Carceri: attrezzarsi per disinnescare i conflitti, non per fomentarli di Ornella Favero* Il Riformista, 21 dicembre 2024 Dopo aver visto il video del calendario 2025 della Polizia penitenziaria, e queste immagini dove il carcere non appare mai, ma appaiono invece esibizioni di forza da parte di “pubblici ufficiali” compiaciuti di dare di sé un’idea tutta muscolare, sono andata a cercare le parole importanti pronunciate nella Casa di reclusione di Padova, nel 2016, da Francesco Cascini, magistrato, allora Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità. “La cultura dell’esecuzione penale passa anche per un’attenta lettura di quello che accade negli Istituti penitenziari. Io spesso incontro la Polizia penitenziaria, facciamo continuamente corsi di formazione. La sensazione, parlando con loro, è che si sentano ancora in larga misura parti di un conflitto”. “Per moltissimi anni, prima con il regolamento Rocco che era del 1930 ed è stato in vigore fino al 1975, il carcere era segregazione, quindi era gestione e prosecuzione di un conflitto. Dopo quegli anni, gli anni del terrorismo e della criminalità organizzata hanno spinto il carcere a proseguire nel conflitto. I poliziotti penitenziari erano uguali agli altri poliziotti: erano quelli che dovevano continuare a contenere quel pericoloso conflitto, impedire le rivolte, i sequestri, le uccisioni. E questa cosa qui ce la siamo portata dietro fino a qualche anno fa e forse è ancora latente, l’idea che è necessaria una polizia nel carcere sottintende l’idea che con l’esecuzione della condanna non inizia il periodo di risoluzione del conflitto ma è la prosecuzione di quel conflitto, ed è qui che nasce una contrapposizione insanabile tra quella che viene definita sicurezza negli ambienti penitenziari e il trattamento, se non si va oltre, se non si accetta l’idea che il momento dell’esecuzione penale, che sia in carcere o nel territorio, è il momento in cui i conflitti si risolvono”. L’analisi di Francesco Cascini a distanza di anni è di stringente attualità, anzi si può dire che oggi ci sia un’accelerazione verso un ruolo della polizia penitenziaria sempre meno teso a contribuire alla funzione rieducativa della pena e disegnato, invece, in una concezione del carcere come luogo di scontro e di repressione. Questo dicono anche alcune misure contenute nel Decreto sicurezza, come l’uso della bodycam per le forze di polizia impegnate nelle azioni di mantenimento dell’ordine pubblico, carcere per chi blocca una strada, aggravanti per i reati compiuti nelle stazioni e per le minacce e violenze commesse nei confronti di un pubblico ufficiale, in occasione della costruzione di una infrastruttura strategica, introduzione nel Codice penale del reato di “resistenza passiva” da applicarsi alle persone detenute. Dunque, la finalità costituzionale della pena è soffocata dall’accentuazione degli aspetti conflittuali del rapporto detenuti/agenti. E la pena torna a essere prevalentemente una pena rabbiosa, dove le persone detenute diventano “fascicoli viventi” e, nel rapporto con chi esercita il potere, nei consigli di disciplina, non riescono mai a portare le loro ragioni, e tanto meno ci riusciranno con lo spettro della denuncia per “resistenza passiva”. Scrive Roberto Cornelli, professore ordinario di Criminologia all’Università statale di Milano, a proposito delle Polizia penitenziaria, di cui è un attento studioso: “Questo sentimento di isolamento e di delegittimazione istituzionale è quello che stiamo studiando in funzione di un tema di grande attualità, che è la propensione all’uso della forza. Perché dobbiamo anche in questo caso uscire da un modo ricorrente di guardare alla violenza di polizia come il prodotto di mele marce e iniziare a chiederci - posto che da un punto di vista giudiziario la responsabilità penale è personale ovviamente - cosa poter fare sul piano istituzionale in termini preventivi. Quali sono, in altre parole, gli elementi che fanno sì che ci sia una propensione all’uso della forza, vale a dire che si ritenga giusto e possibile usare la forza in certe situazioni?”. Se il Decreto sicurezza sta disegnando un’idea di società e di carceri, dove i conflitti sociali si risolvono con la forza, senza spazi di mediazione, l’Ordinamento penitenziario dice però che sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari “tutti coloro che, avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”. Oggi più che mai allora è importante il ruolo della società civile nel rendere le carceri più trasparenti possibile e nel lavorare perché non si affermi l’idea di una Polizia penitenziaria chiamata solo a risolvere con la forza tensioni, proteste, momenti di resistenza passiva. Una società civile che sappia attrezzarsi per disinnescare i conflitti. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Diritto all’affettività per i detenuti: il nulla a un anno dal sì della Consulta di Ezio Menzione* Il Dubbio, 21 dicembre 2024 Al di là di una minima sperimentazione, lo Stato ha impunemente disatteso il giudice delle leggi. Non si tratta solo di sessualità, e spetta a tutti i carcerati. In questi giorni in cui, almeno stando alle pubblicità, tutti sembrano dover essere più buoni ed esprimere affetto in ogni manifestazione, molti sono i “rimossi” che nessuno o quasi sembra prendere in considerazione per esprimere un po’ di affettuosa vicinanza. Viene allora in mente che proprio l’anno scorso, in queste giornate, la Corte costituzionale stava lavorando alla motivazione, che poi sarebbe stata pubblicata a fine gennaio, della sentenza n. 10 del 2024, presidente Barbera e redattore Petitti. Si tratta della decisione conosciuta come la sentenza sulla affettività in carcere. Una sentenza bella come di rado succede oggigiorno per la Consulta, che riconosce appieno il diritto all’affettività dei detenuti: non come concessione premiale o come “diritto” subordinato a un qualche comportamento, ma come diritto, pieno e insopprimibile, per ogni persona privata della libertà. Diritto che non può essere limitato che per ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina o per ragioni giudiziarie riguardanti il soggetto imputato. Ma diritto pieno, al pari del diritto a nutrirsi o alla salute. Un diritto da riconoscersi tendenzialmente per tutti e fin da subito, fin dalla pubblicazione della sentenza. Unica esclusione - forse non giustificata appieno - per i soggetti a regime speciale (41 bis) o a sorveglianza particolare. Impropriamente nei commenti alla decisione si è teso a ridurre la sua portata ad avere incontri sessuali col coniuge, col partner dell’unione civile o con la persona stabilmente convivente. Non di solo sesso infatti parla la sentenza, ed ha ragione. L’affettività, infatti, consiste sì nel rapporto sessuale, ma non solo in questo: fra due persone che si vogliono bene, vi sono mille momenti che difficilmente possono realizzarsi sotto lo sguardo di un piantone o di altri reclusi o di estranei in generale. È ben difficile, in tale situazione, anche solo sussurrarsi una parola affettuosa o darsi anche solo una carezza. Sono momenti che implicano una totale intimità, fuori dalla portata di orecchi e occhi indiscreti. Per le orecchie, non ci sono problemi perché l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario già prevede che i colloqui coi familiari non debbano essere ascoltati. Viceversa vale per gli occhi, perché la stessa norma prevede invece che tutti i colloqui avvengano sotto sorveglianza visiva. Dunque, i detenuti debbono - e sottolineo debbono - essere messi in grado di avere incontri col proprio coniuge o consorte in una stanza apposita, il più possibile somigliante a una stanza di casa nell’arredo e nella atmosfera, lontano da sguardi indiscreti. Ricostruire la sfera della affettività al pari della sfera culturale o del percorso di reinserimento: una componente essenziale per il detenuto che aspira, prima o poi (anche nell’ipotesi dell’ergastolo, per lo più), ad essere pienamente restituito alla società che si muove fuori dal carcere. A un anno di distanza, come si è ottemperato alla prescrizione della Consulta? Si può dire che non si è fatto nulla, se non alcuni timidissimi esperimenti. L’affettività e i rapporti sessuali sembrano essere un tabù insormontabile. Si accampano motivi di carenza di spazi, di carenza di operatori e di guardie penitenziarie ad hoc, ci si lamenta che il ministero e i Dap regionali non indicano soluzioni concrete, ed è tutto vero. Ma è possibile che a un anno di distanza il dettato costituzionale della Corte sia rimasto inevaso, lettera morta? Sembra di essere tornati ai primi tempi della Consulta, quando si diceva che alcuni precetti costituzionali andavano bene in astratto, ma non nell’applicazione concreta. Ma era 70 anni fa. Questa sentenza impone il riconoscimento di un diritto da subito, e indica anche i momenti di possibile iniziale mediazione: il diritto sarà esercitato non per tutti i detenuti contemporaneamente, e certamente in un primo momento saranno indirizzati verso la stanza dell’affettività i detenuti che hanno mostrato un grado insignificante di aggressività, per evitare possibili episodi incresciosi e susseguenti possibili responsabilità. Ciò per scongiurare che il detenuto appartatosi con coniuge o consorte non esprima la propria affettività bensì la propria aggressività. La sentenza indica tutte queste possibili difficoltà, ma esige che il diritto sia riconosciuto a poco a poco per tutti. Il ministero, il Dap, le direzioni degli istituti debbono farsene una ragione e scendere nel concreto di un diritto all’affettività che va riconosciuto a tutti i detenuti. Buon natale a tutti, anche ai detenuti e ai loro affetti. *Garante delle persone private della libertà di Volterra Maternità nelle carceri: la detenzione femminile in Italia di Flavia Scicchitano ore12web.it, 21 dicembre 2024 La vita delle madri in carcere tra resilienza e fragilità: un’analisi delle principali criticità sanitarie e psicologiche con Luciano Lucania, direttore della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria-SIMSPe. Nelle carceri italiane sono detenute circa 2.700 donne. Molte sono madri, tra queste ci sono coloro che hanno scelto di tenere con sé i propri bambini nel rispetto dei limiti previsti dalla normativa e coloro che per età o per decisioni esterne vivono ristrette lontane dai figli. Condizioni diverse ma psicologicamente faticose benché supportate dal Servizio sanitario nazionale, che negli istituti penitenziari mostra punti di forza e criticità. Luciano Lucanìa, direttore della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria Simspe ets, già presidente, qual è la situazione delle donne e in particolare delle madri nelle carceri italiane? Dalla mia personale ed ultratrentennale esperienza in un istituto penitenziario con sezione femminile mi sento di dire che la donna in questo contesto si manifesta più resiliente. Mi è sempre stato evidente come le donne “tollerino” il carcere meglio degli uomini. Nella mia esperienza anche in altri contesti detentivi posso affermare che gli ambienti in cui vivono le donne sono meno malmessi di quegli degli uomini. Vi è, pur con i suoi limiti, un senso di solidarietà che in area maschile si percepisce di meno. Quasi una forma di supporto reciproco. È chiaro che scontare una pena detentiva, anche in attesa di giudizio, in carcere induce una profonda sofferenza, causata non solo dalla perdita di libertà ma anche dal distacco dalla famiglia. E quando si tratta di una mamma, separata dai propri figli, possono scatenarsi conseguenze psicologiche in grado di amplificare eventuali problematiche anche psichiatriche già esistenti. Esiste poi la possibilità di tenere i figli piccoli con sé, si tratta anche in questo caso di una scelta emotivamente molto complessa ma finora non rammento significative criticità, salvo la situazione stessa. Il numero di bambini nelle carceri d’altronde è irrisorio, nel Sud Italia si tratta spesso di situazioni legate alla criminalità organizzata o alla migrazione, episodi mai gestiti in modo drammatico. Detto questo noi non conosciamo le storie giudiziarie delle detenute e non riteniamo giusto conoscerle. In linea generale e teorica si pensa che non sia un bene far crescere dei bambini all’interno di un carcere, ma nei primi anni di vita i bambini hanno bisogno della mamma e se c’è la mamma il mondo del bambino è completo. Per il resto, tutto quello che serve per le cure e l’assistenza sanitaria è garantito. Quali sono quindi le fragilità legate all’universo femminile nella popolazione carceraria? Trascorrere le proprie giornate nel contesto di un istituto di detenzione in uno stato di privazione di libertà è patogeno in sé e questo vale per tutti, uomini e donne. Lo stesso vale per la diffusione più rapida di patologie trasmissibili come virus. Parlando delle donne, come anticipato, uno dei grandi problemi è quello legato alla maternità. Quando i figli sono fuori, affidati alla famiglia o ad altri per situazioni che decide il giudice, queste donne vivono la reclusione con grandissimo disagio. La fragilità è legata a questo: essere madri e non poter vedere i figli che crescono fuori e seguirli. Un’altra problematica è legata alle dipendenze, tante donne sono tossicodipendenti. Per tutte esiste però la possibilità di fare tante attività che aiutano dal punto di vista psicofisico, come il lavoro, lo studio, o progettualità varie. Il carcere come garantisce la tutela alla salute della donna e dei bambini? Parlando di salute in senso lato, primariamente vi è una questione logistica, per cui alle mamme con i figli, laddove presenti ed utilizzabili, sono offerti locali diversi e separati dalle altre detenute, per agevolare il rapporto esclusivo mamma-bambino. In questo caso la coppia vive all’interno di sezioni nido in cui viene garantito tutto ciò che serve per la cura dei bambini come per il gioco e la crescita. Quanto agli aspetti più strettamente sanitari, l’assistenza è gestita secondo la normativa nazionale. L’organizzazione delle aziende sanitarie locali prevede nell’ambito delle attività erogate anche la tutela della salute in carcere. Nei diversi istituti penitenziari nazionali ci possono essere eccellenze o carenze, a seconda della dimensione e del territorio, ma il modello organizzativo per i pazienti ristretti è uguale. Negli istituti di maggiori dimensioni è prevista la presenza medica 24 ore su 24, l’emergenza-urgenza viene trattata attraverso il 118 e per le visite specialistiche si fa riferimento agli ambulatori interni o agli ambulatori esterni delle Asl che garantiscono i servizi agli istituti penitenziari. Per le specifiche necessità delle donne in materia ginecologica l’assistenza sanitaria assicura l’esecuzione di pap test e laddove le attività dei dipartimenti di prevenzione si attivano, anche di screening per il seno, supporto psicologico e psichiatrico, con cure equivalenti a quelle disponibili all’esterno. E lo stesso vale per i bambini che si trovano in carcere con le madri: per loro viene esteso il diritto a un’assistenza sanitaria pediatrica adeguata. Quali sono i punti di forza e le criticità della medicina penitenziaria in Italia? Il vero punto di forza negli istituti penitenziari di maggiori dimensioni e complessità di detenuti è la presenza di medici e infermieri h24, paradossalmente in grado di garantire un’assistenza più continuativa e una gestione dei pazienti meno difficile all’interno delle mura carcerarie rispetto a fuori. E anche la disponibilità di farmaci non si rileva problematica. Molte sono invece le criticità. La prima riguarda l’assenza di medici disposti a lavorare in carcere per conto del Servizio sanitario nazionale. L’errore di fondo è stato avere voluto considerare la medicina penitenziaria una forma di medicina territoriale mentre si tratta di un sistema organizzato e complesso. Il lavoro in carcere porta con sé diversi rischi, è sottopagato, non offre garanzie ed è tracciato e controllato in modo talmente minuzioso da generare grande difficoltà operativa. La sanità oggi definita “penitenziaria” deve essere considerata globalmente un’attività sanitaria del Ssn in ambito penale nelle sue varie espressioni ed articolazioni, non una sola e semplice attività intramuraria, quindi come tale riorganizzata, stabilendone anche le dotazioni minime. Infine spesso mancano i dati delle carceri e quindi gli aiuti, ad esempio mancano nel recente rapporto sulla tossicodipendenza in Italia. Nel report diffuso recentemente i dati delle carceri non sono considerati, e parliamo di un terzo di detenuti con problemi di tossicodipendenza. In sostanza il diritto alla salute di donne e bambini viene garantito? Nei fatti la salute del detenuto è gestita dal Servizio sanitario nazionale. Uno dei problemi, comune a tutti i cittadini, è quello delle liste d’attesa in caso di esami strumentali da eseguire negli ospedali. Il detenuto, però, a differenza del cittadino libero, molto spesso non ha le stesse possibilità di aggirare le liste d’attesa rivolgendosi alla sanità privata per accertamenti a proprio carico. Un altro problema riguarda proprio le traduzioni nelle strutture sanitarie esterne. Il detenuto deve essere accompagnato da personale e mezzi della polizia penitenziaria e può succedere che per indisponibilità delle risorse la visita salti. Per questo l’auspicio è che le aziende sanitarie dotino il più possibile gli ambulatori delle carceri di strumentazioni di base. Ci deve essere un gabinetto odontoiatrico, apparecchiature di minima per la cardiologia, un ecografo multidisciplinare. In questo Rebibbia, a Roma, rappresenta un’eccellenza. La telemedicina è una strada da perseguire? La telemedicina è una nota dolente a causa della gestione del diario clinico: sarebbe fondamentale una cartella sanitaria digitale del detenuto che lo segua nei trasferimenti. In passato avevamo avviato un progetto in questo senso, per cui con lo spostamento del detenuto in altro carcere il fascicolo diventava automaticamente leggibile nel nuovo istituto. Il ministero aveva finanziato e avevamo fatto un prototipo ma poi il progetto si è arenato. Lo stesso è accaduto con la rete di telecardiologia. Come Regione Calabria avevamo dato a tutti gli istituti un palmare, un elettrocardiografo che trasmetteva l’elettrocardiogramma ad una Utic, assicurando lo screening immediato di un dolore toracico. Poi tutto si è fermato. La tecnologia va portata nelle carceri ma servono investimenti e una visione di sistema. Nel logo dei “rambo” della Polizia penitenziaria per sedare le rivolte domina il gladio romano di Nello Trocchia Il Domani, 21 dicembre 2024 Mancano circa 18mila agenti di Polizia penitenziaria, considerando anche il numero in aumento dei detenuti, ma è nato un nuovo gruppo per sedare le rivolte. Si chiama Gio, ecco il loro logo. La lettera G stilizzata, la scritta del gruppo per intero e al centro un gladio romano di colore blu, la spada dell’impero. Non sono guerriglieri, non vanno in missione bellica, è solo il simbolo del nuovo gruppo della polizia penitenziaria, pensato per sedare le rivolte sul modello dei “rambo” francesi. Il decreto è firmato dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, ma anche il logo, così come l’anima e il pensiero che ha fatto nascere il Gio, ha certamente avuto il vaglio e la cura del plenipotenziario del ministero della Giustizia, il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove. Il Gio è il gruppo intervento operativo della polizia penitenziaria che da qualche giorno ha anche il logo minuziosamente descritto nel decreto firmato da Russo, qualche giorno fa. “Il distintivo di appartenenza del personale del corpo di polizia penitenziaria assegnato al reparto specializzato Gio è costituito da uno scudetto di colore blu e bianco; nella parte superiore l’iscrizione in stampato, carattere Arial Bond, “Polizia Penitenziaria”, nella parte inferiore semisferica vi è steso in stampato carattere Arial Bond, “Gruppo intervento operativo”. Al centro viene raffigurato l’acronimo Gio, composto da lettera G stilizzata, posizionata al centro di colore blu, con lettera I raffigurata da gladio romano di colore blu la quale, dall’alto verso il basso interseca al centro la lettera G; la lettera O viene raffigurata parzialmente ai lati inglobando le precedenti due lettere; l’elsa del gladio è sovrastata dall’emblema Ri della Repubblica italiana. Sullo sfondo nella parte mediana superiore, viene riprodotto il tricolore della Repubblica Italiana”. Il gruppo è stato presentato, nei mesi scorsi, in pompa magna proprio dal sottosegretario Delmastro Delle Vedove, nel decreto si legge che il segno distintivo è stato proposto dal direttore del gruppo. Ma cosa farà il Gio? Pronti anche negli istituti minorili - Mancano circa 18 mila agenti di polizia penitenziaria, considerando anche il numero in aumento dei detenuti, ma nasce un nuovo gruppo per sedare le rivolte. Le selezioni degli agenti sono in corso e, durante la presentazione del Gio, si è fatto riferimento al modello francese. Un video, pubblicato da La Provence, mostra come questi poliziotti - verso cui diversi sono stati i giudizi critici da parte dell’organismo europeo che si occupa di tutela dei diritti dei detenuti - si allenino nel corso della loro formazione. Laurent Ridel, direttore dell’amministrazione penitenziaria francese, ricorda che l’Eris, nato “nel 2003 per affrontare ammutinamenti ed evasioni”, garantisca la “sicurezza” all’interno dei penitenziari. Il video mostra agenti che si calano dal soffitto con una fune, provvisti di scudi, in tenuta antisommossa e fumogeni, e in coppia immobilizzano l’obiettivo. “Il nuovo decreto sottrae risorse alla polizia penitenziaria, già numericamente del tutto inadeguata, per istituire nuovi corpi speciali per la repressione delle rivolte e per i quali prevede una formazione di soli tre mesi. Mentre davanti agli occhi scorrono le immagini terrificanti di Santa Maria Capua Vetere, di Reggio Emilia e dell’istituto minorile Beccaria di Milano, riteniamo che appaia indispensabile adottare strumenti che garantiscano l’assoluta trasparenza dell’operato delle forze dell’ordine soprattutto all’interno degli istituti di pena troppo spesso percepiti come luoghi di buio impenetrabile”, si leggeva nel testo della Camera penale di Roma che criticava l’istituzione del nuovo gruppo che potrà agire anche all’interno degli istituti minorili. Quelle liti quotidiane fra giudici e politici di Mario Bertolissi Corriere del Veneto, 21 dicembre 2024 L’intervento Buon senso e sensibilità istituzionale vorrebbero che ciascun potere non travalicasse le proprie competenze. Analisi di un conflitto. Proviamo a pensare a una società senza giudici: è inconcepibile. Lo è, perché essere più d’uno comporta problemi di coesistenza: rapporti, conflitti, risoluzione delle controversie. Possono riguardare le persone, in quanto tali, oppure queste e chi le governa. Quando una società si evolve, tutti i poteri si strutturano: il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario, che consente ai primi due di operare coordinati, esclusa ogni usurpazione. Perché ciò avvenga, deve essere rispettato un principio, che taluno tende a svalutare, ma che la quotidianità consente di ritenere essenziale. È il principio della separazione dei poteri, di cui ha scritto Montesquieu. Corrisponde al principio dei controlli e dei bilanciamenti, che la Serenissima ha elaborato e reso grande, preso ad esempio dai Costituenti di Philadelphia. Buon senso e sensibilità istituzionale vorrebbero che ciascun potere non travalicasse le proprie competenze. Ad essere precisi, l’articolo 104, 1° comma, della Costituzione afferma che “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Ordine, dunque, non potere. Tuttavia, anche se i termini non sono stati usati a caso, i fatti quotidiani dimostrano che, ordine o potere, il giudiziario è in costante rapporto, da pari a pari, con il legislativo e l’esecutivo. Ed è in questa prospettiva che l’articolo 101, 2° comma, della Costituzione dispone che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Si tratta di una previsione chiara, che non dovrebbe comportare equivoci di sorta. Eppure, non c’è giorno che il giudiziario non contesti scelte del Governo e del Parlamento. Anche se ragioni del contendere sono inevitabili, non pare dubbio che l’inciso “soggetti soltanto alla legge” dovrebbe conservare un suo ragionevole significato. Anche perché i giudici, che ritengono una legge inappropriata, la possono contestare, usufruendo di un rimedio, che per essi è un agevole privilegio: quello di investire direttamente la Corte costituzionale, affinché la stessa verifichi se l’atto normativo primario è conforme oppure no alla Legge fondamentale. Rimane esclusa - questa è la mia opinione - ogni contestazione attinente il merito: vale a dire, l’opportunità politica del provvedimento. A maggior ragione, quando la legge è di rango costituzionale, dal momento che in gioco c’è unicamente la responsabilità politica del Costituente. In realtà, gli uomini sono quel che sono. Machiavelli li considerava (detto in italiano moderno) “ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, timorosi dei pericoli, avidi dei guadagni”. Chi lo può negare? Ed allora non deve sorprendere il fatto che la Corte costituzionale - chiamata a pronunciarsi sull’autonomia e l’indipendenza del giudice - abbia concluso i propri ragionamenti notando che “l’indipendenza della magistratura trova la prima e fondamentale garanzia nel senso del dovere dei magistrati e nella loro obbedienza alla legge morale” (sentenza n. 168/1963). Non alle leggi positive, ma alla legge morale, cui debbono riportarsi le leggi in generale per non essere liberticide. Qui sta la garanzia del privilegio dello ius dicere. Dell’essere, per definizione, al di sopra delle parti e, quindi, legittimati a stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Per questo, è essenziale che, chi è investito di simili facoltà, sia degno della funzione, che è chiamato a svolgere. Non a caso, Piero Calamandrei, nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato, ha delineato il profilo di tanti, che ha incontrato nella sua lunga vita professionale. Ed ha, con l’occasione, ricordato che “Il nome di ‘giudicè è un nome onesto ed austero, come quello che distingue un ordine religioso”. In una simile prospettiva, è evidente che il problema del giudice è la “ricerca della verità nel processo”. Sicché - dirà di un magistrato - “l’errore giudiziario era la sua ossessione”. Perché “la giustizia nasce dal dolore”. È per questo che il giudice deve “cercar di introdurre nelle formule spietate delle leggi la comprensione umana della ragione illuminata dalla pietà”. Evapora ogni aspirazione di questo genere quando l’ordine diviene potere: vale a dire, insieme di prerogative, che entrano in urto con gli altri poteri. Essenzialmente, con i titolari di un potere politico. A questo proposito - visto quel che sta da tempo accadendo -, non si creda che la libertà sia, di per sé, garanzia di indipendenza. È un discorso, che vale per i nostri giorni: così tempestosi, così fatui, così incomprensibili. Infatti, sempre Piero Calamandrei ha osservato, mestamente, che “Verrebbe voglia di dire che per un magistrato mantenere la sua indipendenza sia più difficile in tempi di libertà che in tempi di tirannia” (1959). Un altro Costituente - illustre giurista e Giudice costituzionale: Costantino Mortati - ha scritto (nelle sue celebri Istituzioni di diritto pubblico), quanto al CSM, che “Si verifica così questo risultato paradossale che un organo creato per garantire l’indipendenza della magistratura diventi potente strumento della sua politicizzazione” (1976). Comunque sia, in nome del popolo italiano, piantatela! Una volta per tutte. Politici e magistrati. Strasburgo avverte: “Il ddl Sicurezza viola la Convenzione Ue” di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 dicembre 2024 Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa scrive al presidente del Senato. O’Flaherty punta il dito contro le norme anti protesta e la “rivolta” in carcere. La Russa: “Inaccettabile interferenza”. “Chiedo rispettosamente ai membri del Senato di astenersi dall’adottare il disegno di legge n. 1236, a meno che non venga sostanzialmente modificato per garantire che sia conforme agli standard pertinenti del Consiglio d’Europa sui diritti umani”. A scriverlo è il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Michael O’Flaherty, che elenca uno per uno gli articoli del ddl Sicurezza fortemente indiziati di violare le convenzioni europee e internazionali in una lettera indirizzata al presidente del Senato Ignazio La Russa e, tramite lui, a tutti i senatori italiani impegnati nella seconda lettura del testo di legge. Non è certo la prima iniziativa di questo genere verso alcuni dei 46 Paesi membri da parte dell’organizzazione internazionale con sede a Strasburgo, e non è la prima volta per l’Italia, ma per la seconda carica dello Stato è lesa maestà e la lettera è “un’inaccettabile interferenza nelle decisioni autonome e sovrane di un’assemblea parlamentare”. Forse immaginando la reazione dell’”Honorable President”, nella sua lettera il commissario O’Flaherty spiega fin da subito che “una parte importante del mio lavoro è impegnarmi nel dialogo con i governi e i parlamenti degli Stati membri e assisterli nell’affrontare possibili carenze nelle loro leggi e pratiche”. Quello che probabilmente non poteva immaginare, il professore che da vent’anni lavora nel campo dei diritti fondamentali e ha ricoperto diverse importanti cariche a livello internazionale, è che potesse essere definito dal presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri un “ignoto e inutile figuro”. Fatto sta che, dopo la bocciatura dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che a settembre aveva chiesto di rivedere le norme più liberticide del ddl Sicurezza, ora nella lettera datata 16 dicembre e resa pubblica ieri anche il Commissario europeo avverte il rischio di violazione degli articoli 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di riunione e di associazione) della Convenzione europea dei diritti umani. I fari del Consiglio d’Europa si sono accesi in particolare sugli articoli 11, 13, 14, 24, 26 e 27 del ddl che “introducendo reati definiti in termini vaghi e che includono altre severe restrizioni”, rischiano di “creare spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica”. Lo fa l’articolo 11 che prevede “un’aggravante generale per i reati commessi all’interno o in prossimità di stazioni ferroviarie e metropolitane e sui convogli”; l’articolo 13 che estende il Daspo urbano già introdotto dal Decreto Minniti; l’articolo 14 perché “introduce il reato penale (in sostituzione dell’attuale illecito amministrativo) di turbativa della circolazione con il proprio corpo, punito con la reclusione da sei mesi a due anni se commesso da almeno due persone”; l’articolo 24 che “impone pene detentive tra sei e 18 mesi per la deturpazione di edifici o beni utilizzati per funzioni pubbliche, quando l’obiettivo è quello di danneggiare l’onore, il prestigio o il decoro di un’istituzione”. E infine gli articoli 26 e 27 che introducono il reato di rivolta nelle carceri e nei centri di detenzione e accoglienza per migranti e richiedenti asilo, con pene che vanno “da uno a 5 anni di reclusione (e da due a otto anni per coloro che promuovono, organizzano o dirigono la ribellione) non solo per atti di violenza o minacce, ma anche per resistenza, inclusa la resistenza passiva”. A questo proposito O’Flaherty ricorda che “i detenuti continuano a godere di tutti i diritti e le libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione”, sottoscritta anche dall’Italia e che “non esclude i diritti di associazione dei detenuti” e il loro “diritto alla libertà di espressione”, comprese “alcune forme di protesta pacifica che possono comportare una resistenza passiva”. In sostanza il Commissario di Strasburgo ricorda che “la Corte ha anche ripetutamente affermato che una manifestazione pacifica non dovrebbe essere soggetta alla minaccia di una sanzione penale e in particolare alla privazione della libertà”, e che “il legislatore ha la responsabilità di trovare il giusto equilibrio tra il rispetto della libertà di riunione pacifica e la protezione dei diritti altrui”. Gli articoli 11, 13, 14, 24, 26 e 27 del ddl, “introducendo reati definiti in termini vaghi e che includono altre severe restrizioni”, rischiano di “creare spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica”. Una raccomandazione che Ignazio La Russa ha trovato “non solo irrituale ma contrario a qualunque principio democratico” da parte del Commissario - “a me finora del tutto sconosciuto”, ha detto il presidente del Senato - in quanto chiede “di non votare una legge per altro il cui testo è ancora in formazione e all’esame delle Commissioni”. Eppure già nel giugno 2017 l’allora Commissario per i diritti umani Nils Muižnieks avvertì il parlamento italiano delle criticità riscontrate nella legge (in quel momento in discussione alla Camera) che intendeva introdurre nel codice penale italiano una configurazione del reato di tortura distante da quella adottata dalla Convenzione Onu ratificata dall’Italia. Più recentemente il Consiglio d’Europa ha richiamato il nostro Paese per i maltrattamenti dei migranti nei Cpr e per le profilazioni razziali da parte delle forze dell’ordine. “Il Ddl Sicurezza va a questo punto ritirato immediatamente”, è la richiesta che si leva da tutti i partiti di opposizione, dalla Cgil e dalle associazioni che lavorano sui diritti umani come Antigone. Preoccupa anche l’incredibile risposta di La Russa al Commissario O’Flaherty: “È inammissibile - protesta Piero De Luca, capogruppo Pd in commissione Politiche europee - che la destra continui a sentirsi al di sopra della legge, fuori dalle regole fondamentali della costituzione del diritto europeo e delle convenzioni internazionali. Il presidente La Russa, purtroppo, ci ha abituato ad uscite scomposte e a gamba tesa, ma questa volta si è superato il limite”. Ddl sicurezza, i rilievi del Consiglio Europa: restringe i diritti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2024 Lo afferma Michael O’Flaherty, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una lettera inviata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa. Diversi articoli del Ddl sicurezza, attualmente in discussione al Senato, “restringono il diritto a manifestare e esprimersi pacificamente, e i senatori dovrebbero astenersi dall’adottarlo, a meno che non venga modificato in modo sostanziale per garantire che sia conforme agli standard del Consiglio d’Europa in materia di diritti umani”. Lo afferma Michael O’Flaherty, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una lettera inviata al Presidente del Senato, Ignazio La Russa. “Ritengo che gli articoli 11, 13, 14, 24, 26 e 27, che introducono reati definiti in termini vaghi e includono altre severe restrizioni, creino spazio per un’applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica”, scrive il commissario nella lettera inviata il 16 dicembre ma resa pubblica oggi. Nel rispondere alla lettera, Ignazio La Russa scrive di aver trasmesso il testo al senatore Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento, e ai senatori Baldoni e Bongiorno, che presiedono le due commissioni (Affari Costituzionali e Giustizia) che stanno esaminando il ddl sicurezza non entrando però nel merito di quanto affermato dal commissario. Subito all’attacco le opposizioni. “Ci uniamo alla richiesta del Commissario O’Flaherty di non approvare senza gli opportuni cambiamenti quelle norme che ‘introducono reati definiti in termini vaghi e includono altre severe restrizioni’ al fine di evitare che si crei la possibilità di una applicazione arbitraria e sproporzionata, colpendo attività che rappresentano un legittimo esercizio della libertà di riunione o espressione pacifica”, così in una nota la senatrice del Pd Sandra Zampa. Sulla stessa linea il Movimento 5 Stelle: “Anche il Consiglio d’Europa, un’istituzione di indiscutibile autorevolezza in materia di diritti umani, ha lanciato un forte allarme sulle tante gravi violazioni dei diritti contenute nel Ddl Sicurezza, chiedendo di non approvarlo a meno che non venga radicalmente modificato. In particolare, evidenzia il Consiglio d’Europa, varie norme restringono il diritto a manifestare e esprimersi pacificamente”. Sotto la lente, dunque, sono finiti: - l’articolo 11, che al comma 1 inserisce nell’articolo 61 c.p. la nuova circostanza aggravante comune dell’aver commesso il fatto nelle aree interne o nelle immediate adiacenze delle infrastrutture ferroviarie o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri; - l’articolo 13 che estende il c.d. Daspo “urbano”. La disposizione allarga poi l’ambito di applicazione dell’arresto in flagranza differita anche al reato di lesioni personali a un pubblico ufficiale in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria; - l’articolo 14 con la previsione di un illecito penale - in luogo dell’illecito amministrativo attualmente previsto - per il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo; - l’articolo 24 che prevede per il reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui che ove il fatto sia commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la precipua finalità di “ledere l’onore, il prestigio o il decoro” dell’istituzione alla quale appartengono, la pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro; con reclusione da sei mesi a tre anni e della multa fino a 12.000 euro in caso di recidiva; - l’articolo 26 che introduce l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi di cui all’articolo 415 c.p., se commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute; il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, di cui all’articolo 415-bis c.p.; - infine, l’articolo 27 che introduce un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento ed accoglienza. Veneto. Il reinserimento sociale dei detenuti, unica misura efficace per aumentare la sicurezza di Erika Giuriato, Marco Vincenzi e Samuele Vianello L’Unità, 21 dicembre 2024 Nel 2024 sono state 12 le visite agli istituti penali del Veneto svolte dalle Associazioni Radicali venete e da Nessuno tocchi Caino, con la partecipazione del Movimento Forense, delle cellule dell’associazione Luca Coscioni e diversi amministratori locali, consiglieri comunali e regionali. In un anno di incessante attività, sempre con la convinzione di dover insistere per svelare la verità, abbiamo constatato le mancanze strutturali della sanità penitenziaria veneta, insieme ad altre criticità ben radicate nella “istituzione” carceraria. Abbiamo osservato un sistema sanitario al collasso, che fronteggia una situazione precaria e inumana: in alcuni istituti la percentuale di persone che fa uso di psicofarmaci rasenta il 100%, il 40% dei detenuti soffre di patologie croniche e il 20% è dichiarato “tossicodipendente”. Allarmante è l’assenza di personale sanitario di base, specialistico e infermieristico, al di sotto dei criteri che la regione Veneto stessa ha stabilito nel 2021; personale poi costretto a condizioni di lavoro inaccettabili e a turni massacranti, il tutto per reggere l’insostenibilità delle condizioni carcerarie. Oltre alla precaria situazione sanitaria, rileviamo la carenza di personale educativo, di operatori, di agenti, di interpreti, di residenze idonee per fare ottenere ai detenuti a fine pena le misure alternative; lo scenario è di un tasso regionale di sovraffollamento del 140%, con picchi del 190% a Verona e del 170% a Venezia Santa Maria Maggiore e Treviso. Non sorprende dunque che 9 persone si siano tolte la vita nelle carceri venete nel 2024, in particolare 4 a Verona e 3 a Venezia. Per segnalare la tragica situazione sono state depositate diverse interrogazioni alla Giunta regionale da parte dei consiglieri Camani, Ostanel, Lorenzoni, Masolo e Baldin, ignorate e calendarizzate per non vedere mai risposta. A fine ottobre il Senatore Andrea Martella, nella replica alla risposta all’interrogazione presentata a luglio di quest’anno - a seguito dell’ennesimo suicidio in Veneto - denunciava il dramma che si consuma negli istituti veneti, elogiando gli sforzi sovraumani del personale a fronte delle irrisorie risorse. A fine novembre le associazioni radicali venete, con le cellule dell’associazione Luca Coscioni, hanno inviato una lettera a tutti i consiglieri regionali del Veneto, richiedendo l’apertura di un dibattito in merito alle politiche penitenziarie nelle materie di competenza regionale, attraverso la costituzione di un Intergruppo consiliare, promosso dai consiglieri Camani e Lorenzoni. A distanza di un mese dall’invio della missiva, non è gi unta risposta alcuna dalla maggioranza. Per quanto riguarda le politiche abitative per le persone private della libertà, l’amministrazione comunale di Venezia fomenta una retorica discutibile. È eclatante il caso dell’assessore Venturini, che cassa in toto la proposta di Paolo Ticozzi, consigliere comunale di Venezia, che proponeva l’assegnazione di case a cooperative per detenuti a fine pena coinvolti in progetti di reinserimento sociale. Istanza “impensabile” e “stravagante” secondo Venturini, che ha descritto l’idea come di una “sottrazione del patrimonio abitativo”. È rilevante il caso di Treviso, dove le consigliere Bazza e Tocchetto hanno dovuto richiedere all’amministrazione comunale di audire il Garante dei detenuti perché potesse esporre la relazione annuale durante una seduta del Consiglio, così da consentire ai consiglieri di affrontare, nella sede istituzionale preposta, le criticità risolvibili a livello locale. Le consigliere hanno altresì chiesto, e parzialmente ottenuto, che le attività del Garante dei detenuti siano adeguatamente finanziate per non addossare i costi del ruolo al medesimo. Dopo un anno di iniziative, il 20 dicembre si è tenuta la prima conferenza veneta sulle politiche penitenziarie territoriali. Diversi relatori, fra i quali il Senatore Martella e il portavoce dell’opposizione in consiglio regionale, Arturo Lorenzoni, hanno discusso le proposte che le amministrazioni dovrebbero avanzare per attenuare la situazione mortifera e criminogena degli istituti veneti. Non c’è più tempo: la Regione Veneto deve ottemperare alle sue stesse leggi in materia sanitaria, ponendo fine a questa situazione di illegalità, implementando misure straordinarie per il reinserimento sociale, lavorativo e abitativo dei detenuti, unica misura efficace per aumentare realmente la sicurezza. Bologna. Emergenza suicidi in carcere: campagna di sensibilizzazione degli avvocati di Sara Sonnessa bolognacronaca.it, 21 dicembre 2024 Il presidente della Camera Penale, Nicola Mazzacuva, ha sottolineato la gravità della situazione. L’emergenza suicidi in carcere raggiunge numeri allarmanti, con 89 detenuti morti nel 2024, un record assoluto che preoccupa profondamente le istituzioni e la società civile. Per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammatica situazione, i rappresentanti della Camera Penale di Bologna hanno lanciato una campagna informativa distribuendo volantini all’ingresso del tribunale della città. L’iniziativa si inserisce in un contesto di crescente attenzione sulla gestione del sistema penitenziario e sulla condizione di detenzione, da sempre un tema caldo per gli operatori del diritto. “Siamo arrivati a 89 suicidi quest’anno”, ha dichiarato Nicola Mazzacuva, presidente della Camera Penale di Bologna. “Il numero costituisce un record assoluto di tutti i tempi”, ha aggiunto, sottolineando la gravità della situazione. I volantini distribuiti dai penalisti riportano, in modo anonimo, i dettagli dei detenuti che si sono tolti la vita nel corso del 2024, indicando luogo, data e età dei detenuti, per offrire una panoramica drammatica ma reale della situazione. Oltre alla distribuzione dei volantini, l’iniziativa dei penalisti bolognesi si inserisce in un ampio movimento che chiede interventi urgenti per migliorare le condizioni nelle carceri italiane. Mazzacuva ha espresso anche il suo apprezzamento per l’iniziativa del Papa, che, in occasione del Giubileo, aprirà la Porta Santa a Rebibbia, uno dei più grandi istituti penitenziari italiani. Il Pontefice ha anche sollecitato provvedimenti clemenziali per affrontare la difficile condizione dei detenuti e contrastare il fenomeno dei suicidi in carcere. Genova. Il report Uilpa: “A Marassi annus horribilis tra risse, aggressioni e suicidi” genovatoday.it, 21 dicembre 2024 A Marassi da gennaio si contano 4 suicidi, innumerevoli risse e aggressioni, in un carcere che conta 696 reclusi su 535 posti, con 330 agenti di polizia penitenziaria a gestire il carcere. Il 2024 è stato un vero e proprio “annus horribilis” per il carcere di Marassi secondo il report di Uilpa, sindacato della polizia penitenziaria: i numeri parlano di quattro suicidi, innumerevoli aggressioni nei confronti della polizia, risse tra detenuti, distruzione di camere detentive e due poliziotti indagati per omicidio colposo in seguito all’ultimo suicidio nel centro clinico lo scorso 4 dicembre. Non va meglio dal punto di vista del sovraffollamento, con 696 detenuti su 535 posti, gestiti da 330 agenti nel penitenziario genovese. In tutto, in Italia, sono 16mila i detenuti oltre la capienza massima mentre mancano oltre 18mila unità alla penitenziaria. “Quest’anno si contano 87 suicidi a livello nazionale - puntualizza Fabio Pagani, segretario della Uilpa -. Numeri che, va ricordato, corrispondono a vite umane affidate allo Stato e che vengono spezzate, non a ‘mera informazione statistica’, come si è letto in qualche nota diffusa dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A questi, vanno peraltro sommati i 7 suicidi fra gli agenti. È stato superato il record in negativo del 2022, che contava 85 suicidi. L’istituto di Marassi a Genova conta ben 4 suicidi nel 2024, un annus horribilis in tutti i sensi: aggiungiamo innumerevoli aggressioni nei confronti della polizia penitenziaria, risse tra detenuti, distruzione di camere detentive e due poliziotti indagati per omicidio colposo dopo ultimo suicidio detenuto al centro clinico il 4 dicembre scorso. La situazione complessiva nelle prigioni è da tempo fuori controllo e, ciò che è peggio, si aggrava giorno per giorno”. Insomma, per Pagani occorre prestare maggiormente attenzione alla qualità della vita sia dei detenuti sia degli operatori: “Questi ultimi - continua Pagani - sottoposti a carichi di lavoro e a turnazioni massacranti, privati di elementari diritti, anche di rango costituzionale, stremati nel fisico e mortificati nel morale e nell’orgoglio anche per esser loro impedito d’adempiere efficacemente alle funzioni richieste dalla collettività. Ribadiamo che necessitano interventi immediati per deflazionare la densità detentiva, adeguare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria, assicurare l’assistenza sanitaria e riorganizzare, riformandolo, l’intero apparato. Il 2024 non è ancora finito, ma in assenza di provvedimenti seri, tangibili e immediati che deflazionino la densità detentiva, potenzino gli organici della polizia penitenziaria, assicurino l’assistenza sanitaria e pongano le basi per una complessiva riorganizzazione dell’intero sistema, il 2025 potrebbe essere persino peggiore”. Milano. Ipm Beccaria, protocollo d’intesa per formazione professionale giovani detenuti milanopost.info, 21 dicembre 2024 È stato siglato in Prefettura un protocollo d’Intesa per la progettazione di percorsi formativi e professionali in favore dei giovani detenuti dell’Istituto di Pena Minorile “Cesare Beccaria” di Milano. L’accordo - riferisce una nota - vede la sinergica partecipazione del Centro di Giustizia Minorile, del Tribunale dei Minori di Milano, di Afol Metropolitana e dei centri per l’impiego, delle associazioni di categoria del settore dell’Artigianato e del volontariato operante nella struttura carceraria minorile, supportati dal partenariato e dal concreto sostegno delle Fondazioni Pirelli, Baggi Sisini e Corriere della Sera per un corale impegno nella costruzione di un futuro migliore per i ragazzi del Beccaria. Obiettivo del Protocollo è quello di favorire la costruzione di concreti percorsi di formazione e crescita professionale già durante il periodo di restrizione nella struttura carceraria, attraverso la realizzazione di momenti laboratoriali curati da professionisti del settore e finalizzati all’inserimento nel mondo del lavoro, fornendo strumenti concreti per una reintegrazione nel contesto sociale e comunitario. I giovani detenuti, sostenuti dall’Associazione Punto Zero già operante al Beccaria con iniziative di natura culturale ed artistica, saranno così accompagnati in un cammino di crescita e consapevolezza, affinché terminato il periodo di reclusione dispongano di strumenti efficaci che impediscano un reingresso nel circuito della criminalità. La costruzione ed il perfezionamento dell’Intesa rientrano invero in un collaudato e più ampio rapporto collaborativo avviato dalla Prefettura di Milano con le Fondazioni Pirelli, Baggi Sisini e Corriere della Sera, che già a partire dal 2022 sostengono con dedizione un progetto di scrittura creativa in favore dei detenuti del carcere di San Vittore in Milano, e che con questa nuova iniziativa, arricchita dall’adesione di ulteriori e preziosi partners istituzionali, intende valorizzare le strategie di prevenzione della delinquenza e della fragilità giovanile. “L’accordo sottoscritto oggi - evidenzia il Prefetto Sgaraglia - rappresenta un importante segnale ed un chiaro indicatore della sensibilità che questo territorio e le sue Istituzioni riservano al tema della criminalità minorile ed alla necessità di individuare soluzioni condivise e concrete per la prevenzione del fenomeno. Sono sicuro che saranno realizzati tutti gli obiettivi dell’accordo perché sostenuto da attori istituzionali di massima professionalità e competenza, cui rivolgo i miei più sentiti ringraziamenti per la preziosa collaborazione assicurata”. “La conoscenza, la cultura e il lavoro - osserva il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò - sono strumenti fondamentali per costruire percorsi di crescita, di responsabilità, di ripartenza verso una migliore condizione personale e sociale. Per questi motivi la Fondazione Pirelli partecipa con profonda convinzione al progetto sulle attività formative in favore dei giovani detenuti dell’Istituto “Beccaria di Milano” e ringrazia le istituzioni che ne sono promotrici e le associazioni sociali che ne garantiscono la realizzazione. È necessario fare crescere una nuova cultura dei diritti e dei doveri, coinvolgere le giovani generazioni nei processi di partecipazione consapevole e di affermazione dei legami tra libertà e responsabilità, collaborare con spirito di solidarietà alla ricostruzione di possibilità di vita attiva e dignitosa”. “In un contesto sociale sempre più complesso e segnato da un crescente disagio giovanile, la Fondazione Baggi Sisini - commenta il presidente Francesco Baggi Sisini - riconosce le difficoltà quotidiane che l’Istituto Beccaria si trova ad affrontare nel lavorare con i giovani in situazione di vulnerabilità e ha deciso di aderire all’invito del Prefetto di Milano per rafforzare il loro percorso educativo, promuovendo l’acquisizione di competenze pratiche e professionali che possano permettere la piena integrazione nella società, in modo responsabile e nel rispetto dei valori di legalità”. Treviso. “Cittadinanzattiva” per i diritti delle persone detenute trevisotoday.it, 21 dicembre 2024 Il 26 dicembre al carcere di Rebibbia il Papa apre la Porta Santa del Giubileo speciale per le carceri. Cittadinanzattiva, operativa con una propria assemblea territoriale anche a Treviso, crede profondamente in questa iniziativa. Tanto che è impegnata da tempo in alcuni progetti culturali-sociali in collaborazione con la Casa circondariale di Santa Bona. Nella missione sociale della nostra associazione, Cittadinanzattiva, si afferma che noi siamo un punto importante per l’attivazione dei diritti di tutte le persone, con particolare attenzione a quelle “fragili”. Ossia, a quei soggetti che non riescono ad accudirsi da soli. In questa categoria sociale, sono comprese sicuramente le persone detenute. I nostri stakeholder sono quindi gli individui con i loro diritti, al di là del loro status sociale. Persone che, come quelle detenute, sono prive della libertà individuale e, di conseguenza, decisamente e forzatamente impedite ad occuparsi dei diritti fondamentali. Quale sia la ragione di questa situazione non sta nei nostri compiti e nella conseguente rappresentanza sociale. Noi ci occupiamo delle persone detenute e dei loro diritti negati o non concessi. Questo lo facciamo da alcuni anni. Con la nostra area “giustizia per i diritti” ci siamo già occupati e vogliamo continuare a farlo, della qualità della vita delle persone, al di là del luogo in cui si trovano, e quindi anche delle persone detenute. Per questo ci stiamo occupando delle loro idee, dei sogni e delle aspirazioni che li accompagnano. Da subito abbiamo pensato, per fare questo, che gli strumenti ideali erano le parole e la lettura. Questa dava e dà senso e forza alle parole. Per capire meglio a cosa pensiamo, usiamo le parole di Papa Francesco scritte nella “Bolla di indizione del Giubileo 2025”. Il Santo padre scrive “che occorre dare ai detenuti, in quest’anno del Giubileo 2025, segnali tangibili della speranza. Essi, essendo privi della libertà, sperimentano ogni giorno la durezza della reclusione, il vuoto affettivo per le restrizioni imposte e, in diversi casi, è diffusa la mancanza di rispetto come persone”. Negli intendimenti della “Bolla per il Giubileo” si insiste nell’adoperarsi per restituire a loro, detenuti, la speranza individuale e sociale, al fine di recupera fiducia in sè stessi e nella società. Si indica come ipotesi di soluzione dei percorsi di reinserimento nella comunità, “ovviamente”, precisa il documento, nel rispetto delle leggi. La Chiesa, e si crede su input di Papa Francesco, che ha dimostrato più volte attenzione specifica a questo popolo, conta sulla capacità e forza delle persone per il reinserimento idoneo a recuperare spazio, sia nella comunità sociale che nel Paese. Questa del reinserimento (lavoro, casa e posto nel convivio sociale) è una preoccupazione molto presente in tante persone detenute. Obiettivo questo indicato anche nella Costituzione Italiana, articolo 27, terzo comma, dove si stabilisce che le pene devono rispettare la dignità della persona. Sono quindi vietati i trattamenti disumani e si deve puntare alla rieducazione del condannato (usa questo termine la Costituzione Italiana). Tenendo conto e partendo da persona e inserimento, nel pensare al nostro impegno territoriale, in linea con quanto fa Cittadinanzattiva, tramite la “Rete giustizia per i diritti”, abbiamo individuato nella lettura e nel suo strumento principe di divulgazione, il libro, uno spazio nel quale investire. Per questo abbiamo pensato e ideato il progetto “Libro Sospeso”. La lettura, le parole e i sogni sfuggono (per fortuna) a tutte le regole della società, anche a quella carceraria. Questa cosa, al di là delle responsabilità soggettive e oggettive di ciascuno, rende una vita difficile e spesso inaccettabile alle persone detenute, oltre a quelle che con loro convivono. “Il libro Sospeso” è stato mutuato dal “caffè sospeso”. Usanza popolare, diffusa nel napoletano e molto apprezzata come gesto solidaristico, dalle persone fragili e molto spesso bisognose. A Napoli la solidarietà si fa anche con il dono di un caffè. Qui da noi, abbiamo provato, e ci sta dando le dovute risposte, a farla con un libro donato, che contiene una dedica del donante. Questi libri vengono poi distribuiti dalla Direzione della Casa circondariale di Treviso alle persone detenute. Nel 2025 sarà il quarto anno del libro donato. In questo tempo sono stati raccolti circa 350 libri, sostenuti e accompagnati da una decina di incontri letterari, alla Libreria Paoline di Treviso, nostra partner di progetto. Dalla lettura e dalle parole, abbiamo pensato fosse tempo di sperimentare la scrittura. Volontari, detenuti, hanno scritto e rese concrete le loro idee e sogni. Cittadinanzattiva Treviso di questa scrittura ne ha fatto tesoro. Abbiamo raccolto i testi scritti e, in forma anonima, li abbiamo pubblicati in una “Antologia di racconti” (a cura di Francesca Brotto e Silvia De March). Questa attività è relativa al primo anno del progetto “Storie Sbarrate” ed è stata coordinata da Francesca Brotto (che è autrice, formatrice in tecniche teatrali e autobiografiche di comunità). Nel 2025 sono previste anche attività teatrali. Il progetto gode dei contributi della Regione Veneto (Dgr 1124/2023. Azione della linea 2: “Misure per il reinserimento e inclusione” riferita al DGR 1405 dell’11 novembre 2022. Approvazione del programma regionale triennale di interventi coofinanzati dalla Cassa delle Ammende in favore delle persone in esecuzione penale esterna. Dgr 743 del 21 giugno 2022) Storie Sbarrate”. Segnaliamo, a completamento delle informazioni, che la cultura e l’arte trovano posto, ad integrazione del programma religioso del Giubileo 2025, attraverso l’attivazione di diverse iniziative, durante tutto il periodo giubilare. Questo nostro impegno culturale e ricreativo potrebbe (e dovrebbe) essere prodromo ad un futuro nostro impegno nella diffusione della cosiddetta “Giustizia Riparativa” che inserisca e privilegi il pentimento, non perdono, di Caino, nei giudizi giuridici. Con il pentimento che riconosca le sue gesta del REO consente alla riparazione di agire di conseguenza. Come ultima considerazione, crediamo sia arrivato anche il momento di trovare nuove forme di supporto al più vasto progetto di reinserimento governativo, in parte già annunciato. Ci riferiamo, nello specifico, sia ad una iniziativa del Cnel (Consiglio Nazionale Economia e Lavoro) dal titolo significativo “Recidiva Zero”. Sia di un Protocollo con il Ministero della Giustizia e Santa Sede, con inserimento del sindaco della Città di Roma. Tale Protocollo prevede l’impiego di detenuti idonei, in lavori di manutenzione e di altra natura, anche ai fini dell’acquisizione di competenze professionali utili per favorire il reinserimento. La nostra idea è quella di cercare formule, territoriali, di contatto e scambio di opinioni fra le 109 diverse Case circondariali italiane (le carceri) e le Amministrazioni delle città dove esse sono allocate. Non si può continuare a far finta e ignorarsi sulla rispettiva presenza e attività. Alcuni anni fa un’iniziativa fu assunta, su proposta dell’Associazione Antigone (che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale), ma ebbe scarso successo, per l’indifferenza di entrambe le realtà. Affinché sia chiaro di che cosa stiamo parlando, è utile avere alcune informazioni. I detenuti, secondo dati vecchi del Ministero di Giustizia (gennaio 2024), ampiamente superati, dice che i detenuti italiani sono 60.637, contro una capienza di posti di 51.347. Oggi le statistiche, ufficiose, parlano di 61.468 detenuti contro una capienza d’uso di 47.067. Comunque sia, è chiaro che abbiamo una forte situazione di sovraffollamento che crea grandissime tensioni. Nelle nostre carceri italiane ci sono state ad oggi 89 morti suicida e 155 per altre cause. I morti in totale sono stati 243. La situazione veneta Sempre in base ai dati del Ministero di Giustizia, gennaio 2024, le Case circondariali (carcere) in regione sono 9. Ci sono 2.587 reclusi (contro una capienza di 1.972). Le donne sono 123, mentre gli stranieri sono 1.323. Oltre a loro, nelle carceri ci sono molte altre persone, cioè individui. Trattasi di persone che ogni giorno si occupano della gestione delle Case circondariali, come ad esempio la Polizia giudiziaria, gli educatori professionali, molti e tanti volontari. A questi vanno aggiunti i familiari sia delle persone detenute che quelli della Polizia giudiziaria. Infine, non ultime, tutte le vittime dei reati per i quali le persone sono detenute. Nei molti volontari, a Treviso, ci siamo anche noi di Cittadinanzattiva e siamo impegnati in alcune specifiche attività, che fanno parte del circuito del reinserimento sociale. Trento. La pizzeria del carcere diventa realtà di Dafne Roat Corriere del Trentino, 21 dicembre 2024 Spini, aprirà in primavera su 300 metri quadrati. Gestione affidata in toto ai detenuti. Entro Pasqua si sforna “Spini pizza”. Diventa realtà il progetto, voluto dalla Procura di Trento e realizzato insieme alla Provincia e al Comune di Trento, della pizzeria del carcere. Il locale, realizzato con una struttura in legno, di 300 metri quadrati avrà trai 60 e i 90 posti all’interno, più uno spazio all’esterno. “Intendiamo favorire la riabilitazione di coloro che desiderano intraprendere un percorso di recupero”, ha spiegato il presidente Maurizio Fugatti. Trecento metri quadrati, trai 60 e i 90 posti a sedere all’interno del locale, ma ci sarà anche un’area per gli allestimenti di dehors. Sarà una struttura in legno, con arredi moderni e attrattivi, “Sarà un nuovo bicigrill a Spini di Gardolo”, riflette il procuratore Sandro Raimondi. Dopo gli annunci dello scorso anno la pizzeria del carcere diventa realtà. Si è ormai vicini alla meta. “Speriamo di riuscire ad aprire per Pasqua”, afferma il direttore generale della Provincia, Raffaele De Col, a margine della conferenza stampa di ieri a palazzo di giustizia. La Provincia ha stanziato un budget di 300mila euro, ma saranno aggiunte altre risorse. Dietro al bancone, in cucina e a servire al tavolo ci saranno i detenuti, un progetto inclusivo, di reinserimento sociale che permetterà di accorciare le distanze tra il mondo fuori e dentro il carcere, nato sotto la spinta del procuratore. “Si tratta di un’idea che ho sempre coltivato, fin dai tempi dell’esperienza dell’antimafia- spiega. Si tratta di un progetto, tra i pochi in Italia, che vede coinvolti gli enti del territorio, Provincia e Comune. Il direttore della Provincia ha redatto uno studio di fattibilità che ci consentirà di aprire la struttura entro inizio estate. In questo modo- ha aggiunto Raimondi- intendiamo dare una chance di riscatto per coloro che hanno sbagliato e che saranno aiutati nel al reinserimento nella società”. “Spini pizza” è un progetto trasversale che coinvolge Provincia, Comune di Trento, la scuola di formazione professionale di Levico, la magistratura di sorveglianza, con il contributo dell’amministrazione carceraria locale, della Camera penale e dell’Ordine degli avvocati di Trento. Al lavoro una decina di detenuti che si sta formando proprio nella preparazione dei prodotti di lievitazione. In Italia ci sono altri esempi, ma questa volta in prima fila per sostenere un percorso strategico di riabilitazione e reinserimento sociale e lavorativo ci sono le amministrazioni locali. “La repressione dei reati, grazie all’impegno quotidiano delle forze dell’ordine è fondamentale- osserva il presidente Maurizio Fugatti-. Con questo progetto, che si inserisce in un percorso già attivato in carcere, intendiamo favorire la riabilitazione di coloro che desiderano intraprendere un percorso lavorativo e di recupero”. Il sindaco Franco Ianeselli arte da due esempi importanti di inclusione e riscatto che hanno trasformatole strutture carcerarie in un modello, come Bollate e i Due Palazzi di Padova, “con i dolci della pasticceria Giotto”, ricorda, sottolineando l’importanza dell’iniziativa con uno sguardo al futuro. “C’è un dato di recidiva altissimo e la risposta non può essere rinchiudere una persona in carcere e gettare la chiave, ma operare per il reinserimento attraverso esperienze lavorative a beneficio della dignità di queste persone e della sicurezza di tutti. La casa circondariale- ragiona- non è una scatola nera in cui mettiamo le persone che iniziamo a considerare non più la città. Nella città ci sono anche queste presenze e sono persone”. Bene quindi avvisare un percorso che, però, non sarà facile. Ci sono ancora molti aspetti organizzativi da perfezionare e soprattutto non sarà semplice la gestione del personale. C’è ancora molto lavoro da fare, ma l’importante, e su questo tutti sono d’accordo, è creare una realtà veramente attrattiva per non correre il rischio di vanificare gli sforzi fatti e avvicinare realmente la città al carcere. Soddisfazione per l’iniziativa è stata espressa anche dalla direttrice del carcere Anna Rita Nuzzacci, dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza Lorenza Omarchi e dal prefetto Giuseppe Petronzi. Soddisfatti anche il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Giovanni Russo e la dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria Rosella Santoro. Lecce. Il mio primo Natale in famiglia, dopo tanti anni di carcere di Ilaria Dioguardi vita.it, 21 dicembre 2024 Anna è in affidamento ai servizi sociali, lavora in un laboratorio di Lequile (Lecce), dopo essere stata detenuta nell’istituto penitenziario salentino. “È il primo Natale a casa con mia figlia e i miei nipoti dopo tanti passati in carcere. Nonostante le grandi difficoltà economiche, la paura di non farcela, i pensieri che non mi fanno dormire la notte, la parola di queste feste per me è solo una: felicità”. “La mia famiglia mi è mancata troppo. Ho proprio voglia di fare tutto ciò che posso con mia figlia e miei tre nipoti, durante queste feste”. Anna (nome di fantasia), ha 60 anni ed è felice. Il suo Natale è molto modesto “ma all’insegna della gioia, perché è il primo che passo a casa dopo tanti anni. Quando si esce dopo aver passato molto tempo in carcere è dura, ma sto provando a ricostruire la mia vita con tanti sacrifici e impegno. Mentre ero nell’istituto penitenziario ho perso mia mamma, era lei a portare avanti la famiglia. Io, mia figlia e i miei tre nipoti ci siamo ritrovati a vivere in grandi difficoltà economiche”, racconta. “Ogni giorno ho paura di non farcela, vado a letto con tanti pensieri. Ma ora ho voglia di rimboccarmi le maniche e ricominciare. Nonostante le difficoltà, la parola di queste feste per me non può essere che una: felicità. Perché sto con le mie persone più care, in un angolo di paradiso tutto mio. Sarà anche l’occasione di stare con le mie sorelle e mio fratello, ci vediamo pochissimo”. Questo Natale “per me è fantastico, posso organizzare il menu e riscoprire le piccole cose. Mia figlia e i miei nipoti (due sono piccoli, una lavora) mi fanno sentire al centro della casa. Cerco di non far mancare loro nulla”, continua Anna. “Tutti e tre i miei nipoti hanno sentito tanto la mia assenza, avermi a casa per loro è importante, mi coccolano sempre e cerco di essere presente in tutto. Al nipote più piccolo, qualche sera fa, dicevo che una cosa che non è possibile avere oggi non è detto che un domani non sia possibile averla. Lui mi ha detto: “Nonna, dobbiamo sempre pensare alle cose più importanti. La più importante di tutte è la famiglia”“. Da sei mesi Anna è in affidamento ai servizi sociali, lavora in un laboratorio di sartoria a Lequile (Lecce) gestito da Officina Creativa, fondata da Luciana Delle Donne: offre ai detenuti la possibilità di lavorare favorendo il loro reinserimento grazie al progetto Made in Carcere, attivo nelle carceri di Lecce, Trani, Taranto, Matera e nel minorile di Bari. È nel carcere di Lecce che Anna nel 2014 ha iniziato a lavorare grazie al laboratorio presente nell’istituto penitenziario, “poi ho continuato a lavorare fuori con la cooperativa Officina Creativa, questa è la strada giusta. Con lo stipendio riesco a pagare l’indispensabile: l’affitto, le bollette. Io e mia figlia ci diamo una mano, cercando di mantenerci, faccio anche altri lavoretti oltre al laboratorio”. “Non voglio deludere nessuna delle persone che mi hanno aiutato e che mi danno fiducia nell’ambito lavorativo”, prosegue Anna. Avere la possibilità di lavorare in carcere “è utilissimo come educazione mentale: nella mia vita non avevo mai avuto l’opportunità di lavorare e mi si è aperto un mondo. Il laboratorio di Lequile per me è una seconda famiglia, mi dà una forma di educazione al lavoro che non avevo avuto prima. È grazie a questo mio percorso professionale che ho tutta questa forza di andare avanti, di gestire i soldi e ciò che è importante nella vita, aspettando di vedere se domani potrò avere qualcosa che oggi non posso permettermi”. Passare il Natale in carcere “significa avere una grande angoscia e creare dei disagi alla famiglia. Ho dato delle difficoltà a casa, in mia assenza. Oggi sto mettendo da parte anche il mio orgoglio, non voglio far vedere agli altri che non mi serve nulla, come facevo prima”, dice. “Non faccio finta che sto bene, anche quando non è vero. Ho imparato che questo porta a dei compromessi nella vita e che l’umiltà alla fine paga”. Anna ha imparato a vedere il bicchiere mezzo pieno. “Avere la possibilità di passare il sabato, la domenica e i giorni di festa al villaggio di Babbo Natale, con i miei nipoti, non ha prezzo. Non ho 100 euro in tasca da spendere, ma partecipiamo alla festa vedendo le vie illuminate, gli addobbi, i mercatini: non costa nulla. Andiamo in tutti i posti vicini che possiamo visitare, poi entro le 21 devo tornare a casa. La casa l’abbiamo addobbata e illuminata a festa, per sentire ancora di più questo Natale”. “Non voglio più cadere nella tentazione del reato. Quando si vive in troppi disagi, in troppe difficoltà ci si “rifugia” nei reati. Mi sto riscoprendo giorno per giorno, ho più forza anche perché nei miei confronti vedo dei piccoli gesti, che per me sono enormi. Grazie a Luciana (Delle Donne, ndr) ho ricevuto una piccola donazione, degli oggetti di arredo e dei materassi, avevamo un estremo bisogno di cambiarli, dopo tanti anni i bambini li avevano rovinati. Per noi era una spesa troppo grossa in questo momento”, prosegue Anna. “Ricevere questi gesti di generosità e di stima mi rincuora, mi dà grande forza, mi aiuta ad avere fiducia. Quando sei in carcere, la fiducia la perdi, negli altri e anche in te stessa. Ormai sono sei mesi che sono fuori, sto facendo tutti i sacrifici possibili. Tra un anno, se tutto va bene, riesco a finire l’affidamento ai servizi sociali e sono libera del tutto”. La povertà è un tema totalmente dimenticato del dibattito politico e pubblico. Eppure abbiamo tassi mai visti negli ultimi dieci anni. E allora occorre avere il coraggio e la responsabilità di raccontare le storie di chi fatica ad arrivare a fine mese. Perché non solo le “loro” storie, sono le “nostre” storie. Catania. Il cuore che cura: successo progetto “Si sostiene in Carcere” Libero, 21 dicembre 2024 “Il cuore ha bisogno di cuore”. Si è conclusa con grande successo l’ultima fase del Progetto “Si sostiene in carcere”, nato con l’obiettivo primario di promuovere il benessere delle detenute della Casa Circondariale di Piazza Lanza, a Catania. L’iniziativa è stata promossa dal Soroptimist international club Catania, organizzazione di service club, senza fini di lucro, che riunisce donne con elevata professionalità, e opera attraverso progetti diretti all’avanzamento della condizione femminile, la promozione dei diritti umani, l’accettazione delle diversità, lo sviluppo e la pace. “Il progetto, nato grazie al protocollo d’intesa con il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), è stato coordinato con competenza dalla nostra socia Paola Noto e supportato da un eccezionale team di professioniste composto da Patrizia Providenza, Giusy Manuele, Gabriella Pellegriti e Caterina Maugeri. - sottolinea la presidente Soroptimist Catania Silvia Emmi - l’obiettivo è stato quello della prevenzione del Rischio Cardiovascolare, offrendo a 45 detenute attività pratiche e sessioni informative per acquisire strumenti concreti per la gestione della propria salute. A corredo dell’iniziativa, sono state donate magliette e brochure informative, create appositamente per sensibilizzare sull’importanza della prevenzione e della cura del sistema cardiovascolare. Un progetto scaturito dalla passione e dall’impegno, che dimostra come gesti semplici possano avere un impatto significativo nel migliorare la qualità della vita”. Fondamentale in questa direzione è stato il contributo di Archigen, azienda che opera da oltre vent’anni nell’ambito delle forniture medicali: “Crediamo da sempre nella responsabilità d’impresa per sostenere la comunità del nostro territorio - spiega Caterina Maugeri di Archigen - con grande orgoglio ho supportato “Si sostiene in carcere”, da imprenditrice, ma anche da socia, che da sempre opera nel solco dell’etica. Noi ci occupiamo di “cuore” e questa iniziativa ha messo a fuoco ciò in cui crediamo di più: restituire alla nostra città “valore”, attraverso piccole azioni tangibili che hanno un forte impatto sulle persone coinvolte. Siamo davvero felici - conclude Caterina Maugeri - certi che le iniziative del Soroptimist Catania continueranno anche nei prossimi anni, per coinvolgere sempre più donne che necessitano di aiuto per ricostruire un nuovo percorso di vita”. Bergamo. Nel carcere “Don Fausto Resmini”, il concerto del Festival Pianistico di Sergio Rizza Corriere della Sera, 21 dicembre 2024 La direttrice: “Nessuno si dimentica di voi, so che volete cambiare”. Il quintetto suona. Ma non è un concerto come gli altri. Perché le note volano dagli strumenti e “risuonano” nella speranza di un’ora diversa che alberga nel cuore di un pubblico speciale: quello delle detenute e dei detenuti della casa circondariale di via Monte Gleno. Il Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo, ieri mattina (venerdì 20 dicembre 2024), ha portato la musica come un dono natalizio a chi è rinchiuso. Quaranta minuti di programma nell’attrezzato auditorium dell’istituto. Un sold out con 130-140 detenuti a occupare tutti i posti disponibili. Franco Tangari, all’oboe del Donizetti Opera Ensemble e a suo modo “direttore” dei colleghi del quartetto d’archi, le violiniste Antonietta La Donna e Rossella Pirotta, il violista Christian Serazzi, la violoncellista Elisa La Donna, introduceva ogni pezzo, trovando qua e là dei riferimenti alla condizione di chi gli stava di fronte: “La risposta al primo enigma della principessa Turandot è: la speranza”. Oppure, a proposito di Por una cabeza, il tango di Gardel: “Il tango è come la vita. Puoi sbagliare il primo passo ma devi continuare a ballare, come dice Al Pacino in “Profumo di donna”, laddove invece la vera battuta nel film recita che il tango non è come la vita, che sa rendere irreparabile ogni sbaglio. Parafrasi misericordiosa del musicista. A Tangari, un attimo prima di “lanciare” l’ultimo pezzo in scaletta, una miscellanea di medley natalizi destinata a concludersi con i battimani ritmati su Jingle Bells, la voce si incrina per la commozione, rischiando così di strozzare gli auguri in gola. Alla fine dirà: “Non avevo mai suonato in un carcere. Il pubblico è stato molto attento, partecipe. Qualcosa di straordinario”. Questo “dono” è stato reso possibile dall’alleanza tra due donne: “Abbiamo organizzato tutto in un mese”, esulta Daniela Guadalupi, presidente del Festival, abbracciando Antonina D’Onofrio, direttrice del circondariale dallo scorso gennaio, mentre il segretario e tesoriere Silvio Galli si aggira per i locali con gli agenti penitenziari perché già pensa al prossimo concerto, quando si vorrà portar lì un pianoforte. Bergamo, la musica entra in carcere. La direttrice D’Onofrio: “Così al torneo di calcio dei detenuti con i loro figli ora giocano tutti” Antonina D’Onofrio, siciliana, è una donna minuta, gentile, ma dalle idee scolpite: dice di fondare il senso del suo incarico sul mutuo rispetto e sulla chiarezza delle regole, “perché io voglio avere la coscienza a posto, concentrarmi su come restituirò alla società quello che ho ricevuto dentro queste mura”. Dice di aver eliminato Rivotril e Lyrica, farmaci spesso usati, in carcere, come stupefacenti. E racconta: “Mi sono accorta che al torneo di calcio con i detenuti e i loro figli partecipavano sempre gli stessi 14. Perché solo loro, oltretutto i “peggiori”?”. Nonnismo, diciamo così. “Ho fatto fare una mappatura- continua- e ho scoperto che ad avere i requisiti erano più di cento. Quindi mi sono imposta: o tutti o nessuno”. È rispettata, e lo si percepisce palpabilmente all’auditorium: quando si presenta per i saluti iniziali, è quasi un boato: “Buongiorno signora direttrice”. E sì che il pubblico non era facile. La direttrice lo definisce “comunità nella comunità, parte della città di Bergamo: nessuno si dimentica di voi. So che molti di voi vogliono cambiare”. Erano rappresentate le tre anime dell’istituto: il circondariale (le pene più lievi o gli imputati in attesa di giudizio: quelli di solito più inquieti, ci dicono), il penale (con condanne anche lunghe), il femminile. Un mix delicato che tuttavia si è comportato con correttezza. Eppure D’Onofrio non nasconde i problemi: nel saluto iniziale ha ringraziato gli agenti di polizia penitenziaria, “d’accordo nel fare questo concerto nonostante le carenze d’organico”. Quanto ai detenuti, “a fronte di una capienza massima, teorica, di 319, siamo arrivati a 592 e ce ne mandano di continuo (444 i definitivi e 72 in attesa di giudizio secondo i dati di Carcere e Territorio Bergamo, ndr)”. Di questi, 120 sono al penale (“troppi”) e il resto al circondariale, tra cui 33 donne (“molte le “psichiatriche”) e 47 giovani adulti, “18-25enni che vengono dai riformatori, e che manifestano in modo esplosivo i loro disagi”. Continuerà a investire sulla musica? “Ho chiesto un finanziamento al ministero di 15 mila euro per l’anno prossimo- conclude la direttrice-: vorrei una stanza per la musica”. Servirà. Tra i detenuti c’è Isaac, giovanotto algerino: “Mi mancano 14 mesi. La musica mi fa bene”. Una ispettrice penitenziaria chiosa: “È un ragazzo mite. Si è trovato in circostanze sfortunate”. Roma. Una Porta Santa a Rebibbia, simbolo per il futuro di tutti i detenuti del mondo di Paolo Foschini Corriere della Sera, 21 dicembre 2024 Per la prima volta un percorso speciale anche nelle carceri. Antigone denuncia: nel 2024 suicidi (86) e affollamento da record. Il ruolo di 20mila volontari, il Papa invoca “amnistia e condono”. Amir Dhouiou aveva 21 anni e si è impiccato nel bagno della sua cella a Marassi il 4 dicembre. Lo stesso giorno nel carcere veronese di Montorio si appendeva per il collo anche il 24enne Robert Octavian, morto in ospedale 48 ore più tardi. In quella settimana, col suicidio numero 86 dall’inizio di quest’anno, è stato battuto il già tremendo record di 84 suicidi nelle prigioni italiane toccato nel 2022 (cioè, per l’amministrazione penitenziaria quelli “accertati” sarebbero 79, cui però vanno aggiunti altri 22 decessi per “cause da accertare”: suona perfino peggio). “È solo la più drammatica ma non unica conseguenza di ciò che caratterizza oggi la questione carceraria: l’assenza di un progetto coerente. Il carcere come risposta di pura pancia a problemi sociali che si racconta di voler risolvere stipandoli dietro un muro. Un formicaio da gonfiare fino a renderlo ingestibile. Intendiamoci: le carceri sono state iperaffollate anche in altri periodi. Ma mai come oggi c’è stata in Italia una mancanza così totale di condivisione sul senso della pena. E in assenza di cambiamenti, questo è sicuro, la situazione esploderà”. Il virgolettato è di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione indipendente che per chi è interessato ai temi del carcere rappresenta un punto di riferimento dal 1991, cercando di confrontarne la realtà con l’articolo 27 della Costituzione sul senso e lo scopo della pena: meglio “delle pene, al plurale, tra le quali il carcere - come ricorda l’ex ministra e presidente emerita della Consulta, Marta Cartabia - non è stato neppure menzionato dai nostri padri costituenti”. E allora ripartiamo dai numeri, per capire di cosa parliamo. Sono quelli del ministero della Giustizia aggiornati al 30 novembre scorso. Quel giorno le persone detenute in Italia erano 62.427, di cui 2.737 donne e 19.953 stranieri: complessivamente 11.262 “ospiti” di troppo rispetto ai 51.165 posti ufficialmente disponibili di cui però, per varie ragioni, 4.445 non sono agibili. Il che porta l’overbooking reale a oltre 15mila: mai così tanti dal 2013 della famosa “sentenza Torreggiani” con cui l’Italia era stata umiliata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per i “trattamenti inumani e degradanti” delle sue carceri. E potremmo aggiungere che solo 46.202 di quelle 62mila persone - sempre dati del ministero - sono in galera con una sentenza definitiva mentre le altre 12mila la stanno ancora aspettando e per 9.970 di loro (praticamente una su sei) non c’è neanche quella di primo grado: stando alla Costituzione sono in cella innocenti. In questo contesto il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, papa Francesco aprirà una Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia: per la prima volta nella storia dei Giubilei oltre alle quattro Porte Sante delle Basiliche papali romane se ne aprirà una anche in una prigione. E idealmente in tutte: Rebibbia, come sottolineato da monsignor Rino Fisichella, sarà “simbolo di tutte le carceri del mondo”. E il punto è stato richiamato dallo stesso Bergoglio nella Bolla d’Indizione del Giubileo 2025, Spes non Confundit: “Penso ai detenuti che privi della libertà sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. E dopo aver spiegato la scelta della Porta Santa da aprire a Rebibbia come “simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza” - parola guida del 2025 giubilare - il Papa si è appellato direttamente non alla fede ma alla politica: chiedendo “ai Governi” di assumere “iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena” per “aiutare le persone a recuperare fiducia in sé e nella società”, oltre a “percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. “Direi che è il contrario esatto - chiosa Gonnella - della militarizzazione presente oggi anche nel linguaggio di chi vorrebbe trasformare l’istituzione del carcere e la stessa polizia penitenziaria in ciò che non è, a partire da un calendario muscolare che ha suscitato indignazione e in cui sono certo che in primo luogo la maggior parte degli agenti non si riconosce”. Cosa servirebbe invece? “Per prima cosa - risponde il presidente di Antigone - l’aumento della capacità di dialogo. E di progettualità, con tutti gli attori del sistema attorno a un tavolo per costruire una regia. E che si investissero risorse non nell’acquisto di camionette blindate, ma in assunzione di personale non in divisa, con competenze socioeducative. Avremmo bisogno che le attività della giornata non si fermassero alle due del pomeriggio. C’è bisogno che le persone detenute possano comunicare con le proprie famiglie più di quel che oggi è consentito dai dieci minuti ridicoli di una telefonata a settimana. Il che tra l’altro abbatterebbe il traffico di cellulari illegali presente ovunque a dispetto dei divieti, con quel che segue quanto a ricatti e corruzione. E ancora: c’è bisogno di una offerta di studio in modo sistematico, bisogno di una filiera di formazione e lavoro vero, non come intrattenimento o privilegio utilizzato per tenere buone le persone. Tutte cose pragmatiche, senza ideologia dietro”. E l’elenco di Gonnella in realtà sarebbe ancora lungo. La politica oggi sembra purtroppo andare in direzione ostinata e contraria. Il decreto Caivano dell’anno scorso ha fatto lievitare gli arresti di minorenni, per i quali l’offerta formativa è addirittura più bassa - in percentuale - rispetto a quella degli adulti. La legge derivata dal decreto sicurezza punisce fino a otto anni una protesta anche pacifica: altra gente da metter dentro. Ma allora ci sono ragioni reali di speranza, oltre che di denuncia? Una ci sarebbe eccome: quasi 20mila tra volontari e volontarie. Il numero è una stima, dopo l’ultimo conteggio preciso (19.511) che risale al 2019 e che pur essendosi dimezzato di botto (9.825) nel 2020 del Covid sembra ora tornato vicino ai livelli precedenti. Le esperienze positive in effetti sono tante e in tutti i campi, così come è vasto l’impegno del non profit sul fronte delle possibilità di lavoro come reinserimento. La scorsa primavera il Forum del Terzo settore ha consegnato al Cnel un rapporto che conferma un dato ormai ben noto: oltre il 70% dei detenuti coinvolti in opportunità trattamentali e lavorative non ricade nel crimine, cioè la stessa percentuale di quelli che invece tornano a delinquere se lasciati in cella a far niente. Riflessione puntualmente riproposta anche dal Coordinamento nazionale volontariato giustizia nei suoi incontri con i vertici del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Il problema è che il volontariato è frammentato, non fa massa, non è un “soggetto politico”. Cioè non muove opinione pubblica, quindi voti. E sono i voti a guidare le scelte della politica. Ma una cosa è certa: i dati dicono che la speranza passa attraverso l’apertura, non la chiusura. E sono i volontari, le università, le scuole e anche tutto il mondo dell’imprenditoria sostenibile e illuminata a dover rivendicare un ruolo: “Il lavoro culturale da fare sulle carceri - sottolinea Gonnella - è fuori, non dentro”. Perché solo quando il mondo fuori avrà assimilato bene l’idea che anche la sicurezza collettiva è garantita maggiormente da una pena che non si limita a rinchiudere, ma reinserisce, allora “anche la politica seguirà”. Non succederà in un giorno. Ma Gonnella non si scoraggia: “È per questo che conto sui giovani”. Alghero. “Mi riscatto per Alghero”: detenuti al lavoro in città sassaritoday.it, 21 dicembre 2024 C’è vita, c’è presente e c’è futuro fuori dal carcere. Si chiama “Mi riscatto per Alghero” il progetto al centro del protocollo d’intesa siglato tra il Comune di Alghero e il dipartimento amministrazione penitenziaria - casa reclusione di Alghero. Vengono introdotte una serie di importanti collaborazioni tra la casa circondariale di via Vittorio Emanuele e l’amministrazione comunale. Il sindaco Raimondo Cacciotto e la direttrice del carcere Tullia Carra hanno siglato un accordo di validità triennale che promuove e realizza interventi di politica attiva a favore di lavoratori e persone appartenenti a categorie in condizioni di svantaggio che hanno difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro, impegnandoli in lavori di pubblica utilità. Dalla manutenzione del verde pubblico al recupero del patrimonio ambientale, ad altre attività di utilità sociale, quali il supporto e il potenziamento nei vari servizi e spazi pubblici comunali (uffici, biblioteche, archivi, impianti sportivi, supporto nella realizzazione di eventi), le prestazioni da parte dei soggetti in stato di detenzione saranno finalizzate ad accrescere le competenze professionali per un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Per Cacciotto “è il frutto del costante dialogo tra l’amministrazione comunale e l’istituto penitenziario di Alghero e rappresenta un passaggio molto importante per la collettività algherese”. Nello specifico, l’attività da svolgere per i detenuti destinatari dell’iniziativa consisterà in un impegno settimanale di massimo venti ore per un periodo non superiore a sei mesi, con la possibilità di supportare il Comune attraverso prestazioni di pubblica utilità. Inizialmente l’accordo prevede che l’opportunità lavorativa venga proposta ad un minimo di uno fino ad un massimo di cinque detenuti per volta, salvo la possibilità di rivalutare il numero dei soggetti da coinvolgere per particolari iniziative e progetti specifici secondo un piano di lavoro prestabilito. L’Amministrazione comunale provvederà alla formazione e all’affiancamento dei soggetti, qualora non abbiano esperienza pregressa. Per quanto riguarda la Casa di Reclusione, l’Istituto provvederà all’individuazione dei nominativi per i quali sussistono le condizioni per l’ammissione al progetto, previa informazione e formazione. “Faremo di tutto - ha assicurato il sindaco - per potenziare e ampliare questa iniziativa”. Napoli. Un confronto sul futuro del carcere: diritti, rieducazione e sovraffollamento di Elisabetta Cina gaeta.it, 21 dicembre 2024 L’incontro intitolato “Il volto costituzionale del carcere” ha avuto luogo nella sala Don Peppe Diana, all’interno del Consiglio regionale della Campania. L’evento si è svolto in concomitanza con la presentazione del libro “Carcere. Idee, proposte e riflessioni”, scritto da Samuele Ciambriello, il garante campano per le persone soggette a misure restrittive della libertà. Questo incontro, promosso dal garante e dall’Associazione Ex Consiglieri Regionali, ha visto la partecipazione di figure di spicco nel settore della giustizia e della pastorale carceraria, creando un’importante opportunità per riflettere sulle problematiche attuali che affliggono le carceri italiane. La questione del sovraffollamento carcerario - Uno dei punti centrali affrontati durante l’incontro è stata la condizione di sovraffollamento che contraddistingue molte carceri italiane. Samuele Ciambriello ha sottolineato come questa problematica non rappresenti solamente una questione logistica, ma un vero e proprio tradimento del principio costituzionale che vede nella pena un’opportunità di rieducazione piuttosto che un mero strumento di afflizione. Il garante ha evidenziato che le attuali condizioni di vita all’interno delle carceri non solo compromettono la dignità dei detenuti, ma influenzano anche negativamente le loro possibilità di reinserimento nella società. Ciambriello ha affermato che “dignità è un paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei ristretti”. Questa affermazione mette l’accento sulla necessità di migliorare le condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie, promuovendo misure che possano favorire un reale processo di reintegrazione. Il sovraffollamento, sebbene sia un problema tangibile, è solo la punta dell’iceberg di una serie di questioni più profonde legate alla gestione delle pene e alle politiche sulla giustizia. La funzione della sicurezza nel sistema carcerario - Oltre al sovraffollamento, sono emerse altre problematiche riguardanti la sicurezza all’interno delle carceri. Ciambriello ha sottolineato che la sicurezza non può essere considerata semplicemente come un aumento delle pene o un approccio esclusivamente punitivo. Queste visioni limitate non affrontano le vere cause della criminalità e, di conseguenza, non contribuiscono a un’effettiva sicurezza sociale. Il garante ha ribadito l’importanza di sviluppare una coscienza civica che si opponga a derive giustizialiste, proponendo soluzioni che abbiano un impatto positivo sulla società nel suo insieme. Durante l’incontro, sono intervenuti diversi relatori, tra cui la direttrice del carcere di Secondigliano, Giulia Russo, che ha condiviso la sua esperienza diretta riguardo le difficoltà di gestione di una popolazione carceraria crescente. La presidentessa del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Patrizia Mirra, e Tullio Morello del CSM hanno aggiunto considerazioni utili, sottolineando l’urgenza di un deciso cambiamento nella gestione delle politiche penali. Rieducazione e rispetto dei diritti umani - Il tema della rieducazione è emerso come un punto cruciale durante il dibattito, con un richiamo forte alla funzione rieducativa delle pene. Ciambriello ha affermato con fermezza che ogni intervento volto a migliorare la situazione delle carceri deve rigorosamente rispettare i diritti umani. La visione di un carcere capace di rieducare e reintegrare i detenuti deve costituire il fulcro delle politiche carcerarie. Il referente pastorale carcerario, Don Franco Esposito, ha condiviso una visione di speranza, in cui ogni detenuto ha il diritto di essere trattato con dignità e di poter intraprendere un percorso di recupero. Egli ha sottolineato che il rispetto della dignità umana deve guidare ogni azione all’interno delle strutture penitenziarie, per evitare di cadere in meccanismi che tendano a umiliare i soggetti coinvolti. Anche l’intervento di Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha aggiunto una nota di importanza, sottolineando come le riforme siano necessarie ma debbano essere accompagnate da una sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Riflettendo sull’evoluzione del sistema penitenziario, è evidente che si rende indispensabile un forte impegno collettivo per garantire sia la sicurezza pubblica che il rispetto dei diritti dei detenuti, in modo da costruire un carcere che possa veramente adempiere alla sua funzione di rieducazione. Pescara. I detenuti sul palco, successo per lo spettacolo teatrale “Come semi d’autunno” ilpescara.it, 21 dicembre 2024 Successo per lo spettacolo teatrale “Come semi d’autunno” che si è tenuto nei giorni scorsi nel carcere San Donato di Pescara. A organizzare l’evento sono stati l’associazione Voci di dentro e la casa circondariale. All’evento sono stati presenti il presidente del tribunale di sorveglianza dell’Abruzzo, Mariarosaria Parruti, il garante regionale dei detenuti, Giammarco Cifaldi, la direttrice dell’istituto, Lucia Difelicentanio, le responsabili dell’area educativa e una folta rappresentanza di detenuti. Applausi a scena aperta per i diciassette attori (detenuti, volontari e studenti) diretti da Ugo Dragotti e che hanno saputo emozionare e far sorridere interpretando persone di varia età e provenienza: in uno scambio di battute e racconti sulla propria vita sono emersi i temi della violenza, del rapporto uomo-donna, del dolore, del carcere, del gioco, dello sport, della musica, degli amori e delle occasioni perdute. Finanziato dai fondi dell’otto per mille della Chiesa Valdese, lo spettacolo è frutto di un doppio laboratorio di Voci di dentro: inizialmente, durante la pandemia, e dunque durante i vari lockdown, c’è stato il laboratorio di Teatro sociale e narrazione che si è svolto principalmente on line con studenti ed ex detenuti o detenuti ai domiciliari. Sotto la guida di Carla Viola si sono tracciate le linee guida di un copione dove tutti con la narrazione del sé hanno messo nero su bianco problematiche relative al proprio vissuto quotidiano. Nel carcere pescarese, infine, si è svolto il laboratorio condotto da regista e tutor dell’associazione per l’attribuzione dei ruoli, le prove di recitazione e la messa in scena dello spettacolo. Obiettivo del progetto (“voci di dentro-voci di fuori”) è stato quello di usare il teatro come strumento capace di abbattere i muri fra l’interno e l’esterno del carcere mettendo insieme studenti e detenuti. Il teatro, da una parte ha offerto al detenuto un validissimo strumento per la revisione del percorso di devianza e la costruzione di un futuro reinserimento sociale; dall’altra, ha consentito ai giovani di superare stereotipi e pregiudizi e fare esperienza diretta della realtà carceraria. “Obiettivo raggiunto”, dice Francesco Lo Piccolo, presidente di Voci di dentro, “il nostro non è stato mero “intrattenimento culturale”, ma un percorso che tende a valorizzare le risorse personali, a stimolare un’ampia riflessione sul significato e l’importanza di valori etici e civili, a ridurre la distanza fra carcere e città, favorendo processi di inclusione sociale e partecipazione attiva da parte della comunità esterna”. Fossombrone (Pu). La bellezza della solidarietà: i detenuti donano opere per i reparti pediatrici di Marco Mintillo gaeta.it, 21 dicembre 2024 Detenuti del carcere di Fossombrone donano opere d’arte in origami e altri oggetti ai reparti pediatrici, promuovendo solidarietà e reinserimento sociale attraverso la creatività e l’impegno comunitario. Ultimamente, il carcere di Fossombrone ha dato prova di come la creatività e la solidarietà possano incontrarsi anche in contesti inaspettati. Mercoledì scorso, alcuni detenuti hanno consegnato in dono ai dirigenti di pediatria dell’Azienda Sanitaria Territoriale di Pesaro-Urbino opere realizzate con la tecnica dell’origami, destinate ad abbellire i reparti pediatrici degli ospedali della zona. Questa iniziativa dimostra non solo l’abilità manuale dei detenuti, ma anche il loro desiderio di contribuire al benessere dei più piccoli, un gesto che si inserisce in un progetto più ampio di reinserimento sociale attraverso attività artistiche. I lavori donati dai detenuti non sono semplici oggetti, ma vere e proprie opere d’arte che mirano a creare un ambiente più accogliente per i bambini ricoverati. Ogni pezzo, piegato con attenzione, racchiude storie e emozioni, pensati per strappare un sorriso ai piccoli pazienti e alle loro famiglie. La tecnologia dell’origami è stata scelta per la sua semplicità e al contempo per la sua capacità di trasformare fogli di carta in creazioni affascinanti. Questo progetto è una testimonianza di come l’arte possa essere utilizzata come strumento di cura e alleviamento del dolore, non solo per chi la crea, ma anche per chi la riceve. Donazioni simboliche per la medicina - Oltre all’arte della carta, i detenuti hanno voluto arricchire il loro dono con un orologio realizzato in legno di recupero, sul quale è stata impressa, tramite pirografo, l’immagine del caduceo, simbolo universale della medicina. Questo oggetto non è soltanto decorativo, ma porta con sé un messaggio di speranza e di guarigione. Un puzzle, anch’esso creato dai detenuti, è stato aggiunto al pacco delle donazioni, dimostrando come i giochi possano aiutare i bambini a distrarsi, stimolando la loro mente e offrendo momenti di svago. Attività di gruppo e il ruolo della polizia penitenziaria - La realizzazione di questi oggetti è stata possibile grazie all’impegno congiunto dell’area pedagogica e trattamentale del carcere, supportata dagli educatori e dai collaboratori del progetto. La polizia penitenziaria ha avuto un ruolo fondamentale nel monitorare e guidare i detenuti in queste attività, creando un ambiente di collaborazione e fiducia. Queste iniziative non solo migliorano le abilità pratiche dei detenuti, ma favoriscono anche il senso di responsabilità e l’integrazione sociale, elementi essenziali in un percorso di riabilitazione. Il presepe: un simbolo d’unità e speranza - Durante la visita degli operatori sanitari, è stata anche apprezzata la bellezza di un grande presepe allestito all’interno dell’istituto penitenziario, un’opera corale che ha visto la partecipazione di diversi detenuti. Questo presepe rappresenta non solo un simbolo della tradizione natalizia, ma anche un’opportunità per riflettere sull’unità e sul senso di comunità. La mattina di Natale, il vescovo di Fano, Andrea Andreozzi, celebrerà la Santa Messa di fronte a questo simbolo di speranza, coinvolgendo detenuti, polizia penitenziaria e operatori. Sarà un momento di condivisione e spiritualità, un’occasione per ribadire l’importanza della solidarietà e della ricerca di una vita migliore al di là delle sbarre. Queste azioni evidenziano come il carcere possa essere un luogo di cambiamento, dove la creatività e il desiderio di fare del bene possono riempire di luce il buio della detenzione. L’incontro tra i detenuti e il mondo esterno diventa così un mezzo per costruire relazioni significative e contribuire a un futuro più luminoso per tutti. “Io, prof per scelta, in carcere. Lezioni d’italiano ai detenuti” di Ilaria Beretta Avvenire, 21 dicembre 2024 Giovanna Canzi per 4 anni ha insegnato nella casa circondariale di Monza. Ora la sua esperienza è diventata un libro. Il segretario scolastico chiama la docente designata per la supplenza di italiano nell’istituto del carcere di Monza con la voce imbarazzata di chi prova quasi a scusarsi di un’assegnazione così complessa. Invece, dall’altra parte del telefono, Giovanni Canzi risponde sì senza fare una piega. E anzi - anche se il segretario non lo sa - la sua interlocutrice sta facendo i salti di gioia. “Prima di quel momento non avevo mai insegnato - racconta la professoressa Canzi -. Ho sempre lavorato nel mondo del giornalismo e dell’editoria ma a un certo punto della mia vita mi sono trovata nella condizione di dover cambiare strada professionale e così ho seguito il consiglio di alcuni amici e ho pensato di iscrivermi nelle liste per le supplenze. Nei moduli della richiesta dovevo inserire un istituto preferito e io ho scritto il nome di quello legato al Cpia, il Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, sperando di finire nella sua sede distaccata: il carcere di Monza”. È il 2016. Non passa molto che Canzi si ritrova al suo primo giorno, davanti al pesante cancello del penitenziario. Per le prime lezioni è stata assegnata alla settima sezione, riservata ai sex offender, quelli che hanno abusato di una donna o si sono macchiati dell’odioso reato di pedofilia. È a loro che Canzi insegnerà italiano. “La cosa che mi ha colpito di più - ricorda la docente - è il percorso tortuoso per arrivare alla classe. I cancelli che si aprono e subito si chiudono, gli ambienti angusti, gli agenti affaticati… La pesantezza del luogo si sente tutta, così come l’organizzazione militare e i suoi rigidi protocolli. A poco a poco, bisogna imparare la geografia e adeguarsi alle regole: è la parte più difficile, insegnare non è affatto complicato”. “Lo so che sembra strano - continua Canzi, anticipando la nostra perplessità - ma ricordiamo che frequentare le lezioni in carcere è una scelta volontaria e perciò chi entra in classe di solito è motivato e vive quelle ore di insegnamento come una boccata d’aria”. La scuola in carcere è un diritto previsto dalla legge 354 del 1975 che, all’articolo 15, identifica l’istruzione come un elemento fondamentale del tratta-mento rieducativo dei detenuti. Per gli stranieri che non parlano italiano consiste in corsi che garantiscono l’alfabetizzazione; per gli altri il percorso prevede classi delle medie e un corso accelerato corrispondente ai primi due anni delle scuole superiori per permettere ai reclusi l’accesso a un triennio di una scuola professionale, che spesso ha sede proprio nelle carceri (a Monza, per esempio, c’è una sezione di alberghiero). Secondo gli ultimi dati del ministero, riferiti all’anno scolastico 2022-2023, in Italia risultavano iscritti a corsi scolastici nei penitenziari 19.372 detenuti, pari al 31% della popolazione reclusa. È proprio in questo contesto che per quattro anni, dal 2016 al 2020, Canzi ha insegnato italiano alle medie svolgendo anche il ruolo di coordinamento tra l’istituto scolastico e il penitenziario. Per raccontare questa esperienza, Canzi ha appena scritto un libro dal titolo “Lontano dalla vita degli altri” pubblicato per marinonibooks (illustrazioni di Gabriella Giandelli): “Non ero di ruolo e, dopo quattro anni, ho perso il posto. Anche se oggi insegno ancora nel Cpia, ma con gli stranieri e fuori dal carcere, non volevo dimenticare quell’esperienza e così ho scritto racconti sui miei ex studenti”. Spalle grosse, braccia muscolose, qualche tatuaggio e tratti somatici diversi: troviamo Addou, con una fede incrollabile nel Corano e l’attitudine filosofica a mettere in dubbio ogni concetto; Paolo e Romeo affezionati frequentatori della biblioteca del carcere dal piglio dei critici letterari, l’albanese Oresti arrivato in Italia su una barca della speranza e Giacomo, cordialissimo pensionato ma con un femminicidio alle spalle. “La scuola del carcere è come una piccola città, ci sono alunni con retroterra e formazioni diverse, oltre che naturalmente un ventaglio di reati. In particolare - spiega Canzi - a Monza, che è una casa circondariale e ospita solo persone in attesa di giudizio, c’è un turn over importante e io ho incontrato di tutto: si va da un ragazzo laureato, in cella per un reato politico, al medico accusato di pratiche illegali fino a persone extracomunitarie che avevano da poco appreso l’italiano. Leggere Edgar Allan Poe o Hemingway insieme a persone così diverse, molte delle quali non si sono mai avvicinate alla letteratura, è un’emozione impagabile che ti costringe a sperimentare una didattica innovativa. Con uno di loro, per esempio, che non parlava mai, ho usato le tecniche del mimo per interpretare i personaggi della letteratura. Quando abbiamo studiato l’Inferno dantesco, invece, ho fatto un quiz agli studenti, chiedendo loro di dirmi quali fossero le pene più gravi. Quasi tutti - proprio come Dante, ma senza saperlo - hanno definito come massimo peccato il tradimento. Insomma, quando insegni con persone così emarginate della società, non sei un docente tradizionale e il lavoro in classe va ben oltre la grammatica”. Il Paese delle liti e delle maschere di Sabino Cassese Corriere della Sera, 21 dicembre 2024 Più il litigio prende il posto del conflitto, più si bisticcia per attirare l’attenzione (i titoli preferiti da alcuni media evocano la bufera, lo scontro e il duello), più si può fare a meno di proposte politiche e di programmi. Tra gli stranieri che conoscono l’Italia è diffusa l’idea che gli abitanti della penisola abbiano un’immagine distorta del loro Paese e che, quindi, la politica italiana sia una politica dell’irrealtà. Questo difetto ottico si declina in due modi: il primo riguarda la percezione collettiva della situazione italiana, il secondo attiene al modo sbagliato in cui opposizione e maggioranza interagiscono. Un esempio di percezione collettiva errata della realtà riguarda la criminalità. Secondo una narrazione distorta, il Paese sarebbe dominato da omicidi e da altri delitti. Invece, le statistiche del ministero dell’Interno e dell’Istituto nazionale di statistica mostrano che gli omicidi sono diminuiti di circa il 10% nell’ultimo anno, che la loro incidenza sulla popolazione si riduce, che l’Italia è uno dei Paesi della Ue con incidenza di omicidi più bassa. Invece, gli italiani prestano scarsa attenzione alla “compliance”, all’osservanza delle norme, che è particolarmente bassa. Basti riflettere che un terzo delle multe degli enti locali non è pagato, che questa percentuale sale fino alla metà nel Mezzogiorno e che l’evasione dal pagamento di tariffe, canoni e imposte locali oscilla tra il 7 e il 17%. L’interazione tra i partiti di maggioranza e minoranza, a sua volta, si svolge su temi di facciata. Ad esempio, nel corso della discussione sul bilancio, ha conquistato lo spazio pubblico la questione del riconoscimento delle diarie e del rimborso spese per 18 membri del governo che non sono parlamentari. Ma senza che ci si rendesse conto che i tre milioni annui di spesa aggiuntiva costituirebbero meno dello 0,00035% delle spese finali dello Stato. Un altro esempio è costituito dalle pene proposte per chi occupa abusivamente immobili pubblici o di proprietà altrui, che è stato interpretato come sintomo di una deriva autoritaria, mentre va letto semplicemente come un richiamo al rispetto del diritto di proprietà sancito dall’articolo 42 della Costituzione. Quali sono le cause dell’immagine distorta del Paese, per cui le vicende reali non si incontrano con il racconto che emerge dalla politica e induce al piagnisteo e agli atteggiamenti pessimistici? C’è, in primo luogo, l’obsolescenza o la parziale obsolescenza dei due grandi protagonisti dello spazio pubblico del ‘900, partiti e media, che esercitavano una funzione di filtro e di grandi educatori, perché riuscivano a descrivere ciò che accadeva e a spiegare il senso degli eventi, mentre il “web” fornisce a volte un’informazione non filtrata né interpretata. Se sono poche le persone che consultano i dati dell’Istat (la cui denominazione fu, nel 1989, saggiamente trasformata da Istituto centrale in Istituto nazionale di statistica), finisce che le opposizioni rimangono prigioniere degli stereotipi e della narrazione distorta della realtà. Gli stessi dibattiti di parlamentari mostrano, a volte, di ignorare persino ciò che passa per il Parlamento, cioè leggi, decreti leggi e decreti legislativi. L’effetto di questo stato di cose è grave perché più il litigio prende il posto del conflitto, più si bisticcia per attirare l’attenzione (i titoli preferiti da alcuni media evocano la bufera, lo scontro e il duello), più si può fare a meno di proposte politiche e di programmi. Così Paese e politica non sono in sintonia, come dimostrato dalla diminuzione degli elettori e dalla scomparsa dei partiti-associazioni. I temi che contano per il futuro degli italiani, per formare l’opinione pubblica e alimentarne il dibattito- i cambiamenti in corso dei sistemi di reclutamento nei servizi pubblici, le trasformazioni profonde che sta subendo il sistema universitario, le carenze organizzative, prima ancora che finanziarie, del servizio sanitario- non sono presenti sia nel dibattito politico, sia nello spazio pubblico. I due piani, quello della politica sul palcoscenico e quello della gestione della macchina del potere pubblico, dietro le quinte, sono separati. Lo stesso ruolo degli intellettuali, quello di suscitatori di dubbi e di guida ai lati nascosti del potere, diventa difficile. Del vuoto che così si produce si impadroniscono movimenti estemporanei, quale è stato quello grillino. Italo Calvino, nel “Barone rampante” osservava che “viviamo in un Paese dove si verificano sempre le cause, non gli effetti”. Dovremmo oggi aggiungere che spesso si verificano anche gli effetti, senza che vi siano cause. Migranti. Salvini è assolto, il salvinismo no di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 dicembre 2024 Il processo che conta, sul trucismo, è quello politico. La sentenza del tribunale di Palermo è una concessione alla Realpolitik e può creare un precedente pericoloso. Il processo che conta è politico. Così Meloni ha condannato il salvinismo all’irrilevanza sull’immigrazione. Salvini assolto, il salvinismo no. La sentenza di un tribunale conta, naturalmente, e Salvini ha ottime ragioni per esultare per le quattro parole consegnate ieri dal Tribunale di Palermo sul caso Open Arms: il fatto non sussiste. Si potrebbe dire che quella del Tribunale di Palermo sia stata una sentenza dal sapore politico, per così dire, perché ad aver confessato di aver violato il diritto del mare, cinque anni fa, sul caso Open Arms, fu lo stesso ex ministro dell’Interno e la sentenza del tribunale, da questo punto di vista, è una concessione alla Realpolitik e può creare un precedente pericoloso: se un ministro decide di mettere la propaganda politica su un piedistallo più alto del rispetto del diritto internazionale quel ministro è legittimato a farlo. La sentenza del tribunale di Palermo è importante e va rispettata, come si dice in questi casi, anche se con qualche dubbio, e se a Salvini fosse stata data una piccola pena pari a mille ore da dedicare allo studio dei trattati internazionali e altre mille ore da dedicare a girare per il Mediterraneo con una ong non sarebbe stato uno scandalo. Ma i temi sollevati dal processo Open Arms costringono a riflettere su un altro processo altrettanto importante, che riguarda sempre il dossier dell’immigrazione, che riguarda sempre il ministro Salvini e che vede in questo caso per il vicepremier una condanna senza appello. Salvini potrà inscenare ogni genere di teatrino, dopo l’esito del primo grado del processo a Palermo, ma quello su cui non potrà cavillare è il fatto che il governo di cui fa parte, da due anni e passa, ha scelto di muoversi sull’immigrazione seguendo una traiettoria opposta rispetto a quella teorizzata dal vicepremier in questi anni. Nel corso degli ultimi anni Salvini ha sempre sostenuto - e la sentenza di Palermo gli darà qualche elemento in più per continuare a sostenerlo - che per governare l’immigrazione sia necessario chiudere i porti, promuovere il blocco navale, sfidare l’Europa, allearsi con i nazionalisti, bocciare il modello Ursula, non firmare i trattati sull’asilo e sui migranti, non riattivare le missioni navali europee e non chiedere solidarietà ai partner europei per evitare di trasformare l’Italia nel campo profughi d’Europa. Il governo di cui fa parte Salvini, invece, ha sonoramente bocciato il modello Salvini, condannandolo all’irrilevanza, e per fortuna ha fatto tutto l’opposto dimostrando che l’approccio all’immigrazione modello Truce è controproducente per la difesa dell’interesse nazionale. E così, in questi ultimi due anni, il governo di cui Salvini è vicepremier ha fatto l’opposto di quello che Salvini sostiene sia necessario fare quando si parla di immigrazione: non ha chiuso i porti, non ha sfidato l’Europa, non si è alleato con i nazionalisti, ha promosso il modello Ursula, ha firmato il trattato sull’asilo e sui migranti. Ha chiesto solidarietà all’Europa, ha avallato l’idea di riattivare le missioni navali europee, ha scelto di approvare il decreto Flussi più imponente della storia della Repubblica e ha ottenuto alcuni risultati che, non a caso, Salvini non può rivendicare. Salvini, lo sappiamo, sostiene da sempre che l’unico modo per fermare l’immigrazione sia sfidare l’Europa, anche a costo di violare i trattati internazionali. Il governo di cui Salvini fa parte, invece, bocciando il salvinismo, condannandolo alla sua irrilevanza, ha fatto tutto l’opposto, ha seguìto una strada diversa e ha scelto di governare l’immigrazione agendo sui trattati, chiedendo la collaborazione dell’Europa e arrivando a fermare i flussi dei migranti senza chiudere i porti ma triangolando con le stesse istituzioni europee che Salvini avrebbe voluto sfidare. Non c’è stato nulla di politico nel processo a Salvini, nessuna persecuzione, e i complotti sono cose serie, e quel che hanno fatto i magistrati, in questa occasione, in questi anni, è stato semplicemente provare a far rispettare lo stato di diritto, ricordando l’ovvio: il diritto del mare vale più del diritto di un ministro di far prevalere la sua propaganda sullo stato di diritto. La partita in tribunale è andata come sappiamo - e solo un mattacchione può rattristarsi per il fatto che Salvini non sia stato condannato a sei anni di reclusione: il sequestro di persona, oggettivamente, era troppo, il rifiuto di atti d’ufficio no. La partita politica, in questi anni, è però senza appello per il leader della Lega e la sentenza del governo, almeno negli ultimi anni, è chiara: sosteniamo Salvini a parole, nei processi, lo condanniamo senza pietà con i fatti, con l’azione di governo. Il processo che conta, per l’Italia, in fondo è questo. Auguri a Salvini, per un Natale senza trucismo. Migranti. Salvini assolto, ma c’è un’altra verità da rispettare di Danilo Paolini Avvenire, 21 dicembre 2024 Il verdetto nel processo Open Arms stabilisce che il ministro non ha commesso sequestro di persona: il fatto non sussiste. Tuttavia i fatti esistono e raccontano che ci fu affronto all’umanità. Chi non ha mai sentito l’espressione “sembra un porto di mare”, per indicare un luogo dove c’è un continuo viavai? Si dice così proprio perché il porto è un luogo aperto per definizione, crocevia di storie e di culture diverse, mescolanza di varia umanità. I porti non si possono chiudere, come cercò di fare Matteo Salvini, perché la garanzia di un approdo sulla terra ferma è qualcosa che ha che fare con il diritto umanitario universalmente riconosciuto, con l’incolumità e la sicurezza di vite. È una norma che non c’è neanche bisogno di scrivere, perché è incisa da sempre nelle coscienze di chi va per mare. Ed è auspicabile che lo sia in tutte le coscienze. Lo abbiamo scritto così tante volte che ai nostri lettori più affezionati sarà venuto a noia, ma non bisogna mai stancarsi di contrastare una narrazione tossica dei fatti. Allo stesso modo abbiamo sottolineato più volte che non si può realizzare, almeno non in un contesto di legalità, il “blocco navale” sul quale l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha costruito tanta parte delle sue fortune elettorali e che infatti non c’è (e così per il taglio delle accise sui carburanti, rimasto lettera morta; e per la protesta sulla compressione delle prerogative del Parlamento da parte dei precedenti governi per via della fiducia sulla legge di Bilancio, esattamente come sta accadendo sotto il suo governo). Ma prendendo questa strada, che è lunga, rischiamo di andare fuori tema. Quello che invece conta, dopo la sentenza del Tribunale di Palermo che ha assolto Salvini in primo grado per l’odissea della nave Open Arms (presto sapremo se ci sarà un processo d’appello), è ricordare che ci sono vicende in cui la verità processuale e quella fattuale confliggono. Il verdetto stabilisce che il ministro Salvini non ha commesso i reati di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, che gli venivano contestati: “Il fatto non sussiste”. Ma i fatti, ciò nonostante, esistono. E raccontano che quello fu un affronto all’umanità, perché ogni persona ha una sua dignità che nessuno può negargli e che va rispettata fino in fondo. Proprio come una sentenza. Anzi di più. Oggi sarebbe troppo facile per noi ricordare al signor ministro, il quale anche nell’intervista concessa a questo giornale e pubblicata due giorni fa ha parlato di “radici cristiane” dell’Europa, che ci accingiamo a festeggiare un Bimbo nato in una stalla “perché non c’era posto per loro nell’albergo”. Quel Bambino, divenuto Uomo, avrebbe poi indicato nello straniero un essere umano da accogliere. Ma non è necessario salire così in alto per non giustificare, e in tutta franchezza non comprendere, “l’orgoglio” di un ministro della Repubblica per il fatto di aver lasciato per giorni in mezzo al mare su una nave, sotto il sole agostano della Sicilia, 147 esseri umani: è sufficiente, appunto, il principio di umanità. Salvini dice che “rifarebbe tutto” e gli crediamo. Del resto, non lo ha fatto soltanto nel 2019 con la Open Arms, ma anche l’anno prima con la nave Diciotti della Guardia Costiera. È convinto di avere in questo modo “fermato l’immigrazione di massa, ridotto i morti in mare, protetto gli italiani” e “difeso la Patria”. Ma la Patria si difende da un invasore in armi, come sta facendo il popolo ucraino contro Vladimir Putin, autocrate fino a poco tempo fa ammirato incondizionatamente dallo stesso Salvini. Non si difende da bambini, donne e uomini senza armi e senza niente, che rischiano la vita per disperazione, attraversando un mare che può ucciderli (e che troppe volte li uccide, è successo anche nelle ultime ore in acque greche e marocchine) perché scappano da guerre, miseria, catastrofi, persecuzioni. Civiltà vorrebbe che a loro si tenda una mano, li si porti in salvo e poi si decida dove mandarli. Non necessariamente in Italia, certo. Ma lasciarli in mare per giorni non dovrebbe essere mai un’opzione, in uno Stato di diritto. Men che meno dovrebbe essere motivo di vanto. Migranti. Sui Paesi “sicuri” il Governo non è al di sopra della legge di Vitalba Azzollini* Il Domani, 21 dicembre 2024 La Cassazione ha smentito quanti, nel governo, ripetono da settimane che i giudici non possono sindacare la definizione dell’elenco dei paesi sicuri operata dall’esecutivo. La Suprema corte ha stabilito che il controllo giurisdizionale può riguardare la legittimità delle valutazioni operate al riguardo nella sede governativa. La pronuncia della corte di Cassazione che ha deciso sulla questione pregiudiziale in tema di paesi sicuri, sollevata dal tribunale di Roma, segna un primo punto a favore dei giudici, smentendo chi nel governo va ripetendo da settimane che il potere giudiziario non può sindacare le scelte del potere esecutivo. La sentenza si riferisce all’elenco di tali paesi contenuto nel decreto interministeriale del 7 maggio, sostituito da un decreto legge di ottobre, con cui il governo ha voluto trasfondere la lista dei paesi sicuri in una norma primaria. Ma il principio affermato dai giudici non cambia. Il tribunale aveva chiesto alla Suprema corte se “il giudice ordinario sia vincolato alla lista dei paesi di origine sicura” definita dallo stato o se debba comunque valutare le effettive condizioni di sicurezza dei paesi inclusi in tale lista. La corte ha stabilito che “il potere di accertamento” del giudice “non può essere limitato dalla circostanza che uno stato sia incluso nell’elenco di paesi da considerare sicuri sulla base di informazioni vagliate unicamente nella sede governativa”. L’inserimento di un paese di origine tra quelli sicuri “non è un atto politico”, come tale insindacabile, perché “fuori dal diritto e dalla giurisdizione”. Tale inserimento “ha carattere giuridico” perché “è guidato da requisiti e da criteri dettati dal legislatore europeo e recepiti dalla normativa nazionale”. Dunque, spetta al giudice “verificare la sussistenza in concreto dei criteri, normativamente predefiniti, che consentono di qualificare un paese come sicuro”. È vero che, nella redazione dell’elenco dei paesi sicuri, il magistrato “non può sostituirsi al ministro degli Affari Esteri” né “può annullare con effetti erga omnes il decreto” contenente detto elenco. Tuttavia, egli “può valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione” e, qualora quest’ultima “contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale”, può disapplicare il decreto in base al principio della prevalenza del diritto europeo sulle fonti nazionali, anche di rango primario. Ancora, a differenza di quanto sostenuto, ad esempio, dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nonché da altri esponenti di governo in occasione delle mancate convalide dei trattenimenti in Albania, il magistrato valuta la sicurezza di un paese non solo quando il richiedente asilo adduca “gravi motivi relativi a una sua situazione particolare”. Il giudice è chiamato comunque a verificare la “situazione di ordine generale, concernente intere categorie di cittadini o zone di quel dato paese”. Posto questo primo principio, per cui i giudici possono disapplicare la normativa contenente l’elenco dei paesi sicuri in caso di “contrasto manifesto” con la disciplina Ue, ora bisognerà attendere che la Corte Ue si pronunci su tale contrasto nell’ambito delle questioni pregiudiziali sollevate da diversi tribunali (Bologna, Palermo, Roma). Questioni che traggono origine dalla sentenza con cui, il 4 ottobre scorso, la stessa Corte Ue ha stabilito che, per essere designato come “sicuro”, un paese deve esserlo in tutto il suo territorio, in maniera generale e costante. In particolare, l’11 novembre scorso, il tribunale di Roma ha chiesto alla Corte se sussistano condizioni di “sicurezza” anche se alcune categorie di persone siano a rischio; se il legislatore nazionale possa definire l’elenco dei paesi sicuri con “atto legislativo primario” e “senza rendere accessibili e verificabili le fonti adoperate per giustificare tale designazione”, così impedendo a richiedenti asilo e giudici di valutarne la fondatezza; nonché se, “nel corso di una procedura accelerata di frontiera (…), ivi inclusa la fase della convalida del trattenimento”, il magistrato abbia il potere di sindacare la sicurezza di un paese. Il Governo auspicava che la Cassazione affermasse che i giudici non possono intervenire sulle decisioni del governo in tema di paesi sicuri. Ciò avrebbe riaperto ai migranti le porte dei centri albanesi, su cui l’esecutivo si gioca la propria reputazione: dopo i primi 12 migranti rimandati in Italia a metà ottobre, l’11 novembre il tribunale di Roma aveva sospeso la convalida del trattenimento di altri 7 migranti, anch’essi trasferiti in Italia, e poi sollevato la citata questione pregiudiziale dinanzi alla Corte Ue. Quest’ultima si esprimerà nei primi mesi del 2025. Fino ad allora i centri in Albania resteranno vuoti. Ma continueranno a essere pagati con i soldi dei contribuenti. Comunque si risolva la questione giudiziaria, la questione economica per i cittadini italiani è già una perdita accertata. Stati Uniti. Con Biden mai così tanti migranti espulsi dalle frontiere americane di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 21 dicembre 2024 Sono oltre 270mila gli stranieri mandati via nel 2024: è il record del decennio Neanche le “deportazioni” del primo Trump avevano raggiunto questi numeri. Il presidente eletto Donald Trump, che si insedia alla Casa Bianca ufficialmente nel prossimo gennaio, ha promesso durante la campagna elettorale di procedere con delle espulsioni di massa di immigrati. Una vera e propria deportazione che costituirebbe una pietra miliare della sua amministrazione entrante. Trump ha attaccato violentemente Biden sul tema facendo finta di non conoscere i dati dell’Immigration and Customs Enforcement. L’ultimo rapporto dell’ICE infatti rivela che l’amministrazione Biden ha effettuato un numero record di espulsioni lo scorso anno, superando anche le cifre del primo mandato di Trump, una politica che si è concentrata in gran parte sulla sicurezza pubblica e sulle minacce a quella nazionale. Gli immigrati espulsi dagli Stati Uniti sono stati 271.484, segnando il livello più alto di deportazioni dal 2014. Circa il 32% di queste espulsioni riguardavano persone con precedenti penali. L’ICE ha anche arrestato 113.431 immigrati, di questi, 81.312 erano criminali condannati o avevano accuse penali pendenti al momento dell’arresto. Altri fattori che hanno determinato l’aumento del numero sotto Biden sono stati i negoziati con i paesi per aumentare il numero di voli, nonché gli sforzi diplomatici con i paesi dell’emisfero orientale come la Cina. Dal 1° ottobre 2023 al 30 settembre 2024 l’ICE ha rimandato ai paesi di origine persone di quasi 200 paesi diversi, si è trattato principalmente di chi aveva attraversato illegalmente il confine tra Stati Uniti e Messico. La sfida piu grande per i funzionari dell’amministrazione Biden quella ingaggiata lungo il confine meridionale, correlata anche a una contemporanea migrazione record da tutto il mondo. Una situazione in ogni caso difficoltosa come ha confermato il direttore dell’Immigration and Customs Enforcement, Patrick Lechleitner nel rapporto: “Nel corso dell’anno, l’agenzia è stata chiamata a fare di più senza finanziamenti commisurati, lavorando entro i confini delle risorse tese e delle priorità concorrenti, sostenendo costantemente il Dipartimento della Sicurezza Nazionale e le sue agenzie componenti nei loro sforzi per rendere sicuro il confine”. E così mentre gli uomini di Trump continuano a fare propaganda sui piani per detenere e deportare gli immigrati privi di documenti su larga scala, anche loro in realtà dovranno prepararsi ad affrontare ciò che Biden e i suoi predecessori non sono mai riusciti a cambiare: risorse e personale limitati. Non a caso Tom Homan, che Trump ha scelto come responsabile del controllo della frontiera nella squadra della sua amministrazione, ha già fatto sapere che avrà bisogno di finanziamenti dal Congresso per rafforzare le risorse dell’agenzia e mantenere le promesse del presidente eletto. Secondo Homan si ha bisogno di un minimo di 100mila posti letto per detenere gli immigrati, più del doppio dei 40mila per cui l’ICE è attualmente finanziato. Inoltre servono più agenti che attualmente sono circa 6mila. Durante l’amministrazione Biden sono state introdotte linee guida concentrate più strettamente sugli immigrati che rappresentano un rischio per la sicurezza nazionale, quella delle frontiere o la sicurezza pubblica. La stessa linea che sembra vogliano applicare i repubblicani ma che, come già annunciato, mirerà massivamente anche all’espulsione di chi risulta privo di documenti. Ci sono circa 1,4 milioni di persone negli Stati Uniti con ordini finali di rimpatrio ma molti di loro non possono essere rimandati nei loro paesi d’origine perché non verrebbero accolti oppure c’è ancora una qualche sorta di scappatoia disponibile attraverso il sistema di immigrazione. Arabia Saudita. La “guerra alla droga” fa strage di diritti e di detenuti di Marco Perduca L’Unità, 21 dicembre 2024 Negli ultimi anni una delle maggiori fonti di finanziamento del regime siriano è stata la produzione ed esportazione del captagon, una droga sintetica ampiamente utilizzata anche da parte dei jihadisti, che ha arricchito le casse di Assad grazie alle esportazioni verso sud. Captagon è il marchio registrato d’un medicinale psicoattivo prodotto negli anni 60 dalla tedesca Degussa Pharma Gruppe che veniva prescritto per il disturbo da deficit di attenzione, la narcolessia e come stimolante del sistema nervoso centrale. Le compresse contengono fenetillina, una sintesi della fenetilamine a cui appartiene anche l’amfetamina. Nel 1986, la fenetillina è inclusa nella Tabella II della Convenzione dell’Onu sulle sostanze psicotrope del 1971 e la maggior parte dei paesi ha interrotto l’uso medico di Captagon. Nel 2011 l’International Narcotics Control Board ha reso noto che nessun paese aveva prodotto fenetillina dal 2009. Come spesso accade la proibizione non ha funzionato e il mercato illegale ha visto un boom negli anni successivi alla “primavera araba” in Siria del 2011 diventando una delle forme di finanziamento di aggressori, aggrediti, al Qaeda e Stato islamico. Ora che il regime siriano è caduto, e gli insorgenti si stanno sistemando a Damasco, la domanda interna di captagon potrebbe diminuire ampliando l’offerta verso l’estero, in particolare l’Arabia saudita. Qualche giorno prima della fuga di Assad a Mosca, le guardie di frontiera saudita hanno sequestrato più di 300.000 compresse di captagon in uno dei valichi tra Arabia e Giordania. In quegli stessi giorni, nel sud-ovest del paese vicino allo Yemen, le autorità hanno giustiziato sei persone per aver tentato di contrabbandare hashish e anfetamine. Come da oltre 60 paesi in tutto il mondo, anche in Arabia saudita l’allarme sull’uso di droga ha innescato un drastico cambiamento nelle tattiche di repressione prevedendo un ampio utilizzo di punizioni severissime fino alla pena di morte. Nel 2024 il regno ha eseguito quasi 100 esecuzioni per reati legati alla droga sulle 304 registrate in totale, l’anno scorso erano state due. Le confische e le esecuzioni di questi ultimi giorni fanno parte dell’inasprimento della guerra alla droga saudita. Il Regno è da tempo un obiettivo primario per i trafficanti di droga nella regione sia per il potere d’acquisto delle sue classi più abbienti sia per i lunghi confini desertici con Giordania e Yemen e la costa disabitata che facilitano il narcotraffico. I dati ufficiali sul consumo di droga in quel paese sono scarsi, ma lo scorso anno il ministero della Salute ha stimato più di 200.000 “tossicodipendenti compulsivi” sui 32 milioni di abitanti del regno - in Italia, che ha quas i il doppio della popolazione ce ne sono poco più di 120.000. All’inizio di dicembre gli esperti dell’Onu sulle esecuzioni extragiudiziali hanno pubblicato un rapporto in cui si esprime allarme a seguito di tre esecuzioni chiedendo al governo saudita di fermare immediatamente quella imminente degli egiziani Rami Gamal Shafik al-Najjar e Ahmed Zeinhom Omar e del giordano Adnan al-Shraydah. I due egiziani, parte dei 28 connazionali attualmente nel braccio della morte nella prigione di Tabouk, sarebbero stati trasferiti in una cella di esecuzione il 27 novembre 2024 e sono stati costretti ad assistere all’esecuzione di altri detenuti mentre attendevano il loro turno. Il giordano, che ha gravi problemi di salute, non ha ricevuto cure adeguate in prigione. Per il rapporto sembra che “L’Arabia Saudita abbia revocato una moratoria, non ufficiale, annunciata nel 2021 per reati legati alla droga [...]; le esecuzioni di cittadini stranieri sembrano avvenire sempre più senza previa notifica ai condannati a morte, alle loro famiglie o ai loro rappresentanti legali [...] I cittadini stranieri si trovano spesso in una situazione di vulnerabilità e hanno bisogno di misure specifiche per garantire l’accesso alle tutele legali al momento dell’arresto, durante gli interrogatori e tutto il procedimento giudiziario, incluso l’accesso all’assistenza consolare”. L’applicazione discriminatoria della pena di morte nei confronti dei non sauditi, il 75% di tutte le esecuzioni per reati di droga, ha fatto lanciare un appello a Ryad affinché “riveda le decisioni giudiziarie contro individui nel braccio della morte, al fine di commutare le loro condanne nel rispetto dei requisiti del giusto processo e dei principi di proporzionalità, equità e giustizia nella condanna”. Gli esperti hanno inoltre invitato il governo saudita ad “adottare senza indugio le misure legislative necessarie per abolire la pena di morte per reati che non comportano l’omicidio intenzionale”. Oltre a non esserci alcuna prova che la pena di morte sia efficace nel dissuadere dal crimine c’è l’aggravante di un paese che investe miliardi in campagne di pubbliche relazioni per dimostrarsi in fase di ammodernamento ma che nelle sue galere insiste con gravissime violazioni dei diritti umani. Siria. Tornati alla vita dal buio del carcere di Sednaya di Beatrice Guarrera L’Osservatore Romano, 21 dicembre 2024 Dal giorno della caduta del governo di Bashar al-Assad non è rimasto più nessuno chiuso tra i suoi potenti cancelli, eppure il suo nome continua a far paura nei racconti dei sopravvissuti: il carcere di Sednaya, a 27 chilometri a nord di Damasco, è stato un simbolo di repressione degli oppositori politici di Assad. Le testimonianze delle violazioni dei diritti umani che lì sono state compiute si rincorrono una dopo l’altra, su ogni mezzo di comunicazione, da quando i miliziani delle forze di opposizione sono entrati nella prigione e decretato il liberi-tutti. È tempo di parlare, di denunciare, per molti prigionieri. Parlano i corpi dei vivi e anche quelli dei morti, rinvenuti in diverse fosse comuni scoperte a pochi chilometri dalla prigione di Sednaya. Se ne contano a migliaia e molti hanno ipotizzato proprio che provengano da lì o da altre carceri siriane. D’altronde Amnesty international è dal 2017 che denuncia una campagna pianificata dal governo siriano di esecuzioni extragiudiziali mediante impiccagioni. Lo aveva documentato con il report intitolato Il mattatoio di esseri umani: impiccagioni di massa e sterminio nella prigione di Sednaya, che riportava anche le condizioni inumane di detenzione all’interno della prigione, tra cui torture, diniego sistematico di cibo, acqua, medicinali e cure mediche. Condizioni che sono state confermate da coloro che hanno avuto la fortuna di uscirne vivi. “Dal 2013 fino a metà del 2014, ho trascorso un anno e mezzo a Sednaya- racconta al nostro giornale Khaled, un siriano di 35 anni, ora rifugiato in Italia-. Eravamo circa novanta persone in una stanza grande quattro metri per quattro. Si può solo immaginare cosa significa anche soltanto respirare in uno spazio così ristretto”. Khaled- costretto a svolgere il servizio militare per l’esercito di Assad, impossibilitato a scappare dal Paese, perché senza passaporto- ricorda bene quei mesi bui, giunti dopo l’accusa di aver organizzato una manifestazione pacifica, ai tempi della “primavera araba”. I prigionieri erano bendati giorno e notte, per impedire loro di guardare in volto i carcerieri, trascorrevano le giornate senza dormire, da mangiare avevano solo un pezzo di pane e patate bollite. Anche solo provare a sedersi per terra era un’impresa: si mettevano accovacciati uno dentro l’altro - ha raccontato Khaled in un documentario video- appoggiando la fronte sulla schiena del compagno davanti, fino a diventare un unico immenso corpo sofferente. Senza parlare delle torture che venivano inflitte con ogni mezzo a chi di loro veniva chiamato fuori dalla stanza. “Sto facendo questa intervista- precisa l’uomo- anche perché tutte le porte delle prigioni sono aperte. Le persone sono uscite a migliaia: alcuni sono diventati matti, hanno malattie, tutti psicologicamente abbiamo bisogno di aiuto”. Khaled racconta di essere riuscito a uscire dal carcere, grazie all’intervento dei genitori che hanno pagato una somma ingente per avere sue notizie. Da lì poi un’altra Odissea: un soldato che viene considerato “disobbediente” viene mandato in prima linea al fronte di guerra. Così i suoi giorni hanno oscillato pericolosamente tra la vita e la morte, come “un tirare a sorte”. Dalla prima linea di Aleppo, Khaled è riuscito poi a scappare ed arrivare in Libia, dove ha preso una barca, ha lottato per la sopravvivenza in mare, fino a chiedere asilo in Italia. “Quando sono uscito da Sednaya- osserva- sono stato molto fortunato perché sono riuscito innanzitutto a farlo con i miei piedi, sono riuscito di nuovo a pensare, a amare, a studiare, a lavorare, a partire. C’è gente lì che è morta. Io stesso ho dormito sopra due persone che erano morte da una settimana e che non facevano uscire dalla cella”. Sono migliaia coloro che hanno dovuto aspettare fino all’8 dicembre, giorno della caduta di Assad, per vedere la luce. Come Zuhair, uno studente dell’università di Damasco che svolgeva attività di documentazione video nella sua città, Daraa, e che è stato arbitrariamente imputato di terrorismo, un’accusa infamante associata a molti giornalisti, come documentano diverse organizzazioni per i diritti umani. “Prima dell’8 dicembre- spiega a “L’Osservatore romano” Zuhair, sopravvissuto sei anni nelle carceri siriane, di cui cinque a Sednaya- non avevamo idea di cosa stesse succedendo fuori. All’improvviso, abbiamo iniziato a sentire degli spari. La prima idea che ci è venuta in mente è che potesse trattarsi di una rivolta all’interno della prigione stessa. Poi sono venuti alla porta della nostra cella e l’hanno aperta e ci hanno detto che eravamo tutti liberi: “Il regime è caduto. Potete uscire. Potete tornare a casa vostra”. Zuhair parla di una gioia profonda ma anche di tanta incredulità: “Non potevamo credere a quello che avevamo sentito, e non sapevamo se quella fosse la verità o no, finché non siamo usciti dalla prigione, abbiamo visto tutti uscire dalle celle, andare in strada e cercare di raggiungere le loro case”. Nonostante le durissime condizioni di vita, il giovane racconta di non essersi mai arreso e di aver sempre coltivato la speranza: “Abbiamo fatto del nostro meglio dentro la prigione per restare in vita. Alcuni hanno insegnato ad altri a leggere e scrivere, come me. Altri hanno diffuso pratiche e strumenti di infermieristica. Vivevamo con la luce accesa 24 ore su 24 dentro la prigione, senza mai vedere il sole”. “Tutti i siriani - osserva Zuhair - dentro o fuori le prigioni, hanno sacrificato molto. Quindi vogliamo che questo sacrificio non sia vano. Dobbiamo metterci insieme per ricostruire di nuovo la Siria, dove nessuno venga ucciso, nessuno viva al di fuori dalla legge. Insieme possiamo costruire una Siria migliore”. “È tempo di accettare che i loro cari sono stati uccisi, pregare per loro e andare avanti”. Così afferma Anass, in merito ai tanti familiari dei prigionieri che hanno perso la vita. Il giovane siriano rifugiato in Francia dal 2011 ha gestito un database di vittime di sparizione forzata e violazioni dei diritti umani. Come ingegnere informatico, il suo coinvolgimento in questo campo è arrivato per la necessità di documentare cosa accadeva intorno a lui, prima fondando una piccola Ong e poi, dopo essere stato incarcerato due volte e aver lasciato il Paese, collaborando con l’Alto commissariato per i diritti umani della Nazioni Unite. Tanti i nomi, le voci, le lacrime e le speranze raccolte da Anass in questi anni difficili. Sarebbero infatti quasi 130mila le persone scomparse dal 2011, di cui molti parenti hanno cercato notizie notte e giorno nel carcere di Sednaya, quando le porte sono state aperte. “Vorrei che tutto il mondo tenga d’occhio le famiglie degli scomparsi che hanno ancora bisogno di aiuto”. Certamente la pace che potranno avere dal sapere la verità sulla sorte dei loro cari sarà un punto di partenza per ricostruire il futuro. “Abbiamo tante speranze e anche tante sfide davanti a noi”, spiega Anass. “Vorrei che un giorno qualcuno ricordasse Sednaya e venisse a visitarla non per il carcere, ma per la bellezza della vicina città. È una delle città più belle, a maggioranza cristiana”. Nel periodo natalizio si vedono sempre tante luci, infatti, che accendono la speranza di una vita nuova. Una vita nuova anche per le tante donne con bambini liberate da Sednaya. “Abbiamo in cura un’ex detenuta che ha trascorso 8 anni nella prigione di Sednaya - hanno dichiarato i responsabili delle attività di salute mentale e mediche di Medici senza frontiere a Idlib. Oggi ha 27 anni. Suo figlio ne ha 8. Il bambino non sa cosa sia un biscotto, un albero o un uccello, nemmeno un giocattolo con cui giocare. Non sa leggere, né scrivere. Ha visto sua madre subire abusi fisici e sessuali. È stato davvero difficile parlare con lui”. Nonostante il male e le speranze degli ultimi giorni, afferma ancora Khaled, la Siria oggi è come un uomo che guida una macchina nell’oscurità, senza sapere dove andare. Bisogna fermarsi e aspettare il giorno, per capire se veramente ci sarà sicurezza, dignità, giustizia per tutti, e poi valutare se sarà possibile tornare. “È il tempo di aspettare”, ma ancora “c’è speranza, le cose finiscono, non rimangono per sempre”.