Ddl sicurezza, Garanti in piazza. “Il carcere collassa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2024 Anche la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà aderisce alla manifestazione di oggi organizzata a Roma dalla Rete nazionale “A Pieno Regime” contro il ddl Sicurezza. Un grido di allarme che emerge da un contesto carcerario già drammaticamente compromesso, dove sovraffollamento, disperazione e un numero allarmante di suicidi tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria descrivono una situazione esplosiva. I rappresentanti dei Garanti territoriali, guidati dal portavoce Samuele Ciambriello e dal coordinamento nazionale, denunciano una serie di norme che rischiano di violare principi costituzionali fondamentali. L’analisi critica investe diversi aspetti del disegno di legge, a partire dalla cancellazione del differimento obbligatorio della pena per donne in gravidanza e madri con figli di età inferiore a un anno - un provvedimento definito un “enorme passo indietro” rispetto alla tutela della maternità e dell’infanzia. L’aspetto più inquietante del disegno di legge riguarda la progressiva erosione degli spazi di dialogo e protesta all’interno delle istituzioni totali. Il nuovo articolo 415 bis del codice penale si configura come un pericoloso grimaldello giuridico che rischia di soffocare qualsiasi forma di dissenso nelle strutture penitenziarie. La norma non solo minaccia di punire le proteste pacifiche, ma sembra incarnare una logica volta a neutralizzare preventivamente ogni possibile manifestazione di disagio. Lo sguardo dei Garanti si allarga poi alle strutture di trattenimento per i migranti, dove il rinnovato articolo 14 del Testo Unico sull’Immigrazione prefigura scenari ancora più preoccupanti. La norma, nella sua formulazione attuale, non distingue tra forme di resistenza violenta e manifestazioni di dissenso civile, equiparando pericolosamente la rivolta alla minaccia, l’organizzazione collettiva alla sovversione. Un approccio che rischia di criminalizzare persino gesti simbolici di protesta come lo sciopero della fame, qualora siano condivisi da tre o più persone. Dietro queste norme serpeggia un’inquietante filosofia punitiva che sembra voler reprimere sul nascere ogni forma di contestazione, ogni tentativo di rendere visibile un disagio che le istituzioni preferirebbero rimuovere. È come se si volesse silenziare non solo le voci più critiche, ma lo stesso concetto di dialogo e mediazione all’interno di contesti già fortemente squilibrati come quelli detentivi. L’appello al ministro della Giustizia - I Garanti territoriali si appellano direttamente al ministro della Giustizia, chiedendo un intervento prima che il Senato approvi definitivamente disposizioni che hanno un “impatto esplosivo” e appaiono di dubbia legittimità costituzionale. Lo scenario descritto è quello di un sistema penitenziario al collasso. Più di ottomila persone detenute con un residuo di pena inferiore a un anno potrebbero essere scarcerati attraverso interventi mirati, come la liberazione anticipata “speciale”, che tuttavia il Parlamento sembra non voler considerare. La manifestazione di oggi rappresenta un momento cruciale di mobilitazione contro quello che i Garanti definiscono un approccio meramente securitario, che rischia di travolgere i principi di umanità e riabilitazione che dovrebbero essere alla base del sistema giudiziario e penitenziario. I firmatari del documento - tra cui i garanti Bruno Mellano, Valentina Calderone, Valentina Farina, Giuseppe Fanfani, Francesco Maisto e Veronica Valenti - rappresentano un fronte unitario di preoccupazione che chiede al legislatore di riconsiderare un approccio che appare più punitivo che risolutivo. Col ddl Sicurezza il Governo mostra la sua faccia antidemocratica. Antigone sarà in piazza di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2024 Oggi, sabato 14 dicembre, Roma sarà la piazza di una grande manifestazione nazionale contro il cosiddetto disegno di legge sicurezza, un testo illiberale e pericoloso presentato dal governo e attualmente alle ultime battute dell’esame parlamentare. Sono settimane che moltissime organizzazioni da ogni parte d’Italia si stanno organizzando per dire di no a un pacchetto di norme che svela tutta la faccia antidemocratica dell’attuale governo. A partire dalla grande assemblea che ha visto l’aula magna della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza gremita di persone lo scorso 16 novembre, iniziative locali, incontri per aumentare la consapevolezza, affitti di pullman collettivi diretti verso la capitale si sono susseguiti in tutte le città italiane. È importante come non mai che i cittadini abbiano chiaro cosa sta accadendo oggi in Italia. Questo disegno di legge costituisce un salto di livello rispetto alle precedenti produzioni normative pur estremamente criticabili di questo governo. Oggi si intende ridisegnare il rapporto stesso tra il cittadino e l’autorità. Si vuole un’autorità intoccabile, non criticabile, assoluta. Il testo di legge mira a reprimere movimenti sociali e forme di pacifico dissenso che costituiscono l’anima dello spazio democratico. Manca in chi ci governa il senso stesso di ciò che significa la democrazia: protezione delle minoranze e della loro libera espressione, consapevolezza del fatto che la minoranza di oggi in una normale dialettica democratica potrà divenire la maggioranza di domani, consapevolezza dei limiti invalicabili che sono imposti a qualsiasi forma di governo per quanto voluta e sostenuta dal consenso popolare. Le democrazie costituzionali aprono uno spazio all’indecidibile, a ciò che non è a disposizione della maggioranza di turno: i principi costituzionalmente protetti, tra i quali spicca la libertà di dissenso. Dal giorno successivo all’approvazione di questo testo, ogni nostro sforzo sarà teso a facilitare il compito della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che dovranno smontare nelle aule di giustizia un simile obbrobrio. Ma fino ad allora dobbiamo tutti dimostrare di avere consapevolezza di cosa questa legge significhi in termini di attacco allo stato di diritto. Si tratta de “Il più grande attacco alla libertà di protesta della storia repubblicana italiana”, come recita il titolo del volume curato dall’associazione Antigone e pubblicato nei giorni scorsi da Momo edizioni. E non lo afferma solamente un’organizzazione non governativa come la nostra: lo scrive in un parere ufficiale un’organizzazione intergovernativa europea come l’Osce, affermando che il disegno di legge sicurezza rischia di minare le fondamenta dello stato di diritto nel nostro Paese. Tra gli articoli che verranno approvati c’è l’introduzione del nuovo reato di rivolta penitenziaria (che vede un analogo anche per i Cpr). Il reato, punito in alcune circostanze con pene fino a otto anni di carcere aggiuntivi, si configura anche nel caso della resistenza passiva a un ordine impartito. Resistenza passiva, ovvero il non fare niente. Un ordine impartito che non viene nemmeno qualificato quale legittimo. Si vuole tornare a un modello di carcere nel quale le persone detenute non hanno diritti e qualora provassero a rivendicarne verranno punite. Si vuole tornare a un modello di carcere dove le persone detenute devono stare in silenzio con gli occhi bassi. Il reato di rivolta penitenziaria non colpirà i grandi criminali. Loro si sanno fare la galera, come si dice nel gergo carcerario. Non fanno errori di questo tipo. Il reato si abbatterà sui soliti poveracci che affollano le nostre prigioni, sulle persone con problemi psichiatrici, sui tossicodipendenti, sui minori stranieri non accompagnati. Sono loro che si tagliano per farsi ascoltare, che urlano, che chiedono aiuto. Sono loro che il reato di rivolta penitenziaria seppellirà sotto cumuli di galera. Possiamo scegliere di dimenticarci di loro, che qua fuori con queste leggi non ci torneranno più. Oppure possiamo scegliere di capire che il tentativo di colpirli è lo stesso di quello che vuole colpire noi, con l’introduzione del reato di blocco stradale, con la criminalizzazione della cannabis light (che non contiene alcun principio attivo capace di avere effetti psicotropi ed è un divieto solamente ideologico), con le modifiche al codice della strada, con l’ampliamento del Daspo urbano. In carcere si fanno le prove, poi nella società arriva la bella. Siamo tutti coinvolti: domani restare a casa non è un’opzione, inondiamo Roma di una grande protesta pacifica in nome della democrazia. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Università Lumsa: “Ripensare gli spazi per chi sconta una pena” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2024 Giovedì scorso, nella prestigiosa sede dell’Università Lumsa, si è tenuto un seminario destinato a imprimere un segno significativo nel panorama penitenziario italiano. L’evento “Nuovi approcci per la complessità detentiva - L’Italia protagonista del sistema penitenziario europeo” ha rappresentato molto più di un semplice confronto accademico: è stato un momento di riflessione profonda sul concetto di detenzione. L’iniziativa, organizzata dalla Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, nasce dalla consapevolezza che il carcere non può essere un luogo dimenticato, un’appendice marginale della società, ma deve tornare a essere uno spazio di dignità, recupero e trasformazione umana. A testimoniare questa visione, sono intervenuti diversi protagonisti del settore. Tra questi, due voci si sono innalzate con particolare chiarezza: quella di Giovanni Russo, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e quella di Riccardo Turrini Vita, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il capo del Dap: il carcere come parte della comunità - Giovanni Russo ha dipinto un quadro articolato del futuro penitenziario. “Un istituto non deve essere allontanato dal centro delle città”, ha affermato con convinzione, “relegato in luoghi dove diventa difficile anche per la società interloquire, creare occasioni di contatto e di confronto”. Le sue parole traducono un concetto centrale: il carcere non è un’isola separata dal mondo, ma una componente del tessuto sociale. Russo ha sottolineato con forza che le persone recluse sono “uomini che hanno sbagliato”, che sono stati giudicati, condannati, ma che mantengono intatti i loro diritti fondamentali. “Occorre una ricostruzione degli istituti - ha precisato non solo come luogo fisico, ma come rapporto tra carcere e territorio”. Un concetto che supera la logica puramente contenitiva e punitiva, per abbracciare una visione più complessa di reinserimento. Il Garante: la dignità come base del sistema penitenziario - Riccardo Turrini Vita ha offerto una valutazione critica dell’attuale sistema detentivo. Ha evidenziato come gli stabilimenti penitenziari siano spesso ricavati da strutture originariamente concepite per altri scopi o semplicemente obsolete, non rispondenti a una visione umana dell’esecuzione della pena. Il suo intervento ha posto l’accento su aspetti cruciali della vita detentiva. Il Garante nazionale ha sottolineato l’importanza di garantire a ogni persona ristretta una camera individuale, accompagnata da servizi igienici che rispondano a standard minimi di decenza. Questi elementi non sono mere questioni logistiche, ma aspetti fondamentali che possono incidere significativamente sulla salute psichica e fisica dei detenuti. Con una prospettiva innovativa, ha suggerito di modulare la struttura detentiva in relazione al reale livello di pericolosità. La sua proposta è che esistano tipologie di strutture meno severe che possano essere ugualmente efficaci per la maggior parte dei detenuti, superando un approccio uniforme e potenzialmente controproducente. Un laboratorio di innovazione - In questo contesto si inserisce il Corso di Alta Formazione sulle “Strutture detentive e management gestionale complesso”, pensato per la primavera del 2025. Un’iniziativa che vuole formare una nuova generazione di professionisti - ingegneri e architetti - capaci di progettare spazi detentivi attenti alla persona. L’obiettivo è chiaro: trasformare il carcere da luogo di mera segregazione a spazio di opportunità, progresso e inclusione. Il seminario della Lumsa ha rappresentato un momento di riflessione importante che ridefinisce il rapporto tra società, giustizia e recupero umano. Un contributo significativo verso un sistema penitenziario più attento alla dimensione umana. A Nisida, tra ansia, giocattoli e pistole di Eleonora Martini Alias - Il Manifesto, 14 dicembre 2024 A Napoli, dall’isola-carcere per minori e giovani adulti: specchio delle mutazioni sociali in atto. “E pistolette so’ giocattule, e cu’ ‘e giocattule se joca”. Lo dice con l’aria sbarazzina, un po’ contrita e un po’ sbruffona, e non sa se con i suoi sedici anni è il caso di preoccuparsi per quell’accusa di detenzione d’armi che lo ha portato da un mese “al gabbio”, o sperare in un giudice clemente che gli faccia riconquistare presto l’agognata libertà. Per fare cosa non è del tutto chiaro, perché di ipotetici progetti futuri ce ne sono al contempo un’infinità e nessuno per ciascuno dei 70 ragazzi che in questo periodo (il trend è abbastanza stabile negli ultimi mesi) sono detenuti, con gradi diversi di restrizione della libertà, nell’Istituto penale per minorenni (Ipm) di Nisida: 35 maggiorenni e 35 minorenni, una decina gli over 21. A differenza che in altri Ipm, la maggioranza (57) qui proviene dai territori limitrofi, quelli collegati con un sottile istmo all’isola-carcere. Solo 13 sono stranieri, quasi tutti magrebini supportati da un’unica mediatrice culturale arrivata da poche settimane. Ma il “mare fuori”, la maestosa bellezza del luogo, al di là della rappresentazione iconografica dell’isolotto amplificata dalla popolare serie televisiva, probabilmente sfugge completamente ai loro interessi e crucci quotidiani. L’orizzonte di cui si gode dall’”isola delle capre”, secondo l’antica definizione di Omero, non è di alcun aiuto a certi sguardi rannicchiati in se stessi. Li incontri per strada, durante il turno d’aria, in questo Istituto che somiglia più ad un piccolo villaggio che ad una istituzione totale, seduti sulle panchine insieme agli agenti o agli operatori, come fosse una piazza qualunque di quella Napoli nella quale con tanta facilità è possibile comprare una pistola. “Basta avere i soldi, da 500 euro in su, a seconda dell’arma”, spiegano dall’alto della loro “competenza” che lascia “disorientato” perfino un direttore di lungo corso come Gianluca Guida, a Nisida dal 1996. Un veterano della giustizia minorile che ha vissuto tutta l’evoluzione del sistema, dai tempi in cui non c’era alcuna differenziazione con quello degli adulti fino ai giorni nostri in cui il Dipartimento per i minorenni, divenuto autonomo, comprende anche l’organizzazione delle Comunità. Il sistema è complesso: basti pensare che degli ormai 15 mila minorenni denunciati solo 570 sono i reclusi nei 17 Ipm italiani (altri 4 sarebbero in arrivo, secondo un recente decreto ministeriale). Ed è in crisi, perché alle prese con un’utenza molto diversa dal passato, che sia italiana o straniera. Specchio sociale - Nisida è uno spaccato. Da un lato i giovani migranti, soprattutto provenienti da istituti stracolmi come il Beccaria di Milano, “ragazzi che spesso per noi sono un grande punto interrogativo: di loro non sappiamo nulla realmente, né la loro vera età, né il vero nome, né la provenienza, né la storia familiare e giudiziaria - se ne rammarica il direttore - e questa opacità permette loro di mantenere una strategia difensiva che non aiuta ad instaurare una relazione sincera con noi educatori, unica e sola base per il trattamento”. E poi ci sono i ragazzi provenienti da Napoli e dalla Campania, “sempre più giovani, sempre più esperti di armi, spesso con un’educazione affettiva e un approccio alla sessualità insano, avviato in rapporti con donne molto più grandi di loro”, chiarisce ancora Gianluca Guida. In poche parole, abituati all’abuso, si potrebbe dedurre. Uno spaccato che è lo specchio della disgregazione delle famiglie di camorra, della frammentazione dei clan e della conseguente trasformazione del controllo del territorio napoletano e campano. “I ragazzi delle faide di Secondigliano erano criminali veri, più adulti, violenti e anche consapevoli dei loro obiettivi. E quando in istituto creavano problemi, erano problemi seri”, ricostruisce Eleonora Ascione, da 15 anni Comandante della polizia penitenziaria e da 6 a capo degli agenti di Nisida. Oggi invece, sostiene, “sono meno strategici, più impulsivi”. In strada, dove il numero di giovani vittime occupa ultimamente i casi di cronaca locale, e pure dietro le sbarre, dove le scorribande mettono alla prova la capacità di intervento dell’ultima generazione di poliziotti. Mal d’animo - “Sembra che giri un’epidemia di ansia”, constata con amarezza la Comandante riferendosi al gran numero di agenti assenti per malattia. Dei 92 agenti della pianta organica, a Nisida sarebbero disponibili in 87 ma ben 21 risultano “fuori servizio da lungo tempo per stato ansioso-depressivo e altri motivi”. “Il passaggio di esperienze dagli anziani ai giovani è mancato, negli ultimi 30 anni, a causa di input che non hanno favorito il radicamento delle competenze proprie della giustizia minorile. Perché si è voluto guardare a un modello di polizia penitenziaria adatto agli adulti ma non ai minorenni”, precisa Gianluca Guida che ammette un problema di selezione dei poliziotti: “Se hanno tentato di scegliere gli agenti migliori evidentemente non li hanno trovati, perché chi arriva negli Ipm non è preparato per questo lavoro, non è motivato. Noi - puntualizza il direttore - lavoriamo su una fetta residuale della devianza che richiede di operare con accortezza sulla persona. Lo deve fare il poliziotto come l’operatore”. Far fare questo lavoro di cesello sulle singole personalità, su ragazzi che in larga parte soffrono l’up and down tipico dei poliassuntori, a Nisida ci sono solo una decina di educatori, un servizio psichiatrico una volta a settimana (anche se, afferma il direttore, “qui abbiamo adottato le buone prassi dell’Emilia Romagna che ha abolito l’uso di psicofarmaci, peraltro poco richiesti dai napoletani che ne stigmatizzano l’assunzione”), e due psicologi per qualche ora al giorno. L’organizzazione dell’istituto, invece, è di tipo “premiale”: appena arrivati i ragazzi vengono collocati al II° Reparto dove le celle sono chiuse e le giornate scadenzate da impegni precisi ineludibili. Poi, “via via che si prende contatto con i propri errori, concediamo spazi di autonomia maggiori in funzione dei processi di responsabilizzazione”. Un modello “previsto dal decreto legislativo 121/2018”, precisa Guida. In un successivo step i giovani passano al III° reparto e poi al I°, con spazi di libertà sempre maggiori, fino al reparto a custodia attenuata dove “si coltivano relazioni di reciproca fiducia”. Scuole, laboratori di ceramica, di cucina e di pasticceria (che produce, tra l’altro, ottimi panettoni acquistati a centinaia anche dalla nazionale italiana di calcio), e il cantiere di restauro con il quale si sta completando il recupero degli splendidi sotterranei dell’area conventuale di origine pre medioevale, sono in linea di massima aperti a tutti e frequentati senza distinzione. Dopo Caivano - “Il tempo di permanenza media dei ragazzi in istituto è aumentato perché la tipologia di reati commessi è tendenzialmente più grave di qualche anno fa, mentre il numero di ingressi non è molto cresciuto”, sostiene il direttore dal suo particolare osservatorio (mentre a livello nazionale, secondo i dati di Antigone, le presenze sono “aumentate di quasi il 50%”). Gianluca Guida analizza così la trasformazione della criminalità locale e l’impatto che ha avuto su di essa il Decreto Caivano, datato settembre 2023: “Le piazze di spaccio non sono più le stesse di qualche anno fa, da tempo le sostanze si vendono porta a porta e perciò è molto più difficile perseguire gli spacciatori. Sicché in istituto non abbiamo visto grandi effetti del decreto legge, almeno per ora, se non per il fatto che il provvedimento in alcuni casi revoca l’affidamento alle comunità per chi si è macchiato di reati connessi alle droghe con l’uso delle armi”. Ma il decreto Caivano è intervenuto anche per agevolare il trasferimento dei maggiorenni dall’Ipm al carcere per adulti, almeno questa era l’intenzione governativa sbandierata per assecondare i desiderata di taluni sindacati di polizia penitenziaria. Secondo Guida, invece, il decreto ha reso semmai “più restrittiva la legge con l’introduzione di tre presupposti senza i quali il direttore non può nemmeno richiedere al magistrato il trasferimento del giovane recluso maggiorenne”. Fatto sta che, malgrado qualche rifiuto ricevuto dal tribunale di sorveglianza di Napoli, da Nisida nell’ultimo anno sono stati “trasferiti al carcere per adulti una decina di giovani over 18”, come ammette lo stesso dirigente. “A volte - spiega - siamo costretti a farlo, perché le azioni di alcuni mettono a repentaglio il percorso intrapreso da tutti gli altri”. Divisa e identità - Eppure la dirigenza di questo Ipm non è ascrivibile al partito dei manettari. Sul reato di rivolta, per esempio, Gianluca Guida tentenna: “Non sono sicuro che lo strumento repressivo sia il più efficace. Come tutti gli adulti, quando non sappiamo trovare altri mezzi alziamo la voce”. E le divise, imposte agli agenti delle carceri minorili da una circolare emessa circa un mese fa dal Dipartimento, non sono viste di buon occhio: “Non sono necessarie”, conviene anche la Comandante Eleonora Ascione: “Il nostro tipo di approccio è basato sull’autorevolezza, non sull’autorità”. E che funzioni lo confermano le operatrici volontarie dell’associazione Orsa maggiore che frequentano Nisida da anni: “La cosa importante è cercare il bambino in questi ragazzi. È facile? No. Ma se trovi il bambino hai fatto tombola”. Che a Napoli è tutto dire. Nordio: “Impegno a arginare fardello dei suicidi nelle carceri” ansa.it, 14 dicembre 2024 “Dati meno allarmanti di questa estate ma numero resta alto”. “Il picco che era sta raggiunto in estate, di oltre 60 suicidi e che lasciava presumere una proiezione di oltre i cento alla fine dell’anno, per fortuna non si è realizzato ma il numero resta sempre molto alto, inaccettabile e non è correlato al sovraffollamento carcerario, perché le statistiche mostrano che questa correlazione non se. È la solitudine che ispira molto spesso questo gesto estremo”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio a margine del Consiglio Affari Giustizia a Bruxelles. “Stiamo investendo risorse, anche cospicue sul sostegno psicologico. Stiamo assumendo psicologi che siano di assistenza soprattutto sui segnali di rischio dei suicidi. È difficile capire quando scatta questa molla, molto spesso sono persone in procinto di essere liberate o persone appena entrate in carcere. In questi momenti l’aiuto psicologico è fondamentale. Inoltre sport e lavoro sono di sostegno, e perché ci siano c’è bisogno di spazi, e gli spazi si trovano riadattando degli stabilimenti compatibili con queste attività, come le caserme abbandonate. Certo questo dato è un fardello di dolore che non è di oggi e non è solo italiano ma ciò non significa che noi non lo prendiamo sul serio”, ha concluso. Sulla lotta al traffico dei migranti “l’orientamento generale è sempre più in linea con la severità auspicata e voluta dall’Italia”. Suicidi in carcere: un déjà vu crudele e vergognoso di Guido Tallone unachiesaapiuvoci.it, 14 dicembre 2024 “Déjà vu”, dicono i francesi. E l’espressione (che letteralmente significa “già visto”) viene utilizzata per indicare il ripetersi - pigro e colpevole - di eventi che avrebbero dovuto essere evitati. A volte si tratta di una erronea sensazione: la convinzione di aver già vissuto un’emozione o un momento più o meno piacevole. Altre volte, però, è un vero e proprio reiterarsi di fenomeni che andavano “fermati” e che - per sciatteria, per negligenza, per colpevoli omissioni, per mancata prevenzione e assenza di controlli - si ripropongono con tutto il carico di dolore e di negatività che accompagna questi eventi. Sono un “déjà vu”, per capirci, i femminicidi (nel 2024 si è superata la quota 100!) con tutto il doveroso e doloroso rituale che li accompagna. Sono un “déjà vu” anche le tante, troppe, morti sul lavoro (890 denunce di morte nei primi dieci mesi del 2024 ed oggi, 13 dicembre, è deceduto un operaio di 65 anni in provincia di Sondrio mentre lavorava sulla nuova tangenziale di Tirano) che spengono la vita di chi, uscito di casa per svolgere un servizio alla società e alla sua famiglia, non vi fa più rientro. L’esortazione di Giovanni Paolo II - Ma rischiano di essere un vero “déjà vu” anche le tristi condizioni carcerarie che in Italia bussano alle porte del prossimo Giubileo della Chiesa cattolica. Esattamente come nell’anno 2000 con il Giubileo fortemente voluto da Giovanni Paolo II per l’apertura del Terzo millennio. Nei mesi precedenti il 2000, le strutture carcerarie erano caratterizzate da sovraffollamento (53.389 detenuti per circa 40.000 posti) che aggiunge alla privazione della libertà anche la negazione della dignità umana. Più della metà dei detenuti erano immigrati e italiani alle prese con la tossicodipendenza (appartenenti cioè al cosiddetto mondo dei poveri. Dal 1996 al 1998 ci sono stati, nelle carceri italiane, 151 suicidi (il 60% di questi avvenuti nel primo anno di detenzione) mentre i tentati suicidi sono stati 933 (rispetto ai 706 del triennio precedente) e i gesti di autolesionismo sono stati 6.342. Anche per questi motivi Giovanni Paolo II volle celebrare il Giubileo dei detenuti a Roma, nel carcere di Regina Coeli. La data è rimasta scolpita nella storia: 9 luglio 2000. E in quella occasione papa Woytjla parlò chiaro: “la pena non può e non deve assumere il volto della vendetta sociale, ma che ha senso solo se porta, con sé, le prospettive del rinnovamento e del reinserimento del recluso nella società”. E per ben due volte il Papa chiese, in quella circostanza e ai governanti di tutto il mondo, una riduzione di pena per i detenuti (nel linguaggio tecnico giuridico si parla di amnistia e indulto). Furono pochi i governanti che lo ascoltarono. In Italia, nessuno. Alla vigilia del nuovo Giubileo - Sono passati 25 anni. E oggi si stanno scaldando i motori per il Giubileo del 2025. E se guardiamo alla condizione carceraria odierna, siamo costretti a constatare che rispetto a 25 anni fa, le cose non solo non sono cambiate, ma sono peggiorate. Un triste “déjà vu” che, in occasione del Giubileo 2025, rischia di ripetersi. Lasciamo parlare i numeri. Oggi il sovraffollamento carcerario si presenta come cronico, irrisolvibile e si attesta intorno al 120% (con picchi in alcuni istituti di oltre il 200%). Dei 61.758 detenuti presenti oggi su una capienza ufficiale di 51.234, quasi 10.000 sono in attesa del primo grado di giudizio, mentre circa 6.000 sono i condannati in primo grado, ma in attesa di una condanna definitiva nei successivi gradi di giudizio, tecnicamente supposti innocenti o con probabili riduzioni di pena. Più del 50% dei detenuti con almeno una condanna definitiva ha una pena residua inferiore ai 3 anni (e quindi potrebbe in teoria avere accesso a una delle misure alternative alla detenzione previste per legge), e circa 8.000 hanno una pena inferiore a 1 anno (e di questi quasi il 40% sono stranieri spesso impossibilitati ad accedere alle misure alternative alla detenzione per mancanza di un domicilio adeguato). Due ulteriori dati illuminanti: nelle nostre carceri il 31,3% sono immigrati (19.100) e il 25% sono detenuti “tossicodipendenti” (circa 17.500). Esattamente come i quarto di secolo fa: il carcere resta la prima vera risposta che il nostro sistema sociale offre a poveri e immigrati! Un quadro aggravato da condizioni di vita per i detenuti particolarmente pesanti, spesso in strutture molto vecchie o con scarsissima qualità edilizia, con celle piccole bollenti d’estate e gelide d’inverno. Una dimensione da girone dantesco - Lentezza dei processi, ritardi e esasperante burocrazia, mancanza di spazi attrezzati per le attività trattamentali e scarsità di personale dedicato peggiorano la situazione di un sistema che sembra effettivamente ormai fuori dal tempo. La sequenza dei suicidi, che non risparmia anche chi negli istituti penitenziari ci lavora, è drammatica: 86 suicidi nel 2024 (gli ultimi due in questi giorni: a Genova, Abir di 21 anni e a Verona, Robert di 24 anni) mentre sono 232 le persone morte in un istituto penitenziario nel 2024: la cifra più alta dal 1992 a oggi secondo i dati di Ristretti Orizzonti. Per non parlare delle tante (troppe) indagini per botte, percosse, umiliazioni e torture agite da parte delle guardie carcerarie sui detenuti. Sull’Avvenire, giornale dei vescovi italiani, così ha scritto Silvano R. Spagnolo il 21 novembre scorso: ““A volte i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina” e veniva “praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile... “. È un esercizio davvero doloroso, quello di ascoltare la ricostruzione del procuratore di Trapani Gabriele Paci, coordinatore dell’inchiesta nata nel 2021 e che ieri ha portato all’emissione di 25 misure cautelari e interdittive a carico di altrettanti agenti penitenziari del carcere Pietro Cerulli.”. Papa Francesco non si è lasciato scoraggiare da queste vicende e nella Bolla di induzione del Giubileo 2025 ha scritto: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità”. Le condizioni per invertire la rotta - Cambierà qualcosa? È possibile. Sono necessari però alcune precise condizioni. La prima riguarda il fatto che la realtà del “carcere” deve uscire dal mondo dell’emotività rancorosa di chi vuole nascondere sotto il tappeto (oltre il muro) le contraddizioni del nostro convivere sociale. Fino a quando non ci dedichiamo a contrastare con determinazioni le troppe diseguaglianze sociali che convivono nelle nostre società, il carcere resterà lo “sgabuzzino” in cui nascondiamo le nostre contraddizioni sociali e a cui affidiamo il compito di pulire la nostra coscienza (colpevole di convivere in modo troppo silenzioso con inaccettabili ingiustizie) con richieste di “pene certe”, “sicurezza della pena” e allontanamento dal sistema sociale dei cattivi (senza mai parale di “pena rieducativa”). Pesante, da questo punto di vista, la bocciatura, nel Consiglio regionale del Piemonte, di un ordine del giorno presentato dal Partito Democratico per affrontare la grave situazione di sovraffollamento e di disagio che si vive all’interno delle carceri piemontesi. Creare le condizioni perché la detenzione si svolga nel solco della nonviolenza, della rieducazione e senza calpestare la dignità di chi deve scontarla è la spia che ci avvisa che siamo in un Paese civile. Fino a quando l’opinione pubblica non chiederà un minuto di silenzio e di vergogna per amministratori che permettono al carcere di essere la zona franca della vendetta sociale, non usciremo da contesti sociali segnati pesantemente dalla violenza. Seconda. Dobbiamo convincerci, una volta per tutte, che la privazione della libertà (il carcere, per capirci) deve restare l’extrema ratio di un sistema giudiziario chiamato a correggere chi pratica l’illegalità. Aumentare i reati e le pene detentive è solo propaganda per parlare alla pancia dell’elettore arrabbiato, ma non serve a nulla se non ad incrementare un sovraffollamento già al collasso. Per fare un esempio: permettere al 50% dei detenuti di “scontare” gli ultimi mesi della propria condanna agli arresti domiciliare e magari lavorando, non solo aiuta il detenuto a ritrovare i sentieri della fiducia e della convivenza nel segno della legalità, ma alleggerisce anche la presenza nelle nostre patrie galere di presenze e, sicuramente, permette una detenzione più umana, per chi ancora deve scontarla. Terza. Dobbiamo mettere in conto che senza una riqualificazione seria della condizione delle guardie carcerarie (formazione, stipendi, dignità di un lavoro durissimo che non può essere sottovalutato), il carcere resterà il simbolo per eccellenza del degrado sociale. Quarta. Anziché continuare ad ipotizzare la costruzione di nuove e ulteriori strutture detentive, la politica si assuma il coraggio di dire che i nostri Istituti di pena e di reclusione non sono più all’altezza di un Paese civile e si inizi a demolire le vecchie strutture per sostituirle con nuove costruzioni pensate e realizzate per dare alla reclusione la forza della rieducazione. Come diceva l’arcivescovo di Milano in occasione della sua visita nel carcere di Opera di Milano nel Natale 1999 (vigilali dell’Anno Santo): “La società deve comprendere che è meglio per la pace sociale e per l’ordine pubblico promuovere e aiutare le persone detenute a crescere, a riabilitarsi, a trovare lavoro, non restringendole con provvedimenti che le rendono incapaci di percorrere la via della propria dignità”. Dopo 25 anni sono certo che un Vescovo o Cardinale italiano, in occasione di una visita natalizia in un carcere italiano, potrà dire la stessa frase. “Dèjà vu”, dovremo dire. Sperando però che le parole di Papa Francesco che chiedono, in occasione di questo Giubileo, “forme di amnistia o di condono della pena” questa volta vengano ascoltate. Ma non chiamatelo “errore giudiziario” di Alessandro Barbano Il Dubbio, 14 dicembre 2024 L’errore è chiamarlo errore giudiziario, perché errore non è. E qui di seguito cercheremo di spiegarne la ragione. L’errore è qualcosa che deflette dalla norma, ha una dimensione quantitativa residua rispetto alla totalità dei casi. Anche a volerlo confinare entro il perimetro dell’ingiusta detenzione - e cioè trentamila casi negli ultimi trent’anni, mille all’anno, per una spesa complessiva di un miliardo di euro in risarcimenti pagati dallo Stato - un fenomeno di questa entità non si può definire eccezionale e residuale. Senonché i mille errori giudiziari certificati all’anno sono solo la punta dell’iceberg, in un Paese dove il 40 per cento degli imputati viene assolto dal giudice di primo grado dopo un calvario giudiziario mediamente superiore ai quattro anni, fatto di indagini, intercettazioni, interrogatori, interdizioni e arresti. Ciascuna di queste attività investigative è produttiva di un danno alla libertà, alla reputazione, alla morale, e alla salute. Ma nella stragrande maggioranza dei casi non è deliberato alcun risarcimento, e non lecito parlare di errore, perché il processo continua a essere considerato non un’estrema ratio, ma il modo più attendibile per accertare la verità. Un secondo motivo per non utilizzare il paradigma dell’errore è che l’errore comporta l’accertamento di una responsabilità. Per dirla con un’espressione di senso comune, l’errore si paga. Qui non paga nessuno. Non hanno pagato i magistrati che perseguirono Enzo Tortora e ne ottennero una condanna a dieci anni di carcere in primo grado, salvo poi veder ribaltato il verdetto in appello. Tant’è vero che mai il caso Tortora è stato considerato dalla giustizia italiana un errore giudiziario, ma piuttosto l’esito di una normale dialettica processuale. Che non ha impedito ai pubblici ministeri che pervicacemente puntarono alla condanna di ascendere ai più alti o gradi della magistratura, senza alcuna macchia. Nessuno ha pagato e mai pagherà per Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa rimasto cinque anni in carcere per concorso esterno mafioso e poi assolto, per Marco Sorbara, consigliere regionale della Valle D’Aosta un anno in carcere e due ai domiciliari con la stessa accusa prima dell’assoluzione, per Carolina Girasole, sindaco di Isola di Capo Rizzuto arrestata, tre volte assolta e tuttavia portata in giudizio per sette anni da un pm che non si rassegnava al verdetto con cui le Corti valutavano come prove di innocenza i suoi indizi di colpevolezza. Sulle retate - arresto cento e condanno dieci, cinque e talvolta nessuno - sono costruite le carriere di alcuni dei pubblici ministeri più influenti del Paese. Perché l’errore non si paga. E non parliamo ovviamente di una responsabilità penale, che, essendo garantisti, consideriamo inadeguata al caso, e neanche di una civile, che, nonostante le battaglie radicali, non è stata mai incardinata nel nostro Paese in maniera effettiva, e neanche di una disciplinare, che presupporrebbe un Csm indipendente e autorevole, non quello corporativo che abbiamo visto finora. Qui parliamo di una responsabilità professionale, connessa al merito nella conduzione dell’azione penale. Era stata introdotta dalla guardasigilli Marta Cartabia, con il fascicolo del magistrato e la valutazione statistica dell’esito dei provvedimenti, è stata smontata dal guardasigilli Carlo Nordio e sostituita con i test a campione e la burocrazia di valutazioni incrociate, in cui tutti alla fine approdano a un curriculum di eccellenza. Tutto questo per dire che l’orrore della giustizia italiana, perché di questo si tratta, non è figlio dell’errore, ma piuttosto di una tragica ordinarietà. Che si esprime anzitutto in una specifica, diffusa, condivisa e impunita torsione delle regole, oppure in un altrettanto specifico, diffuso, condiviso e impunito abuso delle deroghe, di cui sono pieni i codici. Alcuni esempi possono aiutarci a comprendere. Le regole per un uso della custodia cautelare rigoroso, e limitato alla stretta necessità, ci sono eccome! E si chiamano pericolo di reiterazione del reato, pericolo di fuga e pericolo di inquinamento delle prove. La Cassazione le ha ulteriormente tipizzate, specificando che il pericolo deve essere concreto e attuale. Non si dovrebbe poter sostenere che c’è il pericolo che l’indagato ripeta il reato di corruzione per il solo fatto che continua a fare il sindaco, dovendosi provare invece che la sua condotta attuale continua a essere anomala e, per così dire, sintomatica di nuove azioni delittuose. Accade il contrario: il pericolo viene invocato per la mera persistenza della carica, con l’effetto che la custodia cautelare è diretta a interrompere l’attività amministrativa dell’indagato. Il caso dell’ex governatore della Liguria, Giovanni Toti, è solo l’esempio più famoso di questa tendenza. Allo stesso modo la legislazione sulle intercettazioni è altrettanto rigorosa a parole, pretendendo che il ricorso a questo strumento così invasivo delle libertà individuali sia connesso all’esistenza di indizi gravi di reato e sia indispensabile all’accertamento degli stessi. Vuol dire che non basta una notizia criminis qualunque per disseminare i Trojan nei cellulari di indagati, familiari e collaboratori degli stessi, pescando a strascico tra di loro, ma occorre una ragionevole certezza di un reato specifico. Non solo. Occorre che tutti gli altri rimedi investigativi siano stati inutilmente percorsi prima di richiedere le intercettazioni. Accade anche qui il contrario. Alla prima lettera anonima, si attiva l’orecchio elettronico. Un terzo esempio riguarda l’uso e l’abuso dei pentiti, le contrattazioni private che si aprono tra costoro e le procure in una zona grigia delle indagini. Le confessioni a comando, collegate a promesse di vantaggi penitenziari, continuano a essere causa di tanti “falsi positivi”, cioè di tante accuse inventate di sana pianta che talvolta salgono attraverso il processo, salvo poi cadere in secondo o in terzo grado, quando il “falso positivo” ha già prodotto i suoi danni. Anche in questo caso la legge è stringente e impone che le confessioni avvengano in maniera spontanea ed entro i sei mesi dall’inizio della collaborazione con la giustizia. Ma la Cassazione ha derogato al principio, sostenendo che il limite temporale non vale per le notizie di reato apprese de- relato, cioè per sentito dire. E della deroga si abusa. Così l’intera mole delle confessioni dei pentiti è tornata a essere un sentito dire concordato nelle carceri e distillato, goccia a goccia, in una trattativa più o meno esplicita con l’inquirente di turno. L’errore giudiziario perciò altro non è che un sistema erroneo, perché distorsivo rispetto alla finalità per cui è stato concepito dalla Costituzione e cioè l’accertamento dei reati. In realtà l’azione penale è venuta, strada facendo, assumendo tre funzioni diverse e più ampie nel nostro Paese: la prima riguarda la lotta alla criminalità, con l’effetto di imporre una logica di risultato perfino alla terzietà del giudice; la seconda riguarda il controllo della moralità pubblica e la bonifica della classe dirigente; la terza riguarda l’obiettivo di estendere i diritti in nome di una giustizia che spesso sopravanza e s’impone alla legge. L’errore è il prezzo di queste tre tendenze, un effetto collaterale pagato dal singolo in nome di un obiettivo collettivo che s’impone, facendo strame di tutti i principi su cui dovrebbe fondarsi un diritto penale liberale, e in primo luogo il principio di proteggere l’innocente. In un sistema in cui questi è diventato un presunto colpevole, non può più parlarsi di errore. Quando la condanna non basta più. Il ritorno del supplizio di Maurizio Crippa Il Foglio, 14 dicembre 2024 I casi di Filippo Turetta e Leonardo Caffo, letti dal filosofo Michel Foucault. Come ai tempi evocati da Foucault, non si esige solo la condanna, ma anche “lo spettacolo del supplizio”. L’ostensione del dolore del condannato, possibilmente corredato dalla sua piena confessione pubblica. La “lugubre festa punitiva”, che nell’epoca moderna era “entrata nell’ombra” (persino in America le esecuzioni si guardano dallo spioncino come in un peep-show), sta tornando attuale. Senza lo strazio dei corpi, certo, ma è il meccanismo che va osservato. Un paio di casi di cronaca (più uno che useremo a controprova) illuminano questo ritorno. Ce ne sarebbero molti, in realtà: ogni volta che un organo di stampa, i social o anche semplicemente i parenti della vittima pretendono un surplus di pena, una esemplarità di castigo che vada oltre la sentenza. “Damiens era stato condannato a ‘fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi’, dove doveva essere ‘condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre’; poi ‘nella detta carretta, alla piazza di Grêve, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento’”. La cronaca del supplizio di Robert François Damiens, condannato per tentato regicidio e ultimo a essere giustiziato, il 2 marzo 1757, tramite squartamento è riportata all’inizio di Sorvegliare e punire per illustrare non soltanto cosa fosse un supplizio, ma “lo spettacolo del supplizio” nell’Europa di soltanto due o tre secoli fa. Qualche decennio fa il celebre saggio di Michel Foucault sulla nascita della prigione, con il suo incipit granguignolesco, era molto noto. Andava di moda. Oggi molto meno, e anzi viene il timore che risvegliare il ricordo dei supplizi antichi possa far piacere o dare idee a personaggi come Del Mastro delle Vedove, il sottosegretario che prova intima gioia sognando ragazzini che da grandi vogliono diventare secondini. Ma limitarsi a puntare il dito su Del Mastro Delle Vedove, sulla sua maggioranza ad alto grado di sadismo penitenziariosarebbe assai riduttivo. La cronaca e i fiumi di parole che la enfatizzano dimostrano che le nostre società europee stanno tornando a considerare la giustizia e l’erogazione della pena allo stesso modo dell’Ancien régime. Come ai tempi evocati da Foucault, non si esige solo la condanna, ma anche “lo spettacolo del supplizio”. L’ostensione del dolore del condannato, possibilmente corredato dalla sua piena confessione pubblica. La “lugubre festa punitiva”, che nell’epoca moderna era “entrata nell’ombra” (persino in America le esecuzioni si guardano dallo spioncino come in un peep-show), sta tornando attuale. Senza lo strazio dei corpi, certo, ma è il meccanismo che va osservato. Un paio di casi di cronaca (più uno che useremo a controprova) illuminano questo ritorno. Ce ne sarebbero molti, in realtà: ogni volta che un organo di stampa, i social o anche semplicemente i parenti della vittima pretendono un surplus di pena, una esemplarità di castigo che vada oltre la sentenza. Un fenomeno che conosciamo da tempo come “populismo penale” ma negli ultimi anni, anche sulla scorta di delitti gravi o percepiti come tali (la giustizia percepita è anche peggio della temperatura percepita), il salto di qualità si è fatto evidente. Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio con premeditazione di Giulia Cecchettin. Ma già nei mesi precedenti le sue fotografie, le sue dichiarazioni ai magistrati, gli scampoli di chat riportati infinite volte sono state il preambolo di un giudizio-supplizio spettacolarizzato. Di cui le intercettazioni ignobilmente pubblicate di un colloquio in carcere con i genitori sono state il culmine barbarico. Fino alle mille descrizioni stereotipate di lui “immobile e a testa bassa”, lui “senza espressione” alla sentenza. Lo show di lui che chiede scusa e si dissocia in modo disarticolato da sé stesso. Si dirà che tutto questo serviva perché “la violenza di genere va combattuta con la prevenzione” (il padre di Giulia Cecchettin), ma è vero solo in parte: basterebbe fare il conto anche solo approssimativo di quanti “spettacoli di supplizio” siano apparecchiati per molto meno. C’è poi il fatto che i giudici hanno escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking, che tecnicamente di fronte a un ergastolo comminato non hanno valore, ma evidentemente erano richieste come accessori simbolici della pena (un tempo si usavano strumenti tipo l’esposizione al palo). “Resta il fatto che per la maggior parte di noi questa sentenza resta incomprensibile”, dice in un video una giornalista di Fanpage, lo prendiamo a esempio di milioni di commenti e pensieri identici. A parte che “la maggior parte di noi” non è un criterio giudiziario particolarmente affidabile (basterebbe l’ultimo capolavoro di Clint Eastwood, Giurato numero 2, a insinuare il dubbio), cosa può produrre l’aggiunta inefficace di una aggravante, se non una sorta di soddisfazione emotiva? C’è un altro elemento simbolico cruciale: la confessione. A Turetta - e a chiunque altro si sia macchiato di un delitto che ha offeso qualcuno, fosse pure la pirateria stradale - non era chiesto solo di dire il vero, ma di fare ammenda. Non che, in questo o altri casi, la confessione serva nella procedura, ma ascoltarla dalla bocca dell’imputato produce, evidentemente, una sorta di rilascio di endorfine sociali. Torniamo a Foucault. Il secondo aspetto da lui evidenziato nelle pratiche della giustizia antica è appunto il ruolo della confessione pubblica. “In Francia, l’onorevole ammenda - l’infamante confessione pubblica - era stata abolita una prima volta nel 1791”. Spiega Foucault che già a quel tempo l’istruttoria penale era una macchina ben oliata, ma proprio per questo aveva bisogno del supporto della confessione: “Prima di tutto perché costituisce una prova così forte che non è più necessario aggiungerne”. Inoltre, ed è l’elemento più sottile: perché “bisogna, se è possibile, che essi si giudichino e si condannino da loro stessi”. Si comincia a preferire che “il castigo colpisca l’anima, non il corpo”. Tutto questo, lo sappiamo per esperienza nelle nostre società tendenzialmente liberali, era evaporato da tempo. Si era trasformato in altre procedure, come quelle della riabilitazione. Duecento anni dopo Beccaria, nella società dell’algoritmo sociale, quelle voglie tornano a scorrere. Un libello anonimo inglese del 1701 si intitolava Hanging not punishement enough e fa stranamente rima, almeno a livello di psicologia sociale, con il “dare l’ergastolo a chi uccide le donne è un segno importante” strillato da un palco da Laura Pausini. Si ricomincia a pensare che vada punita l’anima (la psiche, la cultura) e non solo il corpo. Il supplizio come “arte quantitativa della sofferenza” è oggi una sorta di “affirmative action” sociale. Un giudizio collettivo che incanala e si somma al giudizio puramente di tribunale. Lo vediamo tornare attuale: quante centinaia di casi di cronaca vengono corroborati dalla domanda mediatica “ma non si è pentito?”, dal giudizio di condanna “non ha confessato”. Quante requisitorie di gip si appoggiano malamente a frasi come “non ha dimostrato di capire la gravità”. Persino per il banalissimo caso Toti. E qui, dai “gradienti di forza” e dal tintinnar di manette dei Del Mastro si attraversa però un confine sottile e si approda a un territorio nuovo e decisivo: quello in cui nasce e prospera una pretesa di giustizia che è prima di tutto etica, che richiede la sua propria ostensione del reprobo, non manganellato (roba di destra), ma nel supplizio morale. Il caso del filosofo Leonardo Caffo ha qualcosa di significativo. Condannato a quattro anni per maltrattamenti alla ex compagna, e pur dichiarandosi “penalmente innocente”, ha detto: “Va bene colpire uno per educarne mille, io sono stato colpito, speriamo che educhino gli altri mille”. Siamo parecchio più in là del “chiedere scusa” e “del fare ammenda”. Qui siamo a un inaudito, o forse prevedibile, ritorno al concetto del capro espiatorio caro a René Girard, dell’innocente su cui si addossano, ed è disposto ad addossarsi, le colpe collettive. Siamo a una nuova versione del “bisogna, se è possibile, che essi si giudichino e si condannino da loro stessi”. Ma nella chiave della religione sociale oggi dominante - che non è più quella per cui Damiens chiedeva ai suoi boia di non bestemmiare - che prevede un diverso corpo del condannato: in questo, la figura diafana d’intellettuale di Caffo appare perfetta. Dicevamo della controprova. Il caso del successo mediatico e social di Luigi Mangione, nient’altro che un brutale assassino con stupidi motivi: 300 mila follower in poche ore sul suo disabitato profilo Instagram, 300 mila su X. E il consenso popolare, il suo corpo percepito addirittura come “sexy” (lo notava ieri Giuliano Ferrara). Il colpevole trasformato in eroe ci parla della stessa onda di violenza emotiva trasformata in spettacolo. In un librino dedicato alle Vite degli uomini infami, Foucault spiegava che esiste anche “una falsa infamia, quella di cui beneficiano uomini di scandalo e spavento come sono stati Gilles de Rais… Apparentemente infami, a causa dei ricordi abominevoli che hanno lasciato, delle malefatte loro attribuite, questi sono di fatto gli uomini della leggenda gloriosa, anche se le ragioni di questa fama sono l’opposto di quelle che fanno o dovrebbero fare la grandezza degli uomini”. E’ un po’ spaventoso dirlo oggi, pensando a Mangione e a tanti altri vendicatori violenti che si aggirano nelle nostre società. Ma è una parte decisiva, per quanto ribaltata, di un pauroso ritorno: quello di uno “spettacolo del supplizio” che va oltre la stessa giustizia e che così tante e diverse emotività è in grado di attrarre. Se le minacce agli avvocati rendono tutti più indifesi di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 14 dicembre 2024 Le offese e le minacce che ha subìto l’avvocato difensore di Filippo Turetta, come le minacce e l’ambiente ostile che deve sopportare l’avvocato che difende Dominique Pelicot ad Avignone in Francia, indicano, in gravissimi processi, quanto diffuse siano nell’opinione pubblica l’incultura e la violenza. Queste vicende, emblematiche di un fenomeno che va ben oltre i due casi ed è favorito (non creato) dalla disponibilità dei social per gli “odiatori da tastiera”, possono essere commentate dal punto di vista della logica, delle regole, del valore del processo; del processo penale in particolare. Nel processo penale la difficoltà del giudizio è sciolta da regole, che sono fondamentali. In assenza di esse la decisione del giudice sarebbe spesso impossibile o si tradurrebbe in un grave azzardo. Si tratta della presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, da cui deriva la regola che porta il dubbio a vantaggio dell’imputato, nonché della regola di valutazione delle prove che, per una condanna, richiede che l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Giusta è tanto l’assoluzione quanto la condanna, purché l’una o l’altra sia l’esito adeguatamente motivato di un processo equo secondo la legge. Contestare in radice gli argomenti del pubblico ministero o sollevare dubbi è compito dell’avvocato difensore. La difesa, come stabilisce la Costituzione è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Come afferma la Corte europea dei diritti umani l’avvocato, intermediario tra l’imputato e il tribunale, occupa, con i conseguenti diritti e doveri, un posto centrale nell’amministrazione della giustizia. Il giusto processo si svolge nel contraddittorio delle parti, nella formazione e nella valutazione delle prove. Importante è riconoscere l’effetto di irrobustimento delle ragioni svolte da una delle parti nel processo, come effetto della debolezza di quelle che vengono presentate per confutarle. Ogni argomento - anche il più debole o francamente infondato - è quindi per il giudice utile, anzi indispensabile per la decisione. La quale decisione non è solo quella che decide sulla alternativa “colpevole” o “innocente”, ma anche ognuna di quelle molteplici che portano alla sentenza, di assoluzione o di condanna, a una pena o ad un’altra. Il complesso di tutte queste regole porta ad esiti fisiologici di assoluzioni infondate, pur di evitare quanto più possibile infondate condanne. Piaccia o meno alle opinioni critiche di questa o quella sentenza, tale è l’irrinunciabile punto di arrivo di civiltà del diritto, nel rapporto tra lo statale monopolio della “pretesa punitiva” e la opposta pretesa di libertà della persona imputata. È paradossale che esso venga messo in discussione ed anzi negato quando gravissima è l’accusa. È frequente da parte di cittadini estranei al mondo della giustizia penale chiedere: ma come si può difendere un colpevole? Una domanda comprensibile da parte di cittadini nel nome dei quali la giustizia è amministrata. Una domanda, tuttavia, frutto della non conoscenza della realtà complessa del processo. Intanto un “colpevole” è da ritenere tale alla fine del processo, non prima o durante. Spesso poi i fatti oggetto dell’accusa di cui l’imputato deve rispondere sono tutt’altro che certi. E la stessa confessione dell’imputato non elimina ogni dubbio. La regola che, nella valutazione delle prove, richiama l’esperienza di ciò che normalmente avviene, anche se detta in latino (id quod plerumque accidit), non dovrebbe essere da sola tranquillizzante. È proprio l’esperienza che mostra come le eccezioni siano parte della (possibile) realtà, anche se non si sa se il caso oggetto del processo ne sia un esempio. Le prove sottoposte alla valutazione del giudice, poi, sono tutte in qualche grado incerte: testimonianze imprecise e riconoscimenti sbagliati (anche in buona fede) o consulenze e perizie infondate sono all’origine di sentenze a loro volta errate. L’ambiente in cui i fatti si sarebbero svolti incide sulle prove e sulla loro credibilità: la famiglia e le sue dinamiche interne ne sono esempio. Il luogo e il momento del procedimento in cui l’errore ha avuto origine sono vari, anche se -semplicisticamente- tutto finisce poi nella formula dell’errore giudiziario. Ma la discussione dei fatti non esaurisce l’opera del pubblico ministero, dell’avvocato della vittima parte civile e degli avvocati dell’imputato, per orientare e convincere il giudice. Per il caso di condanna occorre stabilire la pena. Nel processo occorre respingere le grida di fuori, che pretendono pene gravissime: l’ergastolo in particolare, con la sua carica simbolica. È la legge che impone al giudice di considerare la gravità del reato come risulta dalle modalità dell’azione, dal danno cagionato alla vittima, dall’intensità del dolo o della colpa, dalla capacità a delinquere e pericolosità del reo e dai suoi precedenti e condotta di vita. Tutto questo deve accertare e valutare il giudice, aiutato dal confrontarsi degli argomenti del pubblico ministero con quelli degli avvocati. Poiché l’esercizio del diritto alla difesa non è solo a vantaggio e garanzia dell’imputato. È invece anche una insostituibile condizione perché il giudice decida correttamente, per quanto possibile “oltre ogni ragionevole dubbio”. Le minacce agli avvocati e la negazione del loro ruolo colpiscono quindi direttamente anche i giudici e la società per cui operano. Intervista a Beniamino Zuncheddu, 33 anni in carcere da innocente di Elvira Serra Corriere della Sera, 14 dicembre 2024 “Non avrò mai un figlio. Delle persone dell’ingiustizia non ho più sentito nessuno”. L’uomo assolto a gennaio dopo 33 anni in carcere da innocente: “Ho ripreso dieci chili e finalmente mi sono curato occhi e denti. La fede mi ha aiutato”. Il risarcimento: “Con quei soldi pagherò anzitutto l’avvocato. Poi vorrei aprire un caseificio”. Il sorriso timido e gli occhi curiosi. Sono le prime cose che colpiscono di Beniamino Zuncheddu, 60 anni, vittima del più grave errore giudiziario italiano. Quasi trentatré anni in carcere: fu arrestato che ne aveva ancora ventisei. Il 25 novembre di un anno fa gli sospendono la pena. Per l’assoluzione, che chiuderà il processo di revisione, bisogna aspettare il 26 gennaio 2024. Da allora, ha ripreso almeno dieci chili, si è operato di cataratta, si è occupato dei suoi denti: gliene era rimasto solo uno. Ci incontriamo a Burcei, cinquanta minuti di curve da Cagliari, nella casa di famiglia sulla strada che porta verso il monte Serpeddì a mille metri di quota. Nel salotto che è anche soggiorno e cucina, ci riscalda la stufa a legna ricavata da uno scaldabagno usato: il tubo di scarico passa per il comignolo del caminetto. C’è anche Augusta, la sorella di due anni più grande che non si è mai arresa alla sentenza che a tempo di record aveva giudicato il fratello colpevole per la strage di Sinnai (tre omicidi, un sopravvissuto): 30 giorni per il primo grado, 7 per l’Appello; la Cassazione si pronunciò meno di due anni dopo gli omicidi. Beniamino, un anno fa tornava libero. Come lo ricorda? “Ero appena rientrato dal bar Le Bon Bec, dove lavoravo a Cagliari. Avevo finito il turno alle 12.30, poi avevo preso due pullman per tornare in carcere a Uta. Ho mangiato qualcosa e mi sono messo a fare quattro passi in corridoio”. Chi l’avvisò? “Una guardia. Si avvicinò e mi chiese: “Zuncheddu, ha da fare?”. Pensai che mi stesse rifilando un lavoro. E invece aggiunse: “Si prenda la roba che è arrivato il foglio di scarcerazione”. Gli dissi di non giocare con i miei sentimenti”. Non stava giocando... “Corsi in cella per buttare le mie cose dentro due buste della spesa e uscii senza salutare nessuno, prima che cambiassero idea. Fuori soffiava vento, c’era freddo, ma io ho continuato a camminare: volevo allontanarmi il più possibile dal carcere”. Adesso come passa le giornate? “Sono un pensionato senza pensione. Dunque faccio qualcosa qui a casa, poi esco, vado ad aiutare mio fratello Damiano con le pecore”. E sua nipote Maria Luigia, la figlia di Augusta, non l’aiuta con le capre? “No, lei non mi vuole, dice che sono anziano”. Davvero ogni pastore conosce a memoria tutti i nomi dei suoi animali? “Certo. Le capre di Maria Luigia si chiamano Betta, Agostena, Gianduia, Sitzigorru, che in sardo vuol dire lumaca. Qualche giorno fa si è impuntata con il padre che voleva far allattare un capretto dalla mamma sbagliata. Aveva ragione lei!”. La sera esce? “Mi vedo con i miei amici, gli stessi di prima del carcere. Loro però ora hanno una famiglia. Mi piace ascoltarli”. La cosa più bella della nuova vita da uomo libero? “Entrare e uscire di casa, aprire e chiudere la porta, quando lo decido io”. Ha rivisto Antonio, il ragazzo tetraplegico che aveva confermato il suo alibi per la sera della strage? “Sono riuscito ad andarci un mese fa, prima ero sempre impegnato. Si è commosso. Conserva ancora il giornale di quando mi hanno arrestato”. E, invece, dopo la sentenza di revisione, ha rivisto Luigi Pinna, il sopravvissuto che con la sua falsa testimonianza l’aveva fatta condannare, o Mario Uda, il poliziotto che gli aveva mostrato la sua foto prima del riconoscimento, condizionandolo? “No, delle persone dell’ingiustizia non ho più sentito nessuno”. Da chi le sarebbe piaciuto ricevere un messaggio? “Intanto devo ringraziare tutte le persone del mio paese, il sindaco, il parroco e gli sconosciuti che continuano a manifestarmi il loro affetto. Mi hanno scritto anche alunni delle elementari di altri paesi: le loro lettere mi fanno felice. Giorgia Meloni è andata ad accogliere Chico Forti che tornava dall’America, ma a me non ha scritto neanche un biglietto. Mi sarebbe piaciuto riceverne uno da Mattarella”. Però ha incontrato il Papa. Era la seconda volta! “Sì, la prima nel 2013: ci siamo visti nella cattedrale di Cagliari, io ero tra i detenuti. Ad agosto, invece, siamo andati con mia sorella, mio cognato, mia nipote e la famiglia al completo del mio avvocato, Mauro Trogu”. È stato il suo sesto avvocato e ha lavorato pro bono. Appena otterrà il risarcimento sarà il primo da rimborsare. “I consulenti lo stanno definendo, ma nessun risarcimento sarà mai abbastanza: ho vissuto più dentro il carcere che fuori. Sognavo una famiglia con figli e nipoti, e per quello è troppo tardi. Comunque, con quei soldi devo togliere subito i debiti e l’avvocato è in cima ai miei pensieri. Poi ci sono i periti che hanno lavorato gratis, e mia sorella e suo marito, che stanno continuando a prendersi cura di me. Senza di loro, una volta uscito dal carcere sarei stato un delinquente in più, perché non avevo nulla”. Se le avanza qualcosa per sé, cosa desidera fare? “Mi piacerebbe aprire un caseificio in paese. Ma non tanto per me: lo vorrei fare per dare lavoro ai giovani”. I giudici di Roma l’hanno assolta in base al comma 2 dell’articolo 530 del Codice di procedura penale, che si applica “quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che l’imputato abbia commesso il fatto”. “Questa cosa mi fa arrabbiare, perché mi fa sentire innocente a metà. E poi nelle motivazioni non hanno tenuto conto che il mio principale accusatore aveva mentito, che non potevo avere il movente che mi attribuivano, che un poliziotto ha tenuto nel cassetto per più di 30 anni il vero identikit dell’assassino”. Trogu ha presentato istanza di rettifica al giudice. “È stata respinta. Ha fatto opposizione al presidente della Corte di Appello di Roma, che lo stesso l’ha respinta. Ora farà ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, perché la motivazione dei giudici lede la presunzione di innocenza”. Si è chiesto perché è successo proprio a lei? “Sì, e sono arrivato alla conclusione che ero il più fragile, uno che non si sarebbe potuto vendicare. Secondo l’avvocato e secondo me, quella strage era legata al sequestro di Giovanni Murgia. Altrimenti non mi spiego come mai Giuseppe Boi, condannato per essere uno degli organizzatori di quel rapimento, dopo abbia occupato l’ovile dove erano stati compiuti i delitti”. Ha girato tre carceri: a Cagliari, a Nuoro e a Uta. Come è riuscito a non farsi vincere dalla rabbia? “Pensavo: se sbatto la testa al muro poi la testa si rompe e il muro resta come è”. Ha preso antidepressivi? “Mai, niente. In carcere ti danno solo l’Aulin: per il mal di testa, per il mal di denti o se ti fa male un dito”. La fede l’ha aiutata? “Sì, molto. Trogu è nato il giorno di Santa Rita, la santa dei casi disperati. Per me, comunque, essere cristiani non significa solo credere in Dio, ma aiutare gli altri. Perché la fede non vale nulla se non ci sono pure le buone azioni. E io in carcere cercavo sempre di aiutare i miei compagni”. Uno ha smesso di drogarsi, grazie a lei... “In cella gli avevo intimato di non prendere più il metadone. E lui mi ha dato retta. Ha avuto le crisi di astinenza e poi non le ha avute più. Sua madre mi ha telefonato per ringraziarmi”. Anche lei, alla fine, è stato aiutato. Oltre che al suo avvocato, deve dire grazie all’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni, che prima di trasferirsi per lo stesso ruolo a Milano ha firmato la richiesta di revisione... “Mia sorella dice che ce l’ha mandata la Madonna. Quando l’ho conosciuta di persona mi sono commosso. È stato a Modena, quando ho presentato il mio libro”. “Io sono innocente”, scritto con Trogu per De Agostini. Si aspettava di vederla? “No, mi ha fatto una sorpresa. Poi con Augusta siamo andati a trovarla a Milano e le abbiamo portato un vassoio di dolci sardi”. Beniamino Zuncheddu: “Non avrò mai dei figli, ma le lettere dei bambini mi regalano la felicità” Pure Irene Testa, garante dei detenuti in Sardegna e tesoriera del Partito Radicale, si è spesa molto per lei... “Sì, bravissima. Si è data da fare perché mi venisse garantita l’assistenza medica. Quando ho visto che continuavano a rimandare le udienze per la revisione ho cominciato a scoraggiarmi: la piorrea mi ha fatto cadere i denti, avevo sempre mal di testa. Grazie a lei è partita la campagna mediatica”. Dal libro si farà un film? “Sì, è venuto il regista con gli sceneggiatori. Hanno fatto il sopralluogo in campagna”. Chi vorrebbe che la interpretasse? “Eh, non sono pratico. Speriamo che riesca a parlare con l’accento sardo”. L’odissea di Monica Busetto, in carcere per un delitto confessato da un’altra di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 14 dicembre 2024 Mestre (Venezia), l’operatrice sociosanitaria 62enne condannata a 25 anni per l’omicidio della vicina Lida Taffi Pamio. Rea confessa e autrice di un altro omicidio simile è Susanna Lazzarini, che poi ha cambiato versione. Il ruolo della collanina e gli esami del Dna. L’ultima tappa di una lunga storia iniziata quasi 12 anni fa, il 20 dicembre 2012, è stata un paio di settimane fa, con una sola parola in una scarna mail arrivata mercoledì pomeriggio nella casella di posta elettronica dell’avvocato Stefano Busetto, difensore insieme al collega Alessandro Doglioni: “Rigettato”. In attesa delle motivazioni della Corte di Cassazione, il primo tentativo di Monica Busetto - l’operatrice sociosanitaria di 62 anni condannata a 25 anni per l’omicidio della dirimpettaia Lida Taffi Pamio in via Vespucci a Mestre, appunto il 20 dicembre 2012 - di riaprire il processo è andato a vuoto, dopo che già a marzo la Corte d’appello di Trento aveva detto “no”. Chi è Monica Busetto - La sua vicenda, a prescindere da colpevolisti o innocentisti, è comunque molto particolare, forse un unicum in tutta Italia. Per lo stesso omicidio sono state condannate due persone, due donne, quasi coetanee: solo che mentre Busetto ha sempre negato ogni coinvolgimento, non ha lasciato alcuna traccia nell’appartamento della vittima ed è stata “incastrata” da una catenina trovata a casa sua con il Dna della vittima (che però, come vedremo più avanti, la difesa contesta), l’altra donna, Susanna Lazzarini, è rea confessa e autrice tre anni dopo di un altro omicidio molto simile. E dopo aver detto per tre lunghi interrogatori di aver fatto tutto da sola, improvvisamente ha cambiato versione e accusato anche Busetto. È una storia che per anni non ha varcato i confini territoriali, fino a quando mercoledì 11 dicembre per la prima volta un network nazionale, Rete 4 con “Fuori dal coro” di Mario Giordano ha trasmesso un servizio di alcuni minuti in cui hanno parlato sia l’avvocato Doglioni che il giornalista Massimiliano Cortivo, che al “caso” ha dedicato anche un libro con il criminologo Lorenzo Brusattin (“Lo Stato italiano contro Monica Busetto”, in cui sostiene che la donna è innocente). Il delitto efferato - Nel 2012 Monica Busetto aveva 50 anni e faceva l’operatrice socio-sanitaria all’ospedale Fatebenefratelli di Venezia. Una persona anonima, orfana di madre e con una sorella di 14 anni più giovane. Quel giorno poco prima di Natale di dodici anni fa, Lida Taffi Pamio viene massacrata in casa: prima viene colpita con uno schiaccianoci sulla testa, poi strangolata con un cavo della tv, quindi le viene messa della carta in bocca per soffocarla e infine una decina di coltellate mortali all’addome, al torace e alla gola, come riscontrato dall’autopsia del medico legale Antonello Cirnelli. Gli inquirenti si convincono da subito che il killer possa essere un vicino di casa, perché mancherebbero tracce sulle scale, e la prima sospettata è proprio Busetto, che della vittima è la dirimpettaia. Dopo un anno di indagini, a gennaio 2014, l’inserviente viene arrestata: pare ci siano stati degli screzi in passato, ma la “prova regina” è la collanina. Il giallo del Dna e la condanna - Busetto dice che il gioiello è di famiglia, ma la polizia trova tracce del Dna della signora Pamio. I vari giudici che si sono poi occupati del caso hanno ammesso che Lazzarini è stata poco attendibile per le varie versioni cambiate, ma quel materiale biologico li ha convinti a condannarla. Il problema - per la difesa - è che la quantità rinvenuta sul gioiello è ridottissima, tre picogrammi, tanto che il caso è finito anche su varie riviste scientifiche. La tesi è che si sia trattato di una contaminazione con altri reperti che erano stati fatti analizzare: a un primo esame a Padova non era emerso nulla, salvo poi spuntare solo a una seconda verifica nella sede di Roma della polizia scientifica. Una genetista veneziana, Lucia Bartoloni, che ora lavora in Svizzera, sta collaborando con la difesa per cercare di ricostruire se siano stati rispettati tutti i protocolli. E c’è l’ipotesi che questo possa essere oggetto di una richiesta di revisione bis da depositare già a inizio 2025. Il colpo di scena che non basta - Torniamo però al 2015. Dopo che Busetto è in carcere da quasi due anni ed è già stata condannata in primo grado dalla Corte d’assise a 24 anni e mezzo, il 29 dicembre a Mestre viene uccisa un’altra anziana, l’81enne Francesca Vianello, che vive in corso del Popolo. Questa volta l’assassina viene presa subito, dopo un paio di giorni, ed è la 52enne Lazzarini. Nelle settimane successive la raffica di analogie tra i due delitti emerge chiaramente: periodo di Natale, entrambe amiche della madre di Lazzarini, vedove tutto sommato benestanti. Emerge poi che Vianello è stata uccisa per una questione di soldi. A fine febbraio del 2016 l’omicida confessa anche il delitto di tre anni prima. Dopo pochi giorni Busetto viene liberata e sembra la fine di un incubo. Ma il 5 luglio, al quarto interrogatorio, Lazzarini cambia versione e coinvolge anche l’altra donna, tesi ribadita qualche mese dopo al processo d’appello contro Busetto: davanti ai giudici racconta di aver lasciato la porta aperta e che lei era entrata e l’aveva aiutata a dare le ultime coltellate, pur ammettendo che non si conoscevano. Il processo si conclude il 18 novembre 2016 con la condanna di Busetto all’ergastolo (poi ridotto a 25 anni in un appello bis per motivi tecnici) e l’arresto in aula per riportarla in cella, dove è rimasta fino a oggi. I tentativi dei legali - Nel frattempo Lazzarini viene condannata per due volte a 30 anni di carcere per i delitti. E nella sentenza sul delitto Pamio, il gup David Calabria aveva scritto che “il ruolo di materiale compartecipe nel delitto di Busetto non ha trovato adeguato riscontro”. È proprio sulla base di questo “contrasto di giudicati” che gli avvocati Doglioni e Busetto avevano tentato un anno fa la prima richiesta di revisione. “Stiamo riprendendo in mano tutti i faldoni, stiamo rileggendo i verbali - spiega oggi Doglioni - Stiamo cercando di capire come certe cose non siano entrate nel processo e quindi come ora possiamo usarle, per colmare alcune lacune”. Nel frattempo, un paio di mesi fa, Monica Busetto ha avuto il primo permesso di poche ore, uscendo dal carcere di Montorio Veronese, a cui ne sono seguiti altri. E se già non ci fossero tutti gli ingredienti di un giallo, nelle scorse settimane è pure arrivata ai legali una lettera anonima di “qualcuno che sa” (un poliziotto?), ma che poi non si è più fatto vivo. Carriere separate, l’Anm si ricompatta e prepara la battaglia di Valentina Stella Il Dubbio, 14 dicembre 2024 Il referendum annunciato dal ministro Nordio ha messo in moto la macchina delle toghe. La strada dovrebbe essere ormai segnata: sulla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante ci sarà un referendum, molto probabilmente nella primavera del 2026. L’auspicio è dello stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio che ha più volte ribadito che su una riforma così costituzionalmente rilevante debbano essere gli italiani a pronunciarsi, anche per evitare che l’eventuale approvazione parlamentare venga percepita dai cittadini come il solito accordo sottobanco fatto dai partiti. La campagna comunicativa, come riferito dal Guardasigilli in una riunione di maggioranza, sarà trasformata in un sondaggio di opinione sull’indice di gradimento delle toghe. Niente tecnicismi dunque, la vittoria va conquistata con messaggi semplici e tranchant. L’Anm è perfettamente consapevole di questo e quindi si prepara allo scontro. Oggi riunisce a Roma il Comitato direttivo centrale, domani sempre in Cassazione ci sarà una assemblea straordinaria convocata proprio sul tema della riforma costituzionale. I magistrati, guidati dal presidente uscente Giuseppe Santalucia, sanno benissimo che tra Camera e Senato non c’è possibilità di modifiche al testo che il 9 dicembre è approdato nell’aula di Montecitorio per l’inizio della discussione, nell’entusiasmo generale della maggioranza, soprattutto di Forza Italia, che ne rivendica la paternità e la realizzazione del sogno di Silvio Berlusconi. Quindi il “sindacato” delle toghe sa che deve guardare oltre, prepararsi alla chiamata popolare, e diventare così protagonista del dibattito. Come? Lo deciderà l’assise di domenica a Piazza Cavour ma in base a quanto già circola tra alcuni gruppi associativi l’obiettivo principale è quello di costituire comitati referendari, oltre a prevedere giornate di astensione. Già a giugno, durante una riunione del parlamentino, si era discusso della possibilità non solo di fare diversi scioperi distribuiti in vari mesi ma anche di lanciare, come inizialmente proposto dalla corrente progressista di AreaDg, la partecipazione alle iniziative di eventuali comitati referendari. Inizialmente era emersa qualche perplessità da parte delle altre correnti: l’obiezione prevalente era che, essendo i referendum lontani dal venire, non avrebbe avuto senso mettere subito nero su bianco un progetto del genere. Ma poi, dopo alcune interlocuzioni tra i big delle correnti, si era capito che era opportuno appoggiare la proposta. Adesso esiste una “prepotente urgenza” - volendo mutuare le parole che usò l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel chiedere provvedimenti di clemenza - di occupare spazi comunicativi. E allora c’è necessità di concretizzare nel dettaglio l’iniziativa. Le strade potrebbero essere due. La prima: che le singole correnti costituiscano dei propri comitati o che si aggreghino a quelli già costituitisi nella società civile, innanzitutto con costituzionalisti e giuristi, in modo da sostenere il “No” a tutte e tre le modifiche costituzionali previste dal ddl Nordio (separazione carriere, doppio Csm e Alta Corte disciplinare). La seconda - e questo sarebbe l’obiettivo più ambito da raggiungere - la stessa Anm, nella sua totalità, dovrebbe diventare promotrice di un comitato referendario “per la difesa della Costituzione” attraverso il contrasto alla riforma dell’ordinamento giudiziario, così come pensata dal ministro della Giustizia e dalla maggioranza in generale. Il risultato non è scontato perché non tutti i gruppi associativi potrebbero essere d’accordo. Prendere una decisione di questo tipo vorrebbe dire, per alcune fette della magistratura, attirarsi maggiormente le accuse di politicizzazione, già arrivate in questi ultimi mesi, dopo le decisioni assunte da alcuni magistrati in tema di immigrazione. Invece per altri, considerato che comunque si viene accusati “strumentalmente” di essere eversivi per decisioni sgradite o per aver partecipato a dibattiti pubblici, tanto vale scendere formalmente in campo. Da quanto abbiamo potuto apprendere, Magistratura democratica proporrà la creazione di un comitato referendario attraverso un documento da presentare in Assemblea, Giovanni “Ciccio” Zaccaro, segretario di Area, ci dice “che sarebbe d’accordo al comitato referendario sulla riforma della giustizia aperto ad avvocati, professori, esponenti della cultura, quindi non costituito solo da magistrati, ma da persone in grado di spiegare ai cittadini la questione”. Magistratura Indipendente invece al momento non si esprime perché almeno fino a ieri non sapeva che ci fosse sul tavolo questa possibilità. Silenzio da Unicost. Mentre Andrea Reale, rappresentante in Cdc del gruppo dei CentoUno, si dice non favorevole: “Non siamo d’accordo su questa possibilità. Anche perché riteniamo che la riforma del sistema elettorale per il Csm con il metodo del sorteggio, previsto nel testo del ddl costituzionale, possa essere valutata positivamente e condivisa, come peraltro hanno fatto oltre il 40% dei colleghi iscritti all’Anm che hanno votato “sì” durante il referendum associativo del 2022”. Intanto stamattina un assaggio di acceso dibattito ci sarà ad Atreju, dove discuteranno di giustizia Santalucia e Nordio. Insomma l’Anm è chiamata ad un grande sforzo comunicativo: l’attenzione mediatica domenica si preannuncia alta. Sarà quindi importante non trasformare innanzitutto l’evento in una passerella dei candidati al prossimo comitato direttivo centrale che sarà rinnovato a fine gennaio e soprattutto una seduta collettiva di psicologia in cui tutti prendono la parola per ripetere il solo refrain di come la riforma metta in pericolo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Per vincere l’appuntamento referendario occorrono discorsi di maggiore spessore. Giustizia, niente bonus ai giudici se non sono produttivi: in arrivo la nuova stretta di Francesco Bechis Il Messaggero, 14 dicembre 2024 Il ministero valuta il giro di vite sui premi alle toghe in ritardo sull’arretrato. E lancia la piattaforma per controllare i dati sulla performance dei tribunali. La pila di pratiche arretrate cresce e diventa una piramide sulla scrivania, i processi chiusi in tempo e le sentenze emesse si contano sulle dita di una mano? Allora niente bonus, premi, addio prebende extra. Funziona così per i dirigenti della Pubblica amministrazione. Per i magistrati no. Ci sono le sanzioni disciplinari, che raramente toccano lo stipendio. Ora però le regole potrebbero cambiare. È questa la direzione di una proposta di legge che potrebbe depositare il centrodestra in Parlamento a inizio anno. Su input del ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio. Che intanto ha messo online una nuova piattaforma per raccogliere i dati dei tribunali civili e verificare numeri alla mano quali toghe sono efficienti, quali no. A un anno dall’introduzione delle “pagelle dei magistrati”, la riforma sulla valutazione della performance dei giudici prevista dalla legge Cartabia, il governo medita di varare una nuova stretta sui controlli. Non sarà facile, ed è probabile che il Colle abbia da ridire. A offrire un pretesto c’è il Pnrr, il piano dei fondi europei per la ripresa entrato nel suo ultimo miglio. Ebbene all’Italia l’Europa ha chiesto di mettere mano ai tempi e all’efficienza della giustizia, specie quella civile zavorrata da un arretrato monstre. Il governo, si diceva, si è mosso un anno fa introducendo le “pagelle dei giudici”, la riforma che ha rivoluzionato il controllo del Consiglio superiore della magistratura sull’operato delle toghe. Ora bisogna mettere a terra quei principi e per farlo servono incentivi e disincentivi. Sui primi il ministero di Nordio ha già provveduto istituendo un sistema di bonus per i giudici che smaltiscono più velocemente processi e sentenze, senza lasciare imputati e parte lesa a galleggiare in un eterno limbo. Manca però la parte delle sanzioni, a cui lavora il dicastero di via Arenula - il dossier è passato sulla scrivania del capo di gabinetto di Nordio Giusi Bartolozzi - e presto il partito di Giorgia Meloni potrebbe portare il dossier in Parlamento. La sostanza del provvedimento, spiegano fonti a conoscenza del dossier, è prevedere una sforbiciata netta su bonus, premi e trattamenti accessori dei giudici dei tribunali che non rispettano gli obiettivi settati a inizio anno. E così facendo rallentano la tabella di marcia del Pnrr che già toglie il sonno al governo: smaltire l’arretrato civile entro giugno 2026, data ultima per incassare i fondi del Recovery Ue, è già un’impresa. Di qui il possibile giro di vite sullo stipendio delle toghe. A cui si affianca, si diceva, una nuova piattaforma appena lanciata dal ministero della Giustizia. Sulla carta, spiegano da via Arenula, il nuovo “Portale per i tribunali civili” non sarà altro che “un cruscotto per il controllo di gestione delle ordinarie attività degli uffici giudiziari (‘court management’), dedicato in particolare ai Tribunali civili e alle singole sezioni”. Nei fatti il portale servirà a raccogliere in un unico registro i dati sulla performance dei giudici. Quanti processi aperti sono stati chiusi, quante sentenze emesse. Sul sito del ministero, con un eccesso di cautela, si parla di “un portale per migliorare la giustizia”. Tra le righe però viene fuori la stretta sui controlli: “Vengono forniti nuovi strumenti per monitorare le attività dell’ufficio, la distribuzione dei carichi di lavoro (tipologia di atti, tempi di evasione, magistrati assegnatari) e poter aver dati sempre aggiornati”. Dati utili al Csm, così prevede la riforma delle pagelle e i decreti che via via stanno prendendo forma per attuarla, per decidere se un magistrato merita una promozione, un bonus, oppure l’esatto opposto. Materia delicata, dare i voti alla performance delle toghe, e per questo al governo lavorano sotto traccia, calma e gesso. Pausa natalizia, si ripartirà da gennaio. Facile che l’Associazione nazionale magistrati (Anm) e le opposizioni montino le barricate, come hanno già fatto contro la riforma della separazione delle carriere di giudici e pm che il governo vuole approvare in prima lettura a inizio anno. Da tempo il clima è teso. Sarà per questo che, almeno in pubblico, il passo si è fatto felpato. Niente blitz, serve il via libera della premier e dei suoi consiglieri. Un esempio? Da settimane la Lega prova a piazzare un emendamento che alza l’età pensionabile dei procuratori a 72 anni. Da via Arenula e da Palazzo Chigi è arrivato un sonoro stop. C’è già abbastanza carne al fuoco. Veneto. Radicali e associazione Luca Coscioni: “Nelle carceri situazione sanitaria insostenibile” padovaoggi.it, 14 dicembre 2024 Il Coordinamento delle Associazioni Radicali del Veneto promuove una conferenza pubblica il 20 dicembre 2024, dalle 15:00 alle 18:00, presso la Sala Caduti di Nassiriya a Padova con ospiti che vanno dalla politica all’associazionismo. Nel 2024 le associazioni radicali venete di Padova, Venezia e Verona, in collaborazione con Nessuno Tocchi Caino, il Movimento Forense e l’Associazione Luca Coscioni, hanno effettuato dodici visite negli istituti penitenziari del Veneto, coinvolgendo amministratori locali, consiglieri comunali e regionali. “Un anno di incessante attività ha messo in luce le gravi criticità del sistema penitenziario, con particolare attenzione alla sanità, al sovraffollamento e alla mancanza di risorse e personale”. evidenziano i tre referenti delle associazioni radicali, Erika Giuriato (Segretaria di Radicali Padova), Samuele Vianello (Segretario di Radicali Venezia) e Marco Vincenzi (Coordinatore di Verona Radicale). Tutti denunciano le gravi condizioni del sistema sanitario in carcere, penoso non solo per i ristretti, ma anche per i dipendenti sanitari pubblici. “Il sistema sanitario delle carceri venete si trova in condizioni disastrose: in alcuni istituti, quasi il 100% dei detenuti fa uso di psicofarmaci, il 40% soffre di patologie croniche, mentre il 20% è tossicodipendente. Drammaticamente sotto organico, il personale sanitario affronta turni insostenibili, aggravando la precarietà dell’assistenza. Questi problemi si inseriscono in un contesto di sovraffollamento regionale al 140%, con punte del 190% a Verona e del 170% a Venezia e Treviso. La conseguenza è una situazione inumana: nel 2024, 9 detenuti si sono tolti la vita, di cui 4 a Verona e 3 a Venezia”. Le Associazioni Radicali hanno sollecitato ripetutamente un dibattito politico regionale attraverso interrogazioni e la proposta di un intergruppo consiliare. “Tuttavia, né la Giunta regionale né la maggioranza hanno risposto, mentre hanno dato il loro appoggio alla proposta di costituzione di un intergruppo tematico i consiglieri regionali di minoranza. Allo stesso modo, sul fronte comunale, si registrano ostacoli alle politiche di reinserimento, come dimostrato dal caso di Venezia, dove l’assessore Venturini ha respinto la proposta di destinare abitazioni a detenuti a fine pena coinvolti in progetti di risocializzazione”. Dopo un anno di iniziative, il Coordinamento delle Associazioni Radicali del Veneto promuove una conferenza pubblica il 20 dicembre 2024, dalle 15:00 alle 18:00, presso la Sala Caduti di Nassiriya a Padova. Durante l’evento, dal titolo “La libertà è terapeutica: prospettive per il superamento del carcere”, verranno affrontati temi cruciali come la sanità penitenziaria, il ruolo delle amministrazioni locali nelle politiche di reinserimento e il superamento del carcere tradizionale. Programma: Saluti iniziali: Erika Giurato (Segretaria di Radicali Padova), Andrea Martella (senatore e segretario PD Veneto), Sergio D’Elia (Nessuno Tocchi Caino), Filippo Blengino (Radicali Italiani). Panel 1 - La libertà è terapeutica Relatori: Vincenzo De Nardo, Arturo Lorenzoni, Diego Silvestri. Moderatore: Emanuele Brusamento (Associazione Luca Coscioni) Panel 2 - Libertà in Comune Relatori: Carlotta Bazza, Simone Bergamini, Lorenzo Gazzola, Paolo Ticozzi. Moderatore: Samuele Vianello (Segretario Radicali Venezia) Panel 3 - Liberare il carcere Relatori: Antonio Bincoletto, Livio Ferrari, Giuseppe Mosconi. Moderatore: Marco Vincenzi (Coordinatore Verona Radicale) L’evento sarà un’occasione per continuare la lotta nonviolenta per una società libera da un sistema carcerario che, oggi, tradisce i principi costituzionali della pena. Per informazioni: radicalipadova.cornaro@gmail.com. Catanzaro. Detenuto morto nel carcere, eseguita nella serata di venerdì l’autopsia corrieredellacalabria.it, 14 dicembre 2024 Gli esiti saranno resi noti entro sessanta giorni. È stato eseguito nella serata di ieri l’esame autoptico sul corpo del detenuto 35enne, trovato morto nella sua branda nel carcere Siano di Catanzaro. Sul caso, in seguito alla denuncia dei familiari del detenuto, è stata aperta un’inchiesta contro ignoti da parte della Procura di Catanzaro. Ieri è stato conferito l’incarico al medico legale Isabella Aquila che ha eseguito l’autopsia nel dipartimento di medicina legale del Policlinico di Germaneto. Secondo le indicazioni impartire dal pm Sarah Cacciaguerra, titolare del fascicolo, il consulente tecnico avrà il compito di verificare profili di responsabilità professionale in relazione alla morte del detenuto. L’autopsia prevede anche l’esecuzione di esami tossicologici. L’uomo era stato tratto in arresto mercoledì scorso per evasione dai domiciliari, ai quali era sottoposto per maltrattamenti in famiglia. Ieri è stato trovato senza vita sulla sua branda. Il 35enne dal 26 novembre al 4 dicembre (dunque prima dell’arresto) era stato ricoverato e l’autopsia dovrà accertare anche “eventuali profili di colpa professionale, indicando in modo specifico le responsabilità di ciascun sanitario che sarà individuato nominalmente”. La famiglia del trentacinquenne è assistita dagli avvocati Antonio Lomonaco e Leonardo Citraro. Pescara. Detenuto chiuso nella sala colloqui deve dormire sul tavolo di Maurizio Cirillo Il Centro, 14 dicembre 2024 Lettera del provveditore: “Ci sono criticità mai risolte”. Al sovraffollamento, alle gravi criticità e alle numerose problematiche che affliggono da troppo tempo il carcere San Donato di Pescara, si aggiunge ora anche un episodio sconcertante a danno dei detenuti, dei loro diritti. Uno di loro è stato costretto a dormire nella sala dei colloqui per una notte, senza poter mangiare e senza poter usufruire dei servizi indispensabili. Un episodio che si è consumato qualche giorno fa dopo l’arresto di un giovane per droga. Prima viene portato e “poggiato” in una cella piuttosto affollata, poi smistato nella sala colloqui, dove ci sono solo tavolini e sedie e quindi è immaginabile che per dormire il detenuto si sia dovuto arrangiare sul tavolo. Quando il mattino seguente è stata riaperta la sala per ospitare i visitatori, il detenuto era ancora lì. Lo ha raccontato lui stesso al suo legale di fiducia, l’avvocato Gianluca Carlone, che gli ha fatto visita in carcere: gli ha riferito ogni passaggio di quella giornata, ma gli avrebbe anche detto di non voler denunciare nulla e nessuno. Non sarebbe la prima volta che accadono queste situazioni nel carcere di San Donato. Questo lo si evince anche da una pesante nota che, nei giorni scorsi, il provveditore del Dipartimento penitenziario di Lazio, Abruzzo e Molise, Giacinto Siciliano, ha inviato alla direttrice. Una nota che sottolinea la situazione “complessa criticità gestionale della struttura”, non solo per il sovraffollamento (rispetto ad una capacità complessiva di 270 detenuti la struttura ne ospita 450) ma anche per la scarsa attenzione ai servizi igienici di base e per la poca assistenza fornita ai detenuti con problemi psichici. Fermo. Iniziative editoriali nelle carceri: il recupero dei detenuti al centro Il Resto del Carlino, 14 dicembre 2024 Incontro a Fermo con studenti e Caritas per raccontare le iniziative editoriali nelle carceri delle Marche. La persona al centro di tutto, per costruire una vita migliore anche dopo una caduta. È il senso dell’incontro organizzato dall’Ambito sociale XIX di Fermo con la Caritas, ‘La parola ai detenuti’, per raccontare le iniziative editoriali organizzate all’interno delle case di reclusione delle Marche, con il supporto dell’Ordine dei giornalisti e della Regione. All’auditorium San Filippo sono arrivati gli studenti dell’istituto Montani e del liceo delle scienze umane, con i docenti Giacomo Maroni e Marina D’Aprile, per l’istituto Tarantelli di Sant’Elpidio a Mare la docente Domitilla Nucci, legati al carcere di Fermo da progetti di legalità e di conoscenza, proprio per combattere lo stigma e il pregiudizio che accompagna chi ha vissuto un’esperienza di carcerazione. La direttrice della casa circondariale di Fermo, Serena Stoico, ha spiegato: “Non è la prima volta che parlo con gli studenti, anche grazie al giornale gestito in carcere dai detenuti, è un dialogo essenziale per ragionare su un percorso che deve essere sì di contenimento ma anche di recupero. Non è un caso se praticamente tutti i suicidi che avvengono in detenzione si registrano all’inizio o alla fine del percorso, quando si perde la speranza. Il compito nostro è di costruire un’alternativa, una possibile vita diversa che fa bene anche a noi che siamo fuori e che, come recita la nostra bellissima e limpida Costituzione, abbiamo il dovere di provare a recuperare”. In prossimità delle feste di Natale il carcere sta mettendo a punto una serie di appuntamenti che serviranno per rendere meno difficili i giorni di festa per chi è lontano dai propri cari, una testimonianza forte l’hanno offerta Angelo, uscito da 5 mesi, e Jamal che è ancora detenuto: “In questi giorni staremmo già pensando ai giorni di festa, per capire cosa cucinare, cosa condividere, anche tra persone di religione diversa. Riprendere in mano la propria vita è difficile, ritrovare il filo dell’esistenza, il lavoro, l’abitudine ad un letto morbido, a quella cosa preziosa e fragile che è la libertà è qualcosa di complicato e alla fine bellissimo”. Giorgio Magnanelli, del giornale del carcere di Fossombrone Mondo a Quadretti, ha sottolineato: “L’incontro con le scuole è fondamentale per far capire ai ragazzi quanto i pensieri legati al carcere siano spesso frutto di pregiudizio. Nei miei anni di lavoro con i detenuti ho incontrato poeti veri, talenti fortissimi, ho avuto poesie e pensieri che hanno fatto bene anche a noi che li abbiamo raccolti”. Per L’Eco del Marino, nel carcere di Ascoli, ha portato la sua testimonianza Paola Pieragostini, il vescovo emerito Monsignor Armando Trasarti ha ricordato a tutti che ci vuole uno sguardo carico di umanità, per persone che hanno sbagliato ma che hanno il diritto ad una seconda possibilità: “Le pagine di un giornale sono fondamentali per dire le cose come stanno, per andare alla radice dei problemi, per far capire che a volte chi diventa cattivo lo fa perché non ha mai conosciuto la tenerezza”. Edgardo Bisceglie, vice direttore della Caritas di Molfetta, ha portato la testimonianza dei progetti che nel suo territorio si portano avanti, per provare a recuperare i giovani tentati dalla mafia e dalle scorciatoie. Le conclusioni al prefetto Edoardo D’Alascio che ha ribadito l’importanza della dignità di ogni persona, di provare a cambiare il percorso di chi sbaglia e che ha sempre tempo per voltare pagina. Roma. L’arte non ha sbarre: murales fuori e dentro al “femminile” di Rebibbia di Luca Liverani Avvenire, 14 dicembre 2024 Il progetto prevede laboratori di pittura per le detenute nella Casa circondariale e un murales all’esterno che ricorda l’omicidio al Tiburtino III nel 1944 di una madre che cercava pane per i figli. Dentro al carcere un laboratorio di pittura per le detenute, tenuto una psicoterapeuta e da due artiste che dipingeranno due murales all’interno della sezione femminile di Rebibbia. Fuori dal carcere un grande murales che impreziosisce quella che era un’anonima parete grigio-cemento di un condominio di periferia. E ricorda un evento tragico del quartiere, nelle ultime settimane dell’occupazione nazifascista della Capitale. È il progetto “L’arte non ha sbarre”, curato da Oriana Rizzuto e sostenuto dalla Regione Lazio, vincitore del Bando Vitamina G. L’obiettivo è sensibilizzare sulle difficoltà della condizione carceraria, ma soprattutto accompagnare la formazione dei giovani detenuti, in questo caso le ragazze della sezione femminile della casa circondariale romana. Riqualificando contemporaneamente una strada del quartiere che sorge sulla Tiburtina con un’opera di street art che parla di memoria storica e di violenza sulle donne. Edoardo Ettorre è il giovane street artist, autore del murale esterno di quest’edizione, dedicato a Caterina Martinelli, che si è aggiudicato il Premio Rivelazione 2023 MArtelive, In pochi anni Ettorre ha collezionato numerosi riconoscimenti, realizzando svariati murales ed esposto in mostre personali e collettive, in Italia e all’estero. L’opera è stata inaugurata ieri nei pressi del carcere, in via dell’Erpice 26 dal presidente del Municipio IV, Massimiliano Umberti. Inoltre, il campo da calcio situato davanti al murale sarà ristrutturato per restituire una parte del territorio alla comunità locale. Caterina Martinelli partecipò alle manifestazioni insieme ai cittadini del quartiere contro lo stato di indigenza e fame in cui vivevano al Tiburtino III. L’occupazione tedesca seguita all’8 settembre 1943 aveva infatti ridotto letteralmente alla fame gran parte della popolazione romana. Il 2 maggio 1944, durante un assalto a un forno all’indomani delle manifestazioni del 1° maggio, un agente della PAI (Polizia Africa Italiana), intervenuta per sedare il tumulto, la uccise con una fucilata. Caterina, madre di sei figli, cadde sul selciato con sei sfilatini nella borsa della spesa e una pagnotta stretta al petto, mentre teneva in braccio la sua bambina ancora lattante. Morì sopra la figlia, che sopravvisse, ma con la spina dorsale lesionata. Il giorno seguente, sul marciapiede ancora insanguinato, un cartello ricordava la vittima: “Una madre affamata, mentre cercava di ottenere del pane per i suoi figli”. All’interno del carcere, le attività didattiche sono state seguite dalla psicoterapeuta Valentina Iavasile e condotte dalle artiste Tiziana Rinaldi Giacometti e Chiara Anaclio. Le loro opere, con temi legati alla libertà, all’autodeterminazione e alla parità di genere, sono parte dei laboratori annuali con le donne recluse. I murales abbelliscono il corridoio che si trova tra le due sezioni “cellulare”, qualla delle celle singole o doppie, e “camerotti”, per più detentenute. Tiziana Rinaldi Giacometti ha raffigurato una donna di spalle che cammina verso il futuro, tenendo per mano la sua bambina, simboleggiando la libertà e la prospettiva di vita, mentre Chiara Anaclio ha rappresentato un giardino ideale, un segno di speranza per migliorare il percorso quotidiano delle detenute. “Quest’anno, abbiamo voluto dedicare particolare attenzione al tema della donna - spiega la curatrice Oriana Rizzuto- unendo arte e impegno sociale. Attraverso laboratori creativi e la realizzazione di murales, le artiste Chiara Anaclio e Tiziana Rinaldi Giacometti hanno guidato le partecipanti in un percorso di scoperta e di espressione, affrontando temi cruciali come l’autodeterminazione, i diritti umani e la lotta contro la violenza. I murales che prenderanno forma all’interno di Rebibbia saranno un inno alla speranza e al futuro, rappresentando donne forti e determinate. Allo stesso tempo, l’opera di Edoardo Ettorre dedicata a Caterina Martinelli, simbolo di resistenza e sacrificio, ci ricorda l’importanza di tramandare alle nuove generazioni storie di coraggio e di lotta per la giustizia”. Il progetto è realizzato dall’associazione L’Arte non ha sbarre insieme ad Agnese Panzieri, con la collaborazione della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile, prodotto da MArtesocial e fa parte dei progetti speciali della Biennale MArtelive, con la direzione artistica di Giuseppe Casa. Milano. Sguardi alla ricerca di speranza nel carcere di San Vittore di Fulvio Fulvi Avvenire, 14 dicembre 2024 Tra rassegnazione e voglia di rinascita la vita quotidiana nel penitenziario milanese descritta in un libro con la prefazione del cardinale Zuppi. Anche chi non è mai entrato in un istituto di pena può constatare - abbandonando pregiudizi e indifferenza - il dolore, la rabbia, la solitudine, le attese di un condannato dietro le sbarre. E capire così, o magari solo intuire, che i detenuti sono persone umane con tutta la loro dignità e non semplici numeri di matricola o reietti da chiudere buttando la chiave della cella nella latrina nell’illusione di una sicurezza che può prescindere dall’emenda. E i reclusi, in quanto persone, non possono nemmeno essere identificati con il reato che hanno commesso, qualunque esso sia: assassini, ladri, malversatori. Per rendersene conto basta guardare le delicate immagini in bianco e nero e leggere le toccanti testimonianze che armonicamente si alternano nel libro I volti della povertà in carcere (Edb, pagine 144, euro 39,00) realizzato da Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero durante un “viaggio”, dolente ma illuminato, all’interno della Casa circondariale di San Vittore, nel centro di Milano: sguardi che nascondono grida strozzate dall’obiettivo, sorrisi teneri e rassegnati, visi, dorsi di mani e persino addomi che raccontano con i disegni sulla pelle - in una specie di camouflage - amori, desideri, drammi personali, appartenenze e i sacrifici dello stare fuori dal mondo. Freddi corridoi chiusi da un cancello, le celle ristrette, una cucina d’acciaio, il muro con una crepa, una croce sperduta su una parete bianca, una porta da calcio e un canestro davanti a un trompe-l’oeil, un orto ordinato e la serra dove le piante possono rifiorire. In queste foto c’è il tempo della speranza e dei sogni che si impasta con il dolore, la malattia, l’ingiustizia, i tradimenti, l’abbandono che ha segnato un’adolescenza e, quindi, la vita. Storie drammatiche di uomini e donne i cui destini sfilano su un crinale: Berrich, Pavell, Antonietta, Roberto, Said, Giuseppe, Cretu, Alessandro, Massimo, Francesco, Charaf. Undici tra i circa mille che affollano tutti i giorni la struttura detentiva di via Papiniano. Persone che hanno bisogno di avere da chi si occupa di loro un po’ di fiducia per ritrovare sé stessi e poter ripartire nonostante gli errori e le ricadute. Persone, appunto. I poveri di oggi, da custodire e visitare, come ci raccomanda il Vangelo. Per sostenere e accompagnare quelli che lo vogliono nella loro battaglia quotidiana contro la solitudine che li porta spesso alla più cupa disperazione senza più il cielo da guardare o la telefonata da fare a casa. “Il carcere non è un altro pianeta ma l’altra faccia del nostro, quella che non vogliamo vedere, che speriamo resti buia, ma che rappresenta quello che siamo; dobbiamo conoscerla e illuminarla con l’attenzione e l’amore, perché solo così siamo in grado di comprendere il resto” sottolinea nella prefazione il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. La realtà può apparire impietosa e senza prospettive. Ma lo spazio per una rinascita c’è. “Soffre chi è recluso, e si nasconde dietro la violenza e indossa una corazza per sembrare più forte degli altri, perché non può manifestare la sua debolezza” spiega il direttore della Casa circondariale milanese, Giacinto Siciliano. Ma il carcere, per sua “natura”, è negazione e privazione della libertà, un luogo dove la convivenza spesso diventa impossibile. Come impossibile, per chi finisce dentro, è non guardare fuori, oltre quel sole a scacchi, non pensare a quello che potrà avvenire domani. Si contano i giorni, le ore, i minuti che non passano mai. Perché il tempo inganna e rischia di uccidere la speranza. “Ma cos’è la speranza per te?” chiedono gli autori del libro a Giuseppe, un uomo sulla cinquantina più volte “ricaduto” dal suo primo arresto, all’età di 16 anni. La Fondazione Casa dello Spirito e della Arti, che opera all’interno di San Vittore, lo aiuta a venir fuori dalla sua corazza, gli ha offerto anche l’occasione di incontrare Papa Francesco, un avvenimento che lo ha cambiato. Da qualche tempo Giuseppe fa belle sculture con materiali di riciclo e disegna. Rose a cui manca solo il profumo. È un’artista. “La speranza per me è quello che ti porti dentro tutti i giorni - risponde -, quel qualcosa senza il quale non puoi fare il passo che vorresti nella vita, e sta a noi inseguirla e correrle dietro… è luce, è colore!”. Grazie a Dio, e agli uomini di buona volontà, “filtrerà sempre un raggio di luce da quella sottile crepa sul muro” di San Vittore. “È una luce decisiva, fosse solo uno spiraglio nel buio della disperazione - scrive il cardinale Zuppi - e per una nuova consapevolezza. E questo, però, dipende anche da ognuno di noi”. Ristretti Orizzonti: “Dado galeotto”, un regalo necessario di Eleonora Martini Alias - Il Manifesto, 14 dicembre 2024 Sostenere una rivista e un’organizzazione come Ristretti Orizzonti, progetto “di inclusione, rieducazione e giustizia sociale” nato nel 1998 nella Casa di reclusione di Padova, è un regalo alla democrazia di questo Paese. In tempi come questi è necessario, sempre più imprescindibile. Lo si può fare comperando per il 2025 il calendario “Dado Galeotto”, lanciato per il terzo anno consecutivo da Ristretti orizzonti, trasformatasi negli anni in centro di produzione multimediale attorno alla rivista bimestrale diretta da Ornella Favero, edita dall’associazione di volontariato “Granello di Senape Padova” e realizzata tutta dentro il carcere di Padova e l’Istituto di pena femminile della Giudecca. “Dado”, personaggio simbolo nato dalla matita di Graziano Scialpi, redattore e vignettista di Ristretti scomparso nel 2010, “continua a raccontare la vita detentiva con ironia amara e profonda umanità”. E, come sottolinea la stessa Favero, “punta i riflettori su un tema cruciale: la realtà della detenzione in Italia” diventando “strumento di denuncia e speranza”. Ristretti lavora a questo scopo anche attraverso il progetto “A scuola di libertà” che coinvolge ogni anno oltre 5.000 studenti “portando i detenuti nelle scuole e gli studenti in carcere, creando un dialogo unico che racconta le storie dietro i reati, promuovendo la prevenzione e la comprensione”. Con un costo di dieci euro a calendario (tutte le info su www.ristretti.org o via e-mail a redazione@ristretti.it), si sostiene una rivista e un progetto che con dossier, dati e report si è conquistata credibilità e affidabilità in tutto il Paese. La Pira e Perucatti, pionieri della pena umana e giusta di Antonella Barone gnewsonline.it, 14 dicembre 2024 “Grazie per avermi dato la possibilità di avvicinare un problema così tragicamente umano da Lei trattato in modo tanto vivo ed efficace” scriveva il 26 marzo 1956 Giorgio La Pira, al tempo sindaco di Firenze, a Eugenio Perucatti, direttore del carcere di Santo Stefano di Ventotene, nella lettera che accompagnava l’invio di denaro per l’acquisto di alcune copie del libro “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”. Nel suo saggio, Perucatti anticipa riflessioni e persino riforme legislative realizzate vent’anni dopo, frutto della sua esperienza concreta di innovatore che era riuscito a trasformare uno dei simboli più cupi di un carcere afflittivo in un luogo di riscatto e speranza. Giorgio La Pira era al primo mandato come sindaco e visitava spesso il carcere fiorentino, ascoltando e aiutando come poteva i detenuti. I due avevano in comune la formazione giuridica, la fede cattolica ma, soprattutto, condividevano l’idea della centralità dell’individuo secondo la tradizione cristiana. La lettera è stata trovata dalla storica Rosa Cirone durante le ricerche d’archivio compiute per la stesura della biografia dedicata a Perucatti, di prossima pubblicazione. L’originale è stato consegnato dalla famiglia alla Fondazione Giorgio La Pira che ha dedicato alle due grandi figure il convegno “Questione carceraria e umanità della pena, Un ricordo di Giorgio La Pira ed Eugenio Perucatti” tenutosi a Firenze, nella sede di Villa Ruspoli il 9 dicembre scorso. Consegna della lettera autografa di Giorgio La Pira da parte della figlia di Eugenio Perucatti, Lucia, alla Presidente Fondazione La Pira, Patrizia Giunti. Nell’incontro, che si è sviluppato attorno alle relazioni di Silvia Costa, già commissaria straordinaria del Governo per il recupero del carcere di Santo Stefano, Guido Garavoglia, presidente dell’associazione per Santo Stefano, sono stati affrontati temi legati all’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione e alla funzione rieducativa della pena carceraria. Al dibattito hanno preso parte anche Emilio Santoro e Giuseppe Caputo (Università di Firenze e “L’altro Diritto”), il Consigliere nazionale UCOII Hamdan Al Zeqri e Salvatore Nasca, già Dirigente dell’esecuzione penale esterna per la Toscana e l’Umbria. Quei “buoni” che sono mine vaganti di Goffredo Fofi Il Manifesto, 14 dicembre 2024 Ho appena visto un libro, “Lontano dalla vita degli altri”, scritto da Giovanna Canzi e illustrato dalla bravissima e sensibile Gabriella Giandelli che ha realizzato anche in passato tanti bei lavori. Un libro che racconta un’esperienza di lavoro di insegnamento in un carcere. Chi sono “i buoni” nel mondo adulto italiano? Ci sono? Che cosa fanno? Di recente, un convegno ha riunito le Comunità di accoglienza italiane (Cnca) e ci ha ricordato che sono tanti coloro che dedicano la loro attività quotidiana, alcuni in parte, a coprire i bisogni dei meno fortunati e a risolvere almeno in parte i loro problemi, secondo il vecchio motto dei primi assistenti sociali del dopoguerra: “aiutare gli altri perché si aiutino da soli”. E ci sono tante altre associazioni, altri coordinamenti. Diciamolo: sono (siamo) tanti, ma non contano (contiamo) quanto dovrebbero (dovremmo) e quanto potrebbero (potremmo), in un contesto disordinato come quello italiano e, oggi, con un potere politico all’insegna dell’egoismo. Una politica che sembra disprezzare - salvo profittare del loro lavoro - dei “buoni” che cercano di assistere chi meno ha e chi, individuo o gruppi, è emarginato dalle schiere dei “garantiti”. Il potere ha bisogno di loro (di noi) e senza questa vasta categoria di “buoni” si presenterebbero al paese assai più problemi di quanti non debbano affrontarne i “cattivi” che comandano, e coloro che li approvano e che li votano. Molti gruppi, molte associazioni di “buoni” fanno, insomma, quel che competerebbe allo Stato di fare, alle sue istituzioni. Sono “le persone di buona volontà”, riunite in gruppi e in associazioni, a evitare al paese (e ai suoi governanti) non pochi problemi… Su questa ambiguità originaria e a cui non si vede rimedio - del volontariato, del terzo settore, dell’associazionismo eccetera - e in assenza di una politica debitamente attenta ai bisogni di tanti e debitamente riformatrice, i “buoni”, per quanto numerosi e per quanto preparati e accorti, possono fare poco, anche se quel poco è prezioso. Ho appena visto un libro (“Lontano dalla vita degli altri”, Marinonibooks, pp. 72, euro 35) scritto da Giovanna Canzi e illustrato dalla bravissima e sensibile Gabriella Giandelli che ha realizzato anche in passato tanti bei lavori, un libro che racconta un’esperienza di lavoro di insegnamento in un carcere. Sono agili ed evocativi i testi come le immagini, e ci ricordano una condizione, quella dei carcerati, che è assolutamente drammatica a giudicare dalla cronaca (per esempio per il numero di suicidi tra i carcerati, e per le violenze che una parte dei carcerieri continua a praticare su giovani e vecchi, uomini e donne che per un motivo o per un altro hanno evaso una o più leggi). La limpida misura delle immagini accompagna un testo che chiede partecipazione senza imporla, che non ricatta affettivamente, che mostra gli ambienti nella loro angosciosa freddezza e vi aggiunge ritratti a figura intera di giovani carcerati di varia provenienza. Di giovani come tanti, senza “segni particolari”… variamente comuni, variamente vivaci, e variamente commoventi anche senza volerlo… Il volume è completato da una prefazione di Laura Bosio e da una postfazione di Corrado Cosenza che illustra i modi in cui nelle carceri italiane si insegna. Di Bosio cito le righe finali, che ci riguardano tutti: il lavoro di insegnante in carcere, che è, dice, più “di cura” che di insegnamento, ci ricorda che “il male non è altro da noi, estraneo alle nostre coscienze. ‘I buoni’, ha scritto Cioran, sono ‘mine vaganti’”. “Oltre il Cielo”, docuserie su carceri minorili e speranza di rinascita in esclusiva su RaiPlay di Roberto Borghi primaonline.it, 14 dicembre 2024 Dietro ogni ragazzo detenuto nelle carceri minorili si celano storie di disagi profondi, abbandoni e comportamenti devianti. Furti, spaccio, rapine, aggressioni, risse e tentati omicidi segnano il passato di molti di loro. La docuserie “Oltre il Cielo”, composta da otto episodi e prodotta da Rai Contenuti Digitali e Transmediali, debutta il 13 dicembre in esclusiva su RaiPlay. La serie racconta il percorso di recupero di giovani detenuti presso le carceri minorili Beccaria di Milano, Fornelli di Bari e la comunità Kayros di Vimodrone. Molti di questi ragazzi, fino al momento dell’arresto, non si rendevano conto della gravità dei loro reati. All’interno del carcere cercano risposte su quando potranno uscire e se sia possibile ottenere una riduzione della pena. Alcuni mostrano segni di pentimento e trovano punti di riferimento nelle figure di supporto, come i cappellani. Don Gino Rigoldi e Don Claudio Burgio, quest’ultimo anche responsabile della comunità Kayros, offrono loro sia sostegno spirituale che insegnamenti concreti per affrontare il futuro. Educatori e volontari: il ponte verso una seconda possibilità - Un ruolo centrale è svolto dalle giovani educatrici e dai volontari che, insieme a educatori più esperti, lavorano quotidianamente per offrire ai detenuti speranza e strumenti per reintegrarsi nella società. Attraverso il loro impegno, cercano di trasformare il periodo di detenzione in un’occasione di riscatto e rinascita. Una produzione che intreccia realtà e prospettive di recupero - La docuserie è prodotta da Pepito Produzioni per Rai Contenuti Digitali e Transmediali, in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. La regia di Alberto D’Onofrio cattura con sensibilità la complessità e l’umanità delle storie raccontate, offrendo uno sguardo autentico sul difficile ma fondamentale percorso di recupero. La “logica” di Piantedosi di Mario Capanna L’Unità, 14 dicembre 2024 Nuovi reati e aumenti di pene: con la legge 1660 il governo vuole reprimere il dissenso. Se si guarda bene, questo è il comune denominatore di tutte le forze di destra in Europa. Proprio nel giorno in cui si danno appuntamento a Roma migliaia di persone, per protestare contro il disegno di legge 1660 che mira a reprimere gravemente le forme di manifestazione del pensiero dei cittadini, è bene cercare di capire in profondità la “logica” che ispira e sorregge i provvedimenti restrittivi che si vuole introdurre nel codice penale. Il testo, ora in discussione al Senato (dopo essere stato approvato dalla Camera, a cui probabilmente è destinato a tornare), introduce una ventina di nuovi reati, estende aggravanti e sanzioni, e amplia le pene previste per alcuni reati già esistenti. In breve, facendo una sintesi parziale: i blocchi stradali saranno puniti con pene fino a due anni di reclusione, un’aggravante è prevista per chi si oppone alla costruzione di grandi opere pubbliche (sottinteso: ponte sullo Stretto di Messina, Tav ecc.), diviene reato anche la protesta pacifica, sì che è punita pure la resistenza passiva (!?), sono previsti 20 anni di pena per chi protesta nei Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), così pure nelle carceri ecc. Sebbene sia altamente probabile che le norme previste verranno bocciate dalla Corte costituzionale, in quanto palesemente in contrasto con i diritti sanciti dalla nostra Carta, è del tutto evidente che nel frattempo, in caso di approvazione da parte del Parlamento, le conseguenze sarebbero estremamente gravi per un’infinità di persone. Equivale a dire che ogni manifestazione collettiva del pensiero viene ad essere scoraggiata, e nella sostanza impedita, da norme restrittive e iugulanti non previste nemmeno nel codice fascista Rocco. Opportunamente il presidente dell’associazione Antigone ha definito il ddl 1660 “il più pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana”. Sono fra quelli convinti dell’inesistenza di un attuale pericolo fascista nel nostro Paese, ma credo anche che bisogna tenere gli occhi bene aperti sull’eventualità che quel pericolo possa diventare ravvicinato più avanti. Alcuni segnali inquietano e allarmano. Quella che sta dietro il ddl 1660 è una logica decisamente autoritaria, che vede nel dissenso non un elemento vitale della democrazia - per cui la dialettica culturale, sociale, politica ne costituisce l’arricchimento - ma come una turbativa dannosa che va impedita con durezza e, possibilmente, estirpata. È, a ben vedere, la visione di fondo che sorreggeva la dittatura mussoliniana: le differenti spinte, che animano la società, o trovano la loro sintesi nel vertice dominante (oggi non necessariamente un dittatore, ma anche un governo formalmente “democratico”) oppure vanno devitalizzate sul nascere, negando loro qualsiasi legittimità e, dunque, ricorrendo a ogni sistema repressivo per sradicarle. Senza dialettica fra le (sue) contraddizioni interne, la democrazia non esiste: eliminare quella significa rendere esangue questa, come apparve evidente durante il ventennio. Se si guarda bene, è questo il paradigma che connota le forze di destra in avanzamento a livello europeo, nelle forme differenti ma convergenti delle pulsioni razziste, xenofobe e persino neonaziste. Oltre che dal ministro degli Interni, il “disegno di legge sicurezza” (!) è firmato pure dal ministro di Grazia e Giustizia e da quello della Difesa. È sintomatico che Matteo Piantedosi abbia sentito il bisogno della copertura anche di Crosetto, ovvero il ministro che, oltre ad essere autorevole esponente di Fdi, sovrintende all’aumento delle spese militari, al posto di quelle finalizzate alla scuola, alle università, e ad aumentare i salari, che sono i più bassi d’Europa. Per scalzare la “logica” di Piantedosi (di Meloni e del governo di destra) occorre sì la lotta politica, ma in particolare quella culturale fra i cittadini, senza la quale la prima è insufficiente. Poiché un nuovo mondo è possibile, è fondamentale mostrarne la realizzabilità nei modi di pensare alternativi e nei nostri comportamenti di ogni giorno. La politica ha lasciato carta bianca ai giudici. Un esempio? L’inerzia normativa sul fine vita di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 14 dicembre 2024 La politica giudiziaria riflette i criteri sviluppati consapevolmente dal giudice per la soluzione dei casi difficili o privi di normative. E quando parliamo di politica giudiziaria dobbiamo tenere questa distinta chiaramente dalla politica del diritto. La prima è quella sulla quale il giudice sceglie delle alternative possibili nei casi difficili. Oggi lo strumento più efficace per renderla operativa è certamente l’intelligenza artificiale. La seconda invece si riferisce alla finalità delle norme giuridiche. Una finalità fatta propria dal legislatore, dal governo, caratterizzata da obiettivi sociali. Difatti la politica giudiziaria, seguita dal giudice, si realizza nell’ambito di vuoti lasciati aperti dalla politica del diritto nei casi difficili. La norma segue una specifica linea giuridica, la cui formulazione, nei casi facili o intermedi, non comporta alcun intervento discrezionale; nei casi difficili, invece, il giudice deve esercitare la propria discrezionalità per dargli applicazione. Ed è certamente in questa ricerca che egli si avvale di nuovi strumenti interpretativi, posti a sua disposizione attraverso l’intelligenza artificiale. La politica giudiziaria, quindi non si radica nelle norme giuridiche; è, invece, formata da una serie di considerazioni ed il suo significato risiede appunto nella consapevolezza della libertà di scelta del giudice tra varie alternative e nella considerazione dei fattori di carattere normativo, istituzionale ed interistituzionale che intervengono in questo processo. Possiamo certamente sostenere che i principi della politica giudiziaria non vincolano il giudice: se così fosse verrebbe meno la discrezionalità e l’interpretazione del caso difficile. Ovviamente alcune interpretazioni possono essere talmente condivise nel corso degli anni da essere considerate dal legislatore o dalle pronunce che si avvalgano di esse in un sistema di common law quale diritto cogente, il che significa che la discrezionalità del giudice sarà soggetta ad ulteriori limitazioni ed alcuni casi da difficili si trasformeranno in facili ed intermedi. Tuttavia, finché tale metamorfosi non ha luogo, la politica giudiziaria permane una politica di carattere extra legale. Ci si può domandare se la politica giudiziaria è emanazione del singolo giudice o del potere giudiziario? In altri termini se nei casi difficili il giudice ne segua una personale e si affidi alla propria esperienza personale, alla propria soggettività in modo che la politica giudiziaria cambierebbe a seconda dei giudici. Di fatto ciò non accade in quanto la discrezionalità si esercita innanzitutto in un settore oggettivo, ampio, dato da valori condivisi dalla stessa comunità dei giudici, accanto al quale ovviamente è riscontrabile un altro ambito in cui il giudice è lasciato alla ricerca di interpretazioni personali. La politica giudiziaria si rivela quindi una combinazione di vari elementi, alcuni dei quali comuni a tutti i giudici, altri diversi da un giudice all’altro. Pertanto all’interno di tale ambito di oggettività, si può affermare che la politica giudiziaria sia comune a tutto il sapere dei giudici, trasformandosi effettivamente nella loro politica. Credo che si possa essere d’accordo sul fatto che un sistema giuridico che si componga solo di principi generali, finalità sociali, e criteri di discrezionalità del giudice, sia poco desiderabile, poiché un simile sistema giuridico sacrifica la certezza, l’unità e la stabilità del diritto e contrasta con il bisogno ben radicato nell’animo umano di sapere come regolare la propria vita. Pertanto le società moderne fondano essenzialmente il proprio ordinamento su una miscela di regole e principi, validità dei precedenti e capacità interpretativa dei giudici. Il problema è tuttavia quello di costituire un equilibrio appropriato tra i vari elementi. Qual è la giusta quantità di discrezionalità e qual è la proporzione di regole inviolabili che il sistema deve contenere? Dove si colloca il punto ottimale di equilibrio tra regole rigide e principi flessibili. La tendenza del settore legislativo attuale sembra rivolgersi verso un accrescimento della discrezionalità dei giudici, essi infatti ricorrono ad un linguaggio normativo che appare caratterizzato dall’indicazione di principi, finalità sociali che realizzano una giustizia individuale preferibile alla conservazione di regole astratte. Questa tendenza si rafforza anche nella volontà del legislatore di procedere a generalizzazioni, ed alla sua scelta della più comoda via di fuga, ovvero lasciare che il problema sia affrontato a livello giudiziale. Un esempio inconfutabile quello dell’aiuto al suicidio medicalizzato che in cinque anni non ha trovato modo di essere regolamentato dal legislatore. E non mancano certo vuoti normativi ogni qualvolta si tratta di regolamentare le nuove tecnologie. Tuttavia quando il giudice risolve il conflitto dovrà ancora in via primaria tenere conto del diritto e non cercare di risolverlo secondo i valori dominanti del momento o secondo il suo personale metro di valori. Migranti. Il Consiglio d’Europa boccia l’Italia: “I Cpr in pessime condizioni” di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 14 dicembre 2024 Parziali e incomplete le informazioni ottenute dal Consiglio d’Europa, non risulta nessun trattamento sanitario improprio. I Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr) italiani così non vanno. Sono “non idonei” per le loro “pessime condizioni materiali, l’assenza di un regime di attività, l’approccio sproporzionato alla sicurezza, la qualità variabile dell’assistenza sanitaria e la mancanza di trasparenza da parte degli appaltatori privati”. La sfilza di violazioni e inadempienze delle strutture esistenti, così come il richiamo all’Italia a cambiare linea, arrivano dal Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale con sede a Strasburgo di cui fanno parte 46 Stati, il cui scopo è quello di promuovere diritti umani e democrazia. Il rapporto appena pubblicato è frutto della visita in Italia del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) dello stesso organismo internazionale. Lo scorso aprile, i membri del Comitato si sono recati in quattro dei nove Cpr attivi in Italia, ovvero quello di Via Corelli a Milano, Ponte Galeria e Roma, Palazzo San Gervaso e Potenza e Gradisca d’Isonzo. In numerosi casi, sono stati riscontrati casi di maltrattamenti e uso sproporzionato della forza da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei cittadini stranieri detenuti. Senza contare, come già documentato da numerose inchieste giornalistiche, l’uso massiccio e arbitrario di psicofarmaci con lo scopo di tranquillizzare le persone di fatto detenute dei Centri. I Cpr vengono così fotografati per quello che sono: buchi neri al di fuori del diritto e privi delle garanzie legali minime. E le preoccupazioni si estendono inevitabilmente all’applicazione extraterritoriale, come nel caso Albania. La replica da Roma non si è fatta attendere. Fonti del Viminale definiscono “parziali e incomplete” le informazioni ottenute dal Consiglio d’Europa, sottolineando come non risulta nessun trattamento sanitario improprio, compreso quello di psicofarmaci. Altraeconomia ha confrontato la spesa in farmaci effettuata dagli enti gestori dei Cpr con le stesse informazioni del Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio delle Asl che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno (un campione statistico raffrontabile con chi è nei centri): la spesa in psicofarmaci rappresenta lo 0,6% del totale, al Cpr di via Corelli a Milano è 160 volte più alta (il 64%), al Brunelleschi di Torino 110 (44%), a Roma 127,5 (51%). Il botta e risposta tra Strasburgo e Roma sembra un déja vu. Quando a fine ottobre il Consiglio d’Europa aveva pubblicato un rapporto di condanna contro le diffuse pratiche razziste da parte della polizia italiana, le reazioni non erano mancate. In difesa delle forze dell’ordine era intervenuto subito il ministro Piantedosi e qualche ora più tardi anche il presidente Mattarella. E pure Meloni: “Le nostre forze dell’ordine lavorano con dedizione e abnegazione per garantire la sicurezza di tutti i cittadini, senza distinzioni”. Chi parla invece di “vergogna nazionale a proposito dei Cpr è Angelo Bonelli, deputato di Avs, che annuncia la presentazione di un’interpellanza parlamentare per sollecitare la chiusura immediata dei Centri. “Ho chiesto un intervento diretto della presidente della Commissione europea von der Leyen, e del Commissario agli Affari Interni Brunner, affinché l’Ue sanzioni il governo italiano e ponga fine a questa reiterata violazione delle regole fondamentali di civiltà”, aggiunge l’eurodeputato Avs Leoluca Orlando. Anche i 5S puntano il dito contro il fallimento delle politiche migratorie di Meloni: “Altro, che modello da seguire, come Meloni diceva solo due mesi fa. Adesso l’Europa ci accusa di aver trasformato i Cpr in lager”. Migranti. “Psicofarmaci nell’acqua e violenze”: le accuse del Consiglio d’Europa ai Cpr italiani di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 14 dicembre 2024 Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura accusa le autorità di cattiva gestione dei centri, tra maltrattamenti fisici e abuso di medicinali nei confronti dei migranti. I Centri di permanenza per il rimpatrio italiani sono un buco nero. Maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza da parte del personale di polizia nei confronti delle persone trattenute. Diffusa somministrazione di psicofarmaci non prescritti per sedare chi si trova rinchiuso nelle strutture di detenzione amministrativa perché privo di un permesso di soggiorno. Centri che non dovrebbero avere un aspetto carcerario, e invece le loro “sbarre”, gli “schermi metallici alle finestre”, le “armature rinforzate”, i “cortili di passaggio simili a gabbie” li rendono assimilabili a “delle unità di detenzione che ospitano i detenuti in regime speciale”. Oltre alle inchieste giornalistiche pubblicate negli anni e alle testimonianze di chi ha passato mesi rinchiuso dentro a un Cpr, il pietoso stato delle strutture - che il governo Meloni vuole potenziare - è stato documentato in un report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa. Le conclusioni a cui arriva l’organismo fanno seguito alla visita di una delegazione in Italia, lo scorso aprile, in quattro Cpr: Milano, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Palazzo San Gervasio (Potenza) e Roma. I rilievi fatti dal comitato mettono in dubbio anche quello che l’esecutivo definisce “modello Albania”. I centri di Shengjin e Gjader, durante la visita degli osservatori del Consiglio d’Europa, erano ancora in costruzione. Ma per il Cpt “le pessime condizioni” di vita nei centri per i rimpatri, l’”assenza di un regime di attività”, “l’approccio sproporzionato alla sicurezza”, “la qualità variabile dell’assistenza sanitaria”, nonché la gestione affidata a operatori privati di queste strutture detentive e la mancanza di trasparenza, “mettono in discussione l’uso stesso di tale modello in Albania”. Per questo, il comitato ha raccomandato alle autorità italiane “di rivedere il funzionamento dell’attuale sistema dei Cpr, per assicurare che questi centri possano garantire” condizioni di vita dignitose e un trattamento rispettoso della loro dignità. Violenze e psicofarmaci - La maggior parte dei casi di maltrattamento fisico e uso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia è relativa alla gestione degli eventi critici, tra cui proteste, atti vandalici o tentativi di fuga. Le carenze sono molteplici per il comitato. “Assenza di qualsiasi monitoraggio rigoroso e indipendente di tali interventi” e “mancanza di una registrazione accurata delle lesioni subite dai trattenuti o di una valutazione oggettiva sulla loro origine”, si legge nel rapporto. Così come la pratica di trasportare cittadini stranieri, verso le strutture, “ammanettati in un veicolo della polizia, senza che venga offerto loro cibo e acqua durante tragitti di diverse ore, dovrebbe essere rivista”. Un’ulteriore prassi considerata critica dagli osservatori è la somministrazione di psicofarmaci non prescritti diluiti in acqua, come documentato nel Cpr di Potenza. Secondo la delegazione, le forze dell’ordine in tenuta antisommossa non sono adeguate a gestire la sicurezza all’interno dei Cpr. “C’è la necessità”, scrive, “di creare un corpo dedicato di agenti di custodia che siano adeguatamente formati sulle problematiche specifiche della sorveglianza delle persone trattenute nei centri di permanenza per migranti, in particolare per quanto riguarda le abilità relazionali e la capacità di riconoscere i sintomi di possibili reazioni da stress”. Condizioni di vita - La prefettura, responsabile legale dei centri, dovrebbe prestare attenzione alla freschezza e alle date di scadenza del cibo precotto somministrato, così come alle modalità di conservazione e ai bisogni alimentari delle persone detenute, sia per questioni culturali sia di salute. Il comitato sottolinea inoltre le criticità relative alle condizioni igienico-sanitarie e, più in generale, all’abbandono dei migranti all’interno dei Cpr con gli enti gestori che investono “solo sforzi minimi per offrire poche attività di natura mirata”. O, ancora, serve migliorare l’assistenza sanitaria, lo screening medico, l’accesso al diritto di difesa, il sistema di certificazione dell’idoneità alla vita in una comunità ristretta va rivisto. E devono essere “adottati protocolli clinici per la prevenzione del suicidio e la gestione degli scioperi della fame”. Di fronte a queste conclusioni il ministero dell’Interno ha attaccato il Consiglio d’Europa sostenendo che sia “un’istituzione estranea all’Unione europea”, cercando di minarne la legittimità. Non solo, al Viminale sostengono che il contenuto del rapporto sia basato “su informazioni parziali e incomplete, circostanza ancora una volta ricorrente nei suoi dossier”. A ottobre lo stesso organo era stato attaccato dal governo Meloni per aver accusato la polizia di compiere “profilazione razziale”. Migranti. Moussa non aveva assunto droga o alcol di Angiola Petronio Corriere di Verona, 14 dicembre 2024 Gli esami tossicologici sull’immigrato ucciso in stazione a Verona. E spunta un testimone. I risultati degli esami tossicologici. Quelli arrivati ieri mattina e che hanno sancito come Moussa Diarra il giorno in cui è stato ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente della Polfer davanti alla stazione di Porta Nuova, non fosse né sotto l’effetto di alcol né sotto quello di sostanze stupefacenti. E un testimone il cui racconto non combacia con la ricostruzione dei fatti finora fatta dalla procura. Sono le due novità nel caso del 26enne maliano. Quelli arrivati ieri mattina e che hanno sancito come Moussa Diarra il giorno in cui è stato ucciso da un colpo di pistola sparato da un agente della Polfer davanti alla stazione di Porta Nuova, non fosse nè sotto l’effetto di alcol nè sotto quello di sostanze stupefacenti. E un testimone che avrebbe assistito a tutte le fasi che hanno portato alla morte di Moussa e il cui racconto non combacia con la ricostruzione dei fatti finora fatta dalla procura. Testimone che le due avvocate della famiglia di Moussa - Paola Malavolta e Francesca Campostrini - hanno chiesto venga sentito dagli inquirenti. Sono altri due pezzi che si aggiungono a quello che è il puzzle sulla morte, lo scorso 20 ottobre, di quel ragazzo maliano di cui rimane un altare laico davanti alla stazione. Era lì anche ieri, suo fratello Djemagan. E come ogni volta piangeva guardando le foto di Moussa, i lumini, le poesie, i messaggi, i fiori e quei manifesti attraverso cui si chiede a chi ha assistito alla sua morte di farsi avanti. Quell’altare laico davanti al quale si è radunata una trentina di persone con il comitato “Verità e giustizia per Moussa”, dopo il comunicato di giovedì nel quale il procuratore capo Raffaele Tito ha fatto il punto sulle riprese delle telecamere. Una, indirizzata sul piazzale della stazione che ha ripreso il momento di uno dei tre spari. Altre due, lontane dell’area, che hanno comunque registrato la sequela dei colpi e la caduta a terra di Moussa. E una telecamera all’interno della stazione che “pur apparentemente funzionando - le parole del procuratore - non ha però registrato immagini”. “Siamo qui ancora una volta per chiedere verità e giustizia con forza per Moussa - è stato detto ieri -. Abbiamo visto il comunicato della procura, dopo le numerose richieste e incontri degli avvocati, le prese di posizione delle varie associazioni e del comitato che chiedono i filmati, per avere gli atti e perché i periti di parte possano svolgere il proprio lavoro e venga ricostruita la verità dei fatti. Due dei colpi sparati erano ad altezza d’uomo e uno ha colpito Moussa al cuore. Se le telecamere, come dovrebbe essere, non possono e non dovrebbero essere state manipolate non vediamo perché fare mistero di questi video. La procura dice che la telecamera all’interno, quella che avrebbe dovuto aver ripreso Moussa che scappava e la polizia che lo rincorreva, funzionava ma non ha registrato le immagini. Cosa vuol dire? Sollecitiamo le autorità a un’indagine pubblica e trasparente per non arrivare a pensare a una manipolazione di quelle telecamere. Per questo vogliamo che siano affidate ai periti. Nel comunicato si dice che le immagini sono state mandate alla polizia scientifica di Padova. Perché, ci chiediamo, alla visione di quei filmati non può partecipare anche il perito di parte nominato dalla famiglia di Moussa. Tutte queste dinamiche ci lasciano perplessi e sollevano molti dubbi”. È tornata sui risultati degli esami tossicologici, la piazza di ieri. Quelli svolti su Moussa ma non - come richiesto da più parti - sull’agente che ha sparato. All’appello mancano i riscontri farmacologici, che potrebbero risultare positivi visto che Moussa assumeva degli psicofarmaci per la sua depressione. Quella che gli ha scatenato la crisi psicotica in quella domenica mattina di ottobre. “Moussa cercava aiuto, erano due ore che girava dentro la stazione e nelle zone limitrofe in uno stato di alterazione psicologica e nessuno, dalla polizia locale alla Polfer ha chiamato un’ambulanza”. Davanti a quell’altare con Djemagan anche i rappresentanti della comunità maliana. “Stiamo facendo di tutto per avere la verità sulla morte di Moussa, sulla violazione dei suoi diritti”. Con suo fratello che è tornato a chiedere verità e giustizia. La chiusa è stata dello psichiatra Carlo Piazza, presidente dell’Osservatorio di Comunità. “Nel comunicato della procura c’è scritto che “il decesso (di Moussa, ndr) è avvenuto pacificamente all’esterno dell’immobile verso le 7-7,10 del mattino”. Quel “pacificamente” ha il sapore della presa in giro, visto che è stato ammazzato a colpi di pistola”. E poi la stilettata a Palazzo Barbieri: “Questa amministrazione è Tommasiana o Tosiana? Qui c’è ancora il Daspo per i senza dimora e la “città dell’amore” è in realtà una città che non accoglie. Una città che Moussa lo ha considerato solo come un “disturbo”“. Migranti. Paesi sicuri, la Corte Ue: “Nessuna urgenza” di Vincenzo Brunelli Corriere Fiorentino, 14 dicembre 2024 Respinta la richiesta avanzata dai giudici di Firenze di una decisione “accelerata” sulla lista. Prima risposta negativa da parte della Corte di Giustizia Europea al Tribunale di Firenze sulla lista governativa dei “Paesi sicuri”. Non ci sarà nessun procedimento d’urgenza come era stato richiesto dai giudici fiorentini ma si dovrà attendere il normale iter della corte lussemburghese. Questa la prima decisione della Corte di Giustizia sul caso sollevato nei mesi scorsi dal Tribunale di Firenze che riguardava alcuni cittadini ivoriani a cui la commissione territoriale aveva negato asilo e protezione. I cittadini della Costa d’Avorio avevano impugnato il diniego ministeriale in Tribunale e i giudici fiorentini avevano chiesto lumi alla Corte di Giustizia, chiedendo il cosiddetto “procedimento accelerato” per definire la questione. “Le domande del Tribunale di Firenze volte a che le cause vengano sottoposte al procedimento accelerato, sono respinte”. Per i giudici europei mancano i criteri d’urgenza per accedere alle procedure di definizione del contenzioso in modo “rapido”, perché manca ancora una decisione definitiva della magistratura italiana (si era solo al primo grado di giudizio) e l’elevato numero di vicende sospese in attesa di una pronuncia della Corte di Giustizia non giustifica l’adozione del procedimento accelerato. Infine, sempre secondo i giudici europei, le decisioni di allontanamento dall’Italia, nei confronti dei cittadini ivoriani che hanno fatto causa, nei procedimenti giudiziari principali, sono state sospese proprio in attesa di una sentenza definitiva e questo “depone a sfavore dell’applicazione del procedimento accelerato”. Oggetto della discordia è la lista dei “Paesi sicuri” che viene aggiornata ogni anno dalla Farnesina e che è alla base delle scelte italiane sulle varie richieste di asilo e protezione da parte di cittadini stranieri. Se un Paese è considerato sicuro sarà molto difficile ottenerle, e si può essere rimpatriati d’urgenza. L’ultimo elenco della Farnesina risale a maggio scorso e qualche settimana dopo erano arrivati sul tavolo dei giudici fiorentini i due ricorsi dei cittadini ivoriani. In entrambi i casi la Commissione territoriale, di prima istanza, aveva negato loro la richiesta di protezione internazionale, proprio perché i loro rispettivi Paesi d’origine sono presenti nell’elenco dei 25 ritenuti sicuri dal Governo nel 2024, e i migranti avevano deciso di impugnare le decisioni Il Tribunale di Firenze, dopo aver analizzato i ricorsi, era giunto alla conclusione che ci fosse bisogno un “parere superiore” da parte della Corte di Giustizia Europea per fare chiarezza sui criteri da adottare per certificare se un Paese sia sicuro o meno, e creare uniformità di giudizio nei vari Tribunali per questioni simili. Questo perché, ad esempio, in Costa d’Avorio, secondo il Tribunale di Firenze, troppe persone sono a rischio, tra appartenenti alla comunità Lgbtq+, giornalisti, albini e disabili. Migranti. Caso Albania, blitz di Schlein nel Centro di Gjader: “Spreco da 800 milioni che fa male” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 14 dicembre 2024 La segretaria del Pd Elly Schlein è arrivata nel pomeriggio al centro migranti di Gjader, in Albania, “una cattedrale nel deserto” non ha esitato a definirla la segretaria del Pd che le immagini di quel centro le ha poi postate su Instagram, a confermare la sua avvilente metafora. Lo ricordiamo: quel centro è frutto di un accordo tra il nostro governo e il governo albanese, un protocollo siglato nel novembre 2023 per ospitare i migranti che arrivano sul nostro territorio. “Per adesso le navi hanno trasportato avanti e indietro prima 16 persone e poi 8. E ogni viaggio è costato 250 mila euro”, ricorda anche Schlein che ieri ha visitato pure il centro di Shengjin. Durante la trasferta albanese la segretaria del Pd ha scoperto che i lavori nel centro di Gjader stanno continuando. Spiega: “L’intento è di arrivare ad ospitare 1.040 persone con il rischio di non arrivare ad ospitarne nemmeno una. Stiamo aspettando la decisione della Corte di Giustizia europea che non arriverà mai a smentire sé stessa. Una decisione che noi avevamo previsto e che i giudici italiani hanno applicato correttamente”. Già da tempo l’opposizione aveva stimato che per i centri e per i viaggi il governo italiano aveva speso 800 milioni. Schlein ieri ha aggiunto altri calcoli: “Con quei soldi si potevano costruire 50 mila nuovi posti negli asili nido. Oppure assumere 7 mila insegnanti a fronte del fatto che nella manovra di quest’anno sono stati tagliati 5.660 posti. Tutto questo perché il governo si ostina a mettere la sua bandiera della propaganda: la pianta sulla pelle degli italiani”. Sempre ieri Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ha voluto confermare la validità dell’accordo. Ha detto infatti: “Quello dei centri in Albania è ancora un discorso in corso d’opera e certamente si realizzeranno per come sono stati immaginati”. Intanto il Consiglio d’Europa ha reso noto un rapporto dove vengono bocciati i Cpr, i Centri per i rimpatri in Italia. È stato il Cpt, l’organo anti tortura del Consiglio d’Europa, a definire i Cpr “non idonei”. E questa definizione sembra senza appello, perlomeno a leggere i rilievi sollevati. Scrive il Cpt: “Ci sono pessime condizioni materiali, assenza di un regime di attività, approccio sproporzionato alla sicurezza, qualità variabile dell’assistenza sanitaria e mancanza di trasparenza da parte degli appaltatori privati”. L’analisi del Cpt è stata fatta su 9 centri visitati nell’aprile scorso. Ma il Viminale respinge le accuse. Sono fonti del ministero che sostengono che il rapporto del Cpt è “basato su informazioni parziali e incomplete”. L’accusa più forte del Comitato europeo riguarda i maltrattamenti e la sedazione dei migranti con psicofarmaci. Ma le fonti del Viminale respingono anche questa, sostenendo che non risulterebbe nessuna somministrazione impropria di farmaci. Andrea Crippa della Lega rilancia: “Nei Cpr finiscono migranti irregolari, con priorità per quelli pericolosi, che nel caso potrebbero lasciare i centri in pochi giorni, se solo accettassero il rimpatrio. Ma la sinistra vorrebbe chiudere questi centri perché preferisce lasciarli a spasso”.