Disagio psichico: senza strutture il carcere rischia di diventare rifugio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2024 Ci sono famiglie che si sentono isolate e trascurate, sole alle prese con problemi angosciosi, generati dalla presenza di un congiunto - spesso un figlio - sofferente per un disturbo psichico. E che talvolta incappa nelle maglie della giustizia, con conseguenze ancora più pesanti. Proprio ieri abbiamo parlato di un ragazzo che è finito nel carcere sardo di Uta per un episodio psicotico. Il gip ha chiesto chiaramente la scarcerazione e il trasferimento in comunità. Ma ci sono ostacoli e ancora si trova illegalmente dentro. La garante regionale Irene Testa ha lanciato l’allarme. Ma tante sono le famiglie lasciate da sole a causa dell’incompiutezza della riforma Basaglia che ha portato alla chiusura dei manicomi. Lo stato di debolezza dei Dipartimenti di Salute Mentale, che devono assicurare il diritto alla salute mentale e alle cure, espone sempre più le persone con sofferenza e i loro familiari a un’inaccettabile condizione di abbandono. Ad oggi, la mancanza di risorse economiche rappresenta il principale ostacolo per garantire un’efficace assistenza psichiatrica. Sebbene fosse stato stabilito che ogni regione destinasse il 5% della spesa sanitaria regionale alle cure psichiatriche, questa soglia viene rispettata solo in poche realtà, come la provincia di Bolzano e l’Emilia Romagna. Le disparità territoriali si riflettono anche nell’organizzazione dei servizi, con poche regioni in grado di offrire un’assistenza integrata che coinvolga servizi per le dipendenze e la neuropsichiatria infantile. Inoltre, la carenza di professionisti, come psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica e assistenti sociali, limita spesso la possibilità di lavorare in team multidisciplinari con gli psichiatri, compromettendo la qualità delle cure. Queste mancanze si ripercuotono su oltre 837 mila persone, secondo le stime del ministero della Salute, a cui si aggiungono coloro che non hanno ancora ricevuto una diagnosi, i cosiddetti “pazienti sommersi”. Dal Dipartimento di Salute Mentale al carcere - Una soluzione esiste e risiede nel modello di psichiatria di comunità, che prevede un coordinamento unico per gestire i servizi nell’ambito del progetto riabilitativo di ogni paziente. Questo approccio integra ambulatori, strutture residenziali e semi- residenziali, nonché reparti ospedalieri per le situazioni di crisi, con l’obiettivo di mantenere il paziente nel proprio contesto sociale, preservando le sue relazioni affettive e lavorative. Tuttavia, senza un intervento tempestivo e adeguato, chi soffre di disturbi psichiatrici rischia di perdere tutto ciò che ha costruito negli anni precedenti all’insorgenza della malattia. Laddove questo sistema è carente, le conseguenze dipendono spesso dalle risorse individuali e familiari, con alcuni pazienti che, non ricevendo le cure necessarie, finiscono per vivere in condizioni di trascuratezza, isolamento o, nei casi più gravi, cadere in situazioni di emarginazione sociale, come la vita in strada e il carcere. Ed è quest’ultimo che diventa la “soluzione” più facile, ma drammatica. Tanti sono i casi di reclusi in attesa di essere ospitati presso le comunità. E ritorniamo di nuovo in Sardegna, dove, lo scorso aprile, era stata accesa l’attenzione sulle condizioni dei detenuti psichiatrici e tossicodipendenti. “I malati psichiatrici e i tossicodipendenti sono troppi e non dovrebbero stare in carcere, bensì in strutture alternative che in Sardegna non ci sono”, ha sottolineato la garante regionale Irene Testa durante un flash mob innanzi al tribunale di Cagliari. La testimonianza è dura e ha descritto un quadro agghiacciante: “Nella mia periodica visita nel carcere di Uta nei giorni scorsi ho trovato l’inferno: un detenuto urinava in cella e beveva la sua stessa urina, riempiva le pareti di escrementi, si affettava le braccia. Un altro ancora viene tenuto in isolamento da mesi ma è stato sottoposto a Tso, vista la sua condizione di disagio psichiatrico. Addirittura, in alcune sezioni si fa fatica ad entrare per via dello stato di agitazione di alcuni detenuti”. Testa ha continuato a denunciare le condizioni disumane in cui versano molti reclusi: “Persone malate che, come più volte ho denunciato, non dovrebbero stare lì. Ogni giorno assistiamo alle denunce della polizia penitenziaria, che si ritrova a spegnere incendi e salvare vite dai numerosissimi tentativi di suicidio”. I numeri sono allarmanti: “Lo scorso anno, solo a Uta, i casi sono stati 46, per un totale di 96 in tutta l’Isola. Ho parlato con tre ragazzi che sono stati salvati in extremis, tutti avevano un passato di tossicodipendenza alle spalle”. Una realtà, quella descritta, che evidenzia il fallimento del sistema carcerario nel trattare casi così delicati: “Ragazzi fragili che non possono essere trattati all’interno di una cella chiusa. Ragazzi incompatibili col regime carcerario”. Salute in carcere, aumentano malattie psichiche e suicidi di Giovanna Pasqualin Traversa agensir.it, 19 dicembre 2024 Dalla Simpse arriva un progetto di riforma della sanità penitenziaria. Aumentano patologie psichiche, malattie infettive, diabete, obesità, tumori, ma anche tossicodipendenza e suicidi, mentre la frammentazione dell’assistenza sanitaria penitenziaria è all’origine del malfunzionamento del sistema. L’11 dicembre, al Ministero della Salute, la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria ha lanciato un progetto di riforma. Il 2024 ha segnato una nuova emergenza per le carceri italiane. Sovraffollamento, mancanza di personale, strutture fatiscenti, difficoltà per il personale sono rimasti irrisolti, mentre le condizioni di vita dei detenuti sono peggiorate. Lo testimoniano i casi di violenza, le proteste e il record di suicidi: al 10 dicembre già 86, che superano gli 80 totali del 2023 e il record di 85 del 2022. Per questo l’11 dicembre nell’Auditorium del ministero della Salute, in occasione del XXV convegno nazionale Agorà penitenziaria 2024, la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simpse) ha presentato un Progetto nazionale di sanità penitenziaria: un approccio multidisciplinare per la presa in carico delle persone detenute con riferimento ad un servizio unico per superare l’attuale frammentazione all’origine del malfunzionamento del sistema. Secondo i dati del ministero della Giustizia, le persone con misura restrittiva della libertà al 30 ottobre 2024 sono 226.280. “Per tutelarne la salute bisogna prendere in carico il detenuto quando entra in carcere”, ha sottolineato Antonio Maria Pagano, presidente Simpse, psichiatra responsabile Uosd Tutela salute adulti e minori Area penale presso Asl Salerno. Da fronteggiare sono “anzitutto patologie psichiche e sofferenza psicologica, le più diffuse; a seguire malattie gastrointestinali, incluse obesità e diabete. La mancanza di cure odontoiatriche è alla base di patologie che interessano bocca e tratto gastro-esofageo; la mancanza di screening porta a ritardi diagnostici su tumori e malattie infettive”. E nonostante l’ultimo report sulle tossicodipendenze realizzato da ministero della Salute e Conferenza Stato-Regioni rilevi l’assenza di questo fenomeno, “in base alla nostra esperienza - ha affermato Pagano - possiamo stimare che almeno il 30% dei detenuti sono tossicodipendenti. Serve dunque un intervento di sistema per garantire prevenzione, cura e riabilitazione”. Le proposte della Simpse. “In Italia, l’assistenza sanitaria penitenziaria è frammentata tra vari servizi - ha spiegato ancora il presidente della Società scientifica -. Il Progetto nazionale di sanità penitenziaria (Pmsp) che proponiamo oggi prevede vari punti: anzitutto, in ogni Azienda sanitaria ci deve essere un servizio che svolga il ruolo di interfaccia unica con l’Amministrazione penitenziaria e con l’Autorità garante per assicurare coerenza tra le misure per la sicurezza e la tutela della salute”. In secondo luogo, ogni azienda sanitaria deve dotarsi di un unico servizio di sanità penitenziaria che inglobi al suo interno le diverse competenze per prevenzione, cura, riabilitazione, assistenza di base e specialistica, odontoiatria sociale, tossicodipendenze, salute mentale, minori di area penale. Queste Unità operative di sanità penitenziaria dovranno coinvolgere professionisti dedicati esclusivamente all’assistenza delle persone private della libertà. Per questo prosegue Pagano, occorre “creare percorsi universitari nelle scuole specialistiche maggiormente afferenti alla realtà carceraria (psichiatria, infettivologia, igiene, medicina legale, farmacologia e tossicologia clinica, odontoiatria)”. L’auspicio è che il progetto della Simpse “possa essere preso in considerazione per il prossimo Piano sanitario nazionale”. Ruolo strategico degli screening. “Le malattie infettive rappresentano una componente storicamente rilevante delle patologie diffuse nei penitenziari”, ha osservato Sergio Babudieri, direttore scientifico Simpse. Grazie ai progressi della ricerca, l’epatite C “si può eradicare dall’organismo definitivamente, in poche settimane e senza effetti collaterali; i trattamenti antiretrovirali permettono di cronicizzare l’infezione da Hiv, con una sopravvivenza e una qualità di vita simili alla popolazione generale”. Più aderenza alle cure e meno stigma. Gli ha fatto eco Giordano Madeddu, consigliere Simpse e professore associato di Malattie infettive, Università di Sassari: “Negli ultimi anni abbiamo riscontrato una recrudescenza di alcune infezioni. I detenuti stranieri rappresentano circa un terzo della popolazione carceraria: questo porta a un ritorno dei casi di tubercolosi (soprattutto per chi proviene dall’Africa) e di epatite B (soprattutto per chi viene dall’Est Europa e dall’Africa)”. Di qui alcuni progetti varati da Simpse per i prossimi anni finalizzati a favorire screening e trattamenti sui detenuti. In particolare “trattamenti antiHIV con i farmaci long acting, che consentono il mantenimento del controllo dell’infezione con somministrazioni intramuscolari ogni due mesi migliorando l’aderenza e riducendo lo stigma nelle persone con Hiv detenute, e progetti innovativi per la microeliminazione dell’epatite C”. Suicidi in carcere, la mattanza continua: sono 88. L’ultimo ieri a Viterbo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2024 Il record trentennale è stato ampiamente superato. E i dati del Dap escludono i morti in ospedale. Il sistema carcerario continua a essere teatro di drammatiche perdite umane, una vera e propria mattanza senza precedenti. La scorsa notte, un detenuto si è tolto la vita presso la Casa circondariale di Viterbo, segnando il settimo caso di suicidio nel Lazio nel 2024. Dall’inizio dell’anno si contano 88 suicidi (escludendo quelli avvenuti nei Cpr). Il record trentennale è stato ampiamente superato, anche se i dati ufficiali del Dap non includono i decessi avvenuti in ospedale a seguito di atti suicidi commessi in carcere. Proprio sulla discrepanza di questi dati, il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha presentato di recente un’interrogazione parlamentare. Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, che ha diffuso la notizia del suicidio, lancia l’ennesimo grido d’allarme. “Stiamo assistendo a una preoccupante dissipazione di vite umane e diritti all’interno delle nostre strutture penitenziarie”, dichiara con profonda amarezza. La situazione è sempre più critica. Oltre al caso di Viterbo, c’è un ulteriore episodio da accertare a Frosinone, dove giovedì scorso si è verificato anche un decesso per malore improvviso. Questi eventi drammatici sollevano interrogativi urgenti sulle condizioni di vita negli istituti penitenziari. Anastasìa traccia un quadro complesso e allarmante. Nonostante gli sforzi congiunti di garanti, operatori sanitari, personale penitenziario e volontari, il sistema sta collassando sotto il peso di molteplici criticità. La carenza di risorse, spazi e personale, unita a un irrigidimento legislativo e amministrativo, sta trasformando le carceri in luoghi sempre più difficili e pericolosi. Il Garante rivolge un accorato appello a governo e Parlamento: è necessario un cambio di rotta radicale. Le priorità devono essere la riduzione del sovraffollamento e la garanzia di condizioni di vita e lavoro dignitose per detenuti e operatori. Dietro ogni numero, ogni statistica, ci sono storie umane, esistenze spezzate e sofferenze che chiedono di essere ascoltate e comprese. Il suicidio in carcere non può e non deve più essere considerato un evento inevitabile. Parlare di fatalità non è più accettabile. Nuovo suicidio in carcere, il Garante Anastasìa: “Dissipazione di vite e diritti” di Martina Ucci L’Unità, 19 dicembre 2024 Un ragazzo di vent’anni si è tolto la vita nella notte tra martedì e mercoledì, nel carcere di Viterbo: è l’88esimo. Pd all’attacco: “Il governo non può continuare a nascondere questa emergenza” ha commentato la senatrice dem Di Biase. L’ennesimo suicidio in carcere. Questa volta a Viterbo. Il ragazzo aveva circa 20 anni, questo è tutto quello che si sa al momento. A dare la notizia è il Garante dei detenuti, Stefano Anastasia, che sottolinea come quello di oggi sia il sesto suicidio nel Lazio quest’anno. “Noi Garanti - dichiara Anastasìa - gli operatori sanitari, quelli penitenziari, e i volontari facciamo il possibile, ma la scarsità di spazi, personale e risorse finanziarie, insieme con l’irrigidimento della legislazione, della giurisprudenza e dell’amministrazione stanno rendendo le carceri luoghi invivibili e fuori controllo”. Sovraffollamento, inasprimento delle pene, condizioni di vita sotto la soglia della dignità in cui non vi è spazio per luoghi che aiutino il reinserimento nella società. Questi sono i motivi principali che stanno portando ad una vera e propria “dissipazione di vite e diritti nelle carceri”, come denuncia Anastasìa. “La strage in carcere continua drammaticamente”, ha commentato Paolo Ciani, vice capogruppo Pd-Idp alla Camera e segretario di Demos. “Il 2024 ha già registrato il tragico record di suicidi in carcere. Agli 88 suicidi tra i detenuti si aggiungono i sette tra gli agenti della polizia penitenziaria, a manifestare un sistema malato, che non solo non risponde ai dettami della Costituzione, ma ha trasformato le carceri in luoghi invivibili per tutti quelli che li frequentano”. E poi l’appello rivolto a Palazzo Chigi: “Il governo non può ignorare questa situazione. Non c’è più tempo: tutti ascoltino il grido di dolore del carcere”, conclude Ciani. “Un altro suicidio in carcere a Viterbo ed uno sventato solo grazie all’intervento della polizia penitenziaria nel carcere di Modena”. Lo afferma la deputata del Partito democratico, Michela Di Biase, componente della commissione Giustizia alla Camera. “Il 2024 sarà ricordato come l’anno orribile per le carceri italiane: 87 suicidi tra i detenuti ed i numeri del sovraffollamento che superano il 133%”. Nel dibattito è intervenuta anche la senatrice dem, Enza Rando, responsabile Legalità nella segreteria nazionale del Pd, in una nota diffusa nel pomeriggio di ieri. “È evidente che siamo sempre di più davanti a un’emergenza sociale: ogni giorno è messa in pericolo l’incolumità, la stabilità e la sicurezza di tutte le persone che vivono o lavorano all’interno delle strutture carcerarie”. Una situazione che appare sempre più emergenziale, in cui i tentativi di suicidio da parte dei detenuti sono quasi giornalieri. Il carcere italiano è oggi un luogo che non permette una vita dignitosa e non crea reinserimento sociale o nuove prospettive per il futuro. E senza speranza diventa difficile per molte persone andare avanti. Il 25 agosto di quest’anno è entrato in vigore il Ddl Nordio che, invece di cercare di risolvere problemi come il sovraffollamento, ha reso le carceri luoghi ancora più senza speranza, allungando le pene, aumentando i crimini ed eliminando uno dei diritti fondamentali dell’uomo: la protesta. “Il numero dei suicidi è un bollettino di guerra - conclude Di Biase. - Il governo non può continuare a nascondere questa drammatica emergenza”. Suicidi in carcere: fonti d’informazione e criteri adottati a confronto garantedetenutilazio.it, 19 dicembre 2024 Un’interrogazione parlamentare evidenzia le discrepanze tra i dati del Dap e quelli dell’osservatorio di Ristretti Orizzonti. Anche a seguito dell’interrogazione parlamentare del 3 dicembre scorso presentata dall’onorevole Giachetti al ministro della Giustizia, da diverse settimane si è animato un certo dibattito sugli effettivi numeri degli eventi suicidari avvenuti quest’anno negli istituti di pena nel nostro Paese. In particolare nell’interrogazione parlamentare si constatavano significative discrepanze tra quanto reso noto e monitorato dall’osservatorio “Morire di carcere” curato da Ristretti Orizzonti, i dati resi noti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e quelli infine pubblicati periodicamente a partire dal giugno di quest’anno dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl). Tale disallineamento tendenziale dei dati derivanti dalle due diverse fonti è stato da noi analizzato puntualmente anche nei mesi scorsi e, confrontando il dettaglio, risulta evidente che alcuni eventi riportati dal dossier di Ristretti Orizzonti sono invece considerati come “decessi con causa da accertare” da Gnpl perché ancora al vaglio della magistratura. Le differenze sarebbero sostanzialmente causate da una diversa modalità di raccolta e analisi dei dati: la prima meno “ufficiale” e derivante da testimonianze dirette raccolte, la seconda più formalizzata e allineata ai tempi e agli esiti delle verifiche medico legali operate dagli organi competenti istituzionalmente. Una delle conseguenze che attualmente sembra interessare il dibattito è se sia possibile o meno stabilire che questo 2024 è stato l’anno con il maggior numero di sucidi in carcere. In particolare, il dossier di Ristretti orizzonti alla data del 18 dicembre ne dà conto di 86 al quale andrebbe aggiunto il caso odierno di Viterbo, mentre secondo il documento del Gnpl alla data del 15 dicembre i suicidi sarebbero 82. In ogni caso e per capire meglio il fenomeno, può essere utile andare oltre una valutazione meramente tecnico-statistica. Ciò è in parte possibile grazie al fatto che entrambe le fonti offrono alcune informazioni di base sui singoli accadimenti permettendo in tal modo di individuare e confrontare le loro caratteristiche. Di seguito, quindi, per consentire una analisi più di dettaglio riportiamo le notizie raccolte da Ristretti Orizzonti relative ai singoli casi avvenuti nel 2024 che non figurano come suicidi nel dossier Gnpl realizzato in base ai dati dell’amministrazione penitenziaria. * 18 aprile 2024: NM, Morto in carcere a Como, inalando il gas di una bomboletta da campeggio, il detenuto di 32 anni che il 21 settembre dello scorso anno era evaso dall’ospedale San Paolo lanciandosi da una finestra e provocando il grave ferimento di un agente di polizia che tentava di bloccarlo È indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare. * 28 giugno 2024: decesso a Frosinone di un giovane ventunenne ha inalato una bomboletta del gas. È indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare. * 7 luglio 2024: 81enne detenuto a Potenza morto per asfissia (accusato di aver ucciso lo scorso 30 giugno la moglie di 73 anni). È indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare. * 15 novembre 2024: MBM, tunisino di 28 anni morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Martino, di Genova dove era stato portato dopo essersi impiccato alle sbarre della finestra della sua cella. È indicato nel dossier Gnpl come caso da accertare. * 30 novembre 2024: Detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Terni, si è lanciato dalla finestra della struttura. Era stato appena trasferito dal carcere di Terni all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia, in regime di arresti domiciliari. Caso non citato nel dossier Gnpl. Legge bavaglio, il manifesto di Nordio e i ritocchi “garantisti” che promettono scontri con i magistrati di Francesco Grignetti La Stampa, 19 dicembre 2024 Il ministro Guardasigilli promette ispezioni e azioni disciplinari ai magistrati che non rispetteranno le norme. Il giorno dopo l’approvazione della cosiddetta “legge bavaglio” da parte di questo governo, arriva in Parlamento una missiva del ministro Carlo Nordio che può essere considerato un suo manifesto ideologico, ma anche la promessa di nuovi scontri con i magistrati. “Questo Governo - scrive il ministro Guardasigilli - ha messo in campo diversi interventi normativi di stampo garantista, finalizzati a rendere effettivi i principi costituzionali della riservatezza delle comunicazioni e del giusto processo, con misure dirette a tutelare non soltanto l’imputato e la vittima ma anche i terzi che si trovino eventualmente coinvolti nelle operazioni investigative, sia all’interno del processo che fuori dallo stesso”. Tutto nasce da un’interrogazione del deputato Enrico Costa, Forza Italia. Costa chiede spiegazioni al ministro sulla reale applicazione di una norma del codice di procedura penale (articolo 291, comma 1-ter) appena rivista. Secondo la legge n. 114 del 2024, infatti, negli atti di custodia cautelare di un magistrato “sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione”. Ecco, secondo Costa questa cautela non sarebbe abbastanza rispettata dai magistrati. Così non è, invece secondo quanto gli risponde Nordio: “Non consta l’esistenza di procedimenti aperti per violazione dell’art. 291”. Ciò non significa che il Ministro sottovaluterà il problema: “Laddove pervenisse notizia di criticità significative rispetto all’osservanza della nuova disposizione da parte degli uffici giudiziari, il Ministro della giustizia non mancherà di esercitare tempestivamente le proprie prerogative”. Arriveranno insomma molte ispezioni ed eventuali azioni disciplinari. Interessante è come questa modifica si cala in un profluvio di ritocchi legislativi, tesi a legare sempre di più le mani ai magistrati. È Nordio stesso a riepilogare due anni di interventi progressivi, e quale sia il senso di marcia che questo governo segue. Primo, “Si è modificato a più riprese il regime delle intercettazioni; con la legge n. 137 del 2023 e poi con la legge n. 114 del 2024 sono stati introdotti, all’articolo 268 c.p.p., rigorosi limiti all’attività di trascrizione e perciò di documentazione dell’attività captativa. Nel verbale è consentita soltanto la trascrizione del contenuto delle intercettazioni rilevanti per le indagini, anche a favore dell’indagato, ed è vietata la trascrizione del contenuto non rilevante neppure sommariamente”. Secondo, “sono stati consolidati e potenziati il controllo e la vigilanza preventiva, da parte del pubblico ministero e dei giudici dell’udienza stralcio, sia implementando i profili di riservatezza del terzo estraneo rispetto alla circolazione delle intercettazioni sia ampliando i divieti di pubblicazione del materiale intercettato (articolo 114 c.p.p.), consentendone la pubblicazione solo se il contenuto è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o è utilizzato nel corso del dibattimento”. Terzo, quella riforma a cui accenna Enrico Costa: “Si è inteso assicurare, anche nelle richieste di misura cautelare, che la riproduzione delle conversazioni e comunicazioni intercettate sia epurata dai dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salva l’indispensabilità per la compiuta esposizione delle ragioni della richiesta stessa”. Ma siccome quella modifica non bastava, ecco che con la legge n. 15 del 2024 il Governo ha avuto delega di modificare ulteriormente l’articolo 114 c.p.p., “prevedendo il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. È quella che il sindacato dei giornalisti, la Fnsi, critica come legge-bavaglio. E che Nordio difende in quanto misura garantista che dovrebbe “evitare che la collettività possa essere indotta, dalla lettura dell’ordinanza applicativa della misura cautelare custodiale, a ritenere come effettivamente responsabile l’indagato destinatario della misura, malgrado il procedimento si trovi ancora in una fase affatto preliminare”. Carriere separate sì, ma attenti ai super-pm (dotati di esercito) di Errico Novi Il Dubbio, 19 dicembre 2024 Con la scissione dai giudici, i requirenti avranno il loro Csm, i loro agenti e discrezionalità. Servono bilanciamenti. Reclutare nuovi magistrati, nuovi cancellieri: è una rincorsa continua. In tutti gli uffici giudiziari. Si fa fatica a bilanciare, con le assunzioni, il naturale invecchiamento del personale, togato e amministrativo. Ma ieri il guardasigilli Carlo Nordio ha ricevuto una buona notizia: “Grazie all’intesa tra ministero dell’Interno e ministero della Giustizia, sono state aggiornate”, fanno sapere dal Viminale, “le aliquote del personale delle forze di polizia in servizio presso le sezioni di Polizia giudiziaria degli uffici di Procura. Contestualmente alla nuova ripartizione sono aumentati gli operatori impiegati, che salgono a 5.357 unità, nel rispetto del rapporto di proporzione con il numero dei magistrati previsti negli uffici giudiziari: due operatori per ogni magistrato in sede ordinaria e tre operatori per ogni magistrato in sede di Procura distrettuale”. Si tratta, chiarisce il ministero guidato da Matteo Piantedosi, di un intervento “atteso da tempo, con il quale le tabelle vengono adeguate al mutato scenario che negli anni si era andato delineando a seguito dell’istituzione di nuove Procure e delle rimodulazioni organiche dei magistrati inquirenti”. Si può dire che la dotazione assicurata ai magistrati requirenti di tutta Italia costituisca un raro caso di “pieno organico” non solo per il sistema giudiziario ma per l’intero apparato pubblico italiano. Gli stessi procuratori e i loro sostituti sono, in alcune sedi in particolare, come alcuni uffici inquirenti del Sud, ancora insufficienti. Oltretutto il Csm è alle prese con un bel po’ di “lavoro arretrato” relativo alla nomina non solo e non tanto dei direttivi, cioè dei capi delle Procure ordinarie, distrettuali e generali, ma soprattutto dei semidirettivi, cioè degli “aggiunti”: in tutto a Palazzo Bachelet ci sono, solo per i magistrati dell’accusa circa 150 tra incarichi, assegnazioni e trasferimenti da smaltire. Ma il punto è un altro. Il punto è che il sistema inquirente resta, anche grazie alle nuove dotazioni assicurate dal Viminale, tra i pochi apparati dello Stato forti e numericamente adeguati. Il che rincuora ma pone anche interrogativi di varia natura, e uno soprattutto: cosa succederebbe nel momento in cui dovesse entrare in vigore la separazione delle carriere e i pm avranno come previsto dal ddl Nordio, un Consiglio superiore tutto loro? È la vera incognita, ben presente a tutti, nella riforma costituzionale della giustizia. È l’unico quesito che susciti una qualche inquietudine. Con la scissione fra ordine giudicante e magistratura requirente, ci sarà, come prevede l’articolo 3 della modifica che, a gennaio, sarà votata in prima lettura a Montecitorio, un Consiglio superiore della magistratura requirente, parallelo a quello dei giudici, presieduto dal Capo dello Stato e di cui farà parte, di diritto, il pg della Cassazione. Gli altri componenti saranno “estratti a sorte, per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, e, per due terzi, tra i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge”. Come ha ricordato una settimana fa, su queste pagine, il professor Paolo Ferrua con una magistrale lezione, assai apprezzata anche nel direttivo Anm riunitosi due giorni dopo, sganciare da tutto, cioè dal resto della magistratura civile e penale, i pm comporta il rischio di creare un corpo dello Stato separato, e non semplicemente autonomo, da ogni altro potere. Non sarà assoggettato, doverosamente, all’Esecutivo. Sarà autogovernato da un organismo in cui i pm avranno, come pure è giusto, la maggioranza assoluta. Sarà dotato di un proprio apparato di polizia giudiziaria. E dulcis in fundo, sarà orientato non solo al perseguimento dei reati ma, come prevede la norma introdotta con la riforma penale di Cartabia, anche alla scelta, in capo ai procuratori della Repubblica, delle priorità nel contrasto delle condotte illecite. Si, è vero che al Parlamento, sempre con l’articolo 1 comma 9 di quella riforma, è data facoltà di definire “criteri generali”, ma saranno i procuratori della Repubblica, ciascuno nel proprio circondario, a “garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale” con l’individuazione di “criteri di priorità trasparenti e predeterminati”, da indicare nei loro “progetti organizzativi”, al fine di “selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili”. Non si può insomma ignorare il rischio che, con la separazione delle carriere, nasca una Repubblica autonoma dei pubblici ministeri. Non vuol dire che, sulla riforma costituzionale della giustizia, è meglio fare dietrofront. Ma che, di certo, l’ordinamento giudiziario avrà bisogno di raffinati bilanciamenti per evitare che la magistratura dell’accusa si trasformi in un superpotere incontrollato, ai limiti dell’anarchia. Uno strumento potrà essere offerto dal riconoscimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, sul quale Nordio si è impegnato lo scorso 6 dicembre alla celebrazione promossa dal Cnf per i 150 anni degli Ordini forensi. Di certo una geometria costituzionale che comprenda - con la magistratura requirente staccata per la prima volta dai giudici civili (che sono la stragrande maggioranza dei magistrati italiani, ricordiamolo) e penali - anche gli avvocati, può assicurare un certo bilanciamento, un migliore equilibrio anche nelle quotidiane dinamiche processuali. Ma potrebbe non bastare. Potremmo trovarci di fronte a un corpo anomalo in cui i 5.357 agenti di polizia giudiziaria appena assicurati dal Viminale alle Procure si saldano con i procuratori e i loro sostituti in un’alleanza dalla forza smisurata e incontrastabile. Non che oggi l’equilibrio, nel sistema penale, sia da mondo dei sogni. Ma qualsiasi rischio di creare sbilanciamenti imprevedibili andrà tenuto sotto controllo prima che degeneri, appunto, in anarchia. Non è colpa nostra se sulla malagiustizia torniamo sempre a Tortora di Guido Vitiello Il Foglio, 19 dicembre 2024 Per comprendere le resistenze della corporazione togata alla creazione di una Giornata in memoria delle vittime dell’errore giudiziario bisogna tornare indietro negli anni. Si rilegga l’intervista che Marcello Maddalena, allora procuratore aggiunto a Torino, diede a Travaglio nel 1997. Le discussioni sulla malagiustizia peccano spesso di reductio ad Tortoram, ma è ancora a Tortora che dobbiamo tornare per comprendere le resistenze della corporazione togata alla creazione di una Giornata in memoria delle vittime dell’errore giudiziario. Un reperto istruttivo si trova in uno dei libri antesignani del “clima infame” in cui tuttora ci tocca respirare, il legal warming che intossica da trent’anni il nostro ecosistema civile. Mi riferisco a Meno grazia più giustizia, la lunga intervista - sullo sperimentato schema Minà-Fidel - che Marcello Maddalena, allora procuratore aggiunto presso il Tribunale di Torino, diede nel 1997 a Marco Travaglio. Non c’era, in quelle pagine, solo il “momento magico” delle manette. Maddalena diceva che Tortora fu assolto “oggettivamente sull’onda di una campagna politico-giornalistica senza precedenti” (i poveri giudici napoletani erano sotto pressione, altrimenti avrebbero potuto decidere diversamente), ma che la vicenda fu uno di quegli “incidenti di percorso” che “non dipendono dalla volontà dei magistrati”. Aggiungeva che in quell’errore (e qui l’atroce inciso: “se errore fu”) gli inquirenti napoletani non ebbero colpa, tanto che nel loro operato si trovarono “mere irregolarità formali”. Diceva inoltre che “c’erano molti elementi indiziari” a carico di Tortora (in effetti il Partito radicale milanese li raccolse in un famoso libro bianco, che aveva appunto le pagine tutte bianche) e che “poi, per sua fortuna, l’appello rimise le cose a posto”. Meditate la sottile beffa di queste parole: per sua fortuna (“come può un giudice dirmi buona fortuna, come un venditore di almanacchi?”, aveva scritto Tortora alla sorella Anna). Alla fine, chiosava Maddalena, “fu la stessa magistratura a riparare all’errore iniziale” (il Signore ha dato, il Signore ha tolto). Quale immagine emerge da queste righe? L’errore giudiziario è una sciagura naturale, e l’imputato deve affidarsi alla buona sorte, sperando che un buon giudice, come la protezione civile, arrivi prima o poi a soccorrerlo tra le macerie, magari perché intorno dei cittadini stanno lanciando chiassosamente l’allerta. E chi s’inventerebbe mai una Giornata in memoria delle vittime del maltempo? Toscana. Suicidi in carcere, un piano della Regione per la prevenzione: ecco di cosa si tratta di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 19 dicembre 2024 Istituita una task force tra servizi sanitari e penitenziari che hanno concordato una serie di attività. Sono 84 i suicidi nelle carceri italiane nel 2024, una cifra record che ha coinvolto anche la Toscana e in particolar modo il penitenziario di Sollicciano a Firenze, uno dei più critici a livello nazionale. Per questo la Regione Toscana ha varato un piano per prevenire questi eventi drammatici in cella. In sostanza, si tratta di una task force tra servizi sanitari e penitenziari che hanno concordato una serie di attività tra cui: valutazione del rischio all’arrivo del detenuto attraverso un colloquio psicologico da parte di uno staff multidisciplinare; di fronte ad un rischio evidente, il detenuto viene segnalato al servizio di sorveglianza e ai servizi di assistenza psicologica e psichiatrica; di fronte al rischio il detenuto viene coinvolto in una terapia mirata, sviluppata di concerto con i medici del penitenziario; formazione del personale su rilevazione del rischio. “Un’alleanza importante tra mondo penitenziario e mondo sanitario - sottolineano il presidente della Toscana Eugenio Giani e l’assessore al diritto alla salute Simone Bezzini - Da sola però - aggiungono - la prevenzione non basta. Serve una svolta culturale e politica, oltre che normativa”. I suicidi si verificano a volte a cause di condizioni di vita in strutture inadeguate, fatiscenti o sovraffollate. “Non ci si può limitare - evidenzia il presidente - a realizzare ulteriori spazi di detenzione. Le carceri devono essere luoghi di rieducazione e del riscatto dopo aver scontato la pena”. Secondo Bezzini “è preoccupante il graduale peggioramento della qualità della vita dei detenuti, ma anche del personale impiegato. Con questo progetto confermiamo la nostra attenzione alla dignità della persona e la volontà di mettere i detenuti nella condizione di godere dei propri diritti fondamentali e prevenire il fenomeno dei suicidi in carcere che, negli ultimi anni purtroppo, ha conosciuto un drammatico aumento”. Per il 2024 la giunta regionale toscana aveva già proceduto al rinnovo del progetto di supporto psicologico rivolto ai detenuti: una misura a tutela anche questa della salute delle persone. È stato inoltre rinnovato il progetto per promuovere e mantenere il benessere psicofisico del personale in carcere, una misura che contribuisce a garantire una maggiore sicurezza e qualità dell’assistenza dei detenuti. Gli indirizzi sul nuovo piano contro il rischio suicidi dovranno adesso tradursi nell’aggiornamento dei piani locali di ogni singolo istituto, compito che spetta alle Asl in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria. Viterbo. Detenuto di 23 anni si è impiccato ieri, era da diversi giorni in sciopero della fame tusciaweb.eu, 19 dicembre 2024 Giovane detenuto trovato morto in carcere. La tragedia è avvenuta nella notta tra il 17 e il 18 dicembre, all’interno della casa circondariale intitolata alla memoria del poliziotto Nicandro Izzo. Stando a quanto finora trapelato, l’uomo, di 23 anni italiano che si trovava recluso all’interno della sezione protetta, sarebbe stato trovato impiccato alle sbarre della finestra. Già da diversi giorni, secondo le prime ricostruzioni, avrebbe messo in atto uno sciopero della fame per le difficoltà personali. Nonostante ogni tentativo di rianimazione, per il giovane non ci sarebbe stato nulla da fare. La notizia della sua morte richiama alla mente altri drammi del genere. Come il decesso di Andrea Di Nino nel maggio del 2018 o la morte nel sonno di Dorin Cosmin Tebuie. Padova. Università in carcere, si amplia la biblioteca di Sara Busato Corriere del Veneto, 19 dicembre 2024 Garantire il diritto allo studio a tutti, compresi coloro che si trovano in condizione di privazione della libertà, è un principio fondamentale. Dal 2004, l’ateneo di Padova è protagonista in questo ambito grazie al progetto “Università in carcere”, un’iniziativa volta ad ampliare l’accesso all’istruzione universitaria per detenuti. Dopo vent’anni, i risultati sono tangibili: quest’anno, il polo universitario penitenziario registra un ulteriore sviluppo, rafforzando il suo ruolo di modello virtuoso nel panorama nazionale. Sono sessanta gli iscritti ad una delle sette scuole dell’ateneo: quarantasette nella casa di reclusione e tredici, selezionati in base ai risultati negli studi e alle esigenze di sicurezza interna, nel polo universitario, propriamente detto. Una “cittadella universitaria” che offre un ambiente adeguato allo studio dotato di spazi comuni, orari di visita estesi per i docenti e i ventuno tutor, collegamento a internet secondo limitazioni e biblioteca. “La scommessa è che possa esistere pur delle particolari condizioni di detenzione, uno spazio effettivo di tutela dei diritti del detenuto in quanto studente - commenta la professoressa Francesca Vianello, responsabile del coordinamento delle attività. L’auspicio è che l’impegno nello studio possa integrarsi con altri veicoli della riabilitazione”. Tra le facoltà più richieste spicca ingegneria informatica, agraria e scienze umanistiche. Le difficoltà negli anni sono state tante e molte persistono: la mancanza di adeguati a colloqui e attività didattiche, spazi comuni aperti al dialogo e allo studio; accessibilità internet. “Stiamo avviando - ha commentato Claudio Mazzeo, direttore del carcere - la gara per ampliare la biblioteca e creare una sala di lettura dedicata agli studenti. Il progetto crea di inclusione e reintegrazione sociale”. Dietro i numeri e le difficoltà c’è la storia di persone che hanno scelto di investire nel proprio futuro. A prendere parola ieri mattina, nel corso della cerimonia del ventennale è stato Benedetto, uno studente detenuto che da due anni è iscritto a Giurisprudenza. “Sono a Padova dal 2017, e l’idea di imparare mi motiva ogni giorno”, racconta lo studente. “Il mio pensiero va ai professori e ai tutor, che mi offrono la cosa più preziosa: il loro tempo”. Crotone. Il Garante: “Al più presto un protocollo per il reinserimento lavorativo come a Reggio” lanuovacalabria.it, 19 dicembre 2024 “Un sincero plauso va alla sottoscrizione del Protocollo tra la Regione Calabria, la Prefettura di Reggio Calabria, e altri partner istituzionali e del Terzo settore, per favorire l’inserimento socio-lavorativo delle persone soggette a restrizioni della libertà personale nella Città metropolitana di Reggio Calabria. “Tali iniziative lodevoli rappresentano per la popolazione detenuta una risposta concreta all’attuazione di un reinserimento sociale e lavorativo vero poiché offrono al detenuto la possibilità realizzare concrete opportunità di riscatto e crescita, permettendo al beneficiario di affrancarsi dagli errori del passato e, contestualmente, alla comunità di arricchirsi di modelli positivi di reintegrazione e emancipazione nel tessuto sociale”. Lo afferma il Garante dei detenuti di Crotone, avvocato Federico Ferraro. “Il protocollo di Reggio prevede l’attuazione di specifici percorsi di formazione professionale, orientamento e avvio al lavoro, organizzati nell’ambito di una strategia che vede il coordinamento delle risorse messe in campo da tutti i soggetti istituzionali coinvolti. Se è vero che “educare è meglio che punire” anche nel nostro territorio bisogna tendere una mano a coloro che avendo scontato la loro pena o essendo in procinto di terminare la pena in carcere possono trovare al di fuori non soltanto una speranza ma un vero reinserimento nel mondo del lavoro. Per tali ragioni come Garante comunale ho inteso inoltrate alcune comunicazioni istituzionali al Prefetto di Crotone, alla Direttrice della Casa Circondariale di Crotone e all’Assessore Regionale al Lavoro per chiedere che, anche a Crotone, si possa avviare al più presto il percorso burocratico per la stipula e la sottoscrizione di un Protocollo d’intesa per il reinserimento socio- lavorativo dei detenuti”. Arezzo. Fp Cgil: “No al Garante unico per i diritti dei detenuti e del personale penitenziario” ildiariodellavoro.it, 19 dicembre 2024 Alla luce della recente nomina ad Arezzo di un unico Garante per i diritti del personale penitenziario e dei detenuti, riteniamo doveroso esprimere la nostra ferma posizione a difesa dell’autonomia degli operatori penitenziari. Lavoratrici e lavoratori che quotidianamente svolgono un ruolo fondamentale per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti di pena. I loro diritti e interessi sono già affidati alla consolidata azione dei sindacati di categoria, che hanno storicamente dimostrato di essere efficaci e competenti nel salvaguardare le condizioni lavorative e nel promuovere il riconoscimento del loro impegno”. Questa la dichiarazione di Donato Nolè, Coordinatore nazionale Polizia Penitenziaria della Funzione Pubblica CGIL in merito alla recente nomina di un garante unico per detenuti e personale agenti di polizia penitenziaria. “Equiparare due realtà così diverse è una scelta che non tiene conto delle profonde differenze di condizione e funzione tra chi presta servizio e chi è sottoposto a una misura restrittiva della libertà personale. Tale confusione rischia di svilire la figura stessa del garante, la cui missione è storicamente legata alla tutela dei diritti umani di chi si trova in una condizione di privazione della libertà - precisa Nolè e prosegue -. Introducendo un garante con questa doppia funzione, si rischia di sovrapporre compiti e di delegittimare la funzione sindacale, con possibili ricadute negative sulla capacità di rappresentanza e contrattazione. Chiediamo pertanto che questa decisione venga rivista, nel rispetto delle specificità di entrambe le categorie coinvolte”. “Gli operatori penitenziari non chiedono di essere tutelati da una figura di garanzia che non rispecchia le loro reali necessità. Al contrario, reclamano un riconoscimento concreto del loro lavoro, che passa attraverso investimenti nelle strutture, maggiori risorse per la formazione e una più forte valorizzazione del loro ruolo nella società. Ribadiamo il nostro massimo rispetto per la figura del garante dei detenuti e per la sua imprescindibile funzione nel sistema penitenziario. Tuttavia, è essenziale che i confini dei ruoli vengano rispettati, evitando confusioni che potrebbero indebolire la credibilità e l’efficacia di tutte le parti coinvolte”, conclude Donato Nolè. Torino. Laboratori, doposcuola e cura: il modello per la giustizia riparativa dei minori di Andrea Joly La Stampa, 19 dicembre 2024 Quaranta ragazze e ragazzi torinesi che hanno commesso atti di bullismo, diffamazione a mezzo social, piccoli danneggiamenti e furti, saranno accompagnati in un percorso di rieducazione. Laboratori di artistici, dal teatro alla musica. Ma anche animazione con bambini, accompagnamento allo studio di altri minori, cura di spazi pubblici, accudimento di persone o animali. Sono le attività proposte tra le mura dell’associazione Asai, nel cuore di Sansalvario, per la giustizia riparativa dei minori che hanno commesso piccoli reati a Torino. Bullismo, diffamazione a mezzo social, piccoli danneggiamenti e furti. Quaranta ragazze e ragazzi torinesi l’anno, quasi tutti cresciuti in condizioni difficili, si rieducano così. A parlarne, alla firma del protocollo d’intesa “Ricominciamo” frutto della collaborazione tra la Città, la polizia municipale, la procura per i minorenni di Piemonte e Valle d’Aosta e l’associazione Asai, ieri è stata la procuratrice Emma Avezzù: “Questa sperimentazione, a Torino, è iniziata già nel 2009 - spiega - La creazione di una rete, che ha visto e vede tuttora coinvolti soggetti pubblici e del privato sociale, ha inteso cogliere l’esigenza di accompagnare il minore verso un percorso per riflettere sul disvalore delle proprie azioni e recuperare una nuova identità”. Una sperimentazione che si è rinnovata fino al 31 dicembre 2026 e che ha saputo “ispirare anche la riforma Cartabia”. Al tavolo anche il presidente dell’associazione Asai Francesco Caligaris. La realtà che, ogni giorno, affianca i minori e i tutor a loro dedicati: “Noi offriamo una comunità, educante e accogliente, in cui i minori possano trovare un punto di riferimento e portare un valore positivo facendo qualcosa di concreto. Siamo felici di poter continuare a farlo”. Legge le autorelazioni che alcuni dei ragazzi affiancati nel 2024 hanno scritto: “Un ragazzo ha scritto questo: penso di aver scoperto che, quando voglio e mi impegno, posso fare cose belle. Ecco: il senso di ciò che facciamo è in queste lettere”. E nei dati sulla recidiva: meno del 2 per cento torna a commettere reati. “È fondamentale creare le condizioni affinché si possa educare alla legalità e offrire a ragazze e ragazzi percorsi di prevenzione alla devianza e supporto concreto - dichiara la vicesindaca Michela Favaro - Come amministrazione continueremo a investire in progetti come questo, che accomunano educazione alla legalità e inclusione sociale”. “Tra procura e municipale esiste da tempo una proficua collaborazione in diversi ambiti tra attività investigativa, inadempienza scolastica, progetti di educazione alla legalità nelle scuole, controllo e monitoraggio di aggregazioni giovanili”, aggiunge l’assessore alla Sicurezza, Marco Porcedda. Rimini. Beni di prima necessità donati ai detenuti dei Casetti altarimini.it, 19 dicembre 2024 La raccolta benefica degli avvocati coinvolge anche tanti cittadini. Iniziativa di solidarietà per i detenuti della Casa Circondariale di Rimini, oggi la consegna dei beni. Il Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Rimini, Roberto Brancaleoni, Linda Mastrodomenico (referente carcere per l’Ordine degli Avvocati di Rimini), Annalisa Calvano (responsabile della Commissione Carcere della Camera Penale di Rimini) ed Efrem Ceccaroli (referente territoriale dell’Osservatorio Nazionale sulle Carceri dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati) si sono recati presso la Casa Circondariale di Rimini per consegnare il frutto della raccolta di solidarietà denominata “Indossa la speranza”, svoltasi nel Tribunale di Rimini. La Camera Penale, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, l’Associazione Italiana Giovani Avvocati sezione di Rimini e l’Associazione Nazionale Magistrati sottosezione di Rimini, hanno infatti organizzato una raccolta di vari prodotti di prima necessità segnalati come necessari per i detenuti della Casa Circondariale. Dal 9 al 13 dicembre, presso i locali del Consiglio dell’Ordine, sono stati posizionati contenitori differenziati per tipologia di prodotto, che hanno consentito di raccogliere quanto donato non solo da Avvocati, Magistrati, Cancellieri, ma anche da cittadini che, con grande sensibilità e generosità, hanno voluto partecipare alla donazione. Gli Avvocati sono stati accolti dalla Direttrice del Carcere di Rimini, Palma Mercurio, dagli Agenti della Polizia Penitenziaria e da alcuni detenuti. Tutti hanno apprezzato con grande entusiasmo l’iniziativa che contribuisce a non far sentire il carcere un luogo lontano e dimenticato da tutti, soprattutto con l’avvicinarsi del periodo natalizio. “Il tragico dato dei suicidi in carcere, 88 in Italia da inizio anno, nonché la nota situazione di sovraffollamento, rendono quantomai opportuna l’adozione di misure, seppur all’apparenza minime, rivolte a garantire almeno le piccole esigenze di vita quotidiana di chi si trova privato della libertà personale. La nostra Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Solo rispettando questo principio fondamentale si può sperare che chi ha commesso reati e scontato la pena cessi di essere un pericolo per la società”; si legge in una nota congiunta di Camera Penale, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, Associazione Italiana Giovani Avvocati sezione di Rimini e Associazione Nazionale Magistrati, che si impegnano “a continuare a sostenere iniziative di questo tipo volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle criticità delle condizioni detentive in Italia”. Ridurre quella distanza tra il “dentro” e il “fuori” per i bambini, i soggetti maggiormente colpiti dall’esperienza detentiva dei propri famigliari. Il mondo libero - quello delle istituzioni, dell’amministrazione penitenziaria e del Terzo settore - ha già avviato, da alcune settimane, una serie di programmi che vedono la collaborazione di numerose associazioni del Salento. Si intitola “Prima persona plurale - Noi siamo qui”, il progetto presentato durante la conferenza stampa di questa mattina, all’interno del carcere di Lecce. Promosso dall’associazione Fermenti Lattici, con un ampio partenariato pubblico-privato, il “piano” è stato selezionato nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Si tratta di più settori operativi, tramite i quali fornire supporto concreto ai bambini e alle bambine e, più in generale, alle 300 famiglie di detenuti del territorio. Dal sostegno economico, a quello scolastico, ricreativo, logistico e persino sanitario. Già avviate, le attività, sono garantite fino al mese di gennaio 2028. Si parte dai bisogni più elementari delle famiglie: il trasporto, per esempio. Il progetto ha così strutturato un sistema logistico, gratuito, tramite le associazioni della zona di Lecce e una del basso Salento per coprire anche l’area del Capo di Leuca. In questo modo sarà garantito l’accompagnamento di minori e parenti ai colloqui coi propri cari, nell’istituto di Borgo San Nicola. Il colloquio è un momento delicato, complicato da questioni geografiche e dal fatto che i bambini, per far visita a un papà, mamma, nonno detenuto, sono costretti ad assentarsi da scuola. Lecce. Alleviare i disagi dei figli dei detenuti. Compleanni coi cari, trasporti per i colloqui lecceprima.it, 19 dicembre 2024 Tra gli scopi, quello dunque di tutelare i legami familiari. Organizzando delle feste in occasioni di compleanni, Festa della Mamma e del Papà, Epifania. Un modo per garantire un minimo di normalità ai più piccoli con una torta, una foto, un ricordo che edulcori l’esperienza del carcere. E non solo. La casa circondariale di Lecce, grazie a questo progetto, ha aperto anche agli spettacoli teatrali per famiglie, sessioni di pet therapy con una cagnolina dal nome Frida. In partenza anche Il Cinemino, un momento dedicato a mamme e bambini per condividere del tempo di qualità guardando un film, come quello natalizio in programma in queste ore. Uno scorcio di quotidiana normalità precluso fino ad oggi ai bambini delle detenute. Tra gli altri servizi destinati ai figli dei detenuti - e comunicati ai vari Servizi sociali dei Comuni della provincia - laboratori educativi e iniziative ricreative nelle biblioteche comunali OgniBene e L’Acchiappalibri e in altri centri culturali. Una particolare attenzione sarà rivolta agli spazi di accoglienza come Villa Adriana, struttura dedicata alle persone detenute in permesso e alle loro famiglie, in collaborazione con Comunità Speranza. Qui, anche con i materiali montessoriani di Boboto, si realizzeranno attività ludiche e momenti di condivisione. Sono previste gite e visite ai musei, oltre al campo estivo nelle biblioteche. Il progetto include presidi di ascolto psicologico con le esperte e gli esperti di Psifia- Psicoterapeuti per la famiglia, l’infanzia e l’adolescenza, incontri formativi per operatori e addetti ai lavori, la redazione della Carta dei servizi per la famiglia a cura dell’associazione Antigone Puglia. Attraverso l’affido culturale e il cofinanziamento comunitario della “Cultura del sospeso”, saranno inoltre sostenuti percorsi di sport, teatro, musica e danza per valorizzare e incoraggiare i talenti dei minori. Alla conferenza stampa di presentazione sono intervenuti la direttrice del carcere Maria Teresa Susca; l’assessore al Welfare Andrea Guido; la garante dei diritti delle persone private della libertà personale Maria Mancarella; Antonietta Rosato e Cecilia Maffei dell’associazione Fermenti Lattici; Riccardo Buffelli, presidente Arci Cassandra Aps e Maria Teresa Calvelli della Comunità Speranza. Tra le altre realtà coinvolte nel partenariato col Comune di Lecce e Unisalento, vi sono l’associazione Megghy, Boboto - Società Benefit, CoolClub, Principio attivo teatro e Aragorn. Tutti i presenti hanno ringraziato la direttrice dell’istituto, Maria Teresa Susca, per la disponibilità e la costante apertura nei confronti di iniziative sull’inclusione e la tutela dei diritti. Di questa ampia costellazione di organizzazioni del Terzo settore si è detto soddisfatto l’assessore a Palazzo Carafa Andrea Guido: “Un progetto concreto che l’amministrazione comunale si impegnerà a sostenere con altrettanta concretezza: mettendo ad esempio a disposizione i trasporti per i bambini, consentendo loro di esplorare le meraviglie di questa città”. Milano. Regalare un libro ai detenuti per Natale: l’iniziativa di due librerie di Alice De Luca fanpage.it, 19 dicembre 2024 A Milano è possibile regalare e dedicare libri alle persone detenute nel carcere di Bollate. Lo si può fare attraverso Gogol & Company, una libreria indipendente sorta nel 2010 in via Savona oppure Scamamù, uno spazio con libri e giochi in scatola in via Davanzati. Il progetto si chiama “Regala un libro a un detenuto” ed è un’iniziativa del Gruppo carcere Cuminetti. Le persone che vogliono aderire possono andare nelle librerie e scegliere, all’interno di una selezione di titoli consigliati, il volume da regalare, su cui è possibile lasciare anche una piccola dedica. Dalla saggistica alla narrativa, fino alle raccolte di poesie: la lista dei desideri è lunga e nutrita. Ma per fare questo dono non è necessario recarsi fisicamente in libreria, dal momento che il regalo si può anche commissionare da remoto, scrivendo all’indirizzo email delle due librerie, che condivideranno la lista di titoli da cui selezionare il proprio preferito. Una volta terminato il pagamento online, il gioco è fatto. Ogni settimana i libri vengono raccolti e messi da parte, per poi essere consegnati alla biblioteca del carcere di Bollate, dove sono messi a disposizione dei ragazzi e delle persone detenute. Un’iniziativa molto simile è quella del “Libro sospeso”, lanciata dalle Edizioni Messaggero Padova in occasione del Gubileo. Grazie a questo progetto i lettori possono regalare libri ai detenuti di alcune regioni: oltre alla Lombardia, anche Veneto, Piemonte, Valle d’Aosta e Sardegna. Per farlo basta acquistare un titolo dalla sezione dedicata sul sito dell’editore e il libro verrà poi spedito a uno degli enti che hanno aderito al progetto, tra i quali anche il carcere di Como. Torino. Dev’essere Natale anche in carcere: novena con l’Arcivescovo card. Repole in carcere di Marina Lomunno vocetempo.it, 19 dicembre 2024 “Anche al funerale di mia nonna il prete ha detto questa preghiera, lo ricordo bene”. Sandra (nome di fantasia) scoppia a piangere mentre l’Arcivescovo intona “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo abbi pietà di noi”. Sandra è una delle detenute della Casa circondariale torinese che, martedì scorso, ha partecipato con i suoi compagni e compagne di cella alla Messa natalizia presieduta dal cardinale. La visita al “Lorusso e Cutugno” non a caso è stata una delle prime di Repole dopo il Concistoro del 7 dicembre, in linea con il mandato di Papa Francesco. “L’avventura della strada, la gioia dell’incontro con gli altri, la cura verso i più fragili: questo deve animare il vostro servizio di cardinali”. Sono le priorità che il Papa ha indicato ai 21 neocardinali creati nel Concistoro e che l’Arcivescovo di Torino e Vescovo di Susa, ha iniziato a rendere visibili nelle prime uscite pubbliche con la porpora. Martedì 10, appena tornato da Roma, ha presieduto la Messa presso l’Arsenale della Pace: l’occasione, il 60° di fondazione, da parte di Ernesto Olivero e numerosi amici del Sermig, che dal 1983 a Torino e poi in Brasile e Giordania, cammina accanto agli emarginati e accoglie gli “scarti” della società. E poi domenica 15, durante l’abbraccio con i torinesi e i valsusini che hanno gremito la cattedrale di Torino per la Messa di ringraziamento, Repole nell’omelia ha richiamato commosso Yasmine: “la bambina della Sierra Leone in fuga in un mondo segnato da guerre, violenze, poteri che si scontrano”, unica sopravvissuta al naufragio nel mare di Lampedusa alla ricerca di futuro insieme a 44 disperati nel barcone dove invece hanno trovato la morte. “Che cosa dobbiamo fare perché questo Natale sia il nostro Natale? Dobbiamo reimparare a condividere e ce n’è un immenso bisogno nell’umanità di oggi”. Lo stesso invito Repole ha rivolto ai reclusi e alle recluse durante l’omelia pronunciata nella cappella del penitenziario torinese, che è in sofferenza - come altre carceri della Penisola - per sovraffollamento, carenza di personale e strutture obsolete. Il Cardinale, accompagnato dalla direttrice Elena Lombardi Vallauri, prima dell’Eucaristia, si è soffermato in preghiera per incoraggiare un gruppo di agenti penitenziari. E poi nella cappella del carcere - dove campeggia un dipinto di san Giuseppe Cafasso, il patrono dei detenuti che abbraccia un recluso, e l’icona della Madonna Consolata - Repole, commentando il Vangelo della genealogia di Gesù, ha ricordato che “in ogni nome pronunciato, in ognuno di noi c’è una storia di gioie, umiliazioni, errori, fragilità e successi. Ma ogni nome ci dice che siamo persone uniche, irripetibili”. Ecco il senso della lunga lista di nomi degli antenati di Gesù, un bambino figlio di un popolo che ha a che fare con tutta l’umanità, nel bene e nel male, che ha condiviso con noi gioie e sofferenze, anche il carcere (ero carcerato e siete venuti a trovarmi). “Gesù è venuto per tutti” ha proseguito il Cardinale “anche per me che ho sbagliato perché tutti sperimentiamo il fallimento nella vita ma Gesù, figlio dell’umanità è figlio di Dio anche nei luoghi di sofferenza. E ci dice che dagli errori, dalle sconfitte possiamo rialzarci e ricominciare: è l’augurio che faccio a tutti voi”. Al termine della Messa, il diacono Michele Burzio, a nome dei cappellani, dei volontari che hanno animato la Messa, dei detenuti e del personale ringrazia Repole per aver scelto il carcere, luogo di fragilità, per celebrare la sua prima Messa da cardinale nella Novena di Natale. “Le siamo riconoscenti di essere qui perché per noi la sua presenza oggi segna l’inizio del prossimo Giubileo della Speranza: qui tutti abbiamo bisogno di speranza, non ci dimentichi”. E scoppia un applauso, tra i volti rigati dalle lacrime. “A Natale pregherò per voi, per i vostri cari ma voi pregate per me perché questo nuovo mio incarico possa essere, come ci ha detto papa Francesco, segno di speranza e di luce del Dio che viene a salvarci e ad abbattere le sbarre che ci dividono”. È tempo di tornare in cella, in cappella rimangono i volontari. Mario (nome di fantasia) chiede a suor Piera Nespoli, vincenziana da 13 anni accanto alle donne ristrette, se può avere come regalo di Natale un “Tau” di legno da portare al collo: “Sono devoto di san Francesco, è un santo che ha scelto la povertà e anche io sono povero”. Suor Piera promette che glielo farà avere. Cosa significa stare accanto ai detenuti? “Innanzi tutto ascoltarli, non chiedere mai del loro reato come ci ha insegnato san Cafasso, far capire che li pensiamo, preghiamo per loro, per noi sono importanti. C’è tanta solitudine dietro alle sbarre”. Beppe Bordello, volontario da otto anni alle Vallette, ha preparato numerosi detenuti ai sacramenti dell’iniziazione. Attualmente segue un ristretto albanese che ha riscoperto in carcere la fede dei suoi famigliari soffocata dalla dittatura. “La permanenza in carcere per molte persone si può paragonare a un ritiro spirituale ‘forzato’: hai tanto tempo per ripensare alla tua vita, dove stai andando, che uomo e che donna vuoi diventare dopo la pena… Ed ecco che, leggendo il Vangelo insieme e nella catechesi, ritornano i ricordi delle giornate passate in oratorio, delle preghiere imparate da bambini. E nascono le domande di senso. Noi proviamo a gettare un seme, il Signore fa crescere la pianta”. Onu mai così tanti Paesi per la fine della pena di morte di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 dicembre 2024 130 le nazioni per la moratoria universale, 32 i contrari. “Il voto di oggi segna un ulteriore passo verso l’abolizione mondiale della pena di morte e certifica che la pena capitale è ormai una pratica fuori dalla storia, un ferro vecchio dell’umanità di cui occorre liberarsi. Segna altresì l’affermazione del principio che l’abolizione della pena di morte attiene ai diritti umani”. Così Sergio d’Elia dell’associazione Nessuno tocchi Caino ha commentato lo storico voto che si è tenuto all’Assemblea della Nazioni Unite riguardante una moratoria universale contro la pena capitale. L’assise di New York ha così ribadito che le esecuzioni nel mondo non sono più considerate una maniera per far rispettare la giustizia e rafforzare il vivere civile. La Votazione in realtà ha costituito l’approvazione di una decima risoluzione riguardante il tema, segno che la strada è stata molto lunga e ancora oggi sono diversi i paesi che disconoscono le decisioni Onu. In ogni caso in molti considerano quello che è successo una svolta favorevole verso una totale abolizione. A favore infatti si sono espresse centotrenta nazioni mentre i contrari sono stati trentadue, ventidue gli astenuti. Il progresso notevole sta nel fatto che nel 2007 un’analoga risoluzione raccolse l’appoggio di soli centoquattro paesi mentre si opposero in cinquantaquattro. Ma l’avanzamento è comunque stato costante come dimostra il voto del 2022 quando invece l’esito fu di centoventicinque consensi a favore e trentasette contrari. Questa Volta la risoluzione è stata messa ai voti su iniziativa dell’Argentina sia pure ora governata dal non molto pacifico presidente Milei, ma anche sotto la spinta italiana a nome di una task force interregionale di Stati membri eco- sponsorizzata da 70 Stati. Il nuovo andamento è stato determinato dal cambiamento di atteggiamento da parte di alcuni paesi come le isole di Antigua, Barbuda Sao Tomé, Principe, le Seychelles, Vanuatu e Bahamas e di nazioni africane come Gabon, la Somalia, Kenya, Marocco e Zambia i quali invece si erano precedentemente astenuti. particolarmente importante il voto pesante in termini di rappresentanza da parte di Bangladesh e della Repubblica Democratica del Congo. Ma c’è anche chi ha invece cambiato opinione in maniera negativa come la Guinea e l’Uganda che sono passate dal voto favorevole nel 2022 all’astensione, oppure la Mauritania e Papua Nuova Guinea ora contrarie alla moratoria. La Repubblica Centrafricana e le Isole Marshall, che erano state a favore nel 2022, non erano presenti al voto. Le Reazioni alla decisione dell’Assemblea Onu si stanno moltiplicando e sono soprattutto le organizzazioni internazionali che si battono per i diritti umani ad esprimere soddisfazione. Secondo Amensty International: “Questo voto segna un importante punto di svolta per i paesi di tutto il mondo e dimostra che gli Stati membri delle Nazioni Unite si stanno avvicinando costantemente al rifiuto della pena di morte come punizione legittima ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani. Il sostegno degli Stati alla pena di morte appare molto diverso da quando sono stati adottati per la prima volta i trattati internazionali che ne consentivano il mantenimento. Il sostegno senza precedenti a questa risoluzione dimostra che il cammino globale verso l’abolizione è inarrestabile”. La pena di morte negli Usa: chiamata a Biden per la storia di Marco Impagliazzo Avvenire, 19 dicembre 2024 Cresce negli Stati Uniti, e in molte parti del mondo, un vasto movimento popolare che chiede al presidente Biden, in carica fino al 20 gennaio prossimo, di commutare le quaranta sentenze capitali nel braccio della morte delle carceri federali degli Stati Uniti, prima di lasciare il suo Ufficio. Elena Molinari ha recentemente messo in luce su Avvenire il risultato di un sondaggio che mostra come negli Usa i cittadini stiano prendendo gradualmente le distanze dalla pena capitale. In molti hanno rilanciato l’appello a Biden per commutare queste quaranta condanne: lo hanno fatto i vescovi Usa, organizzazioni cattoliche e non che da anni chiedono l’abolizione di questa pena negli Usa. Chi si batte contro di essa, anche fuori dai confini americani, ricorda con dolore le 13 esecuzioni federali in sei mesi, più di quello che era accaduto in un secolo e mezzo di storia americana, al termine della precedente amministrazione Trump. Oggi Biden ha la possibilità di invertire queste tragiche decisioni del suo predecessore (e ora successore): non ha nemmeno bisogno del Congresso per segnare la storia con questo coraggioso e necessario gesto. Un presidente cattolico come Biden sa bene che la pena di morte è contro l’insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica, rivisto nel 2018 da papa Francesco proprio su questo punto con parole inequivoche: “La pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e alla dignità della persona umana”. Negli Usa più della metà di tutte le esecuzioni avviene in due Stati, Texas e Florida. In Texas, il 50 per cento avviene in due sole contee su 254. Innocence Project per gli Stati Uniti ha dimostrato come almeno in un caso su 15, per reati gravissimi, si è trattato di un innocente, 7 volte su 10 la persona sbagliata era stata identificata sulla base di testimoni oculari, in un caso su 5 erano state rilasciate confessioni sotto tortura e pressione psicologica. Nel recente convegno, No justice without life, promosso da Sant’Egidio a Roma con i ministri della giustizia di vari Paesi del mondo, si è riflettuto sul tema di una giustizia che non rispetta la vita. Qui Mario Marazziti ha detto: “Non esiste il sistema giudiziario perfetto. Non può essere mai tolto quello che non si può restituire: la vita. L’assenza di pena capitale difende i sistemi giudiziari da sé stessi. Perché si tratta della forma più estrema di distruzione della cultura della vita, e perché attorno ad essa si concentrano tutte le debolezze dei sistemi giudiziari. È la negazione del potere riabilitativo della pena e della sanzione, diventa una tentazione verso il basso per gli ordini carcerari e giudiziari, nega in radice la ragione stessa per cui esistono le stesse leggi: difendere la società e la vita. Anche quella di chi sbaglia”. Un sistema giudiziario che dà la pena di morte, anche se lo fa appoggiato dall’opinione pubblica, nega sempre sé stesso in radice. La vita umana non è nella disponibilità di uno Stato perché non c’è giustizia senza vita. Come deve essere rispettata in tutte le sue forme, così anche quella del condannato ha un valore. Chi siamo noi per giudicare quanta vita è rimasta e quanto vale? Non si può amare la morte al punto di pensare che la pena capitale sia una medicina per la società violenta. La pena capitale non è una medicina ma l’opposto di essa, un veleno. Va cercato l’antidoto in uno sforzo congiunto di istituzioni e società civile. Al contrario, una nazione che ne abolisce l’uso non pone limiti al futuro, dà ai propri cittadini un segnale di speranza: nulla è già scritto o è irreversibile. Essere contro la pena di morte rappresenta una vigilanza continua sul nostro pensiero e sulla società: un modo per sottrarsi al sonnambulismo che porta al disinteresse per la vita degli altri o, addirittura, a negare un possibile cambiamento. In un tempo di forti attacchi alla legittimazione dell’Onu e alle costituzioni degli Stati democratici, le commutazioni del presidente Biden mostrerebbero che una giustizia capace di rispettare sempre la vita è un argine alla cultura della morte, la stessa che dà per scontata l’uccisione di civili e bambini nelle guerre: un baluardo di civiltà alla pratica semplificata e generalizzata della violenza. Gaza. Medici Senza Frontiere accusa Israele di “pulizia etnica” di Nello Scavo Avvenire, 19 dicembre 2024 Nel nuovo rapporto di Msf documentati casi di attacchi deliberati anche contro il personale medico. Accuse anche ad Hamas. E Human Right Watch parla di “sterminio”. “Stiamo assistendo a chiare evidenze di pulizia etnica dal momento che i palestinesi vengono sfollati con la forza, messi in trappola e bombardati”. Le parole Christopher Lockyear, segretario generale di Medici senza frontiere, aprono un rapporto di 34 pagine che non risparmia accuse alle forze israeliane e non fa sconti ai miliziani di Hamas e degli altri gruppi di estremisti palestinesi. “Tutto quello che le nostre équipe mediche hanno visto sul campo durante questo conflitto - aggiunge Lockyear - è coerente con le descrizioni fornite da un numero crescente di esperti legali e organizzazioni secondo cui a Gaza è in corso un genocidio”. Tuttavia “pur non avendo l’autorità legale per stabilire l’intenzionalità, le evidenze della pulizia etnica e la devastazione in corso - tra cui uccisioni di massa, gravi lesioni fisiche e mentali, sfollamento forzato e condizioni di vita impossibili per i palestinesi sotto assedio e sotto i bombardamenti - sono innegabili”, si legge nel documento. Vengono esaminati numerosi episodi, incrociando testimonianze dirette degli operatori che da vent’anni sono presenti a Gaza, e dati raccolti da organismi come l’Organizzazione mondiale della sanità. “Medici senza frontiere” è stata più volte sotto il fuoco diretto israeliano e quello incrociato tra le parti. “In molti casi - viene precisato - non è stato possibile determinare le responsabilità”. Di certo, secondo il rapporto, ci sono 41 attacchi contro Msf; 17 evacuazioni di ospedali o cliniche; 27.500 visite mediche a feriti di guerra e 7.500 interventi chirurgici; 37 camion di aiuti al giorno (erano 500 prima della guerra); e solo l’1,6% dei pazienti che hanno bisogno di essere evacuati hanno lasciato Gaza. Molto spesso avvengono scontri tra le parti in guerra “vicino alle strutture mediche”, mettendo in pericolo “i pazienti, i loro familiari e il personale medico”. Hamas e gli altri gruppi armati, dunque, non di rado hanno tentato di usare come scudo le strutture sanitarie. La risposta israeliana, con attacchi aerei mirati e bombardamenti deliberati, hanno costretto il personale di Msf e i pazienti a evacuare in 17 diverse occasioni, “spesso letteralmente correndo per mettersi in salvo”. Meno della metà dei 36 ospedali di Gaza sono funzionanti, anche se solo parzialmente, e il sistema sanitario è al collasso. “Da ottobre 2023 a ottobre 2024, solamente lo staff di Msf ha subito 41 attacchi e incidenti violenti, tra cui attacchi aerei, bombardamenti e incursioni violente nelle strutture sanitarie, fuoco diretto sui rifugi e sui convogli dell’organizzazione, detenzione arbitraria di colleghi da parte delle forze israeliane”. Perciò “Msf chiede a tutte le parti - ancora una volta, con urgenza - un cessate il fuoco immediato per salvare vite umane e agevolare il flusso degli aiuti umanitari”. Dalla chiusura del valico di Rafah, sul confine con l’Egitto, a maggio 2024 fino a settembre 2024, “le autorità israeliane hanno autorizzato l’evacuazione di soli 229 pazienti, pari all’1,6% di coloro che ne avevano bisogno in quel momento: una goccia in un mare di bisogni”. Israele ha sempre respinto le accuse sostenendo di intervenire esclusivamente dove si annidano i miliziani armati o per rispondere al fuoco. Sia i capi di Hamas che i vertici israeliani sono destinatari dei mandati di cattura emessi dalla Corte penale internazionale. Secondo il ministero della salute di Gaza, controllato da Hamas, la guerra nella Striscia ha ucciso più di 45.000 persone, tra cui 8 membri dello staff di MSF. “Il numero di morti - osserva Msf - è probabilmente molto più alto a causa dell’impatto del collasso del sistema sanitario, delle epidemie e dell’accesso fortemente limitato a cibo, acqua e rifugi”. All’inizio di quest’anno le Nazioni Unite hanno stimato che più di 10.000 corpi sarebbero rimasti sepolti sotto le macerie. Mentre 1,9 milioni di persone, il 90% dell’intera popolazione della Striscia, “sono state sfollate con la forza, e molte - ricorda Msf - sono state costrette a spostarsi più volte”. Dello stesso tenore le accuse pubblicate da Human Right Watch (Hrw). In un dossier di 174 pagine, corredato anche da analisi di immagini satellitari oltre che da testimonianze dirette, gli esperti dell’organizzazione sostengono che le autorità israeliane “hanno intenzionalmente privato i civili palestinesi di Gaza di un adeguato accesso all’acqua dall’ottobre 2023, con grande probabilità causando migliaia di morti e commettendo così il crimine contro l’umanità di sterminio e atti di genocidio”. Hrw ha anche analizzato immagini satellitari, fotografie e video circolati tra l’inizio delle ostilità nell’ottobre 2023 e settembre 2024. “A fronte di quanto rilevato - afferma Hrw nel rapporto - i governi e le organizzazioni internazionali dovrebbero adottare tutte le misure per prevenire il genocidio a Gaza, tra cui l’interruzione dell’assistenza militare, la revisione degli accordi bilaterali e delle relazioni diplomatiche e il sostegno alla Corte penale internazionale”.