Il lavoro in carcere serve ed è poco. Ma entro fine anno sarà ancora meno di Alice Dominese Il Domani, 1 dicembre 2024 Il numero di detenuti che lavora dovrà essere tagliato per budget insufficiente. La replica di Nordio: “Aumentati i fondi”. In almeno tre regioni italiane, le persone detenute che lavorano in carcere dovranno essere ridotte entro fine anno, perché i soldi stanziati dal ministero non bastano. Il taglio al personale dovrebbe riguardare in particolare i detenuti caregiver e chi opera nel settore culturale. “Dal suo insediamento il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha più volte parlato dell’importanza del lavoro in carcere per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbattere il tasso di recidiva, ma nella pratica si sta facendo l’esatto opposto”. Queste le parole di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale Antigone, in riferimento alla nota del Provveditorato regionale di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta che chiede ai direttori carcerari di ridurre la spesa dedicata ai detenuti lavoratori. Diminuire le ore - I fondi resi disponibili per il pagamento dei detenuti che lavorano in carcere, si legge nella nota, sono meno della metà rispetto a quelli richiesti. Le direzioni carcerarie delle tre regioni avevano chiesto a maggio due milioni di euro per garantire la sostenibilità dei detenuti lavoratori nei loro istituti, ma i fondi che sono stati assegnati di recente al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono inferiori al 50 per cento del fabbisogno. La richiesta del Provveditorato, arrivata a ottobre, è quindi quella di ridimensionare il numero di detenuti lavoratori il prima possibile per rispettare il budget messo a disposizione per il 2024. La raccomandazione è in particolare quella di diminuire le ore di impiego e valutare un taglio dei detenuti che lavorano nell’assistenza alla persona, come bibliotecari e “scrivani”. Questi ultimi si occupano di scrivere le cosiddette domandine, cioè i documenti che servono ai detenuti per rivolgere le proprie richieste ad amministrazione, mediatori culturali o psicologi, tra gli altri. La loro funzione, per chi vive in carcere, è spesso fondamentale, così come quella di coloro che svolgono il lavoro di caregiver per altri detenuti disabili o che non sono pienamente autosufficienti. I bibliotecari contribuiscono poi al mantenimento di uno dei pochi spazi culturali negli istituti di pena, dove i detenuti hanno accesso all’apprendimento, al confronto e allo sviluppo della creatività, come previsto dall’ordinamento penitenziario. Lavori intramurali come questi, oltre a essere tra le poche attività che permettono alle persone detenute di contrastare il disagio diffuso, affrontare le spese penitenziarie e giudiziarie e disporre di un sostentamento economico, consentono al carcere stesso di funzionare. Tra gli altri lavori svolti dai detenuti ci sono infatti la distribuzione del vitto, le manutenzioni ordinarie, interventi di carpenteria e idraulica. Negli ultimi anni, in regioni come la Sicilia, molte strutture sono state rimesse in sesto attraverso lavori di manutenzione svolti proprio dai detenuti assunti. L’importanza del lavoro - Nelle carceri italiane, tra sovraffollamento costante e condizioni di vita precarie, il lavoro e la formazione sono riconosciuti dalla Costituzione come strumenti di reintegrazione sociale dei reclusi. Diverse persone detenute raccontano che il lavoro ha rappresentato per loro un cambiamento sostanziale: “Mi alzo la mattina con la voglia di fare sempre di più, di migliorarmi. Mi sono accorta per la prima volta nella mia vita di essere brava in qualcosa”. Per alcune di loro avere un impiego ha rappresentato uno strumento di emancipazione economica e non solo: “Ho lottato con mio marito che era molto contrario che io lavorassi e con tenacia e tanta voglia di cominciare invece ce l’ho fatta. Ora ho la possibilità di sentirmi utile verso i miei figli, a cui riesco a non far mancare i beni di prima necessità”. Secondo i dati ministeriali, dei circa 60 mila detenuti e detenute in Italia, solo il 33 per cento ha un contratto di assunzione regolare, di cui l’85 per cento per conto degli istituti penitenziari. Se il lavoro in carcere assomiglia a un privilegio, nelle regioni in questione, rischia di diventarlo ancora di più. “Alla luce di questa nota, i direttori dovranno comunicare ai detenuti che o smettono di lavorare o iniziano a fare molte più ore di lavoro non pagate, il che già avviene, ma verranno duplicate. Oppure dovranno inventarsi delle turnazioni e chiudere alcuni servizi” dice Michele Miravalle, responsabile dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone. La risposta del ministero - In un comunicato, il ministero della Giustizia afferma di aver previsto a livello nazionale un piano di investimenti straordinario destinato ad aumentare la retribuzione del lavoro intramurale dei detenuti, le opportunità di lavoro in carcere e la formazione professionale. Per il 2024 il budget ammonta a 128 milioni di euro. “L’aumento delle risorse”, scrive il ministero, “ha riguardato anche il Provveditorato regionale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: al Prap (Provveditorato ndr) di Torino, esclusivamente per la retribuzione del lavoro dei detenuti, nel 2023 sono stati assegnati fondi pari a euro 12.898.178, saliti nel 2024 a euro 13.243.993”. La garante per i diritti delle persone private della libertà del comune di Torino Monica Cristina Gallo ritiene anomala la risposta del ministero sul fatto che in Piemonte non si stia verificando quando dichiarato dal Provveditorato e su questo chiede chiarezza. Il lavoro per i detenuti intanto resta un’esigenza. “In questi anni abbiamo fatto migliaia di colloqui nel carcere di Torino. Se al primo posto il 70 per cento chiede l’accesso alla salute, il 60 chiede di avere un lavoro” spiega la garante. Per Bruno Mellano, garante dei detenuti del Piemonte, l’aumento dei fondi a disposizione degli istituti della regione in questi anni ha permesso di potenziare i posti di lavoro per chi sconta una pena, nell’ottica di far scendere le tensioni in carcere. Tuttavia i soldi a disposizione, a livello nazionale, non sono mai stati adeguati. “La novità della circolare del Provveditorato è la tassatività di far rientrare i conti sulla base di un budget del tutto insufficiente per postazioni lavorative che erano state di fatto incentivate. Si deve auspicare la previsione di fondi integrativi, anche al limite nella nuova annualità”. Abbiamo costruito l’inferno e lo abbiamo chiamato carcere di Diana Zogno L’Unità, 1 dicembre 2024 Nella vita a Rebibbia “vedi la tossicodipendenza, l’uso e abuso di psicofarmaci, donne che girano come zombie. Puoi assistere alla morte”. A testimoniarlo è Bruna Arcieri, detenuta, appartenente a quell’esiguo numero di reclusi che, in Italia, con l’applicazione dell’art. 21 della legge sull’ordinamento penitenziario, possono uscire dal carcere per essere assegnati a lavori esterni agli istituti penitenziari. L’occasione per parlare della sua e di altre storie che vivono e percorrono le carceri arriva con il seminario “Le attività d’inclusione durante e dopo la detenzione” organizzato da Unitelma Sapienza lo scorso 28 ottobre per raccontare il lavoro che l’Ateneo e il contact center in particolare, sta portando avanti a Roma in partnership con la cooperativa Etam, coordinata da Don Sandro Spriano. “Per capire che cosa una persona vive in certi momenti, occorre entrarci in interazione diretta e farlo con umiltà” ricorda il Rettore Bruno Botta. “Offrire delle opportunità significa mettere nelle condizioni qualcuno di fare qualcosa, senza dover mettere in evidenza le sue esperienze passate. Sta a noi, piano piano, comprendere la bellezza di quello che stiamo vivendo, non solo nel donare opportunità, ma anche nel capire. Se noi per primi non ci mettiamo a disposizione e non mettiamo gli altri nella condizione di capire, di provare, di avere opportunità, abbiamo fallito”. Un fallimento, quello della mancata vocazione all’inclusione e al rispetto dei diritti, che è già realtà sul piano dei fatti e della legge in Italia. “Pannella diceva che la nostra Costituzione è così buona che se la sono mangiata” ricorda Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino. “La Costituzione viene costantemente violata. La finalità, per esempio, costituzionale che prevede il percorso individuale del detenuto verso la risocializzazione non è percepito né presente nelle carceri nazionali. Tornando infatti al codice di ordinamento penitenziario”, prosegue Rita Bernardini, “basti pensare che questo contiene diversi articoli che non sono mai stati attuati e articoli dal 74 in poi che istituiscono i Consigli di aiuto sociale, istituzioni che non sono mai state realizzate e che avrebbero dovuto avere una forte valenza sociale per l’inserimento del detenuto in una rete di supporto, che poi l’avrebbe condotto a trovare o ritrovare il proprio inserimento lavorativo. Con l’On. Roberto Giachetti, con cui da decenni siamo al lavoro su questi temi, abbiamo presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per chiedere che fine hanno fatto i Consigli di aiuto sociale. In realtà, su oltre 62mila detenuti che oggi sono presenti nelle carceri - in 45mila posti disponibili - meno di 2.000 hanno l’opportunità di fare esperienze esterne di inserimento anche lavorativo. L’ordinamento penitenziario stabilisce l’esistenza di un percorso individualizzato di trattamento. Vale a dirsi che dovrebbero esserci dei professionisti: educatori, psicologi, criminologi per attuare questo percorso che deve portare al reinserimento sociale. Molti detenuti, tuttavia, non hanno mai visto un educatore, non conoscono neanche il concetto di percorso individualizzato, sono abbandonati a loro stessi. Così la legge non vive e perisce la carne viva delle persone”. A ricordare l’inferno, perché di inferno in Terra parlano i numeri del sovraffollamento e delle morti negli istituti penitenziari, è lo stesso Don Sandro Spriano che da anni coordina la Cooperativa ETAM e che citando la Bibbia dà voce a un messaggio antico, attuale, profondamente umano. “Quando ho iniziato a frequentare le carceri ho pensato all’inferno così come è descritto, la geenna, la ‘valle di Innom’, dove si compiva il sacrificio dei bambini con il fuoco, una società di catene, della non solidarietà”. La stessa ‘non solidarietà’ che porta morte negli istituti penitenziari sotto lo stigma di un’indifferenza istituzionale e politica senza precedenti. E se proprio l’indifferenza, l’egoismo, la violenza diventano i pilastri di quegli istituti di democrazia dove la grazia della giustizia dovrebbe essere faro di verità e speranza, come possiamo immaginare che oltre quelle sbarre, la società specchio dei non detenuti, si regga su principi diversi? Abbiamo costruito l’inferno e gli abbiamo dato un nome diverso in ogni epoca che abbiamo abitato nel tempo, rendendolo sempre più terreno, sempre più reale e vicino. A essere cambiata è la spregiudicatezza del boia, della mente che giudica senza comprendere, della mano che si chiude senza aprirsi, del cuore che sanguina senza più chiedere aiuto. “Nelle carceri serve più umanità” di Federico Piana L’Osservatore Romano, 1 dicembre 2024 A colloquio con l’ispettore generale dei cappellani italiani, don Raffaele Grimaldi. Dopo i presunti abusi ai detenuti vulnerabili del carcere di Trapani, il sacerdote ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, ribadisce la necessità di maggiore attenzione e misericordia anche in vista dell’imminente Giubileo del 2025: “La Chiesa, con i cappellani ed i volontari, in prima linea per portare speranza”. Una vicenda dai contorni drammatici che gli ha tolto il fiato, non lo ha fatto dormire la notte: venire a sapere che nei giorni scorsi 11 agenti di polizia penitenziaria del carcere di Trapani sono stati arrestati e 14 sospesi dal servizio con l’accusa di torture ed abusi nei confronti di alcuni detenuti vulnerabili lo ha spinto a prendere carta e penna e vergare un appello di fuoco con il quale ha denunciato “la preoccupazione per la violazione dei diritti umani ed il tradimento della missione degli operatori carcerari”. E poi c’è una cosa che ha gettato ancora di più nello sconforto don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane: la prossimità del tragico avvenimento con l’imminente apertura del Giubileo 2025 che della speranza e della misericordia è faro che dovrebbe illuminare non solo la Chiesa ma anche l’intera società. “E proprio in vista dell’Anno santo, i nostri istituti penitenziali avrebbero bisogno di maggiore attenzione perché stanno continuando a vivere problematiche complesse come quelle legate alla povertà dei detenuti, alla presenza di immigrati, di persone che sono oppresse dalla droga. Servirebbe maggiore aiuto e sostegno”, spiega in un colloquio con i media vaticani. Amore, prima di tutto - Gli avvenimenti di Trapani, sui quali sta ancora indagando la magistratura, fanno riflettere il sacerdote sul fatto che “la Chiesa, con i cappellani ed i volontari, è in prima linea per alimentare la speranza senza la quale nei reclusi scatta la disperazione che provoca violenze e molto spesso i suicidi che rappresentano il fallimento degli operatori carcerari”. Alla base dei soprusi di Trapani, come quelli avvenuti in altri istituti di pena, potrebbe esserci un fattore troppo spesso ignorato o sottovalutato: lo stress lavorativo al quale gli agenti di polizia penitenziaria sono sottoposti: “In alcuni reparti lavorano molte ore in più e fanno fatica ad affrontare un dialogo sereno con i detenuti molti dei quali provati da situazioni personali di malattia o da grandi fragilità psichiatriche e psicologiche. E questo crea una seria difficoltà di rapporto”. Formazione permanente - In questi casi, spiega don Grimaldi, “occorrerebbero operatori specializzati. Spesso i penitenziari accolgono le persone con fragilità specifiche ma non sono attrezzati per poter affrontare tali disagi ed emergenze”. Quello che occorre subito è continuare a sostenere ed implementare la formazione permanente degli operatori carcerari perché, nel tempo, gli istituti hanno cambiato il proprio volto. “Non è più il carcere che conoscevamo trent’anni fa. Attualmente, la formazione si fa ma ancora non basta e non è sistematica. Un maggiore impegno ci potrebbe essere però tante volte è uno sforzo che nemmeno viene preso in considerazione perché manca personale. La formazione continua, però, è fondamentale”. Pericolo sovraffollamento - Poi c’è l’annosa questione del sovraffollamento che l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane considera un problema esplosivo non affrontato adeguatamente: “Alcuni sforzi per contrastarlo sono stati fatti ma non sono adeguati. C’è bisogno di altri tipi di interventi per evitare che il sovraffollamento possa incidere su molte attività dei nostri istituti penitenziari rendendo vani anche i percorsi di riabilitazione”. Una soluzione c’è: potrebbe essere quella delle pene alternative, tanto care ai cappellani, ma che sembrano non riscuotere ancora molto successo: “È un provvedimento che dovrebbe essere preso davvero sul serio. Significherebbe una maggiore attenzione nei confronti dei detenuti che hanno commesso reati minimi e che potrebbero uscire dal carcere facendo respirare un po’ di più gli istituti penitenziari”. Pastorale misericordiosa - Il Giubileo 2025 per tutti i cappellani ed i volontari sarà l’occasione per riproporre queste tematiche ma soprattutto per rilanciare una pastorale misericordiosa e di speranza: “Cercheremo di renderla ancora più viva. L’8 gennaio, il nostro consiglio pastorale incontrerà le istituzioni penitenziarie per confrontarsi sulle nostre proposte giubilari da vivere. Mentre il 9 gennaio andremo in Vaticano dove ad ogni nostro delegato regionale verrà consegnata una lampada realizzata dai detenuti del carcere di Salerno. Queste fiamme verranno poi consegnate ad ogni istituto di pena italiano. E diventeranno davvero luci di speranza”. Oltre le sbarre, l’impegno che cambia le vite di Anna Grazia Concilio spazio50.org, 1 dicembre 2024 Michele Recupero racconta Crivop Italia Odv una storia di sostegno e assistenza per i detenuti e le loro famiglie. La vita dentro le sbarre è il suo pane quotidiano. Michele Recupero, classe 1967, ex guardia particolare giurata, presiede la Crivop Italia Odv e opera in 20 istituti penitenziari, raggiungendo Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Calabria, Sicilia, con un grande esercito di 185 volontari. Grazie anche a un protocollo di intesa con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria rinnovato il 24 giugno 2024: “Era il 2006 - racconta - quando mi chiesero di occuparmi di Maurizio, un senzatetto che si rivelò essere un ex detenuto. Da quel momento, sempre più enti caritativi locali iniziarono a chiedermi di prendermi cura di altre persone in difficoltà. Mi occupavo di farli ricoverare in ospedale per disintossicarsi dall’alcool, inserirli in comunità terapeutiche, ottenere per loro documenti e una residenza temporanea, riunirli con le loro famiglie e, in alcuni casi, aiutarli a trovare un lavoro”. Una bella parentesi che ricorda Michele, quella della Le.L.A.T. (Lega Lotta Aids e Tossicodipendenze), una realtà virtuosa che si occupa di recupero: “Frequentai - precisa - anche un corso di formazione per volontari e poi divenni un operatore di comunità. Fu lì che iniziai a lavorare con detenuti che scontavano una pena alternativa al carcere, e nacque in me il desiderio di entrare nell’Istituto di Messina per aiutare i detenuti con problemi di tossicodipendenza. Anna Maria Garufi, l’anima della Le.L.A.T, mi chiese: “Te la senti di entrare per inserire i ragazzi tossicodipendenti nella comunità?”. Ad aprile 2007 si aprì così un nuovo capitolo della mia vita”. E una volta che le richieste di aiuto si moltiplicarono crebbe il desiderio di fare “qualcosa in più”. Il 1° dicembre 2008, fondò la Crivop Onlus. Erano in tre. La chiamò Crivop perché rappresentava la sua identità: di Cristiano, Volontario, che opera nel Penitenziario: “In appena due anni, raggiungemmo - continua - 19 istituti penitenziari e riuscimmo a metterci in contatto con quasi 400 detenuti. Questo fu possibile anche grazie ai trasferimenti dei detenuti stessi che, spostandosi in altre strutture, continuavano a richiedere il nostro sostegno ovunque fossero stati trasferiti”. Nel 2014 il primo corso a Genova Marassi. Nel 2015 è stata costituita la Federazione Crivop Italia onlus, con l’intento di raggruppare Sicilia, Calabria, Campania e Liguria, fino a quando nel dicembre del 2019 la Federazione Crivop Italia onlus si è trasformata in una organizzazione di volontariato nazionale. Le Crivop regionali sono state dismesse e oggi la Crivop Italia Odv conta tanti volontari che portano speranza”. Nella missione, condotta a bordo di un camper, oltre Michele ci sono alcune donne: la moglie Cettina, che quando è libera dal lavoro lo accompagna ovunque, e soprattutto la madre, esempio per tanti, Giuseppa Lo Re, una donna generosa nata nel 1942. Di fatto una delle volontarie più anziane della Crivop Italia Odv, sia per età che per servizio, con la matricola 005.09. “All’età di 67 anni - ricorda Michele, il figlio - è stata tra le prime a unirsi all’associazione (allora Crivop Onlus, fondata nel 2008), diventando la quinta volontaria iscritta. Ricordo con grande ammirazione il suo zelo e la determinazione con cui affrontava le attività di volontariato ogni fine settimana. Con un vecchio camper dell’associazione, che usavamo per sostenere le famiglie dei detenuti davanti alla casa circondariale di Messina, ci avventuravamo in tutta la Sicilia per promuovere e avviare attività di supporto negli istituti penitenziari e far conoscere la missione in varie città siciliane. Il gruppo partiva il venerdì e rientrava a Messina la domenica sera”. Nel corso degli anni, Pina ha partecipato attivamente a presentazioni della Crivop in diverse città italiane e ha preso parte a numerose missioni negli istituti penitenziari sia in Sicilia che nel Nord Italia. Ha anche svolto attività di volontariato a favore delle persone senza fissa dimora a Messina, trascorrendo anni interi sul camper parcheggiato fuori dalla Casa circondariale di Gazzi, dove offriva supporto alle famiglie dei detenuti: intratteneva i bambini e offriva un caffè o un tè alle madri in attesa di incontrare i propri cari: “Ciò che rende Pina - i toni si fanno decisi -, ovvero mia mamma, unica tra le volontarie è la sua fede cristiana profonda. Oggi, all’età di 82 anni, a causa di problemi di salute si dedica solo all’assistenza dei senza fissa dimora, il martedì sera dalle 18.00 alle 20.00, presso la postazione “Mai più ultimi” alla stazione di Messina”. In cantiere ci sono tanti altri progetti: “Da quando ho fondato questa realtà custodisco un sogno nel cassetto: realizzare il “Crivop Village”. Ogni volta che incontro detenuti che hanno compreso i propri errori, ma a cui mancano i mezzi per avviare un percorso di riabilitazione, provo un grande dolore. Ho fiducia che questo desiderio si concretizzi, per offrire una speranza a coloro che l’hanno persa, accogliendoli al “Crivop Village” e guidandoli verso un reinserimento graduale nella società”. E i piani non si sono fermati neanche con le ferie agostane: “Tra i molti progetti portati avanti in questi 17 anni negli istituti penitenziari - conclude - il “Summer Days” è stato significativo, portando una ventata di freschezza nella calda estate del 2024. Karaoke, giochi senza frontiere e una festa con l’anguria sono state le attività più apprezzate dai detenuti. In un periodo in cui tutto si fermava e molti erano in vacanza, la nostra presenza ha rappresentato un vero sollievo per loro. Vedere i detenuti ringraziarci per essere lì anche in estate è stato impagabile”. I continui “stop and go” di Nordio mandano in soffitta la riforma di Augusto Minzolini Il Giornale, 1 dicembre 2024 Il ministro fa tanti annunci ma le sue iniziative sono caute. In mezzo al guado troppi provvedimenti. Alla fine il ministro Nordio ha deciso di non presentare il provvedimento che prevedeva l’illecito disciplinare per magistrati che intervenissero pubblicamente su argomenti o casi e che poi non si astenessero dal giudicare su quel tema. Il Guardasigilli dopo tanti proclami, se per timore o prudenza non è dato sapere, ha preferito soprassedere. Eppure si tratta di un principio sacrosanto quello che suggerisce alle toghe il silenzio su questioni che in un modo o nell’altro riguardano la loro attività di giudice visto che un magistrato - a sentire una massima che solo a parole ci collega a Beccaria “non solo deve essere ma anche apparire imparziale”. È una questione di stile quasi ovvia prima che un dovere, ma Nordio per una sopravvenuta cautela dovuta forse alla moral suasion di Quirinale e dintorni ha preferito mollare. Solo che a questo punto verrebbe da chiedere proprio al ministro della Giustizia il silenzio, perché se agli annunci non seguono i fatti, si ottiene l’obiettivo opposto di quello desiderato. E purtroppo Nordio ha un’inclinazione naturale ad essere tanto prolisso nella teoria quanto inefficace nella prassi. A stare appresso alle tante parole pronunciate in questi due anni si sarebbero dovute approvare tre riforme della giustizia non una, nella realtà però non ne è diventata legge nessuna: i magistrati protestano, si atteggiano a vittime e il processo riformatore fatalmente si ferma. Si procede con continui stop and go, il che magari non sarebbe neppure una strategia sbagliata se a conti fatti i primi non rendessero inutili i secondi. Basta fare un elenco approssimato per difetto dei tanti provvedimenti rimasti in mezzo al guado. Di questi molti - per avere un’idea della lentezza - erano impegni presi nella scorsa legislatura. Il fascicolo per la valutazione nel magistrato, ad esempio, era una delega della scorsa legislatura che invece di essere attuata è stata smontata. Altra delega sempre di allora riguardava l’obiettivo di ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo nei ministeri, ma non se ne è fatto nulla con il pretesto del Pnrr. Addirittura c’è stata una cascata di deroghe sulla cosiddetta legge che evita le “porte girevoli”, cioè il passaggio di una toga in ruoli più meno politici e il ritorno nei ranghi della magistratura, tutto per favorire l’impiego dei magistrati ai vertici dei dipartimenti e dei gabinetti dei ministeri. Non parliamo poi della reintroduzione della prescrizione che il grillino Bonafede aveva cancellato dopo il primo grado di giudizio: la reintroduzione è stata approvata alla Camera nella primavera scorsa ma al Senato non è stata ancora calendarizzata. Per quanto riguarda la battaglia di tutte le battaglie, cioè la separazione delle carriere tra giudici e pm, non è ancora approdata né nell’aula della Camera, né in quella del Senato, visto che si tratta di una legge costituzionale che deve essere approvata in due letture in entrambi i rami del parlamento c’è il rischio che il probabile referendum si svolga nella prossima legislatura. Anche sulla tematica sollevata dal famoso slogan di Salvini, il “chi sbaglia paga” applicato anche per le toghe sugli errori per la custodia cautelare (lo Stato dal 1992 ad oggi ha dovuto elargire risarcimenti per un miliardo di euro), non si è fatto un tubo. La verità appunto è che in questi due anni e passa di governo i proclami di Nordio si sono sprecati, ma poi le insurrezioni dei magistrati per un nonnulla, gli appelli contro l’autoritarismo, le accuse contro ogni riforma che aiuterebbe la criminalità organizzata e via dicendo, hanno bloccato o reso impercettibile ogni avanzamento del processo riformatore. Di fatto interferenze sul processo legislativo di cui nessuno parla. Risultato? Ci aiuta Shakespeare: molto rumore per nulla. Se si tiene conto che il più efficace innovatore tra i guardasigilli di centrodestra che si sono seduti sulla poltrona di via Arenula è stato il leghista Roberto Castelli, di professione ingegnere, si capisce che con cento magistrati fuori ruolo che occupano i gangli delicati del ministero diventa arduo se non impossibile un processo riformatore. Essere la madre di quel figlio che ti voleva morta di Francesca Barra L’Espresso, 1 dicembre 2024 Sopravvissuta all’avvelenamento che ha ucciso il marito, Monica Marchini ora racconta la sua storia. “Non ci saranno vincitori ne? vinti in questo processo, solo dolore”. E? la frase che ha pronunciato Monica Marchioni, la mamma di Alessandro Leon Asoli condannato a trent’anni di reclusione per aver ucciso nel 2021 il patrigno Loreno Grimandi, 56 anni, e aver tentato di avvelenare anche lei, con pennette condite con il veleno. “Ci auguravamo l’ergastolo, alcuni per giustizia e io per il terrore che potesse uscire dal carcere troppo presto e tentare nuovamente di uccidermi. Mi auguro che lui possa davvero comprendere cio? che ha fatto; pentirsi profondamente e riuscire a rinascere in qualche modo”. La vita di Monica dopo quel giorno e? cambiata per sempre: “Non staro? mai piu? bene. Dire ormai che mio figlio era un bravo ragazzo e? pleonastico, ma la verita? e? che abbiamo sempre vissuto serenamente insieme, anche dopo l’arrivo di mio marito che si e? rivelato un “padre” fantastico. L’atmosfera in famiglia era quella normale di chi vive con un figlio adolescente, ma sempre immersa in un amore profondo. E? questo amore che mi porto dentro ogni giorno, cercando di alleviare quel dolore che mi colpisce direttamente al cuore. Avevo notato dei cambiamenti in lui, ma solo nelle settimane precedenti. Non si trattava mai di atteggiamenti violenti, ma solo di un comportamento piu? spocchioso. Avevo fatto tutto il possibile per stargli vicino, ma le cose sono precipitate. Non so se arrivero? a perdonarlo”. Un dramma famigliare che ha lasciato dietro di se? domande a cui Monica cerca di rispondere nel libro “Era mio figlio”, scritto con la giornalista e criminologa Cristina Battista (Edizioni Minerva). “Vorrei che il mio libro fosse d’aiuto per chi non trova la forza di sopravvivere a eventi devastanti o il coraggio di chiedere aiuto. Spero che mio figlio possa leggerlo un giorno, potrebbe essergli d’aiuto”. La giornalista ha offerto il suo sguardo scientifico per analizzare il profilo di Alessandro e le dinamiche che hanno portato a questo epilogo. “Stiamo vivendo un momento difficilissimo per le relazioni umane, condizionate dal mondo veloce in cui siamo immersi. La famiglia, prima che la scuola, deve educare i figli al rispetto, all’empatia, alle emozioni, positive e negative. E? possibile riconoscere i segnali, difficile, ma non impossibile. Ci vuole tempo: di condivisione, di relazione. Alessandro aveva un desiderio irrefrenabile dei soldi “in fretta”; la continua insoddisfazione davanti alle piccole cose; la fascinazione nei confronti di un certo tipo di vita che non poteva permettersi con i suoi strumenti e quelli della sua famiglia e non aveva alcuna predisposizione al lavoro, all’impegno. I suoi genitori, in questo caso, erano di intralcio. Nessuno e? immune alle difficolta? e nessuno pensa che una difficolta? si trasformera? in tragedia. Tuttavia, queste storie non possono rimanere nelle aule di un tribunale, vanno raccontate, analizzate dal punto di vista criminologico a sostegno di chi magari vive situazioni analoghe”. Monica dice che da una parte sente ancora sentimenti struggenti da madre che ama suo figlio, dall’altra da vittima che ricorda costantemente quella frase: “Come cazzo e? che non muori?”. Oggi vuole vivere per sviluppare un progetto per dare aiuti concreti. “Altrimenti che senso avrebbe avuto la mia sopravvivenza, qui, sola al mondo”. Bologna. L’appello per le carceri: “Serve un’amnistia, fate presto” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 1 dicembre 2024 Hanno sfidato il freddo le decine di persone che ieri mattina hanno risposto all’appello del Comune di Bologna e dell’Ordine degli avvocati bolognesi a scendere in piazza per denunciare “una vera e propria emergenza umanitaria nelle carceri che richiede una mobilitazione pubblica”. L’appuntamento era in piazza Lucio Dalla in Bolognina, Navile, il quartiere che ospita il carcere Rocco D’Amato. “Come Comune di Bologna abbiamo deciso che non fosse più sufficiente fare il lavoro istituzionale che lungo questi due anni abbiamo fatto, con visite nelle carceri che hanno constatato una situazione davvero insostenibile e per noi incostituzionale, ma servisse prendere parola pubblica, perché non ci fosse semplicemente una cinica contabilità dei morti in carcere” ha detto l’assessore al Welfare Luca Rizzo Nervo. Con 84 suicidi da inizio anno (contando un suicidio nel Cpr di Roma), 62.110 detenuti contro i 51.234 posti di capienza regolamentare, mentre alla Dozza di Bologna si va verso le 850 presenze a fronte di 500 posti, 14.000 detenuti che vivono in spazi di 3-4 metri quadrati e 10.000 atti di autolesionismo, l’obiettivo della manifestazione è quello di lanciare una “rete di città”, per alimentare un dibattito “che spesso si sintetizza nel sentire sottosegretari alla Giustizia che parlano di `intima gioia nel togliere il respiro alle persone’” ha proseguito Rizzo Nervo. Presenti in piazza, tra gli altri, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Bologna, Flavio Peccenini, il presidente della Camera Penale, Nicola Mazzacuva, l’avvocato Ettore Grenci del consiglio dell’Ordine forense e l’attore Alessandro Bergonzoni. “Occorre un provvedimento - ha sottolineato Peccenini, più provvedimenti che svuotino, parzialmente, le carceri. Visto che non siamo in grado di costruirne delle nuove, meritevoli di essere chiamati luoghi di recupero e riabilitazione, dobbiamo cercare di svuotare maggiormente le vecchie e poi mentre le si svuotano renderle ancora più adatte”. Senza giri di parole, anche la giunta comunale ha lanciato il manifesto, a cui hanno aderito una trentina di associazioni, che tra le altre cose chiede misure deflattive del sovraffollamento delle carceri italiane come amnistia, indulto e aumento dei giorni di liberazione anticipata. L’attore Alessandro Bergonzoni ha voluto, provocatoriamente, lanciare un appello “a chi scende in piazza per protestare contro la violenza sulle donne, di interessarsi e manifestare anche per le condizioni drammatiche di chi vive in carcere. Meno armi e più attenzione a chi ha commesso un reato, ma è colpito da uno Stato che commette lo stesso reato”. In piazza anche la consigliera delegata ai diritti umani Rita Monticelli, il garante comunale delle persone private della libertà personale Antonio Ianniello e l’ex consigliere Valerio Monteventi, volto storico dei movimenti e da anni impegnato con l’officina metalmeccanica all’interno della Dozza. Bologna. La protesta contro il sistema carcerario: “Non possiamo più contare i morti” di Sara Sonnessa bolognacronaca.it, 1 dicembre 2024 Tra i partecipanti alla manifestazione c’è anche l’attore bolognese Alessandro Bergonzoni. Con un colpo deciso, il Comune di Bologna si fa portavoce di una battaglia che ha sollevato indignazione nelle piazze italiane: una condizione di sovraffollamento insostenibile e di violazioni sistemiche dei diritti umani nelle carceri italiane. È il 27 novembre quando la città scende in piazza Lucio Dalla per mobilitarsi contro la situazione nelle prigioni, che da troppo tempo registra numeri drammatici: 84 suicidi dall’inizio dell’anno e una popolazione carceraria che supera di gran lunga la capienza regolamentare. “Non basta più il lavoro istituzionale che abbiamo fatto in questi due anni, né le visite nelle carceri, né i dibattiti nelle sedi ufficiali”, esordisce l’assessore al Welfare, Luca Rizzo Nervo. Con una determinazione che non lascia spazio a fraintendimenti, l’assessore evidenzia come la situazione nelle carceri non solo sia insostenibile, ma costituisca una violazione dei principi costituzionali. “Serve prendere parola pubblica, perché non possiamo semplicemente assistere alla cinica contabilità dei morti in carcere”, afferma, al fianco di una folla che non ha paura di sollevare una questione troppo spesso dimenticata. Il cuore pulsante della mobilitazione è proprio la denuncia di un sistema che non riesce a garantire nemmeno il più basilare dei diritti umani: la dignità. Con 62.110 detenuti contro 51.234 posti, il sovraffollamento nelle carceri italiane è un’emergenza di portata gigantesca. Per far fronte a questa situazione, si fa strada l’idea di una “rete di città” che alimenti il dibattito pubblico e che metta al centro le condizioni di vita di chi è privato della libertà, come affermato dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Bologna, Flavio Peccenini, che invoca misure concrete per svuotare le carceri. “Non possiamo continuare a costruire carceri nuove. Dobbiamo svuotare quelle vecchie e renderle luoghi di recupero”, sottolinea Peccenini. Tra i partecipanti alla manifestazione c’è anche l’attore bolognese Alessandro Bergonzoni, che, con la sua tipica ironia provocatoria, lancia l’invito ai cittadini di “rivoltarsi”. “Prendete i vostri cappotti, rivoltateveli”, afferma, “perché ogni volta che qualcuno vi chiederà perché il vostro cappotto è rivoltato, avrete l’occasione di spiegare perché le carceri italiane sono un luogo rivoltante”. Un gesto simbolico, che non lascia indifferente la piazza e che si collega a un tema urgente: la necessità di ridurre la violenza nelle prigioni e di porre maggiore attenzione su coloro che, pur colpiti dalla giustizia, finiscono per subire una vendetta sistemica dallo Stato stesso. La manifestazione, che ha visto la partecipazione anche di importanti figure legali e politiche, non è solo un atto di protesta, ma un invito a cambiare radicalmente il modo in cui si concepisce la giustizia penale in Italia. “Sono persone, non bestie”, ha dichiarato Bergonzoni, sollevando il velo su una realtà troppo spesso ignorata o mistificata dal dibattito pubblico. La causa è chiara: non c’è giustizia senza dignità, e non c’è dignità senza riforma. Palermo. Il Garante: “Aumentare il personale nelle carceri non basta ad eliminare la sofferenza” tp24.it, 1 dicembre 2024 Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo. Cosa accade nelle carceri, in particolare in quelle siciliane? Nei giorni scorsi abbiamo raccontato della maxi operazione che ha coinvolto diversi agenti di polizia penitenziaria, accusati di sevizie, minacce e tortura. Il giorno successivo, da Palermo, è arrivata la foto di un agente pestato da alcuni detenuti violenti. La polizia penitenziaria, in quel caso, ha diffuso l’immagine dichiarando: “Anche noi subiamo violenza.” Ma davvero le carceri sono ridotte a questo? I due fatti sono sempre esistiti nelle carceri. La violenza c’è sempre stata, più o meno nascosta. Basta osservare i casi in cui ci sono state denunce o testimonianze: quando la verità emerge, spesso è grazie al coraggio di qualcuno, come accaduto con il caso Cucchi. Ma non è un caso isolato. Allo stesso modo, i pestaggi o i comportamenti violenti dei detenuti vengono registrati e denunciati, solitamente da agenti o sindacati. C’è un problema di organici, ma aumentare il personale non basta a eliminare la sofferenza che si vive nelle carceri. Personalmente, ho contattato più volte l’agente pestato al Pagliarelli, e sono andato a incontrare il comandante delle guardie per esprimere la mia solidarietà. Sono altrettanto sdegnato dalle immagini che mostrano violenze sugli stessi detenuti. Provate a immaginare: se quelle immagini non fossero state diffuse, io avrei potuto venire a conoscenza dei fatti solo attraverso un rapporto confidenziale. Tuttavia, anche se durante i colloqui con i detenuti qualcuno mi dicesse “ho subito violenze”, queste dichiarazioni non costituiscono una prova utilizzabile in una denuncia formale. Io stesso rischierei una querela. Questa è la realtà e il dramma della vita carceraria. Confido nella polizia penitenziaria, un corpo sano che, nella maggior parte dei casi, non è contagiato dalla brutalità di pochi. Gli agenti vivono accanto alla sofferenza dei detenuti e fanno scorrere la vita dentro il carcere. Tuttavia, dobbiamo ricordare che chi è detenuto ha commesso un reato e deve scontare la privazione della libertà, ma non può essere privato della dignità. Nessuno dovrebbe subire violenze, che siano fisiche, morali o psicologiche. Il problema dei suicidi nelle carceri italiane è una tragedia che continua a ripetersi con numeri sempre più allarmanti. Con 83 suicidi registrati dall’inizio del 2024, si è ormai raggiunta una “spirale di morte” che richiama l’urgenza di interventi concreti. Lo sottolinea il segretario della UILPA, Gennarino De Fazio, che avverte: “Con il periodo natalizio, spesso si registra una recrudescenza di fenomeni autolesionistici e suicidiari”... Gli ultimi due casi, avvenuti a novembre, raccontano storie di disperazione e abbandono. A Palermo, un detenuto di 44 anni, in attesa di giudizio, si è tolto la vita dopo giorni di sofferenze in ospedale. Solo il giorno precedente, un giovane di 27 anni si era impiccato nella sua cella a Cagliari. Questi episodi evidenziano un sistema carcerario incapace di rispondere alle necessità di supporto psicologico e sanitario. Il sovraffollamento degli istituti, con un tasso del 133,25% (62.323 detenuti a fronte di una capienza di 46.759 posti), peggiora ulteriormente la situazione. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha recentemente dichiarato che il governo sta lavorando per potenziare la rete di assistenza psicologica e creare percorsi di comunità per detenuti con disagio psichico e dipendenze. Tuttavia, le parole sembrano disconnesse dalla realtà. Gli interventi strutturali, come la manutenzione degli edifici e l’adeguamento sanitario, restano insufficienti. Secondo il deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), “la situazione sanitaria e igienica delle carceri è drammatica, con infiltrazioni d’acqua, muffa, ratti e servizi inadeguati”... La responsabile giustizia del PD, Debora Serracchiani, ha sottolineato la necessità di soluzioni alternative per i detenuti con disagi psichiatrici e dipendenze. Tra queste, l’affidamento in prova alle comunità terapeutiche, che si dichiarano pronte a collaborare. La proposta, sostenuta anche da Rita Bernardini (Nessuno Tocchi Caino), mira a ridurre il sovraffollamento e a garantire un percorso riabilitativo per i detenuti. Nel frattempo, i sindacati e le associazioni chiedono maggior trasparenza sulle condizioni delle carceri, attraverso visite periodiche obbligatorie da parte delle ASL competenti, come previsto dalla normativa vigente. Enna. La direttrice del carcere: “Valorizzare ogni progresso dei detenuti, per una vita migliore” di Giuseppe D’Onchia ilgazzettinodigela.it, 1 dicembre 2024 Il suo ufficio raramente ha la porta chiusa. In casi estremi, solo socchiusa. Perché la stanza del direttore è la stanza di tutti, nel rispetto reciproco dei ruoli. E delle direttive. Aprirsi al confronto con il proprio gruppo di lavoro è quotidiano, sviscerane i problemi e cercarne le soluzioni, è l’obiettivo comune. Lei ascolta, chiede, incoraggia, dice “noi”, dà meriti. Gabriella Di Franco, dirigente penitenziario, è il direttore della Casa circondariale di Enna, intitolata a Luigi Bodenza, l’assistente capo del corpo della Polizia Penitenziaria, assassinato nel 1994 dalla mafia. L’ingresso nella carriera dell’Amministrazione Penitenziaria per la dottoressa Di Franco, nata e cresciuta a Catania, è datato 8 settembre 1997 come collaboratore di istituto penitenziario. Poi è stato un susseguirsi di incarichi importanti, perfettamente portati a compimento. Come nel suo costume. Come è cambiata (se è cambiata) la sua umanità in tutti questi anni alla direzione di diversi istituti penitenziari? “Devo ammettere che il mio percorso come direttore di varie strutture penitenziarie ha avuto un impatto significativo sulla mia “umanità”. Da 28 anni ormai, ogni giorno mi sono confrontata con storie di vita, di sofferenza, ma anche di resilienza. Ho imparato a guardare oltre le etichette e a vedere le persone con le loro fragilità e le loro potenzialità. Noi penitenziari “dimentichiamo”, in un certo senso, il reato. Questo lavoro richiede una dose di empatia e comprensione che si affina col tempo. Le sfide quotidiane mi hanno insegnato l’importanza della pazienza e della comunicazione; ho imparato a valorizzare ogni piccolo progresso e a celebrare ogni passo verso il reinserimento. Devo dire che ogni interazione, ogni storia condivisa ha arricchito la mia vita, rendendomi più consapevole e aperta. Quindi, sì, la mia umanità è cambiata: è diventata più profonda e più complessa, e credo che questo mi renda una persona migliore”. Come interpreta il ruolo di direttore del carcere? “Come una responsabilità straordinaria e un’opportunità unica. In primo luogo, sono consapevole che il mio compito va oltre la semplice gestione della sicurezza e della disciplina. È fondamentale creare un ambiente che favorisca la riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti”. Qual è la missione che porta avanti? “Cerco di essere un “mediatore” tra diverse esigenze: quelle della sicurezza, del personale, dei detenuti e della comunità esterna. Questo richiede un equilibrio delicato, ma credo fermamente che il rispetto e la comprensione reciproca possano portare a risultati positivi. La mia missione è contribuire a creare un ambiente in cui le persone possano riflettere sulle proprie azioni, apprendere e, infine, reintegrarsi nella società con una nuova prospettiva”. Quali sono gli aspetti centrali di cui un direttore del carcere deve occuparsi in particolar modo? “Oltre che essere mediatore vedo il mio ruolo come quello di un “facilitatore”: promuovo l’accesso a progetti rieducativi, ad attività lavorative anche in collegamento con la realtà imprenditoriale esterna, progetti di supporto alla genitorialità ed alle affettività perché sono convinta che ogni persona abbia il potenziale per cambiare. Il direttore deve essere il leader che guida con empatia e determinazione, un leader orientato verso un futuro in cui la giustizia e il reinserimento in società possano andare di pari passo, in attuazione dell’art.27 della Costituzione”. Dal suo primo incarico datato 2001 al carcere di Piazza Armerina ad oggi, cosa è cambiato? “Il ruolo del direttore del carcere ha subito notevoli evoluzioni dagli anni 2000 ad oggi, riflettendo cambiamenti sociali, politici e culturali. Stiamo assistendo ad una sempre crescente consapevolezza dell’importanza del reinserimento e l’Amministrazione Penitenziaria tutta, pur garantendo sicurezza sociale, ha un ruolo sempre più attivo nel promuovere progetti educativi e di reinserimento, cercando di ridurre il tasso di recidiva. Il ruolo del direttore del carcere si è evoluto verso una figura più complessa e multifunzionale, che deve bilanciare la sicurezza con il reinserimento, la gestione delle risorse umane con il benessere dei detenuti e l’innovazione con le pratiche tradizionali”. “Il mio incarico a Gela doveva essere temporaneo (in qualità di reggente in attesa di altro direttore ed avendo io altro incarico) ma sono rimasta alla direzione di Gela per ben 5 anni!” Cosa ricorda di quell’esperienza? “Ricordare anni di lavoro intensi con un gruppo di lavoro straordinario è come sfogliare un album di ricordi preziosi. Ricorderò sempre le riunioni con il Comandante Francesco Salemi, gli ispettori di Polizia Penitenziaria e i capi area Contabile ed Educativa, riunioni intense in cui le idee si mescolavano, si creavano soluzioni, si trovavano rimedi e si rideva anche delle difficoltà. La sinergia ha reso ogni obiettivo più leggero. Le sfide non sono mancate, ma affrontarle insieme ha creato legami indissolubili che coltivo tuttora. Non posso dimenticare il pranzo organizzato a sostegno dell’Airc, promosso dall’Associazione Antifemo ed Entimo, i laboratori teatrali della Croce Rossa di Gela, i tanti progetti portati avanti con la scuola che hanno ha reso il lavoro più significativo. Abbiamo ripreso tante vite di persone detenute e ridato loro dignità e speranza. Non dimenticherò mai la gioia e il senso di “profonda misericordia” provato quando abbiamo portato dal Papa in visita a Piazza Armerina alcuni detenuti grazie ai preziosi volontari della Caritas diocesana. Quegli anni trascorsi a Gela hanno lasciato un’impronta indelebile. Ogni ricordo, ogni insegnamento e ogni obiettivo raggiunto hanno contribuito a rendere il mio cammino professionale e personale ancora più ricco e significativo”. Della sua permanenza a Gela, cosa avrebbe voluto portare a compimento ed invece non è riuscita? “Il carcere si trova in Contrada Balate e viene così indicato anche giornalisticamente. Assieme al Sindaco dell’epoca avevamo avviato un lavoro per intitolare la strada. Dal carcere avevamo proposto “via Alberto Sordi”, il celebre attore e regista italiano noto per il suo stile comico e le sue interpretazioni che spesso riflettevano le sfide sociali e culturali dell’Italia: il suo lavoro nel cinema ha influenzato la percezione del pubblico su vari aspetti della vita italiana, inclusa la giustizia e il sistema carcerario. Purtroppo la nuova denominazione della strada non fu possibile perché la strada di accesso al carcere presentava, all’epoca (e non credo si sia superato l’ostacolo), delle difficoltà burocratiche anche per la toponomastica in quanto strada interpoderale consortile non comunale. Altra cosa avviata, ma solo in una fase ideativa, e non realizzata fu quella di adottare il fontanone situato all’ingresso della via di accesso al carcere. La immaginavamo in funzione, piena di fiori e costantemente manutenzionata dai detenuti in lavoro di pubblica utilità. Un Welcome penitenziario alla città di Gela”. Cosa invece le è riuscito? “Ho contribuito a creare e strutturare un gruppo di lavoro apprezzato, entusiasta e motivato, incoraggiando collaborazione e lavoro di squadra. Abbiamo realizzato tantissimi progetti musicali, teatrali con la scuola e i volontari a beneficio dei detenuti. Creato un gruppo di manutentori della struttura con i quali abbiamo realizzato - ottenuti appositi finanziamenti da Cassa delle Ammende - l’area verde per i colloqui con i familiari, una nuova apertura della sala teatro, altri miglioramenti interni per gli uffici del personale e per gli spazi di vita dei detenuti, come le aule scolastiche”. Ci racconti un particolare aneddoto della sua esperienza gelese… “In congedo ordinario, io e la meravigliosa capo area educativa Viviana Savarino, oggi attuale direttore dell’Istituto Minorile di Caltanissetta, assieme a due straordinari volontari Francesco Città e Graziella Condello, ci siamo recati da Ikea a Catania per acquistare il primo contenuto della “credenza” della Casa Circondariale: piatti, bicchieri, posate ed altro ancora. Acquisto reso possibile grazie al contributo economico della Procura di Gela, all’epoca guidata dal Procuratore Fernando Asaro, uomo che stimo profondamente e di cui ho potuto apprezzare elevatissime doti umane e professionali. Abbiamo dopo qualche giorno realizzato con i detenuti e l’Associazione Antifemo ed Entimo il pranzo di beneficenza i cui ricavati sono stati devoluti all’Airc. All’ iniziativa parteciparono Procura, Tribunale di Sorveglianza, Prefetto e le più alte cariche delle forze dell’Ordine realizzando una inedita rete di solidarietà e di vicinanza al mondo penitenziario”. C’è stato un episodio che invece l’ha turbata? “Non mi viene in mente un episodio in particolare. Ho il ricordo di situazioni difficili e di alta tensione affrontate insieme al gruppo di lavoro ed ai miei superiori con responsabilità mantenendo, soprattutto, la calma”. Perché il carcere viene definito luogo di penitenza? “Tra le tante definizioni il carcere viene definito anche “luogo di penitenza” perché rappresenta uno spazio in cui gli individui hanno l’opportunità di riflettere sulle proprie azioni e sulle conseguenze che queste hanno avuto, sia per loro stessi che per la società. In questo contesto, la “penitenza” non si limita a una punizione, ma si trasforma in un momento di crescita personale e di riabilitazione. È un luogo dove si può lavorare su sé stessi, confrontarsi con le proprie scelte e, auspicabilmente, trovare la strada verso un futuro migliore. Quindi, in un certo senso, il carcere è anche un’opportunità per rinascere e ricominciare, un aspetto che spesso viene trascurato. È un concetto che invita a riflettere sul valore della “seconda chance” e sull’importanza della responsabilità personale”. Quanto conta nella vita dei detenuti, purtroppo, la violenza prima della carcerazione? “Molti detenuti hanno avuto esperienze pregresse di violenza fisica, emotiva o sessuale. Le persone che hanno vissuto violenza possono essere più inclini a comportamenti antisociali o criminali, non solo come risposta alle esperienze traumatiche, ma anche come modo per affrontare o riprodurre dinamiche familiari o sociali in cui sono cresciute”. I numeri in continuo aggiornamento, certificano in Italia l’aumento di tanta violenza, dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria. Dati sicuramente allarmanti. Come li legge e come bisogna prevenirli? “L’aumento dei suicidi, dei tentativi di suicidio e delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria rappresenta una questione complessa e preoccupante. Questi dati non solo evidenziano la fragilità del sistema penitenziario, ma pongono anche interrogativi sulla salute mentale dei detenuti e sul benessere del personale. Le condizioni di vita in carcere, spesso caratterizzate da isolamento, stress e mancanza di attività significative, possono esacerbare questi problemi. L’amministrazione penitenziaria e il Sistema Sanitario Nazionale collaborano ad ogni livello per garantire l’accesso a supporti adeguati. L’amministrazione penitenziaria sta investendo moltissimo nel fornire formazione al personale penitenziario su come riconoscere i segnali di disagio mentale nei detenuti e su come gestire situazioni di crisi. La situazione attuale richiede un approccio globale e multidisciplinare che consideri non solo il benessere dei detenuti, ma anche quello del personale di polizia penitenziaria”. Ci auguriamo che ci sia un modo per far percepire il valore dell’agire responsabile, per avvicinare i detenuti alla società, per portarli a scegliere il bello della regola, a non contrapporsi allo Stato. Per rendere meno pesante la permanenza in carcere, quali sono le iniziative che mettete in campo? “Certo, c’è un modo! Innanzitutto, è fondamentale creare un ambiente in cui i detenuti possano comprendere il valore dell’agire responsabile. Questo può essere fatto attraverso programmi di educazione e formazione che non solo insegnano abilità pratiche, ma anche valori come il rispetto e la collaborazione. Un altro aspetto importante è il coinvolgimento della comunità esterna. Organizzare attività che permettano ai detenuti di interagire con le persone al di fuori del carcere, come laboratori, eventi artistici o sportivi, può aiutarli a vedere che ci sono opportunità positive nella società e che possono farne parte. Inoltre, è utile fornire modelli di comportamento. Coinvolgere ad esempio i volontari e la scuola può essere molto motivante. Le persone detenute possono condividere le loro esperienze e comprendere che, anche dopo aver commesso errori, è possibile ricostruirsi una vita seguendo le regole. È poi importante richiedere ai detenuti il senso di responsabilità. Quando si sentono parte di un processo, in cui le loro scelte hanno un impatto, sono più propensi a scegliere il “bello della regola”. Se al detenuto non si offrono le stesse cose che può trovare fuori, non si alimenta la cultura dell’essere perdente, dell’essere sconfitto? “È una domanda delicata. L’idea di non potere offrire ai detenuti opportunità simili a quelle che possono trovare fuori non significa certo alimentare una cultura di sconfitta. Al contrario, può essere un modo per prepararli a un reinserimento positivo nella società facendo loro comprendere che si sta operando facendo tutti gli sforzi possibili. Quando si offrono programmi educativi, corsi di formazione professionale e attività ricreative, non si sta semplicemente dando loro “le stesse cose”. Si sta creando un ambiente che incoraggia la crescita personale e lo sviluppo delle competenze. Queste esperienze aiutano i detenuti a sentirsi valorizzati e a riconoscere il loro potenziale, piuttosto che a sentirsi sconfitti”. Quanti dei detenuti che ha personalmente conosciuto, hanno realmente intrapreso una nuova vita dopo il carcere? “Non è una grande percentuale ma ho le prove che tanti sono riusciti. In ogni caso il nostro compito, quello di instillare speranza e dare fiducia, in tantissimi casi è stato raggiunto anche con effetti resisi evidenti un po’ dopo, nel tempo”. Perché in tanti (troppi) non riescono a redimersi definitivamente? “La questione della redenzione dei detenuti è complessa e multifattoriale. Dopo la dimissione dal carcere, molti ex detenuti affrontano pregiudizi e discriminazione nella società, avendo difficoltà a trovare lavoro, alloggio e reintegrarsi nella comunità. Questo stigma può portare a una sensazione di isolamento e impotenza. Spesso a causa di mancanza di risorse familiari i detenuti possono avere difficoltà a costruire una nuova vita e molti detenuti hanno alle spalle esperienze traumatiche e problemi di salute mentale non trattati. Alcuni ex detenuti tornano in ambienti familiari o sociali tossici, dove la criminalità e le cattive influenze sono prevalenti”. Come avviene nelle carceri l’uso di internet? “Sebbene sia riconosciuto come l’accesso a Internet possa offrire opportunità significative per l’istruzione, la formazione e il reinserimento sociale dei detenuti vi è da dire, tuttavia, che vi sono preoccupazioni legate alla sicurezza, alla gestione e all’abuso potenziale di questa tecnologia. Al momento l’uso di piattaforme informatiche come ad esempio WhatsApp e Teams è utilizzato, sotto il controllo della polizia penitenziaria, per facilitare la comunicazione tra i detenuti, le loro famiglie, i loro legali, riducendo l’isolamento e fornendo un supporto emotivo importante. Attraverso le video call, dunque, le persone detenute possono colloquiare in sicurezza con i familiari, sotto il controllo solo visivo e non auditivo del personale”. La criminalità si è ingegnata: adesso usa i droni per consegnare in volo droga e telefoni cellulari all’interno delle carceri. Ultimamente stava per accadere anche nel penitenziario che lei dirige. Come siete riusciti a stroncare sul nascere lo stratagemma criminale? “È certamente una sfida complessa, poiché i criminali spesso adottano metodi sempre più ingegnosi per eludere la sicurezza. La Casa Circondariale di Enna è dotata di un buon sistema di sicurezza perimetrale con telecamere di sorveglianza ad alta risoluzione e sensori di movimento che aiutano a monitorare attività sospette e prevenire l’ingresso di droni. Il personale di Polizia Penitenziaria agisce effettuando varie attività di controllo e lavora a stretto contatto con le altre forze dell’ordine migliorando la condivisione di informazioni e la capacità di risposta. Solo attraverso sforzi combinati è possibile mitigare efficacemente questa minaccia emergente”. Quanto le piace il lavoro che svolge? “Ah, quanto mi piace il mio lavoro? Beh, diciamo che è un po’ come una relazione a lungo termine: ci sono giorni in cui lo adoro follemente e altri in cui mi fa venir voglia di prendere una lunga vacanza! In ogni caso, amo le sfide che mi presenta e la possibilità di fare la differenza, anche se a volte mi sento un po’ come un acrobata che cerca di tenere in equilibrio tutto su un filo sottile. Quindi sì, direi che mi piace davvero tanto, anche quando le cose si fanno impegnative. Diciamo che soffro di “carcerite acuta!”. Ha mai avuto paura per l’incarico che ricopre? “Paura? Ci sono momenti in cui la responsabilità o le tensioni sembrano un po’ pesanti e non risolvibili. Tuttavia, è proprio in quei momenti che mi rendo conto di potere contare sul mio gruppo di lavoro e le difficoltà della vita lavorativa diventano un po’ più gestibili. Quindi, più che paura, direi che provo un sano rispetto per la complessità del mio incarico, sempre pronto a gestirla con professionalità e molta calma. Ripeto spesso la parola “Coraggio!”: è un’esortazione che rivolgo a me stessa e a ciascuno di noi”. Ferrara. Comune e Garante in visita al carcere: “Migliorare le condizioni di detenzione” Il Resto del Carlino, 1 dicembre 2024 Presente anche il prefetto: “Un importante momento di ascolto e condivisione”. L’assessore Coletti: “Ogni anno finanziamo con 185mila euro progetti e attività”. Testimoniare attenzione alla comunità penitenziaria e garantire impegno per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Erano gli obiettivi della visita istituzionale all’Arginone che, nei giorni scorsi, ha visto protagonisti l’assessore alle Politiche socio-sanitarie Cristina Coletti, il prefetto Massimo Marchesiello, la nuova garante dei detenuti Manuela Macario, il dirigente penitenziario ad interim Stefano Di Lena, la comandante della polizia penitenziaria Annalisa Gadaleta e Annamaria Romano, funzionario giuridico-pedagogico che si occupa delle attività per i detenuti. È stata anche la prima occasione, dall’insediamento del direttore e della neo Garante dei detenuti, per fare il punto della situazione sulla struttura, che conta a oggi 405 persone recluse, suddivise in undici sezioni e differenti circuiti di sicurezza. Il prefetto ha definito la visita “un importante momento di condivisione e ascolto, volto a rafforzare il legame tra il carcere e il tessuto sociale della città”. L’assessore Coletti ha ribadito l’impegno del Comune, che destina annualmente 185mila euro, finanziamento aumentato negli ultimi tre anni, per sostenere progetti rivolti ai detenuti, quali il teatro, le attività sportive e di istruzione. “Ho trovato un territorio ricco di risorse e collaborazioni - ha detto Di Lena - grazie anche al sostegno dell’amministrazione comunale e a un personale estremamente bravo e collaborativo. Il carcere e la comunità penitenziaria è parte della città”. Macario ha condiviso le prime impressioni sul suo nuovo ruolo. “La mia presenza è volta a rafforzare il dialogo e il supporto ai detenuti, ma anche di chi lavora nella casa circondariale - ha dichiarato -. Da un mese mi reco in carcere tutte le settimane per incontrare i detenuti. In un carcere complesso come quello di Ferrara il mio obiettivo è garantire armonia e collaborazione tra tutte le parti”. Vallo della Lucania. Ostie preparate in carcere dai detenuti, inaugurato il laboratorio Carlo Acutis di Carmela Santi Il Mattino, 1 dicembre 2024 “Confidate nella misericordia di Dio. Ognuno di noi è peccatore ma è speciale ed unico e quotidianamente è chiamato a seguire la strada della santità. Coraggio, pregate e seguite l’esempio di Carlo perché tutti abbiamo una speranza”. Così Antonia Salzano, la mamma del Beato Carlo Acutis nel videomessaggio ai detenuti del carcere di Vallo della Lucania, questa mattina, durante la cerimonia di presentazione del laboratorio di ostie “Pane Quotidiano Carlo Acutis” interno alla casa circondariale “Alfredo Paragano” di Vallo. Ed è stato intitolato al Beato Carlo Acutis, protettore dei millennial, che il 25 aprile 2025 durante il Giubileo sarà proclamato Santo da Papa Francesco, il laboratorio del carcere di Vallo della Lucania di produzione di ostie e particole destinate alla vendita per il culto. Laboratorio che rientra nel progetto formativo-solidale nato dalla sinergia l’istituto penitenziario, le Diocesi di Teggiano-Policastro e di Vallo della Lucania e la cooperativa sociale “Al Tuo Fianco”, che vede i detenuti, assunti con regolare contratto di lavoro, impiegato nella produzione delle ostie destinate al culto, inaugurato questa mattina e presentato al pubblico e alla stampa. Ostie per il culto che, tramite la cooperativa, saranno destinate alla vendita alle parrocchie presenti sul territorio campano e nei negozi di articoli religiosi, mentre il ricavato della vendita sarà utilizzato per sostenere il progetto che conta l’assunzione di due lavoratori detenuti. Il messaggio - Un messaggio di speranza, come sottolineato dal Provveditore Regionale della Campania dell’Amministrazione Penitenziaria, Lucia Castellano: “Questa attività, insieme ad altre messe in campo nelle carceri campane, apre le porte alla speranza, inserendo i detenuti in un contesto lavorativo e formativo grazie alla casa circondariale che si apre alla società”. Soddisfazione è stata espressa dal direttore della casa circondariale di Vallo della Lucania, Caterina Sergio: “Opportunità di formazione e reinserimento nella società”. Speranza ma anche fiducia, come sottolineato dal vescovo della Diocesi di Vallo della Lucania, Monsignor Vincenzo Calvosa: “La realtà dei detenuti è nel cuore della Chiesa perché tutti trovino l’occasione di rinnovamento, riscattandosi e acquisendo fiducia nella società”. Progetto che guarda all’umanità, come illustrato dal vescovo della Diocesi Teggiano-Policastro, Monsignor Antonio De Luca: “Il progetto è il completamento della pastorale carceraria. La povertà delle famiglie del Mezzogiorno ed in particolare delle famiglie dei detenuti è in aumento- ha spiegato il vescovo De Luca. -Aumento dello sviluppo e aumento del Pil non significano lotta alla povertà che invece, è aumentata e questo progetto di produzione ostie rientra nelle opportunità di inserimento nel mondo del lavoro dei detenuti perché una società misura il proprio progresso nei termini nei quali è capace di essere punto di riferimento. Questo - ha concluso De Luca - è un passo di umanesimo di cui la nostra società necessita”. Riscatto e dignità - come spiegato dal presidente della cooperativa sociale Al Tuo Fianco. “Un progetto di riscatto e dignità il cui successo è dato delle sinergie tra carcere, Chiesa ed Ente del terzo settore”. Milano. Sono stata in carcere per la Colletta alimentare. Voglio raccontarvela di Giuliana Malaguti Avvenire, 1 dicembre 2024 In redazione è arrivata la riflessione di una volontaria del Banco alimentare dopo la Colletta del 16 novembre scorso, che lei ha fatto nel carcere milanese di Opera. La pubblichiamo integralmente. Sabato 16 novembre, ore 8. In viale Ripamonti, a Milano, ci sono 3 gradi e una nebbia fittissima. Arrivo in anticipo al punto di incontro con Guido Boldrin, responsabile dei volontari di Incontro e Presenza nel carcere di Opera. Non lo incrocio da tanto, ma sono proprio felice di rivederlo. Iniziamo le pratiche per l’ingresso, ci vorrà un po’. Non c’è quell’atmosfera di festa gioiosa dei supermercati, pieni di pettorine svolazzanti arancioni, ma gli sguardi dei volontari brillano. Finiamo le procedure ed entriamo. Per me ogni cosa è nuova: è la mia prima Colletta alimentare in carcere. Dopo aver letto per anni i pezzi di Giorgio Paolucci su Avvenire, oggi sono qui. Andiamo al bar, dove ci ritroviamo per prepararci. Guido ci legge e commenta le “10 righe”, il messaggio di Banco Alimentare per vivere la Colletta, che prende spunto da quello di Papa Francesco, per l’VIII^ Giornata Mondiale dei Poveri (il 17 novembre): “I poveri hanno molto da insegnare: in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, loro remano contro corrente, evidenziando che l’essenziale per la vita è ben altro. [Occorre] un cuore umile, che abbia il coraggio di diventare mendicante. Un cuore pronto a riconoscersi povero e bisognoso…”. Diciamo un Angelus e si parte. Ci dividiamo in gruppi, io seguo Guido, nomen omen. Siamo all’ingresso in attesa dell’ok della polizia penitenziaria, da cui verremo costantemente scortati nel nostro viaggio. Saliamo al secondo piano. Ci fermiamo un attimo nel corridoio antistante. Davide, uno dei volontari esperti, entra nella guardiola e prende il microfono. Spiega ai detenuti perché siamo lì e poi legge le “10 righe”. Nelle sezioni di detenzione c’è tanto rumore e movimento. Qualcuno si ferma e ascolta. Guido, nel frattempo, mi spiega come funziona qui la Colletta. Qualche settimana prima, i detenuti vengono informati della proposta e ricevono un modulo su cui possono indicare gli alimenti che acquisteranno nel magazzino alimentare di Opera, per donarli. Li comprano con i loro soldi, i risparmi o quello che guadagnano facendo alcuni lavori in carcere. Ci avviamo verso le celle. Mentre camminiamo sento raccontare che uno dei detenuti, Giuseppe, che era ad Opera fino allo scorso anno, oggi partecipa alla sua prima Colletta da uomo libero e si sente al settimo cielo perché sta anche facendo il volontario. Avanziamo nel corridoio e ci vengono incontro persone di età diverse, che hanno commesso reati cosiddetti comuni (furto, rapina, appropriazione indebita, omicidio, etc.). Incontriamo Giuseppe. “Ho già dato con la scheda” dice, “ma prendete anche queste (5 confezioni di passata di pomodoro), sono buone, sono di marca!”. Butto un occhio alle sue spalle: la cella è uno spazio piccolo, spoglio, mi si strizza il cuore. Ci sono 3 letti. Sulle pareti oggetti vari fatti con gli stuzzicadenti, con la carta igienica, con pezzetti di stoffa. Qualcuno invece si chiude dentro, ci manda via, ci dice che non ha nulla e si allontana infastidito. Incrocio sguardi. Leggo rabbia, rassegnazione, ma anche un po’ di curiosità verso le nostre pettorine. Mai come oggi mi sento “protetta” dal mio piccolo mantello arancione, mentre mi sposto in mezzo a loro. Ma il disagio che provo con la mia presenza mendicante, è tanto. Mi “dò” fastidio. Perché siamo qui a chiedere di donare a loro, che sono i poveri delle “10 righe”? Mi viene incontro Pino, che mi mostra fiero delle piccole borse, realizzate con le confezioni riciclate del caffè. Un progetto, questo, ancora riservato, a cui partecipano i detenuti più creativi e pazienti. Guido mi spiega che la Colletta nelle carceri è nata nel 2010, dal dialogo con un detenuto a San Vittore. Mi racconta che chiedeva con ostinazione di poter partecipare al gesto, pur essendo recluso. Da lì l’intuizione: se un detenuto non può andare alla Colletta, la Colletta va dal detenuto e… si fa in carcere! Semplice no?! E da lì, in 14 anni tante adesioni, tante edizioni fino ad oggi, in cui sono 40 gli istituti penitenziari che in tutta Italia partecipano. Poi si avvicina un altro detenuto che ci dà della pasta e della passata, “io so cos’è la fame...” dice. Poi racconta che il figlio di 36 anni, dopo tanti lavori precari, ne ha finalmente trovato uno stabile, così prezioso per lui ed i figli piccoli, i suoi nipoti… e mentre lo dice si commuove e si allontana. Lo ringrazio. Mi accorgo di non riuscire a parlare. Sono sopraffatta da quello che sto vivendo. Passiamo davanti alle docce, esce un detenuto in accappatoio reggendosi ad una stampella, faccio in tempo e vedere dentro: uno spazio spoglio, senza privacy. Poi arriva un altro detenuto. È un nonno e ci dona un sacchetto pieno di merendine e biscotti. “Sono per i bambini” ci dice, e aggiunge che è un nonno anche lui, “di 4 nipoti! Ma non li ho mai conosciuti…”. Deglutisco. Abbasso lo sguardo, gli dico grazie mentre gli stringo la mano, mi risponde “grazie a voi per quello che fate!”. Non ricordo una situazione così. Una situazione in cui mi sono data così tanto fastidio a chiedere. Andiamo poi nella sezione dove ci sono i detenuti in “alta sicurezza”. Qui troviamo gli altri volontari. Prende il microfono Edgardo, anche lui volontario come me alla prima Colletta in carcere. Lo osservo, respira, manda giù e poi attacca a spiegare perché siamo lì. In questa sezione i detenuti sono chiusi nelle celle. I 2 agenti chiudono il blindo dietro a noi ed aprono le celle, controllando la situazione. Non esce nessuno. Di nuovo al microfono: “Buongiorno, oggi è la Giornata della Colletta Alimentare, siamo qui perché vogliamo invitarvi a partecipare...”, seguono le 10 righe. Ecco che escono un paio di persone. Sono anziani, molto. Passiamo davanti a una cella e vedo un altro “nonno” che ci fa segno di avvicinarci. Sorride, si chiama Vincenzo. Ci allunga due borse che ha preparato. Due borse piene di olio e di tonno. “Sono per voi... Guido mi guarda e vede i miei occhi farsi liquidi. Poi ci avviciniamo ad un’altra cella, due ragazzi nordafricani ci danno tonno, passata, biscotti. Mano a mano ci danno tutti gli alimenti che hanno sul tavolo. A loro non resta nulla. È davanti a questo nulla, che rimane a loro, che si schiantano i miei pregiudizi. Finiamo il giro e scendiamo al piano terra dove svuotiamo tutte le ceste con gli alimenti donati. Li inscatoliamo e carichiamo sul furgone: 1.220 Kg in partenza per Muggiò. Facciamo un piccolo momento conclusivo, ringrazio tutti e in modo particolare Guido per essere stato così prezioso. Torno in auto, inserisco le chiavi nel quadro e mi fermo un attimo. Cosa vuol dire davvero condividere? Come si resta umani in uno stato così di privazione e senza libertà? Cosa ci salva Mi torna in mente Liliana Segre, quando racconta che, mentre era prigioniera ad Auschwitz, stette malissimo per un ascesso ad un braccio. Di ritorno dall’infermeria, un’altra prigioniera vide la sua disperazione e le donò un piccolo pezzo di carota, che aveva nascosto per sé. Quel pezzettino di carota salvò Liliana. La salvò non dalla fame. A salvarla fu quel grazie che sgorgò dal suo cuore e che le fece provare di nuovo un sentimento che credeva dimenticato: la gratitudine. Un cuore capace di condivisione e gratitudine, per restare umani, in ogni condizione. Bergamo. La vita è dura... per chi non ha un po’ di verdura di Maurizio Gazzoni dolcevitaonline.it, 1 dicembre 2024 Poco prima che venissi rilasciato dalla Casa Circondariale di Bergamo era entrato in funzione, all’interno della medesima un forno per il pane la cui produzione era gestita dai reclusi, previo un corso di formazione organizzato ad hoc. Uno o due giorni la settimana veniva distribuito a tutti i detenuti, in quantità ridotta, il pane prodotto dal forno in questione; ed a volte persino qualche pizzetta “sperimentale”. Recentemente ho saputo di analoghe iniziative rivolte alla produzione di ortaggi con il sistema della coltivazione biologica all’interno di Istituti ove spazi disponibili sono stati attrezzati allo scopo. Non voglio ripetermi soffermandomi sulla bassa qualità del vitto che viene somministrato all’interno delle Carceri, e nemmeno sulle responsabilità rispetto a tali pessime condizioni, che credo andrebbero ricercate più che altro a monte del carrello che ogni sera passa in sezione per distribuire “la sbobba”. In una realtà che non riesce a coprire le spese primarie ed i turni del personale diventa difficile conciliare le esigenze del bilancio con quelle del gusto, tuttavia mi ha sconcertato apprendere che la G.D.O. (grande distribuzione organizzata) ha posto dei veti precisi all’immissione sul mercato dei prodotti coltivati o realizzati in carcere, perché questi abbatterebbero i costi al dettaglio riducendo i margini di profitto; già, perché da uno studio effettuato appositamente e? emerso che una volta avviata la produzione sistematica, ciò che uscirebbe dalle “serre serrate” potrebbe coprire un 3% del mercato. L’incrocio dei due dati non richiede commenti approfonditi i quali emergono da soli, ritengo opportuno sottolineare piuttosto che questo sistema porterebbe moltissimi vantaggi sotto diversi aspetti; in primis l’autoproduzione di pane ed ortaggi potrebbe, andando a coprire il fabbisogno interno, risolvere i problemi legati alle forniture esterne (che pero? vedrebbero azzerare il profitto delle ditte appaltatrici del servizio); aumenterebbe la qualità di ciò che mangerebbero i detenuti impossibilitati ad acquistare generi alimentari attraverso il sopravvitto, e ultimo ma non ultimo, permetterebbe a tanti sciagurati che vedono trascorrere inutilmente anni “sbarrati” oltre che di imparare un mestiere, di gratificarsi delle piccole ma preziose cose come vedere crescere i pomodori o il basilico che hanno piantati, ed il conseguente valore rieducativo ed umano credo salti agli occhi. Trovo pazzesco che una potenzialità palese venga, come molte altre, sacrificata sull’altare dei miseri interessi delle consolidate meccaniche burocratiche sulle quali il sistema penitenziario si continua a reggere. Mi spiace non contare abbastanza perché il peso della mia voce diventi cosi? grande da non poter essere ignorato e mi pare di sentire le motivazioni inattaccabili dei burocrati che mai appoggerebbero iniziative del genere, per questo chiudo con un encomio a tutti coloro che nel loro piccolo hanno scardinato anche solo una minima parte del pesante portone e, nonostante gli “altri” riescono a realizzare la loro piccola, ma insostituibile ed importante parte per poter ribadire con orgoglio che la civiltà di una Nazione si misura dalla condizione delle sue prigioni. Lecco. Sushi e onigiri: lezioni di cucina giapponese in carcere leccotoday.it, 1 dicembre 2024 La Casa circondariale di Pescarenico e la Nippon food academy hanno promosso un’attività inclusiva rivolta ai detenuti: “Opportunità di formazione e riabilitazione”. Lezioni di sushi in carcere. La casa circondariale di Lecco ha inaugurato un innovativo progetto formativo dedicato alla cucina giapponese, un’iniziativa di solidarietà che coniuga apprendimento culinario, integrazione e opportunità di crescita personale per i detenuti. Il corso “Tecniche di cucina giapponese” si è tenuto il 28 e il 29 novembre ed è stato condotto dai docenti Paolo Tucci e Takashi Kido, rispettivamente gastronomo e chef della Nippon Food Academy, nonché Jun Jie Sun, che ha sponsorizzato l’iniziativa. Tali incontri hanno offerto ai detenuti un’esperienza hands-on di preparazione di piatti tipici della tradizione giapponese. L’iniziativa ha coinvolto circa 20 detenuti in un percorso di 12 ore che è culminato con una degustazione per tutti gli ospiti della Casa circondariale. La direttrice del carcere di Pescarenico, Luisa Mattina, ha sottolineato che questo progetto è molto più di un semplice corso di cucina in quanto rappresenta un’opportunità concreta di formazione, di acquisizione di nuove competenze, di crescita personale e di condivisione. Attraverso la cucina, si è offerto ai detenuti della Casa circondariale uno strumento di riscatto, di apprendimento e di connessione con una cultura diversa dalla propria. Questa esperienza di promozione della solidarietà e di inclusione attraverso il cibo ha rappresentato un’occasione per costruire nuovi rapporti con il mondo esterno. Il programma ha previsto la preparazione di piatti autentici come: Onigiri (riso modellato), Temaki (rotoli di sushi), Salsa yukke, Pollo teriyaki, Miso shiru, preparazioni che consentiranno ai partecipanti di apprendere tecniche di preparazione e impiattamento. L’iniziativa sottolinea l’impegno della Casa Circondariale di Lecco e della Nippon Food Academy nel promuovere attività formative e inclusive che vadano oltre la dimensione detentiva, offrendo opportunità concrete di apprendimento e riabilitazione. Fermo. “Dona un addobbo per il carcere!” Il Resto del Carlino, 1 dicembre 2024 Un progetto di solidarietà a Fermo: la cittadinanza invitata a donare addobbi natalizi per rendere più accogliente la casa di reclusione durante le festività. Iniziativa per favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Un addobbo di Natale è un momento di vicinanza, è un attimo di festa e di condivisione anche dove c’è solitudine e attesa. Per questo la casa di reclusione di Fermo, in collaborazione con il comune, ha pensato ad un progetto che possa portare un po’ di calore alle persone recluse, nel tempo più difficile, quello del Natale. “Come è noto, spiega il direttore della casa di reclusione Serena Stoico, il periodo delle festività natalizie è particolarmente difficile per quanti si trovano in stato di privazione della libertà personale, lontani dai propri affetti e dalle proprie famiglie. Per rendere la sezione di reclusione più accogliente e far entrare lo spirito del Natale anche in istituto, con il comune e d’intesa con il sindaco Paolo Calcinaro e con l’assessore alla cultura Micol Lanzidei invitiamo la cittadinanza a donare un addobbo per il carcere”. In concreto il comune ha fornito un baule che sarà esposto da lunedì fino alla mattina dell’8 dicembre davanti al carcere di Fermo, chi vorrà potrà donare un addobbo natalizio. Il baule sarà poi trasportato in piazza del popolo in occasione del mercato dell’8 dicembre. Quello che sarà raccolto in quei giorni che portano verso il tempo più bello andranno a decorare la sezione, la sala colloqui, le sale destinate alla socialità e alla permanenza all’aria aperta. L’iniziativa sarà presentata dal direttore Stoico anche nel corso dell’incontro che sarà organizzato in comune per raccontare le iniziative del Natale: “Si tratta, ancora una volta di un segnale di concreta partecipazione della comunità fermana al percorso di reinserimento sociale del detenuto”, conclude la direttrice Stoico. Arbus, donati strumenti musicali alla colonia penale di Is Arenas di Mauro Serra L’Unione Sarda, 1 dicembre 2024 Chitarre, tastiere, violini, trombe, sax, flauti, e anche amplificatori e cavi per l’utilizzo degli strumenti. Nell’ambito del progetto “Tutto il mondo è musica”, il Rotary Club di Sanluri Medio Campidano, le Cooperative Alfa beta e Virginia hanno donato alla colonia penale Is Arenas, nel comune di Arbus, 33 strumenti, tra cui chitarre, tastiere, violini, trombe, sax, flauti, e anche amplificatori, cavi e per l’utilizzo degli strumenti. La donazione è stata fatta dopo aver svolto e sentito le esigenze delle persone all’interno della struttura penitenziaria. “L’idea - ha spiegato Orsola Altea, presidente del Rotary Club Sanluri Medio Campidano - ha come obiettivo l’utilizzo della musica quale strumento di facilitazione per l’unione di individui appartenenti a diverse nazionalità all’interno di una struttura penitenziaria. I destinatari del progetto sono i detenuti della casa di reclusione Is Arenas, situata in Sardegna ad Arbus (SU), che funge da istituto penale di lavoro all’aperto in un’area dell’isola non accessibile al turismo di massa. Il progetto si propone di migliorare l’integrazione e la socializzazione dei detenuti provenienti da differenti contesti nazionali, attraverso la creazione di un programma formativo musicale che coinvolga tutte le etnie presenti. L’intento del percorso è quello di utilizzare la musica come “ponte” tra culture diverse, promuovendo la consapevolezza di un’identità comunitaria e lasciando da parte la conflittualità al di fuori delle mura del penitenziario. Al termine del programma formativo i partecipanti si esibiranno con gli strumenti musicali, previsti nel progetto, e si svolgerà anche una tavola rotonda per una riflessione a più voci sull’istituzione carceraria”. Gli strumenti musicali sono stati comprati grazie a contributi economici, oltre della cooperativa guspinese, delle sedi del Rotary Cagliari, Cagliari Nord, Cagliari Sud, Quartu Sant’Elena, Bosa, Siniscola, Sardegna Centrale, Nuoro, Passport. La struttura di Is Arenas è una delle tre colonie penali presenti nell’Isola ed è stata istituita negli anni ‘60 in un’area ex mineraria. Attualmente accoglie esclusivamente detenuti con condanne definitive, per lo più stranieri, che svolgono attività lavorative all’interno di una vasta area di 2.700 ettari, dedicata a colture, pascoli e in parte caratterizzata da terreni boschivi. Il sistema di detenzione adottato è particolarmente aperto, e una buona parte delle giornate sono trascorse dai detenuti nelle attività condotte nei campi. Maria Teresa Errico, direttrice della casa di reclusione, ha voluto estendere un ringraziamento per la realizzazione del progetto, per la generosa donazione e per il modo in cui è stata curata la parte iniziale, attraverso il coinvolgimento diretto degli ospiti della struttura, tramite la rilevazione delle proprie preferenze rispetto agli stili e agli strumenti musicali. “Il Progetto - conclude Altea - è stato propedeuticamente condiviso con la Direttrice della Casa di Reclusione Dr.ssa Maria Teresa Errico, al suo team dell’aerea educativa e con i detenuti presenti. Fase che avuto la finalità di creare con i detenuti un primo contatto e suscitare il loro coinvolgimento, che è avvenuto con la partecipazione attiva del Responsabile della sezione educativa della comunità penitenziaria”. I nostri giovani: così fragili, così violenti di Emilio Carelli L’Espresso, 1 dicembre 2024 Dalla famiglia alla scuola siamo incapaci di comprendere dov’è il virus che distrugge ogni valore. “Adolescenti a mano armata” e? il titolo di copertina che vi proponiamo questa settimana con l’intento di analizzare e comprendere il fenomeno sempre più diffuso della violenza fra i giovani minori, che in questi mesi ha provocato tante vittime innocenti, ragazzi uccisi il più delle volte per futili motivi, un insulto, un’occhiata di troppo, una scarpa pestata. Una escalation che riguarda non solo le periferie degradate delle grandi citta?, ma tutto il Paese. Un crescendo di episodi, confermato dai numeri, che non si manifesta soltanto la? dove l’aumento della povertà, le difficolta? economiche e la crescita delle disuguaglianze sociali hanno alimentato un clima di rivolta, anche violenta, nei confronti delle istituzioni e della società. Sono molti, infatti, gli episodi di violenza i cui protagonisti sono cresciuti in famiglie senza particolari problemi economici, bravi ragazzi, anche studiosi, che in diversi casi non hanno mai mostrato segnali di disagio. Si tratta di un malessere che sta dilagando, che vede scuola e famiglie per lo più? con armi spuntate e che chiama in causa una pluralità di fattori, componendo un mosaico complesso che merita da parte di tutti noi una riflessione profonda e seria. Se allarghiamo l’orizzonte scopriamo un contesto sociale molto sfaccettato che a volte sembra intrecciarsi con una crisi educativa profonda e che crea una sorta di spirale pericolosa, coinvolgendo tutta una generazione di giovani, cresciuta in famiglie sempre più fragili, dove il più? delle volte regna la mancanza di solidi riferimenti. Analizzando le indagini di magistrati e forze dell’ordine ciò che colpisce in questi minori e? l’assenza di vergogna e pentimento. In questo clima sembra farsi strada una totale mancanza di regole, di valori e soprattutto del rispetto verso l’altro. Una sorta di frattura che ostacola il dialogo generazionale, annullando ogni tentativo di comprensione mentre la società? sembra sempre più incapace di predisporre un ambiente educativo che risponda alle reali esigenze affettive e relazionali dei giovani. Alla ricerca delle cause del dilagare della violenza fra i minori c’e? chi chiama in causa l’avvento delle tecnologie digitali o l’uso di sostanze stupefacenti. Probabilmente dovremmo porre maggiore enfasi su fattori precoci e sistemici, come la carenza di modelli educativi nella famiglia o l’esposizione a modelli di violenza e una scuola che troppo spesso non riesce a promuovere l’inclusione, l’educazione emozionale e men che meno i valori. Questo ci porta a riflettere su come l’egoismo e l’indifferenza, sempre più radicati nei nostri comportamenti quotidiani, abbiano letteralmente soppiantato l’empatia e la solidarietà in favore di un modello di vita basato sull’affermazione di se? a scapito dell’altro. Infine, c’e? un fenomeno recente che ha accentuato questo senso di disagio: il cyberbullismo, che oggi non si limita all’aggressione fisica, ma si espande all’umiliazione digitale delle vittime, amplificandosi attraverso il web e i social media, creando uno scenario che ha raggiunto proporzioni insostenibili in questi ultimi anni. Ecco perché resta fondamentale stabilire un nuovo dialogo, perché comprendere, ascoltare e orientare i nostri giovani potrebbe essere la chiave per spezzare il ciclo della violenza. Ora e? tempo di riflessione e ascolto. Adolescenti a mano armata di Floriana Bulfon L’Espresso, 1 dicembre 2024 Girano con il coltello in tasca, o anche con la pistola. Per sentirsi grandi o esorcizzare i propri demoni. Viaggio in un malessere che dilaga. Contro il quale l’unica risposta è la repressione. Fallimentare. Parole come coltelli. Bastano un battibecco social o una lite ai tavoli di un pub per tirare fuori le lame. Si muore o si viene feriti per quelli che il Codice penale definisce “futili motivi” ma che esprimono un male profondo perché i protagonisti sono giovanissimi, parecchi sotto i diciott’anni e già a mano armata. Tantissimi quelli che vanno in giro con un coltello in tasca, di ogni ceto sociale e in qualsiasi citta?, dal Nord del benessere alle periferie estreme del Sud. Alcuni passano alla pistola prima di compiere la maggiore età e non la usano per rapinare ma tirano il grilletto per punire un’occhiata di troppo o una pedata sulle scarpe griffate. Dicono tutti di essere assassini inconsapevoli, perché non si sono resi conto di uccidere: una generazione incosciente dove lame e persino revolver stanno diventando la normalità. Siamo davanti a un’emergenza che nessuno vuole affrontare: i genitori che chiedono aiuto vengono lasciati soli; gli insegnanti che lanciano l’allarme non ricevono risposte. Le istituzioni hanno chiuso gli occhi sulla quotidianità lancinante dei nostri figli, sempre più abbandonati a se stessi confondendo la realtà con i videogiochi: non percepiscono il valore della vita e per questo ignorano quanto sia pericoloso impugnare un coltello. Napoli viene indicata come la capitale di questi omicidi acerbi, senza mai un movente: una citta? dove e? facile trovare una pistola. Negli ultimi dieci mesi i carabinieri hanno arrestato cento persone con addosso una rivoltella: otto i minorenni mentre altri trenta sono stati denunciati. “Vi prego, deponete le armi, abbandonate la logica del sopruso e della prepotenza e lasciatevi raggiungere, educare ed accompagnare da chi crede ancora in voi, da chi vede nel vostro cuore un punto sacro e accessibile al bene. Perché e? in gioco la vostra vita e cambiare e? possibile”, ha esortato l’arcivescovo Mimmo Battaglia celebrando i funerali di Emanuele Tufano, ammazzato a 15 anni durante una sparatoria tra baby gang il 24 ottobre. Ormai non ci sono limiti anagrafici alla violenza. La scorsa settimana a Giugliano, cittadina ormai fusa con le periferie partenopee, un bambino di dieci anni ne ha accoltellato uno di tredici per farsi dare un pallone. Il problema e? ovunque, basta seguire la cronaca più recente. A Roma un quattordicenne sgridato per schiamazzi ha replicato tirando fuori il pugnale. A San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, un quattordicenne ha inferto quattro fendenti al padre che lo redarguiva: lo descrivono come un ragazzo serio, “con un alto rendimento scolastico”. A Latina il sabato sera la movida e? finita con il polmone trafitto di un adolescente e altri due giovani con tagli al collo. Si può provare a fare luce sul lato oscuro della giovane Italia partendo da Bologna. Marco ha sedici anni e già tre volte si e? trovato una lama puntata contro: “Un anno fa ero con i miei amici in un giardinetto del centro. Un gruppo ha cercato di provocarci, poi ha circondato uno di noi che pero? e? riuscito a scappare. La seconda volta, durante una festa in una casa privata, una comitiva si e? presentata minacciosa, volevano entrare e mi hanno messo un coltello alla gola. In un altro caso hanno chiuso in un angolo un coetaneo che conoscevo, accusandolo di parlare con una ragazza fidanzata. Ho cercato di dividerli. E sono spuntati i coltelli”. C’e? di più. Marco sostiene che pure sotto le Due Torri “le pistole sicuramente circolano. Ce l’hanno molti per farla vedere e intimidire fortemente gli avversari”. C’e? un clima diffuso di sfida e di paura, totalmente fuori controllo, che genera violenza. Lo scorso 4 settembre a Bologna Fallou e? stato ucciso a sedici anni da un coetaneo che neppure conosceva. Atletico e generoso, e? intervenuto con la grinta del giocatore di football americano per aiutare un amico, a cui riteneva avessero rubato il telefonino. Ha placcato il presunto ladro ed e? stato travolto dall’esplosione di una rabbia accumulata da un adolescente che si sentiva bullizzato. “Per Fallou l’amicizia era condividere tutto - racconta la mamma, Danila Corenzi - Poteva essere un pacchetto di patatine; poteva essere la penna, un quaderno. Faceva anche il volontario nella struttura dove lavoro: si occupava di un ragazzo con delle disabilita?. Studiava e il suo sogno era venire assunto alla Ducati: avrebbe svolto in quell’azienda l’alternanza scuola-lavoro, non vedeva l’ora”. Le famiglie della vittima e del carnefice appartengono a quella che una volta si chiamava “piccola borghesia”: entrambe non riescono a trovare un perché. “Io faccio l’educatrice e sento il dovere morale di interrogarmi su questa, non so come definirla, necessita?, usanza, attitudine, moda... Perché si esce con un coltello? - ragiona Danila Corenzi - Perché fa figo? Allora ragioniamo sul che cosa fa figo: la scarpa firmata o il vestito griffato o magari un’acconciatura diversa dal normale? Perché senti la necessita? di difenderti? Vorrei sapere da chi, da cosa? E perché attacchi? Perché ti senti minacciato? Se uno esce con un coltello in mano e? più probabile che ti venga di usarlo. E questo e? brutto”. Il padre del sedicenne che ha ucciso Fallou, anonimo per tutelare l’identità del figlio, e? un dipendente statale. La sua e? l’altra faccia del dramma. “Già una volta gli avevo trovato un coltellino nello zaino e mi sono fiondato dai carabinieri - ricorda con dolore - Gli ho chiesto di telefonargli, di spaventarlo, di fargli capire a cosa poteva andare incontro. Non ho fatto finta di niente: gli ho sequestrato il coltello, l’ho cazziato. Mi ha replicato: “Papa?, tu abitavi in un paesino con tanti cugini e avevi qualcuno che ti poteva difendere se ti davano fastidio. Io qui non ho nessuno. Lo sai che sotto le botte uno può andare in coma e ci può pure rimanere? Come devo fare per difendermi?” Io cosa gli dovevo dire? Che deve fare un genitore più che andare dai carabinieri?”. L’uomo racconta una serie di episodi violenti di cui il figlio era stato vittima - a cui Fallou era estraneo - ripetuti nell’arco di due anni: “Ho scritto alla scuola, ho mandato pec, ho cercato di contattare la dirigente. Niente. Le aggressioni sono proseguite. L’8 maggio ho scritto un’altra pec alla dirigenza ma non ho avuto risposta e allora ho presentato una nuova de- nuncia ai carabinieri: mai saputo nulla”. Anche la madre di Fallou pensa all’uccisore: “Io spero veramente che in futuro salvi almeno una vita per ripagare quella di mio figlio. E che magari abbia l’opportunità di studiare, di impegnarsi, di fare un lavoro per salvare tante vite. A noi Fallou non ce lo restituisce nessuno. Ma ho la speranza di riflettere insieme, di assicurare un’opportunità a tutti e soprattutto a coloro che hanno un disagio”. Il giovane rinchiuso nell’istituto minorile non sembra avere davanti una speranza: “E? in isolamento ventidue ore al giorno -riferisce il padre, non può frequentare la scuola. Gli altri lo trattano con ostilità. Che percorso lo attende? Lui era soltanto spaventato, so che e? un buono...”. “Dopo quello che e? successo alcuni ragazzi mi hanno detto che conoscono tanti che hanno il coltello in tasca, persino a nove anni: “Se non lo hai, sei uno sfigato” - spiega Gaetano Passarelli, professore dell’Istituto frequentato da Fallou, ancora turbato - Durante le ore di lezione, un insegnante può poco: c’e? un altro livello di comunicazione, di sentimenti, di dinamiche che noi non intercettiamo. C’e? bisogno di psicologi per provare a costruire spazi in cui ragazze e ragazzi prendano parola, si assumano le responsabilità ma lo facciano nelle loro dinamiche. “Sono da 40 anni nella scuola e nell’ultimo periodo e? peggiorato l’uso dei coltelli - ragiona Roberto Fiorini, dirigente scolastico dell’IIS Enrico Mattei - La scuola dovrebbe aiutarli a sviluppare un linguaggio diverso ma e? organizzata come un’erogazione frontale di contenuti. Purtroppo e? rimasta a livello gentiliano, la più fascista delle leggi fasciste”. Le statistiche del Viminale registrano un aumento dei minori arrestati o denunciati del 15 per cento in dodici anni: dai 28.196 del 2010 ai 32.522 del 2022. Nei reati di furto, rapina, estorsione la crescita e? del 39,47 per cento. Impressionante il dato delle risse, arrivato a un incremento di oltre il 57 per cento. Un bilancio che purtroppo pare destinato a crescere. “Dopo il Covid vi e? stato un aumento di uso di armi bianche: e? un fenomeno trasversale, ragazzi di varie età e di varia estrazione”: Ciro Cascone da vent’anni si occupa di giustizia minorile e fino al 2023 e? stato procuratore capo presso il tribunale dei minorenni di Milano: “Di fondo c’e? una mancata consapevolezza, accompagnata a un senso di impunita?. A Milano ho cercato di invertire questa rotta: il semplice porto di un coltello sfociava in un processo perché era l’unico modo per far comprendere ai genitori più che ai ragazzi la gravita? dei comportamenti. So bene che non e? risolutivo”. L’unico intervento del governo e? stato il Decreto Caivano. “Alcuni aspetti del Decreto tutto sommato hanno un loro fondamento - commenta Cascone - Prevedere una possibilità più ampia di arresto ha un senso come messaggio da mandare all’adolescente, perché l’aspetto pericoloso per molti e? il delirio di onnipotenza”. Genitori, insegnanti, magistrati si sono resi conto che c’e? una generazione abbandonata, in quella che Cascone definisce “solitudine educativa”. Più che in passato, e? esposta senza strumenti a cattivi maestri che inneggiano al calibro nove o spiegano come mollare fendenti. Ma la risposta e? solo insistere sulla repressione: “Il Decreto non ha risolto un bel niente: ha incrementato soprattutto la spinta punitiva, mentre invece servivano altre cose. I penitenziari minorili ora sono sovraffollati e non riusciamo a dare altre possibilità perché le comunità sono pochissime. E? una scelta politica, chiaramente”, dice Cascone. E conclude: “La prevenzione fa ancora fatica ad affermarsi o meglio abbiamo difficolta? proprio con questo concetto”. In seicento al Corvetto per la marcia in ricordo di Ramy al grido: “Giustizia, giustizia” di Francesca Del Vecchio La Stampa, 1 dicembre 2024 È una marcia silenziosa quella che sfila in via Mompiani a Milano, quartiere Corvetto. Si ferma sotto al civico 6, dove vive la famiglia di Rami Elgaml, il 19 enne morto in scooter durante un inseguimento con i carabinieri nella notte tra sabato e domenica scorsi. I genitori del ragazzo hanno scelto di non partecipare alla fiaccolata organizzata dagli amici e condivisa anche dai collettivi di alcuni centri sociali e dai Giovani Palestinesi di Milano. Nonostante la freddissima serata milanese, le persone presenti erano circa 600. Tra loro anche la fidanzata di Ramy che si è inginocchiata, piangendo, davanti al luogo dove il 19enne domenica scorsa ha perso la vita. E dove i partecipanti al corteo hanno intonato in coro: “Giustizia, giustizia!”. Ci sono fumogeni rossi e blu, uno striscione realizzato dai giovani di quartieri vicini che recita: “Uniti nel vostro dolore”. Alcuni amici di Ramy hanno esposto una grossa fotografia del ragazzo e per strada è stato affisso anche uno striscione a firma del centro sociale Lambretta con scritto: “Ma quale sicurezza? Verità per Ramy e Fares”. “Tanta gente - ha spiegato ai manifestanti un amico del ragazzo scomparso - ci ha chiesto di non passare per questa strada per evitare brutti ricordi ai genitori e al fratello. Noi abbiamo deciso di passare in silenzio: in ricordo del nostro amico”. Gli organizzatori, che hanno gestito il corteo, rimproverando alla stampa l’eccessiva presenza, hanno anche avvertito “chiunque non abbia intenzioni pacifiche di andare via perché non bene accetto”. C’è stato anche un momento di tensione con fischi e contestazioni alla consigliera regionale del Pd, Carmela Rozza, che ha preso la parola: “I giovani dei quartieri popolari devono avere tutte le opportunità possibili”, ha detto Rozza. “Le istituzioni devono essere vicine. Potete contare su di me”. “Vieni qui a fare campagna elettorale, vergogna”, ha urlato qualcuno. “Il Corvetto non ha bisogno di più polizia come vuole il governo Meloni”, hanno detto alcuni esponenti dei giovani Palestinesi. Il corteo è arrivato fino in via Ripamonti, luogo dell’incidente in cui Ramy ha perso la vita. Le banlieue a Milano: storie di ordinaria speculazione politica di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2024 L’effetto banlieue di Fontana (non Lucio), le infiltrazioni degli “specialisti della rivolta” di area anarchica, le “seconde generazioni emergenza nazionale” (e chi se non il ministro dei Trasporti che si occupa di tutto tranne che di trasporti?). Ramy aveva 19 anni, è morto domenica al Policlinico di Milano dopo un incidente avvenuto durante un inseguimento notturno: era sul sedile posteriore di uno scooter, ha perso il casco, la moto è scivolata e lui ha urtato violentemente la testa contro il marciapiede. I suoi amici non credono alla ricostruzione degli inquirenti: Ramy non è morto per la caduta dallo scooter, ma perché investito dalla pattuglia dei carabinieri che per otto chilometri lo ha inseguito. I ragazzi sono arrabbiati e il giorno dopo mettono a ferro e fuoco il quartiere: un autobus vandalizzato, cassonetti rovesciati, dieci roghi appiccati per le strade di Corvetto, “il più grande progetto di edilizia popolare costruito negli anni Venti del Novecento quando dare una casa a tutti era un imperativo morale”, come ha ricordato Gianni Biondillo, scrittore e architetto, su Repubblica. Per i ragazzi incazzati che Salvini definisce “emergenza nazionale”, la guerriglia urbana è un’espressione di cordoglio, dicono “sono le nostre condoglianze”. Tra l’altro mica tutti sono seconde generazioni; come ha spiegato Yehia Elgaml - il papà di Ramy, che ieri si è dissociato dalle violenze esprimendo la massima fiducia nella magistratura - Ramy si sentiva più italiano che egiziano. Era fatale però che sui giornali e sui social (c’è differenza, ormai?) si riversasse il diluvio di luoghi comuni insufflati dai politici. E allora ecco Corvetto che diventa banlieue o le emergenze nazionali: tra un po’ il Bataclan è dietro l’angolo. In questa sciatta narrazione, più suggestione che resoconto, però si ritrovano qua e là tracce di verità. Ieri, nel reportage sul nostro giornale, Davide Milosa ha incontrato Nadir, uno dei ragazzi di Corvetto, che gli ha spiegato: “Non mi rispecchio in quelli che hanno fatto casino, credo sia inutile. Però ti dico questo: svegliandomi oggi e vedendo voi giornalisti, trovo che a questo punto in questo Stato questo sia il modo giusto. Senza dirti che ne prenderò parte, il mio pensiero sta cambiando”. Adesso li riconosciamo, insomma: non ci sono Bianciardi che vedano la loro vita agra, sui media per lo più il racconto della città da bere sta dentro quattro vie, il grande mall extralusso con il duomo al centro e qualche vip che, di tanto in tanto, lancia allarmi sicurezza. Milano non è Parigi, perché nelle sue periferie abitano ragazzi i cui genitori arrivano da lontano, Milano forse non è uguale a niente, nemmeno a se stessa dieci anni fa. Su Repubblica Biondillo ha scritto anche che “le periferie, in senso geografico, non esistono. Esistono luoghi di frizione sociale, spesso persino a un passo dal centro storico”, come in questo caso (sei fermate di gialla dal Duomo). “Depositi degli ultimi, dei poveri, degli immigrati, degli anziani, di chi non produce, di chi non è dentro la narrazione della città che non si ferma mai”. È una questione generazionale? Viviamo davvero in un paese che odia i giovani, come sostiene lo scrittore? Forse, ma di certo viviamo in una città che odia i poveri, o se li fila solo in quel residuo di borghesia civica che rimane e fa volontariato. Ultimissimi, ultimi, penultimi e quelli in bilico tra sopravvivenza e miseria restano un’attività extracurriculare, non sono la città. Milano non ha cittadini perché nemmeno gli autisti di Atm possono permettersi un affitto, Milano ha “protagonisti” o “clienti”, pensata com’è per ospitare eventi, dalla settimana della moda a quella del design, dalla Music alla Digital week. E pure la politica non frequenta più i territori (non ne ha bisogno), basta un post per speculare sulla paura. Ruspe sui senzatetto: così Bolzano nasconde il degrado per accogliere “al meglio” i turisti di Daniele Erler Il Domani, 1 dicembre 2024 A pochi giorni dall’apertura dei mercatini, sono stati distrutti alcuni degli accampamenti dove si rifugiavano senzatetto e migranti. Intanto però le temperature scendono sotto allo zero e non ci sono abbastanza posti per accogliere tutti quelli che avrebbero bisogno di un letto. Nel giro di pochi giorni ci sono state quattro retate della polizia per sgomberare le tende che erano accampate a Bolzano, in varie zone della città: è successo a pochi giorni da una trasmissione di Rete4 che descriveva il degrado. In realtà, come ha specificato anche il sindaco Renzo Caramaschi - esponente del centrosinistra - le retate erano già state previste da almeno una settimana prima della curiosità mediatica nazionale. Ma il tema vero è piuttosto un altro e sta facendo discutere la politica cittadina e provinciale: il fatto che quelle persone che sono state tolte dagli accampamenti non hanno un altro posto dove andare. Il tema degli alloggi per i bisognosi è sentitissimo, perché per accogliere quelle stesse persone si è calcolato che servirebbero circa 200 posti. Quelli a disposizione sono in realtà solo 116, almeno al momento, e solo grazie a un intervento straordinario che ha messo a disposizione altri 20 posti, dopo le proteste. Intanto l’inverno sta arrivando e in questa zona del nord Italia di notte le temperature scendono già sotto allo zero. In pieno centro, nelle ricchissime vie dei portici e nella centrale piazza Walther, ci si prepara al Natale. I mercatini, che sono stati inaugurati giovedì sera, sono fra i più affascinanti d’Italia e riescono a dare alla città un’atmosfera che sembra proiettarla al di fuori del tempo. Soprattutto, in questi giorni Bolzano si sta riempiendo di turisti, che cercano la dimensione più romantica del Natale. È proprio questo che dà alla vicenda un contorno paradossale, neanche fosse stata immaginata da Charles Dickens: da un lato alcuni sventurati non sanno dove andare, e per proteggersi dal freddo si devono accontentare delle coperte che saranno fornite loro. A pochi metri di distanza, fra le bancarelle che vendono Brätzel e prodotti artigianali, nei negozi del centro torna a essere protagonista il consumismo vestito da tradizione. Il problema - La vicenda ha ovviamente anche una sua prospettiva elettorale. A Bolzano si vota a maggio e Caramaschi non potrà ricandidarsi, per effetto di una legge, appena approvata dal consiglio regionale, che impedisce il terzo mandato ai sindaci delle città sopra ai 15mila abitanti. Bolzano di abitanti ne sfiora i 110mila e Caramaschi di mandati ne ha già fatti due; chiuderà dunque la sua esperienza da sindaco poco dopo aver compiuto i 79 anni (è coetaneo di Donald Trump). A livello provinciale si è invece votato un anno fa, con una decisa virata verso destra. I temi dell’accoglienza e della sicurezza sono stati al centro di quella campagna elettorale e rischiano di esserlo di nuovo ora, in vista delle comunali. Sulla pelle di migranti, senzatetto e bisognosi c’è dunque un rimpallo di responsabilità che contrappone l’amministrazione cittadina e quella provinciale. Proprio alla provincia spettano i lavori di ristrutturazione dell’ex complesso Indpdap, dove un tempo aveva sede l’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici. Lì dovrebbero essere realizzati un centinaio di posti letto, che permetterebbero di superare la soglia dei 200 previsti da un “piano accoglienza” provinciale, che ha stimato così le esigenze per dare un letto a tutti i senzatetto. Ma i lavori sono in ritardo e ora si prevede che saranno conclusi solo a fine anno, o persino più tardi, nei primi mesi del 2025. Nel frattempo le liste d’attesa si allungano. A fronte di questo, esiste in realtà un’offerta più ampia di posti che sono attivi tutto l’anno: ma il problema è che in inverno la richiesta aumenta all’improvviso, come è ovvio che sia, viste le temperature. E quest’anno l’arrivo dell’inverno è stato anticipato dal passaggio delle videocamere di Mediaset - che hanno denunciato, con toni enfatici, il degrado di Bolzano - e poi dalle retate della polizia. Gli sgomberi - L’ultimo provvedimento è dunque dello scorso 15 novembre, quando è stato sgomberato l’accampamento di senzatetto nella zona di ponte Resia, dove ci sono i piloni dell’autostrada, allo svincolo che porta verso Merano. Le ruspe hanno portato via materassi, tende, coperte e scarpe, borsoni, bottiglie e vestiti, ammassando a bordo dei rimorchi i resti di una vita già vissuta nel degrado. Altri sgomberi c’erano già stati in varie zone della città: nei pressi del ponte Palermo o del termovalorizzatore. Nel giro di poche settimane, la città è stata dunque “ripulita”, per nascondere alla vista ciò che non si vuole vedere. Senza però risolvere la questione delle liste d’attesa per ottenere un posto letto. Come ha sintetizzato, in un titolo, il quotidiano online Salto.bz: “Nuovi sgomberi, vecchi problemi”. A denunciare la situazione è intervenuta Bozen solidale, un’associazione fatta di volontari che in città vorrebbero un’accoglienza diametralmente opposta: “Le persone sgomberate lavorano e ogni notte la passano al gelo in luoghi invisibilizzati, fuori dalla vista dei soliti sciacalli sempre pronti allo scatto per un minuto di notorietà”, hanno scritto. “Centinaia di persone dormono all’addiaccio per colpa di istituzioni che non hanno mai messo in piedi un programma abitativo decente, l’hanno sempre chiamata emergenza cavalcandola politicamente”. A fronte delle polemiche, il Consiglio comunale di Bolzano ha finalmente posto un limite, la scorsa settimana: la giunta ha preso l’impegno a evitare ulteriori sgomberi, almeno fino a quando non ci saranno più posti letto a disposizione. “Sradicarli” - Ma un altro paradosso della vicenda è che in realtà l’amministrazione comunale al governo della città, appunto di centrosinistra, in realtà sta ricevendo attacchi da destra perché gli sgomberi sarebbero stati insufficienti, o quantomeno tardivi. Il capogruppo della Lega, Roberto Selle, ha spiegato ai giornali locali che in quegli accampamenti vivono persone che non “hanno i requisiti per stare nella nostra città”. “Se in questi accampamenti ci sono persone con documenti e un lavoro, devono essere aiutate e devono essere inserite nella società. In caso contrario è giusto sradicarli per far sì che non si radichino sul territorio”. Appena due anni fa a Bolzano, un ragazzo egiziano di 20 anni, durante la notte dell’Immacolata, è morto di freddo: aveva passato la notte in un giaciglio di fortuna nei pressi della stazione ferroviaria della zona industriale. È probabile che non volesse “radicarsi sul territorio”, ma soltanto immaginare una vita migliore nel nord Europa. Migranti. Al Cpr di Ponte Galeria luci sempre accese, scarsa igiene e abuso di psicofarmaci di Marina Piccone L’Osservatore Romano, 1 dicembre 2024 I risultati delle ispezioni della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili. “Vi diamo il benvenuto!”; “Siamo lieti di potervi assistere e sostenere durante il vostro soggiorno presso i nostri Centri”; “Infopoint h24”; “Programmazione di attività per il tempo libero e di laboratori occupazionali”: sono i cartelli che accolgono gli “ospiti” in quello che sembra essere un villaggio vacanze. E, invece, ci troviamo all’ingresso del Centro Permanenza Rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma, dove la scritta “Vi auguriamo un piacevole soggiorno” suona come la beffa finale. Perché di piacevole, nel Cpr, non c’è proprio niente. Secondo quanto denuncia il dossier “Chiusi in gabbia: viaggio nell’inferno del Cpr di Ponte Galeria”, curato dalla Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild), presentato nei giorni scorsi a Roma, a Palazzo Valentini, il centro è infatti un luogo in cui si vive in condizioni indegne, dove vengono violati i diritti umani fondamentali e dove si respira un’aria di disperazione, Durante la presentazione del rapporto, l’associazione ha riferito dei gravi aspetti critici riscontrati durante le visite ispettive, che parlano di un luogo di pura afflizione del quale viene chiesta la chiusura immediata attraverso un’azione popolare promossa dal mondo accademico. Situato a via Portuense, nella zona sud-ovest della città, il centro è attivo dal 5 agosto 1998 e, fino al 2021, è stato la più grande struttura di detenzione amministrativa del Paese, con una capienza che, nel corso degli anni, è oscillata dai 300 ai 210 posti, poi ridotta a 125 nell’ultimo capitolato d’appalto. È, inoltre, l’unico Cpr degli otto esistenti ad essere dotato di una sezione femminile. Gestito, nel corso degli anni, da varie realtà: Croce rossa italiana, cooperativa Auxilium, multinazionale Gepsa e cooperativa Albatros, è stato teatro di numerose rivolte a causa delle pessime condizioni di detenzione e del prolungamento, fino a 18 mesi, dei termini di trattenimento (L. 124/2023). Nella memoria di tutti, per la sua drammaticità, è rimasta la cosiddetta “Protesta delle bocche cucite”, di oltre dieci anni fa, in cui i detenuti si cucirono la bocca con ago e filo. Nel dicembre 2021, la gestione è passata nelle mani della multinazionale Ors, una società britannica che amministra prigioni e centri di detenzione per migranti in tutto il mondo. Un appalto da circa 7 milioni di euro. Molto poco utilizzati visto che le violazioni del capitolato sono tante e tali da portare, nel 2023, la Prefettura di Roma ad irrogare alla società sanzioni per un valore complessivo di oltre 100.000 euro per il mancato rispetto della dotazione minima di personale, più altri 50.000 circa relativi alle condizioni degradanti in cui vivono le persone detenute. Attualmente, nella struttura sono presenti 69 uomini e 3 donne (dati al 3.10.2024), in spazi divisi da spesse cancellate di ferro alte fino a otto metri, alle quali sono stati aggiunti pannelli di vetro per limitare i tentativi di evasione o di sommossa. Nei locali di pernottamento, a causa di una diminuzione dei posti disponibili, i detenuti, secondo il report di Cild, dormono accatastati in celle con letti privi di materassi o su giacigli di gomma piuma usurati, privi di reti, lenzuola e cuscini, e senza armadietti dove riporre i propri effetti personali, il numero di bagni è insufficiente, mentre la sezione femminile, sempre secondo il dossier, versa in uno stato di completo abbandono. Ad ora risultano attivi due moduli, con una capienza regolamentare di 5 posti in cui sono rinchiuse 3 donne in condizione di grave vulnerabilità. Le detenute sono costrette a passare tutto il giorno all’interno dei luoghi di pernotto e riferiscono di un senso di “soffocamento”. Sia la zona maschile che quella femminile, secondo Cild, sono caratterizzate da condizioni igienico sanitarie insostenibili (viene denunciata la presenza di cimici e casi di scabbia, scarsità dei prodotti per l’igiene personale e inadeguatezza del vestiario che Ors dovrebbe distribuire); mancanza di strumenti essenziali per la sicurezza e il benessere e una severa limitazione della libertà di movimento. Le persone sono chiuse nelle zone detentive per l’intero arco della giornata. Si può uscire solo accompagnati dalle forze dell’ordine o dagli operatori del Centro per colloqui con avvocati, eventuali familiari e per visite mediche. La mancanza di campanelli di allarme nelle zone di pernotto rende impossibile un’eventuale richiesta di aiuto. Nonostante la presenza di una mensa, inoltre, i pasti verrebbero distribuiti attraverso le grate e consumati all’interno delle celle. Le quali sono illuminate da una luce centralizzata, che impedisce alle persone detenute di accenderla o spegnerla autonomamente, una pratica stigmatizzata anche dal Comitato europeo di Prevenzione della Tortura. L’assenza di attività e progettualità è un ulteriore aggravamento delle condizioni. Ci sono due campi sportivi che, però, dal 2o2o non vengono utilizzati. Solo due associazioni, “A Buon Diritto” e la Comunità di Sant’Egidio, hanno un accesso regolare. La non presenza di altri soggetti, come l’associazione anti-tratta “Be Free”, è particolarmente allarmante, poiché queste organizzazioni svolgono un lavoro cruciale per le vittime di tratta e violenza, molte delle 45 donne ospitate dal Cpr nel 2023, provenienti da: Nigeria, Perù, Cina, Cuba, Tunisia, Georgia e Romania. Le altre sono ex collaboratrici domestiche che non hanno più il permesso di soggiorno in seguito alla perdita del lavoro. A tutto questo, denuncia sempre Cild, si aggiungono la violazione del diritto alla salute e la somministrazione massiccia di psicofarmaci su persone trattenute e private della libertà senza aver commesso alcun crimine. In questo quadro gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio rappresentano una drammatica costante. Per quanto riguarda, poi, la funzione precipua dei centri, e cioè i rimpatri, il Rapporto registra il quasi totale fallimento. Nel 2023, le persone rimpatriate del Cpr di Ponte Galeria sono state 268 (di cui 8 donne), il 23,4% del totale dei detenuti, per la maggior parte provenienti dalla Tunisia, il Paese più rappresentato (34,9%), seguito da Marocco (16%), Nigeria (11,3%) e Egitto (6,5%). “Ciò significa che il restante 76,6% ha subito una detenzione illegittima, anche rispetto al controverso e inaccettabile termine previsto dalla normativa”, afferma Laura Liberto, presidente di Cild. Di notevole gravità appare il dato relativo ai rilasci per “accertamento della minore età”, che, nel 2023, ha riguardato 8 minori. “Non si sa per quanto tempo questi minori siano stati detenuti. Ciò di cui siamo certi è che si tratta di una prassi illegittima, in aperta violazione della Legge Zampa del 2017 che stabiliva un sistema di protezione per i minori stranieri non accompagnati”, continua Liberto. Le storie di alcuni detenuti sembrano confermare le condizioni drammatiche in cui i detenuti sono costretti a vivere. Del suicidio, nel febbraio scorso, di Osmane Sylla, 22 anni, della Guinea, si è parlato molto. Meno nota è la storia di Wissem Ben Abdel Latif, morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma nel 2021. Da anni, il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif’, di cui sono promotori la famiglia del ragazzo, la Campagna lasciateClEntrare, la Fondazione Franco e Franca Basaglia e l’associazione Sergio Piro, si batte per far riconoscere la responsabilità dei dirigenti medici e del personale sanitario dei due ospedali in cui il ragazzo è stato ricoverato, ma ancora non ha avuto giustizia. Wissem, 26 anni, tunisino, arriva a Lampedusa il 2 ottobre 2021. Il giorno successivo viene condotto insieme ad altri migranti su una nave quarantena, ad Augusta, dove manifesta la volontà di chiedere protezione internazionale perché la sua meta è la Francia, dove vive lo zio. Tuttavia, il 13 ottobre, viene trasferito nel Cpr di Ponte Galeria dove inizia a manifestare i primi segni di sofferenza psichica e, perciò, sottoposto a una pesante terapia farmacologica. Il 23 novembre, viene inviato al pronto soccorso dell’ospedale Grassi di Ostia, dove rimane “in una situazione di “costrizione meccanica”, cioè con braccia e gambe legate al letto, per 37 ore e 3o minuti”, racconta l’avvocato Francesco Romeo, che ne difende i diritti. In quella stessa data, il giudice di pace di Siracusa ordina la sua liberazione, ma Wissem, secondo le associazioni che ne difendono i diritti, non ne riceve comunicazione. Due giorni dopo, viene trasferito al San Camillo, dove sarebbe stato legato per altre sessantatré ore. Anche qui, secondo le accuse, sarebbe stato sottoposto a dosi massicce di psicofarmaci. A nulla sarebbero serviti i segnali di allarme derivati dai suoi esami clinici, che avrebbero indicato valori critici e sospetti danni muscolari o cardiaci. All’alba del 28 novembre 2021, Wissem muore per arresto cardiocircolatorio. “La detenzione amministrativa non solo viola i diritti, ma impone inutili sofferenze a chi è già in situazione di estrema vulnerabilità”, afferma Liberto. “I Centri di permanenza per i rimpatri fanno parte di un sistema che non appare riformabile, per questo è necessario procedere subito al loro smantellamento, a cominciare da quello di Ponte Galeria”. Migranti. Diamo una spallata al protocollo Italia-Albania di Detjon Begaj* Il Manifesto, 1 dicembre 2024 La mobilitazione. Oggi e domani a Schengjin e Tirana proteste contro i Centri di detenzione per migranti. Le roboanti dichiarazioni e le conferenze stampa spettacolari sembrano un lontano ricordo. Sul campo, regna il silenzio. Per gli italiani che lavorano in Albania, ben più pagati e meglio trattati rispetto ai colleghi albanesi, questa missione sembra ormai una sfida alla noia. A Tirana non si discute molto del fallimento del protocollo. Nel pieno della discussione sul bilancio dello Stato albanese, a tenere banco sono le partecipatissime proteste dei pensionati. Proteste che hanno costretto Edi Rama a varare un bonus di fine anno che varia dai 100 ai 150 euro. Ma si discute anche dei regolamenti di conti della criminalità organizzata, dell’uccisione di un ventottenne figlio di un ex magistrato, di violenza giovanile dopo la morte per accoltellamento di un ragazzo di 14 anni da parte di un altro adolescente nei pressi della scuola elementare più nota e centrale della Capitale. Edi Rama ha annunciato di voler imporre una stretta ai social network a partire da TikTok e Snapchat, accusati di veicolare modelli diseducativi. A rompere il silenzio che sta calando sul protocollo Rama-Meloni sarà il Network Against Migrant Detention che dopo la conferenza stampa che si è tenuta il 6 novembre a Tirana ha rilanciato per oggi e domani una due giorni di mobilitazioni con l’obiettivo di portare la protesta nei centri per migranti di Shengjin e Gjader, oltre che nei palazzi del potere della capitale. Il network è una vera e propria alleanza di attiviste e attivisti albanesi, italiani e italoalbanesi che si sta allargando anche a Grecia, Spagna e Germania. La critica ai Cpr come modello di detenzione amministrativa lesiva dei diritti e della dignità umana è l’innesco per la critica alla violazione della sovranità albanese sul proprio territorio e all’approccio neocoloniale italiano, all’esternalizzazione delle frontiere europee, allo smantellamento dei principi fondanti del diritto d’asilo. Un’alleanza alla pari, dunque, che ribalta la retorica sull’amicizia, la riconoscenza e il debito che gli albanesi avrebbero nei confronti dell’Italia e che sono stati centrali nella costruzione della narrazione sull’accordo. La posta in palio è altissima: dare l’ultima spallata al protocollo è necessario per porre un argine alla moltiplicazione di un modello che gli altri paesi europei vorrebbero replicare. Ma l’affermazione della libertà di movimento non passa solamente dalle mani dei magistrati italiani e della Corte di Giustizia dell’Ue. Il 28 e 29 novembre sono state celebrate le due feste più importanti di un’Albania che spera finalmente di entrare nell’Unione europea: l’indipendenza dall’impero ottomano e la liberazione dall’occupazione nazifascista. Le centinaia di attiviste e attivisti che chiederanno ai militari italiani di tornarsene a casa propria, restituiranno in parte quanto fu fatto a migliaia di albanesi negli anni 90. Sono certo che saranno di nuovo i benvenuti, una volta dismesso il ruolo di carcerieri di lager per migranti. *Consigliere comunale di Bologna, eletto con Coalizione civica Migranti. Maysoon Majidi: “Chi attraversa il mare che crimine ha commesso?” di Alessia Candito La Repubblica, 1 dicembre 2024 “La prima cosa a cui pensi quando arrivi in un Paese democratico è: libertà. Sono venuta per trovare un posto sicuro”. Non era un’assemblea come quelle a cui per anni ha partecipato in Iran e in Kurdistan e l’hanno resa una nemica per il regime degli ayatollah, ma per la prima volta dopo mesi di detenzione con l’accusa di essere una scafista, Maysoon Majidi è tornata a parlare a una platea piena. Lo fa da donna libera: le accuse contro di lei sono crollate in aula e il tribunale non ha esitato a prenderne atto e liberarla. “Chi chiede asilo politico - dice - nel proprio Paese non ha vissuto facilmente, per questo quando arriva dovrebbe essere considerato con maggiore rispetto e non essere guardato male”. La sala l’ha messa a disposizione il Comune di Catanzaro, che ha voluto e organizzato l’iniziativa “In Calabria nessuno è straniero”, che è “scopo e lotta che ispira la nostra amministrazione”, ha sottolineato il presidente del consiglio comunale Gianmichele Bosco. “Si inventano termini come scafisti per criminalizzare persone come Maysoon che semplicemente stanno scappando e grazie a questo governo diventano pericolosi criminali”. Dopo dieci mesi di detenzione, “di me - spiega l’attivista, che quasi sembra annegare nei vestiti che ha addosso - restano 36 chili e 600 grammi”. Non ha ripreso un etto da quando è stata finalmente scarcerata, mesi di sciopero della fame durante i quali ha perso più di sedici chili non sono semplici da superare. Ma protestare era necessario, racconta, perché “non mi era stata data neanche la possibilità di raccontare la mia storia. Non ho mai incontrato un interprete. Non potevo parlare con i miei familiari. Ho fatto il viaggio con mio fratello e non ho potuto parlarci per due mesi. Non sapevo nulla di nessuno”. In quel vuoto assoluto, per mesi Maysoon Majidi si è sentita persa. “Sono una rifugiata, sono venuta per trovare un posto sicuro. Ho lasciato il mio Paese - tuona - perché rischiavo la vita, per questo ho chiesto l’asilo politico”. E rivendica rispetto e comprensione per tutti quelli che come lei sono obbligati a lasciare la propria casa, il proprio Paese e non certo a cuor leggero. “Alla base delle richieste d’asilo ci sono motivi diversi: la paura, la persecuzione politica, l’appartenenza ad alcuni partiti politici, il credo religioso e l’appartenenza a diversi gruppi sociali e minoranze etniche”. Chi chiede aiuto o protezione, continua, “magari è stato perseguitato o ha rischiato torture, reclusione e morte per questioni ideologiche, o di genere, razza, lingua, nazionalità ed etnia”. Si scappa per paura di morire, spiega Maysoon, si scappa anche se si sa che a bordo delle carrette che attraversano il mare si rischia la vita. Sopravvivere al mare non equivale alla fine dell’incubo: sa che non è l’unica a essere finita in carcere a causa di un sistema di norme che trasforma anche chi ha guidato un barchino in un trafficante, che diventa bussola di indagini spesso frettolose. “Ci sono persone che all’arrivo vengono messe in prigione senza che neanche gli si faccia una domanda. Quali crimini hanno commesso? Crimini contro la pace, crimini di guerra o contro l’umanità?”. Volevano solo trovare un posto sicuro. La Ue è debole e divisa: come sopravvivere nell’età della guerra di Rino Formica Il Domani, 1 dicembre 2024 La strategia di von der Leyen e Weber ha aperto agli anti europeisti. In tempi di conflitti, senza forza la democrazia è destinata a morire. In queste settimane è sempre più evidente, su scala globale, che il disordine è accettato come fosse ordine. Elenco alcuni elementi. Fra un mese la Chiesa cattolica si troverà ad affrontare un evento straordinario, ma vissuto come ordinario, quello di un Giubileo in tempi di guerra. Significa, dal punto di vista pratico, un probabile spostamento di masse, di credenti e di fedeli in pellegrinaggio. Dal punto di vista politico, ma anche della condizione umana e della società, ci sarà lo stridente contrasto fra un anno di celebrazione di pace cristiana di fronte a una permanente condizione distruttiva di guerra, condizione ormai non modificabile nel breve; perché ormai è passata, nella pubblica opinione e nelle scelte dei governi, la concezione che le guerre non sono più combattute con armi convenzionali o non convenzionali, ma tutto è diventato convenzionale: la distruzione dei sistemi informativi, di quelli di sicurezza, persino l’uso delle armi nucleari sta diventando convenzionale. È quindi saltata la separazione fra condizioni belliche regolate dalle armi convenzionali e da quelle non convenzionali, e questo in un momento in cui le grandi aree di autonomia politica tradizionalmente definite, come l’Europa, sono indefinibili. L’Europa non c’è più - L’Unione europea ha un parlamento e una Commissione che si baloccano fra nomine e equilibri che dovrebbero soddisfare ambizioni personali o posizioni di prestigio di governanti decaduti o in via di decadenza. Ma la verità è che l’Europa non c’è. O nel migliore dei casi non è in condizione di creare il suo strumento di indirizzo politico del sistema produttivo e quello di sicurezza. Il voto del Parlamento europeo di venerdì scorso sull’Ucraina è il primo voto di una maggioranza politica inesistente. È il primo effetto che la sconclusionata strategia di Ursula von der Leyen e del presidente del Ppe Manfred Weber ha prodotto, cercando voti a destra e tra gli antieuropeisti. Con il bel risultato che per prendere meno di trenta voti dal melonismo europeo ne ha perso circa cento della sua originaria maggioranza, quella espressa con il voto del luglio scorso sulla conferma della presidente. Churchill e un voto in più - A Winston Churchill, nell’occasione di un voto di fiducia per la costituzione di un suo governo, capitò di avere due voti oltre il minimo necessario per avere la maggioranza. E a chi osservava che il sostegno a questo suo nascente governo fosse debole, rispose che aveva un voto in più di quanto occorre in un paese forte e libero. Ma Ursula Von der Leyen non può dire che ha otto voti in più rispetto a ciò che occorre per governare l’Europa. Il voto sull’Ucraina ci dice che le maggioranze di governo devono avere una doppia unità politica e strategica per il futuro: quella di governo e quella di una opposizione di alternativa. Oggi mancano queste condizioni, che sono essenziali e vitali per garantire la soluzione delle questioni calde che pesano sull’ordine mondiale. Dal canto loro, i socialdemocratici europei e fra loro l’italiana Elly Schlein, non posso esercitare un compito gravoso senza il rischio di un ritorno a politiche di compromessi e di rinuncia al ruolo che nel passato fu sempre quello delle lotte socialista e democratiche. Lo sbando dall’America - Ora dunque succede che quest’Europa non è in grado neanche prevedere quali saranno nel futuro quei rapporti che in passato tradizionalmente hanno condizionato il suo sviluppo, l’alleanza nel mondo occidentale e atlantico. Perché non sa dove l’America andrà nei prossimi mesi e anni, anche perché nella stessa America c’è incertezza e sbandamento. Intanto viviamo in una guerra che non abbiamo il coraggio di dichiarare, ma che c’è, e la dimostrazione è che infatti cerchiamo di stabilire tregue provvisorie, come quella in Libano, che servono per lo più per interrompere temporaneamente lo sbandamento. E poi si riprende stancamente il gioco dell’attesa: qualcosa succederà. È necessario che tutti coloro che hanno responsabilità di dare un indirizzo, e anche l’informazione, ristabiliscano una condizione di verità: dobbiamo avere il coraggio di dire che la pace o è un trauma per tutti o non ci sarà. Ma per essere un trauma per tutti, tutti devono sapere e ammettere che non siamo in pace: siamo in guerra, e la pace che dovrà venire dovrà innanzitutto cancellare la viltà per cui non abbiamo la forza di dire che siamo in una condizione di guerra non dichiarata, ma che opera comunque, con i suoi effetti deleteri e devastanti. Il Giubileo e la guerra - In casuale - forse - coincidenza con l’apertura dell’anno giubilare, serve che si sveglino e si smuovano le forze che hanno un qualche aggancio alle ragioni profonde spirituali e ideali. Insieme a quelle che hanno la responsabilità della difesa e della sicurezza di ciò che residua del vecchio modello dell’organizzazione statuale. Queste forze debbono saper rompere il destino della rassegnazione. Servono voci che denuncino questo stato di debolezza. Il futuro è sfuggito di mano a tutti, il presente non è nelle mani di nessuno, il passato è stato nelle mani sbagliate. Noi in Italia abbiamo una condizione particolare: le mani sbagliate governano ancora e il malgoverno porta in definitiva ad abbandonare l’idea che il mondo possa essere regolato dall’intelligenza e dalla ragione, e che sia regolato invece dalla spinta casuale degli eventi. Si torni alla ragione, o al miracolo giubilare di dichiararsi consapevoli che l’attuale ordine vive nel ricordo di un equilibrio democratico che non c’è più. Torna la grande questione: la democrazia è sufficiente da sola a risolvere i problemi dell’umanità? Oppure ha bisogno anche della forza? Ecco il punto di ricerca, ed ecco il punto di equilibrio: forza e contemporaneamente democrazia, perché le democrazie deboli muoiono. La jihad risorge e torna ad Aleppo, in Siria l’orrore non finisce mai di Domenico Quirico La Stampa, 1 dicembre 2024 In questa città dovevano restare intatti come sacre memorie solo il vuoto e le rovine. Inutile chiedersi chi ha ordinato ai ribelli anti-Assad di attaccare: hanno la loro agenda. Le cose in Siria hanno lo stesso odore anche se passano gli anni. In fondo è una guerra, gli uomini si uccidono fra loro, i morti sono pesanti e difficili da trasportare. Ci sono assassini che si credono eroi e eroi che si credono santi. Alcuni pensano che la guerra sia giusta, per tenere al potere Bashar al Assad e il suo regime o per abbatterlo; i jihadisti, addirittura, progettano di iniziare da qui a creare il paradiso in terra con il loro sistema binario: questo è “haram” e questo è “halal’’. Ad altri, forse la maggioranza, non importa nulla di questa mischia che dura dal 2011, solo restare vivi o trovare un posto dove esser sicuri di non essere uccisi da questi o da quelli, avere da mangiare e da scaldarsi. Hanno semplicemente paura, da ventiquattro anni, paura che ti schiaccia la testa, i polmoni, la pancia, tutto. Sono sopravvissuti, che altro c’è da aggiungere, spiegare? Gli incubi della storia - Vivi: nonostante tutto, nonostante anche noi. E nelle pieghe gli eterni mukhabarat, la spietata polizia politica, e i trafficanti, i pescecani, gli sciacalli di ogni guerra civile e di ogni regime marcio: fanno soldi insieme. Semplicemente. E poi ci sono gli altri, le ombre: russi, iraniani, turchi, americani, israeliani, Hezbollah libanese... Loro sì che hanno interessi progetti conti teologici da regolare influenze e alleanze geopolitiche da consolidare. Dopo cinquecentomila morti è materiale per una lezione di moralità tutto questo? Serve per lanciare un messaggio? Possono i disastri darci lezioni? Gli incubi della Storia contengono messaggi? Per noi, intendo, da questa parte del mondo... Sì, si combatte di nuovo ad Aleppo, aspramente. Le formazioni di “al-Sham” che è solo l’ennesimo fard nominalistico della vecchia, implacabile al-Qaida, hanno cacciato davanti a sé i governativi e hanno occupato già cinque quartieri della città, a Ovest e Sud: i quartieri che durante la battaglia durata cinque anni erano i capisaldi del regime. E poi: blindati e pick up islamisti che scalano le strade come formiche luccicanti e risolute; lo snodo chiave di Saraqeb caduta nelle mani degli assalitori potentemente equipaggiati; l’autostrada M5 che porta a Damasco, la vena dei rifornimenti del regime, tagliata in due; i Mig russi che bombardano disperatamente Idlib, il frammento della Siria islamista dove comanda la sharia protetta dalle trame bizantine di Erdogan… Ci svegliamo, ripetiamo questi nomi e luoghi che avevamo cercato di dimenticare. La Siria ci presenta il conto - La guerra di nuovo ad Aleppo, la guerra l’aveva assassinata questa città, lentamente metodicamente. Non aveva più il diritto di sfiorarla. Restavano le immense pietre che somigliavano a divinità feroci scolpite dalle bombe. La guerra non poteva tornare ad Aleppo, dovevano restarne intatti come sacre memorie solo il vuoto e le rovine. La Siria non ci aveva mai lasciato, soprattutto chi c’è stato e non ha fatto altro, in fondo, che raccontare storie di guerre portandosi dietro il terribile odore dei morti. Ma è stato in fondo inutile. La Siria ci avrebbe prima o poi presentato i conti, lo sapevamo, un Paese vicino che è la terra misconosciuta e trascurata del nostro sbarco nell’incubo del terzo millennio. Cosa è oggi la Siria? Milioni di eterni rifugiati e fuggiaschi, la miseria delle distruzioni e delle sanzioni internazionali, una moneta che non vale nulla, l’unico traffico redditizio, in mano al regime, quello di una droga, la corruzione che è proprietà del clan del presidente e dai suoi accoliti, energia elettrica per poche ore, il combustibile per il riscaldamento alla borsa nera. Bashar aveva vinto grazie ai suoi potenti alleati, Iran, Russia. Hezbollah, lo hanno riammesso nella Lega araba, ha ripreso a viaggiare, a percorrere guide rosse e picchetti d’onore. La guerra al terrorismo che non finisce - Anche l’Europa cercava solo un modo per rassegnarsi, perdonargli tutto in nome del dio della stabilità: meglio lui dei califfi, quante volte l’abbiamo sentito ripetere. Noi italiani abbiamo fatto da battistrada rimandando a Damasco l’ambasciatore. E lui come se nulla fosse accaduto, gli anni e i 500 mila morti, ha ripreso il vecchio metodo di ingoiare, la terra, gli oppositori, il denaro, l’economia, la storia. Forse gli emiri di Idlib hanno osservato tutto ciò con attenzione, hanno capito che l’Occidente stava per spingere nell’ombra tutte le esecrazioni per i crimini, la spietatezza, i gas del dittatore. L’accordo tra Russia e Turchia che preservava Idlib e la sua armata di dio dalla riconquista di Bashar non valeva per sempre. Il vicino oriente dopo il 7 ottobre è imploso, Putin è impegnato altrove e Erdogan… Erdogan non ha alleati o amici, solo spregiudicati interessi. Meglio anticipare tutti e attaccare. Come se non avessimo imparato niente ora siamo impegnati a cercare chi ha ordinato ai jihadisti di passare all’offensiva... l’eterna teoria del burattinaio, delle sigle finte, degli orchi maomettani a libro paga di... Confessiamolo. Pensavano che la guerra al terrorismo fosse un capitolo chiuso: abbiamo vinto evviva! Da Aleppo al Sahel, giù fino al Congo invece è una geografia isterica delle milizie di coloro che credono dio una loro proprietà. E che obbediscono solo a sé stessi.