I dati che non tornano sui detenuti morti e le possibili conseguenze sul giudizio di Strasburgo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2024 Con l’ennesimo suicidio in carcere avvenuto tre giorni fa a Viterbo, il tema delle discrepanze nei dati relativi ai detenuti che si sono tolti la vita torna prepotentemente al centro del dibattito tra gli addetti ai lavori. Il garante della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ha fatto il punto sulla tragica situazione, evidenziando le significative differenze tra le cifre raccolte dall’osservatorio “Morire di Carcere” curato da Ristretti Orizzonti, quelle fornite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e i dati pubblicati periodicamente, a partire da giugno di quest’anno, dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. A tutto ciò si aggiunge anche un’importante analisi e riflessione che solleva interrogativi sulla gestione e comunicazione dei dati presentati al Consiglio d’Europa. Uno degli aspetti che attualmente anima il dibattito è la possibilità di stabilire se il 2024 possa essere considerato l’anno con il maggior numero di suicidi in carcere. Secondo il dossier di Ristretti Orizzonti, aggiornato a oggi, i casi registrati sarebbero 87. D’altra parte, il documento del Garante nazionale, aggiornato al 15 dicembre, riporta un totale di 82 suicidi. Per comprendere meglio il fenomeno, il garante del Lazio Anastasìa sottolinea l’importanza di andare oltre una mera valutazione statistica. Le due fonti, infatti, offrono dati sui singoli episodi, consentendo un’analisi comparativa che evidenzia le discrepanze e le caratteristiche di ogni caso. Nel 2024 diversi casi segnalati da Ristretti Orizzonti evidenziano discrepanze rispetto ai dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che - come ha analizzato il Garante laziale Anastasìa, non li include tra i suicidi o li classifica ancora come ‘ da accertare’. Il primo episodio risale al 18 aprile, quando un detenuto di 32 anni è deceduto nel carcere di Como dopo aver inalato il gas di una bomboletta da campeggio. Si tratta dello stesso uomo che, nel settembre precedente, era evaso dall’ospedale San Paolo lanciandosi da una finestra, ferendo gravemente un agente di polizia che aveva tentato di fermarlo. Questo caso è ancora indicato come “da accertare” nel dossier del Garante nazionale. Un secondo caso, avvenuto il 28 giugno nel carcere di Frosinone, riguarda un giovane detenuto di 21 anni, morto anch’egli dopo aver inalato il gas di una bomboletta. Anche questo decesso è riportato come “da accertare”. Il 7 luglio, nel carcere di Potenza, si è registrata la morte per asfissia di un uomo di 81 anni. L’anziano era stato accusato di aver ucciso, pochi giorni prima, la moglie di 73 anni. Nonostante le circostanze tragiche, questo episodio è stato inserito tra i casi “da accertare” dal Garante nazionale. Un altro episodio drammatico si è verificato il 15 novembre a Genova, dove un detenuto tunisino di 28 anni è morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Martino. L’uomo si era impiccato utilizzando le sbarre della finestra della sua cella; tuttavia, il caso rimane classificato come “da accertare”. Infine, il 30 novembre, un detenuto in attesa di giudizio si è lanciato da una finestra del carcere di Terni. L’uomo era stato trasferito d’urgenza, in regime di arresti domiciliari, all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia. Lì muore. Ma anche questo episodio non compare affatto nel dossier del Garante nazionale. Nel contempo, Francesco Morelli di Ristretti Orizzonti ha sollevato dubbi significativi sulla classificazione dei decessi nelle carceri italiane, mettendo in evidenza le incongruenze dei dati ufficiali che riceve il Rapporto statistico penale del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria (SPACE I). Ricordiamo che quest’ultimo viene annualmente aggiornato dal 1983, mappando la realtà degli istituti penitenziari negli Stati membri. Tale progetto, noto in tutto il mondo, è una fonte di informazioni e dati comparativi utilizzati da organizzazioni internazionali, decisori politici, professionisti ed esperti che lavorano nel campo penale. Secondo Morelli, il Rapporto SPACE I classifica i decessi per cause “Altre” (“Other”) in modo diverso da Paese a Paese. Nel caso dell’Italia, questa categoria comprende esclusivamente i decessi per cause naturali. Il Consiglio d’Europa è consapevole di questa peculiarità e, non a caso, i dati italiani nel rapporto risultano perfettamente allineati con quelli pubblicati dal ministero della Giustizia. Tuttavia questi numeri non coincidono con quelli raccolti da Ristretti Orizzonti e dal Garante nazionale dei detenuti. La discrepanza apre a domande cruciali: che fine fanno i dati relativi ai decessi per cause “da accertare”? Una volta stabilito, spesso dopo anni, che si tratta di morte naturale, i dati dell’anno di riferimento vengono effettivamente aggiornati? Inoltre, rimangono dubbi sui decessi classificati come “accidentali”, ad esempio quelli per overdose, che sembrano rientrare in questa categoria. Dove vengono contabilizzati e come vengono gestiti? Queste incertezze rivelano la necessità di maggiore uniformità nella raccolta e nella classificazione dei dati, non solo per comprendere appieno le dinamiche dei decessi in carcere e garantire una più efficace prevenzione, ma anche per permettere una valutazione da parte del Consiglio d’Europa basata su dati effettivi. Si aggiungono infine le dichiarazioni di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che denuncia una situazione drammatica: “Ai suicidi si aggiungono 155 detenuti deceduti per altre cause, per un totale di 243 morti. L’ultimo si è tolto la vita a Viterbo, aveva solo 31 anni”. Bernardini punta il dito contro il ministro della Giustizia, accusandolo di minimizzare la gravità della situazione: “Nordio arriva ad affermare che il trend è in calo e che suicidi e morti non c’entrano nulla con il sovraffollamento. Intanto ci dica la verità sulle morti, rispondendo alle interrogazioni di Roberto Giachetti e al lavoro incessante che fa Ristretti Orizzonti”. Suicidio prima causa di morte nelle carceri. Il 39% delle vittime era in attesa di giudizio Il suicidio rappresenta la principale causa di morte negli istituti penitenziari italiani e regionali: lo sottolinea il garante del Lazio Stefano Anastasìa. Nel periodo 2020- 2024, dei 1.056 decessi registrati nelle carceri italiane, ben 358 sono stati causati da suicidio, pari al 34%. La tendenza è allarmante: non solo i suicidi sono in aumento, ma cresce anche il numero dei decessi. Rispetto al 2015, si osserva un incremento del 93% dei decessi e del 115% dei suicidi. Tra gli istituti penitenziari Regina Coeli detiene il triste primato con 14 suicidi, seguita da Torino con 12. Questi istituti, tra i più sovraffollati, confermano una stretta correlazione tra sovraffollamento e aumento di eventi critici. Dei 20 penitenziari con il maggior numero di suicidi, 14 superano il già elevato tasso medio di affollamento nazionale del 133%. La maggior parte dei suicidi avviene nei primi sei mesi di detenzione, con otto casi nei primi 15 giorni. Inoltre, il 39% dei suicidi riguarda detenuti in attesa di giudizio, molti dei quali avrebbero potuto essere inseriti in alternative alla detenzione carceraria. Particolarmente colpiti i giovani e gli stranieri. Se i detenuti sotto i 35 anni rappresentano il 29% della popolazione, tra i suicidi la percentuale sale al 46%. Nel 2024, il 42,8% dei suicidi ha riguardato stranieri, cifra superiore alla loro incidenza sul totale dei detenuti (33,1%). Bernardini: “Carceri al collasso, il governo fa negazionismo” di Angela Stella L’Unità, 20 dicembre 2024 “Come si può garantire la salubrità degli ambienti con un sovraffollamento medio nazionale del 134% con punte che vanno oltre il 200%?”, sulla sanità penitenziaria Rita Bernardini ha ingaggiato una vera e propria battaglia. Nessuno tocchi Caino, di cui è presidente, ha avviato insieme all’Unione camere penali un massiccio accesso alle relazioni che le Asl sono tenute a fare due volte l’anno a seguito di visite ispettive nelle carceri. Ma in alcuni istituti, denuncia, “si è persa memoria dell’ultima visita”. E sul sovraffollamento accusa il governo: “è tornato a regnare il negazionismo”. Numero spaventoso di suicidi in carcere, negazionismo del Governo sul sovraffollamento, inadempienze delle Asl, cimici nei letti dei detenuti e ambienti ammuffiti: questi i nostri istituti di pena. Ne parliamo con Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Com’è la situazione sanitaria al momento nei nostri istituti di pena? Un disastro, e via via stiamo scoprendo anche il perché. Le linee-guida emanate dalla Conferenza Unificata Stato, Regioni ed enti locali il 22 gennaio del 2015 davano precise indicazioni per la costruzione in ogni regione di una rete di assistenza sanitaria rivolta alle persone private della libertà. Le Regioni avrebbero dovuto fare ciascuna una propria regolamentazione in merito alla rete regionale per l’assistenza penitenziaria che successivamente le Aziende Sanitarie avrebbero dovuto rendere operativa con i propri atti aziendali. Tutto questo però non è avvenuto: le disparità di trattamento tra regione e regione sono macroscopiche e addirittura, all’interno delle regioni, ci sono evidenti differenze tra ASL e ASL. Insomma, non c’è coordinamento né nazionale né regionale, non si conoscono, per esempio, le piante organiche di medici, specialisti, infermieri, OS. Si tratta di un’inadempienza catastrofica che ha portato sul lastrico la sanità penitenziaria. Nell’anno horribilis delle morti in carcere mi sarei aspettata schiere di giornalisti al 25° Convegno della SIMSPe (Società Italiana di Medicina penitenziaria) e, invece, la copertura è stata bassissima. Eppure, proprio da quel consesso sono arrivate proposte concrete per riprendere e ricucire quel filo strappato risalente a dieci anni fa. Mi auguro che Governo e Parlamento ascoltino chi, come il Dott. Antonio Maria Pagano (Presidente SIMSPe), sa di cosa parla. Intanto, ci ha informato che in carcere aumentano patologie psichiche, malattie infettive, diabete, obesità, tumori, ma anche violenza e tossicodipendenze. Quali invece le condizioni di salubrità degli ambienti? Come si può garantire la salubrità degli ambienti con un sovraffollamento medio nazionale del 134% con punte che vanno oltre il 200%? Se in una struttura concepita per ospitare 100 persone, tu Stato ce ne metti 150 o 200 è evidente che tutto si deteriora, tanto più se gli stanziamenti per la manutenzione ordinaria e straordinaria sono del tutto inadeguati. Sui materassi di gommapiuma che visitando le carceri vediamo sempre più lerci, hanno vissuto generazioni di persone detenute; acari, cimici e pulci trovano lì il loro habitat d’eccellenza. Evidenti fenomeni di infiltrazione d’acqua, di ammuffimento dei locali, specie di pernottamento, rilevante degrado degli arredi e dei servizi igienici, vergognose infestazioni di scarafaggi e topi, carenze e disfunzioni del servizio sanitario intra moenia incidono pesantemente sulla qualità della vita, sull’aria che si respira e sulla condizione di salute di tutti i detenuti e degli operatori penitenziari. Che iniziativa ha proposto lei all’Unione Camere Penali? Come Nessuno tocchi Caino abbiamo proposto al loro ultimo Congresso di fare un accesso massiccio alle relazioni che le ASL devono fare due volte all’anno a seguito di visite ispettive in carcere. L’iniziativa è stata prontamente accolta dal Presidente Francesco Petrelli e ora ci stiamo lavorando con l’Osservatorio coordinato da Gianpaolo Catanzariti. L’art. 11, commi 13 e 14 dell’Ordinamento Penitenziario prevede che il direttore generale della ASL disponga le visite allo scopo di accertare l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie degli istituti. Subito dopo deve riferire con apposite relazioni al Ministero della salute e al Ministero della giustizia sulle visite compiute e sui provvedimenti da adottare, informando altresì i competenti uffici regionali, comunali e il magistrato di sorveglianza. Ecco, noi vogliamo sapere se queste visite le hanno fatte e cosa hanno scritto nelle relazioni, se hanno dato delle prescrizioni e se chi dovere è adempiente o meno. I direttori generali delle Asl effettuano le visite come da regolamento? Non in tutti i casi, in alcuni istituti penitenziari si è persa memoria dell’ultima visita, evidentemente troppo risalente nel tempo. Come sta andando invece il vostro monitoraggio? Le PEC sono giunte a destinazione di tutti i dirigenti sanitari e cominciano ad arrivare le prime risposte. Intanto, grazie ancora una volta a Roberto Giachetti, abbiamo interrogato i ministri interessati (Salute e Giustizia) per avere da subito un quadro complessivo. L’atto di sindacato ispettivo è stato firmato da tutti i gruppi di maggioranza (tranne Fratelli d’Italia) e d’opposizione, Insomma, vogliamo sapere quante e quali ASL abbiano effettuato le visite producendo le corrispondenti relazioni sia nell’anno in corso, sia nell’intero anno 2023. 6. In generale al momento qual è la condizione di sovraffollamento nelle carceri? Sull’argomento è tornato a regnare il negazionismo del Governo che continua a sottovalutare l’incidenza del sovraffollamento sulla legalità della vita detentiva. Nordio sproloquia sulla costruzione di nuove carceri e di utilizzo di caserme dismesse e sorvola sulle gravissime carenze di personale di ogni ordine e grado. Solo se ci riferiamo agli agenti ne mancano oggi 18.000: chi ci mette nei nuovi istituti se mai verranno costruiti? Ah, dimenticavo! Ha nominato il commissario all’edilizia penitenziaria e così ha risolto tutto. Mi diceva ieri il Garante Marco Solimano che nella casa circondariale di Livorno da sette mesi (e dopo anni di lavori) è terminata la completa ristrutturazione di due interi padiglioni, ma i nuovi locali non sono stati aperti né collaudati, perché presentano gravi difformità rispetto al progetto. Il corridoio di accesso alle nuove sezioni è stato giudicato pericolante e quindi andrà rifatto, le celle sono troppo strette, le porte dei bagni si aprono al contrario, le scale antincendio vanno a finire nelle sezioni di alta sicurezza; mancano poi del tutto le previste centrali termica ed elettrica. Nel frattempo, i detenuti comuni sono ammassati l’uno sull’altro in condizioni indecenti… Chissà se la ASL ha verificato la salubrità dei luoghi. E quella dei suicidi? Sono un numero spaventoso, ottantotto con l’ultimo che si è impiccato a Viterbo. E Nordio ha la sfrontatezza di dire che il trend è in calo e che avremmo potuto superare i cento alla fine dell’anno! Per non parlare dei tanti che muoiono per malattia, per cause ancora da accertare, per omicidio. In tutto 243, una cifra terribile mai eguagliata. Ho motivo di credere, anche perché mi fido del monitoraggio di Ristretti Orizzonti, che il Ministero (e non da oggi) nasconda la verità sulle morti in carcere. Sembra che negli elenchi del DAP non vengano conteggiati i morti “per cause da accertare”, eppure sono morti, sono morti in carcere, erano esseri umani in carne ed ossa nelle mani dello Stato. Anche chi si impicca in carcere e muore in ospedale sembra non rientrare nella conta. Ristretti Orizzonti mi ha mandato l’elenco dei 287 morti da accertare degli ultimi 12 anni. Che fine hanno fatto? Rientrano negli elenchi che il nostro Paese manda al Consiglio d’Europa? Il 26 dicembre 2024, giorno di Santo Stefano, Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, segnando un momento storico nella storia dei Giubilei ordinari. Che ne pensa? Si tratta di un segno tangibile della sua profonda sensibilità umana nei confronti degli ultimi. In questi anni, da quando lo aveva promesso a Marco Pannella ricoverato al Gemelli in sciopero della sete, non ha mai smesso di chiedere alle istituzioni un provvedimento di clemenza, di amnistia e di indulto. Aprire la Porta Santa in quel luogo dimenticato dove chi ci entra rischia di perdere ogni speranza, ha una valenza fortissima non solo per chi è cristiano. Arriverà al cuore della politica anche di quella che sbatte il petto in chiesa e bacia il rosario pregando la Madonna? “Così il carcere in Italia ha sostituito il welfare” di Alberto Pedrielli lospiegone.com, 20 dicembre 2024 Intervista a Camilla Siliotti e Rita Vitale (A Buon Diritto). A Buon Diritto è un’associazione Onlus che dal 2001 porta assistenza qualificata a coloro che sono privati della libertà, a chi cerca di integrarsi in Italia, a chi è vittima di discriminazioni o di episodi di razzismo, a chi ha subito abusi o torture. Camilla Siliotti ne è Responsabile della Comunicazione; Rita Vitale ne è Responsabile per l’area Immigrazione e asilo. Al 30 novembre, i detenuti hanno raggiunto il numero di 62.464, il +3,8% in più rispetto allo scorso anno. Quali sono le cause principali di questo aumento e quali sono i volti (ovvero le categorie sociali) che vanno più spesso a riempire le celle? Rita Vitale. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, l’innalzamento delle pene, una tendenza che si registra da anni, ha comportato, oltre all’invecchiamento della popolazione detenuta, anche una crescita delle presenze in carcere. Anche gli ingressi sono in aumento, per il sempre maggiore utilizzo della detenzione anche in fase cautelare e la combinazione di questi due fenomeni sta facendo salire rapidamente i numeri della detenzione nel nostro paese. Tra i reati per cui oggi le persone sono in carcere ci sono al primo posto i reati contro il patrimonio (34.126 persone al 2023), seguiti dai reati contro la persona (26.211 persone al 2023) e dai reati per la legge sulle droghe (20.566 persone al 2023). Questo ci aiuta a capire chi è la maggioranza delle persone che si trovano attualmente nelle nostre carceri: in moltissimi casi si tratta di persone povere e marginalizzate, che compiono reati in larga parte connessi a contesti sociali caratterizzati da disuguaglianze sociali ed economiche, abbandono da parte delle istituzioni e mancanza di opportunità. Tantissime le persone straniere, che costituiscono il 32% delle presenze e che si trovano in carcere soprattutto per reati contro il patrimonio, spesso di lieve entità e spia di povertà ed esclusione sociale, che peraltro hanno più difficoltà di accesso alle misure alternative alla detenzione. La composizione carceraria comprende molte persone con scolarizzazione limitata o con lunghi trascorsi di disoccupazione lavorativa, ma anche persone con questioni di salute mentale e persone con problemi di dipendenza. In generale chi entra in carcere, anche per scontare pene molto brevi o prima di una condanna definitiva, ha spesso uno scarso accesso alla difesa e poche possibilità di usufruire di misure alternative. Si tratta in molti casi di persone straniere con un’espulsione, persone senza documenti, senza casa e senza residenza, senza famiglia e senza rete sociale. Il carcere, in questo senso, è anche una questione di classe e non fa altro che aggravare la condizione di marginalità e di esclusione sociale. Una volta scontata la pena, infatti, la persona ex detenuta ha forti difficoltà ad avere opportunità di inserimento nella società e questo aumenta il rischio di rientrare nel circuito criminale o anzi di non riuscire ad uscirne. Il tasso di recidiva, cioè di commissione dello stesso reato da parte di chi è già stato in carcere, calcolato in uno studio del 2007 su un campione di alcune migliaia di persone, è altissimo: circa il 68% dei detenuti che scontano tutta la pena in carcere compie di nuovo un reato. Se una persona invece sconta la pena o parte della pena in misura alternativa ha una recidiva del 20%. Questo dimostra che il sistema carcerario come è concepito e strutturato attualmente non funziona. Il carcere è un ambiente criminogeno, afflittivo, che non si prende cura delle persone, ma le stigmatizza e non attua la funzione rieducativa che la pena dovrebbe avere nel nostro ordinamento. Continuare ad aumentare le pene e creare nuovi reati non farà altro che peggiorare una situazione già gravissima. Se una delle parole più invocate dal governo italiano è “sicurezza”, l’aumento delle pene e il numero di reati ci mostra chiaramente che uno degli strumenti più adottati è la giustizia penale (e quindi anche il carcere). Cosa rappresentano gli istituti di pena per il governo? Camilla Siliotti. C’è stato negli anni un uso sempre maggiore del concetto di sicurezza, intesa esclusivamente come sicurezza penale. E questo non è appannaggio unico della destra, ma anche con governi di centrosinistra abbiamo visto approvare misure che nel nome della “sicurezza” hanno introdotto strette repressive e securitarie, costruendo anche a livello culturale una narrazione di tipo giustizialista. Tale narrazione, alimentata dal linguaggio dei media, mira a creare un clima di paura e di ricerca del nemico, proponendo come soluzione semplice a questioni complesse e multifattoriali l’uso dello strumento penale. In questa narrazione securitaria si inserisce perfettamente - amplificandola - l’attuale governo Meloni, che appena insediatosi ha approvato il cosiddetto decreto-rave istituendo nuovi reati e inasprendo pene per chi organizza raduni considerati “illegali”. Si è arrivati poi al decreto Caivano, che ha inasprito le misure per i minori che commettono reati, aumentando l’utilizzo della detenzione e snaturando in questo modo il sistema penale minorile, che era considerato uno dei più all’avanguardia d’Europa per la centralità dell’approccio educativo. Ciò ha portato a un rapido aumento delle presenze anche negli istituti penali minorili: nel 2024 sono circa 570 i e le minorenni recluse nelle strutture detentive rispetto ai 496 di dicembre 2023 e ai 381 di dicembre 2022. Come abbiamo ribadito in un appello lanciato alcuni mesi fa insieme a diverse associazioni e persone che si occupano di carcere e di minori per chiedere la chiusura dell’istituto penale minorile di Roma, le celle dovrebbero essere una misura residuale, a maggior ragione per i minorenni. Il governo Meloni ha invece incentivato, attraverso il Decreto Caivano, il ricorso alla carcerazione dei minorenni, escludendo alcuni reati dalla messa alla prova, senza nessun investimento sulla prevenzione e sul rafforzamento dei percorsi alternativi al carcere. Da Caivano si è arrivati poi al ddl cosiddetto sicurezza, che prevede 27 tra nuovi reati e inasprimenti di pena. A ogni fatto di cronaca grave e a ogni questione sociale complessa il governo Meloni risponde inasprendo pene, creando nuovi reati e chiedendo più carcere, nonostante le carceri nel nostro paese stiano scoppiando e la situazione per le persone detenute sia drammatica. Si risponde quindi con lo strumento penale a questioni che andrebbero invece affrontate con misure di welfare, educative, abitative, con politiche del lavoro e di genere, con finanziamenti e non con tagli al settore pubblico, con misure di prevenzione e di educazione. Proprio contro il ddl sicurezza si è mobilitata una coalizione di forze e reti sociali di cui anche A Buon Diritto fa parte. Quali sono le principali novità previste dal nuovo testo normativo e quali i loro effetti? Camilla Siliotti. Il ddl prevede la creazione di nuovi reati e l’inasprimento di pene già esistenti in una deriva autoritaria e securitaria che ci preoccupa sotto tantissimi aspetti. Tra le misure, vengono previste maggiori tutele per le forze di polizia, come risulta dalla modifica degli articoli riguardanti la violenza e la resistenza contro i pubblici ufficiali, con un aumento di pena nei casi di violenza o resistenza commessa nei confronti di un agente di polizia. Viene anche introdotta un’aggravante per lesioni agli agenti. Sempre in nome della “sicurezza” si introducono misure volte a punire chi esprime il dissenso e chi protesta, come nel caso del reato di blocco stradale effettuato “con il proprio corpo”, che trasforma una sanzione amministrativa in un illecito penale e che si rivolge chiaramente alle attiviste e agli attivisti climatici, ma non solo. Un altro provvedimento estremamente grave è quello che riguarda l’introduzione della denuncia per rivolta in carcere e nei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), applicabile nel caso di protesta anche non violenta come la resistenza passiva, che spesso è per le persone detenute l’unica forma per rivendicare i propri diritti contro le condizioni insostenibili a cui sono sottoposte e in cui si trovano private della libertà. Ancora, c’è il reato di occupazione abusiva di immobili, che punisce le persone in difficoltà abitativa e chi “coopera” con loro, quindi le reti solidali e i movimenti per il diritto all’abitare. Vengono inoltre previste norme con chiari intenti discriminatori, come quella che prevede la possibilità di non sospendere la carcerazione per le donne in stato di gravidanza, chiaramente finalizzata a colpire le donne rom, e norme dagli intenti esclusivamente afflittivi, come quello sull’impossibilità di vendere schede sim e registrare contatti telefonici alle persone che non dispongono di un permesso di soggiorno, privando così chi è in Italia dell’unico strumento a disposizione per rimanere in contatto con la propria rete di affetti, con gli avvocati, con il resto della società. Il ddl è quindi anche un ulteriore tassello nella criminalizzazione della libertà di movimento, come lo sono il decreto Piantedosi vergognosamente rinominato “Cutro”, l’ultimo decreto flussi, il protocollo Italia-Albania, il nuovo Patto europeo sulle migrazioni e l’asilo. Tutti questi provvedimenti vanno nella direzione di una costante criminalizzazione delle persone in movimento, e il ddl sicurezza non è da meno. Il ddl punta ad affrontare con lo strumento penale questioni sociali che andrebbero invece affrontate mettendo in campo misure di welfare, educative e politiche sociali e del lavoro. Invece di intercettare i bisogni delle persone e della società, punisce chi rivendica diritti sociali e ambientali senza garantire però una reale sicurezza sociale. La vera sicurezza infatti è avere un tetto sopra la testa, un reddito garantito, la possibilità di girare per le strade non sentendosi in pericolo e non venendo discriminate e discriminati, sicurezza è potersi spostare liberamente senza dover morire in mare ma anche potersi curare nel settore pubblico senza dover aspettare anni, non dover morire sul lavoro e non doversi ammalare nelle città e nei territori in cui si è nati perché inquinati. Il ddl in realtà nulla a che fare con la sicurezza e genera piuttosto paura. È un attacco ai principi di uguaglianza previsti dalla nostra Costituzione e per questo va abrogato, come abbiamo ribadito anche in tantissime e tantissimi il 14 dicembre in una grande manifestazione a Roma, in cui ci siamo ritrovate insieme e unite associazioni, movimenti, giuristi, attivisti e attiviste, persone. Continueremo a scendere in piazza in una tre giorni di lotta contro il ddl sicurezza il 10, 11 e 12 gennaio, così come il giorno in cui entrerà in aula per la definitiva approvazione, perché questo disegno non deve passare. L’art. 27 Cost. prevede che le “pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Ma dal sovraffollamento passando per l’abuso di psicofarmaci fino al numero (record) di suicidi, le carceri sembrano al collasso. Come si sta muovendo la maggioranza di fronte alle esigenze dei detenuti e quali soluzioni potrebbe e dovrebbe adottare? Rita Vitale. Evidentemente non si sta muovendo, non nella direzione verso cui dovremmo andare per provare a risolvere questa situazione gravissima. Qualche mese fa è stato approvato un decreto legge, impropriamente definito da vari esponenti del governo “svuota carceri”, che in realtà non ha minimamente inciso sul sovraffollamento degli istituti e quindi non ha in alcun modo contribuito a migliorare le condizioni di vita delle persone detenute. Ciò che sarebbe realmente risolutivo nell’immediato è un atto clemenza per le carceri, un provvedimento di amnistia e indulto, come chiesto in un appello lanciato nel mese di ottobre da diverse personalità che si occupano di carcere e che in carcere entrano, tra cui le e i garanti per le persone private della libertà personale. Questa misura riguarderebbe persone che devono scontare reati e residui pena fino a due anni, che si è stimato siano intorno alle 16.000 persone. Occorrerebbe poi estendere e ampliare le misure alternative al carcere: la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, la messa alla prova. E ancora, occorrerebbe una depenalizzazione dei reati minori, e bisognerebbe destinare misure e risorse alla prevenzione. Si potrebbe estendere ancora di più il ragionamento fino a comprendere la chiusura degli istituti di pena minorili. A livello più ampio e di lungo periodo, occorre invece portare avanti su vari livelli un lavoro culturale e una profonda riflessione collettiva sull’istituzione carcere e sulle sue alternative. Nelle scuole, negli spazi, sui territori, e nel dibattito pubblico. Il carcere e la detenzione ci pongono il tema del rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona che commette un reato. Anche chi commette un reato continua a far parte della società, la domanda è come vogliamo affrontare tutto questo come collettività. Il coraggio di una svolta per un carcere più umano e dignitoso di Padre Enzo Fortunato Il Sole24 Ore, 20 dicembre 2024 La speranza del Giubileo è speranza di perdono, riconciliazione, misericordia che allarga i confini della giustizia. È la consapevolezza di un tempo della coscienza che illumina i valori fondamentali di ogni comunità: come vivere un tempo che dia nuove possibilità, oltre i nostri pregiudizi, nuove vie per il dialogo, l’incontro, la pace giusta, la sicurezza di tutti, nessuno escluso. Secondo i dati del ministero della giustizia, al mese di ottobre 2024, le carceri italiane ospitavano 62.100 detenuti, superando di oltre 10.000 unità la capacità regolamentare. Questo fenomeno di sovraffollamento riguarda la maggior parte delle regioni italiane, con alcune strutture che presentano tassi di occupazione estremamente elevati. Un caso emblematico è quello del penitenziario di Taranto, in Puglia, che registra un sovraffollamento del 196,4 per cento. La popolazione carceraria italiana è composta principalmente da individui di età compresa tra i 50 e i 59 anni e nella media ha, come titolo di studio, la licenza della media inferiore. Sebbene le donne costituiscano una piccola frazione dei detenuti, nel novembre 2023 si contavano 22 madri che vivevano in carcere con 23 figli. I bambini in carcere sono una vergogna! Almeno su questo dovremmo essere tutti d’accordo. In questo quadro difficile, il mondo del carcere ha evidenziato in questi anni l’emergenza suicidi, casi di maltrattamenti anche contro i minori e l’inadeguatezza di vecchi edifici che dovrebbero essere semplicemente chiusi. Questo aggrava le condizioni di vita, con problemi come spazi ristrettissimi, impianti igienico-sanitari inadeguati, scarsa ventilazione e riscaldamento insufficiente durante i mesi invernali. Si può dire che il carcere oggi fa fatica a rispettare sostanzialmente l’articolo 27 della Costituzione italiana. Ce lo ricordiamo bene l’art. 27? “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Il carcere dovrebbe essere il luogo di un’altra possibilità, nel rispetto della legge, della dignità delle persone detenute e dei diritti fondamentali. Una nuova possibilità per cambiare, per aiutare gli altri e la comunità, nel rispetto rigoroso della giustizia e della legalità. Questi sono i principi di una giustizia basata sulla forza del diritto, e non sul diritto della forza. In base ai dati del ministero di Grazia e Giustizia, gli immigrati detenuti sono quasi 2omila, praticamente un terzo. Su 62mila, i detenuti in semilibertà sono appena 1.370. È questa la realtà che dimostra quanto sia complesso essere avviati ad un’altra possibilità di vita. Insomma, il secondo tempo non arriva mai, se non per pochi fortunati. Per questo Giubileo, com’era già avvenuto per altri Anni Santi, il Papa chiede anche qualcosa di più. Propone a tutti i governi del mondo iniziative che restituiscano speranza ai detenuti, anche “forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. Si dovrebbe mirare ad una nuova economia del riparare, del recuperare e del ricominciare: sottolineando l’importanza dell’inserimento lavorativo dei detenuti, sia durante la detenzione che nel periodo post-detenzione, come strumento fondamentale per il loro recupero e reinserimento sociale. In Italia, solo il 25% dei detenuti è coinvolto in attività lavorative all’interno delle carceri, ma la formazione e le opportunità di crescita professionale sono limitate. Al termine della pena, gli ex detenuti si trovano a fare i conti con il pregiudizio sociale e la difficoltà di trovare un impiego stabile, con una disoccupazione nazionale elevata. L’invito è, dunque, a una riforma che favorisca l’accesso al lavoro e alla formazione, garantendo un vero e proprio percorso di recupero, non punitivo, che possa restituire dignità ai detenuti e apportando, inoltre, valore economico aggiunto. Per quanto siano provvedimenti impopolari per qualunque governo, bisognerebbe avere il coraggio di promuovere una svolta per un carcere più umano e più capace di costruire progetti di giustizia riparativi e di reinserimento sociale. Il 26 dicembre nel carcere romano di Rebibbia il Papa aprirà una Porta Santa. Speriamo che altre siano aperte, ma che sia aperta soprattutto la Porta del nostro cuore che ama e non odia, che costruisce futuro e pace per tutti, senza più indifferenza nei confronti di chi vive in prigione. Colpisce sempre la domanda che si fa Papa Francesco quando visita un carcere: “Perché loro e non io?”. Lotta alle mafie in carcere: collaborazione Italia-Francia di Marco Belli gnewsonline.it, 20 dicembre 2024 Prosegue la collaborazione in materia penitenziaria fra le amministrazioni di Italia e Francia. L’ultima visita di una delegazione di alto livello di rappresentanti dell’Amministrazione francese, conclusa ieri, ha avuto per oggetto il contrasto alla criminalità organizzata, anche in ambito penitenziario. Tema sul quale l’amministrazione francese si sta sforzando di elaborare un’efficace strategia, anche prendendo a modello l’elevata competenza e professionalità riconosciuta in materia al Dap. Il sistema penitenziario transalpino ha recentemente attraversato un momento di grande difficoltà, culminato nel tragico assalto del maggio scorso a un convoglio che stava traducendo dal tribunale al carcere in cui si trovava ristretto un detenuto appartenente a un’organizzazione criminale. Un assalto nel quale sono state utilizzate armi da fuoco pesanti e che è costato la vita a due agenti penitenziari, il ferimento di altri tre e l’evasione del detenuto. Anche a seguito di questo tragico evento, l’Amministrazione francese ha avviato un processo di ampia revisione e rafforzamento delle procedure di sicurezza, con particolare riguardo alla gestione dei detenuti pericolosi appartenenti a organizzazioni criminali strutturate sul territorio. La delegazione transalpina, guidata dalla direttrice della Sicurezza penitenziaria Johanna David e integrata dalla presenza del magistrato di collegamento francese in Italia Yves Le Clair, è stata ricevuta due giorni fa al Dap dal capo del Dipartimento Giovanni Russo, dal direttore generale del Personale Massimo Parisi, dal direttore generale dei Detenuti e del Trattamento Ernesto Napolillo e da altri rappresentanti di articolazioni dell’amministrazione Penitenziaria coinvolte a vario titolo nella lotta contro la criminalità organizzata in carcere. Nel pomeriggio, accompagnata dal personale della sezione Relazioni internazionali dell’Ufficio V del Dap, la delegazione francese si è recata presso gli Uffici del Gruppo operativo mobile (Gom) e del Nucleo investigativo centrale (Nic), soffermandosi inoltre presso la teca che custodisce l’autovettura dell’attentato di Capaci. L’incontro con i rappresentanti dei due reparti specializzati della Polizia penitenziaria ha consentito lo scambio di informazioni e di dati sull’attività di contrasto alla criminalità organizzata e, in particolare, sulla gestione degli elementi di spicco delle organizzazioni criminali operanti sul territorio italiano. La permanenza in Italia degli ospiti francesi si è conclusa ieri con la visita alla casa circondariale di Roma Rebibbia, durante la quale i delegati hanno visitato la sala regia, il reparto multi-videoconferenze e i reparti di alta sicurezza, potendo approfondire aspetti tecnici e pratici delle attività di contrasto alla criminalità organizzata in carcere. Via Arenula, ecco il piano sull’Ufficio per il processo di Tiziana Roselli Il Dubbio, 20 dicembre 2024 A febbraio partirà una “procedura di valutazione” per assumere a tempo indeterminato 6.000 addetti. Il dibattito sulla stabilizzazione degli addetti all’Ufficio per il processo (Upp) si arricchisce di un nuovo capitolo. Sabato scorso l’Anm aveva espresso, in un documento, preoccupazione per la precarietà degli addetti e l’incertezza delle prospettive future. Allarme che però, secondo il ministero della Giustizia, non è giustificato dalla natura stessa di questi “rinforzi” messi a disposizione della magistratura giudicante. L’Upp, istituito nel 2021 come parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è stato concepito per migliorare l’efficienza del sistema giudiziario. Via Arenula fa notare che “fin dall’inizio, l’Upp ha rappresentato un modello organizzativo innovativo e una risorsa cruciale per raggiungere gli obiettivi europei”. Tuttavia, il ministero sottolinea anche che la finalità di questa struttura è stata fin dall’inizio definita come “straordinaria e temporanea”. Sfide iniziali e risposte adottate - Le difficoltà iniziali non sono mancate: dimissioni significative dovute a condizioni economiche più vantaggiose offerte da altre amministrazioni pubbliche, e una copertura del personale spesso inferiore al previsto in alcune aree del Paese. Per contrastare queste criticità, il ministero ricorda di aver effettuato continui scorrimenti delle graduatorie, “arrivando a un livello complessivo di 9.089 addetti all’Ufficio per il processo (Aupp) e 3.296 unità di personale tecnico- amministrativo in servizio entro ottobre 2025”. Inoltre, “sono stati introdotti incentivi economici e normative per consentire al personale di differire l’immissione in servizio presso altre amministrazioni”, con l’auspicio di trattenere il personale già formato. Stabilizzazione: obiettivi e limiti - Un tema centrale è quello della stabilizzazione degli addetti all’Upp. Secondo il dicastero guidato da Carlo Nordio, “a partire da luglio 2026 saranno trasformati in contratti a tempo indeterminato 6.000 rapporti di lavoro, tra cui”, appunto, i giuristi in servizio presso le strutture in questione, grazie a “un investimento finanziario significativo”. Tuttavia, il ministero chiarisce che “l’ipotesi di stabilizzare l’intero contingente di personale previsto dal Pnrr non è sostenibile economicamente e contraddirebbe la natura straordinaria dell’investimento”. Per garantire trasparenza e meritocrazia, “nel 2025 sarà avviata una procedura di valutazione per definire una graduatoria del personale idoneo alla stabilizzazione”. Questo approccio mira a valorizzare il capitale umano coinvolto senza compromettere gli equilibri finanziari. Il ruolo degli “Aupp”: verso una definizione chiara - Un altro punto cruciale è il chiarimento delle mansioni degli addetti all’Ufficio per il processo. Dal punto di vista del ministero, “sono e manterranno la natura di dipendenti amministrativi che supportano la giurisdizione”. Questo aspetto, ancora oggetto di confronto con le organizzazioni sindacali, mira a evitare contraddizioni e a garantire coerenza organizzativa. Sulle mansioni degli “Aupp”, già disciplinate da normative esistenti, sono state condotte sperimentazioni “utili a definire meglio i confini del loro ruolo, con particolare attenzione alla loro funzione di supporto alla giurisdizione”. Le prospettive future - Il Piano strutturale di bilancio a medio termine, approvato il 27 settembre, fissa l’obiettivo di mantenere in servizio almeno 6.000 unità di personale tra “Aupp” e altre categorie professionali. Questo “grazie a un investimento annuo di oltre 136 milioni di euro dal 2027”. Ma via Arenula segnala appunto che “la stabilizzazione totale del personale previsto dal Pnrr non è sostenibile, considerando la natura straordinaria dell’Ufficio per il processo”. I cui addetti sono, come detto, “dipendenti amministrativi con funzioni di supporto alla giurisdizione”. Monitoraggio e strategie - Il ministero rivendica di aver costantemente monitorato l’andamento dell’investimento sia in termini quantitativi che qualitativi. “La scopertura del contingente, a dicembre 2024, non supera il 9%”, e si prevede un ulteriore scorrimento degli idonei. Un altro aspetto fondamentale è rappresentato dalle tecnologie utilizzate. L’Upp ha permesso una maggiore integrazione delle piattaforme digitali nei processi giudiziari. Il ministero sottolinea che “gli investimenti nella digitalizzazione hanno migliorato i tempi di risposta del sistema giudiziario e la qualità del servizio reso ai cittadini”. Tuttavia, aggiunge che sarà necessario un ulteriore aggiornamento delle infrastrutture per garantire la piena efficienza del modello organizzativo. Il potenziamento della formazione del personale rappresenta un altro pilastro strategico. Dal 2023 sono stati attivati corsi di aggiornamento specifici per gli addetti all’Upp, con l’obiettivo di migliorare le competenze tecnico-giuridiche e amministrative. Il dicastero di via Arenula conferma che “la formazione continuerà a essere un elemento centrale per la crescita professionale del personale, in linea con gli standard europei”. Infine, si apre alla possibilità di estendere il modello Upp a uffici giudiziari oggi esclusi, sebbene tale decisione dipenda dalla necessità di mantenere adeguati contingenti presso gli uffici già operativi. In questo contesto, sarà fondamentale valutare l’impatto delle misure adottate sul sistema giustizia nel suo complesso e garantire un adeguato equilibrio tra risorse disponibili e necessità operative. Errori giudiziari in Italia, mille innocenti all’anno finiscono in detenzione. E il prezzo degli errori lo pagano i cittadini di Michele Magno Il Manifesto, 20 dicembre 2024 C’è quella dedicata al panettone italiano, quella per celebrare gli antichi mestieri, quella sulla scrittura a mano, quelle in memoria del calendario gregoriano e delle vittime della strada. Sono circa 80 i disegni di legge presentati in questa legislatura che propongono di istituire ricorrenze dedicate a qualcosa da ricordare. Curiosamente, solo quella in memoria delle vittime degli errori giudiziari incontra l’ostilità di diverse forze politiche - Pd incluso - forse per non fare uno sgarbo all’Anm o perché temono una “delegittimazione della magistratura”. È allora opportuno citare qualche dato. L’associazione Errorigiudiziari.com - fondata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone oltre 25 anni fa - si avvale di un archivio online, unico in Italia e in Europa, sui casi di errori giudiziari e ingiusta detenzione. Il 16 aprile 2024 ha pubblicato un report con i dati aggiornati al 31 dicembre 2023. Come ricordano i redattori del Rapporto, c’è una differenza tra le vittime di ingiusta detenzione (chi subisce una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, salvo poi essere assolto) e chi deve fare i conti con un vero e proprio errore giudiziario (cioè chi, dopo essere stato condannato con sentenza definitiva, viene assolto in seguito a un processo di revisione). I numeri di ingiusta detenzione - Per farsi un’idea sugli errori giudiziari in Italia bisogna mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari. Dal 1991 al 31 dicembre 2023 si contano ben 31.397 casi: in media si tratta di poco più di 951 l’anno (va sottolineato che in questo totale manca il dato complessivo degli errori giudiziari del 2023). Ovviamente con una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti: 960 milioni 781mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 114mila euro l’anno (ma anche qui non è disponibile il dato complessivo per la spesa in risarcimenti da errori giudiziari del 2023). Quanto costano allo Stato - Il numero dei casi di ingiusta detenzione aiuta a capire meglio le dimensioni da emergenza del fenomeno. Chi finisce in custodia cautelare da innocente rappresenta la stragrande maggioranza. Dal 1992 al 31 dicembre 2023 si sono registrati 31.175 casi: nei fatti, in media, oltre 974 innocenti in custodia cautelare ogni anno. La spesa ammonta a circa 874 milioni e 500mila euro in indennizzi, ossia circa 27 milioni e 328mila euro l’anno. Nel 2023 i casi di ingiusta detenzione sono stati 619, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 27 milioni 844mila euro. “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, dicevano i latini. Soprattutto quando l’errore è pagato solo dai contribuenti. Friuli Venezia Giulia. Il Garante: “Sulle carceri 50 anni di riforme ma scarsi risultati” consiglio.regione.fvg.it, 20 dicembre 2024 “La prima grande riforma del sistema penitenziario italiano compie l’anno prossimo 50 anni, eppure il tempo trascorso non è bastato per trasformare progressivamente le nostre carceri in un modello moderno e coerente con le proprie leggi e con quelle di natura internazionale, alle quali l’Italia ha pure aderito”. Lo afferma in una nota il Garante regionale dei diritti della persona, Enrico Sbriglia, a margine della conferenza dei Garanti territoriali svoltasi a Roma. “Questa è l’eredità che è stata lasciata al Governo attuale” evidenzia Sbriglia, che definisce “sbrigativa e poco comprensibile la censura rivolta al ddl 1660 Piantedosi-Nordio-Crosetto, non trovando alcuna ragione sul perché ci si debba esprimere in anticipo, in modo critico, su provvedimenti legislativi ancora non vigenti, mentre sarebbe necessario, e non da oggi, concentrarsi sulla mancata attuazione di norme già in vigore da decenni e mai realmente concretizzate”. Il Garante Fvg entra poi nel merito della recente sentenza della Corte costituzionale che riconosce il diritto all’affettività delle persone detenute. “Un diritto, ovviamente, da esercitarsi in luoghi e contesti idonei, quantomeno dignitosi e igienicamente salubri, all’interno di una cornice regolamentata. Peccato, però, constatare che vi siano ancora realtà detentive dove risulta essere un lusso potersi fare una doccia decente con acqua tiepida e sufficiente, nonché con la necessaria riservatezza; i bidet in tanti istituti sono un incomprensibile lusso al quale non si può accedere”. “Vi sono carceri - rimarca il Garante - dove i servizi igienici sono a vista, per cui mentre un detenuto defeca, gli altri lo possono guardare e, in quegli stessi contesti, magari si preparano cibi su fornelletti a gas butano perché non sono bastati cinque decenni per dotare le celle, che però si devono chiamare ‘stanze di pernottamento’, di modeste piastre a induzione per riscaldare o cuocere cibi di facile cottura”. “In molte carceri - fa notare ancora il Garante - ci sono invasioni di cimici da letto, nessun carcere è dotato di refettori comuni e impianti di aereazione antifumo e frequenti sono le lamentele dei detenuti sulla qualità e quantità del cibo somministrato. Gli agenti, di riflesso, convivono con analoghe situazioni di degrado, altro che affettività” Sbriglia fa sapere, inoltre, di aver “inoltrato una richiesta al capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria perché gli sia consentito di accedere negli istituti carcerari con il telefono cellulare, allo scopo di poter effettuare delle fotografie e dei video, nel rispetto delle indicazioni del direttore e del comandante, per comprovare lo stato reale dei luoghi alle autorità e intraprendere le più pertinenti iniziative”. “Si auspica - conclude Sbriglia - che venga accolta, da parte della Conferenza dei Garanti territoriali e del Garante nazionale, la proposta di istituire la giornata dedicata agli errori giudiziari e alle ingiuste detenzioni: la giornata dovrebbe coincidere con quella dell’arresto di Enzo Tortora, il 17 giugno 1983. In fondo, si tratterebbe di ricordare, almeno una volta l’anno, le tante persone che hanno sofferto di malagiustizia”. Crotone. Detenuto morto in carcere, a giudizio psichiatra e due agenti di Antonio Anastasi quotidianodelsud.it, 20 dicembre 2024 Un giovane si tolse la vita dopo un arresto. Il Gup del Tribunale di Crotone Edoardo D’Ambrosio ha rinviato a giudizio uno psichiatra e due uomini della polizia penitenziaria per la morte in carcere di un detenuto di 39 anni, Danilo Garofalo, di Petilia Policastro, avvenuta nel settembre 2022. Un “nuovo giunto”, come si dice nel gergo dei penitenziari, che si sarebbe tolto la vita impiccandosi con i lacci delle scarpe a poche ore dall’arresto per maltrattamenti in famiglia. Per capire perché gli furono lasciati i laccetti, nonostante le prescrizioni che vietano l’uso di stringhe, la pm Ines Bellesi aveva iscritto nel registro degli indagati, per l’ipotesi di omicidio colposo, F. L., medico psichiatra dirigente del presidio penitenziario dell’Asp, il sovrintendente G.P. e l’assistente capo E. L. In aula a insistere per la richiesta di giudizio c’era il pm Pasquale Festa. A lui si sono associati gli avvocati Maria Pia Antonietta Garofalo e Giovambattista Scordamaglia, che rappresentano i familiari della vittima. La richiesta è stata accolta dal gup. Gli imputati erano difesi dagli avvocati Aldo Truncè, Carmine Mancuso, Antonio De Cicco. Il giovane, con problemi psichici, aveva già tentato il suicidio in libertà, come si evince dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip che riteneva la misura carceraria l’unica proporzionata all’entità dei fatti contestati. Le accuse traevano origine soprattutto dalle dichiarazioni della moglie di Garofalo, che avrebbe subito reiterate aggressioni verbali e vessazioni morali oltre che aggressioni periodiche, a cadenza quasi mensile, che inducevano la donna a temere per la propria incolumità. In un caso addirittura pare che l’uomo le avesse incendiato un paio di scarpe e l’avesse cacciata di casa insieme ai figli. Ma Garofalo non resse l’impatto col carcere. Il detenuto si impiccò al letto della cella nella quale era rinchiuso, durante il cambio turno degli agenti, utilizzando i lacci delle scarpe. Inutili i tentativi di rianimazione dei sanitari e degli agenti. Chiedono giustizia gli avvocati dei suoi familiari, che parlano di inadeguatezza della misura carceraria e delle modalità di custodia. Torino. La Garante dei detenuti: “Troppi suicidi in carcere. Dalla politica ci aspettavamo di più” di Niccolò Dolce torinocronaca.it, 20 dicembre 2024 Monica Gallo, in Comune, ha presentato “Morire di carcere. Raccolta di riflessioni sui suicidi in carcere 2024”. Mai così tanti morti e suicidi nelle carceri italiane. Il 2024, per il nostro Paese, si sta concludendo con un detenuto che si è tolto la vita nel carcere di Bergamo: è il numero 89 dall’inizio dell’anno. Ieri, al termine della conferenza stampa di fine anno, in Sala Rossa, del consiglio comunale, la Garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, ha presentato la pubblicazione “Morire di carcere. Raccolta di riflessioni sui suicidi in carcere 2024”. La Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, purtroppo, è una di quelle messe peggio nel panorama carcerario italiano, con un sovraffollamento che supera il 120%. “L’attività dei garanti - ha sottolineato Monica Gallo - ormai non è più una novità nel panorama nazionale. Tuttavia, questo virtuoso percorso di civiltà non fa registrare in parallelo un adeguato miglioramento dell’organizzazione e del funzionamento del “sistema carcere” preposto alla custodia e al recupero sociale di questa peculiare componente della popolazione”. Nelle carceri italiane, Vallette comprese, sono numerosi da anni i sopralluoghi di politici, sia locali che nazionali, compreso il ministro della Giustizia, Nordio, che ha visitato la casa circondariale ad agosto. Tuttavia, alle “capatine” dei politici non sempre seguono fatti concreti per il miglioramento della vita delle persone recluse. E infatti, mai come quest’anno si sono verificati tanti suicidi: 89, appunto. Ma mentre il Garante nazionale, collegato a una banca dati, riesce ad avere contezza di tutti quelli che vengono classificati come “eventi critici”, questa possibilità non c’è per gli altri garanti, che spesso di chi si toglie la vita lo vengono a sapere al telefono. “I detenuti che si suicidano in carcere? Lo veniamo a sapere nelle chat tra i vari garanti - afferma Monica Gallo - perché purtroppo le nostre carceri per noi garanti si stanno chiudendo. Spesso e volentieri non riusciamo a fare sopralluoghi per sapere come stanno i detenuti”. Gallo poi ammette: “Dalla politica ci saremmo aspettati qualcosa di più. Il ruolo del Garante prevede infatti un monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà, ma appunto non sempre possiamo andare a vedere come stanno le persone recluse”. E appunto quello dei suicidi e delle misure volte ad evitarli è il nuovo, inusitato fronte che l’attività del Garante si trova ad affrontare, insieme alle ulteriori e numerose criticità che caratterizzano quello che Gallo definisce “il disastrato panorama della detenzione. Lo stesso presidente Mattarella - conclude la Garante - ha chiesto interventi urgenti contro i suicidi in cella”. Milano. Cpr di via Corelli, rivolta in maggioranza contro sindaco e giunta di Massimiliano Melley milanotoday.it, 20 dicembre 2024 Diversi consiglieri contro la decisione di non costituirsi parte civile al processo contro gli ex gestori del Cpr, nonostante l’ordine del giorno approvato in aula: “Dovete venire a spiegare perché”. Giungi (Pd): “D’ora in poi valuterò i singoli provvedimenti”. Scoppia la polemica anche nell’aula del consiglio comunale sulla mancata costituzione in parte civile del Comune di Milano al processo contro gli ex gestori del Cpr di via Corelli, nonostante un ordine del giorno approvato dal consiglio comunale che chiedeva proprio questo. Il processo è a carico della società La Martinina e dei suoi ex gestori, dopo un’inchiesta che ha fatto emergere le gravissime condizioni igienico-sanitarie in cui versavano le persone ospitate all’interno della struttura. La mancata costituzione è stata motivata, da fonti comunali, col fatto che il Comune non avrebe ricevuto un “danno diretto” dall’ex gestore. Giovedì, durante gli interventi liberi prima di discutere gli ordini del giorno collegati al bilancio previsionale, alcuni consiglieri di maggioranza si sono espressi duramente contro la decisione di Palazzo Marino. Durissimo, in particolare, Alessandro Giungi (Pd), vice presidente della sottocommissione carceri: ha annunciato che, d’ora in poi, valuterà di volta in volta i singoli provvedimenti che arriveranno dalla giunta, pur non abbandonando la maggioranza. “Associazioni che non hanno avuto un danno diretto, sono state ammesse. C’era uttta la possibilità di provare a costituirsi per danno morale o danno d’immagine”, ha dichiarato Giungi in aula: “Il 9 novembre abbiamo approvato un ordine del giorno per dire che il Comune avrebbe dovuto costituirsi parte civile. Il Comune, senza dire una parola, non lo ha fatto. Come vi siete permessi di non provarci neppure? Chi credete di essere? Chiedo alla giunta di riferire le ragioni, le voglio conoscere”. “Continuerò a far parte di questa maggioranza”, ha concluso Giungi, “ma, dopo il comportamento tenuto dall’amministrazione su un atto per me fondamentale, valuterò ogni singolo provvedimento che arriva dalla giunta con ancora più attenzione rispetto a quanto sto facendo già ora, e chiedo una risposta alla giunta”. Sulla stessa linea altri consiglieri, tra cui il Verde Carlo Monguzzi, che ha ricordato come alcune associazioni, tra cui l’Arci nazionale, siano state ammesse dal giudice, nonostante chiaramente non abbiano avuto danni diretti dalla vecchia gestione del Cpr. “L’Arci nazionale è più parte lesa del Comune?”, si è chiesto l’esponente di maggioranza: “La cosa che fa più male è che tanta gente si era fidata di noi. Li abbiamo incontrati in commissione. Abbiamo fatto loro tante promesse. Poi, al primo fatto concreto, il contrario”. Gli altri due consiglieri di Europa Verde, Francesca Cucchiara e Tommaso Gorini, avevano in precedenza sottolineato che il sindaco e la giunta avrebbero dovuto “prendere una posizione chiara sulla questione” e chiedere anche “ufficialmente al governo l’immediata chiusura del Cpr di via Corelli, come da indicazione dell’aula”, per destinare l’immobile a uso sociale. E ancora, Daniele Nahum (Azione), presidente della sottocommissione carceri: “Il Cpr è peggio di un carcere”, ha detto: “Sono cittadini che, lì dentro, non hanno alcun diritto, gestiti da una società privata. Non costituirsi parte civile è stato un errore. Bisognava fare un atto politico, non giuridico, per dire che in quel luogo si calpesta l’umanità delle persone, di cui molte non hanno neanche commesso reati”. Radice (Iv): “Serve più dialogo, sappiamo le cose dai giornali” - Infine Gianmaria Radice di Italia Viva: “Mi interrogo anch’io del perché della mancata costituzione, ma soprattutto sulla reale forza che ha quest’assemblea di incidere sulle scelte della giunta e del Comune. In realtà a me pare che il problema sia questo. Di molti provvedimenti apprendiamo dai giornali. Quando chiediamo, nessuno ci spiega in anticipo il perché di una scelta. Come rappresentante dei cittadini, preferirei che mi fossero spiegati i perché. Sulla questione del Cpr dico al sindaco e alla giunta che serve più dialogo e rispetto. Noi abbiamo votato una richiesta precisa, che è stata disattesa, e qualcuno ce lo deve spiegare”. Venezia. Dal carcere ai cantieri della basilica di San Marco e Palazzo Ducale di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 20 dicembre 2024 “Diamo ai detenuti una nuova prospettiva di vita”. Il carcere di Santa Maria Maggiore e la scelta della ditta di restauro Lares: “Sfruttati gli incentivi della legge Smuraglia con 5 reclusi: hanno tanta voglia di mettersi in gioco”. Dal carcere di Santa Maria Maggiore a Piazza San Marco. Hanno dimostrato di volersi mettere in gioco e di avere le carte per farlo i cinque detenuti assunti dalla ditta di restauro Lares che opera in tutta Italia. A Venezia sono stati due i ristretti che, dopo i colloqui effettuati, hanno ottenuto l’articolo 21 che permette loro di uscire alla mattina, raggiungere i colleghi a San Marco e poi tornare in carcere alla sera. “Il progetto realizzato con Lares rappresenta un pilastro fondamentale nel percorso di reinserimento sociale dei detenuti - ha spiegato il direttore di Santa Maria Maggiore, Enrico Farina - Attraverso il recupero e la valorizzazione delle competenze professionali, offriamo opportunità concrete che consentono ai partecipanti di costruire una nuova prospettiva di vita, contribuendo al contempo alla tutela e al recupero del patrimonio culturale della città”. L’azienda e sa scelta sociale - Da qualche anno la società Lares dedica spazio all’inclusione sociale, declinandola su più livelli. L’incontro con il mondo del carcere è arrivato qualche giorno fa grazie all’intermediazione dell’associazione Seconda Chance, fondata dalla giornalista di La7 Flavia Filippi e portata avanti a Venezia dalla collega Giovanna Pastega. Qualche giorno fa Lares ha organizzato alla Fondazione Querini Stampalia un incontro sui temi dell’inclusione sociale, della parità di genere e dell’accessibilità, invitando tutti 110 dipendenti ad ascoltare diversi relatori, da Pastega a Sergio Bettini. “Siccome avevamo notato che qualche dipendente era perplesso nei confronti della nostra scelta di assumere dei detenuti, abbiamo pensato di parlarne apertamente insieme ad altri temi, invitando loro stessi e il direttore del carcere Enrico Farina- spiega l’ad e direttrice tecnica di Lares, Donata Cherido - Alla fine tutti si sono ricreduti. Questo ci ha confermato quanto sia importante per le aziende non solo fare buone azioni, ma anche dedicare tempo alla formazione”. La leva legislativa - I detenuti sono stati assunti con la legge Smuraglia che permette degli sgravi fiscali per i primi sei mesi, ma Lares si è già resa disponibile a prolungare la collaborazione. “Ci stiamo trovando benissimo perché non solo abbiamo trovato persone che sanno svolgere i lavori che cercavamo, ma hanno tantissima voglia di mettersi in gioco e davvero non perdere questa possibilità di riscatto - prosegue Cherido - Siamo una società di restauro, ma al di là di questa professione abbiamo bisogno anche di manovali che sappiamo fare la malta bene e capaci di svolgere lavori a volte faticosi e che sappiano insegnare agli altri come farli”. Esperienze positive - Per i due detenuti di Venezia le porte del carcere si sono aperte nientepopodimeno che sulla Basilica di San Marco e su Palazzo Ducale dove ogni giorno si recano per svolgere i lavori nei cantieri che occupano da più di un anno la Piazza. Non solo. L’incontro alla Fondazione Querini Stampalia si è concluso con una cena tra gli scaffali pieni di libri. “Erano felicissimi e si guardavano attorno increduli di quello che stava succedendo - racconta Cherida - Lo stesso è stato per noi perché ci siamo resi conto di come parlare sia servito ad abbattere i pregiudizi e a rafforzare il legame tra le persone”. Su cinque detenuti, due lavorano a Venezia, due a Padova al Castello dei Carraresi e uno al Castello di Novara, ma è solo l’inizio di un modello che potrebbe diffondersi e si spera contagi anche altre aziende. “Questo tipo di iniziativa trasmette ai detenuti il valore del lavoro come strumento di dignità e responsabilità sociale, favorendo un percorso di reintegrazione sostenibile e costruttivo - ha detto Farina - Quest’anno, inoltre, ben 13 aziende hanno manifestato la disponibilità ad assumere detenuti attraverso i benefici previsti dalla Legge Smuraglia, che incentiva le imprese a offrire opportunità lavorative a persone in esecuzione penale. Questo rappresenta un grande risultato nel nostro impegno verso il reinserimento sociale e professionale”. Termini Imerese (Pa). Carcere, un progetto di orientamento professionale e inclusione sociale di Alley Oop Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2024 Un’opera d’arte che racconta il potere della rinascita e dell’inclusione sociale. Questo lo spirito di “Perdonami”, un’opera pittorica la cui creazione è stata curata da Igor Scalisi Palminteri insieme ad alcuni detenuti della Casa Circondariale “A. Burrafato” di Termini Imerese. Il tutto, nell’ambito di “Open”, un progetto finanziato dall’assessorato regionale per la famiglia col Piano Operativo del Fondo Sociale Europeo e promosso dal Centro Studi Opera Don Calabria. L’obiettivo di Open unisce arte, cultura, orientamento professionale e inclusione sociale con un approccio profondamente umano: favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, tramite percorsi di formazione, orientamento e qualificazione professionale. “Perdonami” non è quindi solo un’opera artistica, ma strumento e simbolo tangibile di trasformazione e speranza. Il reinserimento sociale e lavorativo - Durante il percorso di Street Art, Igor Scalisi Palminteri, coadiuvato da Nino Carlotta, ha lavorato fianco a fianco con i detenuti, trasformando le pareti della sala colloqui della struttura - un luogo di incontri e di emozioni intense - in uno spazio di bellezza e riflessione. L’opera, che è stata inaugurata nello scorso fine settimana, è il frutto di un processo condiviso, in cui l’arte ha fatto da ponte tra mondi apparentemente distanti, offrendo ai partecipanti l’opportunità di raccontarsi e riconquistare dignità attraverso la creatività. Il progetto ha coinvolto complessivamente 232 persone detenute o sottoposte a misure penali, attraverso 11 percorsi formativi che hanno spaziato dalla ristorazione alla manutenzione, dal giardinaggio all’alfabetizzazione digitale. Ogni attività è stata pensata per fornire strumenti concreti per il reinserimento sociale e lavorativo, abbattendo le barriere tra “dentro” e “fuori” grazie alla collaborazione di partner istituzionali e organizzazioni come la CNA e gli uffici locali del Ministero della Giustizia. L’opera artistica – “Perdonami” non è solo un gesto artistico, ma un potente simbolo di speranza e riscatto” ha dichiarato Don Ivo Pasa, Direttore del Centro Studi Opera Don Calabria. “Questo progetto dimostra che il lavoro e l’arte possono diventare strumenti fondamentali per trasformare vite e costruire ponti tra chi è dentro e chi è fuori”. “L’incontro con i detenuti - commenta Igor Scalisi Palminteri - è stato un viaggio straordinario, un lento abbattimento di pregiudizi e paure. Ho ancora una volta visto che ogni persona, anche chi vive ai margini, custodisce dentro di sé amore e il bisogno di riceverlo. Nei loro occhi, nelle voci e nei gesti, ho percepito dolore, amore e un profondo disagio per una vita lontana dall’equilibrio. Questo laboratorio è stato tra i più belli della mia vita, possibile grazie a chi ha collaborato con passione. Luoghi come il carcere di Termini Imerese, periferie del cuore e degli affetti, richiedono cura e bellezza per ispirare cambiamento e dignità. La bellezza, infatti, insegna la speranza e la possibilità di una rinascita”. Antonio Macaluso di VediPalermo, che ha documentato il progetto con un’opera audiovisiva, ha sottolineato “l’importanza di dare visibilità a esperienze spesso invisibili: raccontare storie come questa è un privilegio. L’opera e il video diventano strumenti per dare voce a chi lotta per una seconda opportunità, dimostrando che sbagli ed emozioni ci accomunano tutti”. L’impegno della regione - Con un finanziamento complessivo di circa 600.000 euro da parte della regione Siciliana, il progetto si inserisce in una più ampia visione di inclusione sociale promossa dal Don Calabria, che da anni lavora per creare percorsi di dignità e reinserimento lavorativo attraverso iniziative come Jail to Job e i progetti di ristorazione sociale Cotti in Fragranza e Al Fresco bistrot. Firenze. Il Papa invia un messaggio ai detenuti di Sollicciano: vi abbraccio tutti vaticannews.va, 20 dicembre 2024 L’arcivescovo Gambelli ha celebrato ieri la Messa nel penitenziario, con lui il cardinale albanese Simoni, vittima delle persecuzioni del regime comunista. A lui Francesco ha affidato un messaggio da portare a tutti i carcerati: “Assicuro la mia vicinanza umana e spirituale. Li invito a confidare sempre in Dio, Padre buono e misericordioso”. “Desidero abbracciare tutti i detenuti a cui assicuro la mia vicinanza umana e spirituale. Li invito a confidare sempre in Dio, Padre buono e misericordioso”. Sono le parole che Papa Francesco rivolge a tutti i detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano, in un messaggio letto al termine della Messa celebrata ieri pomeriggio, 19 dicembre, dall’arcivescovo di Firenze, monsignor Gherardo Gambelli. La liturgia è stata concelebrata dal cardinale Ernest Simoni, il porporato albanese vittima delle persecuzioni del regime comunista, invitato dall’arcivescovo ad unirsi a lui nella visita per Natale al penitenziario. Informato della presenza di Simoni, Papa Francesco gli ha inviato un messaggio da riportare ai carcerati. “Accogliamo tutti Gesù che nasce e riempie i nostri cuori di fiducia e di speranza”, si legge nella missiva. “Augurando un Santo Natale e un sereno anno nuovo, di cuore imparto la mia paterna benedizione a te, ai fratelli detenuti, alle loro famiglie e al personale carcerario. Abbraccio tutti e chiedo, per favore, di pregare per me”. Intervista al porporato albanese che oggi Francesco ha citato nell’udienza generale come “martire vivente”, ringraziandolo per la sua testimonianza e il servizio alla Chiesa: “Nella sua omelia, l’arcivescovo - riprendento il Vangelo del giorno - ha portato ai detenuti un annuncio di speranza, messaggio centrale del Giubileo 2025, e ha fatto riferimento all’esperienza di vita del cardinale Simoni, arrestato nella notte di Natale del 1963 e condotto nel carcere di Scutari dove patì numerose sofferenze: “Il cardinale Simoni ha subito 28 anni di prigionia e lavori forzati, vittima della persecuzione del regime comunista in Albania. La sua presenza oggi in mezzo a voi rievoca una sofferenza condivisa, indica che la dignità della persona deve essere sempre rispettata nella giustizia, ma soprattutto testimonia che la forza della fede sostiene anche nei momenti tragici e riesce a sconfiggere il male”. “La stessa nascita di Gesù che celebreremo fra pochi giorni è avvenuta in una situazione difficile, di oppressione, di povertà, ma il Dio incarnato ha portato luce nella storia di tutti noi”, ha detto il presule che di Sollicciano è stato cappellano prima di essere nominato arcivescovo di Firenze. “La nostra speranza sta nella certezza che il Signore non ci abbandona mai nelle nostre miserie ed errori, se siamo disposti a convertirci e ad accoglierlo. Confidando in Lui il carcere può diventare il luogo dove trovare la pace nel cuore”. Venezia. Nasce il Cup in carcere: assunti sei detenuti veneziatoday.it, 20 dicembre 2024 I sei detenuti assunti sono stati selezionati tra i circa 270 ospiti della struttura. Sono italiani, tra i 25 e i 45 anni. Alcuni di loro sono laureati, altri hanno elevate competenze informatiche. Rispondono ai pazienti e fissano visite ed esami in tutti gli ospedali e in tutto il territorio dell’azienda sanitaria veneziana. Ma lo fanno dal carcere. Sono sei detenuti dell’istituto penitenziario maschile di Venezia, assunti a pieno titolo nella squadra del Cup dell’Ulss 3. Sono stati selezionati tra i circa 270 ospiti della struttura. Sono tutti italiani, tra i 25 e i 45 anni. Alcuni di loro sono laureati, altri hanno elevate competenze informatiche. Prima la Casa circondariale di Santa Maria Maggiore ha individuato un locale al suo interno, poi l’Ulss 3 Serenissima, assieme al consorzio che ha in gestione il servizio di prenotazione, lo ha attrezzato e reso operativo, trasformandolo in una vera piccola sede distaccata del Cup: rete interna aziendale, linea, macchinari, computer, software e agende per gli appuntamenti. Le postazioni sono quattro: tre per i detenuti in turno (tre al mattino e poi tre al pomeriggio) e una per un operatore esperto che affianca e guida i neoassunti. I contratti sono part time e avranno la possibilità di virare dal tempo determinato a quello indeterminato. In questi primi dieci giorni di sperimentazione appena trascorsi, i nuovi centralinisti sono partiti con le prenotazioni degli esami di laboratorio “e hanno superato brillantemente questo periodo di prova - ha detto il direttore generale Edgardo Contato in occasione della presentazione ufficiale del servizio di questa mattina, all’interno dell’istituto di detenzione -. Tra poco saranno pronti per interagire con l’intera agenda delle prenotazioni, che conta ogni giorno una media di 6 mila nuovi appuntamenti. Come Cup assegnamo prenotazioni per l’attività specialistica, ma qui offriamo anche un’opportunità di ‘salute’, di tipo sociale, al nuovo personale ‘detenuto’, facendogli svolgere questo servizio. Quindi curiamo le persone a casa, dandogli possibilità di accedere alla specialistica, e curiamo dal punto di vista sociale i detenuti, che lavorando in queste modalità hanno una finestra aperta verso il mondo”. Mentre il direttore del carcere Enrico Farina si dice orgoglioso di questo “potenziamento dell’attività rieducativa dei nostri detenuti”, la responsabile della Sanità penitenziaria Marina Paties condivide e sottolinea quanto “il nostro compito all’interno del carcere non sia solo quello di prestare attenzione alla salute fisica degli ospiti e alle condizioni igienico sanitarie che possano mantenerla, ma anche di lavorare sul ‘buon stare’, sull’impegno verso qualcosa che ricordi loro che fanno ancora parte del mondo e che continueranno a farlo. Ricordiamoci che questo compito che vanno a svolgere non è un lavoro manuale, ma un vero lavoro di responsabilità”. Presente anche il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, per la celebrazione eucaristica nella struttura detentiva: “È bello che il carcere appartenga sempre più alla città e sia una componente della nostra vita sociale” ha esordito nell’omelia durante la messa che ha celebrato insieme al nuovo cappellano del carcere don Massimo Cadamuro. “In genere si è in carcere perché si è fatto qualche errore, ma se andiamo al di là della legge, che deve avere la sua forza e obiettività, dobbiamo anche chiederci perché una persona ha sbagliato e in che condizioni si è trovata in un momento di fragilità della vita. La città non cresce solo facendo gli affari o con i luoghi dell’alta cultura, ma è fatta anche di persone concrete e ha da imparare da tutti i suoi cittadini, anche da quelli che hanno sbagliato”. Lecce. Il panettone di Natale preparato dai detenuti: “Occasione di riscatto” di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 20 dicembre 2024 Il panettone, nel Salento, non è solo un dolce tradizionale natalizio. Da alcuni anni, infatti, è diventato un simbolo potente di speranza e inclusione sociale. Una vera e propria occasione di riscatto per i detenuti della casa circondariale leccese di Borgo San Nicola, che trovano (anche) in questo dolce natalizio un’opportunità per reintegrarsi nella società, apprendendo nuove competenze per costruirsi, una volta scontata la pena, un futuro migliore. Il progetto nasce dall’intuizione di Davide De Matteis, fondatore del bar 300mila di Lecce, che ha messo a disposizione il suo talento gastronomico per offrire una seconda possibilità a chi desidera cambiare la propria vita. Da sempre ispirato dagli insegnamenti del padre Oronzo, fondatore dello storico bar Cotognata Leccese, De Matteis racconta come la volontà di fare del bene sia radicata nella sua famiglia: “Le persone che compiono errori meritano una seconda possibilità. Se non gliela si dà, c’è sempre il rischio che ricadano nello stesso giro. Quando si è presentata quest’occasione, l’ho colta al volo. Lo scorso anno, due lavoratori, finita la pena, hanno trovato lavoro in pasticcerie del Barese: questa è la soddisfazione più grande”. Dal 2019, con il supporto del Ministero della Giustizia, il laboratorio di produzione del panettone, ma anche di tutto ciò che è servito nel locale - è stato allestito nell’ex carcere minorile di Lecce: vi lavorano quattro detenuti, un quinto è in arrivo. La selezione è curata dal Ministero della Giustizia, ma è l’azienda stessa a valutare i candidati: “Se dimostrano di essere all’altezza, li assumiamo. I lavoratori vengono poi guidati e affiancati dai nostri tutor professionisti, che li accompagnano in un percorso di crescita personale e lavorativa”. Ogni panettone viene realizzato con lievito madre ventennale, che garantisce un prodotto di altissima qualità nelle sue varianti Classico (con uvetta e scorze d’arancia), al Pistacchio, al Cioccolato e Particolare (con fichi, noci, arance e copertura di cioccolato). Ogni confezione è, invece, decorata con immagini dei monumenti più iconici di Lecce, come la Basilica di Santa Croce, la colonna di Sant’Oronzo, l’Obelisco o Porta Napoli. Il lavoro quotidiano rappresenta una trasformazione per i detenuti coinvolti. Per loro, questo progetto non è solo un mestiere, ma un percorso di riscoperta personale: “Riassaporano la libertà - prosegue De Matteis - Vengono al lavoro in autobus e, durante il tragitto, sembra che facciano un esame di coscienza. Capiscono che la vita fuori dal carcere è piena di opportunità. Quando arrivano, li vedi motivati, affamati di apprendere un mestiere che si sta perdendo. La cosa più bella è vederli orgogliosi di loro stessi, fieri di aver avuto il coraggio di cambiare”. Sassari. Miracolo di Natale: la detenuta bambina e sua mamma lasciano il carcere La Nuova Sardegna, 20 dicembre 2024 In cella da agosto la piccola di un anno e la donna sono state trasferite in una casa protetta. Il garante Gianfranco Favini: “Un grande risultato, arrivato grazie a una lotta civile contro la burocrazia carceraria e le istituzioni territoriali”. La bimba di un anno, nel carcere di Bancali da agosto, passerà il Natale in una casa protetta dove è stata trasferita insieme alla mamma. A dare la notizia il garante dei detenuti Gianfranco Favini che esulta: “Un grande risultato, con una lotta civile contro la burocrazia carceraria e istituzioni territoriali”. Fin dal 23 ottobre lo stesso Favini aveva promosso una riunione, al carcere di Bancali, di tutti organismi competenti: l’area Socio-Assistenziale, il Comune di Alghero in cui la detenuta ha la residenza, la responsabile dell’area trattamentale del carcere Ilenia Troffa, la garante comunale dei bambini Carmen Fraietta, la direzione del carcere. Con il benestare del presidente del Tribunale di Sorveglianza Giommaria Cuccuru, in questo contesto si era sviluppata l’Idea che, la detenuta e sua figlia venissero trasferite in una casa famiglia protetta in tempi brevi. “Pur con diversi interventi e contestazioni da parte mia - sottolinea Favini - la burocrazia istituzionale ha fatto passare diversi mesi, fino all’ottenimento del trasferimento in una struttura familiare protetta della piccola e di sua mamma. Dalla scorsa settimana le due ex detenute sono serene e felici e certamente per loro sarà un Natale più sereno”. “Certamente invece - continua Favini - questo non sarà un felice Natale per i detenuti in carcere; si prospettano gravi situazioni all’interno delle celle, causa il sovraffollamento della stessa struttura, oltre 520 detenuti, che subiranno un aumento, fino a quattro, dei letti per cella (già sono tre). Questo potrà determinare un abuso di diritto e contemporaneamente causare l’insorgere di proteste nelle varie sezioni. Proteste civili che, a causa della nuova legge che disapprovo, potranno portare a un ulteriore aggravamento della loro condizione di diritti negati dal sistema repressivo carcerario”. Parma. Il Garante dei detenuti: “Teatro in carcere, il carcere della città è un modello” parmatoday.it, 20 dicembre 2024 Si è parlato anche dei suicidi in carcere: “Purtroppo l’Emilia-Romagna detiene questo record negativo, le attività carcerarie diventano il modo principale per sostenere il detenuto nel suo percorso di recupero”. Laboratori di teatro, detenuti attori. Il carcere di Parma si conferma un modello nell’utilizzo dell’attività teatrale come strumento di recupero e reinserimento dei detenuti. Nella casa circondariale della città ducale, infatti, da oltre vent’anni sono attivi progetti teatrali con laboratori che coinvolgono numerosi detenuti. È quanto è emerso nel corso del convegno svoltosi oggi a Parma sul tema dell’attività teatrale in carcere organizzato grazie al contributo del Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri. “Il teatro in carcere è uno strumento che negli anni si è dimostrato particolarmente efficace per il detenuto nel suo percorso rivolto al reinserimento sociale una volta conclusa la pena” ha detto il garante regionale Roberto Cavalieri. Il garante ha parlato poi dei suicidi in carcere: “Purtroppo l’Emilia-Romagna detiene questo record negativo, le attività carcerarie diventano il modo principale per sostenere il detenuto nel suo percorso di recupero e fra queste il teatro ha il più alto tasso di efficacia. Serve contaminare il più possibile l’ambito penitenziario su queste tematiche”. A raccontare l’esperienza parmense sono stati Franca Tragni e Carlo Ferrari di Progetti & Teatro. I due promotori del laboratorio teatrale nel carcere di Parma hanno spiegato che “anche il carcere può diventare un luogo di condivisione, di esperienza, di lavoro, studio, riflessione e crescita”. Sono intervenuti poi sul rapporto con i detenuti: “Gli aspetti centrali di questo lavoro restano il contatto umano con queste persone, le storie, la vita, la voglia di fare, di farsi ascoltare, di essere presenza e parola”. Filo conduttore della giornata: il teatro in carcere strumento per rendere più efficace il percorso di riabilitazione del detenuto. Infatti, numerosi studi dimostrano i vantaggi sia terapeutici sia pedagogici: lavorare per un progetto aperto verso l’esterno, imparando un’arte assieme ad altre persone, favorisce il benessere fisico del detenuto, a partire dall’aspetto dell’autostima. Il docente della Lumsa di Roma Filippo Giordano, che ha attivato diversi studi sul teatro in carcere (anche su Parma), ha ribadito, parlando delle sue ricerche, che “si genera da subito un cambiamento a livello individuale del detenuto, con ricadute positive sulla dimensione psicologica: il carcerato acquisisce nuove abilità e con il lavoro di gruppo migliora le capacità a relazionarsi”. Si registrano poi, ha aggiunto, “vantaggi nell’intero sistema carcerario, migliorano le relazioni tra detenuti e operatori, aumenta anche il rispetto delle regole”. Infine, ha concluso il docente, “migliorano per il detenuto i rapporti con l’esterno, a partire dalla famiglia”. Trento. Da oggi un murales colora il carcere di Spini di Gardolo ildolomiti.it, 20 dicembre 2024 L’opera realizzata dai detenuti con la supervisione dell’associazione Slow Cinema e delle artiste Silvia Gadda e Laura Ghianda. L’opera è ispirata al tema dell’inverno, visto come una stagione di riposo e cambiamento. “L’iniziativa, accolta con molto favore dalla popolazione detenuta, ha contribuito a rendere meno grigio il carcere” ha spiegato la direttrice della struttura Annarita Nuzzaci. Il murales è stato realizzato grazie al contributo comunale e alla donazione liberale della società Vitrum. È stata una mattina speciale per i detenuti della casa circondariale di Trento che, insieme all’associazione Slow Cinema hanno preso parte al progetto “Magie d’inverno”. Guidati da Silvia Gadda e Laura Ghianda, nel corso di quattro incontri della durata di tre ore ciascuno, i partecipanti hanno collaborato alla realizzazione di un murales ispirato al tema dell’inverno, riflettendo sul significato di questa stagione di riposo e cambiamento. “Il progetto “Magie d’inverno” è stato un’importante occasione per costruire bellezza insieme ai detenuti della casa circondariale, trasformando un luogo che raramente consideriamo parte viva della città - hanno spiegato le due artiste -. Le persone detenute sono state coinvolte in ogni fase del progetto, dalla pianificazione alla realizzazione del murales, mettendo in luce talenti e risorse spesso inespressi. L’intero gruppo ha risposto con impegno ed entusiasmo, dimostrando come, attraverso l’arte, sia possibile valorizzare le capacità individuali e contribuire alla creazione di una comunità più inclusiva e consapevole”. Della stessa opinione anche la vice sindaca e assessora alla Cultura Elisabetta Bozzarelli: “La cultura deve essere un diritto garantito a tutta la cittadinanza e non solo un’esperienza da vivere nei luoghi canonici. Con l’iniziativa “Natale per tutti” il Comune ha voluto portare l’arte e la conoscenza anche in quegli ambienti che normalmente non sarebbero deputati ad ospitarla. L’arte è entrata in carcere, nelle residenze assistenziali e in ospedale portando con sé anche la gioia dell’incontro e della condivisione. È il contributo della città per l’inclusione di tutti e tutte ed è solo il primo passo di un importante cammino iniziato a dicembre”. “Ringrazio il Comune di Trento, in particolare l’assessora alla Cultura, per la bellissima iniziativa “Magie d’inverno”, che testimonia l’attenzione dell’Amministrazione alla casa circondariale di Trento e la rende parte integrante della città - ha concluso la direttrice della struttura Annarita Nuzzaci -. L’iniziativa, accolta con molto favore dalla popolazione detenuta, ha contribuito a rendere meno grigio il carcere”. L’iniziativa è stata realizzata grazie al contributo comunale e alla donazione liberale della società Vitrum, che ha finanziato il progetto con un importo pari a 744 euro, coprendo il venti per cento della spesa complessiva. A ciò si aggiunge la partnership dell’Associazione di promozione e assistenza sociale, organizzazione attiva da oltre quarant’anni nel supporto e nella riabilitazione di persone autrici di reato, che ha offerto una consulenza preliminare in fase di ideazione e ha fornito la sua supervisione durante lo svolgimento dell’evento. Torino. L’Arcivescovo Repole ai carcerati: “Gesù viene per tutti” di Marina Lomunno Avvenire, 20 dicembre 2024 “L’avventura della strada, la gioia dell’incontro con gli altri, la cura verso i più fragili: questo deve animare il vostro servizio di cardinali”. Sono le priorità che papa Francesco ha indicato ai 21 cardinali creati nel concistoro dello scorso 7 dicembre e che l’arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Roberto Repole, ha iniziato a rendere visibili nelle prime uscite pubbliche con la porpora. Martedì 10, appena tornato da Roma, ha presieduto la Messa presso l’Arsenale della Pace: l’occasione il 60° di fondazione, da parte di Ernesto Olivero e numerosi amici, del Sermig, il Servizio missionario giovani che dal 1983 a Torino e poi in Brasile e Giordania cammina accanto agli emarginati e accoglie gli “scartati” della società. E poi domenica 15, durante l’abbraccio con i torinesi e i valsusini che hanno gremito la cattedrale di Torino per la Messa di ringraziamento, Repole nell’omelia ha richiamato commosso Yasmine: “La bambina della Sierra Leone in fuga in un mondo segnato da guerre, violenze, poteri che si scontrano”, unica sopravvissuta al naufragio nel mare di Lampedusa alla ricerca di futuro insieme a 44 disperati nel barcone dove invece hanno trovato la morte. “Che cosa dobbiamo fare perché questo Natale sia il nostro Natale? Dobbiamo reimparare a condividere e ce n’è un immenso bisogno nell’umanità di oggi”. Stesso invito rivolto ieri ai reclusi e alle recluse, durante la Messa natalizia nella Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” afflitta - come altre carceri della Penisola - da sovraffollamento, carenza di personale e strutture obsolete. Il cardinale, accompagnato dalla direttrice Elena Lombardi Vallauri, prima dell’Eucaristia si è soffermato in preghiera per incoraggiare un gruppo di agenti penitenziari. E poi nella cappella del carcere - dove campeggia un ritratto di san Giuseppe Cafasso, il patrono dei detenuti, che abbraccia un recluso e l’icona della Madonna Consolata - Repole, commentando il Vangelo della genealogia di Gesù, ha ricordato che “in ogni nome pronunciato, in ognuno di noi c’è una storia di gioie, umiliazioni, errori, fragilità e successi. Ma ogni nome ci dice che siamo persone uniche, irripetibili”. Ecco il senso della lunga lista di nomi degli antenati di Gesù, un bambino figlio di un popolo che ha a che fare con tutta l’umanità, nel bene e nel male, che ha condiviso con noi gioie e sofferenze, anche il carcere (ero carcerato e siete venuti a trovarmi). “Gesù è venuto per tutti” ha proseguito il cardinale “anche per me che ho sbagliato perché tutti sperimentiamo il fallimento nella vita ma Gesù, figlio dell’umanità è figlio di Dio e anche nei luoghi di sofferenza. Ci dice che dagli errori, dalle sconfitte possiamo rialzarci e ricominciare: è l’augurio che faccio a tutti voi”. Al termine della Messa, il diacono Michele Burzio, a nome dei cappellani, dei volontari, dei detenuti e del personale ringrazia Repole per aver scelto il carcere, luogo di fragilità, per celebrare la sua prima Messa da cardinale nella Novena di Natale. “Le siamo riconoscenti di essere qui perché per noi la sua presenza oggi segna l’inizio del prossimo Giubileo della Speranza: qui tutti abbiamo bisogno di speranza, non ci dimentichi”. E scoppia un applauso, tra i volti rigati dalle lacrime. “A Natale pregherò per voi, per i vostri cari ma voi pregate per me perché questo nuovo mio incarico possa essere come ci ha detto papa Francesco segno di speranza e di luce del Dio che viene a salvarci e ad abbattere le sbarre che ci dividono”. La repressione non guarisce una società malata di Franco Corleone L’Espresso, 20 dicembre 2024 Il 6 e 7 dicembre si è svolta a Roma una Conferenza nazionale autogestita per la Salute Mentale promossa da un cartello vastissimo di associazioni che hanno voluto far sentire la voce dell’indignazione contro l’involuzione autoritaria che vuole schiacciare i deboli, i soggetti fragili, i migranti, i poveri, i detenuti. Appare sempre più chiaro il disegno del governo Meloni di riscrivere la storia del Paese: cancellare o deformare le leggi che hanno affermato i diritti e prevedere nuovi reati o aggravare le pene. L’elenco è ormai lungo: dalla previsione del reato universale di gestazione per altri alla limitazione di fatto dell’interruzione di gravidanza, dai limiti al diritto di manifestazione e di sciopero all’aumento delle pene per i fatti di lieve entità previsti dalla legge antidroga, dalla equiparazione della canapa tessile a quella stupefacente e alla nomina di un commissario per l’edilizia penitenziaria, dalla costruzione del Centro rimpatri in Albania al carcere per le detenute madri e le donne in gravidanza. La proposta più provocatoria nel centenario di Basaglia è la riscrittura della legge 180 da parte di un oscuro senatore di Fratelli d’Italia che tra le tante perle prevede il Tso in carcere, la presenza di piccoli manicomi nelle prigioni e la trasformazione delle Rems in mini-Opg. Ha ragione Maurizio Landini, che nel suo intervento ha affermato come lo spartiacque rappresentato dalla chiusura dei manicomi del 1978 andasse oltre l’obiettivo specifico e abbia messo al centro la persona e non la malattia Dai gruppi di lavoro è emerso il quadro di una società malata e insoddisfatta; ma se il disagio sociale si espande, la risposta non può venire da una psichiatrizzazione di massa e dal ricorso magico ai farmaci: occorre costruire città solidali e realizzare alleanze contro le solitudini. Un’attenzione particolare è stata rivolta alla situazione del carcere, un non-luogo ridotto a un ammasso di corpi senza speranza. Una polemica spesso strumentale dipinge le prigioni come piene di matti, per nascondere la realtà di una detenzione sociale insopportabile, resa evidente dal sovraffollamento e dal numero record di suicidi. Le cose da fare per contrastare la voglia di pratica muscolare, manifestata dal video di propaganda del calendario della Polizia penitenziaria, sono chiare. Dopo 35 anni dall’ultimo provvedimento (dalla bulimia all’anoressia!), approvare un’amnistia e un indulto accompagnati da una legge che preveda il numero chiuso in carcere e l’istituzione di case di reinserimento sociale di piccole dimensioni, diffuse sul territorio e gestite dai sindaci, dai servizi sociali e dal volontariato. Un carcere ridotto a sole trentamila presenze potrebbe realizzare la sfida dell’articolo 27, che Meloni e Delmastro vorrebbero invece stravolgere. Molte battaglie di scopo sono già state indicate: eliminare le misure di sicurezza e le case lavoro, dare cittadinanza a tutti i detenuti, realizzare il diritto ai colloqui intimi senza controllo visivo, vietare l’isolamento disciplinare. L’interrogativo del che fare ha aleggiato nelle menti e nei cuori e la risposta della disobbedienza civile ha convinto. Un primo segno di resistenza è offerto dalla Marcia nonviolenta organizzata per sabato 21 dicembre a Udine, dal Duomo al carcere di Via Spalato: uomini e donne sfileranno con una rosa bianca in mano. Scuola e giovani. I coltelli nello zaino e il bisogno di una comunità che educhi di Daniele Novara Avvenire, 20 dicembre 2024 Qualche sera fa ero a Conselve, in provincia di Padova, per un incontro rivolto ai genitori. Sono spesso in giro dal nord al sud d’Italia per cercare di aiutare questa categoria che si trova in uno stato di particolare fragilità e a cui mi sto dedicando insieme al mio Istituto Cpp da tantissimi anni. Alla fine del mio intervento sul tema Il coraggio di educare, tra i duecento partecipanti, un signore alza la mano: “Perché i ragazzi si portano dietro i coltelli?”. Se persistevano dubbi sulla consistenza del fenomeno, senz’altro questa domanda non lascia molto spazio a equivoci. Anche in studio mi capita di incontrare ragazzini di quattordici, quindici, sedici anni che confessano candidamente di tenere un coltello nello zaino o di essere pronti a infilarsi in una rissa con una certa naturalezza. Sembra esserci in alcuni ragazzi, prevalentemente di sesso maschile, una profonda inconsapevolezza, se non ignoranza, di una delle basi principali della vita e della convivenza civile: l’uso della forza, anche in termini di costrizione, è in capo all’istituzione statale e nessuno, nello stato di diritto, può farsi giustizia da solo. È un basilare che, a partire dall’adolescenza - undici, dodici anni -, ciascun ragazzo o ragazza, anche in relazione alla forza fisica che può agire nei confronti degli altri, deve aver interiorizzato o comunque interiorizzare. A quanto pare, per molti di loro non è così. Emerge un problema, da un lato di disadattamento da parte di alcune tipologie di adolescenti, dall’altro di scarsa sintonizzazione fra alcune culture di origine di certi ragazzi stranieri rispetto alla nostra, sia italiana sia europea. È risaputo che l’uso del coltello ha significati profondamente diversi a seconda degli ambienti antropologici in cui viene impiegato. Sottovalutare questo dato è molto pericoloso: sia perché rischia di dare per scontato che i ragazzi arrivati in Italia si adeguino con naturalezza e spontaneità alle norme e alle abitudini in cui vanno a collocarsi, sia perché finisce con il dimenticare l’importanza dei processi di apprendimento per imparare a saper stare al mondo. Devo purtroppo constatare che l’introduzione dell’Educazione Civica realizzata tre anni fa nelle scuole italiane non ha in alcun modo previsto la gestione dei conflitti come ambito non solo rilevante, ma prioritario della relazione con gli altri e dello stare assieme come comunità. Non sempre le scuole, in assenza delle famiglie, sembrano ingaggiate e motivate su questo versante. Specie nelle superiori, la prevalenza della pura e semplice trasmissione di contenuti attraverso le lezioni (frontali) la fa da padrone dimenticando che alla base di tutto ci sta conoscere sé stessi e le regole che improntano le relazioni sociali. Finisce così che l’uso del coltello venga considerato un sottotraccia scolastico di scarso rilievo creando pertanto una sorta di riluttanza ad affrontare, anche in termini di problematizzazione, determinate competenze che appartengono proprio all’apprendimento sociale profondo. È fondamentale che i genitori siano informati. Genitori che spesso sono solo le mamme. Non so quante volte mi trovo a dover ribadire l’importanza del padre, ma spesso queste situazioni drammatiche si creano proprio in un’orfanità paterna davvero devastante per un adolescente. Motivo in più perché la comunità - scolastica, sportiva, civile, religiosa - sopperisca evitando di lasciare questi ragazzi in un limbo di incertezze che finiscono con il creare in loro stessi degli equivoci spaventosi. L’equivoco del duello, per esempio, eliminato nella legislazione italiana soltanto nel 1930 e che ha visto protagonisti personaggi quali il Primo Ministro Cavour, Felice Cavallotti, gli stessi Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio. Per fortuna sono tempi lontani e occorre chiarire che la rissa in quanto tale non ha niente a che vedere con il comune conflitto o litigio. È una forma completamente diversa che anche dal punto di vista giuridico viene valutata in tutt’altro modo. Nella rissa basata sull’aggressione fisica ciascun contendente tenta di colpire, ferire e neutralizzare violentemente il presunto nemico. Viceversa, il conflitto è una forma di contrasto che non prevede la violenza. Abbiamo bisogno che le istituzioni educative, nel momento in cui la famiglia è palesemente assente, sappiano offrire a questi ragazzi una capacità di affrontare le loro tensioni non con la sfida all’eliminazione reciproca, tipica di queste risse con il coltello, ma la possibilità di comunicare, discutere e gestire le proprie divergenze. È ora che la scuola, per esempio, recuperi nelle classi il gusto della discussione e del confronto per imparare a vivere la contraddizione fra le persone come momento fondante della convivenza e della democrazia. Si tratta di imparare queste competenze senza prediche o spiegoni, offrendo apprendimenti concreti, pratici, operativi. Le scuole sono il luogo elettivo per tutto questo, ma possono esserlo anche i centri educativi, gli oratori e le associazioni sportive. Occorre un confronto più ampio che non deleghi queste vicende né ai soli tribunali né alle sole forze dell’ordine. Anzi, in primis viene il mondo dell’educazione. Mi auguro che questa emergenza si trasformi in una grande occasione di apprendimento. Diritto d’asilo, il giudice può disapplicare i decreti sui Paesi sicuri: primo avviso della Cassazione di Valentina Stella Il Dubbio, 20 dicembre 2024 Il provvedimento riguardava il rigetto, da parte di una Commissione territoriale, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo (la Tunisia) inserito nell’elenco dei Paesi di origine sicuri. Spetta “al circuito democratico della rappresentanza popolare la scelta politica di prevedere, in conformità con la disciplina europea, un regime differenziato di esame delle domande di asilo per gli stranieri che provengono da paesi di origine designati come sicuri”. E dunque il giudice “non può sostituirsi al ministro degli Affari esteri” né “può annullare con effetti erga omnes il decreto ministeriale”. Tuttavia “il giudice ordinario, nell’ambito dell’esame completo ed ex nunc, può valutare, sulla base delle fonti istituzionali e qualificate di cui all’art. 37 della direttiva 2013/ 32/ UE, la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale, in parte qua, il decreto ministeriale recante la lista dei paesi di origine sicuri (secondo la disciplina ratione temporis), allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale”. È quanto affermato ieri da una sentenza della prima sezione civile della Corte di Cassazione, che ha risposto ad un rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma del 1° luglio scorso. Il provvedimento riguardava il rigetto, da parte di una Commissione territoriale, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo (la Tunisia) inserito nell’elenco dei Paesi di origine sicuri. Si legge inoltre nella pronuncia di Piazza Cavour che “a garanzia dell’effettività del ricorso e della tutela, il giudice conserva l’istituzionale potere cognitorio, ispirato al principio di cooperazione istruttoria, là dove il richiedente abbia adeguatamente dedotto l’insicurezza nelle circostanze specifiche in cui egli si trova. In quest’ultimo caso, pertanto, la valutazione governativa circa la natura sicura del paese di origine non è decisiva, sicché non si pone un problema di disapplicazione del decreto ministeriale”. La decisione si riferisce però a una richiesta dei giudici romani fatta prima dell’approvazione del Dl “Paesi sicuri” e del Dl “Flussi” che tante polemiche e scontri fra magistratura e politica hanno scatenato. Migranti. Ainis: “Soccorrere è un dovere. La politica non sia esente dal rispetto delle leggi” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 20 dicembre 2024 Intervista al costituzionalista Michele Ainis sul processo a Matteo Salvini: “Il nostro tempo è diventato più crudo ed è un tempo di crisi del diritto internazionale. Ebbene, questa crisi non va assecondata né giustificata”. “Io non devo anticipare le sentenze dei giudici: quel che posso dire è che il nostro tempo è diventato più crudo ed è un tempo di crisi del diritto internazionale. Ebbene, questa crisi non va assecondata né giustificata”. Parola del costituzionalista Michele Ainis, che non si sbilancia sulla sentenza prevista per oggi del processo Open Arms contro Matteo Salvini ma, aggiunge, “un atto politico non è svincolato dal rispetto delle leggi”. Professor Ainis, tra poche ore arriverà la sentenza sul caso Open Arms che vede protagonista Matteo Salvini: come si concilia il diritto internazionale con quella che l’allora ministro dell’Interno chiamava “difesa dei confini”? Innanzitutto occorre dire che il diritto internazionale è ormai diritto nazionale, perché ci sono due norme della nostra Costituzione che ne affermano l’incorporazione nel diritto interno. Sono da un lato l’articolo 10 che scrissero i costituenti e cioè che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale, genericamente riconosciuto, che significa anche quello consuetudinario. Dall’altro c’è la norma che è stata aggiunta nel 2001 con la riforma del titolo V nel quale, articolo 117, si dice che le leggi dello Stato e delle regioni devono rispettare non solo la Costituzione ma anche gli obblighi internazionali. Tra questi c’è il soccorso in mare, che l’Italia ha sempre effettuato anche se poi si contesta a Salvini il sequestro di persona per le decine di migranti rimasti sulla Open Arms per giorni: che ne pensa? Qui c’è in gioco un principio molto antico che è il diritto naturale, il quale è diverso da quello positivo cioè scandito da norme scritte. Il diritto naturale riguarda ciò che si ritiene dover essere rispettato per la natura stessa dell’uomo. E cioè l’obbligo di soccorrere naufraghi e profughi in mare. E riguarda anche il valore essenziale primario della vita, della salute e della libertà degli esseri umani. Quindi il soccorso alle imbarcazioni in difficoltà in mare è sempre stato praticato. Lo è a maggior ragione oggi perché è trasposto in vari documenti internazionali. Cioè? Beh, basti pensare alla convenzione di Ginevra, che abbiamo ratificato nel 1954, e altri più recenti come la convenzione di Amburgo su ricerca e soccorso in mare ratificata nel 1989 o la convenzione sul diritto del mare ratificata nel 1994 e la stessa carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Insomma, ci sono una pioggia di atti normativi che vincolano ciascuno Stato, e quindi anche l’Italia, a rispettarli. E sul sequestro di persona? Salvini ne parla come di un atto politico… È come se un ministro in carica, Salvini o chi per lui, decidesse che lei non può uscire di casa per un mese. Può farlo, poi saranno i giudici a valutare se si tratta di un atto politico. Ma anche se così fosse, un atto politico non è svincolato dal rispetto delle leggi. I giudici di Palermo ritengono si sia trattato di un atto amministrativo ed è stata documentata la contrarietà del presidente del Consiglio dell’epoca, cioè Giuseppe Conte, rispetto alla decisione di un suo ministro e quindi c’è responsabilità individuale. Detto ciò, io non devo anticipare le sentenze dei giudici. Quel che posso dire è che il nostro tempo è diventato più crudo ed è un tempo di crisi del diritto internazionale. Ebbene, questa crisi non va assecondata né giustificata. Pensa che la sentenza di oggi potrebbe avere ripercussioni sulla futura gestione dei migranti in Italia e in Europa? Certamente avrà un effetto di inasprimento, ammesso che ce ne fosse bisogno, delle tensioni tra politica e giustizia. Noi viviamo nel tempo della paura, per la crisi climatica, per le guerre, e anche per i fenomeni migratori, perché quando questi sono di massa ci fanno sentire in pericolo riguardo alla nostra identità. Questo tempo della paura ha fatto soffiare in tutto il mondo un vento di destra che sta mettendo in forte crisi la democrazia. Se pensiamo ai quattro Stati più potenti del pianeta, due sono autocrazie se non proprio regimi autoritari, cioè Russia e Cina, altri due sono democrazia, cioè India e Usa. Ma negli Usa ha vinto Trump anche cavalcando una continua polemica con il potere giudiziario e promettendo di riformare i muri per respingere i migranti. In India governa Modi che è artefice di politiche discriminatorie e persecutorie verso la minoranza musulmana, che poi sono centinaia di milioni di persone. Tutto questo è negazione dei principi liberali e democratici. Salvini ne sta facendo una questione politica, e anche il centrosinistra sembra vederla allo stesso modo… Credo che in questa situazione ci sia anche una responsabilità della sinistra anche italiana. Perché certamente non si può accogliere tutti, bisogna gestire i flussi e la difficoltà ma senza tradire del tutto i principi della democrazia che ci è stata consegnata dai padri costituenti. Il diritto del più forte è un vecchio tema che investe tutta la civiltà giuridica a partire al 700 e il diritto stesso è uno strumento che serve ai deboli, non ai forti. Il principio di eguaglianza sostanziale presente in Costituzione sostanziale cos’è se non un soccorso per i più deboli e una loro difesa? Se si fa una ricognizione delle norme costituzionali si vedrà che molte di queste sono destinate alle categorie deboli, dai disoccupati ai malati, fino ai bambini e agli stessi migranti. I regimi cadono perché la violenza non è mai potere reale di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 20 dicembre 2024 La caduta di Assad mostra la debolezza strutturale delle dittature. Da Damasco a Kabul fino a Teheran sono ora in gioco gli equilibri della regione. Ma serve l’impegno di tutti per far risalire i diritti nelle agende internazionali. Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, dissidente iraniana in carcere con condanne che si accumulano invece di consumarsi, ha scritto tempo fa una lettera al mondo invitandoci ad ascoltare il sibilo che arriva quando un muro comincia a creparsi e finalmente l’aria passa. Succede ogni volta che la presunta “stabilità” dei regimi viene svelata nella sua debolezza strutturale. Succede se la gente comincia ad avere meno paura. E succederà, assicura ottimista Mohammadi - nonostante la reclusione, lo strazio dovuto a cardiopatie e un sospetto cancro, la separazione dai figli che erano bambini e sono ormai maggiorenni -, “succederà che un giorno quel muro, eroso, verrà giù di colpo”. Lo abbiamo visto a Berlino, nel novembre di un altro secolo, e ci sembrava impossibile che si chiudesse così - con una festa - la guerra fredda. E ora in Siria, domenica 8 dicembre. In undici giorni e poche ore è finito in briciole, con i colpi di kalashnikov a sostituire i fuochi d’artificio, il dominio feroce degli Assad, cinquantaquattro anni di asfissia e di sangue passati come uno scalpo dal padre Hafez al figlio Bashar. Abbiamo osservato i ribelli scendere inarrestabili verso Damasco. La capitale che cede, senza resistenza, con i soldati che stracciano le uniformi e consegnano le armi. Ai primi inviati dei giornali stranieri, tra cui Andrea Nicastro del Corriere, una giovane donna dice di temere di scoprirsi sonnambula: “Forse sto dormendo e questo è l’ultimo sogno”. Molti di quanti hanno cantato e ballato il sollievo, respirando aria nuova, sanno che niente è scontato: potrebbero essere le luci che precedono un altro buio, pronto a calare su un Paese diviso in zone controllate da gruppi rivali, in armi, con alleati contrapposti. Ma, come ha scritto l’analista Nathalie Tocci su La Stampa, la caduta di Bashar Assad ha messo in discussione “il realismo irrealistico” della nostra politica estera che tende a vedere negli autoritarismi “una stabilità granitica”. È sempre quell’idea, nuova e già vecchia, che le dittature, le autocrazie, le democrature siano più adatte a governare i tempi di crisi, più capaci… Più capaci di cosa? Seminano e coltivano disordine, dentro e fuori. Noi scambiamo la longevità, relativa, di governi illiberali/sessisti/guerrafondai per efficacia. È un nostro errore, che ripetiamo a ogni giro, mentre passiamo in rassegna le debolezze delle democrazie liberali esposte, giustamente, al dibattito nei Parlamenti e sui media. Dovremmo, al contrario, tornare a riconoscere che la violenza - la forza di uno Stato esercitata brutalmente - non corrisponde mai a un potere reale. Per questo, crollerà anche il sistema più dispotico. È ancora la lezione di Hannah Arendt, Sulla Violenza, 1969. Il fattore umano risale e dirompe, non si lascia cancellare. In poche ore, la gente di Damasco ha scoperchiato i suoi luoghi oscuri: i piani sotterranei delle prigioni, dove i bimbi venivano rinchiusi con le madri, e il garage del palazzo presidenziale sulla collina, affollato da cento bolidi ad uso familiare. La fuga di Assad con moglie e figli - 500 mila morti, 112 mila dispersi e milioni di sfollati dopo - ha riacceso la speranza che il tormentato processo innescato dalle primavere arabe, nel 2011, riprenda il suo cammino. Il leader che si raccontava eterno era in bilico, come quelle statue fuori misura e fuori tempo. È vero che la caduta di Damasco potrebbe alimentare un idealismo altrettanto irrealistico. Ci interroghiamo sugli scenari, speriamo e nello stesso tempo temiamo che dalla tirannia di un clan (gli Assad) chiuso nel recinto di una minoranza (gli alawiti) la Siria passi all’egemonia radicale di una maggioranza sunnita salafita. Il cui leader (Ahmed al-Sharaa, fino a ieri semplicemente “Al Jolani”) si è spostato rapidamente dai campi jihadisti (Al Qaeda, Al Nusra, temporaneamente pure l’Isis) a una militanza nazionalista, pragmatica, che oggi promette libertà religiose e non minaccia attentati oltre confine. L’incertezza grava in particolare sul destino delle donne: non pochi tra gli osservatori vedono profilarsi in Siria lo scenario di un (altro) apartheid di genere. Abbiamo già abbandonato le afghane, cancellate dall’ordine del giorno nei primi incontri riavviati con i talebani. Riproviamoci - da Damasco a Kabul fino a Teheran - ora che sono in gioco gli equilibri futuri della regione: impegniamoci a far risalire i diritti nelle agende internazionali.