella somministrazione di psicofarmaci, erogati senza alcuna diagnosi e prescrizione medica”. Non solo: “La delegazione ha appreso che l’assistenza psichiatrica è affidata dall’ente gestore ad un medico privato presente nel centro per 5 giorni al mese, in violazione delle disposizioni normative che attribuiscono la competenza esclusiva al Servizio Sanitario Nazionale”. C’è il caso di un ragazzo marocchino: “Completamente catatonico, che in pochi giorni si è visto quadruplicare il dosaggio degli psicofarmaci senza alcuna motivazione medica e senza alcun monitoraggio degli effetti devastanti che questi stanno producendo sulla sua salute psicofisica”. L’ispezione segue il monitoraggio dei mesi scorsi, fin dalla precedente visita del 10 agosto, a una settimana dalla morte per arresto cardiaco di un ragazzo marocchino di 22 anni, Oussama Darkaoui. “Dal governo uno scaricabarile su Prefettura e Asl e falsità sulla presa in carico sanitaria”, accusa Cocco, già consulente del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. “L’accesso di lunedì scorso ha evidenziato problemi sul personale sanitario e sulla presenza di detenuti inidonei”. I medici della delegazione hanno incontrato molte persone vulnerabili, giudicate incompatibili con la struttura: anziani claudicanti, neo-maggiorenni, psichiatrici. “Preoccupa la totale assenza di personale medico e la presenza, nel giorno dell’ispezione, di un solo infermiere (al suo primo giorno di lavoro), rimasto nel centro fino alle ore 16 quando la normativa dispone assistenza infermieristica h 24”. Tanto che, nelle ore seguenti, “le terapie farmacologiche erano illegittimamente somministrate da personale OSS, compresi gli psicofarmaci”. In violazione delle disposizioni ministeriali anche l’assenza del registro degli “eventi critici”, della cassaforte per psicofarmaci e farmaci stupefacenti raccomandata dal governo, di locali di sorveglianza sanitaria e di assistenza psicologica continuativa. La verità, assicura Cocco, “è che Asl e prefettura non fanno il monitoraggio e il controllo che il governo riporta: dalla morte di Oussama, il 4 agosto, ho contato almeno altre 18 segnalazioni che abbiamo fatto alla Asl, mettendo in copia prefettura, questura e Garante nazionale, per problematiche di salute gravi, dalle intossicazioni di benzodiazepine al caso di una persona in sedia a rotelle, in un luogo dove le turche sono gli unici servizi igienici”. I casi segnalati sono tanti: “Ci sono state persone abbandonate all’addiaccio in condizioni di salute critiche”. L’episodio risale al 28 settembre ed è ora nell’esposto. Un cittadino marocchino con forti dolori e un catetere vescicale “è stato sistemato su un materasso all’aperto, nel campo sportivo del centro, totalmente esposto alle intemperie e al rischio di urosepsi o altre gravi infezioni addominali”. Nonostante le sue condizioni, si legge, “le richieste di essere trasferito in un ambiente più caldo e accogliente sono state ignorate dal personale del centro”. Tutto immediatamente segnalato all’Asl come negli altri casi. “E come negli altri casi non c’è stata risposta, mai”, dice Cocco, che corredava le segnalazioni della richiesta professionale di un immediato accesso di verifica. “Per questo mi risulta difficile dare credito alla risposta del governo al Comitato del Consiglio d’Europa”. Che invece parla anche di “attività di svago”. Il Comitato europeo domanda degli sviluppi nelle indagini per fornitura fittizia di attività? “Musica, volontariato e gruppi di psicoterapia secondo una calendarizzazione condivisa con la locale Questura”, si legge nel documento del governo. Che precisa: “Per favorire il benessere psico-fisico degli ospiti, e? stato previsto l’utilizzo del campo di calcio anche nelle ore serali”. Paradossale in un luogo dove le sbarre nascondono anche il cielo con un “effetto pollaio”, ha relazionato la deputata Scarpa. “I letti sono di cemento, l’illuminazione è accesa h 24, manca l’acqua calda, nelle celle c’è muffa mentre spesso sono assenti porte e finestre, coi detenuti costretti a morire di freddo e a coprirsi con gli asciugamani”. “L’esecutivo ha confermato attività inesistenti”, osserva Cocco. “Quando parla di teatro e musica, dice falsità perché non esistono proprio e, attenzione, parliamo di menzogne per cui è finita indagata la gestione del Cpr di Milano”. “Che Natale sarà quello nei Cpr come Palazzo San Gervasio? Un Natale di degrado, sofferenza, abbandono”, assicura. Invita a non farsi illusioni: “Il sistema dei Cpr non è riformabile, perché le problematiche riguardano il sistema stesso della detenzione amministrativa”. In un documento del 2022, l’Organizzazione Mondiale della Sanità scrive che questo tipo detenzione è di per sé “dannoso per la salute mentale e fisica dei migranti”, evidenziando l’insostenibilità del sistema attuale. La pericolosità sociale? Appena il 17 per cento dei trattenuti viene dal carcere e dopo aver scontato la pena. L’efficacia sul fronte dei rimpatri? Su 28mila ordini di allontanamento emessi nel 2023, di cui appena 4.267 eseguiti, il contributo dei Cpr è di 2.900 rimpatri, il 10%, a fronte di 158 mila sbarchi. “Molti impiegano settimane a capire il perché di una detenzione motivata solo dal permesso di soggiorno scaduto: una pena senza reato, difficile da comprendere per i reclusi”, spiega il medico. A differenza del carcere, “i Cpr non offrono alcuna riabilitazione né orizzonte. Le attività sono solo di facciata e la minaccia del rimpatrio è un trauma costante per chi vede finire il proprio progetto migratorio che è un progetto di vita”. Così “la sofferenza psicologica e fisica è palpabile, soprattutto per chi arriva da percorsi migratori traumatici e per chi ha problematiche di salute, incluse quelle mentali, che non potrebbero stare in un Cpr e invece ci finiscono perché i controlli sanitari sono quelli che sappiamo: abbiamo segnalazioni di visite d’ingresso fatte da personale OSS quando la competenza è esclusivamente dell’Asl”. Sofferenze che portano spesso a violenza emotiva, con frequenti tentativi di suicidio e autolesionismo. “Tutto ermeticamente chiuso alla pubblica opinione, bolle di sofferenza e degrado che escludono lo sguardo di chi vive al di fuori. Puoi passargli accanto ogni giorno percorrendo la provinciale di Palazzo San Gervasio, e continuare a non sapere cosa accade all’interno. La società sembra averlo accettato: che esiste una certa categoria di esseri umani e che non li vogliamo vedere”. Se la politica è cieca davanti a chi annega di Massimo Cacciari La Stampa, 23 dicembre 2024 Sarebbe interessante chiederci che cosa celebri per Natale l’Occidente “dalle radici cristiane”. La venuta delle slitte di Babbo Natale? È una domanda che si impone di fronte a fatti recenti, troppo frettolosamente derubricati a cronaca politica. Come nel caso della sentenza pro-Salvini. Anche qui non si tratta di deplorare o esaltare, ma di intendere, e intendere significa collocare un evento nel suo contesto generale, cercare di analizzarne le cause e prevederne gli effetti. Anzitutto la vicenda denuncia una situazione di drammatica insicurezza nell’amministrazione complessiva della Giustizia. L’accelerazione dei processi di trasformazione economica e sociale in ogni settore della nostra vita spiazza sistematicamente il legislatore. La norma, quando anche venga emessa con coerenza, appare sempre in ritardo, si limita a definire un ordine precario per processi già in atto, fallendo ogni finalità preventiva. Nella imperante confusione tra diritto positivo e “diritti umani”, vengono decise in forma occasionale da una Corte all’altra norme interne e internazionali, tutte le questioni di frontiera, intrecciate tra loro, da quelle riguardanti lo strapotere delle grandi corporazioni economico-finanziarie e le straordinarie innovazioni tecnologiche che esse promuovono, a quelle su fine vita e manipolazione del Dna umano. Fino alla gestione dei flussi di immigrazione riguardanti più di un decimo dell’umanità, quando diano vita a contraddizioni e “liti” . Il diritto si fa strada attraverso mucchi di contraddittorie sentenze. La stessa fattispecie può venire giudicata in modo finanche opposto. Questo il primo ragionamento da svolgere in merito alla sentenza Salvini. Il giudice manca di ogni legge univocamente definita e chiaramente applicabile alla quale riferirsi, e da qui l’inevitabile confusione tra diritto, politica, ideologia. Ciò non significa che, per ciascun ambito della nostra vita, e pur coscienti del disordine globale nel quale viviamo, non possano essere definiti orizzonti di senso, capaci di sovraintendere le nostre azioni, di porle in una coerente prospettiva. Nel caso dei fenomeni di migrazione di massa il quadro è chiaro. Pur investendo l’intero pianeta, essi conoscono il punto di massima drammaticità tra le sponde del Mare fu-nostro. Spostamenti di masse telluriche: l’intero immenso calderone dell’Africa sub-sahariana preme a Nord, e a ciò si aggiunge l’effetto delle guerre medio-orientali. Il dramma sta nel fatto che, a differenza di altre bibliche migrazioni, come quelle tra 800 e 900 dall’Europa alle Americhe, qui il flusso si dirige verso un continente, l’Europa appunto, in profonda crisi politica, economica, culturale, in cui lo stesso processo di unità, se vinceranno le Le Pen e le destre tedesche, si farà prossimo al collasso. Come potrebbe uno spazio politico così profondamente in crisi svolgere una razionale politica di accoglienza? Che fare, realisticamente, se non difendersi? Le responsabilità di una tale situazione, la debacle etica e culturale delle forze politiche che hanno costruito l’Unione europea sono tanto evidenti, quanto ormai inutile raccontarle. La realtà oggi è che questa non-Europa non è in grado di affrontare adeguatamente la trasformazione globale, così come si esprime anche sul terreno dell’immigrazione. E figurarsi se lo potrebbe un suo singolo Stato. Allora? Allora dobbiamo attingere a una, magari disperata, volontà di dare un senso al nostro agire. La più perfetta consapevolezza dei suoi limiti non può esonerarci dal dovere di trarre in salvo chi sta annegando, di nutrire l’affamato, di vestire chi è nudo. Possiamo riconoscere con il più spietato realismo la nostra impotenza ad affrontare le questioni di frontiera che ho prima citato, ciò non consente di voltarci dall’altra parte di fronte al massacro di donne e bambini. Se lo facciamo, è la nostra vita che perde senso. Se lo facciamo, vuol dire che siamo pronti a tutto, anche a subire qualsiasi regime. Possiamo, anzi: dobbiamo, rappresentarci con realismo tutte le difficoltà e contraddizioni, ma, prima di tutto e a prescindere da tutto, dobbiamo aiutare chi sulla nostra strada troviamo a terra massacrato o annega nel nostro mare. O il male finirà con l’apparirci la norma e, alla lunga, la nostra anima sarà perduta, pronta a obbedire a chi il male lo fa. Può anche darsi che la nostra azione appaia insignificante rispetto alle cause e agli effetti della crisi globale, e questa dobbiamo certo sforzarci di comprendere e affrontare, guai tuttavia se questa coscienza serve a mascherare colpevoli negligenze e indecente egoismo. Ora non sta manifestandosi soltanto una generale crescente assuefazione alla strage degli innocenti. La nostra politica non si volta soltanto dall’altra parte. Essa è chiaramente indirizzata a ostacolare ogni forma di aiuto, a renderlo, fosse possibile, impossibile. Poiché non siamo in grado di accogliere - o non lo vogliamo - non solo lasciamo che i barconi affondino o paghiamo perché chi fugge da guerre e miserie venga torturato in lager sull’altra sponda, lontano dai nostri occhi, ma scegliamo politicamente di rendere il più possibile impervia l’opera di chi si ostina a credere che prima di tutto una vita umana vada salvata. Il messaggio è chiaro: non cercate di raggiungerci, in mare non troverete che guardie libiche e chi vi deruba per lasciarvi su barconi alla deriva. Più comodo per tutti che crepiate a casa vostra. Una volta, all’inizio di questa tragedia, vi era ancora dell’antica ipocrisia. Le lacrime della Merkel, ricordate? Ipocrisia vuol dire anche coprire la propria vergogna, e perciò in qualche modo avvertirla. Quando si sente vergogna è possibile ancora cambiar mente. Se anche l’ipocrisia viene meno e non si avverte vergogna nell’affermare che la propria politica consiste nel non volere che si dia aiuto a chi annega, un salto davvero mortale è compiuto. E temo l’Europa lo stia compiendo. Più che di secolarizzazione dovremmo forse parlare di radicale scristianizzazione. L’Annuncio del Natale è quello delle parabole del Samaritano o del Figliol prodigo. Vi è, in qualche deserto, chi le ricorda ancora? Nelle nostre metropoli il loro senso è stato sradicato. Un lungo processo storico-culturale è giunto al suo compimento: dalla “morte di Dio” al profondo silenzio in cui su questa terra sembra inabissarsi la parola, il Verbo, di Gesù. Piantedosi: “I Centri per i migranti sono pronti, non possiamo fermarci” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 dicembre 2024 Intervista al ministro dell’Interno: “Linea dura? La chiedono gli elettori. Io candidato alle regionali in Campania? No, resto al Viminale. Nessuna divisione con il mio amico Salvini, lui e Meloni apprezzano il mio lavoro” Ministro Matteo Piantedosi, davvero riaprirete i centri in Albania? “I centri sono pronti e saranno molto utili per velocizzare le procedure di riconoscimento della protezione a chi ne ha diritto, ma soprattutto del rimpatrio di chi non ne ha diritto. La recente sentenza della Cassazione ha confermato la possibilità di una prossima riattivazione dei centri che valuteremo proprio a partire da questo vertice”. La Cassazione ha detto che i giudici non possono sostituirsi al governo per la lista dei “Paesi sicuri” lasciando però la possibilità di decidere caso per caso. Se la Corte europea deciderà diversamente? “Non credo che questo potrà succedere, almeno non in termini tali da impedire del tutto che il progetto possa decollare ed essere efficace. Ho da sempre avuto fiducia nella giustizia, e il recente primo pronunciamento della nostra Cassazione me ne dà conferma. La ragione e il diritto prima o poi si affermano. E poi non dimentichiamoci che nel 2026 entreranno in vigore nuove regole europee che puntano proprio su procedure e centri di trattenimento come quelli che abbiamo realizzato in Albania, ma anche a Modica e a Porto Empedocle. Io c’ero in quel Consiglio dei ministri dell’Interno europeo nell’estate del 2023 e posso assicurare che all’epoca una scelta simile non era scontata”. Riuscirete a contenere i costi? “Penso che su questo si sia fatta spesso confusione. Adesso c’è solo un piccolo contingente di operatori che vigila le strutture in attesa della ripresa. Lo stanziamento di 650 milioni in 5 anni è una previsione di legge del costo massimo possibile con le strutture a regime, non è detto che corrisponderà alla spesa reale. Comunque è singolare che questa critica ci provenga da ambienti che spesso, al contrario, hanno ritenuto di censurare la presunta inadeguatezza degli stanziamenti e della qualità dei servizi che vengono resi nei centri governativi”. Ammetterà che adesso appare solo un spreco. “Io dico che quando funzioneranno a pieno regime, i centri in l’Albania, al pari di quelli realizzati in Italia, potranno sul lungo periodo produrre effetti importanti soprattutto per chi viene accolto ma non ha alcuna prospettiva di integrazione. Tengo a sottolineare che per questo aspetto abbiamo ereditato un peso di circa due miliardi di euro e una gestione non accettabile. Ecco perché penso sia miope, da parte di alcuni, concentrare tutti gli sforzi politici nella acritica, pregiudiziale ed assoluta contrarietà a questo progetto”. Quanto influisce sulla linea dura del governo la sentenza di assoluzione del ministro Salvini? “Non avrà nessuna influenza, perché quella sentenza rappresenta solo la fine di una vicenda paradossale di cui è stato vittima il mio amico Matteo Salvini che, peraltro, ha sempre tirato dritto con dignità e coerenza. È stato un esito importantissimo, ma la linea del governo è stata tracciata dal voto degli elettori che ha dato vita alla maggioranza parlamentare di centrodestra a cui, da tempo, gli italiani chiedono di fronteggiare l’immigrazione irregolare ed insostenibile”. E i risultati la soddisfano? “Sì perché abbiamo molteplici iniziative di cooperazione operativa con i principali Paesi interessati e con un’azione diplomatica che, soprattutto in ambito europeo, cominciano a far intravvedere esiti incoraggianti. Il tutto, posso assicurarlo, in una cornice di assoluta legalità internazionale. È un lavoro di grande complessità, ma andremo avanti su questa strada. Possiamo certamente raggiungere risultati ancora maggiori, ma abbiamo sicuramente fatto meglio di quanto avrebbe fatto chi teorizza rassegnazione o, addirittura, compiacimento rispetto ad un’immigrazione incontrollata che avvantaggia solo i trafficanti di esseri umani”. In realtà le Ong protestano perché dicono di essere impedite a salvare le persone. “È falso e offensivo sostenere che vengano impediti i salvataggi in mare, sui quali sono attive le nostre unità navali con un impegno e una professionalità che ci sono riconosciuti nel mondo. Basta guardare dati e numeri. C’è chi si ammanta della presunzione di essere titolare esclusivo delle connotazioni umanitarie di un impegno che, al contrario, per il modo sregolato con cui tende a svolgersi, spesso finisce per favorire l’azione dei trafficanti e incentivare traversate pericolose. Ho sempre trovato singolare che gli interventi di salvataggio delle Ong da sempre mirino a portare esclusivamente in Italia le persone raccolte in mare, come proprio la vicenda subita da Salvini dimostra”. E quindi bisognerebbe abbandonarli? “No, anzi. Il governo ha dimostrato di non avere pregiudizi nei confronti di coloro che vogliono avere un futuro in Italia ricorrendo a canali di ingresso regolare, che abbiamo moltiplicato con numeri che non si registravano da tempo”. Domani apre la Porta Santa per l’inizio del Giubileo. Il dispositivo di sicurezza è attivato, ma, dopo quello che è accaduto in Germania, arriveranno altre misure? “L’allerta è massima come è al massimo livello la mobilitazione degli apparati di sicurezza. Abbiamo un sistema di prevenzione rodato che si fonda sullo scambio di informazioni e la capacità di adattarsi ai profili di rischio. Per questo non cediamo all’allarmismo, pur mantenendo alta ogni possibile attenzione”. La nuova minaccia è quella del radicalismo dei suprematisti. Quanto è alto il rischio che possano colpire anche in Italia? “Si tratta di un profilo di estremismo insidioso ma, al momento, meno esteso nel nostro Paese rispetto ad altri. Le iniziative di polizia giudiziaria svolte hanno finora contenuto questo fenomeno, che comunque deve essere sempre tenuto nella dovuta attenzione”. L’attacco in un mercatino di Natale riporta a precedenti tragici. Non c’è un rischio di emulazione? “Dobbiamo capire in quale contesto è maturato l’attentato di Magdeburgo, ma il ritorno a questa modalità è evidente che ci preoccupa. Il rischio maggiore è rappresentato da soggetti che possono muoversi come “lupi solitari” che agiscano con modalità non sempre prevedibili”. Sarà lei il candidato governatore in Campania? “Assolutamente no e l’ho già detto più volte. Sono totalmente concentrato nello svolgimento dell’incarico che mi è stato affidato. I positivi risultati che stiamo ottenendo rappresentano uno stimolo a pensare esclusivamente ad andare avanti”. Direbbe no anche se a chiederglielo fosse Giorgia Meloni a nome di tutta la coalizione? “Non me lo ha chiesto realmente nessuno e non vedo perché possa chiederlo Giorgia Meloni. Il centrodestra ha molte personalità politiche radicate nel territorio tra cui poter effettuare una scelta sicuramente migliore. La coalizione saprà esprimere un candidato in grado di governare la mia amatissima regione Campania. E poi come ministro dell’Interno ho l’opportunità, e qualche ambizione, di lavorare anche per la mia terra di origine in ambiti e con modalità che meglio mi si addicono”. Salvini ha smentito di voler tornare al Viminale ma non è sembrato troppo convinto. Ne avete mai parlato? “Salvini, in poco più di un anno, fece un ottimo lavoro al Viminale ed io ho avuto il privilegio di essere stato partecipe di quella stagione. Chi ora, in modo malevolo, vuole insistere a proporre una connotazione divisiva all’esito del processo di Palermo si deve rassegnare: ha prodotto l’effetto delle espressioni di apprezzamento del mio lavoro da parte del presidente Meloni e dello stesso Salvini”. Stati Uniti. Vietare l’uso del farmaco letale e trasformare le pene capitali in ergastolo di Roberto Festa Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2024 Così Biden vuole salvare i condannati a morte da Trump. Alla Casa Bianca stanno discutendo se commutare le pene di tutti i quaranta uomini nel braccio della morte, o solo di una parte di essi. Il presidente eletto ha promesso di riprendere le esecuzioni a un ritmo più veloce rispetto al suo primo mandato. Commutare la pena per i condannati a morte nelle prigioni federali. È quanto vuole fare Joe Biden, che ne ha parlato con Papa Francesco giovedì scorso (Biden, devoto cattolico, incontrerà il pontefice il mese prossimo). La mossa, anticipata dal Wall Street Journal, potrebbe arrivare prima di Natale e avrebbe lo scopo di sottrarre gran parte dei condannati a morte federali all’azione di Donald Trump, che ha promesso di riprendere le esecuzioni a un ritmo più veloce rispetto al suo primo mandato. La decisione finale ancora non c’è. Si sta discutendo se commutare le pene di tutti i quaranta uomini nel braccio della morte, o solo di una parte di essi. Biden, che in campagna elettorale aveva detto di voler abolire la condanna a morte a livello federale, è comunque orientato a lasciare la Casa Bianca con un atto di clemenza molto ampio. La lista dei “salvati”: anche Mangione - È il Dipartimento di Giustizia che in questi giorni sta lavorando alla questione. Sembra che l’attorney general Merrick Garland abbia raccomandato a Biden di commutare la pena per tutti i condannati a morte federali, con tre eccezioni: Dzhokhar Tsarnaev, responsabile dell’attentato che uccise tre persone e ne ferì 250 durante la maratona di Boston del 2013; Robert Bowers, che uccise undici persone nell’attacco del 2018 alla sinagoga Tree of Life a Pittsburgh; Dylan Roof, che nel 2015 ammazzò nove fedeli della Emanuel African Methodist Episcopal Church di Charleston, South Carolina. Tra coloro che potrebbero essere oggetto della clemenza presidenziale ci sono un ex marine responsabile dell’omicidio di due ragazzine e di una ufficiale della marina; un uomo di Las Vegas condannato per il rapimento e l’omicidio di una bambina di 12 anni; un podologo di Chicago che ha ucciso una paziente per impedirle di testimoniare in un’indagine di frode del Medicare; due uomini condannati per un rapimento a scopo di estorsione, che portò all’uccisione di cinque immigrati russi e georgiani. Non è chiara la sorte di Payton Gendron, il ragazzo di 21 anni in attesa di un processo federale per aver ucciso dieci persone in un attacco razzista in un supermercato di Buffalo, e di quattro detenuti che siedono nel braccio della morte dell’esercito a Fort Leavenworth, Kansas. Tra gli altri casi pendenti, che potrebbero portare a una condanna a morte, c’è quello di Luigi Mangione, l’omicida del Ceo di United Healthcare Brian Thompson. Il Pentobarbital e l’ottavo emendamento - La commutazione trasformerebbe la condanna a morte in ergastolo, senza possibilità di ulteriori riduzioni di pena. In parallelo alla revisione dei casi, il Dipartimento di Giustizia sta da anni lavorando a un rapporto che analizza il protocollo introdotto dall’amministrazione Trump nel 2019 per i casi di condanna capitale. Il protocollo utilizza un solo farmaco sedativo, il pentobarbital. La scelta è in qualche modo obbligata, considerata la carenza di altri farmaci - le aziende farmaceutiche preferiscono non mettere i loro prodotti a disposizione delle esecuzioni, ciò che potrebbe esporle al rischio di boicottaggi. Secondo molti esperti, l’uso esclusivo del pentobarbital può però causare dolori molto forti, soprattutto negli ultimi minuti di vita del prigioniero. La cosa è in contrasto con l’Ottavo Emendamento, che vieta ogni forma di “crudele e inusuale punizione”, quindi che la pena possa infliggere eccessiva sofferenza, dolore, umiliazione. Il rapporto del Dipartimento di Giustizia, in uscita entro marzo, dovrebbe accogliere questa tesi, che sarebbe dunque la base legale e morale per garantire la commutazione di pena. L’uso del pentobarbital verrebbe sospeso, in attesa di indagini più approfondite. Donald, l’angelo della morte - La scelta della clemenza, da parte di Biden, viene incontro alle richieste di molti gruppi religiosi e per i diritti umani. In campagna elettorale, l’allora candidato democratico aveva promesso l’abolizione della pena capitale per i reati federali, oltre a impegnarsi a fare pressione su quegli Stati americani che ancora la comminano. Del resto, gli Stati Uniti venivano allora - era il 2020 - da anni particolarmente brutali. Trump, sostenitore entusiasta delle esecuzioni, aveva durante il suo mandato messo a morte 13 condannati. Dal 1976, solo tre prigionieri erano stati messi a morte per reati federali (tra questi Timothy McVeigh, l’attentatore di Oklahoma City). L’ultima esecuzione ordinata da Trump era avvenuta poco prima del suo addio alla Casa Bianca, nel gennaio 2021. Da presidente, Biden ha comunque fatto molto poco per rispettare la promessa di abolizione. La sua amministrazione ha anzi agito per evitare il patteggiamento e chiedere la condanna capitale per Khalid Sheikh Mohammed e altri due presunti cospiratori dell’11 settembre. È comunque vero che durante l’amministrazione Biden non ci sono state esecuzioni federali. Garland ha ordinato ai procuratori di chiedere la condanna a morte solo nei casi più brutali e nel luglio 2021 ha deciso una moratoria sulle esecuzioni, annunciando per l’appunto la revisione delle procedure che utilizzano il pentobarbital. Non solo Hunter - L’equilibrio di questi anni - no all’abolizione, sì alla sospensione delle esecuzioni - rischia però di spezzarsi con il ritorno di Trump. Il futuro presidente ha promesso di mettere a morte i condannati a un ritmo ancora maggiore rispetto al primo mandato. La sua amministrazione potrebbe ovviamente ripristinare l’uso del pentobarbital, ma non potrebbe cancellare le commutazioni decise da Biden. Per questo, per risparmiare la morte certa di decine di prigionieri, i gruppi per i diritti chiedono un intervento urgente di Biden. Il democratico se ne va il 20 gennaio. Il tempo a disposizione è quindi poco, meno di un mese. La clemenza verso i condannati a morte costituirebbe un ulteriore intervento di Biden in campo giudiziario. Oltre al perdono al figlio Hunter, Biden ha commutato pene per quasi 1500 prigionieri. Altre grazie e commutazioni per pene non capitali potrebbero arrivare nei prossimi giorni.