Sovraffollamento e suicidi in crescita, l’anno nero delle carceri italiane di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2024 Polemica a distanza e divergenze sui dati tra Dap e Antigone. Non è solo sovraffollamento. Nelle carceri italiane cresce il numero dei detenuti che si tolgono la vita. I dati, seppure con una distinzione tra quelli ufficiali (79 suicidi) e quelli registrati dalle associazioni che si occupano dei diritti delle persone recluse (86 suicidi), parlano di una crescita rispetto al passato o, quantomeno, allo scorso anno. I numeri ufficiali del Dap - Per il Dap, che in proposito e dopo la presa di posizione dei rappresentanti di Antigone (l’associazione per “I diritti e le garanzie nel sistema penale”), ha diramato una nota con cui ha fornito i dati ufficiali e sottolineato: le persone detenute che si sono tolte la vita all’interno degli istituti penitenziari dal 1 gennaio 2024 sono 79. “Il dato - riporta la nota del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - si riferisce al numero dei casi per i quali le evidenze dei fatti hanno escluso la necessità di ulteriori accertamenti da parte dell’Autorità Giudiziaria. Nel 2022 il numero più alto di suicidi: 84”. Non solo, la nota del Dap del 5 dicembre certifica che “risultano 116 i decessi di detenuti per cause naturali e 22 quelli per cause da accertare”. Il Focus del Garante - A mettere in evidenza la crescita del numero dei suicidi, almeno rispetto allo scorso anno, è il “Focus suicidi e decessi in carcere anno 2024”, aggiornato al 2 dicembre, realizzato dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale. “Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dall’inizio del 2024 ha registrato 79 suicidi e 19 decessi per cause da accertare - si legge nel documento -. Si tratta di un dato elevato rispetto allo stesso mese di dicembre del 2023 in cui si registrarono 61 suicidi (con un aumento di 18 decessi) mentre è lo stesso rispetto al mese di dicembre del 2022”. L’analisi del Garante - Il documento analizza anche i fatti registrati. E dallo studio emerge che dei suicidi, due sono avvenuti all’esterno dell’istituto.”L’età media delle persone che si sono suicidate - si legge - è di circa 40 anni”. Quanto alle persone che si sono tolte la vita, dei 79, 77 erano uomini e 2 donne. Un altro elemento riguarda la nazionalità: complessivamente si sono uccise 45 persone italiane e 34 straniere provenienti da 15 paesi diversi. Il Focus evidenzia anche che 19 persone in passato avevano tentato il suicidio e 14 erano sottoposte alla misura della sorveglianza. Alla Campania triste primato - Dei 79 suicidi registrati, 11 sono avvenuti in Campania. A seguire con 8 episodi per ciascuna regione, Lombardia, Toscana e Veneto. Poi l’Emilia Romagna con 7 casi, Lazio, Piemonte e Sardegna con 6. In Liguria i suicidi sono stati 5 mentre in Abruzzo, Calabria e Sicilia 3. Così come in Puglia, mentre il numero più basso con 1 episodio ciascuna, Marche e Umbria. I dati delle associazioni - Per le associazioni il dato è più alto. I rappresentanti di Antigone, l’associazione di volontariato “Per i diritti e le garanzie del sistema penale” parlano di 86 suicidi, 7 in più rispetto a quelli indicati dal Dap nella sua nota. “Gli 86 suicidi dall’inizio dell’anno costituiscono una tragedia che non può essere minimizzata escludendo dal novero delle morti per suicidio quelle persone che hanno esalato l’ultimo respiro in ospedale, pur compiendo il gesto in carcere - commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone -. Un numero enorme di detenuti morti che ha nel sovraffollamento una concausa, nel senso che le 15 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari, trasformano i detenuti in numeri. Il personale resta numericamente, infatti, più o meno sempre lo stesso mentre i detenuti crescono di varie centinaia di unità al mese. Molti detenuti si ammazzano nei reparti di isolamento che andrebbero chiusi, ripensati, umanizzati”. L’appello alla politica - Dal presidente dell’associazione anche un passaggio sulle scelte politiche: “Sbaglia il Ministro Nordio quando in parlamento per difendere il calendario armato della Polizia Penitenziaria, a proposito delle carceri, evoca la spada. Di questo passo cresceranno le tensioni, i conflitti. Sarà lo stesso staff carcerario a subirne le conseguenze, tornando inevitabilmente alla vecchia e superata dicitura di agenti di custodia”. Tra sovraffollamento ed eventi critici - A monte anche un altro problema: il sovraffollamento giacché nelle 150 strutture detentive sono recluse 62.464. I posti regolarmente disponibili sono 46.663 rispetto alla capienza regolamentare di 51.165 (Divario - 4.502 posti). Il Focus mette in evidenza anche un altro aspetto: l’impatto del sovraffollamento sull’andamento degli eventi critici. “Secondo l’analisi comparativa relativa agli eventi critici di maggiore rilievo - si legge -, è ipotizzabile che all’aumentare del sovraffollamento si possa associare un incremento degli stessi, in particolare di quegli eventi critici che, più di altri, sono espressione del disagio detentivo, quali atti di aggressione, autolesionismo, suicidi, tentativi di suicidio, omicidio, aggressioni fisiche al personale di Polizia Penitenziaria e al personale amministrativo”. I tanti suicidi in carcere. Un peso per tutti noi di David Allegranti La Nazione, 15 dicembre 2024 Nelle carceri può accadere qualsiasi cosa, ma per il governo e le sue estensioni non cambia e non cambierà nulla. Il 2024 sta frantumando tutti i record negativi del sistema penitenziario italiano. “Cosa altro deve accadere affinché il governo si interessi di carcere, e non solo per continuare a stiparci gente introducendo sempre nuovi reati?”. La domanda è del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, e la risposta potrebbe non essere piacevole. Perché nelle carceri italiane può accadere qualsiasi cosa, ma per il governo e le sue varie estensioni non cambia e non cambierà nulla. D’altronde questo è pur sempre un paese in cui il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è perlopiù interessato a precisare che il numero di detenuti che si sono tolti la vita non è quello che numerose associazioni e operatori (Antigone, Ristretti Orizzonti, le Camere Penali Italiane, i sindacati di polizia penitenziaria) vanno gridando da giorni, da settimane. Giorni fa Ristretti segnava 86 suicidi nel suo dossier Morire di carcere, una cifra record che batte persino quella del 2022, quando furono 84. Il Dap invece dava altri numeri in un comunicato stampa: “Sono 79 le persone detenute che a oggi si sono tolte la vita all’interno degli istituti penitenziari dal primo gennaio 2024. Il dato si riferisce al numero dei casi per i quali le evidenze dei fatti hanno escluso la necessità di ulteriori accertamenti da parte dell’autorità giudiziaria”. Pur nella consapevolezza “che ogni singolo evento critico e, a maggior ragione, ogni notizia di decesso di un detenuto riveli la drammaticità di una dolorosa vicenda umana che sconvolge non solo i familiari della persona e gli altri detenuti, ma anche tutto il personale che con diverse competenze opera ogni giorno e con grande professionalità negli istituti penitenziari, si avverte la necessità di fare chiarezza sui dati ufficiali del Dipartimento a fronte di numeri diversi che quotidianamente vengono forniti da enti o associazioni di volontariato nel loro pur apprezzato impegno offerto nel sistema penitenziario”. Nel frattempo, secondo Ristretti e altre associazioni, i suicidi sono diventati 87 e il 2024 non è ancora finito. Di fronte alla competizione ingaggiata dal Dap si può aggiungere poco. Se non riproporre la domanda di Gonnella che avrà la stessa risposta poco piacevole. D’altronde persino il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è allineato con quanto sostiene il Dap, cioè il ministero della Giustizia. Nel suo ultimo focus sui suicidi e i decessi in carcere nell’anno 2024, riporta i numeri aggiornati del Dap (aggiornati dopo il già citato comunicato): 81 suicidi e 19 decessi per cause da accertare. “Si tratta di un dato elevato rispetto allo stesso periodo di dicembre 2023 in cui si registrarono 64 suicidi (con un aumento di 17 decessi) e al mese di dicembre del 2022 con 2 decessi)”, concede il Garante. Di queste 81 persone che si sono suicidate, se vogliamo prendere per buono il numero del Dap, 31 (38%) erano in “attesa di primo giudizio”. È stata analizzata la durata della permanenza all’Istituto nel quale è avvenuto l’evento: risulta che 43 persone, pari al 53%, si sono suicidate nei primi 6 mesi di detenzione; di queste 8 entro i primi 15 giorni, 6 delle quali entro i primi 5 giorni dall’ingresso. Dietro ognuno di questi numeri c’è la vita di una persona. C’è una storia. Come si fa a infischiarsene? Irene Testa, Garante dei detenuti della Sardegna: “Politica sorda al grido d’angoscia che viene dalle carceri” di Pietro Lavena sardegnalive.net, 15 dicembre 2024 Sovraffollamento, carenza di personale, emergenza sanitaria, suicidi: “Un girone infernale che nessuno sa più gestire. A volte basterebbe solo un po’ di affetto”. Quella del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è una figura istituita dal Ministero della Giustizia nel 2013. Il suo compito è tutelare i diritti fondamentali delle persone che, per diverse ragioni, si trovano in una condizione di privazione o limitazione della libertà personale. Non solo detenuti ordinari, ma anche persone internate nelle Rems o soggetti trattenuti nelle strutture di accoglienza per l’espulsione e il rimpatrio. Un compito arduo, volto alla difficile ricerca di una sintesi fra la difesa della giustizia e la garanzia delle prerogative di chi vive la disperazione della reclusione. Un impegno di civiltà, che spalanca per chi lo interpreta una finestra sugli abissi del mondo invisibile di chi soffre la pena della condanna e un’interpretazione spesso distorta del concetto stesso di detenzione. Irene Testa è testimone preziosa di una dimensione che ha abbracciato come missione civile. Tesoriera nazionale del Partito Radicale, di cui è storica esponente, è giornalista, saggista e conduttrice radiofonica. Garante dei detenuti in Sardegna dal 2023, è attenta da oltre un ventennio alla tematica carceraria. È stata animatrice di importanti iniziative legate alla realtà e alle politiche del sistema penitenziario italiano, degli ospedali psichiatrici giudiziari, delle case famiglie per minori e delle detenute madri. Ideatrice e conduttrice della rubrica Lo stato del Diritto, su Radio Radicale, è autrice, fra gli altri, del libro Il Fatto non sussiste, storie di orrori giudiziari, con la prefazione di Gaia Tortora. Nel corso della sua attività come consulente parlamentare, ha elaborato disegni di legge in tema di giustizia, carceri e amministrazione penale, tra cui l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. Ha fatto parte di numerose delegazioni parlamentari con le quali ha visitato oltre 100 istituti di pena. La abbiamo intervistata. Quali sono le maggiori criticità dell’ambito carcerario in Sardegna? “Il sistema vive una crisi profonda, principalmente a causa del sovraffollamento. Abbiamo strutture che ormai sono dei paesi per il numero di popolazione contenuta. Uta ha superato le 760 presenze, Bancali si avvia verso le 600, dal mese di agosto a oggi registriamo addirittura 100 presenze in più. Altre emergenze sono la carenza di personale, l’alto numero di persone malate e con disagi psichiatrici, tanti tossicodipendenti e tanti stranieri. Più di 1.000 persone non sarde scontano la pena nell’Isola, contribuendo all’aumento della popolazione carceraria. Il personale è poco e allo stremo delle forze. Abbiamo agenti che da soli gestiscono sezioni da 150-200 persone”. Cosa manca dal punto di vista materiale? “Mi sono confrontata con situazioni in cui mancavano persino i materassi, le coperte, i detenuti pativano il freddo. Le istituzioni sono incapaci di far fronte alle esigenze e costringono le direzioni degli istituti ad arrangiarsi. In molte strutture non funzionano i telefoni ed è impossibile programmare regolarmente i colloqui coi parenti, che sono di vitale importanza per i reclusi”. Nel 2024 si sono registrati 86 suicidi nelle carceri italiane... “I tantissimi tentativi di suicidio, nella maggior parte dei casi, vengono sventati dalla Polizia penitenziaria o dagli stessi compagni di cella, ma non si può pretendere che questi facciano i piantoni per prevenire le tragedie. Esistono protocolli che dovrebbero garantire una visita sanitaria all’ingresso della struttura, un supporto psicologico durante la detenzione. Tutto questo non c’è: a Uta, su oltre 760 detenuti, c’è un solo psichiatra più un’altra figura di supporto. Quest’anno abbiamo raggiunto il massimo di suicidi nella storia della Repubblica e il governo e le istituzioni danno segnali di abbandono e indifferenza”. L’emergenza sanitaria che riguarda la Sardegna si riflette nelle carceri... “Servirebbero più psicologi, psichiatri e infermieri. Al detenuto viene data la terapia, ma nessuno controlla come viene assunta, se viene buttata, regalata o venduta ad altri detenuti. Disagi psichiatrici e fasi depressive importanti non possono essere affrontate dentro una cella. Mi capita di trovare sempre più spesso ragazzi dai 18 ai 30 anni con una doppia diagnosi. Significa che l’assunzione di stupefacenti ha slatentizzato e determinato lo sviluppo di disturbi psicopatologici. A Uta si sono dimessi tutti i medici, non è più in funzione il servizio 118. È drammatico perché in carcere ci sono eventi critici ogni ora, persone che tentano di impiccarsi, che si tagliano in continuazione. Ma non funziona nulla. Ci sono persone che entrano nelle strutture sulle proprie gambe ed escono in sedia a rotelle, perché aspettano per anni una visita specialistica che non arriva, complice la loro situazione di indigenza”. Spesso, dietro i detenuti, c’è il dramma delle famiglie incapaci di affrontare queste situazioni... “Le alterazioni sfociano in famiglia con maltrattamenti, comportamenti ingestibili. Così i parenti, disperati, chiedono aiuto ai servizi territoriali che nella gran parte dei casi non riescono ad aiutarli all’esterno. Spesso sono proprio le agenzie sul territorio che consigliano ai genitori di denunciare i figli per attivare i percorsi che portano i ragazzi in comunità. Ma questi percorsi in realtà aprono spesso le porte del carcere. Ricevo chiamate di decine di mamme che speravano di portare i figli nei centri di recupero, invece se li ritrovano in carcere in piena psicosi maniacale”. A quel punto diventa sempre più difficile accedere alle comunità? “Quando si entra in questo circolo vizioso, il carcere non è in grado di gestirli e curarli. Le comunità, poi, sono poche, spesso non hanno i finanziamenti adeguati o semplicemente non ci sono posti. È veramente un girone infernale e nessuno sa più come gestirlo”. Come può un Paese che vuole dirsi civile assistere inerme a questo imbarbarimento? E quali sono gli interventi urgenti auspicabili? “Si tende a nascondere dentro un contenitore tanti problemi che non si riesce a risolvere fuori. Servono interventi normativi volti ad alleggerire in primis il peso umano delle carceri. Per riabilitare realmente il detenuto servono percorsi personalizzati di lavoro, cura, coinvolgimento, ma anche di affettività perché molti detenuti, soprattutto tossicodipendenti, sono talmente fragili che hanno bisogno semplicemente di affetto. Basta una piccola delusione, un colloquio andato male per farlo crollare. Poi occorrono strutture nuove”. L’esperimento delle colonie penali in Sardegna come lo vede? “Sono il fiore all’occhiello per la Sardegna, il luogo dove si effettua la vera detenzione, così come ci indica la Costituzione. Ma sono semivuote e semiabbandonate. Quando i dirigenti di certe amministrazioni vengono in Sardegna a visitarle le lodano, ne assaggiano i prodotti. Però non si fa niente per rendere queste colonie agricole realmente efficienti e produttive. È un peccato perché credo siano una realtà unica non solo nel panorama italiano, ma addirittura europeo ed extraeuropeo. Un modello che, se ben applicato, potrebbe essere esportato ovunque”. Per quanto riguarda i detenuti con disagi psicologici, dopo la dismissione degli Opg sono state istituite le Rems, ma anche questa soluzione è oggi messa in discussione... “Dopo la chiusura degli Opg è stato fatto il grande errore di non creare le strutture territoriali in grado di accogliere chi usciva da questi luoghi. In Sardegna abbiamo una Rems di 16 posti a Capoterra che lavora benissimo. Ho visto persone completamente perse in carcere, curate nelle celle lisce senza materasso, lenzuola, coperte, mangiavano per terra con i piatti di plastica perché dentro queste celle, visto l’alto rischio suicidario, non ci sono nemmeno arredi. Là dentro diventano persone senza più dignità e umanità. Bene, trasferite nella Rems, sono oggi irriconoscibili: stanno meglio, hanno fatto un percorso personalizzato, sono state curate. Purtroppo, sono pochi i recuperi di questo tipo perché c’è tanta gente in lista d’attesa, anche in questo caso bisognerebbe investire sulle strutture”. Cosa pensa della proposta di depenalizzare alcuni reati per smaltire il sovraffollamento? “Totalmente d’accordo. Se ci fossero state politiche di legalizzazione, non ci ritroveremmo con un numero così elevato di ragazzi in doppia diagnosi e disagi dovuti all’assunzione di droghe. Oggi le sostanze sono molto diverse dal passato. Mentre un tempo esistevano addirittura i farmaci corrispondenti alle droghe classiche, per le nuove sostanze non esistono. Significa che se il ragazzo slatentizza un problema psichiatrico, difficilmente si riesce a trovare il farmaco corrispondente. Quindi è condannato a un disagio permanente. Questo è frutto del mercato illegale”. Ci spiega meglio? “Le sostanze che circolano in un mercato clandestino, chiaramente, hanno effetti molto più nocivi di quelli che avrebbero se il mercato fosse controllato. Se le sostanze non fossero così aggressive, sarebbe più facile curare la dipendenza con antipsicotici e farmaci che consentirebbero ai tossicodipendenti di ritornare a una qualche normalità. La politica, priva di coraggio, preferisce invece un mercato clandestino con tutte le conseguenze che conosciamo anche dal punto di vista economico”. In questi giorni si è tornati a parlare della vicenda del boss Raduano, evaso nel 2023 da Badu ‘e Carros. Nelle carceri sarde c’è anche un problema di sicurezza? “Gli agenti sono pochi e non supportati. Sono immersi in questa sofferenza con cui hanno a che fare, spesso costretti a occuparsi di cose che non gli competono, vista la mancanza di figure professionali adeguate: consolare i detenuti durante una crisi, intervenire quando non hanno nemmeno i vestiti. È chiaro che in una situazione del genere, anche dal punto di vista della sicurezza ci saranno dei problemi”. Qual è la fotografia della carcerazione minorile nell’Isola? “A Quartucciu abbiamo meno di dieci ragazzi custoditi all’interno di un istituto nato come carcere di massima sicurezza per terroristi. Una situazione assurda e paradossale, un’enorme struttura con le mura altissime abbandonata, sezioni a rischio crollo, sprechi e costi enormi, perdite d’acqua e infiltrazioni, dispersioni di corrente. Durante la mia ultima visita ho trovato i secchi nelle stanze degli agenti perché ci piove dentro. Non sono rispettati i minimi standard di agibilità e vivibilità. Si è finanziata una ristrutturazione da 3,5 milioni di euro che ha riguardato solo una piccola palazzina con 7-8 camere, ma l’attività di chi lavora e dei ragazzi si svolgerà nell’ala compromessa e non cambierà quasi nulla”. Di recente si è parlato dell’abolizione delle carceri minorili, come la vede? “Sono del parere che gli istituti minorili possano e debbano essere superati. Il fatto che lo Stato non riesca a puntare sui ragazzi per riabilitarli è un fallimento. Hanno sbagliato, ma sono giovanissimi, non è chiudendoli dietro le sbarre che li recupereremo. Facciamoli studiare e lavorare, diamogli la possibilità di vivere in un contesto propositivo. Il carcere deve essere l’extrema ratio perché abbruttisce, ti fa sentire un delinquente. Ma negli ultimi anni assistiamo a una politica sempre più improntata alla sicurezza, alla punizione, al castigo. Serve un cambiamento culturale”. Come si può educare la società a considerare i detenuti come persone con diritti piuttosto che individui da emarginare? “È molto difficile, capisco l’emotività dell’opinione pubblica, soprattutto di fronte a fatti particolarmente efferati. Ma i detenuti sono persone e bisogna lavorare per prepararli al giorno in cui torneranno nella società. Prima o poi, la maggior parte di questi individui lascia il carcere. È un’illusione pensare che li mettiamo dentro e siamo tranquilli, se non faranno dei percorsi che li aiutino a comprendere gli errori, usciranno sicuramente più incattiviti di come sono entrati”. Lei si è occupata in prima persona delle criticità del Cpr di Macomer, qual è la situazione oggi? “I migranti che vi sono ospitati sono praticamente chiusi dentro le celle di una struttura che è un vecchio carcere di massima sicurezza. Non fanno niente tutto il giorno, stanno in terra perché non hanno neanche le sedie nei corridoi e, anche lì, spesso pensano a come togliersi la vita. D’inverno vivono al gelo, d’estate con temperature di 40°C, costretti a mettere le coperte nelle finestre per ripararsi dal sole. Le lenzuola sono realizzate in una sorta di plastica che dà irritazione alla pelle. Non possono contattare i parenti telefonicamente. Rimangono nel Cpr per 18 mesi e dopo, quando non riusciamo a rimpatriarli, li rimettiamo in strada senza nemmeno vestiti. È un sistema folle”. C’è un argomento che continua a essere un tabù quando si parla di carceri: il sesso. Oggi si parla di camere dell’amore nelle quali i detenuti potrebbero incontrare le proprie mogli o fidanzate. Qual è il suo parere a riguardo? “La penso esattamente come la Corte Costituzionale ha sancito recentemente con una sentenza, cioè che il carcere debba garantire l’affettività ai detenuti. A questo proposito ho scritto a tutti gli istituti della Sardegna per capire se fosse stata recepita la disposizione della sentenza. Purtroppo, ancora, non è stata messa in atto in nessuna delle strutture isolane, che però dovranno necessariamente adeguarsi. Anche chi sbaglia ha diritto a poter abbracciare la moglie, a trascorrerci del tempo, così come a trascorrerlo con i figli. Che male c’è nel concedere una giornata piuttosto che 40 minuti di colloquio? Non ha senso accanirsi privando i detenuti di tutto. Sottrarre gli affetti familiari non è contribuire alla rieducazione, serve a inasprire gli animi di queste persone”. Qual è la storia che l’ha affranta di più e quella che l’ha sorpresa di più in positivo? “Penso alla storia di una persona inferma di mente che ha compiuto un reato molto grave, di quelli per cui l’opinione pubblica chiede di buttare la chiave e basta. Ho avuto modo di fare dei colloqui con lei poco dopo, era incapace di intendere e volere. A distanza di mesi l’ho rincontrata trovandola completamente investita dal dolore che col tempo ha provato nel ricordare il gesto che aveva commesso. Una sofferenza enorme che mi ha trasferito totalmente. Una volta rientrata a casa, sono stata male come mai prima di allora. Ricordo, invece, di un ragazzo molto giovane che vedevo all’interno del carcere completamente disperato e dissociato, con sdoppiamenti di personalità. Dopo un anno, si è riusciti a farlo accedere alla Rems e oggi lo sento spesso, sono andata a trovarlo e ho trovato una persona rinata. Hanno fatto su di lui un lavoro bellissimo che spero possa proseguire. Mi fa un enorme piacere, poi, rimanere in contatto con le mamme di questi giovani che mi aggiornano sulla situazione dei loro figli quando finalmente riescono a intraprendere una buona strada di recupero”. Come fa a tornare a casa e riprendere la vita di tutti i giorni dopo essere stata a contatto con storie così drammatiche? “Ci sono giorni in cui ho proprio bisogno di staccare, tante sono le richieste di aiuto che mi arrivano e le testimonianze di disgrazie e disperazione che raccolgo come garante. Ci sono momenti in cui ti senti impotente. Il diritto è il faro che guida il mio lavoro, ma sebbene il garante abbia un potere di controllo e interlocuzione, non può risolvere tutto. A volte, a fine giornata, capita che l’emozione prenda il sopravvento e mi travolga”. La Porta Santa in carcere, la richiesta di amnistia di Fausto Gasparroni ansa.it, 15 dicembre 2024 Tra le principali novità del Giubileo 2025, ci sarà che per la prima volta verrà aperta una Porta Santa in un carcere. Papa Francesco ha fortemente voluto questa iniziativa, che ha un carattere storico, indicandola il 9 maggio scorso nella stessa Bolla d’indizione dell’Anno Santo: “Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”, annunciava il Pontefice nella “Spes non confundit”. Ecco allora che, dopo l’avvio ufficiale del Giubileo con l’Apertura della Porta Santa di San Pietro alla vigilia di Natale, “il 26 dicembre il Santo Padre nel giorno di Santo Stefano sarà nel carcere romano di Rebibbia per aprire anche in quel luogo la Porta santa”, ha annunciato il 28 ottobre scorso il ‘regista’ dell’Anno Santo 2025, mons. Rino Fisichella, che non solo ha rilanciato un appello ai governanti per forme di “amnistia” ma ha anche fatto sapere che l’11 settembre scorso “abbiamo firmato una intesa con il ministro di Giustizia Carlo Nordio e il commissario governativo, il sindaco Roberto Gualtieri, per rendere effettive durante il Giubileo forme di reinserimento in attività di impegno sociale” dei detenuti. Non un semplice “Giubileo dei detenuti”, quindi, come già in altre occasioni e come ci sarà anche in questo Anno Santo, il 14 dicembre 2025. Ma, con la Porta Santa che sarà aperta a Rebibbia, una presenza stabile nel principale carcere di Roma del simbolo che, in quanto immagine di Cristo, è il luogo di transito verso il bene. L’interpretazione secondo la tradizione biblica dice infatti che la porta giubilare è Cristo stesso che introduce nella città celeste, che perdona le colpe e rimette le pene. Nell’Antico Testamento il libro di Ezechiele afferma che la porta è il luogo attraverso il quale l’uomo passa per incontrare Dio. E Il rito della Porta Santa esprime simbolicamente il concetto che, durante il Giubileo, è offerto ai fedeli un “percorso straordinario” verso la salvezza. Papa Francesco, dunque, non poteva manifestare meglio la sua assidua attenzione e vicinanza verso i detenuti, già espressa nelle tante visite in case di pena in Italia e all’estero, e nella volontà di celebrare quasi ogni anno il rito della “lavanda dei piedi” del Giovedì Santo con i reclusi (o le recluse) di un carcere. Rebibbia, quindi, caso unico, sarà posta pressoché al pari delle quattro Basiliche papali: San Pietro (apertura della Porta Santa il 24 dicembre), San Giovanni in Laterano (29 dicembre), Santa Maria Maggiore (1 gennaio) e San Paolo fuori le Mura (5 gennaio). Come accaduto già in passato per altri Giubilei, il Papa anche in questo caso ha inoltre invocato dai governi di tutto il mondo dei provvedimenti di clemenza verso chi ha sbagliato. “Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”; ha affermato nella Bolla d’indizione. Francesco, comunque, ha invitato tutti, durante il Giubileo, “ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto”. In ogni angolo della terra, ha aggiunto, “i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento”. La San Vincenzo de Paoli “premia” la creatività dei detenuti. E la forza della speranza di Lorenzo Rosoli Avvenire, 15 dicembre 2024 Guarda al Giubileo l’edizione 2025 del concorso letterario intitolato a Carlo Castelli, volontario vincenziano e promotore della legge Gozzini. Le premiazioni saranno a Brescia Canton Mombello. La casa circondariale di Brescia “Nerio Fischione”, che tutti conoscono e chiamano da sempre “Canton Mombello”, è una struttura vetusta e sovraffollata. Progettata alla fine dell’800, inaugurata nel 1914, conta 182 posti regolamentari. Ma le persone ivi detenute - secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 9 dicembre 2024 - sono 378. È questo istituto di pena, emblematico della situazione drammatica del sistema carcerario italiano - che quest’anno, fin qui, ha visto ben 86 persone togliersi la vita e 155 morire per altre cause - il luogo scelto per un evento che vuole invece parlare di condivisione, rigenerazione, speranza. Un evento che guarda al Giubileo 2025. Da vivere come “Pellegrini di speranza”, secondo il tema scelto da papa Francesco. Sarà Canton Mombello ad ospitare infatti - probabilmente nell’ottobre del 2025 - le premiazioni della 18ª edizione del premio letterario “Carlo Castelli”, organizzato dalla Federazione nazionale italiana Società di San Vincenzo De Paoli, Settore Carcere e devianza. Si tratta di un concorso destinato a tutte le persone detenute, anche minorenni, condannate almeno con sentenza di primo grado - come si legge nel regolamento che fissa al 15 aprile 2025 il termine per la spedizione degli elaborati (in sanvincenzoitalia.it il testo completo con le modalità di partecipazione e ogni altra informazione). “Mi specchio e (non) mi riconosco: non sono e non sarò il mio reato”. Questo il tema scelto per l’edizione 2025 del concorso dedicato alla memoria di Carlo Castelli, figura di spicco del volontariato vincenziano e promotore della legge Gozzini. Il tema è un invito alla presa di coscienza - rivolto alla comunità carceraria e all’intera società - perché si distingua sempre fra la persona detenuta e il reato commesso, aprendo la via a percorsi di cambiamento, reinserimento. Speranza: che è parola chiave, come detto, del Giubileo 2025. E che è elemento centrale del carisma della Società di San Vincenzo, il cui motto, riportato sotto il logo, è Serviens in spe, “al servizio nella speranza”. Servizio che il Settore Carcere e devianza vuole attuare come azione concreta con chi vive oltre le sbarre. Il premio si articolerà nelle sezioni narrativa (saggio breve, racconto, lettera, riflessione), scrittura autobiografica, poesia, opere multimediali (Cd-rom/Dvd) realizzate in carcere. Il concorso, sottolinea una nota della San Vincenzo, “offre ai detenuti l’opportunità di raccontarsi, riflettere e sperare attraverso la scrittura, ma anche di fare del bene”. A ciascun premio in denaro, infatti, sarà abbinata una donazione da destinare a progetti di reinserimento sociale. Il premio “Castelli” ha il patrocinio di Camera, Senato e Ministero della Giustizia, ed è stato insignito della medaglia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nordio: “Se il referendum sulla riforma andasse male conseguenze per il Governo” di Irene Famà La Stampa, 15 dicembre 2024 Il Guardasigilli: “Pensare che la riforma sia punitiva verso i magistrati non dico sia offensivo ma quanto meno bizzarro”. “Quando io sono entrato in magistratura, i giudici godevano di più fiducia della chiesa cattolica”. Il ministro Nordio, sul palco di Atreju, difende la sua riforma della Giustizia. “Spero venga fatto un referendum- dice - La questione è così delicata che deve decidere il popolo. Ma che il referendum non venga personalizzato: governo sì, governo no. Non sarà un referendum né sul governo né sulle toghe”. Con il presidente dell’Anm Santalucia il dibattito è acceso, il botta e risposta continuo. “Pensare che la riforma sia punitiva verso i magistrati non dico sia offensivo ma quanto meno bizzarro”, afferma il Guardasigilli. “L’obiettivo è indebolire il sistema giudiziario”, ribatte il presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Si parla di separazione delle carriere, dei nuovi meccanismi per scegliere i componenti del Csm così da “evitare le correnti”. Si parla della mancanza di fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura. “Sono il primo a patrocinare la presunzione di innocenza - dice il ministro Nordio - quello che però posso dire da cittadino è che una Procura che per anni, per decenni, è stata considerata un po’ il simbolo della magistratura italiana, ha contribuito al crollo che è ormai palpabile della credibilità della magistratura”. E aggiunge: “Abbiamo avuto un protagonista di Mani Pulite che è stato condannato in via definitiva: il dottor Davigo è oramai, tecnicamente parlando, secondo le sue stesse parole che ha usato nei confronti di Craxi, un pregiudicato. Poi abbiamo visto il caso di De Pasquale e di altri colleghi ancora sottoprocesso: non è una bella immagine della magistratura”. Il presidente dell’Anm Santalucia ribatte: “È il ministro che ha l’azione disciplinare”. Non solo. Il Guardasigilli accenna ai tempi lunghi della giustizia: “Abbiamo processi che durano decenni e si concludono nel nulla. Come quello sulla trattativa Stato-Mafia o quello ad Andreotti”. Santalucia ricorda: “È il ministero a fornire le risorse della giustizia. Noi facciamo sentenze, ma le condizioni in chi le produciamo le determina il ministro”. Botta e risposta anche sullo scandalo Palamara. “I magistrati sono quasi sempre tutti giudicati al top, bravissimi, poi si trova lo scandalo Palamara e altri. Questo significa che il sistema di controllo del Csm non ha funzionato”. I casi Scarpinato e De Bonis: il Parlamento sotto attacco delle toghe di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 dicembre 2024 Non si ferma la tendenza di una certa magistratura a picconare le prerogative riconosciute dalla Costituzione ai membri del Parlamento. Ecco due nuovi casi dopo quelli di Renzi ed Esposito. La Consulta dovrà di nuovo prendere posizione contro le esondazioni delle toghe. Non si ferma la tendenza di una certa magistratura a picconare le prerogative riconosciute dalla Costituzione ai membri del Parlamento. Ci riferiamo a istituti come l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni o l’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio della funzione, concepiti dai costituenti non come privilegi dei singoli parlamentari, ma come strumenti volti a tutelare l’autonomia del Parlamento da indebite interferenze. Proprio alla fine dello scorso anno, su queste pagine abbiamo evidenziato il prezioso lavoro svolto nel corso del 2023 dalla Corte costituzionale per difendere le prerogative dei parlamentari dalle invasioni di campo della magistratura. Con due sentenze molto importanti, la Consulta si è espressa per tutelare le prerogative costituzionali dei membri del Parlamento dall’invadenza delle toghe. La prima riguarda il senatore Matto Renzi: i pm di Firenze lo hanno indagato per il caso Open, arrivando a sequestrare gli smartphone dei suoi colleghi e amici per leggere i messaggi e le e-mail da lui inviate. I giudici costituzionali, però, hanno stabilito molto chiaramente che i messaggi elettronici (come chat WhatsApp o e-mail) scambiati da un parlamentare sono riconducibili alla nozione di corrispondenza tutelata dall’articolo 68 della Costituzione. Di conseguenza, quando i magistrati sequestrano smartphone o dispositivi elettronici di terze persone e riscontrano la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, devono sospendere l’estrazione di questi messaggi e chiedere l’autorizzazione del Parlamento, cosa che la procura di Firenze non ha fatto. La seconda sentenza significativa della Consulta ha riguardato il caso dell’ex senatore Stefano Esposito, intercettato indirettamente per tre anni circa 500 volte dalla procura di Torino senza autorizzazione del Senato e poi rinviato a giudizio per gravi reati (corruzione, turbativa d’asta, traffico di influenze), dalle quali è stato recentemente prosciolto, senza che né il pm torinese Gianfranco Colace né la gup Lucia Minutella si siano prima rivolti al Senato per chiedere l’autorizzazione a utilizzare le captazioni. Un fatto mai avvenuto prima, puntualmente censurato dalla Consulta, che ha affermato in maniera molto netta che i magistrati torinesi (ora sotto procedimento disciplinare al Csm) hanno agito al di fuori delle regole costituzionali. La tendenza di certi magistrati a disattendere in maniera palese le norme della Costituzione si è confermata negli ultimi mesi. Ieri abbiamo ricordato la vicenda che riguarda il senatore M5s Roberto Scarpinato, intercettato indirettamente 33 volte dalla procura di Caltanissetta nell’ambito di un’inchiesta che coinvolge Gioacchino Natoli, ex presidente della Corte d’appello di Palermo. Nonostante Scarpinato non fosse indagato, e nonostante le chiacchierate con l’ex collega Natoli non hanno alcuna rilevanza penale, le conversazioni sono state trascritte dalla polizia giudiziaria su ordine dei pm. Alcuni mesi fa, poi, la procura di Caltanissetta ha trasmesso alla commissione Antimafia, della quale Scarpinato fa parte, le intercettazioni che coinvolgono Scarpinato, senza alcuna autorizzazione preventiva da parte del Senato. Ora il M5s ha scoperto improvvisamente il valore dell’articolo 68 della Costituzione e chiede che sia sollevato un conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta. Il conflitto di attribuzione è invece stato sollevato dal Senato nelle scorse settimane con riferimento al caso che riguarda un ex senatore, Saverio De Bonis, eletto nei Cinque stelle e poi passato in Forza Italia. Tralasciando le idee a dir poco stravaganti avanzate nel corso del suo mandato da De Bonis (in particolare sulla xylella e sul grano importato), ciò che è avvenuto ha dell’incredibile. Sottoposto a procedimento penale per diffamazione per un post pubblicato su Facebook quando era senatore, De Bonis ha sollevato più volte al tribunale di Matera l’eccezione di insindacabilità, sostenendo che le opinioni espresse avessero un collegamento con la propria attività di parlamentare. A dispetto di quanto previsto dalla legge n. 140 del 2003, attuativa dell’articolo 68 della Costituzione, il giudice non ha né sospeso il procedimento né trasmesso gli atti al Senato affinché decidesse sulla sussistenza o meno dell’insindacabilità, ma ha direttamente emesso la sentenza (peraltro di condanna nei confronti di De Bonis). Una chiara violazione della Costituzione, che ha spinto il Senato ad avanzare un conflitto di attribuzione tra poteri dello stato. La Consulta, ancora una volta, sarà chiamata a difendere la Costituzione e il Parlamento dalle esondazioni della magistratura. Caso Busetto, ci sono solo due strade “Revisione oppure il decreto legge” di Fabio Amendolara La Verità, 15 dicembre 2024 Per risolvere il conflitto tra giudicati nell’ingarbugliata vicenda giudiziaria di Monica Busetto, l’operatrice sociosanitaria condannata a 25 anni per l’omicidio della dirimpettaia Lida Taffi Pamio a Mestre, 12 anni fa, ci sarebbero esclusivamente due strade: “Individuare nella giurisprudenza una linea interpretativa, se esistente, oppure intervenire con un decreto legge”, spiega alla Verità Mario Esposito, professore di Diritto costituzionale all’università del Salento. L’ipotesi che ci siano due imputate, la Busetto e Susanna Lazzarini, rea confessa (e autrice, tre anni dopo, di un altro omicidio molto simile), non in concorso tra loro nel reato ma singolarmente condannate per lo stesso fatto, fa storcere il naso al professore: “Bis in idem non mi era mai capitato”, afferma. Poi aggiunge: “Se così fosse sarebbe inaccettabile e bisognerà porre rimedio”. Con una modifica della quale, secondo Esposito, “beneficerà una delle due imputate oppure, secondo il principio giuridico della “analogia in bonam partem” che, nei casi non espressamente previsti dalla legge, applica la disciplina prevista per le questioni simili o desunta dai principi generali dell’ordinamento giuridico, “potrebbero beneficiarne tutte e due”. Di certo, il conflitto tra giudicati è uno dei presupposti per chiedere una revisione della sentenza. Ma i giudici della Cassazione, dopo il “niet” della Corte d’appello di Trento, come svelato da Mario Giordano l’altro giorno sulla Verità, hanno negato alla Busetto la riapertura del processo (che era stata chiesta dai suoi difensori, gli avvocati Alessandro Doglioni e Stefano Busetto). “Bisognerà attendere le motivazioni”, afferma la senatrice leghista Erika Stefani, che sta studiando il caso in vista di una interrogazione da presentare al Guardasigilli Carlo Nordio. Nei fatti, la questione appare chiara: la Busetto, della quale non ci sono tracce nell’appartamento della vittima, ha sempre negato il suo coinvolgimento ma è stata incriminata a causa di una catenina trovata nella sua abitazione sulla quale era presente il Dna della vittima (in quantità estremamente ridotta, appena tre picogrammi: un dettaglio che ha portato il caso a essere trattato anche su diverse riviste scientifiche e che potrebbe derivare, sostiene la difesa, da una contaminazione con altri reperti analizzati contemporaneamente); la Lazzarini ha confessato il crimine e, dopo aver sostenuto per tre lunghi interrogatori di aver agito da sola, ha improvvisamente cambiato versione accusando anche la Busetto. Il cambio di rotta è stato così valutato dai giudici della Corte d’appello: “Certamente difettano dei requisiti della spontaneità e della tempestività (sono state rappresentate dopo molto tempo la commissione dell’omicidio)”; tuttavia, “non vi è dubbio che una ritrattazione “maldestra” possa essere utilizzata come conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni iniziali”. Il giudice per l’udienza preliminare che ha giudicato la Lazzarini, poi, ha affermato che “il ruolo di materiale compartecipe nel delitto della Busetto non ha trovato adeguato riscontro”. Parole che si sono trasformate subito in un “contrasto tra giudicati”. Nel frattempo, sia la Busetto, che ha una condanna definitiva per l’omicidio della dirimpettaia, sia la Lazzarini restano in carcere per lo stesso delitto. Pur non avendo agito, come stabilito nella decisione del gup, in concorso tra loro. Genova. Suicidi nelle carceri di Marassi e Pontedecimo, tre interrogazioni di Giachetti genova24.it, 15 dicembre 2024 Nelle interrogazioni affrontato anche il tema del sovraffollamento. Roberto Giachetti su richiesta di Rita Bernardini mercoledì 11 ha presentato tre diverse interrogazioni ai Ministri della Giustizia e della Salute sui recenti tragici episodi avvenuti nelle Carceri di Marassi e Pontedecimo. Nella prima si chiede conto degli ultimi due suicidi (in particolare quello del 12-11 di M.B.M.), nella seconda dei 6 decessi (4 per suicidio) verificatisi nel corso del 2024 a Marassi e di quello del senza fissa dimora R.M. ucciso nel sonno dal suo compagno di cella (su cui è stata riaperta l’inchiesta a seguito di un esposto del Garante Regionale), delle gravi carenze di assistenza medica e psichiatrica riscontrate durante una recente visita di Nessuno tocchi Caino tenuta insieme alla Camera Penale e della reale capienza regolamentare dell’istituto, per molti anni dichiarata dal DAP di 450 posti (691 i detenuti presenti al 30-11) e in seguito elevata a 546 posti senza che i mq disponibili e il numero delle celle siano aumentati. Giachetti chiede in particolare di conoscere le ragioni dell’allocazione di detenuti affetti da gravi patologie e ritenuti “compatibili col il regime carcerario solo in istituti dotati di SAI” in sezione (e non nel SAI) privi di assistenza e cure adeguate, dell’allocazione in sesta sezione (l’isolamento) di diversi detenuti affetti da patologie psichiatriche in celle che versano in gravi condizioni di degrado e sporcizia, della mancanza di campanelli o dispositivi di allarme all’interno delle celle in tutto l’istituto; chiede quindi di incrementare l’assistenza medica e psichiatrica, fare fronte alle carenze di organico della polizia penitenziaria e promuovere una ispezione sulla gestione del servizio sanitario e l’organizzazione delle sezioni detentive dell’istituto. La terza riguarda la morte di D.S. avvenuta lo scorso 21-2 a Pontedecimo secondo i primi riscontri per “una polmonite in stato avanzato per cui non avrebbe ricevuto cure adeguate”, mentre gli esiti degli esami più approfonditi dell’autopsia non sono mai stati resi noti. Si chiede sia fatta chiarezza sulle cause del decesso e su eventuali responsabilità, che il Carcere di Pontedecimo torni a disporre di copertura medica h24 (o almeno vi sia presente un medico anche nei festivi), che siano aumentate le ore di presenza dello psichiatra e del dentista e in particolare che torni ad avere un proprio dirigente medico incaricato, non essendo possibile resti affidato allo stesso che deve occuparsi del SAI di Marassi e non risulta quasi mai presente. Infine viene chiesto al Ministro della Giustizia Carlo Nordio con quali provvedimenti intenda fare fronte al grave sovraffollamento che affligge i due istituti, ma a fronte degli 87 suicidi e 155 decessi per “altre cause” registrati nel 2024 nelle carceri del nostro paese (il numero più alto di sempre) non ve ne sono altri possibili che una Amnistia o l’approvazione della Proposta di legge sulla liberazione anticipata dello stesso Giachetti, che è da mesi confinata in commissione, ma potrebbe essere un utile strumento per affrontare questa emergenza. Monza. Nuove prospettive di vita “Come mi vorrei” dopo il carcere di Cristina Bertolini Il Giorno, 15 dicembre 2024 I sogni oltre le foto segnaletiche. Il progetto dell’associazione culturale Heart con 50 detenuti di Monza e altrettante persone libere. Ognuno ha ritoccato la propria immagine per comporre un collage con cui condividere emozioni e aspirazioni. Immagini rielaborate, tagliate, decorate e riproposte, dove il dentro e il fuori dal carcere si intersecano verso la ricerca di identità. Si intitola “Come mi vorrei” il progetto fotografico promosso dall’associazione culturale “Heart - pulsazioni culturali”, che coinvolge diversi carceri italiani, tra cui la casa circondariale di Monza, in collaborazione con il ministero della Giustizia, l’Ufficio scolastico regionale e la Fondazione Comunità Monza e Brianza. “Il progetto è stato proposto a 50 detenuti del carcere di Monza e ad altrettanti cittadini incensurati, amici e conoscenti - spiegano la curatrice Simona Bartolena e il fotografo Giacomo Nuzzo -: chi aderiva veniva fotografato in una posa standard, con fondo bianco, simile alle foto segnaletiche. A ciascuno dei partecipanti, dentro e fuori dal carcere, è stata poi riconsegnata la propria foto, perché la scomponesse e manipolasse, reinterpretandola a modo suo, pensando a “Come mi vorrei”. L’artista Armando Fettolini ha aiutato i detenuti a pensare alla propria immagine, metafora della propria vita, chiedendosi come vorrebbe se stesso e la propria esistenza. Sono usciti cento lavori che poi hanno composto un collage di persone tutte diverse, ma in qualche modo tutte uguali, dove i detenuti si mescolano ad avvocati, sacerdoti, giornalisti e artisti, divenute oggetto di una mostra esposta nel foyer del Teatro Binario 7. Qualcuno ha aggiunto strumenti iconici del proprio lavoro, qualcun altro ha creato con la propria immagine un puzzle a colori, qualcuno ha cancellato metà del proprio volto, qualcuno ha tenuto la sagoma riempiendola con un cielo al tramonto. Le immagini sono anche diventate un libro illustrato. “Siamo usciti dal carcere con delle immagini - racconta Nuzzo -, ma ancor più con un senso di condivisione: alcuni ci hanno raccontato la loro storia, altri no, ma tutti hanno condiviso le loro emozioni, errori, privazione di libertà, nostalgia della famiglia e paura del futuro”. Chi esce dal carcere dopo anni di reclusione trova il mondo cambiato e se non ha avuto occasioni di formazione all’interno, non ha modo di riproporsi e torna a delinquere. Pesaro. “L’Artevade”, opere di detenuti e pazienti della Rems in mostra a Palazzo Ducale ansa.it, 15 dicembre 2024 Le opere realizzate dai detenuti e dai pazienti della Rems nell’ambito dei laboratori organizzati presso gli istituti detentivi della provincia di Pesaro saranno presentate lunedì 16 dicembre al Palazzo Ducale con il vernissage della mostra di “L’Artevade” un progetto del Garante regionale dei diritti, Giancarlo Giulianelli. Sarà visitabile dal 16 dicembre 2024 (taglio del nastro previsto alle ore 11,30) al 9 gennaio 2025 la mostra che raccoglie le opere e i manufatti dei detenuti della Casa circondariale di Pesaro, della Casa di reclusione di Fossombrone, nonché dei pazienti della Rems di Macerata Feltria, realizzati nei laboratori di arteterapia che si svolgono all’interno delle strutture detentive. “L’Artevade” è un racconto di vite, ora immerse in un’aria ferma, per cui è anche un racconto del tempo e, in particolare, del tempo che “dentro” facilita il suo scorrere perché impiegato nelle diverse tipologie di attività trattamentali, proposte con finalità rieducative volte al reinserimento sociale dei detenuti e degli internati. “Questa esposizione di opere pensate e realizzate da chi è dentro - ha evidenziato il Garante Giancarlo Giulianelli - vuole collaborare ed abbattere il muro della non conoscenza e del pregiudizio, per creare possibilità di incontro con chi è fuori”. La mostra, inserita nel programma delle iniziative di “Pesaro Capitale della Cultura 2024”, sarà ospitata presso la Sala Laurana di Palazzo Ducale, nella sede della Prefettura. L’evento ha il patrocinio del Comune di Pesaro e della Fondazione Marche Cultura. Inoltre, il progetto prevede la collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale che promuoverà la visita della mostra, nonché eventuali attività collaterali, da parte degli studenti degli istituti scolastici del territorio. Latina. L’arte dal carcere: vassoi e shopper firmati dai detenuti latinaoggi.eu, 15 dicembre 2024 Successo per l’iniziativa in Tribunale. Domenica stand in piazza del Popolo. Ha riscosso successo l’iniziativa denominata Arte dal carcere, promossa dall’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) della sezione di Latina che nei giorni scorsi in Tribunale a Latina in collaborazione con l’Associazione Cocci e Coriandoli ed il gruppo Solidarte, ha esposto all’interno dell’ufficio giudiziario di piazza Bruno Buozzi prodotti artigianali e artistici realizzati dai detenuti della casa circondariale di via Aspromonte. Shopper. Molti sono stati prodotti dalle donne. Molto belli i vassoi e anche le tazze che hanno attirato l’attenzione di tutti. L’obiettivo dell’iniziativa è di raccogliere fondi destinati all’acquisto di materiale e attrezzature per sostenere i laboratori di artigianato in carcere. Anche domani e il 21 dicembre sarà presente uno stand dalle 9,30 alle 16,30 in piazza del Popolo. L’ignoranza di quelli che sanno tutto di Aldo Grasso Corriere della Sera, 15 dicembre 2024 Qualcosa nel nuovo secolo è andato storto: c’è un clima diffuso di regressione, di negazionismo, di falsità. C’è una parola che ci vergogniamo di pronunciare, sicuri che non ci appartenga più: ignoranza. Eppure, in settimana ci sono stati pericolosi avvertimenti di una generale decadenza: l’Oxford Dictionary ha scelto “brain rot” (marcescenza mentale) come parola dell’anno, il rapporto Censis avverte che troppi studenti arrivano al termine degli studi sapendo a mala pena leggere e far di conto e, infine, il rapporto Ocse certifica che in Italia un terzo degli adulti è analfabeta funzionale (sa leggere e scrivere ma non capisce un articolo di giornale). Da quando l’ignoranza è diventata un punto di vista dominante? L’ignoranza è una grande tragedia sociale che ci rende tutti prolissi: facile dare la colpa alle nuove tecnologie, ai social, più difficile parlare del fallimento della scuola, delle politiche governative, della crisi del pensiero. Qualcosa nel nuovo secolo è andato storto: ormai l’ignoranza dilaga in tutto il mondo. C’è un clima diffuso di regressione, di negazionismo, di falsità che ricorda gli anni Venti del secolo scorso: diffidenza verso la scienza (quanti No Vax, cui vengono persino cancellate le multe!), verso la democrazia (autocrazie, sovranismi, fanatismi, populismi…), verso la cultura (contro le competenze e i principi etici). Così, per nascondere la nostra ignoranza, siamo diventati tutti opinionisti. La guerra ai poveri e il declino della sinistra di Goffredo Fofi Corriere del Mezzogiorno, 15 dicembre 2024 “Guerra ai poveri, agli immigrati, alle minoranze” sembra essere il programma dell’attuale Governo. E poiché i poveri, gli immigrati, le minoranze sono una parte per l’appunto minoritaria del paese, questa guerra è vinta giorno per giorno da una schiera di politici che hanno - anche personalmente l’egoismo come bandiera. La sensazione di impotenza che ne viene - ai poveri, agli immigrati, alle minoranze - dipende da una constatazione: che tra i cittadini vi sia una maggioranza di egoisti e conformisti che concordano con questa politica, con questa arroganza antidemocratica e per niente civile. L’egoismo, personale e di gruppo, come base dell’elettorato, il “ceto medio” come maggioranza dei votanti. E allora, davvero, non si tratta soltanto di interessi di classe (di ceto) ma di un cupo fondo culturale, “antropologico”. Quando si lamenta la pochezza o la morte della sociologia si intende anche un vuoto di conoscenza - chi siamo, come lo siamo diventati, dove stiamo andando e quali sono davvero i nostri interessi. Si tratta in definitiva, credo, di un vuoto di cultura a cui consegue un vuoto di morale. In un paese composto a stragrande maggioranza di cattolici, “l’amore del prossimo” che dovrebbe essere la sua base morale e di conseguenza politica, è ciò che più ci difetta. E non mi pare che i cattolici siano migliori oggi dei non-credenti o dei fedeli di diverse credenze. E sul fronte della politica questo papa mi sembra non essere decisamente migliore dei papa di ieri, sostenitori di un fronte politico democristiano. La morale religiosa e quella laica potrebbero incontrarsi proprio nell’amore del prossimo, ma così non è, per la fiacchezza e le doppiezze dell’educazione cattolica e per - diciamolo - il suicidio della sinistra, avvenuto ormai molti anni fa, lasciando un vuoto che nessuno sembra aver voglia di riempire, forse perché “ceto medio” non diverso nella sua radice economica e nella sua formazione culturale da quello di centro (che, se c’è, è moralmente e socialmente omologato) o di destra. Come, dunque, reagire se ancora si crede nella giustizia sociale e nella libertà di pensiero e nella democrazia? Non potendo intervenire sulle basi di questa società, sarebbe almeno auspicabile un intervento decisamente culturale. Ma è anche questo che manca oggi, ed è un vuoto che vede responsabili gli intellettuali di oggi e i diplomati e laureati di oggi, e soprattutto i loro maestri, nell’università e altrove. “Il buio del Governo si allarga, ma anche la potenza dei Movimenti” di Chiara Sgreccia Il Domani, 15 dicembre 2024 In piazza a Roma contro il ddl Sicurezza. Da Piazzale del Verano a Piazza del popolo, una moltitudine di persone ha riempito le vie della Capitale per contestare un disegno di legge autoritario che criminalizza il dissenso: “Una modalità di protesta orizzontale per contestare il governo Meloni” È già piena Piazza del Popolo quando arriva la folla di manifestanti in corteo per protestare contro il disegno di legge sulla sicurezza. O “ddl Paura”, come l’hanno ribattezzato gli organizzatori della protesta che ha fatto tappa oggi a Roma, da piazzale del Verano al cuore della Capitale “per dire che questo disegno di legge non va emendato o modificato, deve essere cancellato”, grida dal camion che guida la moltitudine di persone, tra cori, applausi, musica, bandiere e striscioni contro il governo, Luca Blasi, assessore del III Municipio di Roma con delega al diritto all’abitare, militante della rete No Ddl. “C’è tantissima gente. Siamo contenti ma sapevamo che ci sarebbe stata una larga convergenza, perché parliamo di cose reali, che riguardano le libertà fondamentali di tutte e tutti. La manifestazione avviene in un momento cruciale, in cui la democrazia è in pericolo. Il buio del regime si allarga, ma si allarga anche la potenza dei movimenti sociali, dei partiti dei sindacati. Una modalità orizzontale per contestare il governo Meloni e arrivare all’abbattimento completo di questo ddl”. Infatti, a riempire le strade di Roma sono proprio in tanti. Dallo spezzone studentesco che ha raggiunto il coreo dopo aver occupato l’Università Sapienza, alle organizzazioni non governative come Amnesty International e Mediterranea, dalla Cgil, a chi chiede di non mettere in ginocchio un settore d’eccellenza del Made in Italy, la produzione di cannabis light, come l’Associazione Canapa Sativa Italia. Da Arci Nazionale, la Rete dei numeri pari, la fabbrica occupata di Firenze Gkn fino a Giuseppe Conte, leader del Movimento cinque stelle e Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi e Sinistra: “Siamo una grandissima manifestazione, felice, grintosa e determinata contro chi vuole ridurre gli spazi di libertà e criminalizzare il dissenso. Se vogliono dare più sicurezza a questo paese, gli restituiscano il diritto alla salute, all’istruzione, all’abitare, a un salario dignitoso e a un lavoro meno precario. Di questo dovrebbero occuparsi, non di ridurre e criminalizzare gli spazi di libertà”, spiega Fratoianni mentre la segretaria del Pd Elly Schlein, dall’assemblea nazionale del partito, ribadisce l’importanza del diritto costituzionale allo sciopero e l’adesione del Pd alla manifestazione. Per chi non ha una casa, per chi non può curarsi, per i migranti, per le minoranze, per i lavoratori precari. Per il diritto ad avere diritti: come si capisce dagli interventi dei portavoce dei movimenti e delle organizzazioni che hanno aderito alla protesta che si alternano alla testa del corteo che raggiunge il centro città attraversando Villa Borghese, sono queste le regioni che hanno spinto oltre 100mila persone (secondo gli organizzatori) ad arrivare da tutta Italia per riempire le vie di Roma e aderire alla manifestazione nazionale contro il ddl Sicurezza: “La più grande manifestazione contro il governo Meloni”, dicono. Sempre gli organizzatori non mancano di sottolineare che quello del 14 dicembre è solo il primo passo di un processo di contestazione che non si fermerà: “Siamo qui per gli oltre cinque milioni persone in povertà assoluta in questo paese. Per chi rinuncia alle cure. Per chi non ha voce. Per i duemila morti nel Mediterraneo. Per gli oltre 44mila morti a Gaza. Ma siamo qui anche per chi ancora non ha capito la gravità del ddl Sicurezza. Per chi ancora non c’è ma ci sarà. Delmastro a calci nel sedere ti prendiamo noi”, ha detto Carlo Testini di Arci Nazionale tra le grida festose dei manifestanti, per rispondere alle dichiarazioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ad Atreju: “Noi vogliamo prendere per la pelle del culo chi occupa la casa degli anziani, dargli un calcio nel sedere e ridare il possesso della casa all’anziano”. La Costituzione si difende con il conflitto di Claudio De Fiores Il Manifesto, 15 dicembre 2024 Il disegno di legge governativo costituisce non l’avvio, ma semmai il punto di condensazione di tendenze morbose già abbondantemente emerse nella recente vicenda politica italiana. L’attacco sferrato alla democrazia costituzionale dal disegno di legge sicurezza non è soltanto il portato di una cultura nostalgica. Una cultura marcatamente autoritaria che il sottosegretario Delmastro ostenta oramai quotidianamente nel tentativo strisciante di rafforzare il legame con la tradizione nefasta del fascismo e del neofascismo italiano. Limitare il dissenso e reprimere “il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi” è un imperativo che ha in questi anni animato anche l’ideologia neoliberale. Lo troviamo scritto a chiare lettere in uno dei suoi testi fondamentali: il documento redatto dalla banca d’affari statunitense Jp Morgan il 28 maggio 2013. Un documento fatto proprio, seppure in vario modo e con intonazioni diverse, da tutti gli esecutivi succedutisi nel corso dell’ultimo decennio in Italia: dal governo Gentiloni (decreto Minniti) al primo esecutivo Conte (decreto Salvini) fino al governo Draghi (direttiva Lamorgese). Il disegno di legge governativo costituisce pertanto non l’avvio, ma semmai il punto di condensazione di tendenze morbose già abbondantemente emerse nella recente vicenda politica italiana. Ma questa volta con caratteristiche e profili particolarmente gravi e insidiosi. Anzitutto per le sue dimensioni: coinvolge oltre venti fattispecie delittuose, introduce un cospicuo numero di nuovi reati, ne ridefinisce le aggravanti e le sanzioni, disponendo spropositati ampliamenti di pena. Ma c’è un elemento che più di ogni altro spaventa e che più di ogni altro costituisce la cifra di questo disegno di legge: il suo carattere cinico e antisociale, proteso a colpire duramente le aree del disagio, le vite di scarto ammassate nelle nostre città, i rejected people della società capitalistica. E in particolare i migranti (ai quali, in violazione della libertà costituzionale di comunicare, viene vietato finanche l’acquisto di una Sim attiva sul territorio nazionale, qualora sprovvisti del titolo di soggiorno), i detenuti (ad essere colpita, in particolare, è la popolazione femminile, ferita dalle nuove disposizioni che penalizzano le donne incinte e le madri con bambini di meno di un anno di età), i senza casa (il testo introduce un nuovo reato sulle occupazioni), i mendicanti (viene previsto un inasprimento delle sanzioni per l’accattonaggio). Siamo in presenza di un disegno che esorbita i confini dello Stato costituzionale di diritto, un inedito dispositivo di difesa dell’ordine sociale per blindare il quale lo stesso disegno di legge non esita a ricorrere a un articolato congegno di misure repressive, sintetizzate dal ministro Nordio con l’urticante formula gladius legis custos: bodycam per le forze di polizia impegnate nelle azioni di mantenimento dell’ordine pubblico; carcere per chi blocca una strada; specifiche aggravanti per i reati compiuti nelle stazioni e per le minacce e violenze commesse nei confronti di un pubblico ufficiale, in occasione della costruzione di una infrastruttura strategica. Fino all’introduzione nel Codice penale del reato di “resistenza passiva” da applicarsi ai detenuti. Una vera e propria sfida al costituzionalismo democratico e sociale che, all’insegna dei vincoli politici sanciti dal “Washington consensus” e dall’ideologia neoliberista, rivendica oggi in Italia il ripristino del principio di autorità (sotto forma di concentrazione del potere nelle mani di un capo), punta alla sterilizzazione delle assemblee elettive, persegue la rottura della coesione sociale fra i territori, criminalizza il dissenso, limita il diritto di sciopero. Un’offensiva intrisa di disposizioni arbitrarie, incostituzionali, illegittime. E in quanto tali (e per quanto possibile) arginate dai giudici amministrativi, ordinari, costituzionali. Ma il lavoro dei giudici non può bastare. La difesa della Costituzione è un congegno particolarmente delicato che per aver successo ha bisogno di donne e uomini disposti a mobilitarsi. Ha bisogno del conflitto. La straordinaria manifestazione di ieri contro il disegno di legge sicurezza ci dice che questo è ancora possibile e ci indica una strada. A noi tocca il compito di seguirla e presidiarla insieme a tutti coloro che si riconoscono nei principi della Costituzione antifascista e nella cultura dei diritti. La salute mentale cenerentola dell’assistenza di Emilio Carelli L’Espresso, 15 dicembre 2024 Crescono i bisogni, ma il benessere psichico fa i conti con i tagli alla spesa e con le carenze della sanità. Nell’anno in cui celebriamo il 46mo anniversario della Legge 180, che ha segnato una svolta epocale nella cura del disagio psichico, disponendo la chiusura dei manicomi e promuovendo una salute mentale basata sulla dignita? e sul rispetto dei diritti della persona, ci troviamo invece a fare i conti con una realta? assistenziale ancora drammaticamente inadeguata. L’inchiesta con cui apriamo il nostro giornale questa settimana ci conferma che la legge 180 ha alimentato a suo tempo tante speranze, ma la sua piena attuazione e? ancora lontana. In Italia le persone che mostrano problemi di salute mentale con disturbi gravi e che sono in carico al Sistema sanitario nazionale sono ogni anno oltre 770 mila. Rappresentano l’1,5% della popolazione. A loro e? consentito di affrontare un percorso di riabilitazione, ma molti altri non hanno accesso ad alcuna cura perche? i servizi non riescono a far fronte a una domanda in continuo aumento. Anche i dati di spesa sono sconfortanti: l’Italia spende appena 3,6 miliardi di euro l’anno per la salute mentale, posizionandosi agli ultimi posti in Europa tra i Paesi ad alto reddito. Ne servirebbero invece almeno 10. Solo il 3% del budget sanitario e? destinato alla salute mentale. Una percentuale irrisoria rispetto al 10% raccomandato dagli esperti per garantire servizi dignitosi e di qualita?. Di conseguenza il Sistema sanitario nazionale oggi non e? in grado di far fronte a tutte le richieste di chi e? colpito dal disagio psichico in una realta? fatta sempre piu? spesso di precarieta?, di nuove e sempre piu? diffuse forme di poverta?, di tensioni sociali e fragilita? familiari. Questa disparita? investe particolarmente i bambini e gli adolescenti, che rappresentano la fascia piu? vulnerabile. La cronica carenza di personale - psichiatri, psicologi, infermieri - aggrava ancor di piu? la situazione. Si prevede che, nei prossimi due anni, verranno assunti meno di 250 nuovi operatori, quando ne servirebbero ben 11.000. Ecco perche? diventa sempre piu? urgente una revisione delle politiche sanitarie che mettano al centro il benessere psichico come diritto fondamentale. E? essenziale promuovere la formazione di nuovi specialisti e incentivare il personale gia? in servizio, garantendo una rete di assistenza continuativa e accessibile a chi ne ha bisogno. Inoltre, servono investimenti per la ricerca e per la raccolta di dati sui bisogni reali dei pazienti: senza una mappatura precisa e? impossibile individuare i giusti rimedi. Infine la prevenzione potrebbe giocare un ruolo importante per individuare in tempo i segnali di disagio psichico. Nella scorsa legislatura, da deputato, mi ero fatto promotore di una proposta di legge che istituiva la figura dello psicologo scolastico a tempo pieno in tutte le scuole. Un’iniziativa che aveva raccolto il consenso unanime di tutte le forze politiche e che l’interruzione anticipata della legislatura blocco? nel suo iter parlamentare. Intercettare sul nascere e gestire, assieme a docenti e famiglie, situazioni di disagio nei giovani sarebbe sicuramente un modo per prevenire lo sviluppo di patologie psichiatriche piu? gravi in eta? adulta. Il male rimosso: salute mentale anno zero di Jessica Mariana Masucci L’Espresso, 15 dicembre 2024 Né fondi né idee chiare per far funzionare un servizio essenziale. I dipartimenti arrancano nella cronica mancanza di personale, l’assistenza zoppica o si interrompe del tutto. Un disastro per bambini e adolescenti. E nella mappa dei bisogni mancano i dati. Non e? cambiato nulla: sui giornali se ne parla di piu?, sui social e? un argomento popolare, eppure nei Dipartimenti di salute mentale - i luoghi nei quali lo Stato italiano offre cure pubbliche ai suoi cittadini che soffrono per un disagio psichico - le cose vanno come dieci o quindici anni fa. Come dopo la grande crisi economica e finanziaria, forse ancora peggio. “Assuefazione allo smantellamento”, la chiama Fabrizio Starace, psichiatra, direttore del Dsm di Modena, che assieme ad altri colleghi e a rappresentanti di sindacati, associazioni, cooperative e societa? scientifiche il 7 e l’8 dicembre scorsi ha partecipato alla Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale di Roma. Si sono confrontati su come il Servizio sanitario nazionale stia rispondendo a chi chiede assistenza psicologica o psichiatrica. Ed e? una risposta gravemente carente, per gli adulti e ancor di piu? per i bambini e gli adolescenti. L’interesse manifestato dalla societa? italiana per la salute mentale dei giovani non ha trovato una corrispondenza in chi amministra la cosa pubblica: siamo ancora un Paese a economia avanzata - e in quanto tale, secondo gli esperti, dovremmo dedicare il 10% del budget sanitario pubblico alla salute mentale - ma in realta? ogni anno spendiamo in media il 3%, decimale piu? decimale meno. La conseguenza piu? evidente del sottofinanziamento e? la carenza cronica di personale: psichiatri, psicologi, educatori, infermieri e tutte le figure necessarie a far funzionare i Dsm. Secondo l’ultimo Rapporto annuale del ministero della Salute a nostra disposizione, con dati che risalgono al 2022, il personale in questo settore ammontava a 30.101 unita?. La Siep, Societa? italiana di epidemiologia psichiatrica presieduta da Starace, ha calcolato che se volessimo rispettare gli ultimi standard di personale definiti dall’intesa Stato-Regioni del 2022 dovremmo assumere 11.347 persone, per una spesa in piu? di circa 700 milioni di euro. Nel disegno di legge 1241 sulle prestazioni sanitarie, che da poco ha iniziato il suo iter al Senato, il ministero prevede all’articolo 11 il potenziamento dei Dipartimenti di salute mentale con l’assunzione di 214 unita? nel 2025 e 33 nel 2026. Con la sanita? in capo alle singole Regioni si presentano ovviamente alcune differenze nella spesa annuale e nel servizio offerto, ma il fenomeno non e? neanche cosi? pronunciato. “In qualche parte d’Italia funziona meglio, nella stragrande maggioranza pero? e? un disastro”, racconta Gisella Trincas, presidente dell’Unasam, la rete nazionale che riunisce oltre cento associazioni locali di pazienti dei servizi di salute mentale e dei loro familiari. Nelle situazioni in cui funziona meglio - precisa Trincas - questo avviene perche? “nonostante le difficolta?, la carenza del personale e l’assenza di risorse, chi dirige quei servizi rimane portatore di una visione culturale e civile, di riconoscimento dei bisogni e dei diritti delle persone”. I problemi, infatti, non si limitano alle scarse risorse economiche - che pure rendono difficile l’accesso alle cure - ma riguardano anche il modo in cui sono organizzati i servizi. Un esempio chiaro arriva proprio dai servizi dedicati ai minori. Il nodo centrale e? quello della continuita? assistenziale dei pazienti: arrivano alle unita? di neuropsichiatria infantile quando hanno meno di 18 anni, poi, compiuta la maggiore eta?, il percorso di molti si interrompe perche? manca il coordinamento con i servizi per gli adulti. Non e? un problema solo italiano: nel 2019 un monitoraggio europeo, lo studio Milestone, aveva restituito risultati poco incoraggianti.”A livello europeo e nazionale e? emerso un dato del 20% di successo nel percorso di continuita? con gli adulti”. Marco Armellini e? un neuropsichiatra infantile e dirige il Dipartimento di salute mentale e dipendenze della Toscana centro. Nel suo caso l’integrazione tra servizi c’e?, ma farla funzionare risulta comunque molto complesso. Finora sono riusciti a coordinare al 100 per cento solo i percorsi sui disturbi del comportamento alimentare. Uno dei punti di svolta, secondo Armellini, riguarda l’arrivo dei pazienti. Il loro servizio ha “una forma di accesso molto rapida, non filtrata da altri professionisti. La famiglia che ha bisogno si rivolge direttamente a noi e ottiene una risposta in tempi non troppo lunghi, una settimana o due, a seconda dei momenti”. Il neuropsichiatra sostiene anche che mantenere la continuita? del rapporto con il paziente dovrebbe riguardare tutto l’arco della vita, e non solo il punto di svolta anagrafico della maggiore eta?. A partire dall’assistenza per la salute mentale nella fascia d’eta? dai 3 ai 6 anni - “un periodo particolarmente sguarnito”, sottolinea Armellini - proseguendo da adulti e da anziani, specialmente nei momenti successivi alle fasi acute di manifestazione del disturbo, come dopo un ricovero ospedaliero. “C’e? un grosso problema di accesso ai servizi che secondo me - dice Armellini - e? anche un problema del tipo di risposta: il modello tradizionale nel quale esiste un servizio specialistico che risponde a una richiesta del medico di base o della persona che si deve recare la?, per i giovani non funziona”. Ma, prima ancora di arrivare a una innovazione, per sapere esattamente in che stato si trovano oggi i servizi pubblici di salute mentale per bambini e adolescenti bisognerebbe partire da dati affidabili. Qui si apre un baratro: se per gli adulti il ministero della Salute presenta un rapporto annuale, quando si scende sotto i 18 anni non c’e? nulla di davvero analogo. Eppure, nel rapporto sugli adulti, il ministero stesso scrive che il documento “(...) ha lo scopo di offrire un prezioso strumento conoscitivo per i diversi soggetti istituzionali responsabili della definizione ed attuazione delle politiche sanitarie del settore psichiatrico, per gli operatori e per i cittadini utenti del Servizio Sanitario Nazionale”. In sostanza, non abbiamo un dato nazionale di quanti cittadini minorenni entrano ed escono dalle unita? di neuropsichiatria infantile e altro ancora. Qualche Regione sta raccogliendo dei dati su iniziativa locale - l’Emilia Romagna e il Piemonte, anche la Lombardia e la Toscana si stanno organizzando - ma manca un rapporto nazionale. Per la cura pubblica della salute mentale di tutti, adulti o minori, ai problemi di finanziamento, di organizzazione e di monitoraggio si sommano problemi culturali, con forme di neoistituzionalizzazione a macchia di leopardo. Nonostante la chiusura dei manicomi civili e giudiziari, in Italia continuano a esistere luoghi come le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), le comunita?, le cliniche private, le residenze per anziani e altri nei quali il rischio di scivolamento verso isole di istituzionalizzazione e? concreto. Questo, secondo Trincas, che conosce da decenni le storie di pazienti e familiari, avviene non per come sono stati concepiti tali luoghi, ma per “le pratiche interne, la privazione della liberta?, le pratiche coercitive, il tempo prolungato di vita delle persone in questi centri. Ci sono comunita? terapeutiche dove le persone restano dieci, vent’anni e quando diventano vecchie sono mandate altrove, nelle Rsa”. Un motivo in piu? per il quale la sua sigla, l’Unasam, in un’audizione del novembre scorso in commissione al Senato, si e? opposta alla logica della creazione di nuovi posti letto, considerata inoltre come uno spreco delle gia? scarsissime risorse a disposizione. L’Unasam era stata convocata per esprimersi sui quattro disegni di legge sui servizi pubblici per la salute mentale presentati finora, due delle opposizioni e due della maggioranza. Gli appunti dell’Unasam di sono concentrati su questi ultimi: “L’articolato e? sconvolgente, ti fa dire che non hanno capito nulla”, afferma Trincas. Il ddl 1171 a prima firma Maria Cristina Cantu? (Lega) prevede tra le altre cose un adeguamento dei posti nelle Rems “secondo target di rischio individuale e sociale anche di massima sicurezza”, l’istituzione di “nuovi modelli residenziali intermedi tra i livelli ospedaliero e ambulatoriale” e, infine, non altrimenti specificate “camere protette” in “spazi privati”. Nel ddl 1179, proposto dal senatore Francesco Zaffini (FdI), si trovano misure analoghe, come l’aumento dei posti letto nelle Rems, ma anche ulteriori punti che hanno portato l’Unasam a definirlo in aperta violazione della legge 180. Trincas e l’Unione che presiede hanno segnalato alla commissione del Senato il pericoloso arretramento culturale in atto. La loro posizione e? molto chiara: in Italia non c’e? bisogno di nuove leggi, ma di una buona applicazione delle norme esistenti. Migranti. Lager in Libia, i numeri dell’orrore di Sos Humanity* L’Unità, 15 dicembre 2024 Oltre 144mila. È questo il numero di profughi catturati con le motovedette italiane e i soldi europei dai miliziani della Guardia costiera libica dal 2018 allo scorso novembre. Per impedire alle persone di fuggire attraverso il Mediterraneo centrale e tenerle lontane dall’Europa, l’Unione Europea e i suoi Stati membri stanno sempre più esternalizzando il controllo delle frontiere e le procedure di asilo a Paesi terzi. In questo modo sostengono le violazioni dei diritti umani contro i migranti, spendendo milioni di soldi dei contribuenti: dal 2016 fino al 2027, l’Ue e i suoi Stati membri avranno investito almeno 327,7 milioni di euro nella gestione delle frontiere di Libia e Tunisia. Invece di salvare i migranti, l’Ue e i suoi Stati membri stanno esternalizzando il controllo delle frontiere e la protezione dei rifugiati a Paesi terzi, come nel caso del Mediterraneo centrale con Tunisia, Libia e Albania. L’esternalizzazione comprende il sostegno alle cosiddette guardie costiere libiche e tunisine, che effettuano respingimenti illegali e sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani contro i rifugiati. (…) Pull-backs illegali di rifugiati verso la Libia. Sebbene diversi tribunali abbiano ripetutamente confermato che il centro di coordinamento dei soccorsi libico sostenuto dall’Ue e la cosiddetta Guardia costiera libica non effettuano operazioni di salvataggio marittimo secondo il diritto internazionale, l’Unione europea e i suoi Stati membri sostengono e finanziano questi attori libici sospetti. L’agenzia europea per le frontiere Frontex e gli Stati costieri europei come Italia e Malta collaborano con gli attori libici che intercettano con la forza i rifugiati in mare e li riportano illegalmente in Libia. In questo modo, l’Ue e i suoi Stati membri si rendono complici di sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani contro i rifugiati e i migranti in Libia, che la Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite (Onu) sulla Libia classifica come crimini contro l’umanità. Impedire alle persone di fuggire limita il loro diritto di asilo e causa sofferenze e migliaia di morti alla frontiera esterna dell’Ue nel Mediterraneo centrale. Finanziata ed equipaggiata dall’Ue e dai suoi Stati membri, la cosiddetta Guardia costiera libica ha catturato illegalmente più di 144.800 rifugiati tra il 2016 e il novembre 2024 che hanno cercato di fuggire attraverso il Mediterraneo dall’”inferno libico”, che è il modo in cui la Libia è stata spesso descritta dai sopravvissuti. Pull-backs illegali di rifugiati verso la Tunisia Nonostante il drammatico deterioramento della situazione dei diritti umani, l’Ue e i suoi Stati membri hanno intensificato la cooperazione con la Tunisia, affidando alle autorità tunisine il controllo delle frontiere e le attività di ricerca e soccorso. Nel nuovo Memorandum d’intesa del 2023, l’Ue ha promesso alla Tunisia 105 milioni di euro per il controllo delle frontiere e della migrazione. Tuttavia, lo sbarco in Tunisia di persone soccorse in mare viola il diritto internazionale, poiché la Tunisia non può essere considerata un luogo sicuro. Ciononostante, l’Ue ha sostenuto l’istituzione di una regione tunisina di ricerca e soccorso (Sar) nel giugno 2024, che ha portato a un aumento delle intercettazioni di persone in fuga e dei respingimenti illegali in Tunisia da parte della Guardia costiera tunisina che, secondo quanto riferito, ha messo a repentaglio la vita dei rifugiati con manovre ad alta velocità che minacciano di rovesciare le imbarcazioni, violenza fisica, uso di gas lacrimogeni a distanza ravvicinata e collisioni volute con le imbarcazioni. C’è una novità: l’esternalizzazione delle procedure di asilo. Dal 2023, nuove forme di esternalizzazione, come il protocollo Italia-Albania per l’esternalizzazione delle procedure di asilo a Paesi terzi, si sono rivelate irrealizzabili. I costi dell’accordo ammontano a 653 milioni di euro in cinque anni e, attualmente, l’accordo sembra sospeso. Inoltre, la detenzione in Albania delle 19 persone soccorse in mare è stata revocata sulla base di diverse sentenze. SOS Humanity chiede che l’Ue e i suoi Stati membri pongano fine al sostegno della cosiddetta Guardia costiera libica e tunisina per effettuare i respingimenti illegali e cessino la loro complicità nelle violazioni dei diritti umani. L’Ue e i suoi Stati membri devono invece proteggere il diritto di asilo. *Ong di ricerca e soccorso in mare Migranti. La fretta di chiudere le porte ai profughi siriani di Massimo Nava Corriere della Sera, 15 dicembre 2024 L’atteggiamento dell’Europa di fronte alla fine della dittatura di Assad e alla gestione delle migliaia di profughi siriani. “Questo non è il mio Paese”, ha detto Angela Merkel l’altra sera a Milano nel corso della presentazione della sua autobiografia. Ha così ricordato la sua ferma decisione di aprire le porte della Germania, nel 2015, a centinaia di migliaia di siriani in fuga dalla dittatura di Assad e dalla guerra civile. “Questo non è il mio Paese” significava stigmatizzare quella parte dei tedeschi che non compresero lo slancio di solidarietà della loro Cancelliera. Il prezzo di quella incomprensione fu alto: crescita dell’estrema destra xenofoba e parabola discendente della leader un tempo più potente d’Europa. Ma fu la scelta giusta, ripete la Merkel, oggi come ieri, poiché l’immigrazione non si combatte chiudendo le porte, ma investendo nella pace e nella crescita dei Paesi a rischio, combattendo sul serio - insieme - i trafficanti di esseri umani, favorendo l’integrazione a tutto vantaggio delle nostre economie. Oggi, non c’è nessuno che non speri nella stabilità e nella rinascita della Siria dopo la caduta del regime, ma è tuttavia prematuro dare una fiducia incondizionata a una nuova leadership islamista che si auto presenta come moderata e tollerante di usi, costumi e confessioni. Eppure, la principale preoccupazione dei Paesi europei - Germania in testa, seguita a ruota da Francia, Italia, Danimarca, Svezia, Austria e Norvegia - non è stata di organizzare al più presto una conferenza di donatori o di elaborare un piano per la ricostruzione del Paese devastato da dodici anni di guerra e da mezzo secolo di dittatura. Il leit-motiv è stato il congelamento delle domande d’asilo e la messa allo studio delle misure più rapide per rispedire in Siria i milioni di rifugiati sparsi nei vari Paesi. Un atteggiamento da cui si deduce che per i governi europei la Siria può considerarsi già oggi un Paese sicuro? O che l’entusiasmo per la caduta del regime e i propositi di ritorno a casa di molti espatriati, soprattutto giovani, sia sufficiente a considerare pacificata e accogliente la loro Patria? Sembra insomma che si siano chiusi gli occhi sulla storia recente, ovvero sui tormentati sviluppi che sono seguiti alla caduta di regimi e dittatori in tante parti del mondo. Basti pensare all’Iraq e alla Libia e in ogni caso a lunghe fasi di transizione in cui spesso si consumano vendette, rese dei conti fra fazioni, repressione del dissenso da parte dei nuovi padroni, sanguinose epurazioni dei vecchi apparati, processi sommari. Era dunque giustificata tanta fretta nel bloccare domande d’asilo e favorire i preparativi dei bagagli? Se questa è la sensibilità europea, quale esempio l’Europa offre alla Turchia e al Libano, Paesi che ospitano milioni di rifugiati siriani, un numero molto più alto del totale dei Paesi europei? Tornando alle parole della Merkel, la questione siriana è sintomatica dell’aria che tira in Germania, in vista delle elezioni di febbraio. Jens Spahn, capogruppo parlamentare della Cdu, ha proposto di organizzare voli charter per rimpatriare i siriani con un assegno di mille euro a testa. Di fronte a tanta fretta, vale anche la pena di ricordare quanti, nel corso degli anni, hanno condannato soltanto a parole il regime di Assad, l’uso di armi chimiche, gli arresti e le uccisioni di massa, hanno tergiversato nel promuovere azioni che ne favorissero la caduta e addirittura hanno considerato il male minore una società sostanzialmente non integralista. Se questo è il metro di giudizio sui rifugiati siriani, c’è anche da chiedersi se e come verrà applicato per i milioni di ucraini nell’ipotesi di una rapida fine del conflitto. Anche se l’Ucraina di domani sarà democratica e rispettosa dei diritti di tutti, la ricostruzione del Paese richiederà anni e il ritorno alla normalità ancora di più. L’accoglienza e la solidarietà non smetteranno di essere un dovere. Negli Stati Uniti è possibile una svolta clamorosa sulla pena di morte di Elena Molinari Avvenire, 15 dicembre 2024 Il Papa chiede che vengano commutate le pene di chi attende l’esecuzione capitale nelle carceri federali come gesto per l’Anno Santo. Biden starebbe considerando di rispondere. Già due volte in pochi giorni - all’Angelus di domenica scorsa e nel Messaggio per la Giornata della Pace 2025 diffuso giovedì - papa Francesco ha indicato azioni concrete da intraprendere durante il Giubileo contro la pena di morte. Una è indirizzata ai governanti, chiamati a “eliminare questo provvedimento in tutte le nazioni”. L’altra è per tutti, invitati a pregare specificamente per i detenuti del braccio della morte negli Stati Uniti, “perché la loro pena sia commutata, cambiata”. Chiamandoli “fratelli e sorelle nostri”, il Pontefice esorta a “chiedere al Signore la grazia di salvarli dalla morte”. È un momento particolarmente propizio per lanciare questo appello, e non solo per l’imminenza di un Anno Santo all’insegna della speranza. Negli ultimi giorni del suo mandato, come ora, il presidente Usa uscente tradizionalmente concede grazie e atti di clemenza. Solo giovedì Joe Biden ha commutato la pena a 1.500 persone, firmando il più grande provvedimento del genere nella storia americana. Nelle stesse ore Francesco invitava tutti i cattolici, com’è l’attuale capo della Casa Bianca, ad andare oltre, facendo “un gesto concreto che possa favorire la cultura della vita” che la condanna capitale “compromette, annientando ogni speranza umana di perdono e di rinnovamento”. C’è da aspettarsi che non sia l’ultima volta che il Papa mette sotto gli occhi di un presidente americano la contraddizione fra la promessa di opportunità che contrassegna la cultura americana e l’uccisione di Stato, con tutto il bagaglio di discriminazioni razziali, errori giudiziari ed esecuzioni crudeli che si porta appresso. Il 26 dicembre Francesco aprirà infatti la Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, la prima volta in cui l’inizio del Giubileo avviene anche in un penitenziario. Il gesto straordinario segue la sottolineatura dell’importanza del reinserimento sociale dei detenuti contenuto nella Bolla d’indizione del Giubileo. “Propongo ai Governi che si assumano iniziative che restituiscano speranza, forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”, ha scritto il Papa. Mentre Biden - stando a fonti anonime - “sta pensando” a come rispondere al Papa, la pressione sulla Casa Bianca aumenta di ora in ora. Nei giorni scorsi i vescovi statunitensi hanno rivolto un appello ai cattolici del Paese affinché chiedano al presidente, finché è in tempo, di commutare in ergastolo le condanne di 40 detenuti nel braccio della morte delle carceri federali (quelle sotto il diretto controllo di Washington), un’iniziativa rilanciata dal Catholic Mobilizing Network, l’organizzazione che si batte per l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti. “Il presidente Biden ha una straordinaria possibilità: promuovere la causa della dignità umana commutando tutte le condanne a morte federali in reclusione e risparmiando la vita di 40 uomini”, hanno scritto i vescovi cattolici americani allegando alla pagina web della Conferenza episcopale Usa un modulo per fare pressione sul presidente. Anche una coalizione di ex funzionari carcerari, parenti di vittime di omicidi, difensori dei diritti civili e leader di altre religioni ha esortato Biden a svuotare il braccio della morte, mantenendo la promessa fatta nella campagna elettorale di quattro anni fa di abolire la pena capitale a livello federale, ripristinata nel 1988 dopo essere stata sospesa dalla Corte Suprema nel 1972. Il presidente si è finora limitato a dichiarare una moratoria delle esecuzioni federali, ma è probabile che riprendano col ritorno a Washington di Donald Trump, che sostiene fermamente la pena capitale e, nel suo primo mandato, ha appoggiato un numero senza precedenti di esecuzioni federali. “Abbiamo bisogno di passi chiari e duraturi che garantiscano che la prossima Amministrazione non uccida le persone attualmente condannate a morte nel sistema federale”, si legge in una lettera firmata da un gruppo di procuratori, capi di polizia e ministri della Giustizia degli Stati, che invoca la fede cattolica del presidente e la crescente opposizione pubblica alla pena capitale come motivazioni forti per agire subito. Il pubblico Usa da anni sta prendendo gradualmente le distanze dalla condanna a morte. Secondo la società di sondaggi Gallup, il sostegno all’uccisione di Stato è attualmente ai minimi storici, dopo aver raggiunto un picco nel 1994 ed essere poi diminuito negli ultimi trent’anni. A ottobre il 53% degli americani era favorevole alla pena di morte, un numero che maschera notevoli differenze tra i più anziani e i giovani, che si oppongono alla condanna capitale in larga maggioranza. Un’altra speranza di abolire la pena di morte negli Stati Uniti, rendendola incostituzionale, è stata legata per anni alle decisioni della Corte Suprema, che con le sue sentenze ha il potere di creare precedenti vincolanti in tutto il Paese. L’ultimo tentativo risale al 2022 quando, prima di andare in pensione, il giudice Stephen Breyer chiese ai colleghi della Corte di valutare la costituzionalità della pena di morte, evidenziando “la necessità che i tribunali considerino tale questione in un caso appropriato”. La richiesta fu respinta. Da allora i togati del massimo tribunale Usa che si oppongono alla pena capitale sono finiti in minoranza. A parte rari casi di crimini particolarmente efferati, di competenza federale, l’amministrazione della pena di morte spetta ai singoli Stati. Al momento, 27 su 50 prevedono la condanna capitale nel loro ordinamento, ma solo 20 hanno il potere di eseguire le condanne a morte. Gli altri 7, così come governo federale ed esercito, hanno sospeso le esecuzioni. Dagli anni Settanta negli Usa sono stati messi a morte 1.605 persone, con la maggior parte delle esecuzioni concentrate in pochi Stati, come il Texas e l’Oklahoma. Ne restano 2.180 che attendono il loro destino nel braccio della morte. Siria. Il bimbo cresciuto nel carcere di Assad: non sa cos’è un albero di Luca Geronico Avvenire, 15 dicembre 2024 Msf ha ricevuto a Idlib tre ex detenuti liberati dalla prigione di Sednaya: terrorizzati, non riescono a parlare. Nel 2015 il disertore “Caesar” documentò con 55mila foto i crimini del regime. Come dei murati vivi, ora le vittime dei servizi segreti del regime di Assad rivedono la luce del giorno. Un ritorno alla vita pieno di incredulità, e il ritorno alla libertà mostra al mondo ferite, in particolare dell’anima, che hanno dell’incredibile. “Abbiamo in cura un’ex detenuta che ha trascorso otto anni nella prigione di Sednaya. Oggi ha 27 anni” riferiscono Omar al-Omar, responsabile delle attività di salute mentale di Medici senza Frontiere a Idlib, e Bilal Mahmood Alsarakibi, responsabile medico sempre di Msf.? La donna, spiegano i sanitari, è entrata in prigione con suo figlio che all’epoca aveva 3 mesi e oggi ha 8 anni: “Il bambino non sa cosa sia un biscotto, un albero o un uccello, nemmeno un giocattolo con cui giocare. Non sa leggere né scrivere. Ha visto sua madre subire abusi fisici e sessuali. È stato davvero difficile parlare con lui”, raccontano i due sanitari. Medici senza frontiere non ha avuto accesso alle prigioni di Damasco: questi pazienti sono stati indirizzati a Msf da un’altra organizzazione. Le équipe mediche stanno fornendo le cure necessarie per aiutarli a riprendersi. Molti ex detenuti, spiegano sempre i medici di Msf, sono terrorizzati, non riescono a parlare e perdono immediatamente la concentrazione. In molti, a cui venivano negati cibo e luce del sole, soffrono di grave claustrofobia; in alcuni casi hanno chiesto di venir visitati in spazi aperti. “Oggi abbiamo ricevuto un paziente - dice Omar - che è stato rilasciato dal carcere solo 70 ore fa. Piangeva e tremava, non riusciva a pronunciare bene le frasi, non riesce ancora a credere di essere uscito di prigione. È stato traumatizzato dal corpo del suo amico rimasto nella stessa cella per due giorni, dopo che un soldato lo aveva picchiato a morte”. Sono tre in tutto i pazienti arrivati all’ospedale di Salqin di Msf, trattati con la massima riservatezza. Gli ex detenuti riferiscono di diversi tipi di torture: fisiche, psicologiche e sessuali. Anche se non paiono malnutriti, spesso veniva loro negato il cibo e la luce del giorno, piangevano molto e, per la paura e la frustrazione, dormivano pochissimo. L’ospedale di Salqin di MsF ha subito organizzato un programma di assistenza mentale con visite settimanali per monitorare la situazione un programma di educazione psicologica per il piccolo che, sinora, non ha mai conosciuto il padre. La punta dell’iceberg di una emergenza sanitaria. Msf, come altre ong, sinora non aveva possibilità di operare alla parte di Siria controllata dal regime di Assad: “Sarebbe opportuno potere ora avere accesso in tutto il Paese per individuare i reali bisogni socio-sanitaria” afferma Maurizio Debanne, capo ufficio stampa di Msf. Quasi 10 anni fa, ne 2016, un rapporto di Amnesty International “Ti spezza l’umanità. Tortura, malattie e morte nelle prigioni della Siria”, denunciava i crimini commessi dalle forze governative di Damasco. Il rapporto stimava in 17.723 il numero delle persone morte in carcere in Siria dal marzo 2011- inizio della guerra civile - con una media di oltre 300 morti al mese. Le torture, hanno raccontato dei sopravvissuti ad Amnesty, iniziavano al momento stesso dell’arresto e durante il trasferimento nei luoghi di detenzione con il cosiddetto “haflet al-istiqbal” (festa di benvenuto): pestaggi con spranghe di silicone o di metallo e cavi elettrici. “Ci trattavano come bestie. Volevano raggiungere il massimo dell’inumanità. Ho visto sangue scorrere a fiumi. Non avrei mai immaginato che l’umanità potesse toccare livelli così bassi. Non si facevano alcun problema a uccidere persone a casaccio” è la testimonianza rilasciata ad Amnesty International di Samer, un avvocato arrestato nei pressi di Hama. All’interno dei centri di detenzione dei servizi di sicurezza, i detenuti subivano costanti torture, durante gli interrogatori per ottenere “confessioni” o altre informazioni, o come punizione: il dulab (“pneumatico”: il corpo della vittima viene contorto fino a farlo entrare in uno pneumatico) e la falaqa (“bastonatura”, pestaggi sulle piante dei piedi), ma anche le scariche elettriche, lo stupro, l’estirpazione delle unghie delle mani o dei piedi, le ustioni con acqua bollente e le bruciature con sigarette. Sovraffollamento, mancanza di cibo, assenza di strutture igienico-sanitari hanno determinato un trattamento inumano, in spregio al diritto internazionale, di cui il carcere di Sednaya era il culmine e il simbolo. Crimini denunciati più volte dai dissidenti fuggiti all’estero con il supporto di numerose Ong. Il culmine il “caso Caesar”, lo pseudonimo di un ex ufficiale della polizia militare siriana addetto alle foto d’archivio che, disertando nel gennaio 2014, portò all’estero quasi 55mila foto da lui scattate per documentare con raccapricciante precisione la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar el-Assad tra il 2011 e il 2013. Una Commissione Internazionale certificò l’autenticità della documentazione dichiarando l’ammissibilità di un processo al regime siriano per crimini contro l’umanità. Le foto di Caesar sono state esposte al Palazzo di Vetro dell’ONU, alla Commissione Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti, al Museo dell’Olocausto di Washington, al Parlamento Europeo e la sede del Parlamento britannico oltre ad altre città europee senza portare a nessuna azione contro Bashar el-Assad. Crimini contro l’umanità che ora riemergono con brutalità e dimensioni ancora non verificabili. Il silenzio, oggi come dieci anni fa, una vile complicità.