Vi racconto i miei 27 anni in carcere. Da volontaria di Ilaria Dioguardi vita.it, 13 dicembre 2024 Ornella Favero dirige dal 1997 la rivista della Casa di reclusione di Padova “Ristretti Orizzonti” ed è presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia. “La prima motivazione nel fare volontariato in carcere è la curiosità per una realtà che non avrei mai conosciuto, che ruota tutta intorno a come si può arrivare a fare il male”. “Sono volontaria in carcere da 27 anni: un ergastolo”, dice, in modo scherzoso, Ornella Favero, giornalista, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, fondatrice e direttrice dal 1997 della rivista della Casa di reclusione di Padova Ristretti Orizzonti. Favero, come ha iniziato il volontariato in carcere? Ho iniziato un po’ casualmente, ci insegnava mia sorella che mi ha invitato un giorno (ero già giornalista) a fare un paio di lezioni sulla comunicazione alle sue classi. Un gruppo di detenuti mi disse che non si ritrovavano nei quotidiani per come venivano descritti, per come si parla del carcere o dei reati. Mi chiesero di fare insieme un foglio di informazione, un bollettino. Da lì è nata l’idea di fare Ristretti Orizzonti, una vera sfida. Qual è stata la sfida? La sfida è stata quella di non fare un giornalino. In carcere i diminutivi impazzano, è tutto infantilizzato, finisce tutto con la desinenza -ino (ad esempio, la “domandina”, appellativo della richiesta di un detenuto). Il mio ha la dignità di un giornale, di una rivista, di livello più che buono. La sfida è stata subito quella di lavorare sulla qualità, di non pensare che un prodotto, poiché fatto da detenuti, potesse avere un livello non alto. Quali sono le sue motivazioni per fare volontariato in carcere? Io credo che sono tante le motivazioni. La prima è la curiosità per una realtà che non avrei mai conosciuto, che ruota tutta intorno a come si può arrivare a fare il male. È un tema che mi appassiona, quello di capire come una persona possa arrivare a passare sopra a tutto anche alla sua famiglia, quali leve possono spingerla e che cosa può far tornare a recuperare l’umanità di queste persone. Poi io ho sempre avuto un interesse nell’ambito sociale, lì ci misuriamo con tanti temi perché si ha a che fare con soggetti molto difficili. C’è tutto il tema della violenza. Il convegno che faremo, nella Casa circondariale di Padova con Ristretti Orizzonti, come ogni anno, a maggio, nel 2025 avrà il titolo “Disinnescare”. Perché questo titolo? Perché tuttora le carceri sono bombe a orologeria. Una delle mie motivazioni è portare la passione per il sociale in una situazione anomala, che non è esattamente quella a cui siamo abituati, con situazioni in cui si va a fare volontariato perché ci sono soggetti che ne hanno bisogno. Il carcere è un mondo complesso in cui si ha a che fare con tutti i soggetti, sia con il detenuto (la persona che fa, che agisce il male), sia con i familiari che sono assolutamente innocenti e che subiscono. È una realtà complessa che richiede un intervento di volontariato diverso. Io diffido di qualsiasi tipo di volontariato individuale per il carcere, da responsabile del volontariato nazionale. Noi stiamo rivendicando come volontariato un’autonomia. In che modo la rivendicate? Rivendichiamo il fatto di poter avere un ruolo nel percorso della persona detenuta. Nonostante ci troviamo in un’istituzione chiusa, crediamo che questo non possa essere un pretesto per far dipendere i volontari completamente dall’amministrazione. Noi diciamo che vogliamo avere la nostra autonomia, ovviamente rispettando tutti i problemi di sicurezza, ma la sicurezza tante volte diventa un alibi. La sfida è anche quella dell’avere un’autonomia, nonostante ci si trovi in un’istituzione totale, il che non giustifica un volontariato “zerbino” dell’amministrazione. Come il volontariato in carcere dovrebbe essere più autonomo? Rivendichiamo un’autonomia nella gestione, per esempio, delle attività nella partecipazione, nell’essere parte del progetto d’istituto, nell’essere coinvolti come associazioni. La persona detenuta viene seguita da vari operatori e partecipa alle attività. Dopo un certo periodo di tempo che è in un carcere, viene fatta la sintesi da un’équipe, composta dal direttore, dall’educatore, dallo psicologo, da un rappresentante della Polizia penitenziaria. Quello su cui noi puntiamo molto è che, prima dell’èquipe, dovrebbe essere indetto un Got. Cos’è un Got? Un Gruppo di osservazione e trattamento, in cui si parla di ogni singolo detenuto. Vuol dire che, per esempio, quando si parla di un momento così delicato come il passaggio dal dentro al fuori, l’inizio di un percorso che prevede l’uscita dal carcere, il volontario ha la possibilità di dire la sua. Un Got prevede la partecipazione non solo degli operatori istituzionali, ma di tutti gli operatori che seguono un detenuto. Ad esempio, se il detenuto va a scuola e fa parte della redazione di Ristretti Orizzonti, del Got dovremmo fare parte sia l’insegnante sia io. Lo sguardo, il percorso verso l’esterno, il ritenere la persona pronta per iniziare a uscire viene molto ampliato con operatori della società civile. Noi portiamo spesso punti di vista di apertura, di sostegno a un nuovo inizio: la scalata alla libertà è fondamentale in carcere. Il ruolo del volontariato in questa scalata può essere molto importante perché noi le persone le vediamo e le conosciamo tanto. Io le persone detenute vedo anche come stanno insieme nel gruppo, se si mettono in discussione. Quanti siete voi volontari nelle carceri italiane? Sono tantissimi anni che non viene fatta una indagine seria sul volontariato in carcere. Non c’è nessun dato. Si parlava di circa 9mila persone, in una vecchia ricerca fatta nel 2008. Se si facesse adesso penso che i numeri, dopo il Covid, siano molto diminuiti. La pandemia ha costituito un momento difficile anche per il volontariato. Ci sono volontari di tutte le età in carcere, molte persone anziane che facevano volontariato da tanti anni si sono un po’ spaventati con il Covid, che ha segnato un momento di grossa crisi. Adesso non è un momento facile perché la crisi è rispetto all’arretramento dell’idea che la società ha del carcere, che secondo me si traduce anche in difficoltà molto più consistenti a fare volontariato in questa realtà. È recente la notizia di una suora, agli arresti domiciliari, indagata a Brescia per concorso esterno, con l’accusa di garantire “il collegamento con i sodali detenuti in carcere agendo come intermediaria”. Vedendo questo fatto di cronaca, secondo lei c’è il rischio che un’attività di volontariato in carcere possa portare al rischio di un “collante” tra il dentro e il fuori, anche in modo inconsapevole? Questo è il motivo per cui io dico sempre “no” al volontariato individuale. Vedo la possibilità di ingenuità. Se si è in un’associazione, c’è la garanzia, secondo me, che queste cose non avvengono. Intanto le associazioni danno molto spazio alla formazione, hanno anche dei professionisti che fanno volontariato in carcere. Però, a parte gli specialisti, l’importante è che tutti i volontari siano formati e si aggiornino, è un lavoro serio. Questo, a mio avviso, mette anche al riparo da possibili rischi di ingenuità. Può esserci stata, in quel caso di cronaca, qualche ingenuità. Ci vuole attenzione e non accettare i volontari singoli, l’appartenenza a un’associazione è una garanzia di un approccio più professionale. Ministero della giustizia e Terzo settore, più collaborazione sul carcere vita, 13 dicembre 2024 Fondazione Con il Sud e l’Impresa sociale Con i Bambini hanno stipulato oggi due Protocolli d’intesa con i Dipartimenti dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e della Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC) del ministero della Giustizia. A firmare l’intesa c’erano il capo del DAP Giovanni Russo, dal capo del DGMC Antonio Sangermano, il presidente della Fondazione Con il Sud Stefano Consiglio e il presidente di Con i Bambini Marco Rossi-Doria. Attraverso i due protocolli si intende rafforzare la collaborazione istituzionale tra i due dipartimenti del ministero della Giustizia e i due enti già impegnati attivamente nel sostegno a progetti per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, a percorsi di contrasto alla devianza minorile e per la promozione dei diritti dei minori con genitori detenuti. Entrambi i Protocolli regolano una collaborazione tra le parti finalizzata alla reintegrazione sociale dei detenuti e dei minori autori di reato attraverso la promozione di interventi di supporto psico-pedagogico, della formazione professionale e di opportunità di inserimento nel mondo del lavoro all’interno degli istituti penitenziari o alle dipendenze di soggetti esterni, nonché tramite l’accesso a misure alternative alla detenzione, ai lavori di pubblica utilità e alla messa alla prova. Viene, tra l’altro, sottoscritto l’impegno comune a sostenere gli enti di Terzo settore che contribuiscono, dentro e fuori gli istituti penitenziari, a creare percorsi e opportunità per l’inclusione sociale delle persone detenute, soprattutto, per chi è prossimo alla fine della pena. Priorità numero uno, il lavorare - “La collaborazione con le istituzioni e in particolare con i due dipartimenti del ministero della Giustizia è stata ed è fondamentale per realizzare progetti efficaci e di impatto”, ha sottolineato Stefano Consiglio. “I due protocolli siglati rappresentano un significativo passo avanti, per rafforzare e consolidare questo percorso condiviso, ormai maturo, che ha già portato risultati importanti. Il lavoro sappiamo che restituisce dignità al tempo trascorso in carcere ed è l’elemento principale che abbatte le percentuali di recidive, da quasi il 70% dei casi tra chi non lavora al 2% tra chi ha vissuto un’esperienza lavorativa. È una seconda opportunità che dovremmo estendere ad una platea sempre più ampia di persone”. Fondazione CON IL SUD, in linea con il principio di dare piena attuazione alla finalità rieducativa della pena, sostiene percorsi di reinserimento sociale di persone in esecuzione penale attraverso attività di formazione, rafforzamento delle competenze e inserimento lavorativo. Su questa tematica la Fondazione ha recentemente promosso la terza edizione del bando “Evado a lavorare”, che stanzia 3 milioni di euro, oltre a diverse iniziative sostenute in collaborazione con altri enti cofinanziatori. Figli di detenuti e criminalità minorile - “Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile ha il compito di avviare sperimentazioni per poi fornire modelli di intervento e indicazioni utili per policy pubbliche più attente e lungimiranti. I due protocolli di intesa siglati oggi vanno in questa direzione e offrono opportunità concrete di cambiamento”, ha dichiarato il presidente di Con i Bambini Marco Rossi-Doria. “Il grande lavoro avviato nei tanti cantieri educativi in tutta Italia, insieme a centinaia di organizzazioni del Terzo settore e istituzioni pubbliche, che ha coinvolto migliaia di ragazzi e ragazze interessati dall’area del penale o genitori detenuti, dimostra come sia necessario ampliare e rafforzare le alleanze educative, perché restituendo dignità a padri e madri detenuti e garantendo una crescita possibilmente meno traumatica a figli minori senza colpe, oppure offrendo opportunità e alternative valide a giovani e gruppi di ragazzi sottoposti a procedimenti penali, si sta indicando un percorso di crescita all’intero Paese. Il protocollo siglato tre anni fa ha dato un contributo importante nel definire modelli innovativi che oggi, con questa nuova intesa, potranno avere nuovo slancio”. Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, attraverso il bando “Cambio rotta”, ha selezionato 17 progetti presentati da enti del Terzo settore presenti in tutto il territorio nazionale, sostenuti complessivamente con 14,5 milioni di euro, che hanno oltre 2mila minori e giovani adulti autori di reato. Con il bando “Liberi di crescere” ha inoltre selezionato 18 progetti, sostenuti con 10 milioni di euro, per la promozione dei diritti dei minori con genitori detenuti. “Rieducazione zero”: l’addio sofferto di uno psicologo del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 dicembre 2024 Ridotto senza spazi e risorse, Vito Michele Cornacchia lascia l’istituto di Lucca lanciando un grido d’allarme sulle condizioni in cui sono costretti a lavorare i professionisti. È una amara notizia che offre uno spaccato relativo al mondo del trattamento penitenziario. Lo psicologo Vito Michele Cornacchia, dalla Casa Circondariale di Lucca, rende noto a Il Dubbio delle sue dimissioni. Una decisione sofferta ma inevitabile, dettata da un contesto lavorativo che, a detta del professionista, si sarebbe progressivamente deteriorato sino a compromettere la dignità personale e la qualità del servizio. Cornacchia, psicologo e psicoterapeuta con una carriera di quasi tre decenni alle spalle, ha denunciato una lunga serie di episodi che avrebbero reso insostenibile il proseguimento del suo incarico. In una lettera accorata indirizzata ai colleghi, il professionista ha raccontato come il suo ufficio sia stato sottratto e riconvertito senza preavviso, costringendolo a lavorare in spazi inadeguati, spesso “accampato” presso postazioni altrui e privato degli strumenti fondamentali per lo svolgimento delle sue attività. I materiali accumulati in anni di lavoro sarebbero stati spostati in maniera arbitraria, un gesto che il professionista ha descritto come un “attacco alla sua professionalità”. L’assenza di uno spazio dedicato avrebbe inciso profondamente sulla qualità dei colloqui con i detenuti, che necessitano di un ambiente protetto e riservato per esprimere il proprio disagio. Le umiliazioni sarebbero state ulteriormente aggravate dall’imposizione di orari rigidi, che lo obbligavano a interrompere il lavoro alle 18, anche in situazioni critiche come colloqui con soggetti a rischio suicidario. Il ruolo cruciale degli psicologi in carcere - Il caso di Cornacchia solleva interrogativi fondamentali sull’importanza del sostegno psicologico nelle carceri. Il trattamento rieducativo, pilastro del sistema penitenziario italiano secondo l’articolo 27 della Costituzione, si basa anche sull’intervento di figure specializzate come gli psicologi. Non solo valutano la probabilità che un soggetto possa mettere in pratica atti autolesivi o essere coinvolto in episodi di violenza, ma osservano e studiano il detenuto per formulare indicazioni relative al trattamento rieducativo, che viene integrato o modificato in base alle esigenze emergenti. Dato che, secondo la norma giuridica, l’obiettivo della detenzione è il miglioramento delle problematiche che hanno esacerbato la devianza, lo psicologo stabilisce obiettivi precisi e personalizzati per ogni detenuto, condividendoli con loro stessi. Il sostegno psicologico si rivela quindi fondamentale in questo contesto, contribuendo anche al miglioramento della vita carceraria grazie all’esperienza nella gestione di gruppi, all’aggiornamento del personale carcerario sulle migliori pratiche di recupero e rieducazione e, soprattutto, alla tutela della salute dei detenuti. La riduzione degli spazi e delle risorse dedicate a questi professionisti rappresenta un grave passo indietro in un momento in cui l’allarme sui suicidi in carcere è ai massimi livelli. Quest’anno il nostro sistema penitenziario ha registrato un numero record di suicidi, mettendo in evidenza la necessità di incrementare i servizi di supporto psicologico. Il caso Lucca: il grido di allarme del professionista - Le difficoltà incontrate da Cornacchia non sarebbero un caso isolato ma si inserirebbero in un quadro più ampio di criticità che riguardano tutte le carceri del nostro Paese. La gestione della Casa Circondariale di Lucca sembra riflettere un modello organizzativo orientato più alla gerarchizzazione e alla burocrazia che alla centralità del detenuto. Questo approccio minerebbe i principi di umanità e rieducazione che dovrebbero guidare l’operato penitenziario. La decisione di sottrarre lo spazio dedicato allo psicologo per destinarlo alla registrazione dei nuovi giunti sarebbe emblematica di questa deriva. Come sottolineato da Cornacchia nella sua lettera al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Toscana, il sacrificio di uno spazio cruciale per il trattamento psicologico sarebbe stato giustificato da priorità organizzative che sembrerebbero ignorare le esigenze più profonde dei detenuti. Le parole di Cornacchia sono un monito. “È la prima volta in tutta la mia carriera che rilevo un modus operandi caratterizzato da una così spiccata gerarchizzazione verticale, che sminuisce la figura dello psicologo fino a renderlo un “saltimbanco del trattamento”, ha scritto nella sua missiva. La sua denuncia pone l’accento sulla necessità di ripensare l’organizzazione dei servizi nelle carceri, ridando dignità e spazio alle figure professionali che vi operano. Meno crimini violenti ma più ergastoli: i conti non tornano di Daniele Livreri* Il Dubbio, 13 dicembre 2024 Pene inasprite senza una reale giustificazione. dal 2000 al 2019, il carcere a vita è aumentato del 2.938%, nonostante il tasso di omicidi resti tra i più bassi d’Europa. Qualche giorno fa Il Dubbio ha rilanciato, meritoriamente, i dati riportati dal professor Davide Galliani in ordine alla “esplosione” (l’espressione è ripresa dal libro) del numero degli ergastoli comminati in Italia dal 2000 al 2019, rispetto a quelli irrogati tra il 1955 e il 1974: mentre in quest’ultimo arco temporale le pene perpetue inflitte erano in media pari a 4,5 per anno, dal 2000 al 2019 il numero medio annuale di pene perpetue è stato di 138,5. Da 4,5 a 138,5 in ragione di anno: un incremento del 2.938%. Eppure l’autore evidenziava come tale incremento non potesse giustificarsi sulla scorta di quello degli omicidi volontari, pari ad “appena” il 12.5%. Sebbene il confronto potrebbe essere ampliato anche ai 19 anni compresi tra il 1975 e il 1994, in cui ricadono eventi particolarmente efferati come la strage di Via Fani o quelle commesse dalla mafia, l’esito di tale comparazione avrebbe un valore soltanto statistico, posto che resta fermo il senso della osservazione del professor Galliani: a fronte di un numero di omicidi sostanzialmente comparabili, gli anni più recenti hanno fatto registrare un sensazionale incremento degli ergastoli. Nondimeno il numero di pene perpetue irrogate nel nostro paese, ogni 100.000 abitanti, resta lontano da quello britannico (2,5 contro 13.41), tenendo però presente che in Gran Bretagna la risposta punitiva è largamente di tipo pecuniario. (I dati menzionati sono riportati nel volume “Ergastolo e diritto alla speranza”, pag. 321 e poi a pag. 365). A confortare la tesi secondo cui l’incremento della pena detentiva a vita non è giustificato dalla crescita dei “fatti di sangue” si può ricorrere ai numeri recentemente riportati dall’Istat. Infatti, secondo il report dell’Istat, l’Italia nel 2022 ha fatto registrare il più basso tasso di omicidi tra i paesi dell’Ue. Al riguardo l’Istituto di statistica ha considerato che “la media Ue del tasso di omicidi per 100 mila abitanti nell’anno 2022 (ultimo anno disponibile) è 0,9 omicidi per 100 mila abitanti. L’Italia dei 26 Paesi che rendono disponibili i dati per questo anno è quello che presenta la più bassa diffusione del fenomeno (0,55) prima di Slovenia, Spagna e Polonia (rispettivamente 0,62, 0,69 e 0,72 omicidi per 100 mila abitanti). Al polo opposto si trovano i Paesi baltici, Lussemburgo e Malta, con tassi che vanno dal 3,57 della Lettonia all’ 1,50 omicidi per 100mila abitanti dell’Estonia”. Non si tratta di un’anomalia statistica, per come si può evincere consultando la serie storica dal 2014 al 2022, pubblicata sul sito di Eurostat, da cui risulta che il nostro paese è costantemente tra quelli con un tasso di omicidi tra i più bassi. Deve però osservarsi che la lettura complessiva dei dati forniti dall’Istat consente di rilevare un aumento, per l’anno 2023, della percentuale di omicidi volontari, commessi nel nostro paese, pari al 4 %, tuttavia difetta una comparazione con i dati europei, non disponibili. Inoltre è opportuno sottolineare che tale aumento non riguarda vittime di genere femminile, come potrebbe far ritenere la più recente cronaca. Invero “l’aumento ha riguardato soltanto le vittime di sesso maschile (+ 10,7% rispetto al 2022), mentre le donne uccise sono diminuite (- 7,1%)”. Più in generale, con riferimento a tale tema, il nostro paese è uno di quelli in cui il tasso di omicidi a danno di persone di genere femminile risulta tra i più bassi, per come si coglie dai dati riportati da Eurostat dal 2014 in poi. Altro aspetto, ovviamente, è quello offerto dalla lettura disaggregata del dato inerente la tipologia di autore degli omicidi delle donne. In tal caso il nostro paese fa registrare una marcata presenza di autori quali partner ed ex partner, con una significativa diminuzione però dal 2020 al 2023 dei primi e un aumento dei secondi (dati Istat, per una più ampia prospettiva dati Unodc). In sintesi, come già altre volte abbiamo sostenuto in questo blog, in Italia si assiste ad un mutamento culturale volto a inasprire la risposta punitiva, in particolare detentiva, senza che vi sia un aumento dei reati più gravi. *Avvocato della Camera penale di Trapani Dal 1992 ad oggi 30mila ingiustizie. Ma quasi tutte restano impunite di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 13 dicembre 2024 Lo Stato ha già speso 800mila euro per ingiuste detenzioni. Ma richiedere un risarcimento è un percorso ad ostacoli, e a “pagare” non sono mai le toghe. Avvicinandosi la fine dell’anno, al ministero della Giustizia sono già iniziati i conteggi riguardo le somme pagate dallo Stato per i casi di errori giudiziari e di ingiuste detenzioni. La cifra finale, come accade sempre, non dovrà trarre in inganno in quanto circa il 90 per cento delle ingiuste detenzioni non viene risarcito sulla base del presupposto che l’arrestato ha, con la propria condotta, “contribuito” colposamente all’errore del giudice. La normativa in questione ha paletti molti stringenti e sembra essere fatta proprio per “scoraggiare” il più possibile le richieste di risarcimenti ed evitare così spese aggiuntive per le mai floride casse dello Stato. La cifra prevista per ogni giorno trascorso dietro le sbarre è fissata in 250 euro. Cifra che ovviamente diminuisce in caso l’ingiusta detenzione sia stata patita agli arresti domiciliari. Per poter fare domanda di risarcimento, ed il punto nodale, serve una sentenza definitiva di assoluzione con “formula piena”. Ed è questo il motivo per cui ad oggi, per fare un esempio, Beniamino Zuncheddu, pur avendo trascorso oltre 30 anni in carcere da innocente, non ha ancora ricevuto un euro. Se il reato contestato si è poi prescritto prima, come capita spesso, il periodo trascorso in custodia cautelare non potrà mai essere risarcito. Una vera beffa. In attesa allora dei dati di via Arenula, salvo improbabili sorprese, anche nel 2023 è sicuro che si confermerà il trend degli anni precedenti. E dunque una “inclinazione” dello Stato a limitare il più possibile gli indennizzi. Lo scorso anno proprio dal ministero della Giustizia avevano fatto sapere che gli oneri dell’equa riparazione per ingiusta detenzione erano alquanto pesanti. Non stupisce pertanto che le Corti d’Appello, competenti nella materia risarcitoria, respingano la stragrande maggioranza delle istanze presentate per ottenere un risarcimento. Un modo di agire che allarga di anno in anno la platea dei cosiddetti “innocenti invisibili”, le persone finite in carcere da innocenti ma non indennizzate. Prendendo il 1992 come anno di riferimento per il calcolo dei risarcimenti, ad oggi sono circa 30mila le persone che, arrestate ingiustamente, sono state risarcite per una cifra complessiva che supera di molto gli 800 milioni di euro. Un aspetto, poi, che non può non essere tenuto in considerazione quando si tratta di risarcimenti per ingiuste detenzioni riguarda la pressoché totale assenza di sanzioni nei confronti dei magistrati che hanno arrestato degli innocenti. Malgrado la media delle persone indennizzate rimanga, pur con tutti i limiti indicati, comunque alta, negli ultimi cinque anni non sono state avviate sanzioni disciplinari nei confronti di questi magistrati. Va infine ricordato che fino al 2017 non esisteva una norma che obbligasse l’esecutivo ad indicare il numero di persone sottoposte al carcere preventivo, quindi senza alcuna sentenza di condanna. Il legislatore, solo con la riforma delle misure cautelari del 2017, ha infatti previsto che nella relazione che il governo deve presentare annualmente al Parlamento sull’applicazione delle misure cautelari personali si debba dare conto dei dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione pronunciate nell’anno precedente, con specificazione delle ragioni di accoglimento delle domande e dell’entità delle riparazioni, nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi. Insomma, la strada è lunga e tutta in salita. La “legge Costa” attua l’articolo 27: come può essere dichiarata incostituzionale? di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 13 dicembre 2024 Lunedì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo nato dall’emendamento del collega e deputato Enrico Costa. Secondo quanto ribadito dal governo, tali interventi sono giustificati per garantire il diritto al rispetto della vita privata, il rispetto della riservatezza della corrispondenza delle comunicazioni e la presunzione d’innocenza. Non arrecherebbero alcun pregiudizio né alla libertà di stampa né alla libertà d’informazione, poiché il divieto di pubblicazione sarebbe limitato, nel tempo, alla fase delle indagini preliminari e non impedirebbe in ogni caso ai giornalisti di parafrasare o riassumere il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare. I portatori di interesse, riferisce sempre la relazione, hanno espresso preoccupazione in merito alle misure previste dall’emendamento Costa che potrebbero creare un effetto dissuasivo per i giornalisti, esponendoli a un rischio maggiore di eventuali querele per diffamazione in caso di sintesi o riformulazioni errate delle ordinanze di custodia cautelare. Preoccupazioni sterili, a parere di chi scrive, considerato per esempio che le intercettazioni spesso richiamate, seppure relativamente ai brani essenziali, nelle ordinanze sono state oggetto di un progressivo mutamento ontologico: da mezzo (ausiliario) di ricerca della prova a vero e proprio mezzo di prova. Sono state anche impiegate per un numero sempre più vertiginoso di fattispecie di reati: l’emendamento Costa, come già ribadito, si poneva - fin dal suo inserimento nella legge delega appena attuata dall’Esecutivo - come l’inevitabile “toppa”, piuttosto che come il “bavaglio”, per la tutela dei soggetti sottoposti a indagine, nonché per la tutela di soggetti del tutto estranei alle stesse, i quali, di colpo, vedono comparire del tutto sine titulo il loro nome o quello di familiari sui quotidiani. In virtù dell’emendamento alla legge di delegazione europea 2022- 2023, il governo era dunque tenuto a osservare (articolo 4, paragrafo 3 di quella legge, la 15 del 2024) un principio e criterio direttivo specifico, ovvero l’adozione di misure volte a vietare la pubblicazione, integrale o per estratto, del testo delle ordinanze di custodia cautelare fino al termine delle indagini preliminari. Tale delega, com’è noto, è stata esercitata dal governo, che il 9 settembre 2024 aveva trasmesso alle Camere uno schema di decreto legislativo su cui sono stati espressi i relativi pareri dalle commissioni competenti. Lo schema di decreto si componeva di 3 articoli ed era volto a garantire una più precisa e completa conformità del nostro ordinamento alla direttiva Ue 343 del 2016. In particolare, il provvedimento modificava il regime di pubblicazione degli atti del procedimento penale, introducendo il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Segnatamente l’articolo 2 dello schema di decreto introduceva modifiche all’articolo 114 del codice di procedura penale, secondo cui è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto (comma 1). Lo stesso articolo 114 vietava la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, con l’eccezione, rimossa dal decreto legislativo di lunedì scorso, per l’ordinanza applicativa di misure cautelari personali di cui all’articolo 292 c. p. p.. La materia giuridica in oggetto è estremamente articolata. L’emendamento Costa si prefigge anche di rispettare disposizioni internazionali come la Cedu o il Patto Onu sui diritti civili e politici del 1966, ratificato in Italia con legge 881 del 1977. Ma la maggior parte degli opinionisti (magistrati, giornalisti e politici) tende, purtroppo, quasi sempre a dimenticarsi di queste norme da anni in vigore nel nostro Paese. E infine. Come si può sostenere che le modificazioni possano essere dichiarate incostituzionali quando questa norma si prefigge la finalità non solo di assicurare l’effettivo rispetto dell’articolo 27, secondo comma, della Costituzione ma anche quello di rispettare alla lettera l’articolo 21 sempre della Costituzione, cioè la libertà di stampa e il diritto dei cittadini a essere correttamente e compiutamente informati (come è richiamato anche nell’articolo 4 del Testo unico sulla radiotelevisione approvato con il decreto legislativo 208 del 2021) e di attuare i princìpi e i diritti sanciti dal successivo articolo 24 della nostra Carta? *Avvocato, Direttore Ispeg Confisca di prevenzione: la Cassazione apre alla difesa del terzo di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 13 dicembre 2024 Forse, grazie ad un recente intervento della Cassazione, è arrivato il momento di mettere la parola fine ad un altro Moloch della prevenzione. Si discute da sempre, infatti, su quali siano i limiti entro i quali i terzi interessati della confisca possano difendere le proprie ragioni e, in particolare, se essi possano interloquire anche sulla posizione del proposto o, invece, debbano limitarsi a escludere il presupposto della fittizietà della intestazione del bene che si intende confiscare. Ovviamente, l’orientamento giurisprudenziale dominante è estremamente restrittivo e non consente al terzo, invocando la mancanza di interesse concreto a dedurre, di contestare i presupposti per l’applicazione della misura nei confronti del proposto, come ad esempio la condizione di pericolosità, la sproporzione fra il valore del bene e il reddito dichiarato, nonché la provenienza del bene e dei redditi impiegati. Nel processo penale, l’interesse a dedurre è costruito intorno al concetto sostanzialistico di “utilità” e, quindi, sull’esistenza di un pregiudizio che la parte, difendendosi, intenda rimuovere. Non così in materia di prevenzione, nella quale detto interesse si raccorda alla ripartizione dell’onere della prova: il terzo è gravato di un mero onere di allegazione di fatti contrari alla “tesi accusatoria”, che, per lui, sarebbe limitata alla mera contestazione di fittizietà della intestazione del bene, che perciò diverrebbe ambito e limite del confronto con la parte pubblica. L’interesse del terzo, dunque, sarebbe circoscritto alla restituzione del bene, ma non alla contestazione degli altri presupposti della misura di prevenzione diversi dalla indagine sulla effettiva titolarità. Per ridurre l’ambito delle difese del terzo, poi, la giurisprudenza ha anche elaborato percorsi creativi. Così, si è ritenuto che, ove il terzo spiegasse difese comuni con il proposto, egli finirebbe persino per avvalorare il sospetto di contiguità e, con esso, quello di interposizione. In sostanza, il terzo dovrebbe essere una quasi muto spettatore di un rito all’esito del quale potrebbe tuttavia essere spogliato dell’intero suo patrimonio. Ed usiamo la parola “rito” non a caso, dal momento che la prevenzione assume qui, forse più che in altri ambiti, una dimensione sacra, per la quale il “profano” non è ammesso a partecipare ad una celebrazione misterica ed ordalica che pure lo riguarda così tragicamente ed intimamente. Egli, sostanzialmente, non potrebbe difendersi e, se pure lo facesse (magari per colmare le lacune difensive del proposto), sarebbe guardato e, soprattutto, giudicato con maggior sospetto. Una situazione paradossale, degna del Sant’Uffizio, specie per quelle categorie di terzi (e non sono poche) per le quali vige la presunzione di fittizietà della intestazione patrimoniale. Per questi, infatti, la giurisdizione parte dal presupposto che i loro beni siano in realtà di proprietà del proposto - limitando quindi di molto la possibilità di allegare prove contrarie dotate di forza tale da vincere la presunzione legale - ed inibisce di articolare difese sugli altri presupposti della confisca. Ma oggi, dicevamo in esordio, soffia (eppure soffia…) un vento nuovo. La Quinta Sezione Penale della Cassazione, con ordinanza n. 43160 del 27/ 11/ 2024, ha investito le Sezioni Unite proprio del quesito relativo all’ambito delle difese spendibili dal terzo interessato nel procedimento di prevenzione. Esiste, infatti, un altro orientamento giurisprudenziale, allo stato minoritario (ma che la Sezione remittente sembra preferire) che evidenzia la necessità che tutte le parti del procedimento di prevenzione, in ossequio ai costituti del giusto processo, della giurisprudenza convenzionale e della nuova Direttiva 2024/ 1260 Ue, godano di una tutela giurisdizionale effettiva, nel senso di poter contestare efficacemente i presupposti applicativi del provvedimento di confisca. L’interesse a dedurre, quindi, dovrebbe potersi estendere dalla titolarità del bene alla sua origine e destinazione, fino alla pericolosità sociale del proposto, in ossequio al ripetuto insegnamento della Cedu in merito alla tutela della posizione del soggetto terzo coinvolto in procedure di confisca. Questo è l’auspicio minimo, che si spera le Sezioni Unite vogliano cogliere, perché la confisca di prevenzione sia preceduta, anche per il terzo, da un procedimento garantito ed effettivamente partecipato e non, come spesso ancora accade, da una sorta di messa pre- conciliare, nella quale il celebrante, unico in contatto con il Divino, parla una lingua incomprensibile al popolo, al quale pure, significativamente, volge le spalle. *Osservatorio Misure di prevenzione e patrimoniali dell’Unione Camere penali Italiane Catanzaro. Detenuto 30enne muore in cella, la Procura apre un’inchiesta ansa.it, 13 dicembre 2024 La Procura della Repubblica di Catanzaro ha avviato un’inchiesta per fare luce sulla morte di un detenuto di 30 anni, trovato privo di vita nella sua cella nel carcere della città. Il decesso, avvenuto ieri mattina, ha scosso l’opinione pubblica, suscitando interrogativi sulle circostanze che hanno portato alla morte del giovane detenuto. Il trentenne era stato arrestato solo il giorno precedente, con l’accusa di evasione dal regime degli arresti domiciliari cui era sottoposto per il reato di maltrattamenti ai danni dei genitori. Negli ultimi giorni, l’uomo aveva avuto problemi di salute, tanto che si era recato in ospedale per una visita medica. Anche ieri, durante l’arresto, le forze dell’ordine avevano dovuto chiedere l’intervento dei sanitari del 118, poiché il detenuto mostrava ancora segnali di disagio fisico. I medici del 118 avevano dichiarato che non vi erano motivi ostativi al trasferimento del trentenne in carcere. La Procura ha aperto un fascicolo d’inchiesta a seguito di una denuncia presentata dai familiari del detenuto, che accusano ignoti di essere responsabili della sua morte. Il legale che assiste la famiglia, l’avvocato Antonio Lomonaco, ha confermato che la denuncia-querela è stata formalizzata in merito alla tragica vicenda. Il caso è stato affidato al sostituto procuratore Sarah Cacciaguerra, che ha deciso di procedere con l’ipotesi di omicidio colposo. Per chiarire le cause del decesso, il magistrato ha disposto un’autopsia sul corpo del trentenne, che sarà eseguita domani all’ospedale di Catanzaro. L’autopsia è vista come una tappa fondamentale per accertare eventuali responsabilità e determinare se la morte del detenuto sia legata a negligenza o a cause naturali. L’inchiesta sta proseguendo con la raccolta di testimonianze e la verifica dei dettagli relativi al trattamento del detenuto nelle ore precedenti la sua morte. Il caso solleva interrogativi sul sistema di gestione delle persone detenute, soprattutto in situazioni di salute precaria, e mette nuovamente sotto i riflettori le condizioni nelle strutture penitenziarie italiane. Macerata. Morte in carcere di Lorenzo Rosati: il processo continua Il Resto del Carlino, 13 dicembre 2024 Il medico legale conferma: la morte di Rosati non è dovuta a un pugno, ma a una caduta. Prossima udienza il 19 dicembre. Morto dopo essersi sentito male in carcere, ieri in tribunale sono stati sentiti il medico legale, uno dei compagni di cella e altri due detenuti. “Morte non compatibile con un pugno ma causata da una caduta” ha detto il medico legale Mariano Cingolani. La vittima è Lorenzo Rosati, fermano di 50 anni, e in questa vicenda è accusato di omicidio preterintenzionale Zudi Jasharovski, 25enne di origini albanesi di San Severino. La tragedia si era consumata il 28 maggio 2021, nel carcere di Fermo. All’ora di pranzo, Rosati si era sentito male e i compagni di cella avevano dato l’allarme. Il detenuto era stato visitato dal medico della struttura che, viste le condizioni, aveva allertato il 118. Gli operatori sanitari, giunti sul posto, avevano portato l’uomo al pronto soccorso. Rosati aveva la milza spappolata e un’emorragia ormai irreversibile. Nonostante i tentativi di rianimarlo, il 50enne è morto intorno alle 17. Ieri in corte d’assise al tribunale di Macerata è proseguito il processo. È stato sentito il medico legale Cingolani, sentito anche come testimone del pm. “Cingolani ha fatto la sua relazione - ha detto l’avvocato Vando Scheggia, che insieme con all’avvocato Marielvia Valeri assiste l’imputato 25enne -. La morte non sarebbe legata ad un pugno ma ad una caduta, con un braccio che gli è rimasto sotto il corpo”. Oltre al medico legale ieri è stato sentito uno dei compagni di cella di Rosati e Jasharovski, Ali Ali Ashraft, magrebino. “È stato sentito anche uno dei compagni di cella, Ali Ali, - ha continuato Scheggia - che ha detto che in cella nessuno ha menato nessuno. Quel giorno Rosati è caduto a terra e sono state chiamate le guardie”. In merito alla testimonianza di Ali Ali “lui dice di aver visto Rosati a terra - ha spiegato l’avvocato Marco Melappioni, che assiste, insieme all’avvocato Marco Murru, i famigliari di Rosati, che si sono costituiti parti civili - ma non ha raccontato la parte prima. L’altro detenuto non avrebbe visto nulla”. Nel corso dell’udienza sono stati sentiti altri due testimoni, sempre detenuti, che non hanno assistito alla scena ma hanno fornito un quadro della situazione carceraria. La prossima udienza il 19 dicembre per sentire l’imputato e anche il medico legale consulente della parte civile. Roma. Casal del Marmo, nuova rivolta nel carcere minorile con brande distrutte e un incendio di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 13 dicembre 2024 La Fns-Cisl Lazio: “L’istituto ospita 65 minori (53 maschi e 14 donne) con una sola unità operativa che deve espletare il servizio di vigilanza in più posti. E i detenuti previsti dovrebbero essere 57 (47 maschi - 10 donne)”. Ennesima rivolta nel carcere minorile di Casal del Marmo, non si esclude collegata al sovraffollamento della struttura dove negli ultimi tempi vengono trasferiti i detenuti da altre regioni. Secondo quanto riferito dei sindacalisti della Fns-Cisl Lazio, nel tardo pomeriggio di giovedì alcuni reclusi maggiorenni del reparto “giovani adulti” hanno danneggiato la palazzina dove si trovano le loro celle distruggendo le brande e rompendo le finestre con sbarre di ferro. Hanno anche appiccato un incendio subito spento da vigili del fuoco. Negli stessi momenti un’analoga protesta con battitura delle sbarre è stata messa in atto dalle detenute nel settore femminile. “Detenuti violenti da trasferire” - Alla fine la situazione è rientrata nonostante i momenti di tensione grazie anche all’intervento degli agenti della polizia penitenziaria, alcuni dei quali sono rientrati in servizio a fine turno. “Attualmente si registrano in tale istituto 65 minori (53 maschi e 14 donne) con una sola unità operativa che deve espletare il servizio di vigilanza in più posti rispetto ai detenuti previsti che dovrebbero essere 57 (47 maschi - 10 donne)”, affermano dal sindacato. “La Fns Cisl Lazio chiede una forte azione da parte dell’Amministrazione Penitenziaria della Giustizia Minorile: occorre trasferire i detenuti che si sono resi protagonisti di tali eventi critici, occorre una maggiore attenzione nei confronti del personale della Penitenziaria ed una vicinanza maggiore alle richieste di aiuto che pervengono da una realtà già di per sé difficile e peggio ancora provata da frequenti episodi di violenza: ultimamente un’agente è stata ferita, occorre garantire la tutela del personale tutto e della sicurezza della stessa struttura”, concludono dal sindacato. Proprio giovedì la Fns Cisl Lazio ha chiesto al direttore del Centro Giustizia Minorile del Lazio, Abruzzo e Molise “delucidazioni sull’invio di unità di Penitenziaria a Casal del Marmo seppur l’Istituto Penale per i Minorenni di Roma è stato oggetto da parte del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità di una ricognizione urgente di personale operativo del ruolo degli agenti e assistenti da inviare in servizio di missione per esigenze di servizio”. Firenze. L’intesa per far scontare la pena fuori dal carcere a chi ha problemi fisici o mentali di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 dicembre 2024 Se la malattia del detenuto è incompatibile col regime carcerario, il detenuto potrà uscire dal carcere e scontare la pena in una struttura adeguata alle sue condizioni. È il senso dell’intesa tra Comune di Firenze, Servizi Sociali, Garante dei detenuti, Amministrazione penitenziaria, Azienda Usl Toscana Centro, Società della Salute di Firenze. La procedura siglata mette a punto i passaggi tecnici che ogni istituzione coinvolta dovrà fare una volta che sarà stabilita dal Tribunale di sorveglianza la condizione di incompatibilità con lo stato di detenzione in carcere. “È il risultato di un lavoro di confronto che abbiamo intrapreso da inizio mandato - spiega l’assessore al Welfare Nicola Paulesu. In questo modo vogliamo dare una risposta strutturata a una problematica che era emersa in più occasioni. Si parla di situazioni che vedono detenuti con gravi problematiche di salute, non compatibili quindi con il regime carcerario, che sono oggetto di ricognizioni e analisi puntuali e precise, ma anche di detenuti a fine pena per garantire la continuità terapeutica e di cura”. Secondo le varie associazioni di volontari che operano attorno a Sollicciano, sarebbero decine i detenuti con problematiche di salute incompatibili col carcere, tra cui tossicodipendenza, salute mentale e addirittura Aids. Il problema, si chiedono tanti volontari, è però “la mancanza di strutture ad hoc sul territorio pronte ad accogliere queste persone”. Roma. Ripensare gli spazi per i detenuti che scontano una pena, seminario alla Lumsa ansa.it, 13 dicembre 2024 Il tema è stato dibattuto nel convegno “Nuovi approcci per la complessità detentiva - L’Italia protagonista del sistema penitenziario europeo: la sinergia tra normativa, formazione e professioni”. Presenti il Garante dei detenuti e il capo del Dap. Un patrimonio da tutelare, rafforzare e ripensare, partendo dagli spazi e da un rapporto più stretto con il territorio e con il contesto sociale. Gli istituti penitenziari e il sistema carcerario in Italia sono stati al centro del seminario che si è tenuto a Roma, nella sede della Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani - dal titolo: “Nuovi approcci per la complessità detentiva - L’Italia protagonista del sistema penitenziario europeo: la sinergia tra normativa, formazione e professioni”. Un’occasione preziosa per affrontare in profondità un argomento controverso e attuale con il contributo di coloro che, quotidianamente, operano e si occupano di come vive chi sconta una pena oggi in Italia. Dopo i saluti del rettore dell’Università Lumsa e del presidente della Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani, sono intervenuti alla discussione vari esperti tra i quali Giovanni Russo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e Riccardo Turrini Vita, presidente del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Al centro della loro analisi la necessità di cambiare nel profondo il concetto di spazio detentivo nel rispetto delle persone recluse. Capo del Dap: “Garantire sicurezza e dignità alle persone recluse” - “Guardiamo con estremo interesse e favore a iniziative e corsi di alta formazione che fondano su basi scientifiche la loro attività e che soprattutto non esitano a ‘sporcarsi le mani’ con un mondo particolarmente complesso e difficile come quello delle carceri”, ha detto il capo del Dap Giovanni Russo. “Un istituto detentivo non deve essere allontanato dal centro delle città, relegato in luoghi dove diventa difficile anche per la società interloquire, creare occasioni di contatto e di confronto. Occorre un’idea di ricostruzione degli istituti non solo come luogo fisico, ma anche come rapporto tra carcere e territorio. Perché le persone recluse sono uomini che hanno sbagliato, sono stati giudicati colpevoli, sono stati condannati a una pena che dovranno scontare in sicurezza e dignità, ma hanno diritto a vedersi riconosciuti tutti i diritti che spettano secondo la Carta Costituzionale e secondo le regole universali che ci rendono uomini tra gli uomini”. Garante Nazionale diritti dei detenuti: “Istituti devono avere condizioni di decenza” - Il presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Riccardo Turrini Vita, ha poi spiegato: “Oggi gli stabilimenti penitenziari sono in parte edifici ereditati da istituzioni che avevano altro fine, altri sono invecchiati, per non dire che non sono rispondenti a una visione umana, non voglio neanche dire costituzionale, dell’esecuzione della pena. La decenza di vita negli istituti passa dall’assegnazione di una camera individuale a ogni persona ristretta, unita a dei basilari servizi igienici che tutti noi in Italia consideriamo necessari. Queste condizioni di decenza possono avere positive ricadute, non solo nella gestione dell’ordine, ma soprattutto della sanità psichica e fisica degli stessi reclusi, visto che troppi accadimenti inspiegabili forse riposano sulla commistione notturna degli stessi nostri ospiti”, ha rimarcato Turrini Vita. “Io credo quindi - ha proseguito - che quella accortezza dovrebbe essere un canone fondamentale, come forse potrebbe essere utile calibrare la pesantezza delle strutture detentive alla realtà del pericolo o della necessità che esse pongono. Strutture meno gravi possono servire ugualmente bene alla più larga parte dei detenuti”. Un laboratorio di idee per migliorare il sistema carcerario - Durante l’evento è stato presentato il Corso di Alta Formazione sulle “Strutture detentive e management gestionale complesso”, che la Fondazione Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani ha messo in cantiere per il 2025, pensandolo come laboratorio di idee utili a un miglior funzionamento del sistema penitenziario e delle sue strutture. Uno spazio in cui le attuali e future generazioni di professionisti - ingegneri e architetti - saranno chiamati a progettare, con uno spirito attento alla persona, le nuove strutture penitenziarie del Paese e a comprenderne le logiche virtuose di management gestionale. Cremona. Lettere di Natale dei detenuti: “Vorrei avere tante preoccupazioni, come chi vive fuori” di Rosanna Scardi Corriere della Sera, 13 dicembre 2024 I messaggi dei detenuti della Casa circondariale di Cremona: “Sogno una polvere magica per riparare le crepe della vita”. Gli avvocati della Camera penale hanno organizzato una panettonata con loro, martedì 17 dicembre. Niente pranzo in famiglia, niente giochi con i nipotini. Il Natale per i detenuti della Casa circondariale di Cremona (557 secondo i dati di agosto per una capienza di 493) è un giorno come un altro. Celle di 5,5 metri per due se va bene, sempre chiuse (l’eccezione è per chi riesce a partecipare alle poche attività); e l’aria due volte al giorno nel “pollaio”, un piccolo atrio di cemento con i muri alti quattro metri dove si cammina seguendo il perimetro, uno dietro l’altro, con la sensazione ancora più forte di essere in gabbia. In prigione è molto difficile che i detenuti ricevano regali. A far visita a un piccolo gruppo di loro saranno, martedì 17 dicembre, alle 11, alcuni avvocati della Camera penale di Cremona. “Abbiamo ottenuto il permesso per una panettonata - racconta Micol Parati, presidente della Camera penale - porteremo i dolci della tradizione e brinderemo con l’aranciata. La struttura è nuova, il problema è il passaggio veloce dei detenuti, la presenza di un solo psichiatra e un solo medico, insufficienti a far fronte alle situazioni di depressione e fragilità; solo nel 2023 gli atti di autolesionismo sono stati 287; e poi gli educatori, sono tre anziché sei, di conseguenza le attività sono poche”. In passato, il gruppo di legali ha portato i “regali” richiesti. “Hanno voluto - prosegue l’avvocato - 87 sedie di plastica perché, nelle sale di socialità, mancavano o si erano rotte, due tagliacapelli e materiale per il laboratorio di falegnameria. Manca la società esterna dentro il carcere. Incredibilmente, solo un detenuto su 557 lavora al di fuori”. Eppure, anche in cella, c’è chi non rinuncia a vivere e a sperare. E ha confidato quale regalo sogna di ricevere per Natale. “Cosa desidero?”, si domanda Federico, 43 anni, con fine pena dicembre 2028. “Vorrei avere tante preoccupazioni”, afferma. E segue un lungo elenco: “Preoccuparmi di quali regali comprare, di quanti soldi spenderò, di cosa mangerò, di come mi vestirò, di abbracciare tutti gli amici, preoccuparmi di dire “ti voglio bene” ai miei cari. È bello avere tante preoccupazioni, quando sei chiuso in carcere ti mancano”. La sofferenza per la lontananza dagli affetti, nel periodo delle feste, è amplificata. “La vera privazione non è solo della libertà - dice Simone, che ha come data di fine pena maggio 2025 -, ma del supporto concreto di chi ti vuole bene e fa male sapere di arrecare angoscia e tristezza a causa della tua lontananza. Ciò che, più di ogni altra cosa, desidererei ricevere per Natale è il sorriso spensierato dei miei genitori e dei miei amici più cari, nonché il saperli forti di fronte a questa tempesta. Anche un amore incondizionato può subire delle crepe e, sotto l’albero, vorrei tanto trovare una polvere magica che le possa riparare completamente”. Alessandro, 53 anni, fine pena maggio 2027, conferma lo stato d’animo: “In questo girone infernale - confida - ti rendi conto di quanto ti manchino le persone più care e le piccole libertà di ogni giorno: poter bere un caffè al bar, chiamare chi ami, incontrarli per una cena, bere un bicchiere di vino, andare al mare… Il mare per me è libertà”. Ed ecco il suo sogno: “Come desiderio per Natale vorrei essere, anche solo per qualche ora, in riva al mare, al tramonto, con un bicchiere di Champagne, e tutta la mia famiglia intorno. E dopo aver mangiato una buona pizza, gustare un buon caffè espresso al bar. Dopo, potrei tronare nei cinque metri quadri della mia cella con il sorriso e la felicità più grande del mondo, consapevole di essere ancora vivo. State vicini alla famiglia perché è come un cavo d’acciaio e quando si è in difficoltà, questo cavo vi tirerà fuori dall’inferno”. Sandro ha 62 anni. “Soffro tutti i giorni per l’assenza dei miei cari. Ogni minuto, ogni secondo, li ho nel cuore e nel pensiero”. La sua ambizione è “oggi, dopo anni di giusta o ingiusta carcerazione, poter riformare il sistema carcerario. So che è un sogno quasi impossibile, ma vivendo e lavorando dentro, avrei tante idee su come riformarlo. Da studi importanti risulta che il 90% dei detenuti in Occidente non dovrebbe essere lì. Io credo di essere uno di questi. Vorrei, quindi, trovare sotto l’albero la forza di conquistare la mia libertà e combattere per questo sistema atavico, inutile e che genera violenza su violenza, senza portare a nulla. Vorrei che i politici si rendessero conto di questo inferno… Poi mi riprendo e dico che non sempre puoi avere quello che vuoi, anche se è Natale”. Cultura e lettura, emergenze dimenticate di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 13 dicembre 2024 Gli italiani tra i 16 e i 65 anni - secondo l’Ocse - sono drammaticamente sotto la media globale nella capacità di comprensione testuale, nella elaborazione matematica, nelle abilità cosiddette di “problem solving”. Gli ultimi dati Ocse, usciti martedì, rivelano che gli italiani tra i 16 e i 65 anni sono drammaticamente sotto la media globale nella capacità di comprensione testuale, nella elaborazione matematica, nelle abilità cosiddette di “problem solving”. Qualche giorno fa si è saputo che, secondo un’indagine dell’Aie (associazione editori), nell’ultimo anno i lettori sono diminuiti e sono diminuiti anche i libri venduti: solo gli under 24 resistono sui livelli di lettura dell’anno scorso. Numeri disastrosi che non dovrebbero preoccupare solo i noiosissimi ceti intellettuali. Eppure, il grave calo delle conoscenze culturali, le lacune dell’istruzione scolastica e la diffusione (segnalata più di dieci anni fa da Tullio De Mauro) dell’analfabetismo di ritorno (o funzionale) non sono mai all’ordine del giorno della politica, né a destra né al centro né a sinistra, se non, ogni tanto, in termini di formazione finalizzata al lavoro. Sono lontani i tempi in cui la cultura e la conoscenza erano valori in sé e per sé; e chi ne fa cenno rischia di apparire un vecchio babbione umanista ancorato alla tradizione, un nostalgico dei tempi andati, uno snob da torre d’avorio, magari un radical chic incapace di capire i problemi urgenti: crescita, occupazione, sicurezza eccetera, altro che cultura! Che questo sia il sentimento diffuso, è dimostrato dal fatto che i politici italiani, specie quando sono in campagna elettorale, cioè sempre, di tutto parlano tranne che del bassissimo livello culturale della popolazione, ritenendolo un argomento che non scalda i cuori (cose-che-non-interessano-agli-italiani) e persino un po’ offensivo. Roba che non porta voti. E se Il dono di Gino Cecchettin che combatte il male con la mitezza di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 13 dicembre 2024 Dopo la condanna dell’assassino della figlia il padre-orfano non ha manifestato né rabbia né sollievo. E’ un cittadino coraggioso, che si distingue per un altro genere di forza: per la caparbietà e la calma con le quali persegue “il bene comune”. Gino Cecchettin è un eroe moderno. Non un semidio, secondo mitologia classica, facile da rimuovere perché ormai non ci chiama né ispira. Bensì un cittadino mite e coraggioso, un uomo che si distingue per un altro genere di forza: per la caparbietà e la calma con le quali persegue “il bene comune”. Un padre che deve seppellire il corpo di una figlia ammazzata a coltellate (75 coltellate) e che sceglie di impugnare la speranza come una spada. Lo fa per lei, la sua secondogenita perduta, e per tutte le ragazze come lei, che possono ancora salvarsi. Perché - lo scrive nel libro Cara Giulia - “Tu avresti voluto una società fatta di persone che non si lasciano mai sopraffare dalla violenza e dalla negatività”. E lui questo fa, dimostrando quanta distanza c’è tra essere ottimisti, che nella vita è un privilegio, e non smettere di sperare, che è invece un esercizio possibile. Per tutti, tutte. Per chi crede in una giustizia superiore affidata a Dio, capace di offrire una direzione alla sofferenza, e per persone come Gino Cecchettin, un signore, laico, combattente. È come se avesse fatto suo, trattenendolo in positivo, il paradosso “non posso continuare, continuerò” che Samuel Beckett deposita davanti all’assurdità della vita e alla disperazione. Quando - nell’aula del tribunale di Venezia dove attendeva in piedi, dritto, alle spalle dell’assassino a testa china - è stata emessa la condanna all’ergastolo, il padre-orfano non ha manifestato né rabbia né sollievo. È uscito e ha risposto al fronte ondeggiante dei giornalisti. Offrendo, le mani raccolte, tutte le cose che ha imparato dalla notte senza fine dell’11 novembre 2023: che si deve provare ad andare “avanti”, che si può tentare “insieme” di risparmiare a un altro padre e a un’altra Giulia quanto è accaduto a loro, i Cecchettin. “Oggi qui nessuno ha vinto, abbiamo perso tutti, come società”. E ancora: non sarà “una pena” a sciogliere la catena dei femminicidi, ma “la prevenzione”. Una famiglia unita - come tante, senza eguali - che sta ancora, e per sempre, affrontando la tempesta più nera. L’impegno per l’educazione affettiva di generazioni nuove, obiettivo della Fondazione nata in nome di Giulia, è un balsamo leggero, non sarà mai un anestetico. Il dolore non passa, come non passa l’amore. Non è difficile, dietro la generosità asciutta di Gino Cecchettin, immaginare le lacrime private, lo smarrimento la sera, l’ascolto e riascolto e ancora dell’ultimo vocale ricevuto, lo struggimento davanti alla lista scritta da Giulia - 15 buone ragioni per allontanarsi da Turetta e dalla sua brama. Tutto questo esiste senza venir sbandierato perché, se così accadesse, provocherebbe emozioni infiammate e intermittenti, inutili a quelle mutazioni culturali profonde che ci spingeranno a costruire un altro domani. Onoriamo la memoria di una 22enne che “sapeva” ma non è bastato - che infatti, lucidamente, scriveva: “Pippo, sei ossessionato! Che devo fare? Lasciarti dirmi cosa devo fare e controllarmi? Se tu ti comporti di merda, come uno psicopatico, io mi comporto di conseguenza allontanandomi, allontanandoti” - e prendiamoci un impegno nelle nostre case, strade, uffici: non cedere all’inerzia quando vorremmo commiserare per dimenticare. Scrive Cecchettin in Cara Giulia. “Mi sono chiesto come mai sia più rassicurante l’immagine dell’uomo devastato che si piange addosso senza fare nulla (…). Perché questi comportamenti passivi sarebbero più tollerabili?”. Perché vogliamo vedere le vittime piegarsi, isolarsi, ammutolire? Perché “gli sconfitti” devono essere innocui per risultare distrattamente amabili: non dovrebbero mettersi lì a lacerare le maglie quando la rete si richiude, a elastico, fino alla prossima volta. Perché vorremmo considerarci “fortunati”, e basta, non vediamo l’ora di mimetizzarci nella falsa coscienza. Quella secondo cui le storie di violenza non ci riguardano, non personalmente, no. “Turetta è un mostro”, si sente dire e ridire, un ragazzo per male e non per bene come i nostri. Sì, capita una volta ogni tre giorni, ovunque in Italia, ma noi, stolidi, ci ripetiamo che non sta succedendo a noi. Migranti. Ddl sicurezza, le ong che salvano i bambini punite dai partiti della paura di Chiara Sgreccia Il Domani, 13 dicembre 2024 Un disegno di legge pensato più per rispondere alla pance bieche del Paese che per creare sicurezza. Come si capisce leggendo gli articoli 29 e 32 che ostacolano l’operato di chi salva vite in mare e rendono più difficile l’integrazione di chi arriva da Stati extra Ue. “Ddl paura. Così abbiamo ribattezzato il disegno di legge sulla sicurezza pubblica in discussione al Senato. Perché dal ddl viene fuori la rappresentazione di un governo più spaventato che potente. Autoritario sì, ma che teme il manifestante, il migrante, il detenuto, chi è un outsider rispetto al loro schema di pensiero”. A parlare è Rossella Puca, giurista, che fa parte della rete No ddl Sicurezza. A pieno regime, l’insieme di realtà, associazioni, organizzazioni nazionali e locali in aggiornamento continuo, a cui hanno aderito anche Pd, Movimento 5 stelle e Alleanza verdi e sinistra, che ha indetto per sabato 14 dicembre a Roma. Un disegno di legge così controverso da spaccare anche la maggioranza di governo. Con la Lega, da un lato, che ne chiede l’approvazione immediata, “senza perdite di tempo”. Dall’altro, con il ministro per i rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, che non esclude una terza lettura alla Camera. Tra le norme che dovrebbero essere modificate, oltre “all’articolo 15 che trasforma l’obbligatorietà della sospensione della pena per le donne in gravidanza o con bambini fino a un anno d’età, in facoltatività, cioè è il giudice che sceglie se sospenderla in base al pericolo reiterazione del reato”, spiega Puca, c’è l’articolo 32 del ddl. Che, nella prima parte, inasprisce le sanzioni per gli operatori che vendono le sim, le schede elettroniche per il telefono, che non osservano gli obblighi di identificazione del cliente, aggiungendo alle sanzioni già previste la chiusura dell’attività da cinque a trenta giorni. “Mentre nella seconda parte c’è scritto che, se chi vuole comprare la scheda telefonica è cittadino di uno Stato extra Ue, allora il venditore deve acquisire una copia del titolo di soggiorno”, chiarisce Puca: “Si tratta di una norma razzista perché, proprio come l’articolo 15, sembra costruita per colpire una determinata categoria di persone, i migranti. Per rendere più complessa l’integrazione, la ricerca del lavoro, la comunicazione con i familiari per chi è già in difficoltà. Oltretutto, anche per prendere l’appuntamento in questura per il permesso di soggiorno serve il telefono, sia per prenotarsi tramite Spid, sia per registrarsi sul sito. È sconcertante che non ci abbiano pensato”. A sostenere che una norma che impedisce ai migranti di utilizzare il telefono favorisca l’isolamento e la disgregazione sociale, c’è anche Davide Giacomino, advocacy officer di Emergency: “È chiaro come il governo punti a criminalizzare non solo le persone in movimento ma anche il lavoro delle ong, in particolare di quelle che svolgono attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, zona in cui c’è un forte disimpegno degli assetti italiani e europei nell’adempiere all’obbligo di prestare assistenza alle persone che si trovano in pericolo in mare”. Come sottolinea Giacomino, il governo italiano “purtroppo continua a guardare al fenomeno migratorio con approccio securitario, invece di puntare alla tutela delle vite. Ostacolando il lavoro di organizzazioni che invece le mettono al primo posto”. L’articolo 29 del disegno di legge, infatti, è conosciuto anche come l’ennesima norma anti ong: “Modifica il codice della navigazione per introdurre una pena di due anni di reclusione per il comandante della nave straniera che non obbedisce all’ordine della Guardia di finanza. E la reclusione da tre a dieci anni per gli atti compiuti contro una nave da guerra (si intendono le navi che appartengono alle forze armate di uno Stato, ndr) impiegata nello svolgimento dei relativi compiti”, spiega ancora la giurista Puca, sottolineando come sia evidente che la norma è stata costruita pensando al caso di Carola Rackete, la comandante della Sea-Watch3, le cui accuse per aver violato il divieto di sbarco delle autorità italiane sono state archiviate per aver agito a salvaguardia delle persone a bordo: “Come la maggior parte degli altri articoli da cui è composto il ddl, sembra servire più per acchiappare voti e riempire le pance bieche del Paese che per garantire sicurezza”. Migranti. Caso Albania, l’idea di Renzi sui detenuti nei Centri (e il duello con Salvini) di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 13 dicembre 2024 Il presidente di Italia viva, Matteo Renzi, sarà in onda questa sera sul canale Syri di Tirana: “Farò un appello a Giorgia Meloni e al premier albanese Edi Rama. Ormai i soldi sono stati spesi, quasi un miliardo di euro. Trasformiamo il centro migranti (di Gjader, ndr) in un carcere per i circa 2mila detenuti albanesi reclusi in Italia. Riduciamo così il sovraffollamento dei nostri istituti di pena”. Ieri in Senato è andata ad intervistarlo la giornalista Luela Gaxhja, del programma Piranjat, una sorta di Iene albanesi, che gli ha svelato il “trucco” usato per fare il suo scoop sulla presunta “dolce vita” dei circa 100 poliziotti italiani in servizio in Albania: “Il resort degli agenti è blindato - ha raccontato la cronista - per avvicinarli mi sono offerta di andar loro a comprare le sigarette”. Dopo due mesi di attività i centri sono ancora vuoti, per via delle sentenze dei giudici italiani ispirate alle norme europee. E Renzi allora, duellando in Aula col ministro dei Trasporti Matteo Salvini sulla sicurezza a bordo dei treni, l’ha ribadito anche a lui: “Richiamate in Italia quei poliziotti e carabinieri e trasformate il centro migranti in Albania in un carcere per gli albanesi detenuti nel nostro Paese”. Duro, Renzi, anche sui treni in ritardo: “Signor ministro o lei ha sfortuna o non è capace: su 7.931 treni veloci, 6.159 in ritardo. L’80 per cento!”. Replica di Salvini: “Abbiamo investito 9 miliardi e aperto 1.200 cantieri per garantire sicurezza ed efficienza”. Alla proposta di Renzi, comunque, plaudono i sindacati. Ecco Donato Capece del Sappe (polizia penitenziaria): “Magari fosse! Le carceri italiane scoppiano e i detenuti albanesi sono tra i più pericolosi, tra narcotraffico e sfruttamento della prostituzione. Noi in Albania abbiamo 12 agenti, sono stato a trovarli e ho notato che si stanno facendo addirittura lavori di ampliamento”. Giuseppe Tiani, segretario del Siap (sindacato appartenenti polizia), concorda: “Meglio un carcere che una cattedrale nel deserto. Il nostro personale verrebbe ritirato, resterebbe solo la penitenziaria. Sulla “dolce vita” dei poliziotti però non ci sto: ho fatto io stesso una ricerca, quel resort è paragonabile a un hotel a 3 stelle. Ha la piscina, d’accordo. Ma finito il servizio, i nostri agenti che altro dovrebbero fare?”. Stati Uniti. Carceri, Biden annuncia un atto di clemenza storico di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 13 dicembre 2024 Il presidente concede la grazia a 39 detenuti nel provvedimento anche 1.500 sconti di pena. Uno degli ultimi atti della presidenza di Joe Biden sembra avere un significativo riflesso sul capitolo giustizia negli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda il mondo carcerario da sempre al centro di enormi contraddizioni. Il presidente Usa infatti ha lasciato una eredità al suo successore Donald Trump in netta controtendenza rispetto alle invettive legge e ordine del tycoon, prossimo a sedersi nello studio ovale della Casa Bianca. Biden ieri ha concesso la grazia presidenziale a 39 americani condannati per reati non violenti e ha commutato le condanne di quasi 1500 altre persone. L’atto di clemenza è stato descritto dagli ambienti di Washington come un unicum, visto che la decisione di Biden comprende il maggior numero di perdoni presidenziali emessi in un solo giorno. In ogni caso non sono state però fornite le generalità dei detenuti interessati. Le uniche indiscrezioni trapelate dalla Casa Bianca riguardano solo alcuni dettagli. A godere del beneficio sono un veterano militare decorato e un pilota che ha aiutato membri della chiesa, un’infermiera che ha partecipato al lancio del vaccino contro il Covid e un consulente che si occupa di dipendenze. Biden ha potuto procedere in questa maniera poiché la Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che il presidente ha l’ampio “potere di concedere dilazioni di pena e indulti per reati contro gli Stati Uniti, tranne che per i casi di impeachment”. Tutta questa clemenza ha però fatto sorgere più di qualche dubbio non solo da parte degli avversari vincenti del presidente. All’inizio di questo mese, infatti, Biden ha emesso una controversa grazia nei confronti di suo figlio Hunter, condannato per uso di stupefacenti e possesso di armi, nel solco di una recente tendenza dei presidenti a perdonare le persone a loro vicine. La mossa si è rivelata controversa, dal momento che il presidente uscente aveva precedentemente escluso di farlo. Ma ha affermato che i casi contro suo figlio erano politicamente motivati L’atto generalizzato di clemenza potrebbe dunque essere anche una mossa per coprire il favore fatto al suo primogenito e facendolo rientrare in una politica libertaria e garantista. In realtà annunciando la mossa, Biden ha detto che coloro che sono stati graziati hanno “mostrato una riabilitazione di successo e hanno dimostrato impegno a rendere le loro comunità più forti e più sicure”. In particolar modo le grazie e le riduzioni di pena sono state emesse per persone coinvolte e condannate per reati senza atti violenti, soprattutto legati al consumo e allo spaccio di droga. Le condanne commutate hanno riguardato centinaia di persone che sono state messe in isolamento domiciliare durante la pandemia di Covid-19 e che stavano affrontando condanne che Biden ha ritenuto troppo lunghe perché derivanti da leggi ormai obsolete. Clemenza dunque, ma anche un’idea apparentemente diversa di giustizia; secondo il presidente i graziati hanno “dimostrato di meritare una seconda possibilità”. Ora la presidenza ha anche promesso “ulteriori passi nelle prossime settimane” anche se non si conoscono le intenzioni. Ma comunque si tratta di una significativa inversione di tendenza perché Biden aveva concesso un numero grazie inferiore alla maggior parte dei presidenti nella storia moderna degli Stati Uniti se non si conteggiano alcuni indulti promulgati nel recente passato, per un un numero abbastanza ampio di persone appartenenti ad alcune categorie di detenuti. Nell’ottobre 2022, infatti, Biden ha emesso un perdono completo per coloro che erano stati condannati per semplice possesso di marijuana, e successivamente lo ha ampliato per includere altri reati legati alla stessa fattispecie. All’inizio di quest’anno, Biden ha emesso un altro perdono al personale militare e ai veterani che sono stati condannati per un reato basato sul loro orientamento sessuale. Medio Oriente. Per l’Europa “non ci sono problemi”, i rifugiati possono tornare in Siria di Andrea Valdambrini Il Manifesto, 13 dicembre 2024 La Ue non ha preso una posizione comune, ma la direzione dell’Alto Rappresentante sembra quella di favorire i rimpatri. All’inizio del mandato di Kaja Kallas, Alto rappresentante Ue per la politica estera che ha preso servizio questo dicembre, è piombata la caduta di Assad con la nuova fase politica in Siria, ancora tutta da decifrare. Un problema tra gli altri sembra preoccupare l’Europa: quello dei profughi siriani. Se la “ministra degli Esteri” di Bruxelles si mostra sicura verso il fronte ucraino, rispetto al quale ha maturato esperienza già come premier estone, molto meno risolute sembrano le sue mosse sul versante mediorientale. Ma le prime dichiarazioni di Kallas indicano l’auspicio di un governo stabile a Damasco, in modo da liberarsi il prima possibile dei profughi dalla Siria. Alla spicciolata, le capitali europee hanno messo in chiaro l’opzione del ritorno dei rifugiati nella loro terra, dilaniata da tredici anni di guerra civile. Poche ore dopo la caduta del regime, il ministro degli interni austriaco Karner diceva di avere in preparazione un “programma di deportazione ordinata” verso la Siria dei circa centomila siriani a cui Vienna ha dato ospitalità. A nome dell’opposizione tedesca, l’ex ministro Cdu Jens Spahn ha proposto di pagare mille euro i siriani che volessero rimpatriare. Quelli che la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva accolto dal 2015 e che oggi, secondo stime ufficiali, sono oltre 700mila: più che in Svezia (87mila), Paesi Bassi (65.600) e Grecia (51mila). L’Italia ha dato protezione complessivamente a soli 4.850 richiedenti asilo. Così, mentre Hts, l’organizzazione jihadista salita al potere a Damasco, rimane sulla lista delle organizzazioni terroristiche, Austria e Germania insieme a paesi scandinavi, Belgio, Grecia, Paesi bassi, Italia e Regno unito hanno deciso la sospensione delle domande di protezione internazionale. Tutti in ordine sparso e Kallas ha lasciato fare. “Non entro nel merito delle procedure d’asilo”, ha dichiarato la più alta diplomatica europea in un’intervista a un network di media, “ma l’auspicio è che se non ci sono più le condizioni che avevano portato alla concessione dell’asilo, potremmo alleggerire il carico che grava sull’Europa”. La promessa ottimistica non è condivisa da Marc Botenga, eurodeputato Left. “I bombardamenti turchi e americani stanno distruggendo il paese, tra i ribelli ci sono moltissime divergenze”, sottolinea raggiunto dal manifesto. “Quindi non penso si possa dire con chiarezza in che direzione andrà il paese”. Dell’indirizzo da seguire si parlerà lunedì prossimo con il primo Consiglio dei ministri del esteri Ue, in vista poi del summit dei leader dei Ventisette previsto a Bruxelles il 19 dicembre. Chi ha già stabilizzato il governo di Damasco è il commissario austriaco agli Affari interni Magnus Brunner: subito dopo il Consiglio affari interni ha annunciato che le nuove norme Ue in materia di rimpatri arriveranno nel primo trimestre del 2025. E per restare in tema, da Bruxelles, dove ha partecipato alla riunione dei ministri degli interni, Piantedosi sollecita l’Ue ad anticipare la definizione di “paesi terzi sicuri”. Quando lo farà, il tema Siria sarà certamente in agenda. Medio Oriente. A Gaza crisi umanitaria senza precedenti, ma il Governo italiano la ignora di Enrica Muraglie Il Manifesto, 13 dicembre 2024 Quella in corso a Gaza “è la più grave emergenza del XXI secolo”. Così Paolo Pezzati, portavoce di Oxfam Italia, alla conferenza stampa convocata ieri alla Camera per chiedere al governo italiano di mettere in campo gli strumenti diplomatici che gli competono e contribuire a un immediato cessate il fuoco nella Striscia. “In prossimità del corridoio Filadelfia l’Idf ha attaccato 100 camion d’aiuti umanitari, provocando almeno 20 morti. 70 convogli sono stati portati via da bande armate”, prosegue Pezzati, ricordando la recente sospensione degli aiuti da parte dell’Unrwa attraverso il corridoio di Kerem Shalom. Per Rossella Miccio, presidente di Emergency, il bilancio totale di quasi 45mila morti è sottostimato: “Sono morti dirette, ma quelle per mancato accesso alle cure e per mancanza di cibo li conteremo, forse, alla fine del conflitto”. Nella nuova clinica che Emergency sta costruendo con fatica nel sud di Gaza, operativa dalla prima metà del prossimo mese, non è possibile montare neanche un desalinizzatore a causa dei continui blocchi imposti dalle autorità israeliane. La carenza di materiale sanitario, dalle garze agli antibiotici, fino ai kit per effettuare fissazioni esterne e curare le fratture ai pazienti preoccupa molto anche Cristina Cantù, responsabile infermieristica di Medici senza frontiere. Lo racconta in un video dall’ospedale Nasser di Khan Younis. “Lo spazio “sicuro” è costantemente e deliberatamente violato: i pazienti hanno subìto non uno, non due ma decine di ordini di evacuazione, non esiste nemmeno uno spazio per la cura”, racconta Monica Minardi, presidente di Msf. Gravi ferite da ustioni curate ogni quattro giorni, interventi chirurgici con minime somministrazioni di anestesia: “Non si può pensare di abbassare gli standard di cura, ma a Gaza è necessariamente così e questo è molto doloroso da dire per un medico”, continua Minardi. Rispetto ai 100mila bambini che dovrebbero essere evacuati, come hanno chiesto nelle ultime settimane i pochi medici rimasti nella Striscia, Msf ha provato a trasferirne almeno otto, in gravissime condizioni, nel loro ospedale di chirurgia ad Amman, in Giordania, ricevendo soltanto dinieghi da parte delle autorità israeliane. Ostacolare Tel Aviv sarebbe possibile con sanzioni “frutto di doveri giuridici internazionali, in qualche caso costituzionali”, l’accento messo da Pasquale De Sena di Fermatevi!, associazione che riunisce gli studiosi italiani di diritto internazionale e mondo della cultura. “Fra i doveri del Governo c’era quello di ascoltarci, perché siamo in rappresentanza di 500mila persone che hanno firmato un appello e che non hanno avuto udienza” dice Massimo Amato, economista e storico, parte di #StopCrimesinPalestine. È comune alle associazioni il rammarico per l’assenza di esponenti del governo Meloni, a cui era stata indirizzata una lettera lo scorso 25 novembre per cercare un dialogo sulla situazione umanitaria a Gaza, e sull’allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente. Anche in questo caso, nessuna risposta. Oggi una delegazione di parlamentari dell’intergruppo per la pace tra Israele e Palestina, europarlamentari e rappresentanti delle associazioni attive in Medio Oriente arriverà alla Corte penale internazionale per esprimere vicinanza e “ribadire che nonostante il governo italiano balbetti, c’è una parte della società civile che crede nella giustizia internazionale”.