Pena e linguaggio. Se il carcere respira l’aria che c’è nella società di Patrizio Gonnella treccani.it, 16 dicembre 2024 Il dover essere della pena e il suo essere non sono necessariamente sovrapposti. Il dover essere appartiene al campo teorico e normativo. L’essere ci riporta dentro le funzioni che sono devolute al carcere nella concretezza sociale e istituzionale. Il dover essere è delineato all’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene - e dunque anche la sanzione carceraria, di gran lunga la più comminata nei tribunali - non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. I costituenti, da un lato hanno individuato nella dignità umana il limite insuperabile da parte del potere punitivo, dall’altro hanno scolpito in forma chiara quale dovesse essere lo scopo della pena, ossia la rieducazione del condannato. Sarà successivamente compito della Corte Costituzionale, in una serie di sentenze che hanno attraversato decenni di giurisprudenza, quello di definire e circoscrivere lo scopo rieducativo, sottraendolo a ogni tentazione correzionalista morale o religiosa. Le decisioni della Corte hanno chiarito limiti e prospettive del dover essere della pena, che mai deve costituire una modalità di degradazione della persona a cosa, e sempre deve essere diretto a favorire processi di reintegrazione e recupero sociale della persona condannata. La pena del carcere, così come osservata nella sua dimensione empirica, sembra invece rispondere ad altre funzioni, ben lontane dallo scopo costituzionale. Richiamando il pensiero di un illustro studioso quale Massimo Pavarini, il carcere vissuto sembra rispondere a richieste di tipo afflittivo o al limite di neutralizzazione sociale, in un’ottica special-preventiva, tendenzialmente diretta all’eliminazione della persona dal contesto pubblico. Altrimenti non ci spiegheremmo il perché negli istituti penitenziari, così come testimoniano i rapporti di organismi ispettivi o di monitoraggio istituzionali e non, si possano osservare condizioni ordinarie detentive materiali di vita disumane, spazi vitali insufficienti, diritti negati, relazioni personali rarefatte o degradate. Bisogna aver visto un carcere - ammoniva Piero Calamandrei all’indomani della caduta del fascismo - per coglierne la drammaticità e l’illegalità profonda. La cronaca, purtroppo, è colma di storie, casi, racconti di una pena carceraria che è ben lontana dal suo dover essere costituzionale. Se il carcere respira l’aria che c’è nella società Ciò non è esito di una disfunzione patologica ma costituisce il suo ordinario essere anti-costituzionale, come confermato da un linguaggio sulla pena carceraria, nel discorso pubblico, che evidenzia il divario incolmabile tra l’essere del carcere e il suo dover essere. Quando, nel dibattito pubblico, a tutti i livelli, si ascoltano espressioni del tipo “i detenuti devono marcire in galera”, “va buttata la chiave” o “non vanno fatti respirare”, si comprende quale sia la funzione che si vuole affidare al carcere e quale si ritiene debba essere la mission dei suoi operatori. L’essere tragico della pena carceraria risponde inevitabilmente alle finalità che la società ripone in essa, anche al di là di ciò che le norme, a tutti i livelli, propongono. Il mondo del carcere respira l’aria che c’è nella società. Un’aria che si può ben desumere dalle parole urlate nel dibattito pubblico, sui media, nei social, nelle istituzioni. La quotidianità della vita detentiva è fortemente influenzata da aspetti non normativi, dalla pressione dell’opinione pubblica, dalle finalità non dichiarate che sono attribuite al carcere. “I detenuti devono marcire in galera” è al riguardo un’espressione paradigmatica. La si sente per strada, la si legge sui social media, la si urla, a volte, nei luoghi istituzionali. È una frase del tutto indifferente, se non irriguardosa, del dato normativo, internazionale o nazionale. Ha un sapore programmatico che porta con sé i seguenti significati, tutti in conflitto con i contenuti dell’articolo 27 della Costituzione: il carcere deve essere feroce al punto da provocare la putrefazione della persona; il carcere non deve preoccuparsi di assicurare il benessere psicofisico del detenuto; il carcere non deve offrire opportunità di tornare libero e sano in società. Indica un’idea di pena diretta a soddisfare le pulsioni primordiali di vendetta presenti nella comunità. Infine, incita all’uso violento del potere punitivo, mostrando indifferenza rispetto al divieto normativo di trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Discorso pubblico e realtà penitenziaria - Per comprendere cosa può significare l’incidenza del discorso pubblico nella realtà penitenziaria è paradigmatico il tema dell’affettività e della sessualità in carcere. Nel gennaio del 2024 la Corte Costituzionale, con la sentenza n.10, ha affermato che la negazione della sessualità e dell’intimità ai detenuti costituisce una violazione dell’articolo 27 della Costituzione, in quanto lesiva della dignità della persona. La legge penitenziaria del 1975, infatti, prevedeva che il detenuto, durante i colloqui con le persone care, avrebbe dovuto sempre essere controllato a vista. Il tema della sessualità è di per sé un tabù. Nei casi in cui riguarda i detenuti si sommano pregiudizi a stereotipi interpretativi. Non appena la sentenza è stata resa pubblica, in continuità con le dichiarazioni sui media che si erano lette e sentite negli anni precedenti, si sono potute ascoltare espressioni disinteressate, se non offensive, nei confronti della stessa Corte Costituzionale: “le carceri non sono hotel a cinque stelle”, “nascono le prigioni dell’amore”, “ora i detenuti potranno anche fare sesso”. Queste frasi sottintendono uno scopo della pena meramente retributivo, se non vendicativo, ben diverso da quello di reintegrazione sociale, sotteso alle norme costituzionali, il quale presupporrebbe che alle persone recluse siano pienamente assicurati adeguati rapporti umani, affettivi e sessuali. Il dibattito mediatico, tra il sarcastico e lo sprezzante, enfatizzato nel linguaggio semplificato dei social media, ha anestetizzato la sentenza della Corte Costituzionale che, seppur dalla stessa Consulta ritenuta immediatamente operativa, non ha trovato ancora attuazione, così evidenziando quanto il carcere reale sia purtroppo lontano dal dover essere della pena, anche a causa delle parole in libertà espresse nel dibattito pubblico. Pena e linguaggio. Il linguaggio del reinserimento di Rosa Chicone treccani.it, 16 dicembre 2024 Il ruolo dell’educatore penitenziario nell’evoluzione dell’esecuzione della pena. È crescente l’attenzione prestata dalla società al ruolo dell’educatore penitenziario. I quesiti proposti più frequentemente (“In che consiste il lavoro con i detenuti?”, “I condannati riescono veramente a cambiare attraverso le attività organizzate per loro?”) indicano però come le informazioni sull’argomento raggiungano ancora troppe poche persone, lasciando alle altre la curiosità, la diffidenza e, talvolta, un radicato giustizialismo che possono esasperarsi anche nella morbosità. La figura professionale viene introdotta negli istituti di pena per adulti dalla legge 354/75 - Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà - a distanza apprezzabile di tempo, purtroppo, dalla nascita della Repubblica e dall’entrata in vigore della Carta Costituzionale, nel corso di un dibattito culturale e parlamentare sulla “rieducazione”, protrattosi per decenni, abbandonato e ripreso più volte nelle prime legislature del nuovo Stato e, per la verità, ancora aperto. Per mandato istituzionale l’educatore declina, nei diversi e più salienti momenti della vita detentiva, il principio costituzionale della tendenza rieducativa della pena enunciato all’art. 27, comma 3, della Carta. Nonostante le direzioni lungo cui si svolge questo complesso compito siano tracciate dagli snodi dell’endiadi normativa di cui all’art. 82 della legge penitenziaria: “partecipare all’attività del Gruppo di lavoro per l’Osservazione Scientifica della Personalità e attendere al trattamento rieducativo coordinandosi con tutto il personale addetto”, l’obiettivo finale della professionalità è stato, invero, definito dalla riflessione evolutiva sulla finalità della pena e sul senso dell’osservazione dell’adulto nell’ottica del reinserimento sociale. L’apertura a nuove prospettive della relazione pedagogica tra l’educatore e il ristretto ha avuto una notevole ricaduta sul profilo professionale, sul tipo d’intervento affidatogli anche nell’ambito dei gruppi interdisciplinari di cui è partecipe. È stata valorizzata infatti la connotazione “relazionale” e di “ascolto”, ampliandosi le competenze nel rapporto con le altre professionalità, tra l’altro non più solo interne all’istituzione penitenziaria, ma anche appartenenti ad altre amministrazioni ed esterne. Se dunque il significato costituzionale di rieducazione è approdato, partendo dal concetto di emenda, alla prevalente idea del reinserimento sociale con ricucitura della lacerazione causata nel tessuto sociale dall’agito delinquenziale, il ruolo dell’educatore ne ha in ogni modo positivamente risentito. Da incidente a occasione - Così i colloqui tra l’educatore e il ristretto sono funzionali a rilevare i bisogni connessi alla restrizione della libertà personale, le carenze individuali e i profili caratteriali criminogeni, ma soprattutto fanno emergere le attitudini e le progettualità di reinserimento sociale. La relazione dialogica offre quindi spunti di riflessione sul reato per sollecitarne la rivisitazione critica, incoraggiando motivazioni e prospettando azioni orientate alla ricostituzione di una sana interazione con la società. I luoghi della dialettica pedagogica perciò si ampliano, dagli uffici collocati principalmente nelle sezioni detentive ai locali delle attività e anche altrove per non trascurare ulteriori metodologie di trasmissione valoriale, tra le quali, il lavoro, anche di pubblica utilità, interno o esterno al carcere, i meno strutturati setting del teatro, dello sport, dei laboratori, in cui l’educatore è osservatore “partecipe” in “prossimità” alla persona ristretta. Anche il confronto tra le figure professionali è inevitabilmente rinnovato da questi cambiamenti. L’educatore, già componente del Consiglio di Disciplina e delle Commissioni Regionali per il Lavoro intramurario, in virtù di protocolli e conferenze stilati a livello nazionale, regionale e locale con il S.S.N., con gli enti locali e territoriali, è spinto a consultarsi in modo diverso e con figure professionali varie e nuove. Il Gruppo di lavoro (Gruppo di Osservazione e Trattamento) che, da sempre, è stato il peculiare modus operandi nell’àmbito penitenziario, assume pertanto un’enorme versatilità. Da G.O.T. si tramuta in G.O.T.A. (Gruppo di Osservazione e Trattamento “Allargato”), aperto alla presenza di volontari, ministri di culto, insegnanti, appartenenti al S.S.N., operatori di enti locali, territoriali e ai privati del terzo settore. Tipici sono ad esempio i G.O.T. di ammissione al lavoro all’esterno e al lavoro di pubblica utilità, piuttosto specialistici gli “staff” di accoglienza dei detenuti nuovi giunti o quelli di coordinamento per le dimissioni dal carcere e ancora multidisciplinari gli “staff” per la valutazione e la prevenzione del rischio suicidario. Tutto ciò non può che tradursi nella redazione di una documentazione, di norma affidata proprio all’educatore e indirizzata anche ad altre amministrazioni e agli organi giudiziari, spiccatamente “prognostica” che non consisterà più nella “fotografia” statica dello stadio rieducativo del ristretto, ma nel “progetto” dinamico di impiego e concretizzazione delle sue potenzialità. Il “giusto” traguardo allora di un educatore consisterà nel rendere il detenuto consapevole delle sue attitudini al reinserimento sociale con la speranza restituire alla collettività una persona non abbrutita dal carcere, ma anzi avviata e pronta a convertire il suo incidente di percorso in occasione e opportunità di crescita esistenziale con azioni costruttive. Bibliografia - Brunetti, C., Ziccone, M., Diritto Penitenziario, Napoli, 2021. - Della Casa, F., Giostra, G. (ed), Manuale di Diritto Penitenziario, Torino, Giappichelli editore, 2023. - Sartarelli, G., Pedagogia penitenziaria e della devianza. Osservazione della personalità ed elementi del trattamento. Nuova edizione, Roma, Carocci, 2023. Pena e linguaggio. Parole disturbanti di Patrizia Chianese treccani.it, 16 dicembre 2024 Nella “calda estate del 2017”, è stato attivato un laboratorio di poesia all’interno della Casa Circondariale “Regina Coeli”, il “carcere” di Roma. Un luogo atipico per quanto riguarda la creazione poetica, ma solo in apparenza, vista la grande diffusione della poesia fra i detenuti. Una particolarità dell’espressione artistica evidentemente liberatoria e libertaria ed espressione di quella resilienza fondamentale per chi è recluso e vive una condizione di disagio fisico e morale. L’attività del laboratorio, da me curato, nasceva all’interno del progetto Break Point Poetry, promosso dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, in occasione delle manifestazioni dell’Estate Romana e svoltosi in tre anni, dal 2017 al 2019. Tale progetto, oltre a prevedere dei reading di poesia proposti in diversi luoghi della Capitale al fine di coinvolgere e avvicinare le persone comuni alla ricerca e ricezione poetica, era affiancato dal citato laboratorio di poesia, realizzato in carcere, attraverso il quale i detenuti di Regina Coeli partecipavano all’attività poetica, in modo attivo e coinvolgente, scrivendo poesie sulla base di argomentazioni proposte e con la realizzazione finale di un reading annuale in cui venivano lette le loro creazioni poetiche. Nell’ambito del laboratorio sono stati proposti ai detenuti una serie di importanti poeti nazionali e internazionali, attraverso degli elaborati didattici dove, oltre alla biografia e alla poetica, sono stati indicati dei temi di confronto che hanno toccato in qualche modo la personale esperienza del detenuto stesso. Ad esempio, per quanto riguarda Emily Dickinson, è stato individuato il tema del mondo interiore che nasce dalla percezione delle piccole cose, esprimendosi poi in poesia. Per Giuseppe Ungaretti, quello della solitudine e la solidarietà fra gli esseri umani, di fronte all’immensità dell’Universo. Temi e sentimenti che, nella condizione di sofferenza, sono stati recepiti in modo intenso e vero. Nel periodo di attività del laboratorio in carcere sono venuta a conoscenza dell’attività poetica di un detenuto in particolare, che mi ha colpita e coinvolta, Giampiero Cassarà, tanto da fare in modo di impegnarmi nella realizzazione di un libro di sue poesie scritte in carcere per la collana “Fuoricentro”, realizzato anche grazie alla lungimiranza di Manfredi edizioni, uscito nel giugno 2019, quando Cassarà era ormai fuori dal carcere, avendo finito di scontare la sua pena. Il titolo della collana dà immediatamente l’idea di “oltre”, di “altro”, al di là della periferia e della marginalità. Fuori dal centro riconosciuto e spesso, proprio per questo, superato, in funzione di un altro centro. Nel “Fuoricentro” si pone una nuova centralità, la parola poetica di Giampiero Cassarà, che acquisisce una sua prorompente fisicità e specificità. Una sua struttura immaginaria e visiva che inesorabilmente trascina, volenti o nolenti, dentro le sue (Manfredi edizioni, 2019), come recita il titolo della raccolta. Notti che aspirano ad una rinascita, data da un viaggio profondo nella notte stessa. Quella più viva e creativa di chi ha una grande speranza e una profonda fiducia nella forza rinnovatrice dell’animo umano. Notti di attesa verso un’alba di redenzione che non può che passare, nel caso di Cassarà, attraverso la parola poetica. Il punto di vista quindi non è più quello della marginalità e dell’umanità assoggettata, propria delle “Notti d’alba” di Céline, ma è quello della rinascita imposta dalla parola stessa di Cassarà. Dai suoi voli visivi in una Roma confusa e speciale, dalle sue preziose dediche familiari, dai suoi sogni stellati segnati dall’essere dentro le mura. Dall’isolamento della prigione che lo porta però a rincorrere il verso lungo traiettorie immaginarie di grande potenzialità liberatoria. La poetica di Cassarà corrisponde ad una sensazione di vissuto inconscio scandito da bisogni affettivi profondi ed eccessivi. La visione onirica della vita stessa è resa con ariosa condiscendenza scegliendo frasi assolute e quasi malinconiche, spesso ironiche, che toccano corde emotive e pensieri profondi. Gli affetti familiari sono il leit motiv di quasi tutta la sua produzione poetica, accarezzati in vari aspetti, accuratamente condivisi con il lettore con dolcezza e decisione. La parola poetica di Cassarà è spesso discontinua, quasi ogni frase riportata verso sé stessa, dinamica ma anche statica, oscura a volte, deliberatamente provocatoria. Un grido perso nella bocca - Il verso poetico di Cassarà si insinua nella mente, fecondando i pensieri verso prospettive tematiche di grande spessore umano e induce al sentimento più profondo, quello che porta al superamento della retorica per vivere dentro di noi le stesse ansie, le stesse paure, le stesse disillusioni e solitudini di un uomo-poeta. Uomo e poeta, che comunica con la sua poetica anche una grande ironia verso le cose della vita. Senza ombra di dubbio quella di Cassarà non è stata una vita facile, una vita che oggi egli stesso riscatta con il sacrificio e la fatica del suo vivere quotidiano e mediante i contesti creati dalla sua parola poetica. Quella urbana e liberatoria dei luoghi incontrati così come quella tenera e diradante degli affetti familiari. La madre e la figlia in primo luogo che diventano quasi un archetipo dell’amore tout court. Profondo, unitario che induce al pensiero. Un pensiero espresso in visioni poetiche assolute e disturbanti. Nella poetica di Cassarà, infatti, il linguaggio è tagliente, fortemente schematico, affidato ad una linea complessa e alle volte compressa, nella visione assoluta che riguarda però anche le piccole cose, gli aspetti molteplici dell’esistenza umana. Forte il suo sentimento verso la madre, alla quale spesso fa riferimento, come nella poesia a lei dedicata, L’Universo: […] Sei qualcosa che non esce dalla mente Non per niente è facile fartela toccare troppo fitta e nessuno la può controllare Nemmeno un grido che sceglie e poi si perde nella bocca Una piccola goccia che divide gli oceani nella gioia Una piccola foglia cresce e mette a dormire una foresta nell’anima Che farà respirare noi due […] Ancora, nella poesia L’albero e l’assassino, la malinconia dell’essere emarginato si sposa con la critica alla società nella quale si sente assente: […] Ma ho sensazione \ di essere nato per qualcosa Sarà il vento … le stelle … la durezza a inventarmi vero. E non è come la gente sempre più finta E inutile portarmi \ allo stesso silenzio Di molti critici Troppe chiacchiere troppi esempi Troppe ripetizioni O la voce distaccata nell’aria […] Di sicuro il linguaggio poetico di Cassarà è originale e profondo, tanto più perché nato in un ambiente certamente ostile ad ogni manifestazione artistica e ad ogni tentativo di fuga dalla propria condizione di restrizione fisica e mentale, maggiormente importante proprio per questa sua “fuga” in avanti rispetto alle convenzioni e alla retorica. Pena e linguaggio. I modi per dirlo, dal latino a oggi di Marcello Aprile treccani.it, 16 dicembre 2024 Per indicare i luoghi di restrizione in cui sono rinchiuse le persone private della libertà personale l’italiano ha diverse parole e una sinonimia molto sviluppata. Una, già medievale, è galera, che è uno sviluppo del greco bizantino ????? ‘nave da guerra’ (la trama semantica a cui vanno incontro galea e galera è un po’ tortuosa ma molto interessante e varrà la pena di tornarci). Anche la seconda parola, prigione, in italiano non è autoctona ma un antichissimo prestito del francese prison che ricorre già nel Ritmo lucchese del XIII secolo, nella forma prescione. Poi ci sono le parole locali, tra le quali la più famosa ci sembra (er ‘il’) gabbio, che è il modo in cui questo luogo di restrizione è chiamato a Roma e nel Lazio. Infine, e su questo si concentrerà d’ora in poi la nostra attenzione, c’è carcere, che tra tutti i sinonimi che abbiamo detto è quello “autoctono”, dato che non è entrato nella lingua italiana solo a partire dal Medio Evo ma è più antico, essendo parte del patrimonio ereditario, del fondo latino della nostra lingua: in altre parole, carcere si è sempre detto, in qualunque epoca di quella lunghissima linea del tempo che dalla Roma antica porta fino a noi, anche se nell’Urbe dei tempi di Cicerone il significato primario era quello di ‘recinto’, da cui arrivare a quello di ‘prigione’ è facilissimo. Il successo della parola non vale solo per l’italiano, peraltro: la parola latina carcer continua in tutte le lingue neolatine con l’eccezione del rumeno, dal francese all’occitanico, fino al catalano, allo spagnolo e al portoghese, come documentano i dati del Lessico Etimologico Italiano (LEI). Il carcere, la carcere - Assodato che la parola latina ha un grande successo nelle lingue romanze, la difficoltà, piuttosto, sta nel genere, che nella lingua madre è maschile: in portoghese cárcere conserva il genere maschile, ma in francese (in cui chartre sopravvive fino al Settecento) e nell’occitanico antico carcer, charcer il genere è femminile e il catalano e lo spagnolo, come l’italiano, presentano nella loro storia forme sia maschili sia femminili. E in italiano? Qui il discorso si fa complesso, perché oggi si è affermato con decisione il maschile il carcere, ma in passato il femminile esisteva eccome, tanto che, per dirne qualcuna, nella Firenze della prima metà del Trecento il Commento in volgare all’Arte di amare di Ovidio dice “comandò Minos che fusse fatta una carcere, chiamata poi Laberinto”, il predicatore pisano Domenico Cavalca, nello stesso periodo, esclama “Esci di questa carcere, anima, escine, perché temi?”, nel Cinquecento lo scrittore Pier Francesco Giambullari parla di “la carcere di Carlo Semplice”, la carcere era una forma normale anche per Cesare Beccaria e persino D’Annunzio, in pieno Novecento, scrive “Giunti alla porta della nostra carcere”. Se il singolare però oggi è indiscutibilmente il carcere, il plurale in italiano corrente è le carceri, al femminile, anche se la variante maschile i carceri, decisamente meno corretta, esiste ed è molto diffusa. Prigioni, recinti, luoghi opprimenti - La prima attestazione scritta di questa parola è in un testo poetico didattico-religioso della prima metà del Duecento lombardo, l’Istoria del cosiddetto “Pseudo Uguccione”: “Et en carcer et en preson / Sostene fiera passïon / De grand mal et enfirmitate”. Come poesia, probabilmente, non è un granché, ma la testimonianza è preziosa per via della sua antichità ed è la prima che conosciamo per un testo non scritto in latino. E la parola è attestata da un capo all’altro della penisola. Il milanese Bonvesin de la Riva verso la fine del Duecento parla di un “om cativo” che qualcuno “met in carcere”; il fiorentino Giovanni Villani parla, qualche decennio dopo, di un uomo messo “in carcere in una gabbia di ferro”; gli Statuti catanesi dei monaci di Santa Maria di Licodia e San Nicola di la Rina (siamo nel 1344 circa) prescrivono che per una certa disobbedienza il colpevole “sia misu in carceri”. Carcere è usato anche dal padre della lingua italiana, Dante, che nel canto XXXIII dell’Inferno scrive “Come un poco di raggio si fu messo / nel doloroso carcere, e io scorsi / per quattro visi il mio aspetto stesso, / ambo le man per lo dolor mi morsi”. La semantica della parola conosce vari aspetti interessanti: il significato di base è sicuramente quello di ‘prigione’ come luogo (o quello connesso di ‘prigionia, detenzione’), ma in vari volgari antichi e dialetti moderni sopravvive sorprendentemente anche l’altro significato latino, ‘recinto, stalla’, che nella lingua nazionale è estinto; in alcuni dialetti italiani (proseguono le sorprese) carcere può significare anche ‘cantina’ e ‘parte del mulino dove scorre l’acqua’. I significati metaforici, invece, sono intuitivi. Nell’italiano medievale la concezione cristiana vedeva il corpo umano come carcere dell’anima (corporal carcere, come lo chiama Boccaccio, o terreno carcere, Petrarca); il carcere mondano non è altro che la vita terrena, la parola arriva spesso e volentieri a designare l’Inferno o i gironi infernali e in svariati casi assume il senso di ‘condizione dell’uomo oppresso da mali o vizi’. Diffusissimo e moderno (ma affermato già dal Cinquecento) è il significato di ‘luogo opprimente, in cui si deve stare per forza, contro la propria volontà’. La parola su questo al poeta triestino Umberto Saba: “Anche gli è a noia la casa patema, / un carcere la scuola”. Non solo carcere - Dalla base carcere nascono svariate parole: carcerare (ma è più frequente il prefissato incarcerare), da cui i nomi di azione carceramento e carcerazione (il secondo, come sappiamo, ha vinto la lotta darwiniana e ha relegato l’altro a una curiosità storica) e i nomi d’agente carceratore e carceriere (stesso ragionamento), tra i participi sostantivati l’inconsueto carcerante e il fondamentale carcerato. Una curiosità d’autore è la coniazione carcerite ‘mentalità acquisita con il carcere prolungato’, dovuta ad Antonio Gramsci. Non mettiamo in questa lista carcerario che viene da un’altra base latina, carcerarius. Infine, chiudiamo questa carrellata con alcune curiosità. Carcere di massima sicurezza, quello in cui sono rinchiusi detenuti giudicati pericolosi e con detenzioni lunghe, non è una formula italiana, ma come osserva il LEI, un calco sull’inglese americano maximum security prison (dal 1983, Cortelazzo-Cardinale). Carcere durissimo e carcere duro sono termini storici che si riferiscono a forme di detenzione con aggravamenti di pena del sistema austroungarico, ma il secondo è largamente usato anche oggi in riferimento al cosiddetto 41bis. Radio carcere è una forma scherzosa che designa, nelle carceri, lo scambio di informazioni e di notizie interne; da tempo è anche curata da Riccardo Arena che ogni martedì sera alle nove offre uno spazio alle diverse voci dell’universo carcerario italiano, comprese quelle che normalmente non ne hanno una. I dati sono ricavati dal Lessico Etimologico Italiano fondato da Max Pfister e diretto da Elton Prifti e Wolfgang Schweickard, dal Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia e Giorgio Barberi Squarotti, dal Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (nell’edizione a cura di Michele A. Cortelazzo) e dal Tesoro della lingua italiana delle origini fondato da Pietro Beltrami e oggi diretto da Paolo Squillacioti. Femminicidi, violenza e pene. Cosa ci ha insegnato Gino Cecchettin di Vincenzo Di Paolo L’Unità, 16 dicembre 2024 L’utopia repressiva e la visione punitiva ci allontanano da quello che dovrebbe essere il fine della pena, il reinserimento sociale e la rieducazione del condannato. Durante una data del suo tour al Forum di Assago a Milano, Laura Pausini ha lanciato dal palco un messaggio contro la violenza sulle donne. “Dare l’ergastolo a un uomo che ha ucciso una donna è un gesto importante” ha detto la cantante, aggiungendo: “non si può lasciare a casa un essere umano che essere umano non è”. Pochi giorni prima, a far discutere erano state le parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, che aveva espresso la sua “intima gioia” nel sapere che le auto blindate della Polizia penitenziaria per il trasporto di detenuti al 41bis non lasciano respirare chi sta dietro il vetro oscurato. Sono dichiarazioni provenienti da persone appartenenti a mondi così distanti, un rappresentante delle istituzioni e un’esponente del mondo della cultura e dello spettacolo, ma riflettono un pensiero largamente diffuso, perché ogni giorno nel dibattito pubblico e tra le nostre conversazioni sentiamo affermazioni di questo tenore. Gettare in carcere, chiudere in cella e buttare via la chiave, è il ritornello che viene ripetuto soprattutto a commento dei fatti più spietati che la cronaca ci propone. Sono i segni e gli effetti di una società pervasa da un giustizialismo punitivo e vendicativo che ci sta trascinando sempre più in basso, lontano da quel “senso di umanità” che dovrebbe essere proprio di uno stato di diritto e che le nostre madri e i nostri padri costituenti hanno voluto fissare nell’art.27 della Costituzione come elemento imprescindibile rispetto alla funzione della pena. Così anche nel lancio di un messaggio positivo, quello contro la piaga sociale della violenza sulle donne, può annidarsi la truculenza di un pensiero ingiusto. È difficile, certo, soprattutto quando parliamo di determinati tipi di crimini e reati. C’è una fatica maggiore quando ci troviamo di fronte a vicende che mostrano un male efferato e spietato. Però mai, nei confronti di nessuno, dovrebbe venir meno la domanda su cosa ci rende uomini, cosa fa di noi un essere umano. Siamo soltanto ciò che abbiamo commesso? No, non siamo nemmeno la peggiore delle cose che abbiamo commesso. Possiamo davvero permetterci di catalogare le persone, classificando chi è un essere umano e chi non lo è? Dove ci porterebbe questo discorso? L’utopia repressiva e la visione punitiva ci allontanano da quello che dovrebbe essere il fine della pena, il reinserimento sociale e la rieducazione del condannato. La nostra società ha smesso di crederci, il giudizio e la condanna morale sovrastano qualsiasi altro tipo di ragionamento o valutazione. Non c’è reinserimento nell’ergastolo. Non c’è rieducazione nel carcere. C’è soltanto afflizione, degrado, sofferenza. C’è soltanto la morte, con quella speciale misura di liberazione anticipata concessa ai detenuti, il suicidio. Il numero impietoso di persone che scelgono di togliersi la vita in carcere continua a salire. Nel 2024 contiamo ad oggi 83 suicidi. Non so se per qualcuno questa possa essere “un’intima gioia”, ma la notizia di persone a cui è strappato il respiro lascia ormai molti, troppi, nell’indifferenza totale. Per questo, dopo la pena di morte, dobbiamo continuare a combattere contro la pena fino alla morte e contro la morte per pena. Il giusto sdegno provato di fronte ai delitti più atroci non può condurci a invocare l’ergastolo come pena esemplare. Occorre disarmare certi pregiudizi e chiedersi quale sia il tempo sufficientemente lungo per maturare una piena coscienza della gravità di un reato ma non così lungo da impedire la concretezza di un recupero sociale. L’ergastolo come gesto importante, l’ergastolo come valore è il segno dell’irredimibilità del male che nega ogni speranza. Il femminicidio è realmente una piaga che va combattuta anzitutto sul piano culturale. Dal palco del Forum di Assago sarebbero potute arrivare altre parole di condanna contro un impianto sociale che continua a generare una cultura che legittima possesso, violenza, disparità. È un problema radicato nei comportamenti, nei linguaggi, nelle azioni quotidiane, che coinvolge tutti, per questo serve portare avanti un’azione pedagogica volta alla prevenzione della violenza di genere, educando al rispetto, contro le discriminazioni. “Come essere umano mi sento sconfitto”. Sono le affermazioni di Gino Cecchettin dopo la pronuncia della sentenza di condanna per il femminicidio di sua figlia Giulia. La sua è la testimonianza più forte, l’insegnamento più prezioso. Separare il dolore dall’odio. Separare il reato - che rimane, in tutta la sua brutalità ed efferatezza, così come resta il dolore - dall’uomo. Separare il male dalla speranza. Abbiamo perso tutti come società, ci ha ricordato Cecchettin: la violenza non si combatte con le pene. Giustizia e vizio di mente di Mario Iannucci* quotidianosanita.it, 16 dicembre 2024 Ci fa piacere che qualcuno si interessi, anche da un punto di vista teorico, al valore non soltanto etico, ma soprattutto preventivo ed “economico”, del riconoscimento della incidenza dei disturbi psichici sulla imputabilità e, quindi, sulla colpevolezza. Lo ha fatto pochi giorni or sono Luciano Eusebi, con mente sufficientemente sgombra da rilevanti pregiudizi, anche da pregiudizi derivanti dall’adesione a credenze religiose o ideologiche. Luciano Eusebi ha messo in evidenza la circostanza che, uno sbrigativo e cieco atteggiamento giustizialista e vendicativo, produce effetti disastrosi sul fronte del trattamento degli autori di reato, ma anche e soprattutto sul fronte della prevenzione dei reati stessi. Ci sono alcuni dati su cui riflettere se si vuole affrontare ragionevolmente e in maniera logica il problema del trattamento e della prevenzione. Vediamo taluni dei dati salienti che emergono indiscutibilmente se si analizza la gestione delle pene nel mondo western, in Italia in particolare. Le nostre galere sono attualmente stracolme di persone che presentano gravi o gravissimi problemi: persone affette da disturbi mentali gravi, talune delle quali prosciolte per vizio di mente che non possono essere ammesse nelle REMS per mancanza di posti; tossicodipendenti cronici e/o con doppia diagnosi; persone il cui stato mentale non è mai stato adeguatamente valutato, tantomeno in relazione al grado di imputabilità. Un terzo delle persone recluse in Italia sono stranieri, con percentuali che, in taluni istituti di pena, superano i due terzi: chi ragionasse seriamente si dovrebbe chiedere come possa essere valutato in maniera adeguata lo stato mentale di persone così distanti dagli italiani per lingua e per cultura. La consistenza del numero del numero dei detenuti con disturbi psichici indusse qualche anno or sono una Sovrintendente della Polizia Penitenziaria a esprimersi così: “Il carcere si sta trasformando in una enorme REMS”. Come meravigliarsi, allora, se ormai da qualche anno la prevalenza dei detenuti che si tolgono la vita supera di venti volte quella delle persone che lo fanno all’esterno? Come meravigliarsi della crescita di comportamenti violenti (persino mortali) agiti o subiti in carcere da malati mentali? In questo carcere privo di ragione e di speranza, le deaths of despair stanno diventando la norma. Pochi giorni or sono uno Psicologo toscano ha lasciato il carcere dove ha lavorato per anni, esprimendo sensatamente le ragioni per le quali ha ritenuto di non riuscire a sopportare il ruolo di “saltimbanco del trattamento”. Come psicoanalista non mi meraviglio in alcun modo dell’inevitabile pulsione vendicativa che è parte sostanziale dell’inconscio di ciascuno, anche delle persone che vorrebbero apparire pacate e moderate, ma la cui ragionevolezza si sgretola non appena qualcuno adombra l’ipotesi che andrebbe approfonditamente valutata la colpevolezza dell’autore di un reato “pazzesco” commesso in danno di un familiare della persona pacata: solo la pena massima inflitta a quel criminale soddisfa le esigenze della legge del taglione che governa l’inconscio. Della pulsionalità inconscia dell’altro è indubbiamente necessario che coloro che applicano le leggi tengano conto, ma senza sacrificare la verità e la realtà: se si condanna al massimo della pena, come sano di mente, Anders Breivik, l’uomo che in Norvegia, nel 2011, uccise settantasette persone per delle credenze che la stragrande maggioranza delle persone riconoscono come “pazzesche”, allora tutti hanno davvero “diritto alla pena” (come sostengono coloro che vogliono abrogare il “vizio di mente” dal codice penale). Il che significa che tutti hanno diritto alla vendetta. Riconoscere le peculiarità psicologiche (e psicopatologiche) degli autori di reato sarebbe senz’altro più conveniente soprattutto da un punto di vista “economico”. Riconoscere e trattare il disagio psichico evita i pesantissimi danni provocati, a quelle persone e ad altri, dal mancato riconoscimento/trattamento. Ma questo consentirebbe anche una migliore collocazione delle risorse pecuniarie, poiché sarebbe davvero sciocco pensare che il carcere attuale consenta una cura adeguata del profondo disagio psichico che alberga. Ma persino l’economia intrapsichica dei malati di mente detenuti ne trarrebbe un gran giovamento, considerando che dobbiamo quasi sempre curare “criminali per senso di colpa”, persone che vanno cioè alla ricerca di una punizione per soddisfare profondi e impropri sensi di colpa. Non sono meravigliato, avendo lavorato in carcere per quasi quarant’anni, che il calendario del 2025 della Polizia Penitenziaria sia dedicato esclusivamente ai compiti di controllo e di repressione assegnati al corpo. Quello che spero, considerando l’ambizioso motto di quella Polizia (Despondere spem munus nostrum), che richiama gli appartenenti a quel Corpo all’assunzione di funzioni trattamentali molto più alte e specialistiche, è che almeno i calendari del 2026, 2027 e 2028 siano dedicati all’esercizio di compiti che gratifichino altre e più nobili pulsioni di quegli operatori, la cui umanità ho spessissimo riconosciuto quando li ho avuti accanto, persino nelle più impegnative azioni di controllo del disagio e della pericolosità sociale dei detenuti. Solo favorendo l’assunzione di questa alta responsabilità trattamentale degli operatori, essi potranno depondere spem. E la società civile potrà meglio sostenere la loro speranza, considerando che anche fra gli Operatori della Pol Pen non sono pochi coloro che si tolgono la vita. *Psichiatra psicoanalista Anm pronta allo sciopero contro la separazione delle carriere di Giulia Merlo Il Domani, 16 dicembre 2024 Santalucia: “La riforma è uno strappo”. L’associazione ha dato il via alla mobilitazione che permette una o più giornate di sciopero per manifestare la contrarietà alla riforma voluta dalla maggioranza e soprattutto da Forza Italia. L’ultimo punto della mozione approvata domenica dall’assemblea generale straordinaria dell’Associazione nazionale magistrati proclama “l’indizione, in relazione all’iter parlamentare di discussione del ddl di riforma costituzionale, di una o più giornate di sciopero per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli della riforma”.Nel documento approvato durante l’assemblea generale straordinaria, l’Anm “esprime un giudizio fortemente negativo sulla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario che non è una riforma della giustizia, che non sarà né più veloce né più giusta, ma una riforma della magistratura che produrrà solo effetti negativi per i cittadini”. Il documento approvato è il passo finale di una giornata in cui le toghe hanno scelto di fare “fronte comune” contro la separazione delle carriere, doppio Csm e l’istituzione di un’alta corte come organo di disciplina. Durissimo anche il presidente Giuseppe Santalucia. “La magistratura è pesantemente attaccata sotto il fuoco di parte, di buona parte, della stampa e dei media, che la feriscono con ogni genere di accuse, per poi addebitarle di aver perso la fiducia dei cittadini, fiducia esposta in larga misura all’azione corrosiva delle loro intemerate sulla politicizzazione, sulla ostilità al governo, sul collateralismo partitico, sulla pratica giudiziaria costellata di errori” ha detto durante il suo intervento nell’Aula Magna della Cassazione. “Tutto ciò è reso possibile dall’insofferenza che settori importanti della politica ostentano nei confronti della giurisdizione” ha continuato. “Dai test psico-attitudinali al serissimo, e da noi non sottovalutato, capitolo dell’errore giudiziario, nulla è affidato alla riflessione e al costruttivo approfondimento e ogni tema è usato per l’incessante opera di sfaldamento della credibilità dell’ordine giudiziario - ha sottolineato Santalucia. Di fronte a questo progressivo deterioramento del quadro, la magistratura potrà continuare ad aver fiducia e coltivare speranza soltanto se saprà mantenere, anzi rafforzare, la presenza e la vitalità dell’associazionismo”. La risposta della destra - Polemiche dalla maggioranza, che vede ne messaggio il tentativo di politicizzare la giustizia. Per Enrico Costa di FI “è il solito tentativo di condizionare il Parlamento che sta esaminando il ddl”. Il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri ha alzato il tiro: “Sono i Santalucia che rendono un’Italia peggiore, ma siamo noi che la renderemo migliore. Con Landini, Santalucia e i magistrati che boicottano il Parlamento e il governo l’Italia rischia di fare dei passi indietro”. La mobilitazione prevede anche “una sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui pericoli di questa riforma, che, sia a livello centrale che locale”. Così l’avvocato in Costituzione placa la lite sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 16 dicembre 2024 L’inevitabile ritorno di fiamma per la riforma. Il Governo vuole affrancare la separazione delle carriere dall’idea di rivalsa sui magistrati. Virata possibile solo se si riscopre il ruolo sistemico ed equilibratore della professione forense. Colpisce che la politica abbia riaperto il discorso sull’avvocato in Costituzione. Colpisce, certo, che sia avvenuto, in modo assolutamente bipartisan, all’evento organizzato venerdì 6 dicembre dal Cnf sui 150 anni degli Ordini forensi. Se ne potrebbe ricavare l’impressione di un omaggio tardivo, di un riconoscimento ideale ma privo, in prospettiva, di reali conseguenze. Può darsi sia così. Eppure ci sono segni che lasciano intuire un’intenzione più autentica, e dunque capace di dare frutti. Intanto, cosa è successo? Alla cerimonia che il Consiglio nazionale forense ha tenuto dieci giorni fa a Roma, all’Auditorium della tecnica, la richiesta venuta dal vertice della massima istituzione dell’avvocatura, Francesco Greco, non ha riguardato affatto l’avvocato in Costituzione, né l’amnesia di cui è stato vittima, nel Consiglio dei ministri dello scorso 29 maggio, il comma relativo alla professione forense, inizialmente previsto dal guardasigilli Carlo Nordio nel proprio ddl. Greco ha chiesto un’altra cosa: una compartecipazione effettiva degli avvocati all’organizzazione della giustizia, al fianco dei magistrati. Un passo che l’avvocatura muove in una direzione ben precisa, e che la politica comincia a comprendere: in gioco c’è la necessità di dismettere, seppur gradualmente, le modalità telematiche di celebrazione dei processi, civili e penali, in favore di un progressivo ritorno degli avvocati, e delle parti coinvolte, nelle aule dei tribunali. In attesa che il legislatore, come auspica per esempio un viceministro della Giustizia di estrazione forense qual è Francesco Paolo Sisto, provveda ad accantonare l’eccesso di “trattazione scritta” ereditata dal covid e a ripristinare la presenza fisica nei processi, il presidente del Cnf ha detto: noi siamo i garanti dell’accesso alla giustizia e chiediamo intanto di essere coinvolti fin da subito nell’organizzazione, innanzitutto attraverso il confronto nei Consigli giudiziari. Si è fermato lì, il vertice di via del Governo vecchio. Nella sua introduzione all’evento del 6 dicembre, non ha neppure pronunciato la frase “avvocato in Costituzione”. Lo hanno fatto, subito dopo, non solo un osservatore “terzo” come il vicepresidente della Consulta Giulio Prosperetti ma, soprattutto, il guardasigilli Carlo Nordio. È stato lui a promettere di rimediare, il prima possibile, all’esclusione della norma costituzionale sugli avvocati dal testo sulla separazione delle carriere. Dopo di lui hanno detto la stessa cosa, nell’ordine, il sottosegretario Andrea Delmastro, di FdI, la responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, la capogruppo 5S in commissione Giustizia alla Camera Valentina D’Orso, la senatrice della Lega Erika Stefani, anche lei capogruppo Giustizia, la presidente dei deputati di Italia viva Maria Elena Boschi e il forzista Pietro Pittalis, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio. Tutti d’accordo. Cosa è cambiato rispetto al ricordato Consiglio dei ministri del 29 maggio 2024 in cui tutti e tre i partiti di governo ritennero che l’avvocato in Costituzione, se innestato nella già indigesta, per le toghe, separazione delle carriere, avrebbe rischiato di accentuare il senso di mortificazione nella magistratura? È cambiato il mood, lo spirito, la logica e anche il messaggio politico con cui il governo di Giorgia Meloni procede verso la riforma costituzionale della giustizia. È ormai definitivamente acquisita la certezza che la separazione delle carriere dovrà passare per un referendum confermativo, in modo da ottenere dagli elettori un placet in grado di risolvere il pluridecennale conflitto tra politica e ordine giudiziario. Ma proprio perché la vittoria del sì confermativo a quel referendum dipenderà dal superamento della frattura che, sulla giustizia, si è aperta con Mani pulite, Nordio e la maggioranza si convincono ogni giorno di più che il “divorzio” giudici-pm vada affrancato dal paradigma vendicativo, troppo “berlusconiano”, troppo divisivo e perciò troppo rischioso per gli esiti della consultazione. Separare le carriere è sì la via per depoliticizzare la magistratura e riportare l’equilibrio fra potere politico e potere giudiziario, ma nel quadro di un riassetto innanzitutto della giurisdizione, di un processo che sia più coerente con il codice Vassalli e il modello accusatorio. E allora la logica della riforma deve essere assai più pacificatoria. Stroncare lo strapotere dei pm è un obiettivo da preservare, intendiamoci, ma che va perseguito nella tutela del sistema giustizia, non certo con una guerra di potere. In questo riequilibrio, è evidente che l’inserimento dell’avvocato nella Carta, ora invocato da maggioranza e opposizioni, rappresenterebbe un clamoroso fattore di pacificazione. Riporterebbe lo schema della riforma costituzionale nel suo giusto perimetro: la distinzione del giudice dalle parti del processo, accusa e difesa. E soprattutto, nel rafforzare il ruolo dell’avvocato come coprotagonista della giurisdizione e come unica controparte della magistratura, realizzerebbe il “miracolo” di tenere al sicuro l’autonomia e indipendenza dei magistrati pur in un passaggio che indebolisce la loro (anomala) “forza politica”. L’alleanza fra avvocatura e magistratura nella giurisdizione vuol dire maggiore garanzia che l’autonomia dell’ordine giudiziario non sia minacciata dal potere politico. Il Cnf lo sostiene da anni. Lo condivide, da molto tempo, un presidente emerito della Cassazione come Gianni Canzio. Ora che la separazione delle carriere va rielaborata - rispetto all’iniziale logica di riscatto della politica sulle toghe - come riordino costituzionale della giustizia, quelle verità, più o meno consapevolmente, riemergono dall’archivio delle rimozioni. Basterà? Non lo sappiamo. Ma certo, il lungo percorso verso il riassetto dell’ordine giudiziario dovrà per forza portare, anche per gli avvocati, delle novità ancora non del tutto prevedibili. “Anche all’autore dei reati più odiosi va garantita la difesa” di Simona Musco Il Dubbio, 16 dicembre 2024 “Ho fatto questa scelta, prima della mia famiglia, perché per me l’avvocato è colui che non volta la testa di fronte ad una ingiustizia ma tiene la testa ben dritta e la usa, magari per difendere i più deboli di fronte anche al potere. Vivo l’impegno politico in continuità con quell’ideale: eliminare le ingiustizie e accendere una speranza”. A dirlo è Maria Elena Boschi, capogruppo di Italia viva alla Camera e avvocata. Che dice: “L’avvocato in Costituzione è un passo verso una giustizia giusta”. Cosa cambierà per il diritto di difesa con l’inserimento dell’avvocato in Costituzione? Il riconoscimento esplicito del ruolo dell’avvocato è un elemento di grande forza simbolica. È aggiungere alla inviolabilità del diritto di difesa il riconoscimento che questo si attua con una avvocatura libera ed indipendente e con pari dignità dell’accusa di fronte al giudice. L’avvocatura ha dato molto al nostro Paese anche per riaffermare l’importanza dello stato di diritto. Pensiamo al tributo di Fulvio Croce negli del terrorismo o degli avvocati uccisi dalla criminalità organizzata. L’inserimento in Costituzione significherebbe un riconoscimento del nostro ruolo perché possa esserci una giustizia giusta. Molto spesso gli avvocati vengono assimilati ai propri assistiti o ai reati da essi commessi: come si può capovolgere questa cultura basata sul mancato riconoscimento del diritto alla difesa, anche nei casi di reati deprecabili e orribili? La sintesi migliore l’ha fatta il presidente Greco prendendo giustamente le difese del collega minacciato per aver assunto la difesa di Turetta: l’avvocato difende l’imputato, non il reato. In un sistema democratico si deve garantire a tutti, anche a chi commette reati disgustosi o non si pente, il diritto alla difesa. Altrimenti, nessuno potrà credere che il processo sia giusto e verrebbe meno anche il valore della condanna. Ciascuno deve essere condannato alla pena adeguata, non ad una pena ingiusta e più severa. Per chi è accusato ingiustamente, è ancora più evidente come sia fondamentale l’avvocato. Altrimenti, potremmo tornare alle prove ordaliche con buona pace di secoli di civiltà giuridica. Passiamo ad un tema di grande rilevanza: qual è la sua opinione sulla riforma della separazione delle carriere e come cambierà il processo con questo intervento? Noi di Iv sosteniamo da sempre la separazione delle carriere. Abbiamo appoggiato il referendum e riproposto la pdl promossa dall’Unione delle Camere penali e firmata da migliaia di cittadini. Il testo presentato dal governo non è perfetto, però. Vediamo se cambieranno qualcosa. La riforma segnerebbe l’ultimo passo del processo accusatorio, l’affermazione del giusto processo. La pari dignità tra accusa e difesa di fronte a giudice. Così come avviene, senza destare scandalo, in tanti Paesi europei. Quali sono, secondo lei, le sfide principali per portare avanti questa riforma? Smettere di farla passare per una vendetta per sentenze dei giudici che non piacciono al governo, che sia il caso Diciotti o i centri in Albania, come fanno Salvini e Meloni. Se la maggioranza la vive come una sorta di punizione verso i magistrati, sbaglia. Abbiamo bisogno di una magistratura indipendente, ma non è un attentato al ruolo della magistratura dire che si separano carriere e formazione tra chi accusa e chi giudica. Togliere potere alle correnti, significa “liberare” tantissimi bravi magistrati non incasellati e premiare il merito. Le correnti dovrebbero elaborare approfondimenti di cultura giuridica, non decidere i trasferimenti dei colleghi o ingerirsi, come succede talvolta, nella vita politica del Paese decidendo anche le sorti politiche di chi è votato dai cittadini e magari risulta del tutto innocente dopo anni di massacro in un processo. Per questo mi lascia basita la polemica di Santalucia contro l’istituzione della giornata contro gli errori giudiziari che abbiamo promosso, partendo dal caso Tortora, ma per le migliaia di cittadini risarciti dallo Stato perché vittime di errori giudiziari. Nel suo discorso in occasione dei 150 anni dell’avvocatura ha accennato al garantismo come principio cardine. Può spiegarci meglio? Il garantismo è nella nostra Costituzione. Il giustizialismo è la sua aberrazione. Non sono la stessa cosa come ha invece sostenuto Conte. Se non ci facciamo promotori di una cultura garantista nella società continueremo a sacrificare la vita di persone, aziende, carriere politiche. Ci sono passata con mio padre e so di cosa parlo. Un processo ingiusto, anche se si conclude con una assoluzione piena, ti lascia addosso un marchio incancellabile. Il tribunale dei talk show e della politica giustizialista e populista ti condanna per l’avviso di garanzia e nessuna assoluzione di un giudice basterà mai a far tornare indietro il tempo. Per questo non sopporto l’ipocrisia di chi è garantista con gli amici e giustizialista con gli avversari, come hanno sempre fatto Meloni, Conte e Salvini. Quali sono le sue riflessioni sulle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane? Visito spesso le carceri. Qualche giorno fa ero a Viterbo con Bobo Giachetti. Abbiamo visto detenuti stipati in celle improvvisate, senza bagni, senza riscaldamento. La Polizia penitenziaria sotto organico e con turni massacranti. Lì non c’è rispetto della dignità delle persone, figuriamoci riabilitazione della pena. E la situazione di sovraffollamento è tremenda ormai ovunque. Noi avevamo proposto alcune soluzioni come la liberazione anticipata speciale per decongestionare le carceri ma il governo Meloni ha bocciato tutto, con l’appoggio anche di Forza Italia. E siamo al record di 87 suicidi in carcere. E cosa dire di Delmastro? Se vedere un detenuto senza respiro gli procura “una intima gioia” dovrebbe dimettersi da sottosegretario, ma dovrebbe anche restituire la toga da avvocato. Pavia. Morte in carcere di Jordan Jeffrey Baby, caso riaperto di Federico Berni Corriere della Sera, 16 dicembre 2024 “Il trapper si suicidò perché vittima di abusi sessuali”. Il giovane di Bernareggio morto a 26 anni il 12 marzo 2024. A processo il compagno di cella: la Procura chiedeva l’archiviazione. Il farmaco per stordirlo, e poi l’abuso sessuale nello stesso carcere in cui, un anno dopo, è stato trovato impiccato alle sbarre di una finestra. L’esistenza tormentata di Jordan Tinti, il giovane di Bernareggio che sognava di sfondare come trapper, morto a 26 anni il 12 marzo 2024, torna alla ribalta in una vicenda giudiziaria che sembrava chiusa, ma che il gip del tribunale di Pavia, Luigi Riganti, ha riaperto, ordinando l’imputazione coatta per il compagno di cella di Tinti, denunciato da quest’ultimo per un episodio di violenza sessuale risalente al 26 gennaio 2023, proprio all’interno della casa circondariale pavese. L’uomo andrà a processo per il reato di violenza sessuale. Accusa per la quale la procura aveva chiesto l’archiviazione, incontrando però l’atto di opposizione presentato dall’avvocato Federico Edoardo Pisani, la cui istanza, nei giorni scorsi, è stata accolta dal tribunale. In tribunale ci va dunque un cinquantenne della provincia di Alessandria che, all’epoca dei fatti, condivideva la cella con il giovane musicista brianzolo e un altro detenuto. Di Tinti le cronache hanno parlato più volte non per le sue rime (il ragazzo aveva provato a emergere nella scena trap con lo pseudonimo di “Jordan Jeffrey Baby”), ma per i suoi guai con la legge. Il più eclatante risale all’estate 2022, quando, assieme all’altro trapper romano Giancarlo Fagà, detto “Traffik”, si rende responsabile di una rapina commessa in Brianza, a Carnate, ai danni di un immigrato nigeriano, derubato della propria bici e dello zaino. La scena, corredata da insulti alla vittima, viene ripresa e pubblicata sui social, forse nella speranza di arricchire i loro personaggi di una fama da “gangster”. La notorietà, però, arriva con l’arresto, avvenuto a Ferragosto di due anni fa, e la condanna per entrambi a 4 anni e mezzo per rapina con l’aggravante dell’odio razziale (accusa ridimensionata in appello per Fagà, il solo dei due a impugnare la sentenza). Jeffrey Baby e Traffik finiscono insieme in cella, e quella convivenza sfocia, due mesi fa, nella condanna in primo grado a carico del romano Fagà a tre anni, per il reato di maltrattamenti. Sentenza che arriva quando Jordan Tinti è già morto. A marzo 2024, infatti, il 26enne viene trovato impiccato in cella. I connotati sono quelli del suicidio, ma la Procura apre comunque un’inchiesta, tutt’ora in corso, e il padre del ragazzo, Roberto Tinti, chiede che venga fatta luce sulla vicenda. L’appello reso dall’uomo e dall’avvocato Pisani dopo la tragedia auspicava anche che non finisse nel nulla la denuncia per la presunta violenza sessuale subita da Tinti durante la detenzione. Secondo quanto riportano gli atti, il fatto avviene di notte. Il giovane trapper aveva il corpo pieno di tatuaggi (un fitto reticolo gli copriva metà viso), e in quella occasione se ne fa praticare un altro sulla pancia dal suo compagno di cella cinquantenne. Lo stesso uomo gli avrebbe somministrato una dose di quetiapina, farmaco antipsicotico per il disturbo bipolare, che entrambi assumevano come terapia. Successivamente, durante il sonno, avrebbe abusato di lui, cominciando a toccarlo con insistenza e a lungo nelle parti intime. Tinti si sveglia, evitando che la violenza vada oltre. Urla e chiede aiuto prima al terzo uomo presente cella (che avrebbe chiesto conto all’indagato) e poi all’agente della polizia penitenziaria di turno, per chiedere che venisse allontanato. Successivamente a quella notte, presenta querela. Nel suo provvedimento, il gip, a differenza di quanto sostenuto dalla Procura pavese, ha ritenuto che il racconto della vittima trovi più di un riscontro, a partire dalla testimonianza dell’altro detenuto presente al momento dei fatti. Tramite il suo legale, il padre di Jordan Tinti ha annunciato che, a processo, si costituirà parte civile. Verona. Il caso di Ion Nicolae: dalla semilibertà al trasferimento improvviso a Rebibbia di Andrea Aversa L’Unità, 16 dicembre 2024 Detenuto a Verona, aveva iniziato un percorso di inserimento sociale lavorando in una società sportiva. Gli mancava poco tempo per la fine della pena, poi l’arrivo a Roma senza che i suoi avvocati e familiari sapessero nulla. Le iniziative politiche di Ilaria Cucchi e Flavio Tosi in attesa della decisione del Tribunale: il recluso, al quale stanno togliendo la speranza, potrebbe tornare in Romania. Gli resta poco da scontare, ha già usufruito delle pene alternative ed ha iniziato un percorso di reinserimento sociale lavorando in una società sportiva. Allora perché il 51enne rumeno Ion Nicolae ha detto ai suoi avvocati e alla sua compagna, scrivendolo sopra un biglietto, che avrebbe voluto farla finita e togliersi la vita? Perché da persona ‘attenzionata’ proprio per la possibilità che possa suicidarsi, Ion è stato improvvisamente trasferito dal carcere di Montorio di Verona a quello romano di Rebibbia. Trasferimento avvenuto lo scorso 2 dicembre senza che i suoi cari e i suoi avvocati, Francesco Spanò e Simone Bergamini, lo sapessero. Nessuno di loro è stato avvisato. Una notizia giunta come un fulmine a ciel sereno e soprattutto a cose fatte. Nel frattempo, Ion è in attesa di un’altra decisione importante che potrebbe cambiare ancora una volta la sua vita in negativo: il prossimo 20 dicembre il Tribunale dovrà stabilire se accogliere o meno la richiesta dell’autorità giudiziaria rumena che secondo alcuni accordi internazionali vorrebbe far trasferire il detenuto in Romania. In un momento storico nel quale le carceri e le condizioni dei reclusi sono al centro del dibattito pubblico, proprio per il dramma che l’intera comunità penitenziaria sta vivendo da decenni, ad una persona è stato brutalmente bloccato il suo percorso di cambiamento e riscatto. A causa di tutto ciò Ion ha inghiottito quattro batterie. Per fortuna è stato salvato ed è fuori pericolo. Lo ha fatto perché probabilmente ha pensato che la morte sarebbe stata la migliore delle soluzioni. Una scelta che una persona prende perché forse non ha modo di decidere nulla della sua vita. Proprio nel momento in cui la propria esistenza si era indirizzata nella direzione giusta. Un caso, l’ennesimo che ha provato quanto lo Stato di diritto e la dignità sono calpestati dentro le carceri. La vicenda è balzata all’attenzione del deputato Flavio Tosi e della senatrice Ilaria Cucchi. Anche il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale si è mosso. Ma intanto Ion è a Roma e il suo futuro è più incerto che mai. E la sua vita non può aspettare i tempi della burocrazia italiana. L’unica certezza è che grazie alla (mala) giustizia italiana, il 51enne ha corso il rischio di trasformarsi in un numero. Proprio come gli altri 87 esseri umani (secondo Ristretti Orizzonti) che si sono tolti la vita dietro le sbarre. Torino. “Racconti senza riscontri”. Assolto l’ex direttore del carcere Minervini di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 16 dicembre 2024 “Non ha nascosto le violenze”. Mancano riscontri ai racconti delle vittime, ritenute poco credibili. “Le semplici voci di pestaggi o violenze nel Padiglione C, oppure la conoscenza di criticità - anche serie - in questo blocco, non costituivano notitiae criminis di cui informare la Procura”. Per questo motivo non si può rimproverare all’ex direttore del carcere Lorusso e Cutugno, Domenico Minervini, di non essersi rivolto alla magistratura quando gli giunsero le segnalazioni sugli “schiaffi allegri” che un gruppo di agenti riservava ai detenuti del blocco C, quello dedicato ai sex offender. Minervini (difeso dall’avvocato Michela Malerba) era stato condannato in primo grado a una multa di 300 euro per omessa denuncia (e assolto per il secondo capo d’imputazione, favoreggiamento). Ma in appello l’ex dirigente ha incassato un’assoluzione, “perché il fatto non sussiste”. Ora le motivazioni della IV sezione penale, presidente Irene Strata, chiariscono i termini della sentenza del processo in abbreviato che riguarda le presunte torture subite dai detenuti all’interno del penitenziario. Il sostituto pg Marina Nuccio e il pm Francesco Pelosi contestavano all’ex direttore di non aver rappresentato all’autorità giudiziaria “gli episodi di violenza e le vessazioni di cui veniva informato dalla garante dei detenuti del Comune di Torino Monica Gallo”. Per i giudici, però, “è stato dimostrato che Minervini (ma non soltanto lui) era a conoscenza di generici comportamenti incongrui di agenti ai danni di non meglio precisati ristretti, ma non esiste la prova - al di là di ogni ragionevole dubbio - che nel bagaglio conoscitivo dell’imputato vi fossero specifici episodi di reato commessi ai danni di un detenuto, sufficientemente individuato”. Nel ripercorrere le segnalazioni che la garante gli avrebbe rappresentato, il collegio conclude per la loro “genericità” sottolineando come non venisse “indicato il nome della fonte e nemmeno elementi per individuare i detenuti vessati”. Non solo, “gli “schiaffi allegri” non sono contestualizzati”. In sostanza, “non risulta che Minervini abbia cercato di nascondere gravi episodi all’interno dell’istituto pena”, mentre si sarebbe attivato per quelli che era a conoscenza: “Condotta - si legge - inconciliabile con l’immagine di un direttore che temeva di essere “ribaltato” dal personale di polizia penitenziaria”. Il procedimento riguardava anche il comandante G.A. (difeso dall’avvocato Antonio Genovese): a fronte di “un ragionevole dubbio”, è stato assolto dalle accuse di favoreggiamento. Al comandante si rimproverava di aver provato ad aiutare i propri uomini a eludere le indagini su episodi di violenza ai danni di due detenuti. Ma “non si è ravvisato - scrive il collegio - alcun atto processuale che consenta di ritenere che l’imputato fosse a conoscenza di quelle vessazioni”; inoltre, “non avrebbe condizionato gli accertamenti” nei casi in cui era stato informato. Infine, il ruolo dell’agente A.A. (difeso dall’avvocato Alberto Pantosti Bruno): accusato di tortura, in primo grado era stato condannato per “abuso di autorità” per il pestaggio di un ospite. Ora anche questa accusa è caduta: “Malgrado gli elementi a carico dell’imputato siano seri e consistenti, occorre notare che il detenuto era stato destinatario di rapporti disciplinari e quindi non si può escludere che nutrisse del risentimento”. Il punto è la credibilità soggettiva della vittima: “L’assenza di riscontri, il possibile astio, la mancanza di documentazione sanitaria, il silenzio serbato per mesi determinano un ragionevole dubbio sulla veridicità della denuncia”. Ancona. Il Comune istituisce il Garante dei diritti dei detenuti ansa.it, 16 dicembre 2024 Via libera della Giunta. M5S rivendica la sua istituzione richiesta nel 2023 con una Mozione da Lorella Schiavoni. La proposta di deliberazione consiliare per la sua istituzione presentata dall’assessore ai Servizi Sociali Manuela Caucci, è stata infatti approvata dalla giunta nella seduta del 12 dicembre. Un successo per chi, come il Movimento 5 stelle si è battuto perché la figura del Garante divenisse definitiva. Ne è testimonianza la mozione presentata da Lorella Schiavoni, prima firmataria, e approvata all’unanimità dal Consiglio comunale già il 24 gennaio 2023. “Fin dai primi mesi del 2024 - spiega oggi il Gruppo territoriale di Ancona del Movimento 5 Stelle -, abbiamo avuto diversi incontri con il Sindaco Silvetti insistendo perché si facesse promotore per l’attuazione effettiva della Delibera consiliare approvata”. Mancava infatti “un tassello importante: il Regolamento disciplinante con i compiti del Garante, i requisiti e le modalità di elezione, la durata in carica, cause di decadenza, dimissioni o revoca e il continuo rapporto con gli altri Enti, sia i rapporti con i detenuti, i colloqui e le visite presso gli Istituti penitenziari senza autorizzazione ed il continuo contatto con le famiglie dei detenuti stessi per far fronte alle numerose problematiche”, un vuoto sanato dalla delibera di giunta. M5s sottolinea inoltre “l’importanza dell’estensione della competenza del Garante Comunale in tutti i luoghi ove una persona possa trovarsi privata della libertà: oltre agli Istituti detentivi, le strutture di responsabilità delle Forze di polizia, i luoghi di trattenimento dei migranti irregolari, i servizi psichiatrici ospedalieri, le comunità chiuse, anche di tipo socio-sanitario o assistenziale”. Il Garante - figura presente ad oggi in oltre 50 Comuni di Italia - dovrà promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali; supportare le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale nell’esercizio del diritto di accesso ad atti e documenti amministrativi; rivolgersi alle autorità competenti per informazioni relative a violazioni dei diritti, garanzie e prerogative dei detenuti, segnalando eventuali condizioni di rischio o di danno; promuovere iniziative congiunte con altri soggetti pubblici competenti nel settore, in coordinamento con l’attività del Garante dei Diritti della persona della Regione Marche; promuovere iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani in questo settore; effettuare colloqui con i detenuti e visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione preventiva; essere a disposizione delle famiglie dei detenuti e di quanti sono interessati alle specifiche problematiche. Nella regione Marche ci sono sette istituti di detenzione, due sono in Ancona, uno ad Ascoli Piceno, uno a Camerino, uno a Fermo, uno a Fossombrone e uno a Pesaro. Ad Ancona gli istituti sono: la casa circondariale di Montacuto e la casa di reclusione di Barcaglione. Secondo i dati di Antigone (2023) resi noti con la mozione del 2023 dall’ex consigliere comunale, Lorella Schiavoni, a Montacuto a fronte di una capienza di 257 posti sono ospitati 315 detenuti, con un tasso di affollamento del 122 per cento; e con un’alta percentuale di stranieri di diverse nazionalità, che comunque devono convivere. A questo problema va poi ad aggiungersi il problema della carenza di personale. Sempre a Montacuto, dati aggiornati ad oggi, sono previsti 176 agenti di polizia penitenziaria a fronte di effettivi 108. Così come gli educatori che dovrebbero essere sei, mentre oggi sono tre o quattro. Quanto ai locali delle celle sono di dimensioni abbastanza ridotte, ventitré metri quadrati e ospitano in genere cinque persone. Cagliari. In carcere contro il parere dei medici, l’appello del Garante per i diritti dei detenuti sardiniapost.it, 16 dicembre 2024 “Le gravi patologie psichiatriche del detenuto, (aggravate dai più recenti episodi), sono del tutto incompatibili con la permanenza all’interno di una struttura carceraria”. Lo sostiene Gianni Loy, Garante delle persone detenute della Città metropolitana di Cagliari in merito alla situazione di Alessandro Atzeni, attualmente detenuto nel carcere di Uta, nonostante i medici abbiano dichiarato che le sue condizioni sono incompatibili con la detenzione in carcere. La sorella Arianna nei giorni scorsi anche attraverso l’avvocata, Armida Decina che sta seguendo il caso, aveva lanciato l’appello affinché il fratello venisse trasferito. Adesso il garante per i detenuti, dopo aver fatto visita ad Alessandro ribadisce la richiesta. “Ho incontrato Alessandro Atzeni, detenuto nell’infermeria della Casa Circondariale di Uta. In un reparto dover risultava presente (sabato mattina) soltanto una dottoressa del 118 - si legge in una lettera del garante - Il signor Atzeni si trova nel carcere di Uta dal 5 ottobre, proveniente dall’ospedale di Nuoro, è stato ricoverato a seguito di una precedente aggressione che gli ha prodotto un trauma cranico. Ma il 5 dicembre, a causa di una dispnea, è stato nuovamente ricoverato in un reparto ospedaliero ordinario di Cagliari (mentre - incredibilmente - il reparto protetto per i detenuti presso il Santissima Trinità, realizzato con fondi regionali, continua ad essere utilizzato come deposito di materiali). Ha fatto rientro nel carcere di Uta con una diagnosi di trauma cranico (pregresso), una emiparesi della parte destra e stato depressivo”. Una situazione complicata anche dalle patologie di cui soffre il detenuto: “Il signor Atzeni, soffre di psicosi, epatite Hcv, disturbo bipolare e schizofrenia - scrive il Garante -. Dal momento del rientro in carcere ha avviato uno sciopero della fame e della sete, inoltre rifiuta i trattamenti mediante flebo e la somministrazione di ossigeno, mentre accetta di praticare esami medici. Alla consegna del cibo, in mia presenza, lo ha rifiutato, allontanandolo sdegnosamente, ed ha dato segni di grave insofferenza per il proprio stato e lamentato sofferenze che gli derivano dalla dispnea, dall’emiparesi e dalle conseguenze del trauma cranico”. E il garante ribadisce: “Le gravi patologie psichiatriche di Atzeni, (aggravate dai più recenti episodi), sono evidentemente del tutto incompatibili con la permanenza all’interno di una struttura carceraria, in grave sofferenza per la carenza di strutture adeguate e di personale sanitario e infermieristico sufficiente a far fronte alle esigenze di una popolazione carceraria in crescita esponenziale a partire dall’inizio dell’anno - scrive nella lettera Loy -. La permanenza in carcere delle persone affette da patologie psichiatriche di tale gravità, peraltro, è esclusa dalle stesse norme che regolamentano il sistema carcerario e costituisce palese violazione del principio di dignità sta alla base dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla nostra Costituzione”. Napoli. L’intervista a Carlo Berdini: “Così cambia Poggioreale, al via 4 nuovi padiglioni” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 16 dicembre 2024 Direttore del carcere per cinque anni: “Il mio lavoro per la dignità dei detenuti”. Lascia dopo cinque anni intensissimi la direzione di un carcere che in pochi avrebbero accettato di buon grado di dirigere, quello di Poggioreale. “Invece - spiega al “Mattino” Carlo Berdini - fui proprio io a propormi, a chiedere al Dipartimento di poter assumere quell’incarico, forse perché mi sono sempre piaciute le sfide, ma forse lo feci anche con una discreta dose d’incoscienza”. Nel suo futuro c’è un incarico prestigioso: assumerà a giorni la carica di direttore del Provveditorato di Puglia e Basilicata per l’amministrazione penitenziaria. Cinque anni al vertice della casa circondariale di Poggioreale. Tracciamo un bilancio... “Sono stati anni intensissimi, importanti e formativi, per me una palestra fondamentale. A Napoli ci sono arrivato nel febbraio del 2020, pochi giorni prima che scoppiasse l’emergenza Covid. La pandemia determinò momenti di altissima tensione a Poggioreale, che culminarono l’otto marzo in una rivolta che coinvolse circa 900 detenuti, e che riuscimmo a gestire nella legalità con il Dipartimento e la Procura”. Fu un giorno difficile? “Sicuramente il più difficile di tutti questi cinque anni”. In questo recente passato, dopo gli episodi di Santa Maria Capua Vetere e Trapani si è posta la questione della sicurezza dei detenuti. Il problema esiste anche a Poggioreale, dove fu aperta un’inchiesta su una presunta, famigerata “Cella Zero”? “Non conosco nel merito le vicende di Trapani e Santa Maria. Quel che posso dire è che a Poggioreale abbiamo tenuta sempre altissima l’attenzione con una presenza capillare della direzione e del comandante della Penitenziaria per evitare la presenza di schegge impazzite che potessero determinare episodi gravi e vergognosi ai danni dei reclusi. Quanto alla “Cella Zero”, indagine precedente al mio arrivo, mi pare che non vi siano stati sviluppi significativi. In ogni caso, di fronte a presunti abusi, le indagini vanno sempre fatte”. Altro fenomeno grave, i suicidi... “A Poggioreale per anni non ci sono stati suicidi, oggi il fenomeno è riesploso, come d’altronde a livello nazionale. In strutture sovraffollate, con la privazione della libertà si creano sovente condizioni psicologiche sfavorevoli per i detenuti. Sulla loro salute mentale e sull’assistenza c’è ancora molto da fare”. E lei come ha affrontato il discorso del sovraffollamento? “Ad oggi a Poggioreale ci sono circa 2100 detenuti su una capienza di 1700. Un sovraffollamento come c’è in altre carceri. Ma la nota positiva è che siamo riusciti a far ripartire, anche grazie al Provveditorato alle Opere Pubbliche e a quello regionale del Dap, un’opera di circa 20 milioni di euro che garantirà la ristrutturazione di quattro padiglioni: due - il Firenze e il Napoli - sono già in fase di realizzazione, a breve inizieranno anche quelli del Salerno e Italia. E abbiamo anche restaurato il reparto Roma, creando spazi nuovi”. E sul reinserimento dei detenuti? Anche qui abbiamo mosso passi importanti organizzando corsi di formazione professionale capaci di garantire sbocchi lavorativi a chi esce dal carcere per reinserirsi nel tessuto sociale di legalità. Corsi per muratori, elettricisti, idraulici, o con la Fondazione San Carlo, che hanno visto impegnati detenuti dei corsi di formazione per mestieri delle arti come attrezzisti e tecnici delle luci. Con orgoglio posso dire che questa è stata per me una grande soddisfazione”. Brescia. Premio Bulloni 2024, Caterina Vianelli è luce per i detenuti di Barbara Fenotti Giornale di Brescia, 16 dicembre 2024 La donna, Premio Ordine degli Avvocati, guida l’associazione Vol.Ca. composta da 50 volontari attivi nei penitenziari. Il suo è un impegno costante fatto di comprensione, dialogo e profonda umanità, che non conosce sosta nemmeno nei fine settimana. Quando non è occupata con il suo lavoro di tutti i giorni al Centro Paolo VI di Concesio, Caterina Vianelli è a disposizione di chi sta scontando la pena in carcere o, avendo finito di scontarla, ha intrapreso il cammino verso una nuova vita. Una attività di lungo corso iniziata come volontaria nel carcere di Brescia nel 1996 e culminata nel 2018 con la sua elezione a presidente dell’associazione Vol.Ca. (Volontariato Carcere; www.volcabrescia.it), realtà oggi composta da una cinquantina di volontari che opera fin dagli anni 80 nei penitenziari bresciani come espressione della pastorale carceraria della Diocesi di Brescia. Già segnalata nel 2010, stavolta Caterina Vianelli è stata insignita del Premio Ordine degli Avvocati per il suo impegno nel restituire dignità ai detenuti e sviluppare nuovi approcci per ridurre la recidiva. “È un riconoscimento che interpreto simbolicamente come un ringraziamento ai volontari che, come me, operano per chi sta in carcere e ai detenuti che ce la mettono tutta per riemergere da un passato brutto e pesante”. L’attività del sodalizio è sia dentro sia fuori dal carcere: nella sede di via Pulusella, in città, i volontari coordinati da Caterina si alternano durante la mattina e incontrano persone in esecuzione penale esterna, ex detenuti e le loro famiglie per fornire loro sostegno anche economico. Vol.Ca gestisce 6 appartamenti in cui ospita fino a 14 persone in esecuzione penale esterna prive di una rete familiare e si occupa di accompagnarle verso il pieno reinserimento nella società. “Il nostro compito è aiutare queste persone a fare in modo che la pena sia un’occasione di rinascita, grazie anche all’intera rete carceraria - spiega Vianelli -. Per questo entriamo in carcere per i colloqui con i detenuti e organizziamo per loro varie attività”. Trani (Bat). Dalla Caritas diocesana il “Progetto Aurora” per i detenuti e le loro famiglie ladiretta1993.com È partito a settembre, finanziato coi fondi dell’8xmille della Chiesa cattolica, il “Progetto Aurora”, un impegnativo ed interessante percorso formativo che vede come capofila la Caritas diocesana e cittadina a favore di una parte della società fragile e spesso poco attenzionata: i detenuti e le loro famiglie. Dei detenuti si parla solo quando qualcuno decide di porre fine alla sua vita mentre è in stato di detenzione in carcere: solo allora viene evidenziata la situazione di sovraffollamento negli istituti di pena, di scarsa igiene, ma mai si parla della difficoltà dei detenuti ad avere accesso al lavoro, sia durante la detenzione ma soprattutto una volta scontata la giusta pena, dell’aiuto negato ad un reinserimento efficace nella società, delle difficoltà delle famiglie, (spesso mogli, madri e figli) durante e dopo il periodo di detenzione. Convinta della necessità di supportare i detenuti e le loro famiglie, come si evince dai racconti ascoltati sia nei “Centri di ascolto Caritas”, sia durante gli interventi che settimanalmente volontari Caritas effettuano negli istituti di pena, maschile e femminile, di Trani, affiancando il cappellano designato don Raffaele Sarno, è stato presentato il Progetto Aurora, così chiamato perché si vuole dare un po’ di luce a quanti si trovano nelle condizioni di cui sopra. È un Progetto ambizioso ed impegnativo che vede il coinvolgimento di 170 detenuti e le loro famiglie, perché si è convinti che il processo continuo di miglioramento degli individui e di costruzione e rafforzamento delle loro capacità (capacity building) possa essere realizzato solo attraverso il coinvolgimento concreto di tutto il nucleo familiare, se presente. Varie sono le tipologie dei 170 destinatari: detenuti in carcere che devono scontare ancora massimo 24 mesi di pena, detenuti in MAP (cioè messi alla prova), agli arresti domiciliari, semiliberi e in detenzione alternativa, in licenza, stranieri. A loro sono offerti formazione ed orientamento al lavoro, tirocini formativi con apprendimento sul posto di lavoro, borse lavoro, lavori socialmente utili da svolgere presso le Caritas di Bisceglie, Trani e Barletta, consegna a domicilio di viveri e beni di prima necessità, accoglienza presso “Casa Barbiana” e Caritas cittadina a Bisceglie e presso la Rettoria Sacro Cuore a Trani, sportello di segretariato sociale per l’orientamento ai servizi e distribuzione indumenti da svolgere negli istituti di pena; per i detenuti stranieri è previsto un sostegno per facilitare relazioni coi familiari all’estero. Tali obiettivi saranno realizzati anche attraverso il settore dell’agricoltura sociale. Saranno un centinaio i volontari Caritas che verranno formati, con incontri mensili organizzati dall’Ufficio di pastorale carceraria, per mettere in atto questa miriade di attività. Un percorso di sensibilizzazione, formazione, promozione e diffusione rivolto agli studenti delle scuole superiori del territorio, in particolare agli indirizzi socio-educativi, e alle parrocchie è previsto nell’ottica di superamento dello stigma che spesso circonda gli ex detenuti. Un’équipe di progetto, formata da operatori sociali, un sociologo, dal cappellano della diocesi, dagli assistenti sociali degli Enti pubblici territoriali, avrà il compito di scoprire le capacità e le risorse dei singoli soggetti prescelti, di guidarli al raggiungimento degli obiettivi individuati sviluppando la loro acquisizione a lungo termine, monitorandone i risultati passo passo. La Caritas diocesana, soggetto proponente, ha affidato all’ente ecclesiastico Chiesa S. Michele Arcangelo, che affianca la Caritas cittadina, la gestione del progetto; è stata realizzata una rete che condividerà la realizzazione delle attività. Sostenitori del Progetto sono: il Servizio Sociale e Professionale del Comune di Bisceglie; l’UIEPE (Ufficio di esecuzione penale esterna); “Agritalia”, una organizzazione di Produttori nel settore agricolo, l’Ufficio Regionale del Garante per i detenuti. La co-gestione è affidata alla cooperativa sociale “Mi stai a cuore” e all’impresa sociale “Terre solidali” che realizzeranno direttamente alcune specifiche attività previste. Altri enti che daranno gambe e supporto al Progetto sono gli accordi operativi specifici con la Direzione del carcere di Trani; il Cpia (l’Istituto di educazione per gli adulti della BAT) “Gino Strada” che ha sia sedi esterne nei comuni della provincia sia una sede all’interno degli istituti penitenziari di Trani. Un convegno iniziale ed un convegno finale permetterà di far conoscere e sottolineare l’importanza del Progetto ed i risultati ottenuti. Torino. Lettere dal “carcere più difficile d’Italia”: ecco cosa scrivono i detenuti di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 16 dicembre 2024 Il numero delle persone che si trovano recluse alle Vallette oscilla tra i 1380 e i 1480: i posti regolamentari sono 980. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha riconosciuto la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno come l’istituto più complesso d’Italia. Questa definizione deriva dal fatto che al suo interno coesistono tutti i circuiti penitenziari. “Una varietà che crea enormi difficoltà: un recluso in alta sicurezza necessita un percorso diverso da un collaboratore di giustizia, come un tossicodipendente da chi si è macchiato del reato di sex offender” spiegava la dottoressa Monica Gallo, garante dei diritti di delle persone private della libera personale per il Comune di Torino. Il numero delle persone che si trovano recluse alle Vallette oscilla tra i 1380 e i 1480: i posti regolamentari sono 980. Un sovraffollamento che supera il 120%. Nei mesi scorsi il nostro giornale ha scelto di seguire il carcere “da vicino”, entrando dentro a conoscere la realtà di chi tutti i giorni si trova in quel posto che appare così lontano dalla quotidianità: detenuti, agenti di polizia penitenziaria, persone al servizio del carcere. Oggi arrivano in redazione alcune lettere scritte proprio dai detenuti, a mano, affrancate e spedite. Come quella di Diego, che racconta di un luogo sovraffollato e di una struttura giudiziaria in crisi, la mancanza di un progetto che potrebbe aiutare i reclusi ad avere una possibilità di reinserimento lavorativo - che li farebbe accedere anche a pene alternative, come l’art.21, quello che prevede la possibilità della semilibertà grazie al lavoro. Infatti alle Vallette solo un terzo dei detenuti lavora: ci sono ammirevoli progetti di imprese che hanno scelto di investire e creare posti di lavoro, ma non c’è spazio per tutti. Diego parla anche del dolore che porta la distanza dagli affetti e dalla famiglia. Nella sua lettera si chiede “cosa costerebbe aumentare il numero delle chiamate a casa? Al momento possiamo farne tra le 4 e le 8 al mese”. Le chiamate durano 10 minuti. “I detenuti non possono essere considerati come altri cittadini in quanto vivono una realtà non compatibile con ciò che è fuori” spiega la dottoressa Alessia Costanzo di Aleda Aps, da anni al servizio nelle carceri. Costanzo ricorda che tra i diritti fondamentali per i detenuti c’è quello all’affettività. Alessandro intitola la sua lettera con “Io, detenuto”. Parla di spazi limitati, dove in un quadrato dormono, cucinano e defecano. “Dopo un po’ non ho nemmeno voglia di uscire nelle ore d’aria: nei “passeggi” cammini avanti e indietro e spesso ti trovi in mezzo a gente che si azzuffa”. I problemi di Alessandro sono legati agli stupefacenti (e si stima che dietro le sbarre vi siano una percentuale del 50% di reclusi per reati legati alla droga). Il giovane aspetta da mesi di avere risposte in merito alla possibilità di entrare in una vera comunità “ma ogni mattino di pronto c’è solo il caffè che mi prepara il mio concellino Davide”. Alessandro qualche mese fa si è trovato con “due costole conficcate nel polmone dopo una discussione con tre rumeni. Ma ero contento, nonostante fossi ammanettato, di cambiare aria”. Poi c’è Leo: una lunghissima lettera che parla di malessere “Se nemmeno le ostiche immagini dei telegiornali hanno smosso le coscienze impossibili, se nemmeno i morti da ambo le parti - perché anche gli agenti penitenziari sono esasperati in questa condizione senza via d’uscita - a chi rivolgersi se non ai media, per parlare al popolo?”. Leo dedica una lunga riflessione su come l’attenzione mediatica sia relativa solo alle notizie legate alle rivolte. C’è poi da considerare anche il fattore famiglie. C’è Noemi, 4 figli, il suo compagno dentro: “Lui ha 6 ore al mese per vedere i piccoli. Nessun aiuto psicologico o economico se non da alcune realtà del terzo settore. Recentemente gli è stato negato il permesso di un’ora per venire al battesimo del più piccolo”. Tra chi ci ha contattato c’è anche una mamma. “Mio figlio, M., ha conosciuto il carcere quando era minorenne. Errori ne ha fatti, ma da 3 anni è alle Vallette, 1200 km da casa e dalle persone con cui ha commesso reati. È solo. Si sta laureando. Lavora, da sempre. Recentemente ha chiesto un permesso. Niente da fare, negato”. Nel frattempo, siamo a 86 detenuti che si sono suicidati in Italia nel 2024. Un “record”. Il numero più alto di sempre. Più tentativi di autolesionismo, come raccontava Leo. “Alcuni detenuti cercano disperati tentativi di comunicazione e c’è chi non sopportando la carcerazione trova nel suicidio una soluzione” conclude la dottoressa Costanzo “il carcere non è un’istituzione lontana dalla società, bensì è dentro la società e non si può fare finta di nulla, non si possono non ascoltare grida di dolore”. Brescia. “Senza di te mi spengo”. La lettera a papà recluso commuove il carcere Il Giorno, 16 dicembre 2024 Le parole della ragazzina inserite in una performance teatrale realizzata nel carcere per raccontare la dura vita dei reclusi. “Ciao papà, come stai? Che fai?”. Domande semplici, che non tutti possono rivolgere a un genitore, non quando a separare ci sono le sbarre di una prigione. Durante il Covid, con la sospensione delle visite, c’era la possibilità di una telefonata al giorno. Finita la pandemia è stato tagliato anche quel filo. Resta la chiamata quotidiana solo per minorenni. L’espiazione di una pena è sofferenza anche per chi aspetta fuori. Lo racconta bene la lettera di una figlia, minorenne, di un uomo in carcere al “Nerio Fischione” di Brescia, ai vertici per sovraffollamento. “Mi manchi, anzi ci manchi molto da quando sei lì - si legge -. Io mi sono spenta, sono cambiata, anzi peggiorata perché ti hanno portato via da me. E da lì mi sono spenta, vorrei che ritornassi a casa, mi manca scherzare con te. Mi manca la famiglia felice che prima eravamo, perché la casa, la famiglia, non è la stessa senza di te”. “Però dobbiamo farci forza, dobbiamo far vedere che siamo forti, perché come dice Marco Mengoni nella sua canzone Guerriero, ‘vinceremo contro tutti e resteremo in piedi’. Questa è solo una frase della canzone, ma noi invece siamo il significato. Sorridi sempre papà, perché non sei solo, ci siamo noi al tuo fianco, perché più uniti siamo, meglio è! Ce la facciamo papà, ne sono sicura. Mentre ti sto scrivendo questa lettera, sto ascoltando ‘Aranciata’, la nostra canzone. Sono le 22:05, volevo andare a dormire ma avevo bisogno di scriverti questa lettera e ricordarti che noi ci siamo e ci saremo per sempre e di sorridere perché non sei solo. Noi ti aspettiamo ogni giorno, sei il papà che ho sempre sognato e sono fiera di essere tua figlia. Ti amo molto papà, anzi ti amiamo molto, sorridi sempre, ricordatelo, mi raccomando”. Parole che commuovono, inserite nella performance teatrale realizzata nel carcere per raccontare la dura vita dei reclusi. Se la Corte Costituzionale garantisce “il diritto all’affettività”, nei fatti questo viene negato. Il 2024 segna, un nuovo record: oltre 62mila detenuti in Italia, quasi 9mila in Lombardia (a fronte di 3.641 posti). “Un livello mai toccato dal 2013” fa sapere l’associazione Antigone. Cosenza. Oggi la presentazione del libro di Nessuno tocchi Caino “La fine della pena” quicosenza.it, 16 dicembre 2024 Nel corso della presentazione, verranno illustrate le condizioni delle carceri nel nostro Paese, le condizioni di vita dei detenuti ma anche di lavoro degli operatori penitenziari. Lunedì 16 dicembre, a partire dalle ore 17:00, presso la Fondazione Giacomo Mancini, in via Liceo 27, ci sarà la presentazione del libro di Nessuno tocchi Caino “La fine della pena”. Il libro del 2024, racconta storie di pena di morte, di morte per pena, di pena fino alla morte, successe in Italia e nel mondo nella seconda metà del 2023 e nei primi sette mesi del 2024. Oggi, lo sguardo di Nessuno tocchi Caino va oltre i sistemi capitali, si sofferma anche su regimi giudiziari, penali e penitenziari altrettanto mortiferi e anche sul regime italiano della prevenzione detta “antimafia” e i suoi usi e costumi che, talvolta, sono più distruttivi di quelli punitivi. Il libro è dedicato alla scrittrice e fondatrice di Nessuno tocchi Caino, Mariateresa Di Lascia a settant’anni dalla sua nascita, a trenta da quando è venuta a mancare. In tutto il volume, a partire dalla copertina, scorrono le immagini e i pensieri di Mariateresa Di Lascia, che se n’è andata il 10 settembre del 1994, a soli quarant’anni, dopo aver fondato “Nessuno tocchi Caino”, il suo capolavoro civile, e aver scritto “Passaggio in ombra”, il suo capolavoro letterario vincitore del Premio Strega l’anno dopo la sua morte. Nel corso della presentazione, verranno illustrate le condizioni delle carceri nel nostro Paese, le condizioni di vita dei detenuti ma anche di lavoro dei “detenenti”, gli operatori penitenziari a partire dagli agenti della polizia penitenziaria, vittime anche loro della situazione inumana e degradante che connota il sistema penitenziario italiano, gravato dal peso sempre più intollerabile del sovraffollamento. Saranno presenti all’evento, presieduto e moderato da Giacomo Mancini, i dirigenti di Nessuno tocchi Caino, Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, Enza Bruno Bossio, i presidenti delle Camere Penali di Cosenza e di Paola, rispettivamente, Roberto Le Pera e Giuseppe Bruno, la Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cosenza Ornella Nucci, il Presidente dell’AIGA Cosenza Giuliano Arabia, gli avvocati della Camera Penale di Cosenza Valentina Spizzirri ed Erika Rodighiero, la rappresentante di Nessuno tocchi Caino Avv. Aurelia Zicaro, l’Avvocato Marcello Manna, gli esponenti politici Salvatore Giorno, coordinatore segreteria provinciale del Pd, Maria Locanto, Presidente assemblea Pd. Ferrara. Teatro-carcere, varcare una soglia per scoprire l’umanità di Emanuele Gessi estense.com, 16 dicembre 2024 “Strange fruit”, il brano di Billie Holiday, è una canzone simbolo delle battaglie per i diritti civili, in cui la realtà dei linciaggi dei neri nel sud degli Stati Uniti viene descritta in maniera brutale, spietata e onesta. Il suo impatto, quando venne incisa negli anni 30 del Novecento, fu innanzitutto di ordine politico: accese una luce, stimolò il dibattito, favorì un cambiamento. A Ferrara, “Strange fruits” (al plurale) è andato in scena alla Casa circondariale C. Satta il 5, 6, 7 e 12 dicembre. Non più una canzone ma uno spettacolo teatrale, che è stato sviluppato da una ventina di detenuti partecipanti del laboratorio che il Teatro Nucleo porta avanti nel carcere di via Arginone dal 2005. L’affluenza anche quest’anno ha reso onore alla nobile iniziativa culturale e sociale, con tutte e tre le repliche che hanno fatto registrare il tutto esaurito. Una parte degli interessati, addirittura, non è riuscita a comprare il biglietto poiché erano terminati i posti disponibili (una cinquantina a sera). La procedura per assistere allo spettacolo, infatti, è speciale e la capienza limitata. Bisogna inviare con parecchi giorni d’anticipo il proprio documento d’identità, arrivare un’ora prima che inizi lo spettacolo e lasciare tutte le proprie cose fuori dall’edificio, compreso il telefono. Così come per il brano di Billie Holiday, anche dalla costruzione del discorso teatrale in carcere traspare una dimensione politica, che consiste nel dare la possibilità a chi lo desidera di varcare una soglia e scoprire l’umanità che risiede là dentro oltre lo stigma, i pregiudizi e le idee cristallizzate. “Fare teatro in carcere - ha spiegato il regista Marco Luciano - è una missione per noi. Se vogliamo che cambi, aumentare le occasioni di incontro con la società civile è indispensabile”. Oltre all’omaggio musicale del titolo, “Strange fruits” ha trovato profonda ispirazione dallo studio della figura di Nelson Mandela, una riscoperta che ha dato la possibilità di fare i conti, in forma artistica, con il concetto di discriminazione. Lo spettacolo si è quindi strutturato in 12 scene-quadri, che scivolando l’uno nell’altro hanno alimentato una riflessione sull’apartheid non solo dal punto di vista razziale, ma anche sociale ed esistenziale. La messa in scena è cominciata con un prologo: “Un tentativo - ha dichiarato Luciano - di accorciare da subito la distanza con il pubblico e portarlo in un “qui e ora”. Concordavamo nell’urgenza di ribadire, d’altra parte, un concetto fondamentale del nostro fare teatro in carcere: costruire un’opera d’arte, gridare la propria dignità, proteggere il più possibile il lavoro artistico dalla pietà”. Fra i vari passaggi dello spettacolo, rimane memorabile la reinterpretazione del discorso che Mandela pronunciò alla folla che lo aveva appena eletto presidente, attraverso cui si è richiamato all’urgenza di rafforzare la propria fede nella giustizia, lasciandosi alle spalle “l’esperienza di una catastrofe straordinaria dell’uomo sull’uomo durata troppo tempo”. Forte emozione nel pubblico, che al termine dello spettacolo ha riservato una standing ovation agli attori. Qualcuno dalla platea si è fatto avanti per stringer loro la mano, esprimendo la propria ammirazione per il grande lavoro e l’intensità restituita. Nel monologo finale si è cercato di rendere tangibile un concetto, una ambizione notevolissima, come ha sottolineato Luciano, “perché gli assoluti in teatro sono intrattabili, non si fanno prendere, non diventano visibili.” Il punto di partenza è stato riconoscere quanto la sensazione di libertà sia ineffabile, effimera, a prescindere che ci si trovi dentro o fuori dal carcere. “Dura poco, come le foglie spazzate dal vento - ha infine esplicitato il regista - come i personaggi che svaniscono una volta compiuta l’opera, come le parole che in quell’istante trasformano il mondo e nell’attimo successivo sono scomparse, come lo spettacolo quando le luci si spengono e la sala si svuota”. Cosa resta infine? “Il ricordo di ciò che ha innescato il cambiamento e la consapevolezza autoironica di avere esercitato un diritto: quello di sognare”. Un rito collettivo dolcemente rivoluzionario che in via Arginone, una replica dopo l’altra, è indubbiamente avvenuto anche quest’anno. Vicenza. Il carcere si mette in scena. Una mattina dietro le sbarre di Federica Augusta Rossi Giornale di Vicenza, 16 dicembre 2024 Abbiamo passato alcune ore nel carcere Del Papa di Vicenza assistendo ai progetti dei detenuti tra prosa e il laboratorio di panificazione. “La verità” è andata in scena tra le mura del carcere San Pio X. Uno spettacolo-parodia per raccontare la vita dietro le sbarre. Quattro detenuti-attori, un regista, una pedana come palco, una sedia come unica scenografia, niente trucco né costumi, niente luci né sipario, panche di legno al posto di poltroncine in velluto per il pubblico non pagante. È bastato “poco” per trasformare in teatro una sala della casa circondariale di Vicenza Filippo Del Papa e per fare sì che mezz’ora di spettacolo tenesse fuori la prigione, che a sua volta tiene fuori il resto della vita. Un paradossale effetto matrioska in cui era il mondo-carcere a rappresentare se stesso attraverso i gesti e le parole di Gino, di Francesco, di Maurizio e di Hicham. I quattro attori, dismessi i panni di detenuti, si sono immaginati direttrice, guardia carceraria, magistrato di sorveglianza, medico, cappellano. Uno scambio di ruoli provato e riprovato ogni settimana, per un anno intero, nel laboratorio teatrale “Il guscio della noce”, progetto biennale finanziato dalla Regione Veneto e condotto da Davide Antonio Pio, operatore della Cooperativa sociale Nova. Nelle case circondariali raramente ci si ferma, perché si è in attesa di giudizio, di trasferimento, di fine pena. Si arriva, si parte. Ma in una fredda mattina di dicembre si può offrire il frutto del proprio lavoro agli altri reclusi che hanno fatto domanda di assistere alla rappresentazione, agli educatori, alla garante per i detenuti. Uno spettacolo a porte chiuse nel luogo in cui chiavistelli, serrature e barre alle finestre sono la regola. Eppure non sono mancate le risate spontanee, anzi, libere, alle battute che mettevano alla berlina le contraddizioni e i disservizi di un sistema carcerario in affanno. Perché Vicenza non fa eccezione e il sovraffollamento, con più di 100 detenuti oltre il limite massimo di 276, è un dato ufficiale. “Mi assumo tutta la responsabilità di quanto di inesatto e offensivo potrà essere detto - ha precisato il regista Davide Antonio Pio prima che gli attori calcassero la ribalta -, ma attribuisco a loro tutto il merito per le emozioni che riusciranno a farvi vivere”. E di emozioni in quella sala ne sono scaturite molte. Tra chi ha assistito e chi ha recitato. Sono spariti i ruoli e sono rimaste le persone. “Ringraziamo chi ci ha dato la possibilità di esprimere ciò che pensiamo in forma educata e rispettosa”, ha detto dopo gli applausi il più loquace degli attori, un barese in attesa di braccialetto elettronico e di trasferimento agli arresti domiciliari. Assistere a una rappresentazione teatrale comporta l’abbattimento di quella quarta parete che quando si tratta di persone che hanno commesso reati diventa forse meno immediato e scontato. Soprattutto se chi da fuori, per arrivare alla sala, ha attraversato controlli, è stato costretto a lasciare i propri effetti in un armadietto, smartwatch e sciarpa compresi, è stato scortato lungo corridoi di cemento grigio intervallati da sbarre azzurre come il cielo che è impossibile intravvedere. L’infinita liturgia di aperture e chiusure di porte è un clangore di chiavistelli difficile da dimenticare. Come il suono pesante dello sportello metallico attraverso il quale i “visitatori” devono inserire la carta d’identità in cambio di un lasciapassare da appendere al collo. Fragile immunità che catapulta in un mondo nel quale il tempo svanisce, fino a quando gli agenti di custodia ricordano ai detenuti che lo spettacolo è finito e si deve tornare in cella perché è orario di chiusura porta. Cala il sipario sulla matinée. I pochi spettatori venuti dal mondo esterno si avviano all’uscita. È giornata di colloqui, ritireranno la carta d’identità assieme a parenti e avvocati che hanno terminato la visita. Possono tornare al mondo di fuori, ma prima fanno tappa nei locali di “Libere golosità”, laboratorio di panificazione e pasticceria che la cooperativa Gabbiano 2.0 ha attivato all’interno del carcere. Il profumo intenso dei panettoni, pronti per essere venduti, ne rivela la vicinanza. Il forno dà lavoro a 12 detenuti tramite contratto la cui durata coincide con il fine pena. Il primo dolce prodotto è stato chiamato “La domandina”, come quelle che i reclusi scrivono sui pezzi di carta e consegnano alle guardie quando devono rivolgere richieste alla direzione. L’ultimo sguardo è verso la garitta che separa il carcere dal mondo di fuori e sulla cui facciata è scritto: “Altrove il frutto dell’albero cresce senza alcun controllo”. “Il pianto degli eroi”, la guerra quotidiana di chi sta in carcere di Valeria Vantaggi vanityfair.it, 16 dicembre 2024 “Il pianto degli eroi” è il titolo del film di Bruno Bigoni e Francesca Lolli: racconta della guerra, riprendendo i testi classici e coinvolgendo i detenuti del Carcere di Bollate. Qui ne parla la regista. “Il Pianto degli eroi (prodotto da IULMovie Lab e sostenuto e reso possibile dalla direzione del carcere di Bollate, dalla Coop. Sociale Articolo3, dal Ministero di Grazia e Giustizia e dall’organizzazione esecutiva di Altamarea Film, ndr) è un film che nasce principalmente da un’esigenza artistica, ma con molteplici intenti intrecciati. La nostra intenzione era quella di portare in scena la tragedia dell’Iliade; non solo per raccontare un conflitto universale ma per provare a parlare di guerra, lotta, sofferenza e resistenza. Tutto questo utilizzando un linguaggio che fosse in grado di fare i conti con la realtà vissuta dai detenuti, che in qualche modo la guerra la vivono ogni giorno, ma anche con la riflessione estetica e critica che il cinema ci permette”, così la regista e videoartista Francesca Lolli racconta Il pianto degli eroi, il film che ha realizzato con Bruno Bigoni e che vede coinvolti diversi detenuti del Carcere di Bollate: “Avere l’opportunità di poter creare questo film all’interno del carcere è stata un’esperienza di straordinaria creazione collettiva. Abbiamo lavorato a lungo con i detenuti, formandoli prima fisicamente attraverso un laboratorio di arte performativa per poi passare alla riscrittura del testo in diverse lingue (tra cui arabo, siciliano, napoletano, spagnolo, inglese). Il momento in cui abbiamo acceso la telecamera è stato, in qualche modo, la naturale conclusione di un lungo percorso dove ogni scena è diventata un atto di restituzione, una sorta di “liberazione” dalle mura fisiche e psicologiche del carcere”, spiega Francesca Lolli, impegnata a distribuire l’opera nei Festival, nelle scuole e nelle carceri, perché si sappia, perché si impari, perché si pensi. Quale “firma” avete messo voi? Qual è la cifra del vostro lavoro? “La nostra “firma” è la mescolanza tra linguaggi, la fusione tra il cinema del reale di Bruno e la mia esperienza nella video arte e performance. Il nostro approccio al film è stato un “dialogo continuo”, un ascolto reciproco. Se il cinema del reale di Bruno si fonda sulla verità della quotidianità, sulla rappresentazione di esperienze reali senza filtri, io ho portato nel progetto il linguaggio della video arte, che si nutre di astrazione, sperimentazione visiva e interpretazione simbolica. Il risultato è un film che non è mai solo “documentario” e nemmeno solo “finzione”, ma un’ibridazione di questi linguaggi. Ogni scena porta con sé un’energia viva che viene dal contesto e dai corpi che la abitano”. Avevate mai lavorato con i detenuti? E, dopo questa esperienza, pensate che si possano aprire nuove strade e nuove collaborazioni? “Questa, per me, è stata la mia prima volta, non avevo mai lavorato all’interno di un carcere e, oltre all’intensità e alla bellezza della collaborazione con i detenuti, ha avuto su di me un impatto straordinario. Mi ha reso ancora più chiara l’idea che l’arte, in qualsiasi forma, è uno degli strumenti più alti per la realizzazione e la cura della propria identità. C’è un’incredibile verità nelle performance degli attori / detenuti, una grande potenza espressiva. È come se, attraverso il cinema, avessero riscoperto la possibilità di raccontarsi in modo autentico, di ritrovare quel sé che noi tutti, in un modo o nell’altro, rischiamo di perdere di vista durante la nostra vita. Bruno Bigoni, invece, aveva già avuto un’esperienza significativa con i detenuti venti anni fa, quando girò il film Riccardo all’interno del carcere di Bollate, adattando Riccardo III di Shakespeare. Personalmente, sto già lavorando a un progetto di video arte per il prossimo anno. Mettere insieme gli studenti e i detenuti... Che cosa ha innescato questo incontro? “Questo incontro ha innescato un processo di umanizzazione reciproca. Gli studenti dello IULM, spesso abituati a lavorare su concetti teorici e distanti dalla realtà di un carcere, hanno avuto modo di confrontarsi con una realtà molto diversa, estremamente e intensamente ricca di vissuti. E i detenuti, spesso etichettati e marginalizzati dalla società, hanno avuto l’opportunità di essere visti per ciò che sono: esseri umani con una storia, con emozioni, con uno straordinario potenziale che a volte nemmeno loro stessi riconoscono. E poi ci sono le attrici che interpretano le Troiane, che hanno portato con sé una sensibilità unica, che ci ha permesso di esplorare e mettere in luce la forza e la vulnerabilità di questi personaggi, costantemente oggetto di violenza, ma anche di grande dignità e forza. Abbiamo voluto dare spazio al punto di vista femminile sulla guerra, perché, troppo spesso, questa viene raccontata dal solo punto di vista degli uomini in termini di azione, conquista e potere. Le Troiane sono invece il volto opposto: sono vittime di un conflitto che non hanno scelto, ma che le distrugge e le umilia. In questo modo, il film è anche un’occasione per interrogarsi sul ruolo delle donne nei conflitti, sulla loro costante rappresentazione come vittime, ma anche sulla loro capacità di lottare per la propria dignità e per la pace”. Avete scelto di parlare di guerra, attraverso dei testi classici, di Omero e di Euripide: perché avete pescato da storie così lontane pur avendo, tristemente, esempi contemporanei? “La guerra è un tema universale, che attraversa tutte le epoche e tutte le culture. Quello che abbiamo trovato straordinario nell’Iliade e nelle Troiane è la loro capacità di raccontare, in modo tanto drammatico quanto lucido, la follia del conflitto e i suoi effetti devastanti sulla psiche umana. Queste opere ci hanno permesso di entrare in una dimensione simbolica che, pur trattando di eventi lontani nel tempo, non perde mai la sua forza emotiva. La storia si ripete, e la guerra rimane una costante nella nostra vita. Affrontare questo tema in un carcere, dove ogni persona vive la propria “guerra” interiore, ha reso il film una riflessione potente su come il conflitto, in tutte le sue forme, sia qualcosa di innato, ma anche di estremamente distruttivo e alienante. Il carcere diventa, quindi, una sorta di “microcosmo” della guerra, dove si combattono battaglie quotidiane, ma dove, allo stesso tempo, l’arte e il cinema possono essere potenti strumenti di espressione e di trasformazione”. Terzo Settore punito dai bandi al “massimo ribasso” di Chiara Saraceno La Stampa, 16 dicembre 2024 In questi giorni il mondo del terzo settore è stato colpito da due importanti perdite. La prima riguarda la morte, pochi giorni fa, di Riccardo Bonacina. Un giornalista capace di raccontare l’Italia dei soggetti sociali, del welfare più o meno efficiente, dei diritti da conquistare e difendere, delle molte esperienze di innovazione sociale che vengono realizzate in modo diffuso e spesso poco conosciuto. Il tutto non solo con grande competenza professionale e utilizzando tutti i mezzi di comunicazione disponibili, ma con una lucida e generosa passione che, mentre era sempre accompagnata da un lucido spirito critico, gli permetteva di costruire ponti e creare legami tra soggetti diversi. Trent’anni fa, lasciando il posto sicuro alla Rai, aveva fondato “Vita”: una rivista e una newsletter che è diventata un punto di riferimento importante non solo per chi lavora nel Terzo settore, ma anche per tutti coloro che si ostinano a ragionare e agire per costruire relazioni, istituzioni e pratiche sociali più eque e sostenibili. Nelle parole di Bonacina, per “raccontare il mondo non in modo disperante, né pettegolo, ma generativo”: per mettere in comunicazione riflessioni, pratiche, esperienze, al fine di costruire reti di saperi e di pratiche, facendole uscire dal frammento autoreferenziale o dalla riflessione solo accademica. Il gruppo che ha lavorato con lui in questi anni sicuramente continuerà lungo la stessa strada e Vita rimarrà uno spazio di confronti e approfondimenti prezioso, la cui continuità nel tempo è affidata al suo essere una public company autonoma, partecipata da persone, organizzazioni non profit, imprese, senza dipendere da nessuno. Ma si sentirà la mancanza della lucidità appassionata del suo fondatore. La seconda perdita non riguarda una persona, ma un’altra newsletter di riferimento per il mondo del Terzo settore. Redattore Sociale, una agenzia di stampa nata nel 2001 per informare sulle diverse forme di disagio sociale e sulle attività e iniziative del Terzo settore, a gennaio chiuderà definitivamente, con il licenziamento di tutti coloro che ci lavorano perché l’editore, la Comunità di Capodarco, non può più sostenerlo economicamente. Una crisi iniziata qualche anno fa, con la riduzione dei contributi statali e culminata con quello che ormai è un fenomeno ricorrente nel mondo del Terzo settore: la perdita, in seguito a una gara al massimo ribasso vinta da una agenzia concorrente, di un contratto importante con l’Inail per l’affidamento dell’organizzazione e gestione del servizio di contact center denominato “SuperAbile Inail”, dedicato alle persone con disabilità. Senza entrare nel merito della qualità dell’una e dell’altra agenzia, non si può ignorare che il continuo ricorso a bandi, ancor più se al massimo ribasso, è una delle cause del precariato che affligge molti lavoratori non solo nelle imprese manufatturiere e nei servizi privati, ma anche nel Terzo settore: dipendenti da cooperative, imprese sociali, associazioni che vivono da un bando all’altro pur fornendo servizi essenziali, e consumando una quantità sproporzionata di energie, tempo e intelligenza per concorrervi. Una precarietà che spesso si riflette anche sugli utenti dei servizi così attivati - dalle mense scolastiche ai nidi ai servizi per le persone con disabilità, fino, appunto, alle agenzie di notizie. I dipendenti di Redattore sociale sono ora vittime degli stessi meccanismi che in questi anni hanno denunciato a difesa dei soggetti deboli. Fa specie, ma non stupisce purtroppo, che ciò avvenga in conseguenza di una competizione interna tra soggetti del Terzo settore, non su come meglio fornire un servizio, ma sulla riduzione dei costi. Fermo restando che è importante preparare budget non gonfiati (ma neppure sotto-dimensionati) ed essere oculati sulla spesa, forse è ora che il mondo del Terzo settore apra una riflessione sistematico al proprio interno sulle regole della competizione, anche per poter negoziare con più forza con i potenziali committenti. Nel frattempo, con la chiusura di Redattore sociale si perde un pezzo di informazione, di uno sguardo su una parte di mondo per lo più ignorato, comunque ai margini, dell’informazione mainstream. Peccato. Il divieto alla firma digitale nega le pari opportunità di Filomena Gallo* La Stampa, 16 dicembre 2024 Il 10 dicembre si è tenuta l’udienza in Corte costituzionale per discutere il divieto per le persone con disabilità di utilizzare la firma digitale anche per la presentazione di liste elettorali. Il caso è stato sollevato da Carlo Gentili, completamente paralizzato a causa della sclerosi laterale amiotrofica che, con il sostegno dell’Associazione Luca Coscioni, in primavera aveva fatto ricorso quando non gli era stato consentito di firmare con firma digitale per sostenere una lista per le regionali del Lazio. Non potendo apporre una firma autografa, Gentili si è trovato escluso dalla possibilità di partecipare politicamente alla vita del Paese. In Italia, chi non può firmare autografamente può ricorrere a strumenti tecnologici sicuri e già in vigore da tre anni, come la firma qualificata per i referendum e per le proposte di legge popolari consentita dalla piattaforma pubblica. Questo diritto però non è esteso alla presentazione delle liste elettorali creando così una limitazione della possibilità di partecipazione a chi convive con una disabilità. Come ho avuto modo di evidenziare in Corte con anche la professoressa Marilisa D’Amico, rappresentando il movimento politico Referendum e Democrazia, questa restrizione viola i diritti individuali e mina i principi di uguaglianza e democrazia sanciti dalla nostra Costituzione. La partecipazione politica è un diritto fondamentale che non può essere precluso a chi ha difficoltà motorie. È anche una esclusione particolarmente odiosa e incomprensibile, dal momento che esiste la tecnologia che già lo prevede per altri momenti di cittadinanza attiva. È obbligo costituzionale e internazionale dello Stato garantire pari opportunità a tutte le persone, eliminando ogni irragionevole ostacolo al pieno esercizio dei loro diritti. Come ci ha ricordato con le osservazioni depositate dall’Associazione Luca Coscioni, la professoressa Sabrina Di Giulio, malata di Sla e in collegamento durante l’udienza come Carlo, una malattia non dovrebbe impedire a una persona di vivere pienamente i propri diritti, tra i quali c’è quello di poter scegliere chi proporre alle elezioni: “Il sistema pubblico di identità digitale abbatte le barriere per chi non può materialmente firmare: posso firmare una Ice, e con la nuova piattaforma governativa posso firmare per indire i referendum o per le proposte di legge di iniziativa popolare… ma non per presentare una lista politica per scegliere le persone in cui ho fiducia per governare la Regione in cui vivo. Chiedo perché?”. Già, perché? La Corte costituzionale è di fronte a una grande responsabilità: adeguare l’ordinamento italiano alla nostra Costituzione che prevede la partecipazione attiva di ogni persona alla vita politica del Paese anche nella fase precedente al voto. Così anche i principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che invita gli Stati a rimuovere tutte le barriere, materiali e immateriali, che impediscono la piena partecipazione delle persone con disabilità alla vita pubblica del loro Paese. Infine l’Italia deve garantire il diritto di godere del progresso scientifico e delle sue applicazioni. Il progresso tecnologico infatti rende possibile l’abbattimento di barriere, garantendo l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti come la comunicazione, la manifestazione del proprio pensiero, la salute, il lavoro e, come sarebbe possibile in questo caso se la legge lo permettesse, il diritto di partecipare all’intera procedura elettorale. Questa transizione digitale rende possibile anche alle persone con disabilità di far “sentire la loro voce”. Pensiamo alle tecnologie per comunicare come il sintetizzatore vocale. Tra questi strumenti c’è anche la firma digitale, lo strumento della piattaforma online gratuita attiva dal luglio scorso. Realtà tecnologiche che consentono di esercitare la propria libertà di scelta con assunzione di responsabilità anche in campo politico. La firma digitale rappresenta una soluzione semplice, sicura e già utilizzata e non c’è alcun motivo per cui non possa essere adottata anche per la presentazione delle liste elettorali. Il caso di Carlo Gentili, sostenuto dall’Associazione Luca Coscioni, è un esempio concreto di come sia possibile trasformare l’opposizione a una limitazione per legge, una ingiustizia, in un’opportunità per riformare strutturalmente il sistema. La decisione della Corte potrebbe aprire una strada nuova, abbattendo le barriere che ancora limitano i diritti delle persone con disabilità e dimostrando che la tecnologia può essere un alleato formidabile per una società più giusta. Grazie alla Consulta potremmo compiere un altro passo per garantire davvero che ogni persona, indipendentemente dalle proprie condizioni fisiche, possa esercitare appieno i propri diritti. *Avvocata e Segretaria dell’Associazione Luca Coscioni Credere nel bene oltre la religione di Elvira Serra Corriere della Sera, 16 dicembre 2024 La scritta “Credi nel bene a prescindere dal credo religioso” sullo storico negozio Candido 1859 di Maglie (Lecce) ha scatenato l’inferno. Nella piazza protagonista di ben altre polemiche, vedi la statua di Aldo Moro con l’Unità sotto il braccio, a scandalizzare gli abitanti di Maglie ci si è messa una scritta sulla facciata dello storico negozio di abbigliamento “Candido 1859”. “Believe in Good over God”, recita a caratteri cubitali lo slogan natalizio, che nelle intenzioni della 26enne Claretta Candido, che ha avuto l’idea, e della sorella maggiore Cristiana, copywriter, che l’ha messa in pratica, voleva dire: “Credi nel bene a prescindere dal credo religioso”. E, invece, al loro via si è scatenato l’inferno, neanche avessero esposto l’ultima cena queer delle Olimpiadi di Parigi o una vecchia campagna di Oliviero Toscani (“Chi mi ama mi segua”, nel 1973, scomodò sul Corriere perfino Pier Paolo Pasolini). È partito tutto il 27 novembre, quando il titolare Marco Candido, quinta generazione della famiglia di commercianti che vende abiti da 165 anni, ha acceso le nuove luminarie assecondando l’intuizione di due delle tre figlie (Adriana, la più piccola, ha appena cominciato l’università). “Come famiglia siamo impegnati nel sociale. Visti i tempi bui che stiamo vivendo, in Italia e nel mondo, abbiamo pensato a un messaggio che invitasse tutti a sentirsi più buoni, a inseguire il bene, indipendentemente dalla propria professione religiosa”, ci ha spiegato Candido, sorpreso dalle reazioni. Perché già dopo due ore aver esposto lo slogan, gli era arrivata la prima telefonata di un parroco che chiedeva cosa gli fosse saltato per la testa. È intervenuto perfino l’ex senatore Giorgio De Giuseppe, oggi 94enne, che sui giornali locali ha chiesto che il messaggio venisse rimosso “senza indugio”. Ma la cosa più incredibile è stata la telefonata “anonima” di un vecchio parroco, che senza presentarsi, ma venendo subito riconosciuto, ha investito il titolare del negozio di esclamazioni tipo: “Don Carlo (il nonno, ndr) si rivolterebbe nella tomba!”. Dell’oltraggio pare si sia parlato anche alla festa per Raffaele Fitto, fresco di nomina alla vicepresidenza della Commissione europea. Per fortuna nessuno sarà scomunicato. Lo ha promesso il vescovo di Otranto, Francesco Neri. Perché se è vero che in cinque parole i Candidos hanno infranto i primi due comandamenti, pure John Lennon ha cantato un mondo senza religione. Eppure Imagine resta una delle più belle canzoni per la pace. Grazie alle “Belle storie” si possono combattere disuguaglianze e fragilità di Micaela Romagnoli Corriere della Sera, 16 dicembre 2024 Il progetto della Fondazione Unipolis, dedicato a 50 ragazzi e ragazze della Campania e della Calabria, iscritti al terzo anno delle superiori. “Migliorare le condizioni di vita”. “Mi ha educato alla bellezza della conoscenza e all’importanza di avere una mente critica”. L’effetto di “Bella Storia” è questo per Clemente, tra pochi giorni diciottenne, studente al quinto anno dell’istituto tecnico indirizzo turistico di Ercolano. Ad Elizabeth, 17 anni di Reggio Calabria, studentessa del liceo delle scienze umane, “questa esperienza ha fatto superare tante paure e su alcune sto ancora lavorando con l’aiuto degli altri compagni di viaggio, ormai siamo come una famiglia”, confida. Sono due storie di “Bella Storia”, progetto della Fondazione Unipolis, avviato nel 2022, dedicato a 50 ragazzi e ragazze della Campania e della Calabria, allora iscritti al terzo anno delle superiori, motivati a intraprendere un percorso di crescita culturale, sociale, civica. Il bando si rivolge a giovani provenienti da contesti fragili, offrendo loro l’opportunità di valorizzare potenzialità e talenti. “È stata la mia insegnante di inglese a presentarci il progetto in classe. Ho da subito vinto la mia timidezza parlando di me e della mia città in un video necessario per la selezione. Sono stato felicissimo di essere scelto per la borsa di studio”, racconta Clemente. Da allora, non solo ha potuto contare su un contributo economico di 1500 euro per tre anni, “che ho utilizzato per comprare materiale scolastico, musica, andare a teatro, fare corsi di inglese, ma ho anche partecipato a incontri formativi, camp autunnali ed estivi, avendo dei mentor come persone di riferimento. Siamo stati a Baia Domizia, in una villa confiscata alla criminalità organizzata; tante occasioni, quindi, per aumentare la nostra consapevolezza su tematiche sociali, crescere attivi e partecipi”. Grazie alla card annuale, Elizabeth, amante dei libri, con l’aspirazione di diventare medico, è riuscita a costruirsi una piccola libreria personale a casa, presto la arricchirà di volumi di poesia e sta frequentando un corso per ottenere il livello C1 d’inglese: “Durante un camp a Sorbo San Basile ci hanno proposto un percorso di albering. Tremavo, ero un po’ in crisi -ammette Elizabeth - ma ce l’ho fatta, sono riuscita a superare quei miei limiti. Ho visto tanti piccoli grandi cambiamenti in me”. Nel 2025 sarà lanciata la seconda edizione del progetto “Bella storia”, che s’inserisce nel nuovo Piano triennale della Fondazione Unipolis, la cui missione è favorire in Italia una società più equa e solidale. Sono tre le aree di intervento del Piano: disuguaglianze, mobilità e welfare: ““Bella storia” è volto a superare le disuguaglianze culturali e sociali, a partire da condizioni di povertà economica - spiega Alberto Federici, consigliere delegato Fondazione Unipolis - Si articola su diversi ambiti d’azione: il contributo economico, la palestra di competenze ed il mentoring, coinvolgendo i ragazzi e le ragazze in un viaggio che serve ad accrescere consapevolezza, capacità e autostima e a dare loro gli strumenti per costruirsi un futuro solido”. Nelle tre aree d’intervento Unipolis punta a “intercettare le condizioni di bisogno per migliorare le condizioni di vita - prosegue Federici - Le aree sono state selezionate sulla base dell’allineamento strategico con le attività principali di Unipol e rafforzeranno il rapporto tra l’impresa e la Fondazione. Per ciascuna area stiamo sviluppando progetti specifici rivolti ai più fragili in partnership con organizzazioni pubbliche e private. A questi si aggiungono i progetti selezionati attraverso il bando Act “Aspirare, coinvolgere, trasformare”, che si è da poco concluso, con oltre 500 candidature da organizzazioni del terzo settore”. Il prossimo anno sarà tempo di altre cinquanta “belle storie”; Clemente ed Elizabeth passeranno il testimone, fieri di quanto sia già bella la loro. Il pericolo di dimenticare il diritto internazionale nei teatri di guerra di Michela Ponzani Il Domani, 16 dicembre 2024 Combattere contro ogni forma di impunità per i crimini di guerra, che non si estinguono col passare del tempo e vanno perseguiti anche a distanza di molti anni, non è solo un dovere legale: è un obbligo morale. Mi è capitato di leggere un editoriale di Ernesto Galli della Loggia a proposito del diritto internazionale e della sua capacità di sanzionare i crimini di guerra. Una riflessione nata a seguito del mandato d’arresto emesso dalla Corte penale internazionale per Benjamin Netanyahu per gli attacchi militari su Gaza, ma che riguarda non poco pagine oscure del secondo conflitto mondiale. E, devo dire, fa un certo effetto leggere che “con le sue prescrizioni il diritto internazionale umanitario non sanziona i crimini di guerra”, ma “rende la guerra moderna, la guerra in quanto tale, un crimine”. La politica del terrore - È vero: la guerra fatta di liste, di archivi, di funzionari statali che con precisione burocratica compilano elenchi di condannati a morte (anche senza sentenze emesse da tribunali, come accadde nella strage delle Fosse Ardeatine); la guerra di truppe che piantonano i convogli di persone ammassate su vagoni piombati, diretti verso i lager, la guerra fatta di “campi bordello” costruiti dietro la linea del fronte (dove fra il 1943 e il 1945 l’esercito occupante tedesco in ritirata, rinchiuse centinaia di giovani italiane, usate di giorno come domestiche e di notte come “donne di piacere” per gli ufficiali a riposo) ci ha insegnato che sono gli stati occidentali, che fu la civilissima Germania, a mandare al massacro milioni di inermi, in nome della purezza del sangue e dell’onore tedesco. E che era stato il regime di Mussolini, a insegnare a Hitler come forgiare un popolo guerriero chiamato a rigenerare la potenza nazionale attraverso il culto del sangue e della violenza. Le colpe e le responsabilità, dunque esistono, e ribaltarle clamorosamente non è mai una buona idea, specie dopo Norimberga che in nome del diritto delle genti condannò la politica del terrore messa in atto dalle truppe occupanti tedesche, in patria e all’estero. E no, Roosevelt non può essere considerato un criminale di guerra al pari di Wilhelm Keitel, il generale comandante in capo delle forze armate tedesche autore di spietate direttive sulla “guerra alle bande” che autorizzò a fare dei civili il bersaglio strategico di una delle più spietate forme di guerra terroristica che la storia ricordi. Una guerra fatta di rastrellamenti con incendi a case e villaggi, corpi impiccati sulla pubblica piazza a monito della popolazione, torture sui corpi dei prigionieri politici, stragi, eccidi di massa, deportazioni, stupri contro le donne. Fu grazie ai suoi ordini draconiani (e a quelli ribaditi dal feldmaresciallo Albert Kesselring) che interi villaggi e comunità vennero messi a ferro e fuoco, con l’intento di “stanare” quelle bande di ribelli partigiani pronti a combattere ovunque, nascosti in montagna o in collina, braccati nelle città occupate. Ed è contro la logica della “terra bruciata”, della guerra “casa per casa” che i ribelli “alla macchia” hanno cercato di resistere, con le loro poche forze, se necessario anche con l’uso della violenza (contro chi la violenza la stava usando mille volte di più). Un massacro ordinario - Accadde il 29 giugno 1944 quando reparti corazzati della divisione corazzata paracadutisti “Hermann Göring” massacrarono oltre 200 civili nei paesi di Civitella Val di Chiana, e nei piccoli comuni di Cornia e San Pancrazio. Oggi grazie al procuratore Marco De Paolis, che ha riaperto le inchieste sui crimini di guerra nazifascisti, sappiamo che quella strage non è stata una rappresaglia compiuta per vendicarsi di azioni partigiane, ma una spietata operazione di polizia, usata per controllare un territorio in prossimità delle linee di difesa e ritirata. Un massacro ordinario, una ritorsione vigliacca. Perché i tedeschi sapevano benissimo che in quel territorio l’iniziativa partigiana era praticamente inesistente (anche se ogni tanto si manifestava), che i partigiani in zona erano pochi e mal organizzati. Ma sapevano anche che la Resistenza si sarebbe rafforzata grazie al sostegno della popolazione civile. E a massacrare la gente di quel paesino, che ebbe solo la sfortuna di trovarsi a ridosso di una linea di fortificazione tedesca, ci furono anche tanti italiani: spie, delatori, confidenti dei comandi tedeschi di zona. Squadre di brigate nere e militi della GNR, pronti a straziare i corpi di donne, vecchi e bambini secondo un crudele spirito di vendetta. Andrebbe sempre ricordato in un paese come l’Italia che per oltre 50 anni ha insabbiato 695 fascicoli processuali relativi a crimini di guerra compiuti dai nazifascisti. Incartamenti ritrovati nella sede della Procura generale militare di Palazzo Cesi a Roma risalenti al 1945, che avrebbe dovuto celebrare una grande “Norimberga italiana”. Crimini che non furono mai giudicati (e nemmeno puniti) lasciando i famigliari delle vittime in uno stato di abbandono che nel tempo è diventato rancore. Ecco perché esiste l’obbligo morale (oltre che il dovere legale) di combattere ancora oggi ogni forma di impunità per i crimini di guerra, che non si estinguono col passare del tempo e se necessario vanno perseguiti anche a distanza di molti anni. Questo ha sancito il diritto internazionale: che nei contesti di guerra esiste l’obbligo di difenderli i diritti umani. Il diritto umanitario è necessario per non tornare alla clava di Rosario Aitala* Avvenire, 16 dicembre 2024 Ai giudici internazionali sono somministrati insulti, mandati di cattura, sanzioni finanziarie e minacce di morte. Ci si scandalizza per le loro decisioni, ma non per le atrocità che accertano. Scrive Carl von Clausewitz che “la guerra è un atto di forza all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo”. Il generale prussiano scopre la formula dell’apocalisse nella “tendenza all’estremo” della violenza bellica che la politica è incapace di contenere. Intuisce la spaventosa irrazionalità delle guerre, scontri parossistici reciprocamente incrementali che segnano il corso della storia. Colto d’improvviso dalla morte, non completa il suo trattato Sulla guerra, pubblicato postumo dal 1832 al 1837. Di recente, Lucio Caracciolo ne ha riportato alla luce il pensiero per descrivere i conflitti attuali, senza scopo né termine. Rileggiamo la formula “i belligeranti si impongono legge mutualmente”. Già nell’antichità e in maniera incrementale, con un’acme alla metà del Novecento, gli Stati si sono imposti legge reciprocamente in altro senso. Non per rilanciare all’infinito la violenza ma per regolare e per contenere il ricorso alla guerra e le modalità e mezzi con cui possono condursi le ostilità. Nel 1859 Jean Henri Dunant, banchiere ginevrino, si trova nei pressi di Solferino dove si sono scontrate le truppe austriaco-venete e franco-sarde, con ventitremila vittime. Scosso dalle sofferenze dei feriti lasciati a perire sul campo di battaglia si dedica a cercare “spazi di civiltà nei contesti disumanizzanti della guerra”, parole del presidente Mattarella. Scrive Un ricordo di Solferino e avvia il progetto del Comitato internazionale della Croce Rossa che nasce cinque anni più tardi con la Convenzione di Ginevra sul miglioramento delle condizioni dei feriti in battaglia. Sarà l’osservazione della mostruosità dei conflitti mondiali a spronare la formazione del diritto internazionale dei conflitti armati o diritto “umanitario”. “Anche nella guerra c’è una moralità da custodire”. Così papa Francesco ha spiegato il senso del diritto umanitario. Il “diritto dell’Aia” regola la condotta delle ostilità e proibisce mezzi e metodi di combattimento particolarmente atroci, come gas velenosi e armi batteriologiche, tossiche e chimiche e l’impiego dei bambini-soldato. Il “diritto di Ginevra” garantisce protezione umanitaria ai civili non combattenti e ai beni non militari. Ruota intorno a quattro principi. Umanità: non si infliggano sofferenze superflue. Distinzione: non si usi violenza contro persone e beni protetti. Proporzionalità: non si attacchi sapendo che si causeranno danni incidentali, cioè morti innocenti e distruzioni ingiustificate, smodati rispetto alle esigenze militari. Precauzione: si adotti qualsiasi accorgimento per risparmiare gli incolpevoli. Si sollevano due obiezioni. Il diritto internazionale non è rispettato. Dunque non esiste, è un teatro di cartapesta. È vero che gli Stati tendono a servirsi della legge internazionale à la carte. Non di rado il diritto soccombe alla brutale iniquità del potere, si dimostra impotente davanti all’arroganza della forza arbitraria. Ma il diritto e le corti internazionali sono imprescindibili, come il codice penale e i tribunali in Italia davanti alla constatazione che nonostante tutto si continua a uccidere e a rubare. Le norme internazionali hanno reso la guerra meno disumana. Hanno permesso condanne morali, politiche, giudiziali per le atrocità in Jugoslavia, Ruanda, Darfur, Mali, Uganda, Repubblica centrafricana, Myanmar. Fanno sentire la propria voce nei conflitti attuali. Il diritto internazionale è insufficiente ma necessario perché la forza brutale non sia legittimata e giustificata come unico strumento per comporre le controversie. L’altro rilievo: “Truman e Churchill erano criminali di guerra?”. Era un altro tempo, regole e corti non esistevano. Ma non si può dubitare che mancassero di logica militare i bombardamenti delle città tedesche che sterminarono seicentomila civili innocenti. “Coloro che hanno scatenato questi orrori sull’umanità, sentiranno sulle proprie case e le proprie persone i colpi dirompenti di un giusto castigo”, disse Churchill. Negli Stati Uniti i giapponesi erano considerati una “razza inferiore e incivile” e rinchiusi in campi di concentramento. Il capo di Stato maggiore dell’aviazione Curtis LeMay, responsabile dei bombardamenti indiscriminati dei civili giapponesi, entusiasta sostenitore degli ordigni nucleari, riconobbe: “Se avessimo perso il conflitto, saremmo stati tutti processati come criminali di guerra”. Gli ha dato ragione anche il segretario alla Difesa, Robert McNamara: “Lui, e direi io, ci comportavamo da criminali di guerra”. Alla fine della guerra, due milioni di bambine e donne tedesche, da otto a ottant’anni, furono violentate. Ne morirono duecentomila per violenze, ferite, malattie, suicidio. La logica degli Alleati era la vendetta. I popoli dovevano pagare per i crimini dei propri governanti. Oggi sono cinquantasei i conflitti armati in corso. Centinaia di migliaia le vite spezzate. Milioni di sfollati, di bambini dall’infanzia negata. L’odio fermenta e alimenta il ciclo della violenza e della vendetta. Si combatte anche un’altra guerra non meno pericolosa. Contro il diritto, i diritti fondamentali, i tribunali internazionali, le Nazioni Unite. Ai giudici internazionali sono somministrati insulti, mandati di cattura, sanzioni finanziarie e minacce di morte. Ci si scandalizza per le loro decisioni, ma non per le atrocità che accertano. Gli stolti guardano il dito e ignorano la luna. Il desiderio di fare tabula rasa della civiltà del diritto accomuna in un’irrazionalità furiosa democrazie e dittature, Occidente e anti-Occidente. I conflitti armati sono processi politici, rammentano Marcello Flores e Giovanni Gozzini in “Perché la guerra”. La politica deve comporre le controversie senza spargimento di sangue e, quando le guerre scoppiano limitarne la disumanità, evitare che si trascinino senza scopo, fermare il male incrementale, costruire vie di pace. Se la politica smette di essere misura e limite della guerra, questa resta solo violenza selvaggia, fine a sé stessa, inconclusiva, folle. La forza economica e militare e, nel migliore dei casi, la politica governano il mondo, non la legge. Non ci sfugge. Ma diritto e politica stanno e cadono insieme. La sconfitta del diritto decreta la morte della politica. Ammassare violenza riporta alla clava come strumento di regolazione degli interessi confliggenti. Comporta l’estinzione della civiltà umana. L’apocalissi. Se è quello che si vuole, la via imboccata è quella giusta. *Giudice della Corte penale internazionale