Caro ministro Nordio, e le carceri? E i detenuti? di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 18 dicembre 2024 Peccato che Giovanni Floris, nella sua intervista a “Di Martedì”, non le abbia chiesto nulla in relazione alla situazione nelle carceri. Lei, però, poteva approfittare dell’occasione per parlarne ugualmente, viste le condizioni in cui si trovano i carcerati e il numero crescente di suicidi dall’inizio dell’anno. Ho ascoltato con tutta la possibile attenzione la sua intervista a Giovanni Floris a “Di Martedì”. Non dico che si debba condividere quello che ha fatto e cerca di fare, ma ha risposto a tutte le domande di Floris, senza eluderne nessuna, con la dovuta chiarezza. Una sola domanda non le è stata rivolta, in relazione alla situazione delle carceri e dei detenuti. Se Floris non l’ha fatta avrà avuto le sue ragioni. Lei però poteva approfittare dell’occasione per parlarne ugualmente. Vede, caro ministro: l’altro giorno Papa Francesco ha tagliato le 88 primavere. Al pontefice venuto da quasi la fine del mondo tutti, a cominciare dalle più alte cariche dello Stato, hanno fatto pervenire messaggi di felicitazioni e riconoscimenti: credenti e non credenti riconoscono importanza e validità del suo magistero. Papa Francesco anche l’altro giorno ha ribadito quanto aveva già affermato settimane fa: il prossimo 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, aprirà una simbolica Porta Santa al carcere romano di Rebibbia. Sempre Francesco rivolge un appello ai governanti per forme di “amnistia” e per rendere effettive possibilità di reinserimento in attività di impegno sociale” dei detenuti. Per quello che riguarda carcere e detenuti, dal Vaticano giunge ancora una volta il giusto e necessario segnale. Ancora una volta viene suggerito cosa fare, come fare, quando fare. Segnale e suggerimento che sarebbe augurabile, auspicabile, che venissero raccolti dalla classe politica: quella che governa, quella che è all’opposizione. È urgente, necessario intervenire: anche perché, pervicacemente ignorata, la strage nelle carceri prosegue. L’ultimo suicidio nel carcere di Alessandria, un detenuto italiano, 50 anni, si è impiccato. Sale così a 87 la tragica conta dei detenuti definitivamente “evasi” dalle carceri dall’inizio dell’anno. Sono i suicidi ufficiali, perché non sappiamo quanti siano da attribuire a suicidio i morti “per cause da accertare”. A questi vanno aggiunti i 7 suicidi fra gli agenti della polizia penitenziaria. Sempre ad Alessandria un altro recluso ha tentato di darsi fuoco e non è riuscito nell’intento solo grazie all’intervento della Polizia penitenziaria. A livello nazionale sono ormai 16mila i ristretti oltre la capienza disponibile e ben più di 18mila gli agenti mancanti. Numeri da capogiro che dovrebbero scuotere le coscienze della politica e della maggioranza di governo. Peccato, dunque, che Floris non le abbia chiesto nulla in proposito, che lei non abbia trovato il modo di dire qualcosa. Un’ultima cosa: le hanno ricordato che la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri è stata teorizzata da Licio Gelli. Giustamente lei ha replicato che una causa buona non diventa cattiva se capita che riscuota il plauso e l’approvazione di persone più che discutibili: “Se Gelli dice che Cristo è morto in croce, non perché lo dice lui la cosa non è vera”. Le vorrei suggerire un “piccolo” emendamento: per la separazione delle carriere, ma anche per la non obbligatorietà dell’azione penale e la responsabilità del magistrato in caso di colpa grave era favorevole anche Giovanni Falcone. Fatico a crederlo complice e sodale di Gelli. E se Falcone era favorevole, Gelli o non Gelli, trovo più convincenti le sue posizioni, rispetto a quelle di un’Associazione Nazionale Magistrati che si oppone all’istituzione della Giornata dedicata alle vittime della cattiva amministrazione della Giustizia. Non si ferma l’ondata dei suicidi in carcere di Luigi Mollo L’Opinione, 18 dicembre 2024 Sgomento, nessun’altra parola può essere utilizzata in merito all’ennesimo suicidio di un detenuto. Dal primo gennaio 2024, 86 detenuti si sono tolti la vita. L’ondata di suicidi sembra ormai impossibile da arginare nonostante le varie iniziative proclamate dall’Unione Camere Penali Italiane, Antigone e Radicali Italiani e le lotte del Garante nazionale per le persone private della libertà personale assieme ai Garanti regionali, senza contare il lavoro delle numerose Cooperative sociali presenti sul territorio che ogni giorno costruiscono speranza tra le macerie. I detenuti “dovrebbero scontare la pena e le misure cautelari in un contesto di legittimità e sicurezza - ha dichiarato Fabio Pagani, segretario della Uil-Pa Polizia Penitenziaria - che nella realtà pare molto prossimo all’utopia”. Ma la situazione dentro gli istituti penitenziari, nel frattempo ristagna, non ci sono più grandi aspettative e si fatica a smuovere una condizione che risente pesantemente del clima che si è creato nella società: un clima fatto di una continua e insensata invocazione a punire qualsiasi reato con la carcerazione, e quindi, in prospettiva, a riempire ancora di più le stesse. Le cause principali sono sempre le medesime da anni, troppi oramai: carenza dell’organico delle guardie penitenziarie, carenza di educatori, assistenti sociali, mediatori culturali, e volontari oltre le scarsissime opportunità di studio, formazione e lavoro, senza valicare la linea triste e sottile della sanità penitenziaria. Un altro anno è passato e il sistema carcerario vacilla sull’orlo del baratro passando silenzioso tra la nebbia fitta che avvolge la società civile che non si rende conto che a finire in carcere non sono più i criminali di mestiere, ma ci si trova di fronte a una detenzione sociale, con tanto disagio mentale, tanta povertà. Un periodo così drammatico, per numeri ma soprattutto per desolazione e assenza di speranza, gli “addetti ai lavori” non lo avevano mai. Per la prevenzione dei suicidi dei detenuti una cosa sarebbe facilissima e a costo zero, ma che resta nella discrezionalità dei direttori: fateli telefonare a casa, ampliate l’inclusione sociale e utilizzate le differenti pene alternative. Purtroppo, la carcerazione è diventata una condanna a morte e ciò va contro ogni conquista sociale, rendendo inefficace la funzione della pena che consiste nella rieducazione e prevenzione. Gli istituti penitenziari italiani oggi dovrebbero rappresentare una possibile alternativa e non un luogo dove si sceglie di porre fine alla propria vita. Il suicidio rappresenta il gesto più estremo di ciò che il carcere è nel suo complesso ponendosi al vertice di una serie di comportamenti che manifestano il disagio, il rifiuto dello stato detentivo, nei termini di una paradossale ricerca di libertà fino alla forma estrema dell’auto-annullamento. “Mancano educatori nelle Comunità”. Così i minori restano in cella di Ilaria Beretta Avvenire, 18 dicembre 2024 Gli istituti penali per minorenni per la prima volta sovraffollati. Tra le cause la crisi delle case-alloggio dove si sconta la pena alternativa. Tartaglione (Cnca): “Siamo pochi e lasciati soli”. L’anno sta per chiudersi con l’ennesimo record negativo per il sistema penitenziario italiano. Il sovraffollamento delle strutture, che sembrava triste realtà confinata alle strutture per gli adulti, è - per la prima volta in un decennio - condiviso con i 17 istituti penali per minorenni (Ipm) sparsi lungo la Penisola. Mentre la criminalità minorile resta pressoché invariata nel corso degli anni, dal 2023 al 2024 il numero dei giovani detenuti è aumentato del 49% e con lei la capienza media degli Ipm che a inizio dicembre si attestava al 111% con 576 minori reclusi a fronte dei 516 posti disponibili. Tra le cause che gli addetti ai lavori additano come scatenanti del nuovo fenomeno c’è la crisi delle comunità educative, a cui i ragazzi sottoposti a provvedimenti penali possono essere affidati in alternativa al carcere o a seguito di una reclusione. Il codice di procedura penale minorile, entrato in vigore nel 1988, indicava proprio la comunità come il luogo privilegiato per scontare la pena e il carcere - in quella norma - veniva menzionato solo come l’ultima spiaggia, una struttura da opzionare solo per insopprimibili esigenze sociali. Oggi come ieri, dunque, le comunità sono richieste per collocare gli adolescenti. “Era una misura illuminata - commenta Paolo Tartaglione, referente del settore penale minorile per il Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca) - che, tra le altre cose, specificava che le case dovessero essere miste e non ospitare soltanto giovani autori di reato, in modo da non replicare la formula del piccolo carcere. Purtroppo, però, questo pilastro sta crollando”. Le comunità in capo diretto al ministero della Giustizia sono passate dalle 22 del 1988 alle appena tre di oggi: si trovano a Bologna, Catanzaro e Reggio Calabria e sono gestite da dipendenti pubblici solo fino alle 16, quando subentrano operatori di enti del terzo settore convenzionato. I privati accreditati gestiscono anche il resto delle comunità educative (sono circa 600 in Italia, più o meno attive) che, però, oggi soffrono per mancanza di personale e risorse economiche. “Dopo il Covid - rileva Tartaglione - le professioni di cura hanno perso attrattività. Gli educatori hanno avuto un crollo di popolarità nettissimo: le scuole si sono trovate senza insegnanti e hanno imbarcato gli educatori. Le comunità hanno subito un esodo e molte hanno chiuso. Anche la cooperativa per cui lavoro ha dovuto sacrificare una delle quattro che gestiva”. Tra le prime a serrare i battenti sono state proprio le strutture che accoglievano i giovani autori di reato, il tipo di utenza più complessa e respingente. Per tenere aperta una casa del genere, che ospita al massimo dieci ragazzi (anche se il numero può arrivare a 12 in base alle singole disposizioni regionali), servono almeno sei educatori e un responsabile. Troppi, per i tempi che corrono. Ma la mancanza di manodopera non è l’unica ragione che ha messo in crisi le comunità educative creando il tappo che oggi ha spinto il sistema penale minorile sull’orlo dell’esplosione. Spiega Tartaglione: “Anche se le comunità hanno livelli di tolleranza altissimi, quando un ragazzo commette azioni pericolose per sé o per gli altri in modo reiterato o grave, le strutture hanno bisogno di poterlo dimettere per evitare che il resto degli adolescenti ne risentano. Oggi però lo Stato - che manca di collocamenti alternativi - non riprende in carico il minore problematico, o lo fa troppo lentamente, e questo disincentiva le comunità educative che, essendo meno rispetto al passato e avendo la coda di minori in difficoltà, rifiutano la proposta di collocamento del ministero per gli adolescenti autori di reato”. Per trovare una soluzione bisognerebbe ripensare tutto - dicono gli addetti ai lavori - con tutti gli attori coinvolti: i servizi del ministero, il tribunale dei minorenni e le comunità. Dalla Lombardia, però, che ospita circa un sesto delle comunità educative italiane - è la denuncia Tartaglione - la situazione sembra ben lontana da questa direzione. “In estate la Regione ha reso pubblica una manifestazione d’interesse, recentemente assegnata, per aprire tre comunità che noi definiamo “mostro”. Sono pensate per accogliere ciascuna 12 minori, tutti autori di reati penali e con problemi di salute mentale. Si tratta di un grosso passo indietro culturale che, se non tradisce la legge del 1988, che negli anni è stata attenuta, ne profana lo spirito. Il rischio è creare un ghetto dove i soggetti difficili verranno gestiti con controllo farmacologico più che con criteri educativi. Inoltre comunità simili - per le quali è stata prevista una retta giornaliera di 320 euro, un budget simile a quello stanziato per le strutture psichiatriche ma più che doppio rispetto ai 93 euro previsti per una comunità educativa - fanno gola a tanti e rischiano di attirare enti con poca o nulla esperienza nel settore, delicatissimo, degli adolescenti autori di reato”. Buon Natale in carcere di Maurizio Crippa Il Foglio, 18 dicembre 2024 Meglio portarsi avanti con gli auguri di Natale, anche se non servono in nessun modo ad alleviare i bilanci di fine anno, più tragici che mai in passato in questo 2024 nemmeno finito. Parliamo delle carceri, il buco nero dello stato, o “nazione” che dir si voglia. L’augurio, uno scampolo di luce, è che il Papa non si è dimenticato delle persone recluse, e dopo l’arte alla Giudecca, carcere femminile di Venezia, per la Biennale ora invierà quattro grandi artisti a Rebibbia per il Giubileo. Intanto al carcere minorile Beccaria di Milano, piccolo inferno dei piccoli, Roberto Bolle con la sua Fondazione ha portato uno spettacolo di danza, giovani talenti di break dance e di danza classica, perché musica e un corpo che si esprime sono gli unici linguaggi capaci di transitare, oltre quei muri. Il bilancio del 2024 di un governo animato solo da istinti vendicativi è invece il peggiore di sempre. L’altro giorno è morto suicida un detenuto nel carcere di Alessandria. Per le statistiche è il numero 87 dell’anno, ma per Riccardo Arena di Radio carcere è l’88esimo omicidio di stato, perché c’è anche “un ragazzo ristretto nel Cpr di Ponte Galeria” da ricordare. Arte in carcere, sfida della speranza di Marco Belli gnewsonline.it, 18 dicembre 2024 Presentazione del progetto “L’arte contemporanea in carcere: la sfida della speranza”. “In diverse carceri in Italia e nel mondo saranno aperte simbolicamente alcune Porte della Speranza, installazioni affidate ad artisti di fama internazionale che in collaborazione con le comunità dei detenuti realizzeranno queste opere da collocare fuori delle mura penitenziarie, visibili in questo modo alla città. L’obiettivo del progetto è incoraggiare e sostenere le esperienze dei detenuti a vivere in modo riabilitativo la permanenza in carcere preparandosi al rientro nella società. Ma altrettanto ha un secondo scopo: la conversione dello sguardo spirituale e culturale del cuore e del pensiero della società riguardo all’istituzione carceraria, da considerare sempre di più come luogo di riabilitazione e non soltanto di punizione”. Così il cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede, nel suo intervento di apertura della conferenza stampa di presentazione del progetto “L’arte contemporanea in carcere: la sfida della speranza”. “Il problema del carcere non appartiene solo agli Stati” ha sottolineato il Cardinale, “tutta la comunità umana e civile è chiamata a farlo suo, è chiamata a intercettare questa realtà di solito solo immaginata e a interessarsi di più. Con questo progetto si vuole riportare il tema delle carceri e dei detenuti al centro della città e del dibattito. E qui l’esperienza artistica può svolgere un ruolo decisivo, perché l’arte sa di essere ponte e di collegare con rinnovata e creativa intensità i cammini interrotti dell’esistenza”. Concludendo il suo intervento, de Mendonça ha voluto rivolgere un ringraziamento al “ministero della Giustizia italiano, in particolare al dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nella persona del presidente Giovanni Russo, che dopo la collaborazione a Venezia nell’ambito della Biennale ha fortemente voluto questa collaborazione: continuare nuovi progetti condivisi con la Santa Sede a beneficio di questa realtà che sono le carceri, che tutti noi siamo chiamati come Chiesa e come società ad abbracciare, con sempre più consapevolezza e umanità”. “Come Amministrazione Penitenziaria abbiamo cercato di costruire un percorso di speranza”, ha detto subito dopo il Capo del Dap Giovanni Russo, “che non è soltanto un conforto spirituale, etico o di tipo religioso. E l’imponenza dell’idea progettuale della Santa Sede trascende questo compito spirituale”. “Portando l’arte all’interno delle istituzioni carcerarie, come abbiamo fatto alla Giudecca - dove le detenute in un primo momento hanno collaborato all’allestimento dei luoghi deputati ad accogliere le opere e poi, attraverso l’incontro con gli artisti, hanno addirittura forgiato la sensibilità degli artisti - abbiamo realizzato un’opera straordinaria nel senso costituzionale dell’art. 27”. Con il progetto dell’artista Senatore” ha concluso Russo “si realizza un’attività artistica partecipata, in cui si chiama la popolazione detenuta ancora una volta non a essere soggetto passivo di un intervento culturale, ma soggetto attivo, nel quale c’è un processo potentissimo di valorizzazione dell’individualità di ogni detenuto che è chiamato a scrivere, a tracciare il proprio messaggio e la propria idea”. Alla conferenza stampa sono intervenuti Marinella Senatore, l’artista che nell’istituto di Rebibbia realizzerà il progetto artistico che sarà svelato il prossimo 26 dicembre, giorno in cui Papa Francesco aprirà la Porta Santa nel carcere romano; Cristiana Perrella, curatrice dello spazio “Conciliazione 5” per l’Anno Santo 2025, e Davide Rampello, curatore del progetto internazionale “Porte della Speranza”. Il caso Tortora tra malagiustizia e sacralità dei tribunali di Aldo Grasso Corriere della Sera, 18 dicembre 2024 Lo Stato ha già speso in risarcimenti più di 740 milioni di euro e il conto prosegue al ritmo di 81.000 euro al giorno. A “Quarta repubblica” di Nicola Porro (Rete4) c’è stato un interessante dibattito fra Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm e Gaia Tortora. Il motivo del contendere era l’istituzione di una “Giornata delle vittime degli errori giudiziari”. Com’è noto, il 17 giugno 1983 Enzo Tortora fu ammanettato e condotto in carcere davanti alle telecamere per poi risultare del tutto innocente. Da allora, per eco mediale, è simbolo delle vittime degli errori giudiziari. Secondo Santalucia una simile giornata avrebbe l’effetto di “ledere il prestigio della magistratura”. Forse perché Santalucia non è abituato ai dibatti televisivi ma la sua difesa è stata molto fragile e Gaia Tortora lo ha messo più volte alle strette con argomenti convincenti. Santalucia continuava a citare gli “errori terapeutici” (gli sbagli dei medici) dimenticando di aggiungere che i medici quando sbagliano pagano. Il dramma è che troppi innocenti finiscono in carcere: in media 1.000 ogni anno, quasi tre al giorno, oltre 26.000 negli ultimi venticinque anni. Lo Stato ha già speso in risarcimenti più di 740 milioni di euro e il conto prosegue al ritmo di 81.000 euro al giorno. Beniamino Zuncheddu ha trascorso 33 anni in carcere da innocente. Per fortuna ha trovato l’attenzione e la sensibilità della procuratrice Francesca Nanni che gli consentono ora di vivere qualche anno ancora in libertà. Ma il giudice che gli ha “rubato” 33 anni ha pagato qualcosa? Mentre scrivevo una biografia di Enzo Tortora per la Treccani sono rimasto sconvolto da un fatto in apparenza marginale: uno dei magistrati che sostenne l’accusa nei confronti di Tortora è stato poi eletto al Csm, l’organo di autogoverno. Com’è possibile una cosa del genere? Santalucia sostiene che i tre gradi di giudizio servono apposta per evitare gli errori. Ma quando gli errori si compiono per imperizia, impreparazione, superficialità ci dev’essere sempre lo scudo dello Stato a proteggere gli incapaci? In questa rubrica ho sempre difeso la “sacralità” dei tribunali contro le gogne mediali e i processi paralleli in tv ma la “malagiustizia” esiste ed importante porvi rimedio, anche in senso simbolico. Anche l’ingiusta detenzione ha il suo “sommerso”: è il triplo del dato ufficiale di Stefano Zurlo Il Giornale, 18 dicembre 2024 I numeri non sono quelli che conoscevano. I numeri sono imponenti, molto più alti di quelli che sono stati pubblicati sui giornali e raccontati in tv in questi anni. Le persone ingiustamente detenute nel nostro Paese sono il triplo, forse di più, di quel che le cifre correnti dicono. Mille detenuti l’anno, circa trentamila in trent’anni: questa la contabilità stimata dei “casi Tortora” nel nostro Paese. E invece no: le vittime delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari sono almeno tremila l’anno, novantamila, ma probabilmente centomila e più ancora, nell’arco dell’ultimo trentennio. Si, più di centomila, anche se malauguratamente non esistono statistiche precise. Esiste comunque un esercito di innocenti che sono finiti in cella (o ai domiciliari) e poi sono stati assolti o addirittura prosciolti senza nemmeno passare per un processo. Il punto, scoperchiato oggi dal Giornale, e che finora veniva contate solo le persone che avevano fatto richiesta di un risarcimento e l’avevano ottenuto. Poi, però, ci sono gli altri, che l’indennizzo l’hanno chiesto ma se lo sono visto negare. Tanti. Tantissimi. Molti di più dei “rimborsati”. Pure loro sono finiti dietro le sbarre, ma alla fine lo Stato ha fatto dietrofront senza nemmeno versare loro un centesimo. Magari perché nel corso dell’interrogatorio si erano avvalsi della facoltà di non rispondere, insomma secondo i rigidissimi criteri adottati dalla magistratura non avevano collaborato per chiarire la loro posizione. Dunque, non hanno colpa ma lo Stato per loro non ha staccato un assegno, nemmeno simbolico. E per questo sono sempre sfuggiti all’aritmetica delle ingiuste detenzioni. Quanti ex carcerati sono in questo girone mai raggiunto dai radar della pubblica opinione? Disponiamo di due documenti che si possono incrociare e che in sostanza danno gli stessi risultati. Anzitutto, una relazione di Antonio Nova, titolato magistrato, per la Scuola superiore della magistratura. Nova scrive che nel distretto di corte d’appello di Milano è stato accolto, nell’arco di un quinquennio prima della pandemia, il 30% delle domande di indennizzo, respinto invece il 70%. Una percentuale elevatissima. Ma sono ancora più impressionanti i dati contenuti nella risposta a un’interrogazione di Enrico Costa (foto), combattivo parlamentare di Forza Italia, del giugno 2020, ai tempi del governo Conte due, quando ministro della giustizia era Alfonso Bonafede. In quel testo, all’epoca passato inosservato, la versione ufficiale è che il 77% delle domande non viene accolto. Siamo, quasi, a quattro no contro un sì. E questo ovviamente per tutta Italia. Non bisogna essere degli esperti di matematica per capire che la narrazione, come si dice oggi, delle ingiuste detenzioni deve essere riscritta dall’inizio. E che il fenomeno è assai più preoccupante e inquietante di quanto denunciato fino a oggi. Se il 70-77 % delle istanze non trova accoglimento, questo vuol dire che solo un terzo degli ex carcerati viene ristorato, i due terzi no. Dunque, quelli risucchiati in questo vortice sono almeno il triplo: novantamila, forse centomila, dal ‘94 a oggi. Anche questa, però, è una stima prudenziale. Parziale. Incompleta. Per un’altra ragione: molti, usciti in un modo o nell’altro con l’onore restituito nelle aule di un tribunale, non ne vogliono più sapere e non chiedono più nulla. Semplicemente, non presentano alcuna domanda di indennizzo. Dunque, il totale dei colpevoli che si sono scoperti innocenti dovrebbe avere un ulteriore, robusto incremento. I numeri sono ballerini ma di gran lunga superiori a quelli comunemente riportati. E in realtà la cifra di centomila negli ultimi trent’anni può risultare bassa e modesta, se si considerano appunto pure quelli cui è stato risposto no all’indennizzo e gli altri che, logorati dalle vicende subite, sono usciti in silenzio dal campo. La giornata della memoria, che si vuole istituire il 17 giugno, avrà dunque un significato ancora più profondo. “Ritiro le mie accuse”. Noi pm dobbiamo essere aperti al dubbio di Fabio Regolo Il Dubbio, 18 dicembre 2024 La lettera del sostituto procuratore di Catania Fabio Regolo ai legali degli indagati (archiviati) dell’inchiesta che aveva coinvolto medici. Gentili tutti, spero, anche questa volta, di non aver dimenticato nessuno tra tutti i difensori interessati alla vicenda. Nel caso vi prego di girare la mail ai vostri colleghi pretermessi. Ho ritenuto doveroso comunicarvi di persona che ho appena depositato la richiesta di archiviazione. Il Giudice dirà se la scelta effettuata è giusta o è sbagliata, se è completa o parziale. I vostri assistiti forse saranno gli unici a conoscere la verità vera, noi dobbiamo attenerci alla verità che emerge dagli elementi di fatto acquisiti. Quello che posso dire è che l’ho redatta dopo aver letto con la dovuta attenzione (sentendo, come in tutti gli altri casi che in 17 anni di lavoro mi sono capitati tra le mani, il peso della decisione che non è solo una questione di correttezza giuridica, di tecnicalità, ma che impatta sulla pelle viva delle persone che a vario titolo sono coinvolte in quei mucchi di carte che comunemente definiamo fascicoli) la mole di atti prodotti praticamente da ciascuno di voi, dopo aver letto e riletto le varie annotazioni di pg che rendicontano gli esiti degli approfondimenti investigativi delegati dallo scrivente, dopo aver riflettuto in modo laico, senza ragionare in termini di “vittoria” o “sconfitta”, sugli elementi di fatto presenti nel fascicolo (e solo su quelli) avendo in mente la cultura della prova, cercando, anche in una vicenda delicata, di non dimenticare mai l’imperativo morale che facendo leva sull’art. 358 c.p.p. ci esorta ad essere pm che ragionano come un Giudice, pm aperti al dubbio sull’innocenza dell’indagato, che valuta le prove con lo stesso atteggiamento di terzietà del Giudice e che quindi cerca la verità con prudenza del giudizio insieme a tutti gli altri protagonisti del processo e prima ancora del procedimento. Alla fine di un duro lavoro (svolto in contemporanea con tanti altri, perché magari fossimo messi in condizione di dedicarci solo ad un fascicolo alla volta) che ha visto come sapete confronti con gli indagati nel corso degli interrogatori, confronti con voi difensori, confronti con le letture offerte dalla polizia giudiziaria, con gli elementi presenti nel momento cautelare e con quelli successivamente emersi, mi sia consentito condividere con voi come anche questa vicenda, ancora una volta, mi conferma quanto sia fondamentale operare con l’ottica di preservare (in concreto e non tanto nei convegni) una comune cultura della giurisdizione tra Giudici, pubblici ministeri ed avvocati, che non è un inutile orpello o un principio fatto di vuoto, ma a mio modesto avviso (rappresento a mala pena me stesso, sia chiaro, quindi parlo per come la vivo io da piccolo operatore di provincia) è la vera garanzia per coloro che alla fine sono i veri fruitori del Servizio Giustizia ossia i cittadini che si trovino ad essere indagati, imputati o persone offese. Ho pertanto redatto una richiesta, articolata, di archiviazione dando conto - o almeno spero di averlo fatto e comunque mettendoci massimo impegno nei limiti delle proprie capacità - dei motivi in fatto ed in diritto sottesi alla decisione assunta. La segreteria sta collazionando gli atti perché alla fine il fascicolo vede 5/6 faldoni da ordinare (anche se avendo un solo segretario e mezzo pg a disposizione credo che l’ordine degli atti non sarà certosino come piace a me, ma preferisco consentirvi di avere il vostro Giudice come interlocutore prima possibile) e nel giro di un paio giorni partirà tutto per l’ufficio del Gip. Non so se riusciranno anche a caricare tutto al Tiap o se vi chiederemo la cortesia di consultare gli atti direttamente in cartaceo, tanto credo che ad eccezione dell’ultima annotazione abbiate già tutto in quanto alcuni atti erano presenti al momento della discovery e altri sono stati prodotti da voi. Pazientate qualche giorno e poi se ci sono problemi di consultazione fatemelo sapere. Credevo al momento corretto, una volta condivisa dal procuratore e depositata formalmente, avvisarvi quanto prima visto che molti di voi erano passati in segreteria a chiedere aggiornamenti e visto che credo che per le persone giuridiche vi fossero anche necessità di salvaguardia della continuità aziendale. Quando ci incontreremo nuovamente in questi corridoi o in altre tappe di questa storia chiamata vita mi direte, se riterrete, cosa ne pensate dell’impostazione. Mi scuso per la lunghezza del messaggio che spero non sia giudicato un fuor d’opera. È solo un voler rendere conto di quello che si fa e di quello che non si fa - aspetto che resta per me fondamentale del nostro agire vissuto come servizio - ed un modo per conservare un minimo di rapporto umano sia pure nel rispetto sacrosanto dei distinti ruoli da ciascuno di noi ricoperti. *Sostituto procuratore di Catania Con l’ingresso della vittima in Costituzione assalto finale alla difesa e al processo accusatorio di Lorenzo Zilletti* Il Dubbio, 18 dicembre 2024 È una tempesta perfetta. Non servono speciali attitudini in meteorologia, per intuire che, di qui a poco, gli ultimi rimasugli di accusatorio che ancora sopravvivono nel nostro ordinamento saranno definitivamente spazzati via. Da sempre mal sopportati, grazie a un pensiero dominante che mai ha inteso metabolizzare la presunzione d’innocenza, i diritti dell’imputato ne usciranno sconciati; come resti di edifici, dopo il passaggio degli uragani più devastanti, nei macabri inventari delle videoriprese. I segni? Soltanto coriacei negazionisti del mutamento climatico potrebbero minimizzarli. Proviamo ad elencarne i più emblematici, cominciando dall’ostinato accanimento sul testo della Costituzione. Pur di vedervi inciso a lettere di fuoco il nomen del nuovo mattatore - la vittima - della scena penale, l’ammucchiata neocostituente (unico astenuto in commissione Giustizia del Senato, Ivan Scalfarotto di Italia viva), archivia l’assalto all’art. 111 ma manomette l’art. 24. Solo i più ingenui, tra quegli empatici senatori, ignorano che la Repubblica già protegge i soggetti passivi di reato: nello specifico giudiziario, col comma 1 di quella disposizione (accesso al giudice per la tutela dei propri diritti), e in modo più ampio attraverso - nientemeno che - gli artt. 2 e 3. La posta in gioco è diversa e più ambiziosa: offrire agli acrobati del bilanciamento un grimaldello per scalzare l’inviolabilità del diritto di difesa, proprio nella sede su cui poggia i cardini. Se, come prevedibile, l’ecumenismo vittimofilo trionferà anche in Aula, la formuletta incarnerà l’Apriti Sesamo con cui neutralizzare qualsiasi garanzia dell’imputato: d’altra parte, diranno i fantasisti dell’ermeneutica, se c’è una vittima dev’esserci per forza anche un reo. Altro segno: le magnifiche sorti e progressive dei processi del terzo binario aggiungono un’ulteriore perla al già sontuoso collier antiaccusatorio. Il riferimento è alla recentissima S. U., 12 dicembre 2024, dalla cui informazione provvisoria si apprende essere abnorme (e perciò viziato) il rigetto della richiesta di assunzione, in incidente probatorio, della testimonianza dell’offeso di uno dei reati elencati nell’art. 392, comma 1 bis, primo periodo c. p. p.: è, dunque, interdetto al Gip motivare il diniego per la non vulnerabilità della persona offesa e rinviabilità della prova. Sull’altare della vittima, si consuma un’altra tappa del lungo addio ai principi di concentrazione e immediatezza. E, salvo auspicabili ma improbabili sorprese negli argomenti della decisione, si chiude anche l’ultimo spiraglio - la valutazione in concreto del Gip- per la difesa di svolgere un contraddittorio pieno davanti al giudice della decisione. Accanto al clima, non va sottovalutato l’effetto del microclima. Quello che fa proliferare, in certi territori, il genere postmoderno della softlaw, le cui regole vengono scritte all’interno degli uffici di Procura e dunque, in termini di avanguardia delle fonti, fanno impallidire anche il più ardito formante giurisprudenziale. Ne ha discettato su queste pagine, pochi giorni orsono, Oliviero Mazza prendendo spunto dalle osservazioni critiche della Camera penale di Tivoli verso l’ultima nata - la dodicesima in meno di un lustro - delle linee guida in materia di contrasto alla violenza di genere. Soffermiamoci su (salvo errori) l’undicesima, citandone testualmente un passaggio: “Non di rado aleggia (anche) nel procedimento civile il tema della cosiddetta strumentalità delle querele/ denunce delle donne (il riferimento è solo alle donne), inteso come presentazione di denunce e querele solo poco prima o poco dopo l’inizio del procedimento civile al fine (evidentemente) di ottenere vantaggi. Queste affermazioni non risulta siano accompagnate da dati”. Ai lettori del Dubbio non sfuggirà l’inossidabile certezza che aleggia dalle parti di Villa Adriana… A suscitare l’inquietudine maggiore, però, è un fenomeno tutto interno all’avvocatura (ma ha senso parlarne ancora al singolare?) e che tradisce la crisi profonda di valori in cui si dibatte da tempo. L’allusione è, nello specifico, allo snaturamento del ruolo della parte civile nel processo penale, favorito certo anche da una giurisprudenza (fino a ieri) lassista, incline ad ammettere come pretesi danneggiati soggetti portatori degli interessi più diversi; talvolta eticamente lodevoli, talaltra animati soltanto dal protagonismo della tribuna. E assecondato da normative che erodono il monopolio pubblico della pretesa punitiva, concedendo spazi a pulsioni dal retrogusto vendicativo. Un mutamento genetico, che oblitera l’essenza risarcitoria della domanda di giustizia che compete alla parte - per l’appunto - civile e troppo spesso la trasforma in un calco malriuscito del pubblico ministero. Il dovere di patrocinio della persona danneggiata, il fedele adempimento di quell’incarico, non dovrebbero tralignare dal rispetto delle garanzie che l’ordinamento appresta, in generale, alla funzione difensiva. Sintomo più eclatante di una degenerazione poco contrastata anche dall’avvocatura, la naturalezza con cui troppi colleghi di parte civile intrattengono giudici inerti (o peggio, solidali) sulla sanzione da infliggere all’imputato. È tardi, ormai, per non vivere l’esperienza di una collega novarese che, difendendo un imputato di violenza sessuale, ne ha udito chiedere dall’avvocata di parte civile la condanna “alla pena peggiore possibile”. *Avvocato Umbria. Carceri, una bomba a orologeria fra tentati suicidi e aggressioni ai poliziotti ternitoday.it, 18 dicembre 2024 Tentati suicidi, aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, danneggiamenti, incremento della recidiva. Sono le “micce” che rischiano di far esplodere in maniera ancora più violenta la bomba ad orologeria rappresentata dalla situazione nelle carceri dell’Umbria e - in particolare - nella Casa circondariale di vocabolo Sabbione a Terni che presenta le criticità più evidenti. La situazione di allarme è stata affrontata anche nelle scorse ore nell’ambito di un confronto organizzato dal procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, al quale hanno preso parte i procuratori del distretto, i direttori dei quattro istituti penitenziari regionali, i comandanti della polizia penitenziaria, oltre ai vertici dell’ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Perugia. Dall’analisi dei dati delle quattro carceri umbre emerge che è pressoché invariato il numero totale dei reclusi che si attesta a 1.605 (1.537 uomini e 68 donne) in rapporto a una capienza regolamentare di 1.339. Ridotta ulteriormente dal fatto che presso la struttura penitenziaria di Perugia i posti letto disponibili sono 308, in quanto il reparto servizio di assistenza intensificato che assicura assistenza sanitaria ai detenuti, non è stato mai attivato. Sempre a livello regionale, su 1.605 detenuti complessivi, la popolazione straniera è pari al 32%; il 16% sono i reclusi con posizione giuridica non definitiva, 84% quelli con posizione giuridica definitiva. In leggero aumento, rispetto all’analisi dei dati del settembre scorso, il numero dei ristretti con problemi di tossicodipendenza, 36% a fronte del 28%; e quelli con patologie psichiatriche: 16% a fronte del 14%. Al primo dicembre i casi di autolesionismo sono stati 267, 53 i tentati suicidi (43 fino al settembre scorso) e un caso di suicidio avvenuto nel carcere di Terni. Aumentate anche le aggressioni al personale di polizia penitenziaria, 71, e quelle verso altri operatori penitenziari, 4, mentre nella precedente analisi erano rispettivamente 41 e 1. Ancora carente il personale di polizia penitenziaria con 673 unità impiegate rispetto alle 852 previste. Come detto, uno dei quadri più preoccupanti è relativo alla casa circondariale di Terni che attualmente ospita 568 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 422. Nel carcere ternano, dove possono essere assegnati sia detenuti comuni che di alta sicurezza e sottoposti al regime di cui all’articolo 41 bis (il cosiddetto “carcere duro”) sono presenti 401 reclusi con posizione giuridica definitiva (71% rispetto al totale), quelli con posizione non definitiva sono 167 (29%): i posti letto destinati ai non definitivi sono 422, mentre per quelli con posizione definitiva il numero è pari a zero. Sui 568 presenti, 151 sono i reclusi di nazionalità straniera (27%). Gli episodi di autolesionismo sono stati 57, 14 tentativi di suicidio e 1 suicidio, 18 aggressioni al personale di polizia penitenziaria. Sempre restando nel ternano, il dossier dice che la casa di reclusione di Orvieto ospita 119 detenuti, la capienza regolamentare è di 98. Il carcere ospita solo detenuti comuni, di questi 117 reclusi con posizione giuridica definitiva (98%) e due non definitivi (2%): i posti letto destinati ai non definitivi sono pari a zero e 98 quelli per i detenuti con posizione giuridica definitiva. I detenuti di nazionalità straniera sono 44 (37%). Gli episodi di autolesionismo sono stati 8, nessun tentativo di suicidio, nessuna aggressione al personale di polizia penitenziaria. La casa circondariale di Perugia attualmente ospita 460 detenuti, di cui 392 uomini e 68 donne (solo in questo istituto è presente la sezione femminile) a fronte di una capienza regolamentare di 363, ridotta a 308 posto letto effettivi. Nel carcere perugino, dove possono essere assegnati solo detenuti comuni, sono presenti 415 reclusi con posizione giuridica definitiva (90% rispetto al totale), quelli con posizione non definitiva sono 45 (10%): i posti letto destinati ai non definitivi sono 114, mentre per quelli con posizione definitiva il numero è pari a 194. Sui 460 presenti, 263 sono i reclusi di nazionalità straniera (57%). Dall’inizio dell’anno si sono registrati 126 episodi di autolesionismo, 28 tentativi di suicidio e nessun suicidio, inoltre 48 aggressioni al personale di polizia penitenziaria. La casa di reclusione di Spoleto ospita 458 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 456. Come nel carcere ternano, anche in quello di Spoleto possono essere assegnati sia detenuti comuni che di alta sicurezza, oltre a quelli sottoposti al regime di cui all’articolo 41 bis. Attualmente sono presenti 422 reclusi con posizione giuridica definitiva (92% rispetto al totale), quelli con posizione non definitiva sono 36 (8%): i posti letto destinati ai non definitivi sono 21, mentre per quelli con posizione definitiva il numero è pari a 435. I detenuti di nazionalità straniera sono 62 (14%). Gli episodi di autolesionismo sono stati 76, 11 tentativi di suicidio e nessun suicidio, 5 aggressioni al personale di polizia penitenziaria. “Dal monitoraggio generale, come evidenziato anche nella precedente rilevazione di settembre, emerge il sovrannumero soprattutto in alcuni istituti del nostro territorio - spiega una nota diffusa dalla procura generale - in particolare in quello perugino e ternano, rispettivamente con un eccesso di 97 e 146. L’incontro è stata anche l’occasione per ribadire l’esigenza, non più procrastinabile, di una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) tuttora non realizzata nella nostra regione. Tale mancanza, come è stato sottolineato, crea non poche situazioni di disagio, soprattutto per coloro che dovrebbero scontare misure di sicurezza alternative al carcere”. Su questo punto, proprio ieri, il procuratore generale ha tenuto un incontro con la neoeletta presidente della Regione Umbria, Stefania Proietti, che ha assicurato il pieno sostegno dell’ente alla sua istituzione. “La necessità di realizzare una struttura sanitaria destinata ad accogliere i condannati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, sollecitata anche dalla Corte costituzionale - aggiunge la nota - è stata più volte sollevata dal procuratore generale e dai procuratori del distretto, che hanno evidenziato le gravi ripercussioni di questa carenza all’interno degli istituti penitenziari dove si registrano problemi di sovrannumero e molti casi di difficile coesistenza tra detenuti”. Viterbo. Suicidio nella notte nel carcere. Il Garante: “Continua la dissipazione di vite e di diritti” agenparl.eu, 18 dicembre 2024 Sesto caso nel Lazio nel 2024. Un altro caso è da accertare a Frosinone “Un uomo si è tolto la vita la notte scorsa nel carcere di Viterbo. È il settimo nel Lazio, dove secondo le rilevazioni del Garante nazionale - c’è anche un caso da accertare, a Frosinone, dove peraltro giovedì scorso un altro uomo è morto a seguito di un malore improvviso. Continua la dissipazione di vite e diritti nelle carceri italiane”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, alla notizia dell’ennesimo suicidio in un istituto penitenziario. “Noi Garanti - prosegue Anastasìa - gli operatori sanitari, quelli penitenziari, e i volontari facciamo il possibile, ma la scarsità di spazi, personale e risorse finanziarie, insieme con l’irrigidimento della legislazione, della giurisprudenza e dell’amministrazione stanno rendendo le carceri luoghi invivibili e fuori controllo. Nel piangere l’ennesima morte - conclude Anastasìa - facciamo appello a Governo e Parlamento per un cambio di rotta che innanzitutto riduca il sovraffollamento e consenta dignitose condizioni di vita e di lavoro in carcere”. Modena. Detenuto marocchino di 29 anni tenta il suicidio, è ricoverato in ospedale ansa.it, 18 dicembre 2024 Ieri nel carcere di Modena, un detenuto ha tentato il suicido ed è stato salvato dall’intervento del personale di Polizia penitenziaria, con i medici interni alla struttura. L’uomo è ricoverato in ospedale e non si conoscono le condizioni cliniche. Lo rende noto Gennaro Caruso, segretario provinciale del Sappe. Si tratterebbe di un marocchino di 29 anni. “Quanto avvenuto a Modena - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Francesco Campobasso, segretario nazionale - dimostra la fondamentale opera del personale di Polizia penitenziaria all’interno delle nostre carceri, anche a tutela della vita e dell’incolumità dei detenuti. Ricordiamo che, ogni anno, la penitenziaria salva la vita a oltre 1.700 detenuti che tentano il suicidio nelle carceri italiane; personale che, sempre più spesso, è esso stesso vittima Di tante aggressioni, anche fino a 1.800 casi ogni anno e deve altresì far fronte, in generale, a oltre 10000 eventi critici che minano la stabilità, la sicurezza e la legalità all’interno delle strutture penitenziarie. Riteniamo quindi importante il processo di ampliamento degli organici del corpo, così come altrettanto importante sarebbe migliorare la situazione del personale medico e paramedico, soprattutto specialistico, per il sostegno ai tanti detenuti con disagio psichiatrico che, spesso, sono protagonisti di gesti di violenza”. Cagliari. Il Gip: scarceratelo e fatelo curare. Ma è ancora in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 dicembre 2024 Un 24enne con problemi psichici rinchiuso a Uta. La garante Testa: “Calpestate umanità e giustizia”. Un caso drammatico sta sollevando l’ennesima denuncia sulle gravi criticità del sistema penitenziario e dei servizi socio-sanitari in Sardegna. Un ragazzo di 24 anni versa in una situazione di estremo disagio: nonostante un’ordinanza del gip che ne disponeva la scarcerazione e il trasferimento in una comunità terapeutica, continua a rimanere rinchiuso nel carcere di Uta, a Cagliari. L’ordinanza del giudice risale al 15 dicembre scorso, con un termine perentorio di 4 giorni per trovare una soluzione alternativa al carcere. Eppure, al momento, nessuna struttura si è resa disponibile ad accogliere il giovane. Le sue condizioni psichiche rendono la detenzione non solo illegale, ma potenzialmente pericolosa. Irene Testa, garante regionale delle persone private della libertà, lancia l’allarme con parole che suonano come un j’accuse al sistema: “Siamo di fronte a un’assurdità che calpesta ogni principio di umanità e giustizia. Un giovane con disagio psichiatrico continua a rimanere in carcere, nonostante un chiaro ordine di scarcerazione”. Tutti gli esperti, associazioni come Antigone e movimenti politici come il Partito radicale concordano su un fatto: il carcere rappresenta l’ambiente peggiore per un soggetto con problematiche psichiatriche. Il rischio di deterioramento psicologico e il pericolo di gesti estremi, incluso il suicidio, sono estremamente elevati. La mancanza di strutture adeguate non è solo un fallimento burocratico, ma una vera e propria emergenza umanitaria. La denuncia della garante Testa è chiara e pressante: “Le istituzioni devono attivarsi immediatamente. Se non esistono comunità disponibili, è necessario crearle urgentemente. Non possiamo permettere che un giovane sia abbandonato al proprio disagio, rinchiuso in un contesto che lo danneggia ulteriormente”. Questo caso rappresenta la punta dell’iceberg di un sistema che continua a fallire per le persone più vulnerabili. La mancanza di coordinamento tra Tribunali, servizi sanitari e strutture di accoglienza si traduce in una violazione sistematica dei diritti umani. E proprio nel carcere di Uta, ricorda la garante a Il Dubbio, un ragazzo di 27 anni si è suicidato. Anche lui aveva un disagio psichico, era in custodia cautelare e si trovava in carcere per il fallimento a vari livelli delle agenzie territoriali. Avrebbe dovuto essere ospitato da una comunità. Probabilmente non rientra nemmeno nei dati statistici del ministero, visto che è morto in ospedale dopo giorni di agonia. Ma le criticità nel sistema penitenziario sardo non si fermano alla gestione dei detenuti con disagio psichico. Emerge ora un ulteriore allarme sulla continuità assistenziale nella Casa circondariale di Cagliari-Uta, denunciato da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo diritti riforme Odv”. Un conflitto interno ai servizi sanitari sta mettendo a rischio le cure dei detenuti. La situazione è aggravata dalla scarsa disponibilità di medici specialistici, costringendo a un continuo via vai di detenuti per esami urgenti, con notevoli difficoltà per la Polizia penitenziaria già oberata dalla carenza di personale. La salute mentale non può essere un optional, tanto meno per i giovani. Ogni ritardo, ogni rinvio, ogni mancata presa in carico non è solo una sconfitta burocratica, ma un oltraggio alla dignità umana. È ora che le istituzioni ascoltino, agiscano, risolvano. Un giovane è in attesa di essere curato fuori dal carcere come stabilito da un giudice, non punito fino a quando decide di esalare l’ultimo respiro. Gli stessi agenti penitenziari non possono avere gli strumenti di un medico. E soprattutto, non possono essere lasciate sole le famiglie. Bergamo. Carcere di via Gleno, detenuti a quota 595. E c’è un guasto al riscaldamento di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 18 dicembre 2024 Sempre più affollato, secondo i dati del ministero: i posti sono 319. La direzione sui problemi a un impianto: dovuti all’usura, si sta intervenendo. Di più, sempre di più. Il carcere di Bergamo è sempre più affollato, peggiora il proprio record e si avvicina a una soglia simbolica pesante: quella dei 600 detenuti. L’asticella ci è arrivata vicina, perché l’aggiornamento del ministero della Giustizia riferito alla situazione di lunedì 16 dicembre attestava la presenza di 595 reclusi. È un’escalation che nell’ultimo periodo sembra essersi fatta ancora più rapida: il 6 dicembre risultavano 583 reclusi, il 13 dicembre erano 591, il 16 si è saliti appunto a 595. Mai così tanti da quando il ministero diffonde dati puntuali e periodici; circa un anno fa, al 31 dicembre 2023, erano 562. Solo negli ultimi dodici mesi la crescita sfiora il 6% e il timore è che si possa anche arrivare a quota 600 reclusi. Il tasso di sovraffollamento - Patologie croniche e comuni all’intero Paese, quelle che affliggono il sistema carcerario. I posti regolamentari della casa circondariale di via Gleno sono 319, il tasso di affollamento arriva così al 186,5%. Tra le mura penitenziarie si incrociano storie di ogni tipo, e a ingrossare le file della popolazione ristretta ci sono anche alcune tendenze recenti: oltre all’afflusso dei “giovani adulti” (i detenuti tra i 18 e i 24 anni, che prima del Decreto Caivano rimanevano più frequentemente negli istituti per minori), c’è chi entra per scontare brevi residui di pena. “Ci sono persone che fanno ingresso in carcere a distanza di molti anni dal reato per scontare periodi di detenzione di pochi mesi - spiega don Dario Acquaroli, cappellano del carcere intitolato a don Fausto Resmini - e magari dopo essersi ricostruiti una famiglia, un percorso di vita. Anche questa dinamica contribuisce a bloccare il sistema, oltre a non tener conto dei cambiamenti che vive una persona nel frattempo. Le festività acuiscono il senso di solitudine - Il dato del sovraffollamento fa capire che non è con l’inasprimento delle pene che si risolve il problema della criminalità: aumentare le pene è una misura che a livello d’immagine sembra forte, ma finisce col peggiorare la situazione”. Insieme all’estate, è questo il periodo dell’anno più difficile per chi si trova in carcere. Le festività acuiscono il senso di solitudine e di distanza di chi si trova recluso, mentre il freddo fra breccia anche tra le celle. Negli ultimi giorni sono stati segnalati dei problemi a un impianto di riscaldamento che serve alcune celle dell’area Penale, l’anomalia - spiegano dalla direzione del carcere - è dovuta all’usura dell’impianto e si sta già intervenendo, e “nessuno è al freddo o senza acqua calda”. La situazione problematica dei servizi igienici - Proprio la situazione delle docce e dei bagni, con alcuni malfunzionamenti segnalati periodicamente, è stata fatta notare il 6 dicembre in occasione della visita che la Commissione Carceri del Consiglio regionale ha svolto all’interno della casa circondariale bergamasca; in quell’occasione erano stati annunciati interventi di manutenzione e ripristino. Anche perché non tutte le celle sono servite da docce: secondo la scheda pubblicata dal ministero e aggiornata sempre al 16 dicembre, su 192 “stanze di detenzione” sono solo 113 quelle con la doccia; per le altre si ricorre ancora a docce comuni. Vicenza. Detenuti al freddo e senza luce. La Garante: “Situazione incivile” di Lucia Russo Il Gazzettino, 18 dicembre 2024 “Mancano riscaldamento e acqua calda, i detenuti sono costretti a lavarsi al gelo nell’area nuova del carcere. Mentre in quella vecchia non c’è la luce nelle celle e per andare in bagno, di notte, devono chiamare le guardie”. Queste sono le segnalazioni che arrivano dal carcere di Vicenza da chi, quotidianamente, lo vive. “Sono sei settimane che il riscaldamento non è funzionante nella parte nuova che è gestita con il teleriscaldamento”, spiegano. Una situazione di grande disagio confermata da Angela Barbaglio, Garante comunale di Vicenza dei diritti delle persone private della libertà personale. “È corretto - ammette -. Da ormai un mese ci sono stati dei problemi con l’acqua calda che dovrebbe essere stata ripristinata nei giorni scorsi. Permangono, invece, i problemi con il riscaldamento. Ieri sono andata personalmente in carcere ed effettivamente i termosifoni sono freddi. Da quello che so, stanno cercando dei pezzi di ricambio per ripristinare il riscaldamento. Si tratterebbe, infatti, di un problema che non comporta la necessità di sostituire l’impianto. Ci sono delle rotture che si è tentato di sistemare senza però successo, almeno finora. Mi è stato riferito che c’è stato un via vai di aziende che hanno tentato di riparare il guasto”. Monza. Pestaggio in carcere, l’ex direttrice: “Sberle e pugni al detenuto” di Stefania Totaro Il Giorno, 18 dicembre 2024 Cinque agenti sotto accusa: le telecamere li riprendono mentre tengono fermo e picchiano un uomo. “È stato un evento estremamente doloroso, tanto che l’ho rimosso e alcune immagini del video mi sono tornate in mente solo dopo. Quello che ricordo è una reazione scomposta, un comportamento incongruo per un’azione di contenimento di un detenuto”. L’ex direttrice del carcere di Monza Maria Pitaniello è tornata ieri al Tribunale di Monza per il controesame della difesa degli imputati al processo che vede 4 uomini e 1 donna della Polizia penitenziaria accusati a vario titolo di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia per avere picchiato nell’agosto 2019 un 52enne, ex collaboratore di giustizia, mentre si trovava all’interno della casa circondariale monzese. Il detenuto si è costituito parte civile insieme all’associazione Antigone per la tutela delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Secondo l’accusa il detenuto è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente, mentre altri lo tenevano fermo. C’è un video dell’accaduto estratto dalle telecamere interne al carcere, che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. A dire degli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto ‘contenuto’ il detenuto dopo che ha opposto resistenza, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo. Maria Pitaniello, che ora è direttrice del carcere di Busto Arsizio, alle domande degli avvocati degli imputati ha confermato che Umberto Manfredi faceva lo sciopero della fame perché voleva essere trasferito in un’altra casa circondariale e che a maggio 2019 era stato oggetto di un rapporto disciplinare per comportamenti aggressivi nei confronti degli agenti di polizia penitenziaria che, a detta della ex direttrice, “dopo questa vicenda avevano dimostrato di avere paura ad affrontare interventi critici”. Era stato il Garante dei diritti dei detenuti, dopo la denuncia presentata da un parente dell’ex collaboratore di giustizia ad Antigone, a chiedere di far luce. “Il giorno del fatto la comandante di reparto mi parlò di un’azione di contenimento in cui il detenuto aveva ricevuto dei colpi - ha spiegato Maria Pitaniello - Ma dopo l’interessamento del Garante ho visto il video e l’ho trovato di interesse del Garante e della Procura. Ne ho parlato con il Provveditore e ho informato che avrei inviato il video. La comandante mi ha telefonato dicendomi che non le sembrava opportuno, ma chiusi la chiamata”. Bologna. “Il sistema carcerario tra detenzione e rieducazione”: gli studenti incontrano i detenuti sulpanaro.net, 18 dicembre 2024 Da diversi anni l’Istituto di Istruzione Superiore “Luosi Pico” di Mirandola, progetta e persegue un progetto innovativo rivolto agli studenti delle classi quinte per approfondire il significato dell’articolo 27 della Costituzione Italiana, quello che sancisce i principi legati alla responsabilità penale, alla funzione rieducativa della pena e al rispetto della dignità umana anche nei contesti di privazione della libertà. Il progetto è figlio del prof. Claudio Rampelli, storico insegnante di Diritto ed economia politica dell’Istituto oggi in pensione, che lo ha inventato nel lontano 2014, ed è attualmente organizzato dal prof. Angelo Tucci. Questo progetto che, porta il titolo “Il sistema carcerario tra detenzione e rieducazione”, è parte di un più ampio progetto del Dipartimento di Diritto ed Economia politica dell’Istituto, chiamato LegalMente, e gode del pieno appoggio della dirigente scolastica, prof.ssa Rossella Di Sorbo, la quale, infatti, non ha mai fatto mancare il suo sostegno sia dal punto di vista didattico, che economico e burocratico, ed, infine, è stato fatto proprio dalla Commissione di Educazione civica, presieduta dal prof. Claudio Carretti, che lo ha inserito nel Curriculum di educazione civica ed è stato inserito dalla prof.ssa Maria Luisa Rago (Referente TPCO) tra i Moduli orientativi dell’Istituto. Il progetto si propone di sensibilizzare i giovani su temi di grande rilevanza civile e giuridica, come il sistema penitenziario, la funzione rieducativa della pena e la necessità di promuovere il reinserimento sociale dei detenuti. L’iniziativa è nata dalla consapevolezza dell’importanza di trasmettere ai futuri cittadini valori di inclusione, comprensione e rispetto dei diritti umani, anche nei confronti di coloro che stanno scontando una pena. Il programma si svolge in due fasi principali: 1. Approfondimento teorico: Le classi quinte, con il supporto di insegnanti di diritto, educazione civica e lettere, partecipano a lezioni e seminari sull’articolo 27 della Costituzione. Attraverso lo studio dei principi costituzionali, i ragazzi approfondiscono tematiche complesse come la presunzione di non colpevolezza, il divieto di trattamenti inumani, e il ruolo della pena come strumento di reinserimento e non di vendetta. 2. Visite didattiche agli istituti penitenziari: Dopo aver maturato una solida base teorica, gli studenti visitano diversi istituti penitenziari. Qui, grazie alla collaborazione con il personale dell’amministrazione penitenziaria e con associazioni di volontariato, hanno l’opportunità di confrontarsi direttamente con la realtà carceraria e comprendere le sfide e le difficoltà di chi vive e lavora in questo contesto. Il programma di quest’anno si articola in: - Una giornata didattica-conferenziale rivolta alle classi quinte dell’Istituto e tenuta dal prof. Angelo Tucci, referente del progetto insieme alla prof.ssa Vania Piccinini (che dirige il Dipartimento di diritto ed Economia), dal prof. Walter Loddì (che dirige il Dipartimento di Storia e Filosofia) e dal Dott. Roberto Cavalieri (Garante dei diritti dei carcerati della Regione Emilia-Romagna). - Visione del Film “Ariaferma” (di Leonardo di Costanzo, 2021), con annesse spiegazioni di parti significative del film da parte della Prof.ssa (UNIBO) Elisa Mandelli. - Ben 7 visite didattiche presso quattro diversi Istituti carcerari della nostra Regione, e nello specifico: 1) Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara; 2) Casa Circondariale “Sant’Anna” di Modena; 3) Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia; 4) Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. Le visite agli istituti penitenziari sono state progettate non solo come un’esperienza didattica, ma come un momento di riflessione. Gli studenti possono interagire con detenuti selezionati per i progetti rieducativi, comprendere le loro storie e vedere in prima persona come il carcere non sia solo un luogo di espiazione, ma anche un ambiente dove si cerca di ricostruire una prospettiva di vita per il futuro. Gli incontri con gli operatori penitenziari e gli educatori completano il quadro, offrendo agli studenti un’immagine a 360 gradi del sistema penale italiano. Durante questi incontri, i ragazzi scoprono come vengono attuati i programmi di rieducazione e di reinserimento e ascoltano testimonianze che toccano temi come il lavoro in carcere, la formazione professionale e le attività educative, tutte finalizzate a dare ai detenuti una seconda possibilità. Il progetto ha suscitato (negli anni passati) grande interesse e partecipazione da parte degli studenti, che hanno potuto confrontarsi con realtà di cui, nella vita quotidiana, si tende a ignorare l’esistenza o a considerare con pregiudizio. Gli studenti hanno avuto l’opportunità di mettere in discussione stereotipi e preconcetti, avvicinandosi alla complessa realtà del sistema penale in modo critico e consapevole. Molti studenti, a seguito delle visite, negli anni passati hanno scelto di approfondire questi temi per l’elaborazione del loro progetto di maturità. Alcuni di loro hanno, inoltre, manifestato interesse per possibili carriere in ambito giuridico, sociale o educativo, ispirati dall’esperienza vissuta durante il percorso. L’Istituto “Luosi Pico” è convinto che questo progetto rappresenti un passo importante verso una scuola che non solo istruisce, ma educa alla cittadinanza e al rispetto dei diritti fondamentali. Il progetto sull’articolo 27 della Costituzione si inserisce, infatti, in un più ampio percorso di educazione civica che mira a formare cittadini consapevoli e responsabili. L’iniziativa dimostra come la scuola possa aprire una finestra su realtà delicate e complesse, aiutando gli studenti a maturare una comprensione profonda dei valori costituzionali e del significato della dignità umana. Santa Maria Capua Vetere (Ce). I detenuti vestono lo chef di Ilaria Dioguardi vita.it, 18 dicembre 2024 Domenico Candela del George Restaurant - Grand Hotel Parker’s di Napoli ha fatto visita al carcere campano e ha incontrato i detenuti nel laboratorio di camiceria, di cui la Fondazione Isaia è consulente e supervisore. “Nei loro occhi ho visto la felicità, almeno per un momento: sembravano distratti da tutto il contorno”. “Ho avvertito l’abbraccio di questi ragazzi. Incontrandoli di persona, ho avuto la dimostrazione di quanto quell’abbraccio fosse vero, mi sono immedesimato in loro, mi sono sentito come loro, ho fatto in modo da strappar loro un sorriso. Nei loro occhi ho visto la felicità, almeno per un momento: sembravano distratti da tutto il contorno”. A parlare è Domenico Candela, chef George Restaurant - Grand Hotel Parker’s di Napoli, che racconta così le emozioni provate con i detenuti della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Li ha incontrati pochi giorni fa nel laboratorio di camiceria in carcere, dopo averli conosciuti alla serata di beneficenza “Cucinapoli” lo scorso ottobre. I ragazzi hanno confezionato delle divise da chef da lui richieste. “Regalare attimi del genere ad altre persone è quanto di più prezioso si possa fare, soprattutto nei confronti di chi è in difficoltà. Queste occasioni sono il vero antidoto ai pregiudizi che troppo spesso accompagnano i detenuti e che non permettono loro di reinserirsi nella società. Al contrario, momenti del genere ci ricordano che i sogni esistono e che si possono realizzare”. “Questo incontro, ha continuato lo chef, “è stata un’occasione per approfondire la conoscenza di persone speciali come Tommaso D’Alterio, direttore generale della Fondazione Isaia, Donatella Rotundo, direttrice della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, e Massimiliano Isaia, azionista dell’omonimo gruppo, che, come me, vogliono davvero fare qualcosa per il prossimo. In poche ore trascorse insieme, abbiamo portato avanti un progetto che mette l’essere umano al centro”. Il progetto di laboratorio di camiceria - All’interno del penitenziario è avviato un progetto di laboratorio di camiceria. Nell’economia e sviluppo di questa iniziativa, la Fondazione Isaia ricopre il ruolo di consulente e supervisore, di “advisor” dell’istituto penitenziario, assumendosi la direzione operativa volta alla creazione del progetto, nonché la valutazione degli standard e i compiti di verifica operativa dei risultati. Il Protocollo d’intesa è stato stipulato nel febbraio 2022 con la Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. 30mila camicie all’anno - Il progetto, partito qualche mese dopo la stipula, ha visto la partecipazione di 40 detenuti nella produzione di camicie per il personale penitenziario all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I detenuti hanno realizzato 30mila camicie all’anno destinate al Ministero di Grazia e giustizia, con la possibilità di ricevere una retribuzione mensile come addetti al laboratorio oltre ad una futura opportunità lavorativa a fine pena. Formazione e macchinari all’avanguardia - Il laboratorio di camiceria è stato allestito con la più aggiornata dotazione di macchinari, attrezzature del tutto analoghe a quelle usate nelle aziende dedicate alla produzione di camicie di alta gamma. I detenuti sono stati scelti e valutati dalle sarte dal punto di vista tecnico, mentre dal punto di vista giuridico sono stati scelti i detenuti con fine pena superiore ai tre anni; tra i criteri di valutazione ovviamente anche la buona condotta. I detenuti selezionati hanno seguito un corso di formazione condotto da professionisti del settore tessile, acquisendo competenze tecniche che spaziano dalla modellistica al taglio, fino alla cucitura. La Fondazione Isaia è stata decretata tra i vincitori del Premio Innovazione Sociale 2024, organizzato da Human Foundation, per un project work per estendere il progetto già in corso presso il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Roma. Giubileo, l’arte contemporanea torna in carcere di Alessandro Beltrami Avvenire, 18 dicembre 2024 Marinella Senatore a Rebibbia per la Porta Santa e quattro artisti internazionali per il 2025, a partire da Yan Pei-Ming a Regina Coeli. Il programma del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. L’arte e la Santa Sede ritornano in carcere. Lo storico padiglione nella Biennale veneziana ha chiuso i battenti da poco meno di un mese che il suo spirito riapre a Roma con il Giubileo, per allargarsi all’Italia e quindi a tutto il mondo. Il Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede ha annunciato questa mattina in conferenza stampa il suo programma d’arte contemporanea per l’Anno Santo, che pone al centro la riflessione sul rapporto tra ispirazione creativa e gli elementi fondamentali del Giubileo. Il primo passo di questo “cammino di speranza” è in realtà una continuazione, visto che il percorso muove dalle carceri, con nuove collaborazioni e interventi artistici. Il primo sarà proprio il 26 dicembre nella Casa circondariale di Rebibbia, in occasione dell’apertura della seconda Porta Santa da parte di papa Francesco, collocata per sua scelta nel carcere romano. Nel piazzale antistante la chiesa verrà eretta dal 21 dicembre a metà febbraio, l’installazione di Marinella Senatore Io contengo moltitudini frutto, come sempre nel lavoro dell’artista, di un processo partecipativo con la comunità carceraria. Si tratta di una nuova edizione del progetto presentato a Napoli la scorsa estate nella rotonda di Piazzale Diaz, una struttura verticale autoportante, alta circa 6 metri e dal diametro di circa 3, composta da luminarie ed elementi che riportano frasi in diverse lingue e dialetti, scelte tra quelle scritte da detenuti della sezione maschile e femminile in seguito ad un workshop per circa 60 partecipanti. “Nella sua forma, si presenta come una struttura verticale che evoca le macchine usate nei fuochi d’artificio delle festività barocche romane - spiega Senatore - Nella mia pratica le opere sono innanzitutto esperienze condivise e trasformative, riflesso del mio impegno continuo nella partecipazione attiva e nella collaborazione collettiva”. L’artista, nota anche per le sue performance di danza collettiva, ha lavorato con comunità carcerarie in tutto il mondo: “Ma qui a Rebibbia per la prima volta in assoluto nessuno ha utilizzato una citazione di poeti, scrittori o persino parenti. Tutti hanno voluto scrivere il loro pensiero, ho avvertito il bisogno estremo di avere una voce molto personale. L’arte, in quanto espressione intima e innata dell’essere umano, può essere molto trasformativa e molto più veloce di altri percorsi”. Le frasi selezionate “sono espressioni potenti di speranza e si intrecciano in una narrazione comune attraverso cui l’opera diventa un luogo di incontro e condivisione. Il mio lavoro muove dalla tradizione delle luminarie del Sud italiano perché queste hanno una radice comunitaria e sociale e molto forte, capace di creare spazi speciali in cui può accadere un momento speciale”. Il progetto è a cura di Cristiana Perrella, incaricata anche del programma per il 2025 del nuovo spazio espositivo del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, denominato “Conciliazione 5”, una finestra aperta 24 ore su 24 su via della Conciliazione all’interno del quale gli artisti invitati interverranno, dialogando poi anche con altri spazi di prossimità come una sorta di museo diffuso e permettendo a tutti i pellegrini di ammirare le opere esposte. Si partirà in occasione del Giubileo degli Artisti (15-18 febbraio), con un intervento del pittore cinese Yan Pei-Ming, noto per i suoi intensi ritratti di grandi dimensioni, che realizzerà un corpus di nuovi lavori sul carcere di Regina Coeli. Gli altri tre appuntamenti durante l’anno, con altrettanti artisti di rilievo internazionale, riguarderanno i migranti, i poveri e lo sfruttamento delle risorse naturali. “È un grande onore e un grande felicità per me - ha commentato Cristiana Perrella - aver ricevuto l’incarico di curare, durante il Giubileo, un progetto come questo, che nasce da una piena fiducia nell’arte e nella sua possibilità di misurarsi sui grandi temi del presente in modo libero e profondo, generando cambiamento. L’arte, infatti, sollecita un modo differente di vedere e capire le cose, sfidando le convenzioni e generando nuove domande, nuovi pensieri e dunque aprendo a una possibilità di trasformazione. L’arte è chiamata di nuovo a dare voce agli invisibili, a chi vive ai margini della società e a far aprire gli occhi su un tema urgente, molto caro a papa Francesco, che oggi non ha spazio nel dibattito pubblico e su cui c’è poca disponibilità all’ascolto”. La scelta di chiamare Marinella Senatore è stata naturale: “Il progetto per Rebibbia, visibile dalla comunità del carcere e dai famigliari in visita, dà voce diretta a chi voce non ha. Ho sempre apprezzato il carattere vero di coprogettazione e condivisione della sua pratica artistica. Lei lo fa ascoltando le voci degli altri. A Rebibbia questo ha già generato un cambiamento. Ho avvertito nelle carceri una grande sete di cultura, e insieme altrettanta curiosità e disponibilità”. Il Prefetto del Dicastero, il cardinale Josè Tolentino de Mendonça, oltre ad avere rimarcato l’attenzione data da papa Francesco al mondo carcerario (nel suo pontificato ha visitato una ventina di istituti in tutto il mondo), ha sottolineato come “talvolta l’arte viene considerata un lusso destinato al godimento di pochi. Invece l’arte porta in sé un desiderio più grande: vuole pensare e specchiare la condizione umana di tutti; vuole sorprendere per la sua straordinaria capacità di interessarsi di tutto quello che è umano. Per questo, sono importantissime le esperienze che portano la produzione artistica contemporanea in luoghi sensibili dell’esistenza, dove si toccano con mano le nude domande. Le carceri sono luoghi così. L’arte può essere voce e volto dei drammi che rimangono di solito invisibili e può rendere le società più consapevoli della loro altissima responsabilità, che è sempre una responsabilità che ci obbliga ad una cittadinanza attiva e condivisa”. Per questo l’arte contemporanea accompagnerà durante il Giubileo i detenuti e le comunità delle carceri con un ulteriore progetto: in analogia con la porta artistica realizzata a Rebibbia, in diverse carceri in Italia e nel mondo saranno aperte alcune “Porte della Speranza”, installazioni affidate ad altrettanti artisti di fama internazionale che in dialogo e in collaborazione con i detenuti realizzeranno queste opere da collocare fuori dai penitenziari, visibili in questo modo alla città e offerte non solo agli appassionati d’arte ma all’opinione pubblica. Il progetto è stato affidato alla curatela di Davide Rampello: “Il carcere è a volte considerato un luogo abbandonato dalla speranza: luogo dis-sperato. Aprire ai valori della speranza la ragione, il cuore è indicare una meta, riproporre un progetto di vita. Vogliamo affidare questo delicatissimo compito alla sensibilità, alla cura di artisti che condivideranno con noi questa missione, affinché ne facciano movimento, manifesto, affinché la forza del vero, del giusto, del buono, del bello diventi opera d’arte, concreta bellezza”. L’impegno messo in campo dal Dicastero appare davvero come una risposta e una restituzione delle indicazioni offerte da papa Francesco nell’incontro con gli artisti del 23 giugno 2023 nella cappella Sistina. Un impegno articolato in un dialogo diretto, in cui gli artisti sono chiamati anche a offrire un contributo di visione nei momenti di dibattito della Chiesa stessa. Se a questo punto è davvero lecito parlare di una nuova committenza, bisognerà riconoscere che non è come molti avrebbero pensato o voluto. C’è ben poco di autocelebrativo in queste iniziative, in gran parte tra l’altro di natura effimera: nessun monumento più duraturo del bronzo. Eppure chiaramente pensate per avere una durata incidendo nella profondità della vita. Come spiegava il cardinale Tolentino de Mendonça presentando il piano per il Giubileo, “l’importante è credere tutti che la trasformazione - la nostra e quella del mondo - sia possibile. Anche se è ardua e dolorosa, è possibile. Quando guardiamo e ci lasciamo guardare come fratelli, avviene questo grande miracolo che è la comune tessitura della speranza”. Milano. Roberto Bolle porta la danza nell’Ipm Beccaria: “Nutriamo bellezza ogni giorno” lapresse.it, 18 dicembre 2024 Un piccolo spettacolo, ma prezioso, organizzato dalla Fondazione Roberto Bolle per i detenuti dell’Istituto Penale Minorile Cesare Beccaria grazie alla collaborazione dell’Associazione PuntoZero. Davanti alla platea gremita di giovani carcerati, si sono esibiti alcuni talenti di break dance e di danza classica, in particolare i due ballerini della Compagnia del Teatro alla Scala, Rebecca Luca e Alessandro Francesconi, che hanno interpretato estratti de ‘Lo Schiaccianoci’ e del ‘Grand Pas Classique’. Sul palco anche Roy Ilagou, ballerino e coreografo originario dell’Africa centrale, e la sua crew di danza hip hop e afro. Ad introdurre lo spettacolo, lo stesso Bolle che dal palco ha parlato ai ragazzi per presentare gli artisti e si è poi messo a disposizione delle domande del pubblico, esortando i giovani detenuti a ricordarsi di “nutrire ogni giorno la bellezza che è in tutti noi”. Alla fine dello spettacolo, accolto con grande entusiasmo dalla platea, gli artisti che si sono esibiti hanno raccontato il loro percorso fatto di sacrificio e di passione, come quello di Filippo Pieroni che, dalla strada è arrivato a danzare nella Compagnia del Cirque du Soleil come primo ballerino di break dance italiano. “Ci tenevo molto che uno dei primi passi della Fondazione fosse questo - ha raccontato Bolle a latere dell’incontro - Ho sempre sostenuto il valore educativo della danza soprattutto per le giovani generazioni. In questo luogo la danza non solo può essere di casa, ma può essere un valido strumento di educazione e di rieducazione al rispetto, alla bellezza, all’inclusione, ad una disciplina che insegna che le scorciatoie non possono dare gli stessi risultati di un impegno quotidiano, un sacrificio per la propria crescita personale. A tutto questo aggiungo che la danza può avere anche un grande valore terapeutico per curare le ferite che ognuno di questi ragazzi porta con sé”. Carceri, quando una cooperativa sociale vuol dire riscatto e dignità di Roberta Barbi vaticannews.va, 18 dicembre 2024 Edito da Il Mulino, “La cooperativa sociale Giotto - una normalità eccezionale”, scritto da Vera Zamagni, racconta di un’attività quarantennale che oggi favorisce il reinserimento lavorativo per molti svantaggiati, compresi i reclusi. Il socio fondatore di Giotto, Nicola Boscoletto: abbiamo capito che poter avere un impiego è sempre fonte di crescita, soprattutto per chi vive ai margini. Per due anni la prof.ssa Vera Zamagni ha seguito da vicino le attività di Giotto - cooperativa sociale attiva nel carcere Due Palazzi di Padova dal 1986 - ha visto le attività del call center, osservato il lavoro della pasticceria interna all’istituto di pena, analizzato le operazioni della fabbrica di assemblaggio, oltre a leggere conti, registri e bilanci. Il risultato è la pubblicazione “La cooperativa sociale Giotto - una normalità eccezionale”, edito dal Mulino, una storia raccontata con la precisione di un’economista, ma anche con l’entusiasmo di chi crede nelle persone e nelle loro possibilità: “Quando mi è stata fatta questa proposta da un collega di Padova - racconta ai media vaticani - ho accettato perché non mi ero mai occupata di cooperative sociali, figuriamoci di una cooperativa che dà lavoro a persone detenute, invece è importantissimo far vedere che anche in carcere si può fare qualcosa”. La voce con cui la professoressa racconta la storia di Giotto è più che mai autorevole: da 30 anni Zamagni si occupa di studiare e spiegare le cooperative che sono modi alternativi di fare impresa: “In pratica - spiega - nelle cooperative il capitale emesso dai soci dell’impresa non è separato da socio stesso, se ci fossero utili in più potrebbero essere stornati tra i soci, che in genere preferiscono reinvestirli all’interno della cooperativa stessa. Non c’è la massimizzazione dei profitti per gli azionisti, semplicemente perché non ci sono azionisti”. Le cooperative sociali nello specifico, poi, sono di due tipi: quelle che forniscono servizi ai cittadini, come asili o mense, e quelle che invece ai cittadini danno lavoro, specie a quelli svantaggiati: “Queste ultime il lavoro devono cercarlo, ma troppo spesso si limitano a rapportarsi con il settore pubblico, mentre è quello privato che offre occasioni migliori”. Giotto questo lo ha capito, tanto è vero che c’è un capitolo intero dedicato ai partner anche stranieri che collaborano con la cooperativa. La costruzione di una società più solida e sicura si misura, dunque, anche con l’inclusione di tutti gli attori che la compongono. “Le cooperative sono vincenti - afferma l’autrice del volume - perché hanno un approccio egualitario, abbassano le disuguaglianze perché sanno coinvolgere tutti i soggetti che compongono la società”. Un libro che è un dono, natalizio visto il periodo, ancor di più perché è un dono inaspettato e non richiesto: “Da più parti ci avevano consigliato di raccontare la nostra storia, per questo - dice Nicola Boscoletto, uno dei soci fondatori della Giotto - quando ci hanno detto di questo progetto siamo stati contentissimi. Per noi era fondamentale che a raccontarci fosse qualcuno esterno, per non cadere nell’autoreferenzialità”. Boscoletto è uno di quei giovani laureati che quasi 40 anni fa hanno dato vita al sogno ancora oggi incarnato dalla Giotto: “Cruciale nell’inizio di questo percorso - racconta - fu l’incontro con don Giussani. Lui era orientato a non perdersi neanche un brandello della vita, impegnato a non sprecarne neppure un attimo. Da giovani ci ha trasmesso che l’altro è sempre un bene, una ricchezza anche quando non lo conosciamo. Soprattutto ci ha insegnato a non giudicare, questo spetta al Signore, a noi, invece, spetta donare quello che abbiamo ricevuto, altrimenti non avrebbe valore”. La svolta - anzi una delle tante svolte nel cammino della cooperativa Giotto - arriva con il Giubileo della Misericordia nel 2016: “Su spinta di alcuni amici e di alcuni soci abbiamo aperto allora anche un’organizzazione di volontariato. All’improvviso - ricorda Boscoletto - il nostro obiettivo è diventato, come dice il Papa, non considerare più le persone detenute come un oggetto della nostra attenzione, bensì come soggetti attivi del proprio recupero, soprattutto quelli che lavoravano con noi”. Il lavoro, dunque, che torna come elemento capace di dare dignità all’uomo, anche se l’uomo in quanto tale spesso è messo ai margini della società. “Sta per aprirsi un nuovo Giubileo dedicato alla speranza, una virtù - osserva Boscoletto - che è sempre più difficile da portare ai reclusi. In questo momento storico i detenuti, come pure i migranti sono usati non aiutati, come dice il Santo Padre, ‘ci si serve di loro, non sono serviti’. Perciò le parole non bastano, soprattutto se non saranno seguite da testimonianze e gesti concreti da parte delle persone che governano. Poi il Signore fa comunque germogliare la speranza nei nostri cuori, ma questa è un’altra cosa”. Il nostro analfabetismo funzionale non migliora, pesano le disuguaglianze sociali di Cristiano Corsini Il Domani, 18 dicembre 2024 La “retorica della crisi” porta a trascurare una lettura longitudinale dei dati dell’ultimo rapporto Ocse-Piaac sulle “competenze degli adulti”: più che di un presunto crollo della capacità di comprensione, faremmo meglio a riflettere sulla preoccupante stagnazione. I risultati dei giovani smentiscono le teorie del decadimento nelle competenze di ragazze e ragazzi. Come avviene abitualmente in occasione della divulgazione dei risultati di altre ricerche in ambito educativo, anche la pubblicazione dei dati dell’indagine internazionale sulla popolazione adulta Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) rischia di dare la stura a letture che addossano alla scuola l’intera responsabilità di risultati spesso negativi e che trascurano sia il peso esercitato dalle iniquità che caratterizzano il sistema economico e sociale sia l’inefficacia delle scelte politiche. La ricerca, organizzata dall’Ocse e gestita per l’Italia dall’Inapp, è alla sua seconda edizione (la prima è del 2012). L’indagine si basa sulla somministrazione a un campione rappresentativo della popolazione tra 16 e 65 anni di prove standardizzate. Queste prove forniscono una stima delle abilità e delle conoscenze necessarie per comprendere un testo (literacy), per impiegare la matematica per orientarsi nel quotidiano (numeracy) e (da questa edizione) per affrontare problemi complessi (adaptive problem solving). Come evidenziato nel rapporto italiano, il nostro paese si posiziona al di sotto della media Ocse nelle tre aree di indagine. Proviamo ad analizzare il dato iniziando dal confronto con la prima edizione. Non stiamo migliorando - Spesso, la “retorica della crisi” - ovvero il sensazionalismo che accompagna la pubblicazione dei risultati delle indagini, incentrato sugli (innegabili) aspetti negativi - porta anche a trascurare una lettura longitudinale dei dati e a suscitare reazioni di pancia piuttosto che utili analisi. Come scritto, Piaac è alla sua seconda edizione e già nel 2014 Tullio De Mauro, nel suo libro Storia linguistica dell’Italia repubblicana, rendeva conto dei dati. Cosa è cambiato? Come rileva il rapporto Inapp, da noi nei due ambiti comuni alla prima e alla seconda indagine (literacy e numeracy) non si osserva alcuna variazione significativa. Questo dato è del tutto coerente con quello fornito da indagini (Invalsi, Ocse, Iea) relative ad altre fasce di popolazione. Piuttosto che parlare di “drammatico crollo nelle competenze” faremmo meglio a riflettere con maggiore lucidità su una preoccupante stagnazione. Piaac conferma anche l’incidenza della distribuzione geografica (il Nord e il Centro meglio del Sud) e quella del retroterra sociale, culturale ed economico sui risultati (siamo tra i paesi in cui tale legame è più forte). Più interessante il dato relativo al genere. Da questo punto di vista, non emergono differenze significative nella literacy e nel problem solving, mentre in numeracy la popolazione maschile se la cava meglio. Va considerato però che le indagini sulla popolazione adulta negli anni Novanta (Iea Ials) restituivano per il nostro paese un vantaggio degli uomini sulle donne anche nella comprensione del testo. Si tratta di differenze assai mobili nel tempo e tra i paesi, un dato che rappresenta un’ulteriore conferma della forza del contesto socio-culturale che sta alla base delle differenze nei risultati raggiunti da donne e uomini. Il diplomato finlandese e i giovani - Un dato che ha suscitato interesse nell’opinione pubblica è quello relativo al fatto che in Italia mediamente chi raggiunge una laurea non se la cava meglio di chi in Finlandia possiede un diploma di scuola secondaria. Il dato però andrebbe letto considerando che, nel nostro paese, le persone con i titoli di studio più bassi, sebbene non se la cavino meglio di chi ha la laurea, mostrano livelli di conoscenze e abilità che rientrano nella media internazionale. Questa dinamica va letta alla luce di quello che forse è il dato più interessante - e sin qui il più sottovalutato - di Piaac, ovvero quello relativo alla distribuzione di conoscenze e abilità per fasce d’età. Come nella prima edizione, le fasce d’età più giovani in Italia raggiungono punteggi superiori al resto della popolazione in misura più rilevante di quanto non avvenga in altri paesi. Questo andamento mal si accorda con le teorizzazioni di un presunto decadimento nelle competenze delle giovani generazioni che sarebbe da imputarsi alla supposta affermazione della pedagogia progressista nelle nostre scuole. In realtà, il progressivo peggioramento del rendimento italiano in base all’età è coerente con quello riscontrato da altre indagini (gestite da Iea e Ocse) che indicano da decenni come la nostra popolazione di studenti della primaria se la cavi molto meglio nel confronto internazionale rispetto a quella di quindicenni. Sul fronte della politica scolastica, il peggioramento che sembra verificarsi nelle scuole secondarie smentisce le scelte fatte sulla formazione docenti. Va considerato che i percorsi per insegnare alla primaria e per insegnare nelle scuole secondarie sono diametralmente opposti. Infatti, per insegnare nella scuola primaria è previsto un percorso dai tempi distesi (laurea magistrale di cinque anni), che consente di svolgere sia attività in università sia all’interno dei contesti scolastici. Al contrario, la formazione di docenti per le scuole secondarie, anche e soprattutto nella sua ultima versione (i “60 cfu”), continua a incentrarsi su brevissime scorciatoie (meno di un anno) che portano a trascurare le attività pratiche a vantaggio di quelle on-line. Questi percorsi, tra l’altro costosissimi, più che dall’esigenza di sviluppare competenze disciplinari e metodologico-didattiche paiono dettati dall’urgenza di abilitare all’insegnamento molta gente in brevissimo tempo e dalla volontà di consentire alle università telematiche di esercitare un ruolo rilevante in quello che si configura come un vero e proprio mercato della formazione docenti. A farne le spese saranno però migliaia di adolescenti. Siamo così di fronte all’ennesima offesa arrecata alla fascia più giovane della popolazione dalle generazioni più anziane, ovvero dalle generazioni che, a quanto pare, manifestano le maggiori difficoltà a comprendere il tempo presente. Sicurezza sociale. Contro il “ddl paura” c’è un altro Paese di Luca Blasi e Gianluca Peciola Il Manifesto, 18 dicembre 2024 Dopo la manifestazione di sabato 14 dicembre che ha visto finalmente la convergenza di tante realtà di lotta, a gennaio la mobilitazione continua. Per battere l’autoritarismo. Li abbiamo presi sul serio. Abbiamo creduto al progetto che dichiarano e mettono in opera a suon di decreti e disegni di legge, come quello che abbiamo ribattezzato “ddl paura”. La manifestazione di sabato 14 dicembre è stata una dimostrazione di coscienza politica superiore, alta al livello della sfida che il governo sta portando all’architettura istituzionale democratica. Così, dopo due anni di spallate governative alle porte della democrazia, la piazza si è ripresa la parola con una contronarrazione che denuncia senza esitazioni il progetto autoritario del governo. Il corpo ideologico della destra di governo è un flusso valoriale e politico in cui convergono fattori di opportunismo di casta (la conservazione del ceto politico originario missino e leghista), ammaestramenti più o meno creativi dei diktat del mercato e ricezione confusa di condizionamenti culturali passati e presenti (nazionalisti, fascisti, del conservatorismo e del populismo occidentale e orientale). Ma il suo tratto prevalente, appunto, è l’antidemocraticismo: va minato l’impianto solidaristico del welfare e colpite le persone in migrazione, vanno indebolite le conquiste legislative e culturali delle donne, va aggredito formalmente il diritto al dissenso e al conflitto, va sfiduciata pubblicamente l’idea di scuola come luogo di opportunità di crescita democratica, va colpita l’immagine della magistratura al fine di screditarla e sottometterla. Questa fase destruens è stata accompagnata dalla profilazione di un’altra idea di stato e di democrazia, caratterizzati da una radicale verticalizzazione dei processi decisionali (premierato), dello svilimento del ruolo del parlamento (a dire il vero già avviato da altre coalizioni), dalla sottomissione della magistratura all’esecutivo e dalla criminalizzazione del dissenso e del conflitto (il ddl sicurezza). Di fronte alla gravità dell’attacco una forza inaspettata, nata dal coordinamento tra diversità, tra vertenze sociali, movimenti civici, sindacati, organizzazioni per i diritti umani, una coalizione eterogenea di comunità e tante persone singole, dal collettivo di fabbrica Gkn a organizzazioni umanitarie internazionali, ha rimesso al centro della politica la tenuta democratica del paese. Lo ha fatto attraverso la mobilitazione pubblica e il richiamo al conflitto come motore democratico e strumento del cambiamento sociale egualitario. Lungo il percorso della manifestazione le diverse anime hanno tirato in avanti il filo dell’orizzonte minimo, prospettando l’obbligo di continuare la mobilitazione, facendola diventare ancora più diffusa, fino al risultato del ritiro del disegno di legge e alla crisi del governo autoritario che lo ha prodotto. La complessità di questa mobilitazione, il suo carattere reticolare, orizzontale e finalmente convergente deve nutrirsi di spazi sociali larghi, di alleanze di popolo, della curiosità discente della politica alta e del suo sostegno non invadente, di cooperare in libertà e in radicalità. Se quella piazza ha avuto un tratto comune, è quello di sentirsi insorgenza non tracciata dalle mappe note della politica, fatto conflittuale nuovo, progetto in formazione che già sposta la linea di azione verso tutto ciò che di ingiusto aggredisce umanità, ambiente, diritti. Bastava ascoltare le voci del corteo, il brulicare di progetti individuali e collettivi, tutti incompatibili con la dominanza di questo sistema economico fondato sullo sfruttamento, sul patriarcato e la guerra. Abbiamo visto una piazza che mentre rimette al centro della politica la parola e la pratica del conflitto contro la svolta autoritaria, vuole prendere il largo dei diritti complessivi, quelli che per essere soddisfatti hanno bisogno di una vera rivoluzione. A gennaio ci aspettano settimane importanti di mobilitazione. Questo pacchetto normativo ci farà conoscere un altro paese: c’è un Italia del prima e dopo il ddl della paura. Questa mobilitazione chiama ogni settore della società civile a convergere, in libertà di azione e di pensiero, chiede a ognuno e ognuna di coordinarci verso l’obiettivo minimo del ritiro del ddl, per mettere in crisi l’attuale opzione autoritaria. Fino alla caduta del governo Meloni e oltre. Sicurezza sociale. Ciò che arde è contestazione non violenza di Loredana Lipperini L’Espresso, 18 dicembre 2024 Evocare per le manifestazioni il ritorno della lotta armata è insensato. E la storia lo dimostra. Negli anni Sessanta la stampa britannica insisteva, preoccupata, sulla criminalità giovanile, e qualche teorico sostenne che carcere e riformatorio peggioravano la situazione: perché allora non condizionare i piccoli delinquenti attraverso quella che veniva chiamata “la terapia dell’avversione”? Fu una proposta bislacca, e mai attuata, ma da quell’idea nacque uno dei capolavori del secolo scorso, Un’arancia a orologeria di Anthony Burgess, dove il giovane teppista Alex viene sottoposto alla cura sperimentale Ludovico per allontanarlo dalla tendenza a compiere il male. Non va proprio cosi?, come si ricorderà. Più tardi, Burgess torno? su quel libro, ricordando di essere stato deriso per aver manifestato le proprie paure nei confronti del potere dello Stato, anche se quel potere era gia? stato raccontato da Huxley e Orwell. Del resto, aggiunse, “le botte inflitte agli intellettuali capelloni e agli anarchici accaniti piacciono sempre all’uomo medio, anche se in realta? rivelano che il pensiero liberale e? soffocato (la Costituzione americana e? stata opera di intellettuali capelloni) e la dissidenza politica eliminata”. Altri tempi, si dira?. Vero, perche? non abbiamo Burgess e Huxley e Orwell, e di contro montano gli allarmi tutti italiani sulla criminalita? giovanile: a ricordare bene, proprio il film che Kubrick trasse da Un’arancia a orologeria venne proibito, non piu? di sette anni fa, durante l’autogestione del liceo Orazio a Roma in quanto trattava “temi troppo forti”. Da ultimo, si sono aggiunti altri pericolosi figuri da additare: coloro che bruciano fotografie. E? avvenuto il 23 novembre a Roma durante il corteo femminista, laddove i titoli dei giornali non riguardavano la grande affluenza ma una foto del ministro Valditara bruciata (per le reazioni di Valditara al fallo da contatto si veda la rubrica della settimana scorsa). E? avvenuto di nuovo durante lo sciopero generale del 29 novembre quando, a Torino, sono state date alle fiamme foto di Giorgia Meloni e, a quanto pare, un fantoccio di Salvini. Qui si avrebbe gioco facile nello scomodare gli storici sui significati dei falo? rituali, che continuano ad alzare fiamme al cielo a inizio anno come rito purificatore: ma neanche Carlo Ginzburg e Alessandro Barbero uniti in lectio magistralis convincerebbero coloro che equiparano bruciare una fotografia al ritorno della lotta armata. Dunque, ci si limita a evocare Strasburgo: perche? nel 2018 la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la Spagna ha violato la liberta? d’espressione di due cittadini condannandoli a 15 mesi di prigione per aver dato fuoco alla foto dei Reali: gesto, hanno detto i giudici, che non e? incitamento a odio e violenza ma critica politica. Non bastasse, c’e? la cosa preziosa di questa settimana, ovvero Una notte nella casa delle fiabe di Silvia Ballestra, che esce per Laterza. La cornice e? il racconto della permanenza nel Grimmwelt, il museo dei fratelli Grimm a Kassell. Dentro c’e? molto altro: la posizione di letterati e artisti sul nostro tempo, la liberta? d’espressione, il bisogno di utopia. Nonche? un fatto fra gli altri: i Grimm persero il loro posto all’Universita? di Go?ttingen, assieme ad altri cinque professori, per aver contestato l’abolizione della Costituzione da parte del Re. Per la cronaca, ci sono un bel po’ di fuochi nelle fiabe: perche? intorno ai fuochi si raccontavano e si tramandavano. Migranti. “Nel Cpr di Palazzo San Gervasio condizioni disumane” di Andrea Esposito L’Edicola del Sud, 18 dicembre 2024 Condizioni igienico-sanitarie precarie, somministrazioni massicce di psicofarmaci ai detenuti, violazioni dei diritti fondamentali della persona: sono solo alcune delle criticità che si riscontrano all’interno del centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Palazzo San Gervasio e che la rete di associazioni Cild, insieme con la parlamentare dem Rachele Scarpa, ha evidenziato in un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il corposo dossier è sul tavolo del procuratore aggiunto Maurizio Cardea e contiene le osservazioni e le denunce seguite agli accessi recentemente effettuati nel Cpr, le segnalazioni ricevute e i documenti raccolti giorno dopo giorno. Incluso il rapporto dell’organo anti-tortura del Consiglio d’Europa dal quale emerge la somministrazione incontrollata di psicofarmaci ai migranti detenuti nella struttura di Palazzo San Gervasio. Le ragioni dell’esposto sono presto dette: le segnalazioni presentate nel corso degli ultimi mesi alle autorità competenti non sarebbero mai state prese in carico, di qui la necessità di investire della questione la Procura della Repubblica di Potenza che è quella competente per territorio. Le ispezioni - A due giorni fa risale l’ultima ispezione all’interno del Cpr di Palazzo San Gervasio. Gli attivisti che hanno avuto la possibilità di accedervi parlano di criticità persistenti, persino più gravi rispetto a qualche mese fa. I migranti continuano a essere detenuti in condizioni indegne, tra l’altro in gabbie con inferriate che impediscono loro persino di vedere il cielo, in aperta violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che all’articolo 3 proibisce di sottoporre chicchessia a torture o pene o trattamenti inumani o degradanti. La struttura - Quello di Palazzo San Gervasio è uno dei tanti centri in cui vengono detenute le persone in attesa di essere espulse, cioè quelle che non hanno un permesso valido per rimanere regolarmente in Italia e la cui domanda di protezione internazionale è stata respinta. La struttura si trova in campagna, a breve distanza da Palazzo San Gervasio, su un terreno che negli anni Novanta ospitava una fabbrica di mattoni confiscata a un imprenditore vicino alla Sacra Corona Unita. In passato numerose inchieste hanno acceso un faro sulle condizioni degradanti in cui vivono gli ospiti del Cpr. Nel 2011, dopo la pubblicazione di un video registrato dai detenuti che mostrava una rivolta e un tentativo di fuga di massa, il centro fu chiuso, salvo poi essere riaperto nel 2017. Migranti in Albania, von der Leyen in soccorso di Meloni di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2024 “Valutiamo come anticipare i nuovi regolamenti”. Cosa cambia nella questione dei Paesi sicuri. Nella consueta lettera alle cancellerie europee che precede il Consiglio, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha annunciato la possibilità di anticipare l’entrata in vigore di una parte del nuovo Patto migrazione e asilo, quella che potrebbe sbloccare il Protocollo Italia-Albania dopo le decisioni dei giudici italiani. “Mentre il regolamento si applicherà a partire dal giugno 2026, stiamo valutando come anticipare l’applicazione di questi concetti”, ha scritto von der Leyen riferendosi ai concetti di Paese terzo sicuro e di Paese d’origine sicuro, quest’ultimo al centro delle sentenze della magistratura italiana che ha dichiarato incompatibile col diritto europeo la lista italiana dei Paesi “sicuri” messa a punto dal governo. Che l’anticipazione del Patto risolva ogni cosa, mettendo fuori gioco i giudici che, dice Giorgia Meloni, hanno scritto “sentenze ideologiche”? L’Italia ha deciso di trasferire in Albania solo migranti provenienti da Paesi d’origine che considera sicuri. Presumendo che abbiano meno probabilità di ottenere protezione, le loro domande possono essere esaminate in modo sommario. Tuttavia, per alcuni di questi Paesi l’Italia ha escluso categorie di persone a rischio. A ottobre la Corte di giustizia Ue ha stabilito che un Paese sicuro deve esserlo per tutti, ma su quella sentenza governo e magistratura sono in disaccordo, tanto che un nuovo parere della Corte Ue è atteso a primavera. Diversamente dalla normativa vigente, la riforma su migrazione e asilo, il Patto Ue approvato quest’anno ma non ancora operativo, prevede esplicitamente la possibilità di designare un Paese “sicuro” escludendo aree di territorio o gruppi persone, come quelle Lgbtqi+, le minoranze etniche o gli oppositori politici, tra gli altri. Possibilità che consentirebbe all’Italia di trattenere e sottoporre alle procedure d’asilo accelerate anche egiziani e bangladesi, finora liberati e mandati in Italia proprio per il cortocircuito sulla designazione di Paese sicuro. Detto, fatto? Von der Leyen dice “stiamo valutando”. L’attuazione del Patto comporta numerose modifiche, anche logistiche, per pensare di anticiparne l’intera applicazione. Quanto all’ipotesi di anticiparne una parte, quella relativa ai concetti di Paesi sicuri, il percorso comporta una proposta di legge della Commissione per modificare il precedente differimento al 2026, che va approvata da Consiglio e Parlamento. Trovato l’accordo, i tempi potrebbero essere brevi, anche pochi mesi, riuscendo forse ad anticipare la Corte Ue. Intanto, scrive von der Leyen, “abbiamo già chiesto all’Agenzia dell’Ue per l’asilo di accelerare la sua analisi dei Paesi terzi specifici che potrebbero potenzialmente essere designati come paesi di origine sicuri e paesi terzi sicuri, al fine di redigere elenchi Ue”. Quanto all’effettiva possibilità di rimpatriare le persone provenienti da Paesi come Egitto e Bangladesh, ad oggi limitata, l’Ue dovrà affrontare la revisione del concetto di Paese terzo sicuro, dal quale passa anche l’eventuale possibilità di creare hub in Stati extra Ue. L’intenzione c’è, come ha scritto von der Leyen, e del resto era stata prevista dal Pianto di attuazione del Patto. Inoltre, von der Leyen annuncia una proposta di riforma della direttiva rimpatri per marzo. E i giudici? Consentendo la designazione “parziale” di Paese sicuro, l’eventuale anticipazione del Patto supererebbe lo stallo. Ristabilita la compatibilità tra il diritto Ue e la lista di Paesi stilata dal governo, le persone potranno essere trasferite in Albania. Ma il trattenimento andrà comunque convalidato e, già in quella sede, il giudice avrà l’obbligo di verificare l’attuale situazione del Paese d’origine e, d’ufficio, la legittimità della sua designazione come “sicuro”. Lo ha già stabilito la Corte di giustizia europea nella sentenza del 4 ottobre scorso e difficilmente potrà smentirsi nel pronunciamento atteso per la prossima primavera. Che le liste dei Paesi siano nazionali o stilate dall’Unione (il Patto ne prevede la coesistenza), il giudice avrà comunque l’obbligo di verificare che la procedura d’esame della domanda sia corretta e così il trattenimento del richiedente. A farlo non saranno più le sezioni specializzate dei tribunali, che tanti dispiaceri hanno dato a Meloni e soci, ma le Corti d’appello, incaricate dal governo con un decreto. Se, in linea di massima, non ci sarà altro da eccepire sulla legittimità delle procedure, le domande respinte potranno comunque essere impugnate, ma i tempi sono stati ulteriormente ristretti e non è detto che le persone rinchiuse in Albania facciano in tempo a mettere insieme il ricorso. Migranti. Dai lager libici all’espulsione. “Il Governo finanzia una pratica illegale” di Marika Ikonomu Il Domani, 18 dicembre 2024 La denuncia delle Ong. Sette organizzazioni hanno portato al Tar l’intesa tra il ministero e l’agenzia dell’Onu. Le condizioni di detenzione nel paese impediscono un consenso libero e informato. Li chiamano rimpatri volontari. Nei fatti si tratta di vere e proprie espulsioni verso gli stessi Paesi da cui le persone migranti hanno deciso di partire. Il ministero degli Esteri (Maeci) a giugno 2024 ha autorizzato un finanziamento - attraverso il Fondo Migrazioni - di sette milioni di euro al progetto “Multi-sectoral support for vulnerable migrants in Lybia” dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Di questi, quasi un milione di euro verrà destinato ai rimpatri cosiddetti volontari umanitari, dalla Libia al paese d’origine, di 820 migranti vulnerabili. Contro questo finanziamento ha presentato ricorso al Tar del Lazio, il 18 novembre, un gruppo di organizzazioni della società civile, impegnate nella difesa dei diritti delle persone in movimento e nel contrasto alla violenza di genere. Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari ritengono che “dietro a questa cifra, stanziata per una presunta giustificazione umanitaria, si nascondano espulsioni mascherate che violano il principio di non refoulement, gli obblighi di protezione dei minori e delle persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere”. Al centro una questione: per una persona che si trova in un istituto di detenzione in Libia si può parlare di consenso libero e informato? Sono numerosi i rapporti internazionali che denunciano i rischi di condizioni inumane e degradanti. La missione di inchiesta indipendente dell’Onu sulla Libia ha rilevato “ragioni fondate per credere che i migranti in tutta la Libia siano vittime di crimini contro l’umanità e che atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani vengano commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria”. Violazioni che sono ritenute imputabili alle autorità libiche e ai gruppi armati. Così, l’Ufficio dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani (Ohchr) ha riconosciuto che molti migranti, soprattutto se detenuti, non sono in grado di prendere una decisione che possa essere definita volontaria ma, vedendosi negati percorsi di migrazione sicuri e regolari, sono di fatto costretti ad accettare il rimpatrio assistito per sfuggire a condizioni di detenzione arbitraria, tortura, violenze sessuali e altre violazioni dei diritti umani. Per l’Ohchr non c’è consenso libero, preventivo e informato e le persone rischiano di tornare a situazioni insostenibili. Sono elementi che minano la volontarietà di questi rimpatri e che violano il principio di non-refoulement, secondo cui un richiedente asilo non può essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la vita o libertà sarebbero minacciate. Per questo le sette organizzazioni italiane hanno chiesto al Tar di sospendere, in via cautelare, l’intesa tra il Maeci e l’Oim della durata di due anni (1 luglio 2024-30 giugno 2026). E chiedono, in via principale, di annullare il decreto e tutti gli atti connessi, perché questo finanziamento deve essere considerato illegittimo. L’udienza cautelare è prevista il prossimo 8 gennaio. Per finanziare il programma (Vhr) il Maeci usa i fondi destinati alla cooperazione: invece di sostenere lo sviluppo dei paesi e tutelare le popolazioni più vulnerabili, si promuovono politiche di esternalizzazione delle frontiere. Nel 2022, lo stesso Ohchr ha invitato gli stati “a non finanziare questi programmi in assenza di idonee garanzie sul rispetto del diritto di non respingimento”, scrivono le organizzazioni. “Una prassi sempre più spregiudicata - spiega Giulia Vicini, avvocata di Asgi e socia di Le Carbet - di utilizzo di accordi e fondi nei paesi terzi di transito, finalizzata al contenimento dei cosiddetti flussi migratori fuori dall’Europa”. I Vhr sono una parte sempre più significativa delle azioni dell’Oim nel paese, che forniscono anche un supporto tecnico alla cosiddetta Guardia costiera libica, le cui azioni sono state denunciate da diversi organismi. L’Italia, dal 2017, ha destinato oltre 25 milioni di euro all’intero programma. E, in base a un accesso agli atti, emerge come un gran numero di persone rimpatriate fossero detenute: il 43 per cento nel 2023, scrive l’Oim, e circa il 76,5 per cento dal 2017 al 2021. C’è un problema di trasparenza, denunciano le organizzazioni: una condivisione limitata e spesso disomogenea delle informazioni non consente di capire la portata delle misure. In alcuni casi il Maeci ha secretato i paesi d’origine, non ha diffuso i dati disaggregati in base al genere, all’età e alla nazionalità. Solo in alcuni rapporti ha specificato il numero di persone detenute, mentre non ha mai fatto sapere i nomi dei centri di detenzione libici. Dai pochi dati disponibili emerge, però, il rimpatrio di donne, minori, persone sottoposte a tratta e con vulnerabilità mediche, provenienti, tra gli altri, da Nigeria, Mali, Bangladesh. Sotto una veste umanitaria, si nasconde quindi un tassello fondamentale delle politiche di esternalizzazione delle frontiere, un processo “estremamente pericoloso”, segnala Vicini, “in assenza di alternative quali l’integrazione locale (impossibile in questi paesi anche in virtù della totale assenza di dispositivi di protezione) e di reinsediamento”. Aprendo quindi, concludono le organizzazioni, “canali di mobilità forzata verso i paesi di origine, fornendo al contempo una legittimazione umanitaria alla cooperazione con la Libia”. Droghe. Ayahuasca, proibizione e ricorso all’Onu di Marco Perduca Il Manifesto, 18 dicembre 2024 Tre le prime decisioni del Ministro della Salute Orazio Schillaci c’è stata la tabellazione, cioè proibizione, dell’ayahuasca. L’ayahuasca è un decotto psicoattivo originario dell’Amazzonia impiegato da secoli dalle popolazioni indigene in cerimonie spirituali e di guarigione. Solitamente viene preparata con la banisteriopsis caapi e la psychotria viridis e contiene dimetiltriptamina (DMT) - un principio attivo che induce visioni e alterazioni dello stato di coscienza - tabellato internazionalmente. Come malamente raccontato la scorsa primavera a proposito della morte di Alex Marangon, l’ayahuasca viene assunta sotto la guida di uno sciamano o conduttore esperto e viene associata a processi di introspezione, guarigione spirituale e connessione con la natura. Oltre all’ayahuasca, il Ministro Schillaci e i suoi consiglieri hanno pensato bene di includere anche le piante necessarie per prepararla, nonché i relativi principi attivi, nella tabella degli stupefacenti il cui uso non medico o scientifico è proibito. Da qualche anno l’ayahuasca ha acquisito popolarità anche in Europa e negli Stati Uniti; in Italia si parla di decine di migliaia di persone che la hanno usata per via dei suoi potenziali benefici terapeutici e l’uso spirituale. Non si ha notizia di morti provocate da “abuso” o “overdose” di ayahuasca. Nelle sue memorie difensive, il Santo Daime ha chiarito che nei loro protocolli la presenza di principio attivo era tanto costante quanto molto diluita. Secondo il Ministro Schillaci, spalleggiato dall’Istituto Superiore della Sanità, la tabellazione a livello nazionale si sarebbe resa necessaria a causa di due, dicasi due, intossicazioni di una decina di anni fa, “probabilmente” riferibili all’ingestione del decotto - cioè in assenza di referti tossicologici inoppugnabili, e cinque confische avvenute solo nel nord Italia. Per giustificare la decisione sono stati acclusi 12 studi pubblicati prima che l’ayahuasca diventasse nota al di fuori della regione andino-amazzonica ed entrasse negli interessi di centinaia di ricerche. Tutti i ricorsi al TAR del Lazio della Chiesa Italiana ICEFLU, afferente al Santo Daime, sono stati rigettati, così come l’appello al Consiglio di Stato. A fine novembre scorso, l’Associazione Luca Coscioni, grazie a Science for Democracy, ha promosso un ricorso, tecnicamente chiamato “comunicazione” al Comitato Onu sui Diritti Economici, Sociali e Culturali contro la tabellazione di Schillaci. La vittima ha la cittadinanza italiana e ha avuto accesso all’ayahuasca. La comunicazione alle Nazioni unite accusa l’Italia di aver violato il “diritto a partecipare alle attività culturali” e quello a “politiche basate sulla scienza” nonché l’obbligo di “permettere la partecipazione del pubblico a decisioni scientifiche” rintracciabili all’articolo 15 del Patto internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali - il cosiddetto “diritto alla scienza”. Il ricorso evidenzia l’assenza di evidenze scientifiche (totalmente ignorata la sterminata letteratura scientifica non critica dell’ayahuasca) e la mancata partecipazione della società civile e/o di portatori di interessi alla decisione. La comunicazione è stata predisposta dai Professori Cesare Romano, della Loyola Law School di Los Angeles, segretario di Science for Democracy e Andrea Boggio della Bryant University del Rhode Island. È la prima volta che un caso relativo a sostanze psicoattive viene incardinato all’Onu in virtù del diritto a beneficiare del progresso scientifico e delle sue applicazioni aprendo interessanti prospettive giurisprudenziali e politiche con possibili più ampie implicazioni. “Avvocatura in campo contro i regimi: i diritti non sono mai al sicuro” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 18 dicembre 2024 “L’attenzione degli avvocati italiani per il rispetto dei diritti umani e dei principi dello Stato di diritto è stata sempre molto alta, tuttavia negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che occorre una vera propria mobilitazione, in un’epoca in cui la repressione del dissenso ad opera dei regimi autoritari e le guerre in corso, che stanno producendo inauditi massacri di civili, hanno drammaticamente dimostrato che nessun diritto e nessuna libertà possono essere dati per acquisiti per sempre”. A sottolinearlo è Leonardo Arnau, coordinatore della Commissione Diritti umani e protezione internazionale del Consiglio nazionale forense. Che puntando il faro sulla sistematica violazione dei diritti in Iran, ricorda che vigilare sulla tenuta democratica di un Paese è un’azione costante e necessaria, in ogni angolo del mondo. Laddove le donne, gli attivisti e gli avvocati - colpiti nell’esercizio della propria funzione - sono il primo bersaglio della repressione. L’ultimo “segnale”, a Teheran, risale a venerdì scorso. Quando la polizia è piombata nell’appartamento di Reza Khandan, marito dell’avvocata e attivista Nasrin Sotoudeh, per trascinarlo in prigione. Proprio nel giorno in cui era prevista l’entrata in vigore di una nuova stretta sul velo, la cui promulgazione è stata al momento sospesa dal presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Persecuzione giudiziaria, accuse fasulle, pugno duro sul velo. Il regime iraniano dichiara “guerra” alle donne? Il regime iraniano, purtroppo, attraverso la strumentalizzazione dell’obbligo di portare il velo, porta avanti una violenta e inaccettabile persecuzione delle donne da moltissimi anni, che si traduce in inaudite forme di discriminazione. La “punizione” dei membri della famiglia dell’avvocata Nasrin Soutodeh, cui il Cnf lo scorso anno ha attribuito il premio dell’Avvocatura italiano per il suo impegno per i diritti umani e contro l’obbligo del velo, per il quale sta pagando un prezzo altissimo, è una prassi ricorrente. Reza Khandan, marito di Nasrin, era stato arrestato nel settembre 2018 e accusato di “diffusione di propaganda contro il sistema” e “collusione per commettere crimini contro la sicurezza nazionale”, per aver protestato contro la legge sull’hijab obbligatorio, distribuendo spille con la scritta: “Mi oppongo all’hijab obbligatorio”. Rilasciato su cauzione nel dicembre 2018, successivamente, nel gennaio 2019, è stato condannato a sei anni di reclusione, insieme a un altro attivista. Il 13 febbraio dello scorso anno era stato convocato in carcere per l’esecuzione della sentenza e venne poi rilasciato dopo una grande mobilitazione dell’avvocatura internazionale che, attraverso la coalizione Endegered lawyer, di cui il Cnf fa parte, aveva chiesto l’intervento dei due relatori speciali dell’Onu per i diritti umani e l’indipendenza di giudici e avvocati, del Parlamento e della Commissione dell’Unione europea, del Consiglio d’Europa. Lo stesso abbiamo fatto in questa occasione e speriamo che la mobilitazione sia ancora più grande. Della violazione sistematica dei diritti delle donne in Iran si è parlato a lungo nel webinar organizzato dal Cnf e dalla Ssa (Scuola superiore dell’Avvocatura), in occasione del 10 dicembre, Giornata mondiale dei diritti umani, con la partecipazione di quasi mille avvocati: una risposta simbolica alla repressione degli ayatollah? L’attenzione degli avvocati italiani per il rispetto dei diritti umani e dei principi dello Stato di diritto è stata sempre molto alta, tuttavia negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che occorre una vera propria mobilitazione, in un’epoca in cui la repressione del dissenso ad opera dei regimi autoritari e le guerre in corso, che stanno producendo inauditi massacri di civili, hanno drammaticamente dimostrato che nessun diritto e nessuna libertà possono essere dati per acquisiti per sempre. Anche in Italia, purtroppo, sia pure in un contesto assai diverso, si moltiplicano gli episodi di violenza e minacce contro colleghi che adempiono il proprio dovere sia in sede penale, dove anche all’imputato del peggiore dei delitti deve essere assicurato un giusto processo, che in sede civile dove, specialmente nell’ambito di contenziosi legati al diritto di famiglia oppure alle amministrazioni di sostegno, non mancano gravi episodi di aggressioni e minacce che, in realtà, finiscono per rendere più indifesi tutti i cittadini. Nel 2024 la Giornata degli avvocati in pericolo, che ricorre il 24 gennaio, è stata dedicata proprio all’Iran. Mentre nel 2025 il focus sarà sulla Bielorussa. Qual è stato l’impegno del Cnf e dell’avvocatura istituzionale nell’ultimo anno? Un impegno a tutto campo, non solo in favore degli avvocati iraniani arrestati, almeno 66, e perseguitati a seguito della violenta repressione delle manifestazioni svoltesi nel Paese nei mesi successivi alla morte di Masha Amini, la ventiduenne ragazza curda morta a seguito delle torture subite dalla “polizia morale”, che l’aveva arrestata il 13 settembre 2022. Il Cnf, anche attraverso l’azione svolta in seno all’Osservatorio degli avvocati in pericolo (Oiad), di cui è cofondatore, e agli Ordini forensi europei (CCBE), svolge una costante attività di denuncia delle violazioni dei diritti fondamentali, in un numero purtroppo sempre più elevato di Paesi. Questo è possibile grazie all’impegno degli osservatori internazionali dei processi a carico degli avvocati identificati con i loro clienti, i cui rapporti costituiscono un’insostituibile fonte di notizie. Inoltre l’Osservatorio svolge azioni concrete di sostegno agli avvocati costretti a lasciare i loro Paesi di origine e a chiedere asilo politico in Europa. Nel corso del webinar si è parlato anche dell’impossibilità, per le persone arrestate, di scegliere un difensore. Il regime ha paura degli avvocati? L’articolo 48 del codice di procedura penale iraniano, in caso di crimini contro la sicurezza interna o esterna, obbliga a rivolgersi unicamente agli avvocati inseriti in una lista approvata dal capo della magistratura. È evidente che si impedisce agli avvocati di svolgere il proprio ruolo per reprime ogni forma di dissenso. Il sistema giuridico iraniano si basa sulla Sharia. Che ne è del diritto in una teocrazia? L’Iran ha una storia di civiltà millenaria, oggi messa in crisi dal venir meno del principio della laicità dello Stato, sul quale si basano le nostre democrazie, che tutelano la libertà di culto nei confronti di tutti i credi religiosi. Tuttavia, questo non è sufficiente, occorre evitare sia di condannare le singole religioni le quali se non strumentalizzate meritano tutte rispetto, sia l’affermarsi di forze politiche che le utilizzano per alimentare odio e discriminazione. Siria. L’attesa nel campo dei jihadisti detenuti e dimenticati dal mondo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 dicembre 2024 Al-Hol, il “non luogo” in cui le Sdf temono un attacco imminente delle milizie filoturche. Ne restano 42mila, membri dell’Isis e le loro famiglie. “I paesi di origine se ne disinteressano”. Nel campo di al Hol si aspetta. L’allerta è massima, ed è duplice: c’è l’attesa preoccupata delle Forze democratiche siriane, le Sdf, e l’impazienza ottimista di decine di migliaia di detenuti. È ormai sempre più concreta la possibilità che le milizie jihadiste filo-turche arrivino fino al campo alle porte di al-Hasakah, nella piana desertica che conduce in Iraq, taglino le reti di protezione, calpestino la difesa umana di combattenti siriani, curdi e arabi, e liberino quello Stato islamico in miniatura. “Il rischio di un attacco è alto - racconta al telefono Serwan, membro della Mezzaluna curda - Ce lo dice l’esperienza. Ci provarono durante l’invasione di Serekaniye. Non solo ad al-Hol ma anche in altri centri di detenzione dove ci sono state già rivolte, come quella terribile ad Hasakah nel 2021. Simili aggressioni minacciano la sicurezza di tutta la regione. A Deir Ezzor l’Isis si sta già riorganizzando”. Il campo di al-Hol è un luogo (non-luogo) agghiacciante. Migliaia di tende sporche e appiccicate una all’altra, chiuse dentro un recinto lungo chilometri. Il vento alza la sabbia, copre tutto di granelli che pizzicano gli occhi e la gola. L’immondizia avvolge l’intero perimetro, anche la porzione meno problematica, quella dei negozietti e dell’ospedale. Bambini con i vestiti luridi girano per le tende, insultano, lanciano sassi. Si accendono una sigaretta, avranno sì e no dieci anni. Donne con il volto coperto guardano in terra, altre ti penetrano con gli occhi. Alcune parlano russo, altre arabo, la maggior parte si muove silenziosa. Era così che al-Hol ci appariva tre anni fa. All’epoca nel campo gestito in solitudine dall’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est, vivevano in 60mila, membri dell’Isis e le loro famiglie, provenienti da una sessantina di paesi diversi. “Oggi sono circa 42mila - spiega Serwan - Negli ultimi tempi alcuni paesi hanno iniziato a rimpatriarli, l’Iraq in particolare. La Danimarca ha accettato di riprendersi i minori. Per il resto, la maggior parte dei paesi di provenienza, europei e centro-asiatici, se ne disinteressano. Non cercano una soluzione, non hanno alcun piano, soprattutto per i bambini. Meriterebbero un’altra vita, di studiare e crescere lontano dalle scelte dei propri genitori”. Di tanti bambini, la metà dei detenuti di al-Hol, non esistono nemmeno i certificati di nascita o documenti di identità. A volte non si sa chi sia il padre. Nel campo gli uomini sono divisi dalle donne e i bambini, i siriani e gli iracheni sono divisi dai foreign fighters. I servizi, acqua pulita, scuola, sanità, sono scarsissimi: tutto ricade da anni sulle spalle dell’Amministrazione che fa quel che può. E può poco, sotto embargo e isolata dal resto del mondo dall’occupazione turca. A presidiare il campo ci sono le Forze democratiche siriane e non è facile. È come svuotare il mare con un cucchiaio: in quel limbo di miseria si sono ricreate le stesse dinamiche gerarchiche dello Stato islamico, che si auto-alimenta grazie alle giovani generazioni. A gestire quelle dinamiche sono le donne, non solo madri e mogli, ma ingranaggi fondamentali della macchina jihadista che fu la creatura di Abu Bakr al-Baghdadi, all’apice del suo “splendore”. È ancora così, ci dice Serwan: omicidi, aggressioni, roghi di tende ma anche indottrinamento e contrabbando. Di recente un membro della Mezzaluna è stato ucciso a colpi di pistola, un medico straniero della Croce rossa è stato ferito a coltellate. C’è anche chi riesce a scappare, da tunnel scavati sotto terra, e c’è chi fa entrare armi e telefoni. “Sono violenti anche tra di loro, contro chi prova ad allontanarsi da quel sistema e cercare un dialogo con noi. Persiste una mentalità di radicalizzazione. Indottrinano i bambini e li addestrano. I più grandi vengono fatti sposare, matrimoni precoci da cui nascono altri bambini. Per questo l’Amministrazione toglie i ragazzini dal campo quando compiono 14 anni per portarli in centri di deradicalizzazione”. “Serve rimpatriarli, serve un tribunale internazionale che li giudichi”, conclude Serwan. L’occidente, che sulla lotta all’Isis ha costruito regimi di “sicurezza” razzializzata, politiche migratorie draconiane e narrazioni da scontro di civiltà, finge che sia tutto risolto. Il problema è ricaduto su altri, un’altra forma di “esternalizzazione” delle frontiere. Ora, con l’avanzata turco-jihadista, il bubbone è pronto a riesplodere. Ecuador. Stop al carcere “stile Bukele” di Andrea Cegna Il Manifesto, 18 dicembre 2024 Le mobilitazioni popolari nella provincia di Napo, in Ecuador, hanno obbligato il governo a sospendere il progetto di costruzione di un carcere di massima sicurezza a Archidona. “Di fronte al malcontento di più dell’80% del popolo amazzonico, alla resistenza e alla lotta nelle strade per 15 giorni il governo ha deciso di non costruire più il carcere di massima sicurezza ad Archidona e nella regione amazzonica”, afferma Luis Canelos, presidente della nazionalità Kichwa di Pastaza. Con un comunicato diramato nel primo pomeriggio dal ministero dell’Interno, e mentre era in corso una imponente manifestazione contro il progetto, il governo Noboa ha fatto sapere di “accettare” la proposta del sindaco di Salinas e trasferire nella provincia di Santa Elena la costruzione del penitenziario. Il giovane presidente, che a febbraio cercherà di essere rieletto, aveva promesso in campagna elettorale di costruire due carceri speciali sul modello del “Centro di confinamento per terroristi” (Cecot) pensato e edificato da Bukele nel Salvador. La decisione è arrivata “un po’ a sorpresa”, sostiene Andrés Tapia, ex dirigente della Confeniae (Confederazione delle nazionalità indigene dell’Amazzonia ecuadoriana). “Tutto faceva pensare che non fossero disposti a cedere. Questa è una battuta d’arresto politica per il governo. Non so se la parola esatta sia vittoria, certamente c’è stato un trionfo politico del popolo che si è mobilitato”. La provincia di Napo è una delle tre meno violente di un paese che negli ultimi cinque anni ha incassato il tasso di omicidi più alto del continente, con 46 morti violente ogni 100.000 abitanti e un incremento del 71,5% rispetto al 2022 e dell’800% rispetto al 2018. La paura che la costruzione del carcere potesse trasferire nel Napo la violenza è stata il detonatore della protesta. L’altro grande asse della mobilitazione è stato quello della difesa del territorio che permette alla provincia di essere una meta di turismo nonché territorio di sviluppo della cosmogonia indigena. Pur riconoscendo il risultato, Luis Canelos osserva: “Piuttosto che carceri abbiamo bisogno di investimenti nel sociale, nel sistema educativo, affinché i nostri figli e le nostre figlie non siano disoccupati. Servono progetti di politica pubblica per l’infanzia. Le carceri in questo Paese e nella società non costruiscono vite migliori e neppure buoni cittadini, perché è dalle carceri che viene controllato il narcotraffico in Ecuador. Noi, popoli indigeni, lottiamo per rivendicare non solo i nostri diritti, ma quelli di tutti e tutte”. La Confederazione delle Nazionalità indigene dell’Ecuador ha festeggiato ribadendo che la lotta per “la difesa della foresta, della vita e del territorio rimane la nostra priorità”, e si dice pronta a mobilitarsi al fianco delle popolazioni di Salinas e Bajanda Chanduy qualora scendano in piazza contro la costruzione delle carceri speciali. Le proteste sono cresciute giorno dopo giorno, Conaie, Confeniae, o i gruppi organizzati di Pastaza si sono aggiunti in un secondo momento aiutando a mediatizzare la lotta e radicalizzarla. Secondo Tapia questo ha generato “un indebolimento del governo e del presidente. Così, anche per motivi elettorali, non tanto in termini di voti perché nella zona Amazzonica i numeri non sono decisivi ma per questioni d’immagine, il governo ha deciso di tornare sui suoi passi”. Il progetto di “bukelizzare” l’Ecuador non sta riuscendo a Noboa.