Carceri sovraffollate? Amnistia e indulto per svuotarle di Emanuele Nuccitelli dire.it, 17 dicembre 2024 A novembre i detenuti nelle strutture del Lazio sono cresciuti a 6.802, il 5,2% in più rispetto ai 6.465 dell’anno precedente. Il tasso di affollamento, quindi, ha raggiunto il 149%. In questo contesto, il 26 dicembre Papa Francesco aprirà la Porta Santa del Giubileo a Rebibbia. Per il Garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, questo gesto “infonde fiducia e speranza tra le persone detenute: la fiducia che una parte larga della popolazione italiana, assai più ampia della comunità cattolica, non smette di sentirli come fratelli e sorelle con eguali diritti e dignità, nonostante i casi della vita li abbiano portati in carcere; la speranza che questo segno di attenzione della Chiesa e del Papa, corredato da un’esplicita esortazione ai Governi ad assumere ‘forme di amnistia e condono della pena’, abbia seguito anche qui in Italia, dove - come è del tutto evidente - ce ne è un assoluto e urgente bisogno, per restituire dignità alle condizioni di vita e di lavoro dei detenuti e degli operatori penitenziari”. Il sovraffollamento del carcere Regina Coeli è pari al 191,3%, un record. Come si arriva a questa cifra e come si può ridurre? Cosa servirebbe per migliorare la condizione carceraria e farla tornare così alla sua funzione originaria? “Regina Coeli è uno dei grandi portali di ingresso al sistema penitenziario italiano, insieme alle altre ‘case d’arrestò delle grandi città italiane: di qua entra in carcere l’80% delle persone detenute, per poi essere distribuite nelle altre carceri. Quando si arriva, come oggi, al ‘tutto esaurito’, le case d’arresto scoppiano, non potendo più trasferire negli altri istituti i detenuti in eccesso. Intanto, e nonostante il Giubileo, che porterà a Roma milioni di pellegrini, bisogna raccomandare alle forze di polizia e all’autorità giudiziaria di esercitare con misura il ricorso alla detenzione, sia in fase cautelare che esecutiva. Poi, certo, servirebbero provvedimenti di carattere generale, che non riguardano solo Regina Coeli, ma l’intero sistema penitenziario, a partire da un provvedimento di amnistia e indulto di due anni, che consenta di azzerare il sovraffollamento facendo uscire dal carcere i detenuti a fine pena o condannati per reati minori; dall’adozione del numero chiuso penitenziario, che impedisca il ritorno del sovraffollamento, affidando all’autorità giudiziaria la valutazione della stretta necessità e delle priorità nella carcerazione; infine investendo nei servizi sociali territoriali, in modo che la marginalità sociale non sia destinata a finire in carcere perché priva di ogni misura di sostegno in libertà. In questo modo, e solo in questo modo, il carcere potrebbe riuscire a svolgere la sua funzione rieducativa per i condannati per gravi reati”. Come è composta la popolazione carceraria nel Lazio? Quali sono oggi le persone detenute e in quali condizioni tornano libere? “Nel Lazio abbiamo una incidenza più alta che nel territorio nazionale di persone in attesa di giudizio, sia di primo grado che appellanti o ricorrenti in Cassazione, ma una percentuale inferiore alla media nazionale di persone di cittadinanza non italiana. E’ questo l’effetto della fragilità di una rete di prevenzione e protezione sociale che espone non solo gli stranieri a una criminalità di sussistenza. La fragilità di questa rete fa sì che in carcere ci vadano prevalentemente persone che non hanno risorse relazionali, economiche, culturali che gli consentono di accedere alle alternative alla detenzione, e questa discriminazione si riproduce all’interno del carcere, per cui sono sempre meno le persone che riescono ad accedervi dal carcere. Il risultato è l’alto tasso di recidiva che si registra tra le persone che scontano la loro pena integralmente in carcere”. I detenuti in attesa di giudizio sono 2.181 corrispondenti al 32,5% vale a dire sette punti in più rispetto alla media nazionale del 25,5%. Un numero enorme. Come si può incidere su questo aspetto? “Anche questo non è un problema che si può risolvere con qualche modifica alle norme sulla custodia cautelare, anche se possono essere condivisibili. Nei grandi numeri (e il 32,5% di detenuti in attesa di giudizio sono grandi numeri) conta soprattutto la “detenzione sociale”: le persone costrette in carcere perché prive di un domicilio, che si teme di non riuscire a portare a processo oppure che possono reiterare reati di sussistenza. La giustizia penale non è un’isola: senza giustizia sociale i suoi problemi non verranno mai risolti”. Quante sono le donne detenute? E le mamme? Qual è la loro situazione attualmente? “Tradizionalmente, non solo in Italia, le donne sono una esigua minoranza nella popolazione detenuta: al 30 novembre, in Italia, 2.737 a fronte di 59.690 uomini, il 3%. Nel Lazio sono di più, ma solo perché a Roma, a Rebibbia, c’è il più grande carcere femminile d’Europa, con quasi 400 detenute. Il carcere è una istituzione maschile, fatta e pensata per gli uomini, in cui spesso le donne sono costrette a subire la loro scarsa rilevanza quantitativa attraverso una minore offerta di opportunità culturali, scolastiche, sportive o lavorative. Un problema nel problema è quello delle detenute che convivono in carcere con i figli neonati o poco più. Sono anni che si cerca di affrontare questo problema, garantendo il duplice diritto dei bambini e delle bambine a crescere con le proprie madri e a farlo fuori dagli istituti penitenziari. A Roma abbiamo una esperienza pilota, quello della Casa famiglia protetta dedicata a Leda Colombini, ma in carcere in Italia ci sono ancora quindici donne con diciassette bambini, due dei quali a Rebibbia. Si può fare di più e arrivare allo storico obiettivo di non avere più alcun bambino in carcere, ma bisogna innanzitutto modificare il ddl sicurezza governativo che amplia la possibilità di incarcerazione delle condannate incinte o con neonati con meno di un anno di età. Al di là dei suoi effetti pratici, che speriamo possano essere nulli, il rischio è innanzitutto culturale, di rilegittimazione tra gli operatori della giustizia della detenzione di madri e bambini”. Perché superare il carcere? Ora lo spiega anche un podcast di Ludovica Cherubini Scarafoni L’Unità, 17 dicembre 2024 “Dialoghi Abolizionisti” è ideato dal Master in Criminologia critica e sicurezza sociale dell’Università di Padova e di Bologna, ed è disponibile sulla piattaforma Spreaker. La necessità di divulgazione pubblica di un tema relegato ai margini può palesarsi in molti modi. Uno di questi si sostanzia in Dialoghi Abolizionisti, un podcast uscito sulla piattaforma Spreaker e ideato dal Master in Criminologia critica e sicurezza sociale dell’Università di Padova e di Bologna, in particolare dagli studiosi Giuseppe Mosconi, Alvise Sbraccia, Francesca Vianello ed Elton Kalica. Già dal titolo, emerge la volontà di dar vita ad una rete di riflessione aperta che, a partire dal coinvolgimento di molte voci - come Patrizio Gonnella, Stefano Anastasia, Dario Melossi e altri esperti - conduca il tema del superamento del carcere e tutto ciò che concerne la cosiddetta questione criminale fuori dai confini di una nicchia ristretta, a favore dell’urgente realismo che questi temi portano con sé. A fronte della complessità del tema che attraverso questi dialoghi si vuole mantenere più viva che mai, emergono visioni e pratiche molteplici che legittimano la declinazione plurale del termine abolizionismo. Fuori dalle differenze, tuttavia, risulta solidamente una comunanza di sguardi che funge da filo rosso. Da un lato, rispondente ai bisogni che la storia del carcere, nonché la sua condizione presente, fanno emergere, dall’altro, apripista di una prospettiva ampia che supera i confini del penale. Partendo dal disallineamento tra diritto formale e sostanziale, risulta senza mezzi termini che limitarsi alla proposta di un carcere migliore non basta. Se guardiamo al contesto penitenziario, infatti, ciò non può che palesarsi nella contraddizione tra le forme e il funzionamento dell’istituzione e il proposito rieducativo costituzionalmente previsto. Per questo, fare spazio all’abolizionismo significa mutare le condizioni, posizionarsi fuori da un linguaggio repressivo diffuso che guarda al carcere, e al penale in generale, come armi predilette di risoluzione di problemi sociali, in nome di un’egemonica sicurezza che come feticcio risulta piuttosto coincidente con gli interessi di pochi, a scapito dei bisogni di tutte e tutti. Nella pervasività sociale del binomio manicheo tra bene e male, che il crescente ricorso al penale catalizza, emerge la necessità di decostruire le categorie e gli strumenti attraverso i quali si risponde ai bisogni dell’intera società, allontanandosi dalla permanente ricerca di un capro espiatorio che trova nei marginali la destinazione preferenziale. Destinazione che si esprime come strutturale negazione di diritti che, per la natura stessa della pena carceraria, non possono che finire subordinati, relegati ad uno spazio residuale - come afferma la Prof.ssa Vianello nel suo intervento. Il suo funzionamento pratico, infatti, non ci permette di prescindere dal porsi l’interrogativo di “rieducare a che cosa?” se non ad un sistema valoriale, etico e morale, che sempre più attraversa gli spazi del penale, alimentando, con un intento primariamente simbolico, il controllo e la disciplina a scapito di una responsabilizzazione diffusa. In questo senso, i diritti rischiano di divenire concessione e la pretesa della persona ristretta accondiscende l’interesse istituzionale, presentandosi piuttosto come conformazione ad un modello imposto, fuori da quell’uguaglianza sostanziale costituzionalmente prevista che permette di resistere ad un’omologazione sociale, dove le differenze soccombono. Ecco che l’abolizione prende forma scostandosi da categorie a cui si è genericamente socializzati. Non a caso, un processo decostruttivo non può che iniziare focalizzandosi sulla natura artificiosa del reato. Ciò permette di comprendere che esso non è che il prodotto di scelte di criminalizzazione, che, contro la dichiarata pretesa preventiva, finiscono per produrre e riprodurre condotte etichettate come criminali, specchio di una selettività arbitraria che, animata da un disagio diffuso, non fa che esprimere le asimmetrie di potere all’interno della società. Basta guardare alle caratteristiche della popolazione detenuta per averne la conferma e per comprendere la declinazione sostanziale delle politiche penal-securitarie, dimostrative di un ripensamento delle condizioni presenti quanto meno realistico se quegli spazi venissero occupati da strumenti di sicurezza sociale. In questo senso, l’abolizionismo porta con sé un intento costruttivo che le pratiche proposte da questi dialoghi esprimono, tenendo fermi i capisaldi di uno sguardo comune che non può prescindere dalla volontà e responsabilità politica di dar vita ad una società diversa. “È drammatica la situazione sanitaria dei detenuti. Telemedicina e AI per prevenire suicidi” di Cesare Buquicchio trendsanita.it, 17 dicembre 2024 Giovanni Russo (Dap): “Il Dipartimento avverte come una propria manchevolezza la difficoltà a garantire ai cittadini detenuti un’assistenza sanitaria corrispondente a quella dei cittadini liberi”. La riflessione del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Spesso saltano visite perché non c’è personale per i trasferimenti. Ma oltre 45 istituti sono già dotati di strumenti che attuano la telemedicina”. “Le nostre radici affondano nell’umanesimo. Vogliamo essere educatori di soggetti che hanno sbagliato, non custodi di corpi. Riconosciamo che alcuni detenuti necessitano di trattamenti di sicurezza, ma crediamo fermamente che abbiano diritto a una nuova chance. L’obiettivo è un trattamento individualizzato, che riconosca la dignità e le specificità di ogni singola persona”. Parte dai corpi dei detenuti e delle detenute la riflessione del Capo del DAP - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Giovanni Russo, con TrendSanità. Corpi che, al pari di chi sta fuori dal carcere, hanno il pieno diritto di vedersi tutelati nella sfera della salute fisica e mentale. “La salute è un aspetto fondamentale. Quando parlo direttamente con i detenuti nei miei giri nelle carceri italiane, non emerge per primo il problema del sovraffollamento o dei diritti presuntamente negati nei penitenziari, temi su cui siamo impegnati tutti i giorni e su cui c’è una evoluzione positiva. Quello che rilevo è, piuttosto, una condizione drammatica sul fronte sanitario. Sebbene la sanità penitenziaria sia di competenza delle ASL, il Dipartimento avverte come una propria manchevolezza la difficoltà a garantire ai cittadini detenuti un’assistenza sanitaria corrispondente a quella dei cittadini liberi”. Quali sono le principali problematiche? “Un problema significativo riguarda gli interventi diagnostici. Un numero considerevole di accertamenti doverosi non viene realizzato perché richiederebbe di portare il detenuto fuori dall’istituto in un ospedale. Non si tratta di diagnostica altamente specializzata, ma di esami di base. Molte di queste trasferte non avvengono per mancanza di personale, generando un’aspettativa doverosa che però viene frustrata. Questo produce rancore e priva il detenuto della possibilità di effettuare gli accertamenti necessari che possono prevenire problematiche più serie”. Come incide la composizione multietnica della popolazione carceraria sui bisogni sanitari? “La multietnicità così presente negli istituti richiede un approccio preventivo e curativo personalizzato e individualizzato. L’istituto penitenziario è una collettività forzata caratterizzata da una pronunciata multietnicità, la più alta che viene riscontrata nella nostra società. Circa un terzo della popolazione non appartiene alla nostra comunità originaria, portando con sé patologie e reattività a terapie del tutto innovative per noi. Questo richiede un approccio preventivo e curativo personalizzato e individualizzato, in linea con la filosofia moderna dell’esecuzione della pena. Il trattamento penitenziario e rieducativo non può essere fatto per masse o per corpi, ma deve essere necessariamente individuale”. Quali particolarità ha riscontrato nella salute delle detenute? “Ecco, a proposito della pluralità di interventi diversi a cui siamo chiamati, quello per le donne è molto importante e delicato. Le detenute rappresentano circa il 4% della popolazione carceraria e presentano una compresenza di più patologie. Mostrano una presenza di disturbi psichiatrici e psicologici molto più pronunciata rispetto ai detenuti uomini”. Come vi state attrezzando per dare risposte a queste esigenze? “Anche per rispondere a queste necessità stiamo investendo in tecnologia. Stiamo implementando il metaverso e la telemedicina: oltre 45 istituti sono già dotati di strumenti che attuano la telemedicina con risultati più che soddisfacenti, risolvendo parzialmente i problemi di trasferimento del detenuto a cui facevamo riferimento prima”. Quali altri risultati possono arrivare dall’innovazione tecnologica nel sistema penitenziario? “La vera svolta la avrà l’intelligenza artificiale. Attraverso la nostra partecipazione al recente comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, siamo riusciti a ottenere che l’intelligenza artificiale abbia dignità di presenza nell’ambito del trattamento penitenziario. Non pensiamo a un Grande Fratello, ma a un’azione più specifica e capillare dei bisogni del singolo detenuto, soprattutto nella prevenzione dei suicidi. Stiamo lavorando con l’AGID - Agenzia per l’Italia Digitale - per individuare sistemi di allerta e rilevazione che, senza intaccare la privacy e la dignità del detenuto, ci aiutino a comprendere i processi degenerativi e a cogliere i segnali precoci di disagio”. Associazione Coscioni: “Carceri, chiediamo accesso alle relazioni, dopo le diffide a 102 Asl” agenziagiornalisticaopinione.it, 17 dicembre 2024 Abbiamo chiesto formalmente di vedere le relazioni delle visite delle Asl. Nel frattempo invitiamo chi conosce la situazione penitenziaria a denunciarla in modo sicuro e anonimo al sito FreedomLeaks.org. Secondo il sito l’analista indipendente Marco Della Stella, al 9 dicembre 2024 in Italia sono 62.283 le persone detenute a fronte di una capienza ufficiale di 51.165 posti. Di questi, però, 4.478 posti non sono disponibili. Il tasso di affollamento è quindi del 133,4%. Durante l’estate era poco sotto il 130%. Per questi motivi, e di fronte al silenzio delle istituzioni, ad agosto scorso l’Associazione Luca Coscioni ha diffidato le 102 Asl competenti per la salute nelle 189 carceri italiane per chiedere loro di adempiere al ruolo, previsto per legge, di fornitrici di servizi socio-sanitari e di monitoraggio delle condizioni degli istituti. Le diffide ricordavano che “la responsabilità per la mancata applicazione e/o i ritardi nell’attuazione delle misure previste per lo svolgimento dell’assistenza sanitaria penitenziaria sono imputabili al Direttore Generale della Asl”. “Meno della metà delle Aziende sanitarie ha risposto” ricorda Marco Perduca, che coordina l’iniziativa “abbiamo quindi deciso di procedere con delle richieste di accesso agli atti per ottenere le relazioni delle visite in carcere e pubblicizzato la possibilità di condividere in modo sicuro e anonimo critiche relative al diritto alla salute in carcere sul sito FreedomLeaks.org”. Le 102 richieste chiedono: la relazioni delle visite, quando sono state fatte, cosa è stato visitato e cosa è stato rilevato; eventuali linee guida sul modo con cui queste vengono effettuate, se siano state effettuate a sorpresa, a campione o in tutte le zone e reparti, alla presenza dei garanti o altre figure istituzionali; la lista delle istituzioni a cui sono stati inviati i resoconti, provveditorato alle carceri regionale, Dipartimento per l’Amministrazione della giustizia, Ministero della giustizia e Ministero della salute, le eventuali risposte dall’autorità competente con promesse di messa in opera di quanto necessario per ripristinare eventuali manchevolezze. “La denuncia partecipativa anonima” spiega Andrea Andreoli, anch’egli dell’Associazione Luca Coscioni, che ha sviluppato il sito FreedomLeaks.org “si rivolge a chi, perché parente, volontario, assistente sociale, educatore, formatore o difensore, oppure dipendente delle Asl o dell’amministrazione penitenziaria, entra negli istituti di pena”. FreedomLeaks.org permette di trasferire informazioni e segnalazioni relative al rispetto delle leggi che riguardano i diritti e le libertà delle persone, in maniera sicura, riservata e anonima grazie alla piattaforma Globaleaks che consente di attivare un canale criptato per inviare le proprie segnalazioni. Dal sito occorre collegarsi al corrispondente indirizzo TOR, usando la sicurezza garantita dal TOR browser e condividere quanto visto durante la propria presenza in carcere. “Il sovraffollamento crea condizioni invivibili” prosegue Perduca “per questi motivi nel 2013 la Corte europea dei diritti umani ha adottato una sentenza, nota come Torreggiani, che ricordò che la disponibilità di uno spazio inferiore ai tre metri quadri continua a essere ritenuta di per sé sufficiente ad integrare un trattamento inumano e degradante, altrimenti noto come tortura. Slitta lo sciopero dei magistrati: campagna elettorale nell’Anm, lo stop a febbraio di Francesco Grignetti La Stampa, 17 dicembre 2024 La protesta dei magistrati contro la riforma imposta dal governo Meloni è decisa. Le forme, ancora no. Di mezzo ci sono le elezioni interne alle toghe, che a fine gennaio saranno chiamate a decidere i nuovi organi dirigenti dell’associazione nazionale magistrati. Lo sciopero si terrà quindi a febbraio. I due passaggi sono strettamente interconnessi. Nella magistratura c’è già clima pre-elettorale, infatti. Le correnti stanno preparando le candidature per il parlamentino dell’Anm, da cui poi scaturirà la prossima Giunta. E in questo frangente è perfino ovvio che saranno i prossimi a decidere modi e tempi della protesta. Nel frattempo, sempre a fine gennaio, ci sarà la Inaugurazione dell’anno giudiziario, con una prima tappa solenne in Cassazione alla presenza del Capo dello Stato e del ministro della Giustizia, e poi nelle sedi di corte d’appello. Ecco, in occasione dell’Inaugurazione sarà sicuramente manifestata in qualche forma la contrarietà dei magistrati alla separazione delle carriere, sentito come passaggio finale di un braccio di ferro con la politica. Quanto allo sciopero, lo gestiranno i prossimi vertici dell’Anm. Sicuramente si terrà a febbraio o marzo del 2025. Probabilmente s’incastrerà con qualche passaggio parlamentare. E’ presto anche per immaginare come saranno strutturati i comitati che la magistratura vuole creare assieme a giuristi e avvocati che siano contrari anch’essi alla separazione delle carriere. “Comitati referendari - li spiegava Giovanni Zaccaro, segretario della corrente progressista Area, che li ha proposti nel corso della grande assemblea di domenica scorsa - coinvolgendo non solo avvocati e professori di diritto, ma soprattutto artisti ed intellettuali”. Quanto brucia al governo l’annuncio di questo sciopero, lo dicono le parole del viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, Forza Italia, in visita agli uffici giudiziari di Benevento: “La riforma? Ho ascoltato quello che hanno detto i magistrati in assemblea. A me sembra una cosa singolare che vogliano addirittura scioperare contro un provvedimento che alla fine sarà deciso con un referendum. La riforma della Giustizia non è contro qualcuno. È per i cittadini che noi rappresentiamo in Parlamento. Il cittadino quando entra in un’aula di giustizia deve avere la certezza che c’è un giudice terzo e imparziale, diverso sia da chi lo accusa che da chi lo difende”. Perché istituire una Giornata in memoria delle vittime degli errori giudiziari proprio il 17 giugno? di Guido Vitiello Il Foglio, 17 dicembre 2024 Perché è il giorno in cui, nel 1983, fu arrestato Enzo Tortora, dicono i promotori. Sembra una risposta cristallina e autoevidente: non lo è. Cela infatti un grande enigma: quando comincia l’errore giudiziario? Con l’avvio dell’indagine, con l’arresto, con il rinvio a giudizio, con la condanna? I profani, tra i quali volentieri mi annovero, peccano senz’altro d’ingenuità nel valutare certe questioni di diritto con i criteri della moralità comune; ma è un peccato veniale se lo si raffronta al peccato simmetrico, in cui cadono ahinoi moltissimi magistrati, che consiste invece nel misurare gli abissi della coscienza e della condizione umana con il metro della tecnica giuridica - un peccato che porta a dire per esempio che il caso Tortora, a rigor di termini, non fu neppure un errore: l’imputato fu assolto in appello. Nessuno, a mia conoscenza (che tuttavia in materia non è molta), ha colto questo punto meglio di Francesco Carnelutti in un libricino eccelso del 1957, Le miserie del processo penale, che invito i lettori a riscoprire. Ogni sentenza di assoluzione implica un errore giudiziario, dice Carnelutti guardando alla sostanza delle cose e non solo alle definizioni dei codici e dei manuali, perché “contiene non solo l’accertamento dell’innocenza dell’imputato ma, insieme, la confessione dell’errore commesso da coloro che lo hanno trascinato nel processo”. È un errore a volte inevitabile, del quale la gente non si accorge, “e non solo gli uomini della strada, ma perfino gli esperti del diritto: non conosco un giurista, ad eccezione di chi vi parla, il quale abbia avvertito che ogni sentenza di assoluzione è la scoperta di un errore. In questo modo, o per negligenza o per falso pudore, si nascondono quelle miserie del processo penale, che debbono invece essere conosciute e sofferte affinché si faccia il conto che si deve della giustizia umana”. Cioè, ben poco conto. Per queste ragioni non tecniche il 17 giugno mi sembra una data perfetta. Come fa Caselli a considerare fatalità gli errori giudiziari? di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 17 dicembre 2024 Imbarazzanti i modi con i quali la magistratura ha reagito alla proposta di indire una giornata dedicata alle vittime dell’errore giudiziario. C’è qualcosa di davvero imbarazzante nei modi con i quali la magistratura ha reagito alla proposta di indire una giornata dedicata alle vittime dell’errore giudiziario. Non si comprende infatti perché una simile proposta dovrebbe ingenerare “sfiducia” nella magistratura, come ha detto il presidente di Anm Santalucia, o per quale motivo, come ha affermato il dottor Caselli, una simile iniziativa sarebbe addirittura “demagogica”. Sarebbe come dire che le giornate dedicate al fenomeno della povertà o alla violenza sulle donne ingenerassero sfiducia negli uomini e non ci fossero invece utili nel farci doverosamente riflettere sui limiti del capitalismo o sui rapporti di genere. Far riflettere sulla estensione e sulla gravita di quel fenomeno è tutt’altro che demagogico e populista, in quanto dedicare una giornata alle vittime dell’errore giudiziario significa rendere tutti più consapevoli dell’importanza che ha, in una democrazia matura, l’uso corretto della giustizia penale. E che l’errore giudiziario, proprio in quanto errore umano, è evitabile. Ovvio che spetti poi alla politica e non a una giornata dedicata al fenomeno la soluzione del problema, attraverso l’adozione delle riforme necessarie. Il fastidio con il quale la proposta è stata respinta svela infatti il timore che si rifletta sulla realtà degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni tornando ai dati e stando ai fatti. Ma è proprio per questa ragione che le affermazioni del dottor Caselli devono essere corrette. Il problema dell’errore giudiziario e delle ingiuste detenzioni non ha infatti nulla a che vedere, come ha affermato il dottor Caselli, con la lunghezza e la farraginosità del nostro processo penale. Se pure è vero che spesso le regole processuali non aiutano a prevenire ed a sventare gli errori, dietro le carcerazioni e le condanne ingiuste ci sono solo le decisioni dei magistrati, ai quali le norme pongono limiti e garanzie al fine di tutelare la libertà dei cittadini. Immaginare i magistrati e non i cittadini come vittime delle inefficienze del processo mi pare francamente paradossale. E cosa ancor più grave è quella di far passare l’errore come un dato fisiologico del sistema quando quell’errore incide in maniera così estesa e grave sulla libertà delle persone. La giustizia penale non è un gioco di società nel quale a volte si vince e a volte si perde. Se un cittadino sconta mesi o anni di custodia cautelare in carcere e poi si giunge ad una archiviazione, ad un proscioglimento o ad una assoluzione, il fatto è decisamente patologico, e non può in alcun modo parlarsi disinvoltamente, come fa il dottor Caselli, di “esiti contrastanti” dei processi, come si potesse parlare di semplici punti di vista e non di attenta e prudente applicazione delle norme poste proprio a presidio di quel bene incommensurabile che è la libertà. È grave già solo che questo accada, ed è gravissimo che accada con queste dimensioni. L’asticella della tolleranza degli errori giustificabili dovrebbe, infatti, essere collocata molto più in alto, e gli standard di valutazione della prova dovrebbero essere molto più severi, in un paese che vuol dirsi civile. Che il sistema non funzioni con la necessaria prudenza lo dicono i dati dello stesso ministero della Giustizia e l’ultima relazione al Parlamento sull’utilizzo della custodia cautelare nel corso dell’ultimo anno. Sul numero complessivo di 80.000 misure adottate, in almeno 8.000 casi sono intervenute assoluzioni nel corso dello stesso anno. Ma si tratta di dati che dovrebbero essere meglio valutati e integrati con gli esiti dei relativi processi in un più ampio arco di tempo. Resta il fatto che il numero delle misure coercitive applicate ingiustamente resta negli anni elevatissimo, con danni umani incalcolabili, per le vittime, e con costi enormi per lo Stato, che paga gli indennizzi. Sono, invece, i magistrati che non pagano nulla. Quelle migliaia di casi di ingiusta detenzione non verranno sottoposti ad alcun diretto vaglio disciplinare e, a leggere le statistiche, gli esiti dei procedimenti disciplinari, quando vengono attivati, sono nella stragrande percentuale di tipo assolutorio. I dati offerti dalla giustizia disciplinare sono sconcertanti: checché ne dica il dottor Caselli, che non si tratta di una giustizia “domestica” particolarmente indulgente, delle oltre 1.800 segnalazioni disciplinari del 2023, oltre il 95% è stato oggetto di archiviazione e solo il 4,3 % ha dato luogo ad azione disciplinare, e di queste solo un numero ridottissimo ha prodotto condanne. Per non parlare della sostanziale assenza di profili di responsabilità civile, per la cui azionabilità in concreto, come è noto, sono previsti filtri di ammissibilità dei quali nessuna altra categoria professionale o di funzionari può avvalersi. Credo che sia proprio questo stato delle cose a generare quella diffusa sensazione di impunità, e che sia il complessivo atteggiamento di chiusura ad ogni cambiamento assunto dalla magistratura ad alimentare la sfiducia dei cittadini e ad incentivare l’idea di una casta chiusa nei suoi indubbi privilegi, impermeabile alla società. Sbaglia la magistratura associata a sottovalutare questo aspetto che sta assumendo uno spessore ed una estensione allarmanti. Ma c’è una questione, strettamente collegata al fenomeno dell’errore giudiziario, che il dottor Caselli non sfiora neppure, ed è quella che riguarda proprio il controllo di professionalità dei magistrati, sul quale non si è riusciti a fare alcun passo consistente e a realizzare, dalla Ministra Cartabia al Ministro Nordio, una riforma seria che introducesse meccanismi selettivi più adeguati alla responsabilità e alla gravità del ruolo sociale e della funzione. Prima ancora che pagarlo, infatti, l’errore che incide sulla libertà dei cittadini, dovrebbe essere evitato. Ma anche qui l’interdizione della magistratura è stata finora vincente, ad onta del cambio dei governi e delle maggioranze. Dalla riforma costituzionale delle carriere che è “uno strappo alla Costituzione”, alla revisione della valutazione di professionalità che è una “offesa”, alla introduzione della giornata dell’errore giudiziario che è un attentato alla “fiducia”, il mood resta sempre lo stesso. Si tratta in ogni caso e indifferentemente di attacchi alla ontologica unitarietà, all’indipendenza, all’immagine, all’autorevolezza e alla fiducia di una magistratura imperfettibile. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Cybercrime, l’unica difesa è la formazione di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 17 dicembre 2024 Singoli cittadini, aziende, pubblica amministrazione: tutti siamo esposti ai crimini informatici. E la repressione è sempre più difficile. La soluzione non può che essere aumentare le conoscenze e la consapevolezza. Le cronache e le inchieste di questi ultimi tempi sui crimini informatici confermano l’umana e irrefrenabile tendenza a sbirciare nelle vite degli altri. Curiosità che accresce notevolmente se gli ascoltati sono conosciuti oppure vi è un interesse a conoscere le loro cose. Le conversazioni carpite in treno, ovviamente non nelle costose carrozze silenziose, oppure nei locali pubblici come nelle file di attesa, hanno non poco contribuito al successo letterario del genere “guardare - ascoltare di nascosto”. Già a partire dai primi anni dell’Ottocento, grandi autori come Honoré de Balzac (Papà Goriot), Emile Zola (Pot-Bouille) avevano colto il diffuso interesse indagatore. Un’attenzione che nel tempo non ha mai perso attualità come comprovano anche opere più recenti da quella di Carlo Emilio Gadda (Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana) oppure Yasmina Reza (Il Dio del massacro) fino a Muriel Barbery (L’eleganza del riccio). Si può ben comprendere, quindi, che ci troviamo di fronte ad una sorta di retaggio culturale che è difficile, per non dire impossibile, debellare. Non di meno siamo ormai giunti nella fase in cui il fenomeno, evoluto in problema, è diventato insostenibile. Non c’è dubbio che lo sviluppo delle tecnologie informatiche abbia non poco contribuito positivamente ai cambiamenti in tutti i settori della nostra vita, fornendo nuove ed importanti opportunità sul piano lavorativo ma anche sociale ed economico. Ma è parimenti evidente che l’altro lato della medaglia è rappresentato da una nuova criminalità il cui contrasto effettivo richiede una alta competenza tecnologica. Piaccia o meno tutti sono esposti al rischio del cybercrime, dal cittadino che naviga su internet alle grandi multinazionali il cui funzionamento è in larga parte dovuto all’utilizzo di sistemi informatici. Purtroppo c’è da aggiungere che il nostro Paese si posiziona nei primi posti, dopo Stati Uniti, Giappone ed India, tra quelli che subiscono il maggiore numero di attacchi e, in una posizione ancora più avanzata, per quanto concerne l’incremento degli stessi. Senza dubbio la crisi sanitaria e quella economica, conseguente al Covid 19, ha notevolmente contribuito all’incremento della problematica determinando la decuplicazione dei reati (65% in più tra il 2022 e il 2023) rispetto alla media mondiale (12% in più). Tra le varie cause il ritardo legislativo ha avuto un peso considerevole e, per altri versi, esprime la sottovalutazione di un pericolo che si insinua negli interstizi delle fragilità delle persone, dalla pedopornografia, al cyberbullismo, e di quelle della rete e dei dati. È anche vero che a livello europeo la legislazione dei reati informatici è risalente all’ormai lontano settembre del 1989 quando il Consiglio d’Europa emanò la “raccomandazione sulla criminalità informatica” alla quale in larga misura si è ispirata la prima normativa italiana in materia, nel dicembre del 1993 con la modifica di alcune norme dei codici penali e di procedura penale relative alla criminalità informatica. In ultimo lo scorso 17 luglio è entrato in vigore il disegno di legge volto a rafforzare le emergenze cibernetiche per la pubblica amministrazione, le imprese e i cittadini. Tuttavia è un dato accertato che la promulgazione di nuove e più severe regole non ha ridotto i crimini informatici che anzi ad oggi risultano aumentati e rappresentano un vero business. Certo, è illusorio pensare di poter completamente azzerare il pericolo di attacchi, così come prevenire le attività illecite di dipendenti infedeli, ma una strada possibile che merita di essere seriamente percorsa è quella della formazione delle persone. Una formazione che deve essere adeguata e corrispondente a quella degli hackers, pronta a controbattere le novità del rischio cyber e che consenta di riconoscere tempestivamente le insidie degli spioni soprattutto nei settori più esposti tra i quali la sanità e la finanza. Il caso di Moussa, ucciso da un colpo al cuore esploso da un agente della polizia ferroviaria di Angiola Petronio Corriere di Verona, 17 dicembre 2024 Battaglia legale sulle telecamere e ora spunta un nuovo testimone. Si chiamava Moussa Diarra, veniva dal Mali e aveva 26 anni, quel ragazzo che prima di quel giorno non aveva mai avuto problemi con la giustizia. Da qualche tempo aveva il male di vivere. Quello che si era innescato quando, scappando dal Mali, era finito in un campo in Libia dove è stato torturato e dove è morto uno dei suoi fratelli. A Verona aveva un lavoro regolare come bracciante, ma non aveva una casa. E quel rifugio dove dormiva, un immobile occupato chiamato Ghibellin Fuggiasco, sta per chiudere. Abbastanza perché Moussa quella domenica mattina di ottobre fosse in preda alla furia. Avrebbe avuto due coltelli, Moussa. E li avrebbe branditi contro il poliziotto. A differenza di quanto accaduto a Padova, per Moussa non c’è stato prima l’uso dello spray urticante o del taser. Sono stati sparati quei tre colpi, due dei quali ad altezza d’uomo. Uno che ha forato la manica del giubbotto di Moussa. L’altro che l’ha colpito al cuore uccidendolo. L’agente che ha sparato è indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Le indagini sono state affidate alla stessa Polizia di Stato. Ma ad oggi non è chiaro quanto accaduto. E quei due coltelli non sono stati fatti vedere, neanche agli avvocati della famiglia di Moussa. Pochi giorni fa il procuratore capo Raffaele Tito ha diramato un comunicato in cui ha fatto il punto sulle riprese delle telecamere che fanno da corollario alla stazione di Verona. Quelle che, in un primo momento, si era detto che sarebbero state fondamentali nell’accertare quanto accaduto. Con una, in particolare, che poi sembrava non avesse ripreso nulla. Il procuratore ha precisato che si tratta di quattro telecamere. Una, indirizzata sul piazzale che ha ripreso il momento di uno dei tre spari. Altre due, lontane dell’area, che hanno comunque registrato la sequela dei colpi e la caduta a terra di Moussa. E una telecamera all’interno della stazione che “pur apparentemente funzionando - le parole di Tito - non ha però registrato immagini”. Filmati che sono stati affidati alla polizia scientifica di Padova per migliorarne la qualità. Ma che non sono stati fatti finora visionare né ai periti e al medico legale di parte nè agli avvocati della famiglia di Moussa. A Verona si è costituito il comitato “Verità e Giustizia per Moussa”. La senatrice di Avs Ilaria Cucchi ha presentato un’interrogazione. Ed è stata anche fatta, da un centinaio di cittadini, una segnalazione al Consiglio Superiore della Magistratura chiedendo “garanzie procedurali necessarie per rendere trasparente e massimamente credibile ad una opinione pubblica disorientata e perplessa, esposta quindi ad ogni sorta di manipolazione, l’accertamento della verità dei fatti”. “Non c’è pericolo di inquinamento probatorio, quindi perché fare mistero di questi video?”, quanto chiesto pubblicamente dal comitato. Intanto dagli esami tossicologici è risultato che quella domenica mattina di ottobre Moussa non aveva assunto né alcol né droga. Potrebbe risultare positivo, invece, ai test farmacologici che richiedono più tempo, per l’uso che faceva da qualche tempo di antidepressivi. E su quanto accaduto quel 20 ottobre alla stazione di Porta Nuova potrebbe risultare fondamentale un testimone che avrebbe assistito a tutte le fasi che hanno portato alla morte di Moussa e che le due avvocate della famiglia di Moussa hanno chiesto venga sentito dagli inquirenti. Un testimone il cui racconto non combacerebbe con la ricostruzione dei fatti finora fatta dalla procura. Non è irragionevole l’obbligo di testimoniare del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2024 Lo ha chiarito la Corte costituzionale, con la sentenza numero 200, depositata oggi, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al primo comma dell’articolo 199 Cpp. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 200, depositata oggi, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al primo comma dell’articolo 199 del codice di procedura penale, disposizione che, mentre riconosce ai prossimi congiunti dell’imputato la facoltà di astenersi dal testimoniare, introduce un’eccezione per il familiare che sia persona offesa dal reato. All’imputato veniva contestata una condotta di lesioni personali aggravate nei confronti della figlia. Il Tribunale sostiene che dall’istruttoria è emerso pacificamente che l’imputato abbia percosso la figlia, cagionandole plurime lesioni. Nella deposizione della persona offesa, che non ha potuto beneficiare della facoltà di astensione, il giudice rimettente ravvisa indizi del reato di falsa testimonianza. La teste avrebbe cercato palesemente di ridimensionare la gravità della condotta del genitore. Avrebbe poi circoscritto in termini minori la durata dell’aggressione, attribuito alcune delle lesioni riportate ad una caduta, nonché sostenuto di non avere visto il padre utilizzare una cintura per colpirla. Il giudice rimettente si è perciò interrogato sull’utilizzabilità della deposizione testimoniale della persona offesa e sulla necessità di disporre l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge nei confronti della teste, e perciò solleva le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 199, comma 1, cod. proc. pen. Decidendo sulle censure del Tribunale di Firenze, riferite agli articoli 3, 27, secondo comma, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della CEDU Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Corte ha affermato che tale eccezione alla facoltà di astensione non è irragionevole, né sproporzionata, e neppure lede la vita e l’unità della famiglia, in quanto essa, da un lato, corrisponde al fatto che proprio la condotta offensiva dell’imputato normalmente incide sul legame affettivo sotteso alla facoltà di astenersi e, dall’altro, protegge la vittima del reato dalle pressioni che spesso provengono dallo stesso ambito familiare affinché si astenga dal deporre. È stata altresì disattesa - per il carattere fortemente “manipolativo” della sollecitata pronuncia - la richiesta subordinata del rimettente, diretta a ottenere l’eliminazione dell’obbligo di deporre del congiunto, persona offesa, nell’ipotesi in cui la sua deposizione non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti. Infine, la Corte ha sottolineato che quella del prossimo congiunto, offeso dal reato, non si differenzia da un’ordinaria testimonianza, sicché nei suoi confronti può essere applicata, ove ne ricorrano gli estremi, la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, primo comma, del codice penale. Alessandria. Dramma nel carcere San Michele: detenuto muore dopo tentativo di suicidio radiogold.it, 17 dicembre 2024 Continua a essere drammatica e triste la situazione nelle carceri italiane. Un’altra persona è infatti deceduta dopo aver tentato il suicidio, un fatto avvenuto proprio ad Alessandria come spiegato dalla Uil-pa Polizia Penitenziaria. Un dato che si aggiunge a un altro tentativo di togliersi la vita da parte di un detenuto che, sempre ad Alessandria, aveva cercato di darsi fuoco ma era stato bloccato dagli agenti di Polizia Penitenziaria. “Italiano, sui 50 anni, mercoledì scorso aveva tentato di togliersi la vita impiccandosi in una cella del reparto ‘transito’ della Casa di Reclusione di Alessandria San Michele - ha raccontato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Subito soccorso, era stato condotto in ospedale in condizioni disperate, ma domenica è deceduto. Sale così a 87 la tragica conta dei detenuti suicidatisi dall’inizio dell’anno. Numeri che, va ricordato, corrispondono a vite umane affidate allo Stato e che vengono spezzate e non a ‘mera informazione statistica’, come si è letto in qualche nota diffusa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. A questi, vanno peraltro sommati i 7 suicidi fra gli agenti”. “Pochi giorni prima, sempre ad Alessandria San Michele, un altro recluso aveva tentato di darsi fuoco e non è riuscito nell’intento solo grazie al tempestivo intervento della Polizia penitenziaria che con non poche difficoltà l’ha messo in salvo anche rischiando a propria volta, tanto che 5 agenti sono rimasti intossicati, per fortuna non in maniera grave. Del resto, pure Alessandria, con 380 detenuti presenti a fronte di 263 posti disponibili, soffre di grave sovraffollamento, mentre la Polizia penitenziaria con 175 unità in servizio, quando ne servirebbero almeno 369, opera a ranghi fortemente ridotti”, spiega il segretario della Uilpa Pp. “A livello nazionale sono ormai 16mila i ristretti oltre la capienza disponibile e ben più di 18mila gli agenti mancanti. Pure questi numeri da capogiro che, uniti agli altri, dovrebbero scuotere le coscienze della politica e della maggioranza di governo inducendo a provvedimenti consequenziali e a impatto immediato. Il 2024 non è ancora finito, ma in assenza di provvedimenti seri, tangibili e immediati che deflazionino la densità detentiva, potenzino gli organici della Polizia penitenziaria, assicurino l’assistenza sanitaria e pongano le basi per una complessiva riorganizzazione dell’intero sistema, il 2025 potrebbe essere persino peggiore”, conclude De Fazio. Siracusa. Il Garante dei detenuti: “Ecco le criticità al carcere di Cavadonna” siracusanews.it, 17 dicembre 2024 Il garante dei detenuti della casa circondariale di Cavadonna, Giovanni Villari, ha depositato al Comune la propria relazione annuale dalla quale emergono carenze e criticità. Qui di seguito, le parti salienti della relazione. Negli ultimi giorni sono pervenuti all’indirizzo del Garante dei detenuti segnalazioni riguardanti l’area sanitaria dell’istituto penitenziario di Cavadonna. Questi segnali evidenziano l’inadeguatezza numerica delle azioni spettanti al Nucleo Traduzioni nell’accompagnare i detenuti a visite specialistiche, interventi chirurgici e altre attività sanitarie (sino a circa 50 casi al mese), estremamente ridotte rispetto ai bisogni urgenti dell’utenza. Quando le operazioni di accompagnamento non vengono effettuate, i detenuti perdono l’opportunità di usufruire dei servizi prenotati, che la dirigenza sanitaria riesce ad ottenere con grande fatica e impegno. Dopo mesi di attesa, tali appuntamenti - non rispettati - vengono rinviati a data da destinarsi. Nel personale di polizia penitenziaria la mancanza di personale che affligge il comparto della polizia penitenziaria. È una situazione che sta diventando insostenibile: si stima che a livello nazionale ci sia una carenza di circa 8.500 unità rispetto alla pianta organica. Non sono soltanto le unità di polizia penitenziaria a soffrire di questa carenza, anche i funzionari giuridico pedagogici sono un numero considerevolmente inferiore rispetto a quello previsto e soprattutto a quello effettivamente necessario. Questo scenario trasmette un messaggio chiaro riguardo alla vera finalità della pena, che appare più orientata al contenimento della persona piuttosto che alla sua rieducazione e risocializzazione. Secondo i dati aggiornati al 2024 nelle schede di trasparenza del Ministero, risulta che il 16% delle unità previste in pianta organica è assente. Attualmente, il personale presente ammonta a 31.068 unità. Il rapporto attuale tra detenuti e agenti è di 1,96 detenuti per ogni agente, rispetto a una previsione di 1,5. Questo rapporto varia tra le diverse regioni italiane, oscillando tra 1,2 e 2,5 detenuti per agente, evidenziando una distribuzione non uniforme del personale; la Sicilia si attesta intorno all’1,9. Questa criticità influisce sulle prestazioni di sorveglianza, sull’erogazione dei servizi e sullo svolgimento delle attività trattamentali. All’interno dell’istituto penitenziario di Siracusa, si registra un numero limitato, ma significativo, di detenuti che si trovano in condizioni di grave criticità a causa di problemi di salute. Tra questi, alcuni presentano situazioni molto gravi, mentre altri soffrono di patologie certificate e trattabili. Per questi detenuti, è necessario attendere la documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo o il rapido trasferimento verso strutture sanitarie adeguate, come il SAI (Servizio Assistenza Intensificato), in grado di rispondere alle loro urgenti necessità di cura. È importante ricordare che ai detenuti spettano tutti i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo, incluso il diritto alla salute. Non è insolito constatare che alcune gravi malattie che affliggono i detenuti possano, nel tempo, condurre al decesso di queste persone in carcere. È il caso recente del sessantunenne siracusano L.V., su cui la Procura di Messina (il detenuto era stato trasferito qualche tempo fa dalla casa circondariale di Siracusa a quella di Messina) ha avviato delle indagini. Il detenuto era giunto nel carcere di Gazzi (ME) già in stato catatonico, affetto da una grave patologia oncologica e di altre patologie croniche. Negli ultimi mesi i familiari avevano cercato di ottenere la concessione degli arresti domiciliari per consentirgli di ricevere le cure necessarie. L’assistenza sanitaria all’interno delle strutture penitenziarie continua a risentire di una grave mancanza di personale infermieristico, il che porta a un aumento del carico di lavoro per gli infermieri attualmente in servizio. È fondamentale evidenziare che, come nel carcere di Noto, ad esempio, durante il turno notturno non è presente alcun infermiere, e tutto il peso della gestione delle emergenze ricade esclusivamente sull’unico medico di turno, costretto a fronteggiare situazioni mediche senza alcun supporto. Questa condizione influisce negativamente sulla capacità di intervenire prontamente per tutelare la salute dei detenuti. Desidero comunicare con grande rammarico che, al momento, il sistema di riscaldamento delle diverse sezioni dell’istituto non è ancora operativo a causa di problemi tecnici. Inoltre, non vengono accettate nuove richieste per l’autorizzazione all’acquisto e all’uso di piccole stufette elettriche, che sono fondamentali per contrastare il freddo intenso nelle celle. Le finestre non offrono un adeguato isolamento termico e permettono l’ingresso di spifferi, risultando quindi inadeguate a proteggere i detenuti dalle conseguenze delle basse temperature invernali. Dentro fa proprio freddo. Non è insolito vedere nei reparti alcuni detenuti indossare due o tre maglie sovrapposte, insieme a cappellini di lana e sciarpe, per affrontare sia il giorno che la notte. Benevento. Maria Giovanna Pagliarulo nominata Garante dei detenuti di Giuseppe Di Martino Il Mattino, 17 dicembre 2024 Il sindaco di Benevento Clemente Mastella ha nominato, con proprio decreto, la dottoressa Maria Giovanna Pagliarulo come Garante delle persone private della libertà personale. La carica avrà durata quinquennale e sarà svolta a titolo gratuito. “Auguro buon lavoro alla dottoressa Pagliarulo, psicologa e professionista da sempre impegnata proficuamente nel terzo Settore e nel sociale - ha dichiarato il primo cittadino -. La sua professionalità è garanzia di particolare abilità nel rapporto interpersonale e nella comprensione dell’altro. Presidente provinciale delle Acli Benevento, Pagliarulo è una figura di prestigio nel mondo dell’associazionismo e del welfare. Sono convinto che potrà dare un contributo importante su un tema tanto delicato quanto prezioso, come quello della salvaguardia dei diritti dei detenuti”. La nomina della Garante arriva in un momento in cui l’amministrazione comunale ha ribadito l’impegno a favore di una maggiore attenzione ai diritti umani, in linea con la sensibilità già dimostrata dall’intero Consiglio comunale su queste tematiche. Pagliarulo, oltre a essere una stimata psicologa, vanta una lunga esperienza nel sociale, un curriculum che la rende particolarmente adatta al nuovo incarico. La sua missione sarà quella di vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali di coloro che si trovano in condizioni di restrizione della libertà personale, promuovendo al contempo politiche inclusive e di sostegno. Perugia. Presentati i risultati del progetto “Semi di Carità” provincia.perugia.it, 17 dicembre 2024 Un anno di iniziative a sostegno della Giustizia riparativa. Coinvolti numerosi studenti delle scuole di Perugia. Sono stati presentati questa mattina a Perugia i risultati del progetto “Semi di Carità” a sostegno della Giustizia riparativa, finanziato con fondi CEI 8xmille e dalla Fondazione di Carità San Lorenzo, l’ente operativo della Caritas diocesana; avviato a fine 2023 e concluso a dicembre 2024. “Condividere i risultati di un anno di cammino di un progetto non è un punto di arrivo, ma è un punto di partenza. Vedere cosa siamo riusciti a vivere con tutte le realtà coinvolte, oggi qui rappresentate, è iniziare subito a pensare quello che sarà il futuro. Non possiamo permetterci di fermarci su questa riflessione così bella e così importante che ci ha accompagnato in un progetto che è stato generativo oltre l’immaginario, generando tante occasioni e progetti, anche in piccoli ambiti, che stiamo portando avanti con passione e non limitati ad una serie di azioni messe in atto incontro dopo incontro. È la passione e il desiderio di continuare il prossimo anno ad ampliare diversi percorsi che hanno al centro la Giustizia riparativa e le pene alternative”. A sottolinearlo è stato il direttore della Caritas diocesana don Marco Briziarelli introducendo l’incontro tenutosi nella sala “Don Giacomo Rossi” del “Villaggio della Carità”, che ha visto la partecipazione di cittadini e rappresentanti delle Istituzioni, in considerazione del valore sociale, inclusivo e pedagogico del progetto, molto apprezzato dalle realtà territoriali coinvolte, tra cui il Carcere di Capanne, l’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Perugia (UDEPE), l’Istituto tecnico statale “A. Volta”, la Provincia e il Comune di Perugia, l’Ordine provinciale degli Avvocati, l’Associazione Avvocati di Strada, le Edizioni Frate Indovino (EFI), l’Associazione Perugina di Volontariato (APV). Un incontro di “restituzione” del primo anno di “Semi di Carità” che ha fruttato l’inserimento di due detenuti come operatori di due opere segno della Caritas, l’incontro con studenti dell’Istituto “A. Volta”, il coinvolgimento degli insegnanti di religione cattolica nel percorso sia sulla Giustizia riparativa che sulle misure alternative alle pene in comunità, gli incontri di sensibilizzazione-informazione con i volontari dei Centri di ascolto parrocchiali, con la cittadinanza e con i decisori politico-istituzionali per una concreta maggiore programmazione degli obiettivi a supporto della stessa Giustizia riparativa. Gli interventi - Tra gli intervenuti Maurizio Santantoni, presidente della Fondazione di Carità San Lorenzo, realtà che gestisce i progetti promossi dalla Caritas diocesana, evidenziando “il forte ruolo educativo del progetto che ha coinvolto anche numerosi studenti”. Molto interessanti gli interventi dei “protagonisti” di “Semi di Carità”, testimoni e referenti dei “frutti raccolti” e “restituiti” in meno di due ore d’incontro: da Alfonso Dragone referente area progetti della Caritas a Simona Bianconi, referente City Farm, Laboratorio di Ecologia Integrale (piccola fattoria cittadina) e da Agnese Strappaghetti, social media manager delle Edizioni Frate Indovino a Sara Capponi, consulente legale della Caritas, da Lorena Fabretti, volontaria Centro di Ascolto parrocchiale e membro dell’associazione Avvocati di Strada, a Silvia Bagnarelli, assistente sociale e responsabile del Centro di ascolto diocesano della Caritas, agli insegnanti dell’Istituto “A. Volta”, Silvana Lentini e Anselmo De Toni, che hanno raccontato come i loro studenti si sono lasciati attrarre dal progetto parlandone alla cena dei “cento giorni” dall’esame di maturità con gli altri docenti. Sono intervenuti anche la direttrice del Carcere di Capanne Antonella Grella, l’economista Pierluigi Grasselli, coordinatore dell’Osservatorio diocesano sulle povertà e l’inclusione sociale, e il consigliere della Provincia di Perugia Riccardo Vescovi. Tutti loro hanno evidenziato il “riflesso positivo” che “Semi di Carità” ha sia per la realtà carceraria sia per le Istituzioni e la comunità locale, perché si tratta di un progetto di “riscatto e recupero sociale e lavorativo non indifferente”. In particolare, il consigliere provinciale Vescovi ha ringraziato la Caritas per l’impegno e le attività di bene che sta portando avanti nel territorio: “La Giustizia riparativa non può negare il male fatto - ha detto -, ma attraverso l’impegno, il servizio e la passione lo può trasformare in amore verso il prossimo. Infatti, ci sono dei semi di carità, di bene, che vengono piantati e spesso non riconosciuti. Compito delle istituzioni è quello di annaffiare questi semi e farli germogliare tra di noi”. I frutti del progetto - I risultati di questo progetto, presentati da Alfonso Dragone, evidenziano i due percorsi di accompagnamento personalizzati di misure alternative alla detenzione (art. 21 OP), che hanno visto protagonisti una detenuta e un detenuto, coinvolgendo 74 volontari di due opere segno Caritas, la Mensa “Don Gualtiero” e la City Farm (quest’ultima visitata da nove scuole per un totale di 514 bambini accolti). Significativo anche il percorso formativo interno sulla Giustizia riparativa e misure alternative, illustrato da Sara Capponi e Silvia Bagnarelli, rivolto a 60 volontari di 19 Centri di ascolto parrocchiali, così anche l’attività di sensibilizzazione della comunità coinvolgendo 50 insegnanti di religione e 100 studenti di scuola superiore, oltre all’innovativo e importante coinvolgimento di 30 policy maker e decision maker e 20 enti-istituzioni coinvolte, realizzando 9 eventi di sensibilizzazione. A sintetizzare gli interventi, a margine dell’incontro, è stato il direttore della Caritas don Marco Briziarelli: “Alla luce di tutti questi preziosi interventi che hanno animato questa ‘restituzione’ di progetto, vediamo proprio come al centro ci sia l’uomo, la persona e il desiderio di poter dare una nuova possibilità, una nuova vita a tutti coloro che si trovano in una situazione di difficoltà e di fragilità relativa alla giustizia. Si può sbagliare, si può ripartire, si può ristorare questa Giustizia riparativa, che in inglese si dice restorative justice, perché si possa ritrovare un nuovo percorso che porti di nuovo alla crescita del bene comune. Cammini che possano dare una nuova vita a tante situazioni, a tante difficoltà nelle quali potremmo trovarci ognuno di noi”. Porto Azzurro (Li). Ricordiamoci che in carcere ci sono molte persone malate e sofferenti di Licia Baldi elbareport.it, 17 dicembre 2024 Leggo sui giornali del 14 dicembre della notte di tensione nel Carcere di Porto Azzurro, dove un detenuto ha appiccato un incendio nella sua cella (e non è la prima volta in questi ultimi mesi). Si era nascosto sotto il letto per non farsi trovare e così farla finita, lo hanno salvato gli agenti della Polizia penitenziaria, ai quali esprimo, e credo di poterlo fare a nome di tutti i volontari che operano nel Carcere di Porto Azzurro, sincera solidarietà e stima. Leggo anche l’ottimo e dettagliato intervento di Raimonda Lobina, garante territoriale dei diritti delle persone private della libertà, una lettera indirizzata alle autorità preposte alla politica penitenziaria e all’applicazione del dettato costituzionale. Giustamente Lobina evidenzia, nella esplosiva situazione della Casa di reclusione di P.A, le possibili conseguenze irreversibili a portare scompiglio e pericolo sono individui così descritti: “individui con grossi problemi sia psichici che comportamentali, sovente stranieri e con vissuti problematici, non curanti delle regole, che non hanno niente da perdere e che nella maggior parte dei casi mettono a serio rischio la gestione dell’istituto con comportamenti aggressivi e violenti”. Certamente sono persone assolutamente inadatte a scontare la loro pena in una casa di Reclusione quale l’Istituto di Porto Azzurro, organizzato per detenuti ergastolani o comunque con lunghe pene e che non ha risorse né disponibilità per provvedere a malati psichiatrici o a tossicodipendenti, magari in carcere per scontare brevi periodi di pena. Ma io vorrei proprio a loro volgere il mio sguardo e il mio pensiero, a questi “colpevoli” di tanto trambusto. E penso, anzi sono certa, che siano anche loro vittime, sofferenti e disperate. Ne ho conosciuto qualcuno e non parlo a vanvera. Sono persone che vanno curate e sicuramente ospitate in un contesto che non può essere la casa di Reclusione di Porto Azzurro. Ne soffre tutto l’ambiente carcerario, dagli operatori ai detenuti lungodegenti e ne soffre fino a voler morire il detenuto con gravi disturbi psichiatrici. O forse crediamo che abbia appiccato fuoco fin quasi a morire per divertimento o per far dispetto a qualcuno? A questa persona, ai suoi familiari, che magari sperano di poterlo riavere migliorato e riabilitato chi risponde? Chi è il vero colpevole, l’irresponsabile? E qual è il rimedio? Come leggo nell’articolo scritto dal sindacato UilPa, questa grave situazione sarà gestita facendo ricorso a un vero e proprio sballottamento da carcere a carcere di questa particolare tipologia di detenuti? Sono persone, ricordiamocelo tutti, e persone malate e sofferenti, che vanno aiutate e curate, certo in una struttura protetta, perché non danneggino se stessi e gli altri. Sarà forse pure l’ora di diventare un paese umano, responsabile e Civile. Napoli. Detenute del carcere di Pozzuoli realizzano 200 toghe, consegnate a giuristi Federico II Il Roma, 17 dicembre 2024 Sono state cucite dalle sarte formate all’interno della Casa circondariale e assunte dalla Sartoria Sociale Palingen. Si è svolta ieri mattina, nel corso di una cerimonia nell’Aula De Sanctis dell’Università Federico II di Napoli, la consegna di 200 Toghe ai Docenti del Dipartimento di Giurisprudenza. Le stesse, in cotone pesante 100% e con profili in raso blu, sono state realizzate dalle sarte formate all’interno della Casa Circondariale di Pozzuoli e assunte dalla Sartoria Sociale Palingen, fondata da Marco Maria Mazio e Massimo Telese. L’obiettivo di Palingen, infatti, è dare una seconda possibilità a detenuti ed ex detenuti, in particolar modo donne, attraverso la creazione di nuove opportunità lavorative grazie a formazione ed impiego professionale. All’incontro sono intervenuti Sandro Staiano, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Giulia Russo, Direttrice della Casa Circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano, Marco Maria Mazio, Ceo di Palingen, Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania e Amalia Giacchetta, una delle sarte che lavorano per Palingen. In collegamento il cofondatore di Palingen Massimo Telese e Maria Ruotolo, anche lei una delle sarte che lavorano per Palingen. “Palingen Social Regeneration è un laboratorio sartoriale a Napoli che ha l’obiettivo di dare una seconda possibilità a persone in condizione di fragilità, prevalentemente donne, e di recuperare tessuti e capi altrimenti destinati allo scarto. - spiega il Ceo di Palingen, Marco Maria Mazio - La missione di Palingen consiste nel favorire l’inclusione di soggetti che si trovano in condizione di marginalità sociale e di precarietà lavorativa tramite la creazione di opportunità di formazione professionalizzante, di impiego lavorativo stabile nonché di crescita professionale”. E prosegue: “In quest’ottica, sono stati aperti due laboratori sartoriali a Napoli, uno presente all’interno della Casa Circondariale femminile (“CC”) di Pozzuoli e uno all’esterno, nella città di Napoli. Operando in partenariato con aziende terze, Palingen si avvale della collaborazione di soggetti svantaggiati per la realizzazione di accessori e capi d’abbigliamento, consentendo loro di apprendere e perfezionarsi nell’arte della sartoria italiana. Inoltre, la produzione impiega capi e tessuti di fine serie, stock invenduti o donati da prestigiose aziende tessili italiane ed internazionali al fine di evitare di destinare al macero tessuti pregiati, consentendo un ridotto impatto ambientale. Crediamo che chi ha sbagliato abbia il diritto di riscattarsi e che la miglior forma di sostenibilità sia la rielaborazione creativa dei rifiuti tessili”. Poi conclude: “Il nome Palingen evoca il concetto spirituale della Palingenesi, sinonimo di rinascita, che viene applicato sia in ambito sociale sia in quello di tutela ambientale. I bisogni e le necessità che Palingen intende soddisfare consistono principalmente nella: inclusione sociale di soggetti svantaggiati; riduzione del tasso di sovraffollamento carcerario in Italia, tristemente e notoriamente tra i più alti in Europa; e riduzione dell’inquinamento legato al mondo della produzione tessile, uno dei settori più inquinanti al mondo. Si ritiene che la partecipazione a programmi di inserimento lavorativo permettano un abbattimento dei casi di recidiva al 10% circa e che meno dell’1% di tutti i prodotti tessili del mondo siano riciclati in nuovi prodotti”. Parma. Il teatro in carcere: ne parlano al Parco esperti, amministratori e operatori del settore La Repubblica, 17 dicembre 2024 Giovedì 19 dicembre 2024 si terrà a Parma il prossimo appuntamento dedicato al teatro in carcere, un’iniziativa promossa dal Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri. L’incontro, intitolato Teatro e cultura: le leve efficaci del trattamento penitenziario, avrà luogo presso il Teatro del Parco di Parma, dalle ore 9.30 alle 17.30. Un’iniziativa promossa dal garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri: “Abbiamo voluto organizzare una giornata dedicata al teatro in carcere, uno strumento che negli anni si è dimostrato particolarmente efficace nel percorso che deve portare al reinserimento sociale del detenuto una volta conclusa la pena”. “L’aspetto della cultura all’interno degli istituti penitenziari, poi, diventa un modo per aprirsi all’esterno”, conclude. Numerosi studi hanno evidenziato l’impatto positivo delle attività teatrali nei processi di recupero sociale dei detenuti. Il teatro in carcere si conferma uno strumento terapeutico e pedagogico capace di favorire la crescita psicologica e personale dei partecipanti, contribuendo a una più efficace riabilitazione. Durante la giornata, esperti, amministratori, accademici e operatori del settore si confronteranno sul tema. Tra i relatori figurano: Michele Guerra (Sindaco di Parma), Silvio Di Gregorio (Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche), Roberto Cavalieri (Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale della regione Emilia-Romagna), Marco Bonfiglioli (Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche), Pietro Buffa (Criminologo, già dirigente del Ministero della Giustizia), Stefano Té (Regista teatrale, Coordinamento teatro carcere Emilia-Romagna), Filippo Giordano (Professore di Economia Aziendale, Università LUMSA di Roma), Claudio Montagna (Regista e animatore teatrale), Cinzia Cazzoli (Responsabile “Spettacoli dal Vivo” della Regione Emilia-Romagna), Gabriella Corsaro (Fondazione Teatro Regio di Parma), Andrea Buratti (Compagnia Mamimò di Reggio Emilia), Carlo Ferrari e Franca Tragni (Progetti & Teatro APS di Parma), Corrado Vecchi (Coop. Soc. Le Mani Parlanti di Parma), Ettore Nigro (Compagnia Piccola Città Teatro di Napoli), Donatella Palermo (Produttrice del film Cesare deve morire), Benedetta Genisio (Gruppo CCO - Crisi come Opportunità), Carmine Luino e Francesca Rotolo (Mast - Officina delle Arti di Roma), Gianfranco Pedullà (coordinamento nazionale teatro carcere). L’iniziativa è realizzata con la collaborazione di Solares Fondazione delle Arti e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche. Registrazione: la partecipazione all’evento è gratuita, ma è necessaria la registrazione obbligatoria tramite la compilazione del seguente modulo di iscrizione. Per ulteriori informazioni contattare l’ufficio del Garante Regionale dei Detenuti al seguente indirizzo email: garantedetenuti@regione.emilia-romagna.it Bologna. Pranzo di Natale in carcere: L’ALTra Cucina porta speranza e riscatto ai detenuti di Mariateresa Mastromarino Il Resto del Carlino, 17 dicembre 2024 L’ALTra Cucina organizza un pranzo di Natale per i detenuti, promuovendo speranza e riscatto con chef e volontari. Un pranzo di Natale oltre le sbarre. Per mostrare che fuori dal carcere una vita c’è e che le possibilità di riscatto sono tante. Tutto questo è L’ALTra Cucina... per un Pranzo d’Amore, l’iniziativa che giovedì avvolgerà la casa circondariale Rocco D’Amato. Promosso da Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza con il patrocinio del ministero della Giustizia, l’evento spegne undici candeline e abbraccia i detenuti e le detenute della Dozza, per una giornata all’insegna della comunità, annullando lo spirito di isolamento che spesso invade le celle carcerarie. Saranno i cuochi dell’alta cucina Filippo Lamantia, Dario Picchiotti e Francesco Tonelli a realizzare un menù per le sezioni maschile e femminile, dove diversi volti noti del mondo dello spettacolo, della cultura e del giornalismo serviranno e intratterranno i detenuti. Con loro, oltre venti volontari regaleranno agli ospiti della Rocco d’Amato un’atmosfera natalizia. Tra loro, il cantante Paolo Mengoli, che l’anno scorso ha partecipato all’iniziativa organizzata nel carcere di Rebibbia. “È un momento importante e interessante, perché mostra il buono che c’è in chi ha sbagliato e ora vuole e merita una possibilità - spiega Mengoli - e una forma di riscatto per chi fuori, in alcuni casi, ha una famiglia”. Dopo l’esperienza romana, “sarò nella Sala Cinema del carcere a Bologna, che è la mia città - continua -. Sono contento di trascorrere del tempo con i detenuti del reparto maschile, cantando canzoni familiari che ricordano momenti felici. Ma potrò anche incontrare le detenute della sezione femminile”. Oltre a Paolo Mengoli, metteranno a disposizione generosità e partecipazione altri esponenti: con i grembiuli neri di Prison Fellowship Italia Onlus, ci saranno Giovanni Cacioppo, Federico Aicardi, MonnaElisa, Gian Luigi Nuzzi, Angela Missoni, Giuseppe Cruciani e Andrea Segré. Tutti insieme, grazie anche all’operato dei volontari, regaleranno calore e vicinanza ai presenti, donando loro un briciolo di sollievo. “Questo mondo non è solo composto da persone che sbagliano, ma anche da chi vuole emergere dalla propria condizione - conclude Mengoli -. C’è chi è riuscito a uscire dal tunnel e merita una seconda chance”. L’evento si svolge in tutta Italia in oltre quaranta istituti penitenziari, dove verranno serviti oltre ottomila commensali. “Rispetto” è la parola dell’anno Treccani. E serve per respirare di Riccardo Maccioni Avvenire, 17 dicembre 2024 La scelta nell’ambito della campagna di comunicazione #leparolevalgono. Una parola che esprime attenzione, gusto dell’incontro, stima. Che anche quando introduce un attacco verbale, non alza i toni del discorso, anzi sembra voler prendere le distanze da quanto sarà detto subito dopo. L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani ha scelto “rispetto” come parola del 2024. Una decisione che sembra un auspicio, che porta con sé il desiderio di costruire, di usare il dizionario non per demolire chi abbiamo di fronte ma per provare a capirne le ricchezze, le potenzialità. Perché se è vero che le parole possono essere pietre, è altrettanto giusto sottolineare come siano in grado di diventare il cemento necessario a edificare case solide e confortevoli, la colla capace di tenere insieme una relazione a rischio di rottura. “Il termine rispetto, continuazione del latino respectus - spiegano Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, condirettori del Vocabolario Treccani - va oggi rivalutato e usato in tutte le sue sfumature, proprio perché la mancanza di rispetto è alla base della violenza esercitata quotidianamente nei confronti delle donne, delle minoranze, delle istituzioni, della natura e del mondo animale”. E la conferma arriva proprio dai termini che rimandano al significato opposto, tutti concetti orientati a distruggere le relazioni, a demolire gli altri: indifferenza (che spesso fa più male dell’odio), noncuranza, sufficienza fino ad arrivare all’insolenza, al disprezzo, allo spregio. E pare di sentirli certi dibattiti dove per festeggiare una vittoria si dice “li abbiamo asfaltati” o quelle interviste sportive con l’allenatore che rivendica “la cattiveria” come ingrediente indispensabile per scalare la classifica. Rispettare è tutt’altro, affonda le sue radici in respicere che, letteralmente significa guardare di nuovo, guardare indietro, cioè richiama il dovere di non cedere alla smania del giudizio immediato figlio dell’emotività, che non tiene conto delle storie delle persone, delle loro battaglie interiori. Occorre, invece, allenarsi alla bellezza del prendersi cura, del fare attenzione, del preoccuparsi per la vita altrui, così che la comunità possa crescere in armonia facendo assaporare in chi ne fa parte il gusto dell’appartenenza alla medesima famiglia umana. Il rispetto, dunque, come rivendicazione dell’importanza delle relazioni autentiche, oltre la superficialità, soprattutto libera dalla schiavitù della banalità, dell’approccio interpersonale mediato unicamente dai social, che possono essere un bene a patto che non si deleghi loro la semina dei rapporti umani. Non a caso l’Oxford dictionary ha incoronato brain rot come parola simbolo del 2024. Si tratta di un neologismo a indicare “il presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona”. Sotto accusa il consumo eccessivo di cose, nel senso di contenuti soprattutto online, poco stimolanti, banali, che filtrano la realtà sotto l’unica lente del virtuale, barattando il rapporto umano con la mediazione dominante, spesso unica, della tecnologia. Nessuna condanna a priori delle Rete, lo ripetiamo, ma l’esigenza di dire che l’esistenza non è soltanto quello che si pubblica sullo smartphone, ma la quotidianità vissuta nella relazione concreta, condivisa, in cui si ragiona e si respira insieme. Perché è appunto insieme che si immagina una società diversa, la si sogna sapendo che se è una comunità intera a progettare il futuro, sarà più facile vederlo realizzato. In inglese, quanto meno nella sua declinazione contemporanea, questo desiderio si traduce nel concetto di manifest, scelto a sua volta come parola dell’anno dal Cambridge Dictionary, che lo spiega così: “Immaginare di realizzare qualcosa che si desidera, nella convinzione che così facendo si aumenteranno le probabilità che ciò accada”. Il segreto perché avvenga, e orientato nel segno di un’umanità che non smarrisce le ragioni del cuore, sta dunque nel volerlo fortemente, ponendo le basi perché cresca non solo in altezza, così da ridurre la distanza tra terra e cielo, ma anche in larghezza, come un grande abbraccio da cui nessuno venga escluso. Il primo passo, allora, è purificare il dizionario, disarmare i discorsi, rifiutare la dittatura della cultura che, per dirla con don Lorenzo Milani, premia chi sa tante parole rispetto a chi ne conosce poche. Una, fondamentale, da respirare tutti, da vivere più che da ripetere semplicemente, è rispetto. Ddl Sicurezza. Gli ampi poteri ai servizi segreti ricordano i momenti più bui del Paese di Simona Zecchi* Il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2024 Il nuovo disegno di legge sulla sicurezza - se approvato anche alla Camera dopo il passaggio al Senato - è già un bel guazzabuglio. Anche su temi delicati e complessi come quelli che coinvolgono i nostri servizi segreti ai quali sembrano riservati ora più ampi poteri. Si legge infatti sul Dossier del Servizio Studi del Senato, che spiega il disegno di legge, qualcosa che fa accapponare la pelle e che soprattutto richiama i momenti più cupi attraversati da questo Paese tra gli anni 60 e 90 del 900 (dagli albori dei tentati golpe anni 60, alla strategia della tensione passando per il sequestro e l’omicidio Moro fino ad arrivare alle stragi di cosiddetta sola mafia del 92 e 93). Vicende che oggi sono ancora oggetto di approfondimenti giudiziari e di inchieste, oltre che storici e giornalistici. Al centro della legge in questo senso si staglia l’articolo 31 (potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza) che sembra puntare a influire in parte sulla legge 124 del 2007, conosciuta più generalmente come Riforma dei servizi di sicurezza. Rispetto alla tutela del personale dei servizi, la modifica che il nuovo ddl porterebbe con sé suona sostanziale perché si stabilisce la possibilità “di estendere anche a una serie di delitti con finalità di terrorismo le condotte scriminabili, previste dalla legge come reato, che tuttavia il personale dei servizi di informazione per la sicurezza può essere autorizzato a porre in essere”. Resta per fortuna la non opponibilità del segreto di Stato. Una serie di contraddizioni, che il cittadino comune magari faticherebbe a interpretare, lascia un po’ perplessi poi. Se infatti resta la logica dell’art. 17 della legge 124, secondo il quale non si possono commettere “condotte dirette a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica” altrui, a esempio, non si capisce come sia possibile l’estensione della serie di delitti citati sopra. E se si aggiunge poi che viene autorizzata la partecipazione all’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale e dell’associazione mafiosa per cui “non sarà punibile il personale dei servizi di informazione per la sicurezza che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato”, il contorsionismo delle intensioni si fa più adamantino. Come si fa ad affermare che non si possono commettere reati contro le persone se poi in ambito terroristico e mafioso si viene giustificati? E di contro, come si fa a ottenere la fiducia di terroristi e mafiosi senza commettere gli stessi reati gravi commessi da loro? A questo proposito è interessante leggere due dei libri dati alle stampe di recente rispettivamente per Zolfo Editore (La strategia parallela di Michele Riccio e Anna Vinci) e Poteri Occulti per i tipi di Fazi editore, scritto dall’ex magistrato Luigi De Magistris che in particolare nel capitolo “L’eterno piduismo all’assalto della Costituzione” scrive: “Il piduismo contemporaneo ha realizzato teorie e azioni del “gran maestro venerabile” Gelli (Licio nda)”. Siamo all’apoteosi delle idee piduiste, alla loro piena attuazione: a un regime politico che annichilisce il carattere parlamentare della Repubblica, riduce le garanzie dello Stato di diritto e del controllo sugli abusi del potere e concentra il potere stesso in poche persone, opponendosi dunque a una concezione della democrazia come potere diffuso”. Mentre l’ex colonnello dei carabinieri Michele Riccio ci consegna i tratti più salienti della sua esperienza e testimonianza di una strategia parallela tessuta da “quegli uomini delle istituzioni posti ai più alti livelli” di cui “siamo ancora prigionieri”. La strategia - scrive ancora Riccio insieme alla scrittrice Anna Vinci, nel flusso di una sorta di Romanzo Civile: “Fu quella di applicare una doppia linea, una dura manipolatrice e nascosta”, l’altra “legale e moderata” che “metteva la faccia”. Doppia linea ricorda qualcosa, a esempio quella adottata dai neofascisti di Ordine Nuovo nella strage di Piazza Fontana di cui in questi giorni ricorrono i 55 anni: mandare avanti la sinistra per commettere a destra reati volti alla destabilizzazione del Paese. Sulla scia di nuove leggi riguardanti la sicurezza nazionale e l’ampliamento dei poteri dei nostri servizi segreti - che in fondo riportano nel dibattito pubblico il ruolo dell’intelligence - mi ha colpito poi un articolo pubblicato sull’ultimo numero edito dalla rivista mensile Formiche scritto dal presidente del Copasir (l’organismo che controlla il Dis, l’Aisi e l’Aise), Lorenzo Guerini, nel quale il deputato del Pd fa leva sulla mancanza italiana di una strategia di sicurezza nazionale rispetto agli altri paesi appartenenti al G7. Guerini, ex ninistro della difesa, da par suo, nelle scorse settimane, ha depositato un disegno di legge che interviene proprio sulla legge 124 del 2007. Proposta volta a istituire, secondo il titolare del Copasir, “una figura dell’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, una figura non meramente eventuale, che sia incaricata, in via permanente ed esclusiva (salvo il caso in cui siano ad essa conferite le funzioni di segretario del Consiglio dei ministri), al coordinamento delle politiche per la sicurezza nazionale e dotata delle funzioni di raccordo trasversale necessarie per l’elaborazione della strategia di sicurezza nazionale”. Sarebbe interessante capire come questa proposta eventualmente andrebbe a legarsi con il nuovo disegno di legge in attesa di approvazione alla Camera (e che molto probabilmente slitterà al 2025 viste le contestazioni che ha raccolto finora) tenendo in mente le contraddizioni e i timori qui espressi. *Giornalista e autrice Migranti. Alternative umane e sostenibili alla detenzione amministrativa di Beatrice Guarrera L’Osservatore Romano, 17 dicembre 2024 “Presunti maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia” nei confronti delle persone trattenute nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani: sono alcune delle anomalie riscontrate dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa, nei confronti dei migranti irregolari in stato di detenzione amministrativa, una forma di privazione della libertà per coloro che, pur non avendo commesso reati, attendono di essere rimpatriati. A riferire di questi presunti abusi è un rapporto, diffuso nei giorni scorsi e realizzato dopo una visita nei Cpr di Milano, Gradisca d’Isonzo, Potenza e Roma tra il 2 e il 12 aprile, che rileva anche “la pratica diffusa della somministrazione di psicofarmaci non prescritti e diluiti in acqua, come documentato nel centro di Potenza”. ??Se sono diverse le inchieste giornalistiche che in passato hanno documentato l’uso massiccio di psicofarmaci nei Centri, con il presunto obiettivo di tranquillizzare i detenuti, è la prima volta, però, che la segnalazione arriva dal Consiglio d’Europa. Secondo il documento, sembra che “l’alto tasso di eventi critici e di violenza registrato all’interno dei Cpr sia stata una diretta conseguenza delle sproporzionate restrizioni di sicurezza, della mancanza di valutazione del rischio individuale dei cittadini stranieri e del fatto che le persone detenute non avessero di fatto nulla per occupare il loro tempo”. Il rapporto ha sollevato anche la questione del trattenimento di cittadini stranieri nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Albania e ha chiesto alle autorità italiane di garantire che ai cittadini stranieri trattenuti all’estero, sotto la giurisdizione italiana, vengano garantite condizioni di vita dignitose, rispetto, oltre che le garanzie giuridiche fondamentali (informativa sui diritti, comunicazione del trattenimento a un terzo, accesso ad un avvocato e ad un medico). Nel documento vengono incluse anche le “osservazioni” del governo italiano che ha ridimensionato il quadro generale e ricordato che è già operativo un gruppo di lavoro istituito il 15 febbraio 2024, per il monitoraggio dei Cpr, con analisi di dati, documenti e segnalazioni fornite dalla Prefetture. Le rilevazioni del Consiglio d’Europa hanno acceso, in ogni caso, i riflettori e lanciato l’allarme sulla condizione dei migranti rinchiusi nei Centri di permanenza per il rimpatrio. Si parla di circa 50mila persone, detenute dal 2014 al 2023, in centri “che violano i diritti umani e sono un disastro per le finanze pubbliche in uno scenario di progressiva e deliberata confusione tra sistema di accoglienza e detentivo, caos amministrativo e costi astronomici”. Così riferisce il rapporto di ActionAid e del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, dal titolo Trattenuti 2024. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri, in cui si documenta, tra l’altro, il fallimento del loro obiettivo dichiarato: “Dai Cpr sono rimpatriati solamente il 10% nel 2023 delle persone colpite da un provvedimento di espulsione, cioè su 28.347 persone sono rimpatriate “solo” 2.987 dai Cpr italiani”. “È necessario arrivare a una chiusura definitiva di queste strutture e promuovere alternative umane e sostenibili alla detenzione amministrativa”, hanno affermato nei giorni scorsi le organizzazioni che aderiscono al Tavolo asilo e immigrazione. In occasione della Giornata mondiale dei diritti umani, infatti, anche il Tavolo, formato da rappresentanti politici e di oltre 40 organizzazioni della società civile, ha presentato a Roma un rapporto sul tema, dal titolo Cpr d’Italia: porre fine all’aberrazione. Nel documento le diverse realtà hanno denunciato le “condizioni aberranti che caratterizzano questi centri, consolidatisi nel tempo come una grave violazione etica, giuridica e politica”, una conclusione a cui sono giunte dopo un approfondito monitoraggio, condotto tra aprile e agosto 2024, su otto Cpr attivi in Italia (Bari, Gradisca d’Isonzo, Macomer, Milano, Palazzo San Gervasio, Pian del Lago, Restinco e Roma). “La carenza di personale specializzato, come mediatori culturali e psicologi - si legge nel documento - aggrava ulteriormente il disagio delle persone trattenute. Molte di loro non comprendono la ragione della propria detenzione e non hanno accesso a un’informativa legale adeguata. Le attività ricreative, che potrebbero mitigare il senso di isolamento, sono pressoché inesistenti, incrementando ulteriormente il disagio psicologico”. Un ennesimo appello dunque a fare luce sulle condizioni degli “invisibili” in detenzione amministrativa ai margini delle nostre città. Mattarella: “Il diritto d’asilo per lo straniero è previsto dalla nostra Costituzione” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 17 dicembre 2024 Il presidente della Repubblica, intervenendo alla XVII edizione degli Stati generali della diplomazia, lancia una serie di allarmi. I “drammi migratori sono talvolta oggetto di gestioni strumentali da parte di alcuni Stati, per trasformarli in minaccia nei confronti dei vicini, in palese violazione di convenzioni internazionali liberamente sottoscritte”. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intervenendo alla XVII edizione degli Stati generali della diplomazia in corso alla Farnesina. Il capo dello Stato ha proseguito: “Siamo di fronte al paradosso di una società globale sempre più interconnessa e interdipendente che attraversa una fase in cui si affacciano nuovamente, con ricette stantie, le sirene del settarismo nazionalistico, etnico, quando non arbitrariamente religioso”. “Divisioni e fratture profonde si moltiplicano. Viene spontaneo chiedersi quale posto abbia la diplomazia in questo contesto, rispetto ad atteggiamenti e a forze - anche di natura non statuale - che si propongono di intaccare la cornice di norme e principi statuiti per assicurare ai membri della comunità internazionale interazioni stabili e ordinate secondo regole riconosciute e valide per tutti. Non è la prima volta nella storia che gli Stati vengono messi in discussione nella loro capacità di perseguire e garantire gli interessi dei popoli e, quindi, dei loro cittadini. Tema che appare di rinnovata attualità a fronte di operatori internazionali svincolati da ogni patria, la cui potenza finanziaria supera oggi quella di Stati di media dimensione, e la cui gestione di servizi essenziali sfiora, sovente, una condizione monopolistica” (il riferimento sembra diretto a Elon Musk, ndr). Il presidente si è soffermato anche sulla guerra in Medio Oriente: “Guardando alla Palestina va ribadito fermamente che, per la Repubblica Italiana, l’autentica prospettiva di futuro risiede nella soluzione a due Stati. È un obiettivo privo di alternative, come hanno ricordato i Ministri della regione intervenuti alla Conferenza dei Dialoghi Mediterranei, prezioso foro sviluppato dalla Farnesina, non solo di dialogo ma anche di tessitura di relazioni e rapporti che possono contribuire a maggiore comprensione, a scenari di stabilizzazione in una regione così complessa”. Secondo il capo dello Stato “perseguire l’obiettivo, ravvicinato, della statualità palestinese significa offrire al popolo della Cisgiordania e di Gaza un traguardo di giustizia e una convincente prospettiva di speranza per il proprio futuro, irrinunziabile condizione anche per una finalmente solida garanzia di sicurezza per Israele”. La chiusura è dedicata alla difesa delle Corti di giustizia: “La stabilità di un posizionamento la rinveniamo - come ho appena richiamato - nei principi definiti dalla Costituzione, agli articoli 10 e 11. Diritto di asilo per lo straniero cui venga impedito nel suo Paese l’esercito delle libertà democratiche, ripudio della guerra, perseguimento di pace e giustizia tra le nazioni anche attraverso limitazioni alla sovranità, in condizioni di parità con gli altri Stati - ha aggiunto il capo dello Stato -. Di qui l’integrazione d’Europa, le Convenzioni internazionali, di qui le Corti di giustizia che ne sono derivate, a tutela dell’applicazione degli ordinamenti. Lo sforzo incessante della nostra azione è stato diretto, quindi, a prevenire i conflitti, a elaborare soluzioni idonee a ricostruire il capitale di fiducia tra gli Stati, oggi pericolosamente eroso. Questo ha consentito alla Repubblica di acquisire influenza e credibilità, in numerosi organismi multilaterali, a partire dalle Nazioni Unite, strumento ampiamente imperfetto ma prezioso”. Mattarella difende le Corti Ue e il diritto d’asilo. “Frecciata” a Musk di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 17 dicembre 2024 L’intervento del Capo dello Stato agli Stati Generali della Diplomazia, alla Farnesina: “Drammi migratori oggetto di gestioni strumentali”. Il diritto d’asilo, l’autorevolezza delle Corti europee, la pericolosità del settarismo nazionalistico e religioso e del capitalismo monopolistico dell’era digitale. Di fronte alla platea degli Stati Generali della Diplomazia, in corso da oggi alla Farnesina, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha utilizzato i consueti toni pacati e istituzionali, ma con parole difficilmente equivocabili, se messe in relazione ai principali avvenimenti nazionali e internazionali degli ultimi mesi. Il contesto era certamente favorevole a riferimenti a questioni riguardanti gli scenari globali e temi come le migrazioni, ma la scelta fatta del Capo dello Stato è andata anche nel senso di un’esposizione circoscritta del proprio punto di vista, e non di frasi di circostanza. Basti pensare a quanto detto sul diritto d’asilo: “La stabilità di un posizionamento” su questo versante da parte del nostro paese “la rinveniamo”, ha detto Mattarella, “nei principi definiti dalla Costituzione, agli articoli 10 e 11: diritto di asilo per lo straniero cui venga impedito nel suo Paese l’esercito delle libertà democratiche, ripudio della guerra, perseguimento di pace e giustizia tra le nazioni anche attraverso limitazioni alla sovranità, in condizioni di parità con gli altri Stati”. Una questione scottante, come è noto, nel pieno del contenzioso tra governo e magistratura seguito alle sentenze di alcuni tribunali, che hanno contestato la scelta del governo di “dirottare” alcuni migranti di paesi ritenuti sicuri nei centri allestiti in Albania, in vista del rimpatrio motivando il proprio pronunciamento con la prevalenza del diritto comunitario, la cui definizione di paese sicuro non coincide con quella di Roma. E il presidente della Repubblica, su questo versante, ha ribadito un assunto che era già emerso, di recente, in altre occasioni pubbliche: “Di qui”, ha affermato “l’integrazione d’Europa, le Convenzioni internazionali, di qui le Corti di giustizia che ne sono derivate, a tutela dell’applicazione degli ordinamenti”. Non è mancato, nella parte del discorso riguardante i migranti, un riferimento generico agli Stati che utilizzano i grandi flussi come uno strumento di pressione sui paesi europei di approdo, che potrebbe essere applicato ad alcuni governi o autorità del Nordafrica: “I drammi migratori sono talvolta oggetto di gestioni strumentali da parte di alcuni Stati, per trasformarli in minaccia nei confronti dei vicini, in palese violazione di convenzioni internazionali liberamente sottoscritte”. Ma la parte più incisiva del discorso del presidente è stata quella in cui quest’ultimo ha messo in guardia dal cortocircuito che si sta verificando tra ritorno di egoismi nazionalistici ed etnici e l’avanzamento della globalizzazione, poiché vi è stato un riferimento preciso ad una figura che secondo il Colle incarna una delle anomalie più grandi del nostro tempo: “Siamo di fronte”, ha detto Mattarella, “al paradosso di una società globale sempre più interconnessa e interdipendente che attraversa una fase in cui si affacciano nuovamente, con ricette stantie, le sirene del settarismo nazionalistico, etnico, quando non arbitrariamente religioso. Divisioni e fratture profonde si moltiplicano. Viene spontaneo chiedersi quale posto abbia la diplomazia in questo contesto, rispetto ad atteggiamenti e a forze - anche di natura non statuale - che si propongono di intaccare la cornice di norme e principi statuiti per assicurare ai membri della comunità internazionale interazioni stabili e ordinate secondo regole riconosciute e valide per tutti. Non è la prima volta nella storia”, ha proseguito il presidente, “che gli Stati vengono messi in discussione nella loro capacità di perseguire e garantire gli interessi dei popoli e, quindi, dei loro cittadini”. Poi, l’affondo, difficilmente scindibile dalla persona del tycoon Elon Musk, integrato nell’amministrazione statunitense dal presidente eletto Donald Trump: “E’ un tema che appare di rinnovata attualità a fronte di operatori internazionali svincolati da ogni patria, la cui potenza finanziaria supera oggi quella di Stati di media dimensione, e la cui gestione di servizi essenziali sfiora, sovente, una condizione monopolistica”. Inevitabile, infine, un riferimento ai conflitti in corso, in particolare quello in Medio Oriente: “Guardando alla Palestina va ribadito fermamente che, per la Repubblica Italiana, l’autentica prospettiva di futuro risiede nella soluzione a due Stati. È un obiettivo privo di alternative. Perseguire l’obiettivo, ravvicinato, della statualità palestinese significa offrire al popolo della Cisgiordania e di Gaza un traguardo di giustizia e una convincente prospettiva di speranza per il proprio futuro, irrinunciabile condizione anche per una finalmente solida garanzia di sicurezza per Israele”. La “dolce morte”, il caso canadese di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 17 dicembre 2024 Nel 2023 l’eutanasia volontaria ha rappresentato il 4,7% dei decessi nel Paese nordamericano. Non un capriccio, bensì una scelta ponderata: il profilo medio di queste 15.300 persone indica un’età superiore a 77 anni e condizioni mediche gravi, come un cancro allo stadio avanzato o una patologia degenerativa con forti impatti sulla qualità della vita. Un canadese su venti lascia la terra scegliendo la “dolce morte”, pur di non soffrire più. Nel 2023 l’eutanasia volontaria ha causato il 4,7% dei decessi nel Paese nordamericano. Non un capriccio, bensì una scelta ponderata: il profilo medio di queste 15.300 persone indica un’età superiore a 77 anni e condizioni mediche gravi, come un cancro allo stadio avanzato o una patologia degenerativa con forti impatti sulla qualità della vita. Il Canada è uno dei pochi Paesi al mondo ad aver legalizzato la morte assistita. Dal 2016 gli adulti possono chiedere ad un medico di aiutarli a porre fine alla proprio vita, seguendo un iter ben definito: il paziente deve essere cosciente e avere una patologia grave e irreversibile. Da tre anni non è più necessario che sia allo stadio terminale, preludio alla morte naturale, ma deve dimostrare una sofferenza cronica e debilitante. Sospesa, per il momento, la proposta di ampliare la scelta anche a chi lamenta disturbi psichici gravi. Almeno due operatori sanitari indipendenti devono quindi autorizzare la procedura. Una legge simile è allo studio in Gran Bretagna. In Italia, invece, l’eutanasia attiva è illegale. A seguito della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, come ricorda l’associazione Luca Coscioni, è possibile richiedere il suicidio medicalmente assistito, ossia l’aiuto indiretto a morire da parte di un medico. Le condizioni sono quattro: la persona che ne fa richiesta deve essere pienamente capace di intendere e volere, deve avere una patologia irreversibile portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche, e deve sopravvivere grazie a trattamenti di sostegno vitale. Un percorso troppo spesso lasciato al caso, alla disponibilità dei medici in un ospedale piuttosto che in un altro, al rischio di finire sotto i riflettori dei media o al centro di polemiche che poco hanno a vedere con la “sym patheia”, quello splendido incontro fra etica ed empatia che fin dai tempi dell’antica Grecia dovrebbe farci “sentire” le sofferenze altrui e il desiderio di alleviarle, come già sappiamo e possiamo fare con i nostri amati animali domestici. L’alternativa è l’eutanasia clandestina, come una volta si facevano gli aborti, o un (costoso) viaggio in Svizzera, il cui codice penale, in vigore dal 1942, considera un reato aiutare una persona a suicidarsi solo se per fini d’interesse personale. Iran. Nasrin Sotoudeh: “La galera non potrà fermare me e mio marito” di Simona Musco Il Dubbio, 17 dicembre 2024 Parla l’avvocata e attivista simbolo delle rivolte a Teheran dopo l’arresto di suo marito Reza Khandan, condannato per aver prodotto spille con la frase “Mi oppongo al velo obbligatorio”. In Iran, la lotta per i diritti delle donne è un cammino segnato da sfide costanti e sacrifici. Nasrin Sotoudeh, avvocata per i diritti umani e attivista, ha vissuto sulla sua pelle la repressione di un regime che continua a negare libertà fondamentali e che continua ad accanirsi contro la sua famiglia. Venerdì, infatti, suo marito, Reza Khandan, è stato arrestato per un caso che risale a sei anni fa, legato alla sua opposizione al velo obbligatorio. Un arresto che avviene in un momento di crescente tensione, con l’approvazione di una nuova legge sul velo che al momento è stata congelata. Ma ciò non basta: la battaglia per i diritti delle donne e di tutti i cittadini iraniani, spiega al Dubbio Sotoudeh, continuerà. “Il movimento Donna, Vita, Libertà non è finito ed io continuerò a combattere”. Nasrin, oggi ci troviamo a parlare di un nuovo capitolo doloroso della sua vita e della sua lotta per i diritti umani in Iran. Suo marito, Reza Khandan, è stato arrestato pochi giorni fa. Può raccontarci cosa è successo quella mattina? Il venerdì è il weekend in Iran. Reza era a casa a fare delle riparazioni quando due agenti sono venuti e gli hanno chiesto di seguirli alla porta principale del garage. Poiché uno dei nostri amici era lì, mi ha subito informato che due persone erano arrivate dicendo che Reza aveva una multa per guida irregolare e che doveva andare alla stazione di polizia a spiegare la situazione. Sono scesa subito alla porta del parcheggio e ho chiesto agli agenti perché volevano portare via mio marito. A seguito della mia insistenza, mi è stato mostrato il mandato di arresto per Reza, relativo a un caso di sei anni fa. Il caso riguardava la produzione di spille su cui era scritto: “Mi oppongo al velo obbligatorio”. Reza è sempre stato una persona che ha lavorato sinceramente per i diritti delle donne e la libertà di abbigliamento in tutti questi anni. Lui e Farhad Meysami (medico, insegnante e attivista civile iraniano, ndr) sono stati condannati a 6 anni di carcere, 5 dei quali eseguibili. Farhad ha scontato 4 anni e mezzo di quella pena ed è stato rilasciato dopo il Movimento Mahsa (Donna, Vita, Libertà, ndr). L’avvocato di Reza ha seguito il caso e ha ridotto la pena a 3 anni e 8 mesi. Ora Reza è stato trasferito in prigione per scontare la pena. In realtà, non avrebbero dovuto arrestarlo, poiché il caso era stato archiviato. Un caso archiviato non può essere riaperto. Il problema è che, fino ad ora, questa archiviazione non è stata notificata a Reza. Tuttavia, i siti di notizie riportano che il caso di Reza e Farhad è stato archiviato e concluso. Ma ciò che mi preoccupa attualmente è la mia costante difficoltà di andare in prigione a incontrare Reza. Perché? Nelle prime ore del trasferimento di Reza alla stazione di polizia, mi è stato impedito l’ingresso perché non indossavo il velo, e la mia discussione con l’agente della stazione di polizia non ha avuto successo. Ieri (domenica 15 dicembre, ndr), quando sono andata alla prigione di Evin per seguire il caso di Reza, mi è stato impedito di entrare perché non indossavo il velo. Alla fine, sono rimasta fuori, mentre il nostro amico è entrato e ha parlato con Reza. Mi chiedo se riuscirò a rivederlo. L’arresto di Reza è arrivato mentre era in corso l’entrata in vigore della nuova legge sul velo, bloccata dal presidente. Cosa pensa di queste politiche? La legge medievale sul velo e la castità, recentemente approvata dal Parlamento iraniano, doveva essere notificata alle autorità esecutive proprio quel giorno. Io e signora Sedighe Vasmaghi, una studiosa islamica, avevamo diffuso una dichiarazione dicendo che avremmo preso misure di protesta se questa legge fosse stata annunciata. Venerdì la legge non è stata annunciata alle autorità esecutive, ma invece mio marito Reza Khandan è stato arrestato per la stessa protesta. Questa è una parte di un quadro più grande di violenza contro le donne e gli uomini, che mostra come anche gli uomini si siano uniti a questa causa, perché sanno che la libertà e la democrazia dipendono dal rispetto dei diritti umani, e soprattutto dei diritti delle donne. Lei stessa è stata vittima di numerosi arresti. A che punto sono i suoi processi? Attualmente sono una prigioniera, la cui condanna è stata rinviata a causa di una malattia. Oltre alla condanna che mi è stata emessa sei anni fa, di cui 6 anni sono ancora eseguibili, l’anno scorso sono stata condannata a 8 anni di prigione, 6 dei quali eseguibili, per aver partecipato al funerale di Armita, un’altra vittima delle violenze legate al velo obbligatorio. Il medico legale ha stabilito che non dovrei essere punita, ma finora il sistema giudiziario ha rifiutato di emettere un mandato per la mia liberazione. Come vede il futuro della sua lotta, alla luce di tutto ciò? Sono certa che il futuro del movimento “Donna, Vita, Libertà”, che non è finito, continuerà e naturalmente io continuerò la mia attività accanto a questo movimento pubblico. In particolare, penso che abbiamo un problema regionale in Medio Oriente con la questione della tirannia, che deriva principalmente dalla cultura patriarcale. Se esaminiamo il governo della Repubblica Islamica, ha iniziato la sua tirannia imponendo il velo alle donne, così che anche ora la Repubblica Islamica dell’Iran è conosciuta nel mondo per il suo velo obbligatorio, proprio come il governo talebano è conosciuto per il divieto dell’educazione femminile, e altri governi in Medio Oriente sono in qualche modo legati a una cultura patriarcale. Non abbiamo altra scelta che mettere da parte questa cultura patriarcale. C’è un altro caso che in queste ore sta scuotendo il mondo: l’arresto della cantante Parastoo Ahmadi per essersi esibita senza velo. Anche in questo caso, le notizie sono parziali e contraddittorie. Cosa può dirci a riguardo? La sua è stata un’azione incredibilmente bella e tempestiva. Nei giorni in cui veniva discussa la legge medievale sul velo e la castità, ha compiuto un’azione straordinaria senza discuterne, è stata una risposta artistica a questa cosiddetta legge. Sono diversi i casi simili: ricordiamo anche Ahoo Daryaei, che si è spogliata all’Università in segno di protesta. Anche su di lei sono state raccontate molte storie controverse. Cosa le è successo? Il suo è stato un altro esempio di ribellione femminile contro il velo obbligatorio. Il governo ha dichiarato che Ahoo era mentalmente instabile e, abusando arbitrariamente del potere, l’ha inviata in ospedale psichiatrico. Il governo iraniano è direttamente responsabile di questa azione. Quale diritto ha di mandare qualcuno in ospedale solo per aver espresso dissenso? D’altra parte, supponendo che la rivendicazione del governo sulla stabilità mentale di Ahoo sia corretta, la domanda successiva è se sia ancora valido il suo diritto di gestire il proprio corpo. Quindi, questa affermazione non cambia il suo diritto. Inoltre, tutte queste azioni indicano quanto sia profondo il divario tra il popolo e il governo. Il Medio Oriente è scosso da conflitti. Cosa prevede per il futuro? Il Medio Oriente si salverà solo lasciandosi alle spalle la sua cultura patriarcale tradizionale, e spero che questo accada presto.