Giachetti accusa: “Nelle carceri strage silenziosa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2024 “Siamo ormai a 87 suicidi dall’inizio dell’anno e c’è confusione e incertezza anche sui numeri perché non si sa più quanti sono i morti ‘di carcere’ e i morti ‘in carcere’“, esordisce martedì scorso il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, sollevando in Parlamento un allarme drammatico sullo stato delle carceri italiane, chiedendo un’informativa urgente al Ministro della Giustizia Carlo Nordio. L’intervento, carico di preoccupazione e indignazione, ha messo in luce una situazione che definire critica sarebbe riduttivo. Il deputato di Italia Viva ha evidenziato il crescente numero di suicidi in carcere, che quest’anno ha toccato un record storico con 87 decessi, un dato riportato da Ristretti Orizzonti e che si scontra con i numeri ufficiali del Dap e del Garante nazionale stesso, mai registrato negli ultimi trent’anni. “Parliamo di diritti umani”, ha dichiarato Giachetti, “diritti che non solo devono essere garantiti nelle situazioni citate dalla collega Boldrini, ma anche all’interno delle nostre carceri. Siamo arrivati a un livello di sovraffollamento insostenibile, con oltre 62.000 detenuti a fronte di poco più di 40.000 posti disponibili, un sovraffollamento superiore al 130%”. Sono numeri, ci tiene a sottolineare, che si avvicinano a quelli che portarono la Corte Europea di Strasburgo a condannare l’Italia per trattamenti disumani e degradanti. Parliamo della sentenza Torregiani. Giachetti ha criticato duramente il governo per la mancata attuazione di misure efficaci per risolvere questa crisi. Ha ricordato come la proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale, elaborata assieme a Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, sia stata accantonata dalla maggioranza a settembre, lasciando il problema irrisolto. “Ci era stato promesso che il governo avrebbe agito con soluzioni definitive, ma il decreto emanato si è rivelato inefficace, e le modifiche introdotte non hanno alleviato il sovraffollamento né ridotto i suicidi”, ha aggiunto. Il deputato ha inoltre sottolineato l’inutilità delle proposte avanzate dal ministro Nordio, come l’utilizzo delle caserme per ospitare i detenuti o la creazione di carceri separate per chi è in attesa di giudizio e per i condannati definitivi. “Questi interventi sono rimasti solo sulla carta. Il risultato è che continuiamo a violare sistematicamente i principi costituzionali che impongono di evitare trattamenti disumani e degradanti”, ha dichiarato Giachetti. Il deputato rende noto che, accompagnato dalla collega Maria Elena Boschi, ha recentemente visitato il carcere “Mammagialla” di Viterbo, dove ha trovato una situazione drammatica: 750 detenuti stipati in una struttura progettata per accoglierne 415. La polizia penitenziaria, con un organico previsto di 330 unità, ne conta in servizio solo 164, rendendo impossibile garantire adeguate condizioni di sorveglianza e sicurezza. “Abbiamo trovato celle senza bagno, dove 43 detenuti sono costretti a urinare in bottiglie di plastica, svuotandole poi nei bagni comuni del corridoio. Questo non è solo indegno, è una palese violazione della Costituzione e dei diritti umani”, ha affermato con indignazione il deputato. Giachetti ha concluso il suo intervento chiedendo al governo di assumersi finalmente le proprie responsabilità. “Non è accettabile che lo Stato non sia in grado di fornire dati precisi sui suicidi in carcere, con numeri discordanti tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Garante dei detenuti e le associazioni che operano sul campo. La situazione sta esplodendo e non possiamo più rimandare un confronto serio e risolutivo su questo tema”. L’appello di Giachetti - che ha definito l’emergenza carceraria una questione di priorità nazionale - attende ora una risposta concreta dal ministro Nordio e dal governo, nella speranza che si passi finalmente dalle parole ai fatti. Un intervento, il suo, che scuote le coscienze e porta alla luce una situazione carceraria che rischia di diventare sempre più esplosiva, chiedendo un immediato intervento per restituire dignità a chi sta scontando una pena. Quanti suicidi dietro le sbarre? Quei numeri che non tornano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2024 Discrepanze nei dati del 2023, 36 i decessi “scomparsi”. Nel labirinto burocratico del sistema penitenziario italiano, si palesa nuovamente una discordanza nei numeri: decine di vite che sembrano dissolversi tra le pieghe delle statistiche ufficiali. Un confronto tra i rapporti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti rivela discrepanze che sollevano interrogativi. Non si tratta solo della questione dei suicidi, già evidenziata negli articoli precedenti. Nell’anno 2023, i numeri parlano da soli. Mentre il Ministero della Giustizia dichiara ufficialmente 122 decessi per cause naturali entro il 31 dicembre, il Garante Nazionale ne conta ben 138, con ulteriori 20 casi in attesa di accertamento. Sommando questi dati, emergono 36 persone che, letteralmente, scompaiono dalle statistiche ministeriali. Ma non parliamo solo di numeri: dietro ogni cifra c’è una vita, un dramma umano. Nel corso del 2023, le carceri italiane hanno registrato 64 suicidi, 1.806 tentativi di suicidio e ben 11.694 casi di autolesionismo. Ogni statistica è un grido di dolore che echeggia tra le celle. Le aggressioni non sono da meno: 4.971 casi documentati, di cui una parte significativa rivolti contro il personale di Polizia Penitenziaria e amministrativo. Nell’anno 2024 ormai verso la conclusione, gli eventi critici sono aumentati. Un dato che parla di una tensione crescente, di un sistema sempre più prossimo al collasso. Il Garante lancia l’allarme: il sovraffollamento non è solo un problema di spazi, ma un moltiplicatore di sofferenza. All’aumentare della pressione nelle strutture detentive, crescono esponenzialmente gli ‘ eventi critici’: più persone ammassate in spazi ristretti significa più conflitti, più disagio, più disperazione. Cosa succede quando questi numeri vengono presentati in sedi internazionali? Il Consiglio d’Europa e gli organismi sovranazionali ricevono report ufficiali che sembrano nascondere più di quanto non rivelino. Le 36 vite ‘scomparse’ non sono solo una questione statistica, ma sollevano interrogativi sulla trasparenza dei dati. Ricordiamo ancora una volta la questione del numero esatto dei suicidi. Il DAP, tramite una nota di precisazione, ha parlato di 79 suicidi nel corso dell’anno. Ora i nuovi aggiornamenti del Garante Nazionale parlano di 81 detenuti che si sono tolti la vita, mentre Ristretti Orizzonti, che riporta i decessi seguendo le notizie di cronaca, parla di 86 detenuti che si sono tolti la vita. Numeri, quest’ultimi, che confermerebbero il record assoluto dei suicidi negli ultimi trent’anni. Servono risposte chiare: perché questi numeri non tornano? Forse c’è qualche errore da rimediare? Tra i detenuti malattie psichiche, infettive, e tumori in aumento di Patrizia Maciocchi Il Sole24 Ore, 12 dicembre 2024 La Società italiana di medicina e sanità penitenziaria lancia l’allarme e presenta il progetto per un servizio unico al ministero della Salute. Aumentano nelle carceri italiane i casi di tubercolosi, di epatite e di tumori, cresce il disagio psichico. Problemi dovuti anche a un servizio di assistenza medica a macchia di leopardo, che non assicura interventi tempestivi. Per questo la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (SimsPe) ha presentato al ministero della Salute un progetto nazionale di sanità penitenziaria, con un approccio multidisciplinare per la presa in carico delle persone detenute da parte di un servizio unico e non più delegato a varie Asl. E l’esigenza di rendere più efficiente la cura dei detenuti nasce dai dati raccolti nel 2024, un annus horribilis per le carceri italiane. A iniziare dal record dei suicidi, 86 al 10 dicembre, più alto degli 80 del 2023 e sopra il triste primato di 85 morti del 2022. Il diritto alla salute dei detenuti - In occasione del XXV convegno nazionale “Agorà Penitenziaria 2024”, promosso dalla SimpsPe, medici, psichiatri e psicologi hanno acceso un faro sulla gestione del diritto alla salute nelle carceri italiane, dove ogni anno passano più di 100mila persone, caratterizzata da difficoltà operative e dalla frammentazione su scala nazionale. Secondo i dati del ministero della Giustizia, le persone con misura restrittiva della libertà al 30 ottobre 2024 erano 226.280, una popolazione analoga a quella del Molise. “Per tutelare la salute dei detenuti bisogna prendere in carico il detenuto quando entra in detenzione - sottolinea Antonio Maria Pagano, Presidente SimpsPe, Dirigente medico psichiatra responsabile Uosd, Tutela salute adulti e minori area penale presso la Asl di Salerno - Anzitutto vi sono da fronteggiare le patologie psichiche e la sofferenza psicologica, le più diffuse in carcere; a seguire vi sono le malattie gastrointestinali, incluse obesità e diabete, dovute a un’alimentazione insufficiente o non corretta oppure alla mancanza di vitamina D, che insieme alla sedentarietà porta anche all’osteoporosi. La mancanza di cure odontoiatriche è alla base di patologie che interessano la bocca, il tratto gastro-esofageo. La mancanza di screening porta a ritardi diagnostici su tumori e malattie infettive. Purtroppo non ci sono dati scientifici sulle patologie di cui soffrono i detenuti. È emblematico che l’ultimo report sulle tossicodipendenze realizzato da ministero della Salute e Conferenza Stato-Regioni rileva l’assenza di questo fenomeno, mentre in base alla nostra esperienza possiamo stimare che almeno il 30% dei detenuti sono tossicodipendenti. Serve dunque un intervento di sistema per garantire prevenzione, cura e riabilitazione”. Una rete nazionale di reparti ospedalieri - La proposta della SimpsPe punta alla creazione di una rete nazionale di reparti ospedalieri di medicina per detenuti, al potenziamento delle reti per la tutela della salute mentale e delle dipendenze sia intra sia extrapenitenziaria per le persone in misura non detentiva ma comunque private della libertà, unita a una revisione legislativa dei relativi istituti giuridici, oltre che a iniziative a sostegno del riconoscimento della specificità della medicina penitenziaria. Questo implica un lavoro in sinergia tra il Servizio sanitario nazionale, l’Amministrazione penitenziaria e giudiziaria e il Welfare. “In Italia, l’assistenza sanitaria penitenziaria è frammentata tra vari servizi - sottolinea Antonio Maria Pagano - Il progetto nazionale di sanità penitenziaria (Pnsp) che proponiamo prevede vari punti: anzitutto, in ogni azienda sanitaria ci deve essere un servizio che svolga il ruolo di interfaccia unica con l’amministrazione penitenziaria e con l’autorità garante per assicurare coerenza tra le misure per la sicurezza e la tutela della salute. In secondo luogo, serve che ogni azienda sanitaria si doti di un unico servizio di sanità penitenziaria che inglobi al suo interno le competenze per prevenzione, cura, riabilitazione, assistenza di base e specialistica, odontoiatria sociale, tossicodipendenze, salute mentale, minori di area penale. Inoltre, queste unità operative di sanità penitenziaria: dovranno coinvolgere professionisti dedicati esclusivamente all’assistenza delle persone private della libertà; devono basarsi su un approccio multidisciplinare e creare percorsi universitari nelle scuole specialistiche maggiormente afferenti alla realtà carceraria (psichiatria, infettivologia, igiene, medicina legale, farmacologia e tossicologia clinica, odontoiatria), per far capire la specificità delle carceri e i servizi necessari nei penitenziari. Questo è il nostro progetto che auspichiamo possa essere preso in considerazione per il prossimo piano sanitario nazionale”. Le malattie infettive - “Le malattie infettive rappresentano una componente storicamente rilevante delle patologie diffuse nei penitenziari - ha spiegato il Prof Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SimsPe. Per infezioni come l’Hiv e l’epatite C ci siamo giovati dei significativi progressi della ricerca. L’epatite C, infatti, si può eradicare dall’organismo definitivamente, in poche settimane e senza effetti collaterali; i trattamenti antiretrovirali permettono di cronicizzare l’infezione da Hiv, con una sopravvivenza e una qualità di vita simili alla popolazione generale. In questi anni, SimpsPe ha realizzato diversi progetti per favorire gli screening e il linkage to care con importanti risultati. L’Hcv è stato eliminato in diversi penitenziari, mentre gli screening per l’Hiv hanno consentito di avviare i relativi trattamenti riducendo in vent’anni la prevalenza dal 10% all’1%. Appaiono significative le innovazioni diagnostiche per l’individuazione di pazienti detenuti con sospetto di tubercolosi, patologia che andrebbe sistematicamente ricercata a ogni ingresso negli istituti penitenziari”. Un alert è stato lanciato anche per l’aumento di alcune patologie. “Negli ultimi anni abbiamo riscontrato una recrudescenza di alcune infezioni - ha sottolineato il Prof. Giordano Madeddu, consigliere SimpsPe e professore associato di malattie infettive, Università di Sassari. I detenuti stranieri rappresentano circa un terzo della popolazione carceraria: questo porta a un ritorno dei casi di tubercolosi (soprattutto per chi proviene dall’Africa) e di epatite B (soprattutto per chi viene dall’Est Europa e dall’Africa). Inoltre, si assiste, come anche nella popolazione libera, a una ripresa delle infezioni da Hiv legate a rapporti sessuali, mentre prima erano maggiormente dovuti a tossicodipendenza. Per questo SimpsPe ha varato alcuni progetti per i prossimi anni finalizzati a rendere il periodo di detenzione un momento che favorisca screening e trattamenti su queste persone che accedono con maggiore difficoltà ai servizi di cura e assistenza. In particolare, stiamo lavorando a progetti rivolti all’implementazione dei nuovi trattamenti antiHiv con i farmaci long acting, che consentono il mantenimento del controllo dell’infezione con somministrazioni intramuscolari ogni due mesi migliorando l’aderenza e riducendo lo stigma nelle persone con Hiv detenute, e progetti innovativi per la microeliminazione dell’epatite C”. “Quel calendario della Polizia penitenziaria è uno schiaffo alla Costituzione” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 dicembre 2024 Sul canale YouTube del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è apparso un video promozionale del calendario del Corpo di Polizia penitenziaria per l’anno 2025 che ha suscitato molte polemiche per in quanto, come sottolineato in una interrogazione del Partito Democratico al Guardasigilli, “ritrae scatti e momenti finalizzati a trasmettere una narrazione sul lavoro degli agenti della polizia penitenziaria tutta orientata alla repressione e all’aspetto punitivo; si vedono agenti in tenuta anti- sommossa, armati con pistole e altre armi da fuoco, intenti in esercitazioni per immobilizzare i detenuti”. Ne parliamo con la deputata dem e membro della Commissione giustizia, Michela Di Biase. Qual è l’aspetto più critico di quel video? L’immagine che si vuole dare del corpo della Polizia Penitenziaria è tutta incentrata sulla violenza e sull’aspetto repressivo. L’articolo 27 comma 3 della Costituzione Italiana, che stabilisce i principi della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena, sancisce con il comma terzo che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. In nessuna delle immagini del calendario della Polizia Penitenziaria ne troviamo traccia. Il tema della formazione è ben lontano dall’essere essenzialmente manifestazione di forza fisica. Mi chiedo che senso abbia l’immagine di agenti intenti in esercitazioni per immobilizzare i detenuti. Abbiamo chiesto di ritirare il calendario perché trasmette un’immagine distorta del prezioso lavoro svolto dagli agenti penitenziari. Come giudica la risposta di Nordio alla sua interrogazione? Il ministro Nordio per giustificare le immagini violente presenti nel calendario della Polizia Penitenziaria, si è lasciato andare ad uno show: l’Italia per lui pare essere fondata sulla guerra. Le armi per un Ministro della Repubblica fanno parte della nostra storia. Lo trovo incommentabile. Invece di riconoscere la gravità di quelle immagini è venuto in Aula ancora una volta a prendere le difese del sottosegretario Delmastro Delle Vedove. Mi chiedo se non sia stremato di dover ogni volta venire in Aula per difenderlo. Lui, artefice della riforma sulla separazione delle carriere, diventa l’emblema dell’unicità delle carriere della giurisdizione. Per quarant’anni magistrato e per due anni, invece che ministro, avvocato difensore. Delmastro in una intervista domenica al Giornale parlando del calendario della polizia penitenziaria ha detto: ‘la verità è che alla sinistra stanno antipatiche le forze dell’ordine’... Questa è una vera e propria menzogna che rimandiamo al mittente. Sono due anni che chiediamo che vengano ripristinati i tagli avviati nel 2023 sul Dap e sulla giustizia minorile. In ogni occasione - e lo abbiamo fatto con i nostri emendamenti anche in questa manovra finanziaria - abbiamo chiesto nuove assunzioni di organico della Polizia Penitenziaria (mancano 18 mila agenti), risorse adeguate per l’assunzione di psicologi, psichiatri ed educatori e fondi per la formazione degli agenti. Con gli emendamenti chiediamo anche interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle carceri, perché del fantomatico piano carceri non c’è traccia. Vediamo se voteranno le nostre proposte o se continueranno a sostenere la Polizia Penitenziaria solo a parole. Secondo lei esistono delle criticità nell’approccio culturale al lavoro da parte della polizia penitenziaria? Non credo che le criticità nell’approccio culturale siano un problema che riguarda la Polizia penitenziaria. Alcuni fatti gravissimi che sono avvenuti non compromettono il lavoro prezioso degli agenti che ogni giorno operano in condizioni di grande difficoltà per la situazione esplosiva delle carceri. L’approccio culturale sbagliato è quello del Governo che con questo calendario - e non solo - trasmette un’immagine distorta di quella che dovrebbe essere la funzione rieducativa della pena. In generale come giudica l’attuale situazione delle nostre carceri? È una situazione drammatica, i numeri parlano chiaro. Al 25 novembre 2024, secondo i dati pubblicati nel rapporto dell’Autorità Garante per i detenuti, il numero delle persone in carcere risulta essere di 62.410, su una capienza di 51.165 ma 46.771 posti effettivi. Cifre che portano l’indice nazionale di sovraffollamento al 133,44%. Siamo al di sopra dei dati che portarono alla sentenza Torreggiani del 2013 e alla successiva condanna della Corte europea dei diritti umani. C’è di peggio, perché abbiamo raggiunto il numero record di 85 suicidi nel 2024 di detenuti e 7 di agenti della Polizia Penitenziaria. Sono numeri che dicono molto più delle parole. Il Governo fa finta di nulla e si nasconde dietro gli annunci di un piano carceri che dopo due anni e mezzo è pura finzione. La realtà è che non ci sono le risorse e neanche i tempi per costruire nuovi istituti e non trovano fondi per migliorare tante situazioni di degrado negli edifici esistenti. Hanno approvato un decreto carceri, chiamato così proprio da loro, che non contiene nessuna soluzione. E in questo contesto drammatico la situazione tende a peggiorare perché l’esecutivo continua a far nascere nuovi reati in pieno delirio panpenalista. L’attenzione all’esecuzione penale è morta nell’indifferenza politica? Noi ci stiamo impegnando per ribaltare questa situazione. Vista la grave condizione in cui versano gli istituti di pena in Italia è ancora più importante parlare delle carceri per non abbassare la guardia rispetto alle condizioni di detenzione. Visitando le carceri, parlando con i detenuti e con il personale della Polizia Penitenziaria, ci si rende conto dei problemi che vivono e delle difficoltà in cui operano gli agenti. Nei mesi scorsi il Partito Democratico ha promosso una campagna in questo senso, dal titolo “Bisogna aver visto”. Siamo convinti che superare l’indifferenza verso la condizione dei detenuti sia il primo passo per affrontare l’emergenza carceri nel nostro Paese. Nordio: “La polizia ha il diritto di difendersi con le armi” di Angela Stella L’Unità, 12 dicembre 2024 “La giustizia è rappresentata dalla bilancia e dalla spada. La bilancia senza spada sarebbe impotente, occorre coniugare entrambe le cose. Nell’Inno di Mameli l’elmo di Scipio è l’elmo di Scipione non dei vigili del fuoco, la coorte era la compagnia dell’esercito romano. La spada è la custode della legge. La nostra polizia penitenziaria, che lavora in situazioni difficili, ed a cui va il mio omaggio e reverente ossequio, vista la violenza esercitata nei suoi confronti, ha il diritto di difendersi. Se questo viene rappresentato, nel modo in cui la tecnologia consente, con scudi e l’arma da fuoco, è soltanto una garanzia del rispetto della legge e della nostra sicurezza”. Lo ha detto ieri il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nell’Aula della Camera rispondendo ad una interrogazione parlamentare del Partito Democratico in merito al video promozionale del calendario del Dap che presenta diverse immagini di scudi, manganelli e manovre di immobilizzazione. I dem avevano chiesto “quali iniziative di competenza il Ministro interrogato intenda adottare al fine di scongiurare il rischio che l’immagine del lavoro quotidiano degli agenti della polizia penitenziaria sia tutta orientata all’aspetto repressivo e punitivo”. Ha replicato la deputata Di Biase: “Ministro noi le chiediamo di ritirare immediatamente questo calendario” in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione “e ritiri le deleghe al sottosegretario Delmastro Delle Vedove. Mi chiedo come lei non sia stremato: sono due anni che lei viene in quest’Aula a fare l’avvocato difensore di Delmastro”. Il Guardasigilli ha poi difeso il fine pena mai: “Abbiamo dimostrato sul campo che carcere duro ed ergastolo ostativo sono misure intangibili della lotta contro la mafia”. Prima di entrare a via Arenula aveva invece dichiarato che l’ostativo era una “eresia contro la Costituzione”. Un Ministro a cui non si può certamente adattare l’espressione con cui si descriveva Marco Pannella: “politico per convinzione, mai per convenienza”. “Diritto di difesa”. Nordio spegne le polemiche sul calendario della Polizia penitenziaria di Marco Leardi Il Giornale, 12 dicembre 2024 “L’arma da fuoco è una garanzia di rispetto della legge”, sottolinea il Guardasigilli, che alla Camera ha anche evidenziato l’impegno del Governo contro i suicidi in carcere e nella lotta alle mafie. La polizia “ha diritto di difendersi”. Lo ha ricordato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo alla Camera all’interrogazione del Pd sul calendario della Penitenziaria. I dem, infatti, erano riusciti a polemizzare persino sull’almanacco dei tutori dell’ordine, definito “violento e machista” per alcune immagini che ritraevano alcuni poliziotti armati o impegnati in movimentati addestramenti. La giustizia - ha spiegato il Guardasigilli intervenendo sull’argomento - “è rappresentata dalla bilancia e dalla spada. La nostra polizia penitenziaria, che lavora in condizioni difficili, vista la documentata violenza nei suoi confronti, ha il diritto di difendersi. L’arma da fuoco è soltanto una garanzia di rispetto della legge”. Suicidi in carcere, le misure di prevenzione del governo - Archiviata l’ennesima polemica strumentale delle opposizioni, Nordio ha quindi affrontato un tema ben più consistente e problematico quale quello dei suicidi in carcere. “Il trend si è rallentato ma non rallenta la nostra attenzione per un fenomeno così drammatico. Per prevenire il tristissimo fenomeno dei suicidi nei limiti del possibile abbiamo potenziato la rete di assistenza psicologica con progetti di monitoraggio in corso da tempo, c’è uno staff multidisciplinare con gruppi di lavoro per studio e analisi degli eventi suicidari delle persone detenute con il compito di definire protocolli operativi ed elaborare momenti di formazione”, ha affermato il ministro della Giustizia. “È in corso un reclutamento di personale specializzato, è stata integralmente coperta la pianta organica di funzionari giuridico pedagogici di 1100 unità, ci sono nuovi corsi di comunità per detenuti con disagio psichico e problemi di dipendenza per cui sono stati destinati 5 miliardi di euro annui”, ha quindi aggiunto il Guardasigilli, menzionando anche la nomina straordinaria di commissario per l’edilizia carceraria, con ampi poteri per poter riadattare alcune strutture per detenzione differenziata, di detenuti tossicodipendenti. “Il lavoro, lo studio e lo sport sono la via per ridurre il fenomeno, che come più volte ho definito è un fardello di dolore”, ha concluso Nordio. Mafie, Nordio: “Carcere duro ed ergastolo ostativo intangibili” - Nel question time, il ministro ha anche a interrogazioni sull’ergastolo ostativo. “Abbiamo dimostrato sul campo che carcere duro ed ergastolo ostativo sono misure intangibili della lotta contro la mafia”. L’ex magistrato ha quindi incalzato: “Di tutte le cose che mi sorprendono quella che mi sorprende di più è l’accusa a questo governo di aver ceduto sull’ergastolo ostativo, abbiamo esordito due anni fa proprio tenendo fermissima la barra del timone sul caso Cospito”. Poi la risposta ai pentastellati, che segnalavano che tre boss o killer di mafia sono in semilibertà. “A quanto risulta dalle informazioni del Dap, i detenuti a cui fate riferimento godono della semilibertà dal 2018 e dal 2019, quindi ben prima che questo governo intervenisse con il decreto del 2022, con cui abbiamo definito i confini della concessione dei benefici per chi è in regime di carcere duro, ed è stata trasformata da assoluta in relativa la percezione di pericolosità per coloro che non hanno collaborato con la giustizia, che oggi sono ammessi a chiedere i benefici sono in determinate condizioni”, ha spiegato Nordio. I paletti del Quirinale sul ddl sicurezza. Il Governo apre a modifiche, attacco Lega di Mario Lombardo e Ugo Magri La Stampa, 12 dicembre 2024 L’ultima “toppa” un provvedimento bandiera per il Governo: l’ammorbidimento delle norme sulle madri detenute e sulle sim per i migranti. Se così, all’improvviso, il ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani fa sapere che ci sarà una terza lettura sul disegno di legge Sicurezza, un provvedimento che sta facendo discutere da mesi, su cui la destra ha investito tanto e che ormai sembrava chiuso e intoccabile, diventa immediatamente intuibile un intervento del Quirinale. E infatti: c’è stata una riunione, ieri, tra il governo e i rappresentanti parlamentari di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, che ha analizzato i rilievi, ammesso le criticità, aperto a un confronto e impostato il lavoro di modifica. Tutto questo senza che, durante il vertice, ci fossero spaccature o liti. Fino a quando poi Matteo Salvini, come spesso gli accade, ha deciso di tenere comunque il punto e smarcarsi da quanto deciso con l’emissario di Giorgia Meloni. Ma ci arriveremo tra poco. Prima spieghiamo cosa è successo con il Quirinale. Sono fonti di maggioranza a chiamare direttamente in causa la presidenza della Repubblica che avrebbe suggerito correzioni, in assenza delle quali la costituzionalità del ddl sarebbe stata incerta e così pure la firma del presidente Sergio Mattarella. Trovare conferme sul Colle è doppiamente difficile: un po’ perché il Capo dello Stato è totalmente assorbito dalla visita di Felipe VI re di Spagna e della consorte Letizia, coi quali sarà oggi a Napoli; ma soprattutto in quanto Mattarella non ritiene utile, per la salute delle istituzioni, rendere pubblici quei suoi interventi che rientrano nell’ambito della moral suasion, tanto più efficace quanto meno lo si viene a sapere in giro. Ultimamente, oltretutto, le osservazioni del Quirinale sono state così frequenti che ai piani alti della Repubblica circola la battuta, paradossale, per cui Mattarella “qualcuna ogni tanto deve pur dargliela vinta”. Si preferisce insomma mantenere il riserbo. Nel caso del ddl Sicurezza, tuttavia, qualche osservazione presidenziale c’è stata. Quelle che saltano agli occhi, confermate da fonti governative, sono in particolare un paio. La prima sulle donne incinte oppure con figli che non raggiungono l’anno di età: mandarle ugualmente in carcere nel caso di reati, come prevede il testo attuale del ddl, farebbe a pugni col divieto di trattamenti contrari ai principi di umanità. L’altra osservazione, secondo ambienti parlamentari di centrodestra, riguarda il divieto peri migranti irregolari di acquistare una Sim del cellulare, impedendo perfino ai minori di comunicare con le famiglie d’origine. Anche in questo caso la Costituzione sarebbe messa in gioco, secondo il Colle. Sullo sfondo (sebbene inespressi) i dubbi di qualche consigliere presidenziale sulla proliferazione dei reati che mal si concilia con il sovraffollamento delle carceri, da cui l’ondata di suicidi tra i detenuti denunciata a più riprese proprio da Mattarella. E in questo senso perplessità sono sorte anche sulle aggravanti per le proteste in carcere. Il ddl Sicurezza è una norma simbolo della destra italiana. Quella che ne svela il volto: repressivo, secondo gli avversari; securitario e adeguato ai pericoli della società contemporanea, secondo chi ne difende la legittimità e i tre partiti di maggioranza. Introduce nuovi reati e pene più severe. Un inasprimento che è diventato motivo di orgoglio per Lega e FdI, in una sfida a destra senza fine, e che ogni volta aggiunge un capitolo nuovo. Come è avvenuto ieri, per l’appunto. Questi i fatti: Ciriani esce abbastanza soddisfatto dalla riunione di maggioranza. Con lui ci sono i capigruppo e due leghisti di governo: il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari e quello all’Interno Nicola Molteni. Due vedette di Salvini. A quanto risulta, nessuno dei due si oppone al nuovo tagliando del testo, voluto dal Colle, e al cronoprogramma che decidono assieme. Curiosamente, è Maurizio Gasparri, capogruppo del partito più moderato dei tre, Forza Italia, a porre la questione di non indietreggiare troppo. “Non lo snatureremo, state tranquilli. Saranno solo dei ritocchi”, assicura Ciriani. Rassicurazioni che sembrano bastare. Ma come hanno ormai imparato la premier Meloni e il vicepremier e leader di FI Antonio Tajani, bisogna sempre aspettare che prima o poi Salvini dica la sua. E puntualmente avviene. Con una nota, la Lega sconfessa la disponibilità di Palazzo Chigi a rivedere il testo e il confronto con Ciriani: “Va approvato immediatamente senza perdite di tempo”. Il ddl Sicurezza, sostiene Salvini, “è uno strumento di primaria importanza” voluto “fortemente dal governo per tutelare le nostre forze di polizia sottoposte a violenze durante le manifestazioni di piazza e per risolvere i principali fenomeni di allarme sociale, come le occupazioni abusive di case, che minano la sicurezza dei cittadini”. Non cita due passaggi a caso, il leader del Carroccio. Perché sulle sanzioni più severe per chi manifesta bloccando strade o ferrovie non si è solo acceso il riflettore del Colle, ma sta montando uno sdegno collettivo di studenti e lavoratori: ieri alla Camera è stata presentata la manifestazione organizzata dalla Rete No ddl Sicurezza e sostenuta da Verdi e Sinistra, che sabato porterà a Roma decine di migliaia di cittadini contro quello che considerano “un attacco senza precedenti ai diritti fondamentali e alla democrazia, che criminalizza il dissenso e reprime il conflitto sociale”. L’altro punto citato da Salvini sono le occupazioni abusive. Anche su questo ci saranno ritocchi, confermano dal governo, come sulle madri in carcere e sulle Sim ai migranti. Ddl Sicurezza, destra in tilt: “Possibile rinvio alla Camera” di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 dicembre 2024 Dopo un vertice di maggioranza al Senato, il ministro Ciriani preannuncia correzioni. I dubbi del Colle. Mentre il sottosegretario Ostellari ne approfitta per chiedere più pene per i furti in casa. Alta tensione nella maggioranza di governo: pomo della discordia è il Ddl Sicurezza che disvela ogni giorno di più la propria inapplicabilità e pericolosità perfino a chi ne ha fatto un vessillo populista e illiberale. Motivo per il quale ieri, dopo un vertice di maggioranza a Palazzo Madama ad hoc, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani ha annunciato un possibile rinvio alla Camera in terza lettura del testo attualmente ancora all’esame al Senato nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia. A far vacillare le sicurezze delle destre potrebbe aver influito anche l’approfondita riflessione avviata dal Quirinale rispetto a eventuali profili di incostituzionalità. La Lega però non ci sta e dal quartier generale di via Bellerio rende nota la posizione ufficiale: il pacchetto omnibus contro il quale si stanno mobilitando pezzi ampissimi di società civile e del ceto produttivo (soprattutto del nord) va “approvato subito senza perdite di tempo”. Mentre dalla Camera si leva la voce indignata dei deputati leghisti che vorrebbero assolutamente evitare una terza lettura. Al momento l’ipotesi più condivisa è un rinvio del voto a gennaio, dopo la manovra. Peccato che la giornata era iniziata con un’intervista del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari al quotidiano La Nuova nella quale l’esponente leghista aveva annunciato un inasprimento delle pene per i furti in casa da inserire con un emendamento nello stesso ddl Sicurezza. “Vogliamo alzare il minimo e il massimo della pena, in modo che chi ruba finisca in carcere. E renderemo effettivi anche i risarcimenti: se rubi vai in carcere e risarcisci il danno”, era stata l’affermazione roboante. Cosicché dalle parti dei partiti dell’opposizione questo era sembrato un tentativo di camuffare il rinvio alla Camera del ddl per avere la possibilità di riparare i troppi errori giuridici contenuti nel testo e le tante norme “talmente evidentemente incostituzionali che i giudici della Consulta, al primo rinvio da parte di un tribunale, potrebbero quasi evitare di riunirsi”, è la battuta che circola. L’elenco dei punti “deboli” del ddl è lungo quasi quanto quello delle nuove fattispecie di reato e delle aggravanti (venti in tutto) contenute nel provvedimento. Alcuni - “detenute madri e Sim ai migranti” - li cita lo stesso ministro Ciriani al termine del vertice di maggioranza al Senato cui hanno preso parte i sottosegretari leghisti Molteni (Interni) e Ostellari (Giustizia), e i capogruppo della maggioranza nella I° e II° commissione. “Non possiamo escludere una terza lettura del Ddl Sicurezza”, è stato costretto ad ammettere Ciriani pur assicurando che “non è stata presa alcuna decisione” in quanto, precisa il ministro di Fd’I, “stiamo verificando, perché ci sono opinioni diverse, sensibilità diverse: nessuno intende stravolgere i contenuti del testo, ma ci siamo soffermati su questioni di carattere giuridico e su alcune cose serve approfondire”. Vietare la coltivazione, la lavorazione e la vendita delle infiorescenze della canapa e dei suoi derivati equivale a cancellare in un colpo solo l’intero comparto, che già oggi vale 500 milioni di fatturato annuo e conta oltre 15 mila posti di lavoro Cia-Agricoltori italiani In realtà, come detto, l’elenco delle criticità evidenti è molto più ampio. A cominciare dall’articolo 18 che, per inseguire le manie proibizioniste anti cannabis, è riuscito a mettere a rischio l’intera filiera di produzione della canapa, “uno dei segmenti di eccellenza del Made in Italy agroindustriale” che, come avverte anche la Cia-Agricoltori italiani, rischia di scomparire “per ragioni esclusivamente ideologiche”. Ieri a Roma si sono radunati gli esperti del settore, soprattutto del Nord Italia, che hanno chiesto al governo di modificare “un provvedimento totalmente ingiusto”: “Vietare infatti la coltivazione, la lavorazione e la vendita delle infiorescenze della canapa e dei suoi derivati - ha spiegato il presidente di Cia, Cristiano Fini - equivale a cancellare in un colpo solo l’intero comparto, che già oggi vale 500 milioni di fatturato annuo e conta oltre 15 mila posti di lavoro. Rendendo così illegale una filiera ad alto valore aggiunto e a trazione giovanile, ma soprattutto dall’enorme potenziale produttivo e di investimento tra cosmesi, erboristeria, bioedilizia, florovivaismo, tessile, alimentare, tutti impieghi ampiamente riconosciuti dalla normativa Ue e che potrebbero generare, entro il 2030, fino a 10 miliardi di euro”. C’è poi, come ricorda il senatore dem Alfredo Bazoli, “l’aggravante generica per tutti i reati, indistintamente, commessi nelle stazioni o sui treni: una norma tra quelle più evidentemente incostituzionali. Per non parlare delle pene per chi “coopera” all’occupazione di un immobile, o dell’aumento di pena per istigazione di reato commessa a mezzo scritto e diretta a persone detenute; o ancora il nuovo reato di rivolta in carcere che comprende anche la resistenza passiva agli ordini”, perfino negli istituti di pena per minorenni. E così via: l’elenco è davvero lungo. Motivo per il quale il Pd si augura “che, per una volta, vi sia la disponibilità da parte della maggioranza ad un confronto vero che porti alla riscrittura del testo, e prevalgano le ragioni del diritto e della ragionevolezza su quelle dell’ideologia e della propaganda”. Mentre +Europa e Avs chiedono di ritirare del tutto quello che definiscono uno “strumento di propaganda cinica della destra” che, come avverte il verde Angelo Bonelli, “non ha nulla a che fare con la sicurezza ma rappresenta una svolta illiberale e autoritaria”. La frenata di Nordio per portare a casa le carriere separate di Errico Novi Il Dubbio, 12 dicembre 2024 La scelta del Governo: stop alle norme contro i “giudici schierati” e sul caso Scarpinato. Pur di vincere il referendum. Il convitato di pietra ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi, È la figura che fa ombra alla giustizia di Giorgia Meloni. Certo, se fosse ancora in vita, il Cav sarebbe il più appassionato sostenitore del ddl Nordio. Regalerebbe arringhe arroventate sulla separazione delle carriere. Ma il suo paradigma è anche il paradosso che imprigiona dal 1994 ogni ipotesi di riassetto dell’ordinamento giudiziario. Ogni volta che la politica si azzarda a mettere mano alla giustizia come sistema, compare l’ombra del Cavaliere. Del vecchio centrodestra che, secondo gli avversari, voleva “spuntare le armi ai pm”. E perché? Perché i pm sono quelli che tuttora l’opposizione identifica come spauracchio non della politica in generale, ma del solo centrodestra, appunto. Sempre in virtù dell’epocale conflitto tra i governi Berlusconi e le toghe. Ecco, oggi il problema è la polarizzazione, per la premier e per il suo guardasigilli Carlo Nordio. Lo spettro è la frattura del Paese in due tifoserie, come è stato fino all’ultimo Esecutivo del Cav: da una parte gli elettori di centrodestra, per lo più diffidenti nei confronti dell’ordine giudiziario, dall’altra gli elettori di centrosinistra, in gran parte tifosi delle Procure. Se di qui a un anno - quando con ogni probabilità la separazione delle carriere sarà sì approvata in via definitiva dal Parlamento ma dovrà essere sottoposta al referendum - davvero quella frattura si riproponesse, i rischi di una sconfitta del sì confermativo alla riforma Nordio sarebbero alti. E così negli ultimi giorni la tendenza forse impercettibile ma in realtà chiara, nell’azione del governo sulla giustizia, è a una sorta di “disarmo”. La strategia è rimodulata in una chiave più prudente, meno accesa nei toni, meno incline allo scontro con l’Anm. Lo dicono tre indizi che, in termini processuali, farebbero una prova. Primo, l’emanazione di un decreto sulle ordinanze cautelari in versione ultralight, diciamo pure spuntata. Nonostante ancora ieri sui giornali campeggiasse la denuncia del presidente Anm Giuseppe Santalucia secondo il quale solo “nei regimi liberticidi i processi sono segreti”, il decreto che attua definitivamente la cosiddetta “legge Costa” lascia non solo libertà di stampa ma anche piena libertà di gogna. Formalmente - “ordinatoriamente” ma in modo non “perentorio”, direbbero gli avvocati - il decreto legislativo approvato lunedì dal Consiglio dei ministri proibisce al giornalista di pubblicare in forma “letterale” gli atti dei gip. Di fatto però la norma non vieta, né avrebbe potuto farlo, al cronista di riferire i contenuti di un’ordinanza di custodia in carcere. E soprattutto, non introduce alcuna effettiva sanzione per i media che violassero il divieto: lascia intatta la solita, romanzesca multa da 51 a 258 euro prevista, nel 1930, da Alfredo Rocco, autore del codice penale fascista: erano centomila lire di minimo edittale, a quasi un secolo dal codice “mussoliniano” l’unica cosa che è cambiata è la valuta, la conversione in euro. E senza le sanzioni (che pure il Parlamento, nei propri “pareri”, aveva invocato) i divieti non esistono. Secondo indizio: è scomparso dai radar l’illecito disciplinare, sollecitato soprattutto dalla Lega, che avrebbe dovuto dissuadere i magistrati “culturalmente orientati all’accoglienza dei migranti” dal far seguire, alle libere manifestazioni del loro pensiero, decisioni giurisdizionali sul tema. In teoria si dovrebbe risfoderare lo schema proposto, nel lontano 1997, da Marcello Pera durante i lavori del “Comitato Sistema delle garanzie”. In realtà quella nuova sanzione per le toghe, sparita all’ultimo dal decreto giustizia dello scorso 29 novembre (il Dl 178 del 2024), è destinata, forse giustamente, a perdersi nel nulla del futuribile. Terzo indizio: ricordate il conflitto d’interessi di Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato con alcune indagini della commissione Antimafia, di cui i due parlamentari M5S (ed ex pm) fanno parte? Sparito pure quello. Non si hanno più notizie delle nuove regole che avrebbero dovuto precludere a de Raho e Scarpinato la partecipazione ad alcuni dei lavori di Palazzo San Macuto. Il conflitto d’interessi è affidato a una remota (nei suoi tempi d’approvazione) proposta di legge depositata dal centrodestra sia alla Camera che al Senato, ma che non è mai stata discussa né nell’uno né nell’altro ramo del Parlamento. Basta? Crediamo di sì. Sono segnali, forse piccoli ma inequivocabili, che mostrano come Meloni e Nordio, con i dovuti tempi e modi, vogliano fare delle carriere separate la riforma più ecumenica possibile. Vogliono che sia la riforma di tutti, anche degli elettori di centrosinistra, almeno potenzialmente. E perciò sono disposti ad allentare la morsa su altri versanti del conflitto con la magistratura e, in generale, con l’opinione pubblica avversa. Perché Meloni, sul “divorzio” fra giudici e pm, si gioca la propria ambizione di lasciare un segno nell’ordinamento costituzionale. E anche Nordio sa bene che non potrà essere ricordato per l’abolizione dell’abuso d’ufficio: lo si ascriverà tra i guardasigilli che hanno fatto la storia solo se riuscirà a separare le carriere. E riuscirà nell’impresa solo se allontanerà l’ombra della vendetta berlusconiana e, con questa, del regolamento di conti con la magistratura. Ma io dico che un’altra giustizia è possibile pure senza la Riforma di Paolo Ferrua* Il Dubbio, 12 dicembre 2024 La magistratura si è sempre mostrata contraria alla separazione delle carriere. Scelta pienamente legittima, sia perché i magistrati hanno diritto, come tutti i cittadini, alla libera manifestazione del loro pensiero, sia perché si tratta di una riforma che coinvolge direttamente l’esercizio delle loro funzioni. Nel rifiuto di questa riforma vanno, tuttavia, distinte due componenti. La prima sta nel timore di una perdita di indipendenza del pubblico ministero che, in regime di separazione delle carriere, potrebbe trovarsi assoggettato a vincoli più o meno intensi con il potere esecutivo. Timore più che comprensibile per diverse ragioni. Anzitutto perché in molti paesi dove le carriere sono separate l’accusatore è elettivo o soggiace in varie forme a collegamenti con il potere politico. In secondo luogo, perché la semplice separazione delle carriere, se non accompagnata da meccanismi di responsabilizzazione e controlli del pubblico ministero, lungi dal modificare gli attuali equilibri tra giudice e parti, paradossalmente porterebbe ad accentuare i poteri dell’accusa. All’interno di un corpo numericamente ridotto e gerarchicamente strutturato di pubblici ministeri, reclutati per concorso e dotati della massima indipendenza, si concentrerebbero temibili poteri nelle mani dei vertici, di fatto autorizzati a gestire le scelte più delicate nell’esercizio dell’azione penale, senza alcuna responsabilità politica. A quella che è polemicamente chiamata la ‘ casta’ dei magistrati subentrerebbe la ‘ casta’ dei pubblici ministeri, più autoreferenziali che mai, proprio in quanto corpo isolato ed autonomo da ogni altro potere; e la stessa discrezionalità che oggi si lamenta nell’esercizio dell’azione penale, lungi dal ridursi, sarebbe ancora più incontrollata. L’attuale Ministro assicura di essere un fermo sostenitore dell’indipendenza del pubblico ministero. Non mettiamo in dubbio la sua buona fede, ma non può certo ipotecare l’avvenire, che resta rimesso alle scelte delle future maggioranze: anche perché il collegamento del pubblico ministero con il potere politico, se realizzato con legge costituzionale, non sarebbe un golpe né una rottura dell’ordine democratico. In sintesi, non si può escludere che la separazione delle carriere sia solo il primo passo di una più ampia riforma destinata a concludersi con l’assoggettamento del pubblico ministero a controlli del potere politico o a un diverso sistema di reclutamento. A questo punto non intendo sottrarmi alla responsabilità di esprimere un’opinione in ordine alla separazione delle carriere all’interno del nostro ordinamento. La riassumo in tre concetti che complessivamente mi vedono piuttosto isolato rispetto alle posizioni oggi dominanti. Primo. Il modello accusatorio favorisce la separazione delle carriere come favorisce la giuria e con essa il verdetto immotivato, ma non vi è un rapporto di implicazione necessaria tra queste opzioni, perché il processo accusatorio può benissimo convivere con una magistratura reclutata per concorso, dove pubblici ministeri e giudici si distinguono solo per le funzioni esercitate, restando uniti nel medesimo corpo giudiziario: naturalmente, a condizione che le funzioni restino nettamente separate senza ibridismi come l’assurda figura della ‘ parte- imparziale’ e del ‘ cultore della giurisdizione’. In breve, mentre la separazione delle carriere non avrebbe alcun senso mancando il processo accusatorio, quest’ultimo può rappresentare una commendevole scelta di civiltà anche senza la separazione delle carriere. Secondo. Se si opta per la separazione delle carriere, il pubblico ministero, come rappresentante della società offesa dal reato, non può restare un corpo isolato e autonomo, ma va sottoposto al controllo del potere politico, sia esso ministeriale o parlamentare: lo suggerisce l’esigenza, appena indicata, di evitare la concentrazione di formidabili poteri in capo ai suoi vertici (procuratori della Repubblica e procuratori generali), che si troverebbero investiti di un demiurgico dominio sull’azione penale. Terzo. Inutile nascondersi che la prevedibile perdita di indipendenza del pubblico ministero ha la sua contropartita: il potere politico è inevitabilmente controinteressato all’accertamento di ogni fatto che coinvolga la legalità del suo operato o possa ostacolare la sua azione e i suoi programmi. (...) Pertanto, ad evitare il rischio di arbitrarie interferenze del potere politico, l’esercizio dell’azione penale deve restare obbligatorio. L’eventuale divieto di agire impartito dai vertici ministeriali è illegittimo e non esonera da responsabilità il pubblico ministero che obbedisca senza eccepire l’abuso. Contrariamente a quanto riteneva Calamandrei, la sottoposizione al potere politico non è incompatibile con l’obbligatorietà dell’azione penale, anzi la rende necessaria. La mitologica figura del pubblico ministero parte- imparziale. L’attacco al processo accusatorio si svolge a tre livelli: a) ideologico; b) giurisprudenziale; c) legislativo. Il primo livello si manifesta con il recupero di vecchie formule, alquanto arrugginite, che esaltano la figura del pubblico ministero come organo ‘ imparziale’, volto ad indagare a carico come a favore, vigile sentinella a tutela della giustizia. Tale, ad esempio, lo stereotipo del pubblico ministero come parte- imparziale o come ‘ cultore della giurisdizione’, dimenticando che quest’ultima o si ritiene limitata al giudice o, se include il pubblico ministero, deve necessariamente comprendere anche il difensore. Il tutto accompagnato da catastrofiche previsioni sulla natura di despotico e implacabile accusatore che assumerebbe il pubblico ministero in un regime di separazione delle carriere. Chi non è giudice nel processo è per logica esclusione ‘ parte’, e tale dev’essere il pubblico ministero. Di ‘ imparzialità’ si può (impropriamente) parlare per il pubblico ministero solo nel senso in cui l’art. 97 Cost. ne parla in rapporto alla pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e del principio di uguaglianza tra le persone nei cui riguardi si esercita l’attività pubblica. Non vi è alcuna necessità di ricorrere alla mitologica figura della parte- imparziale o ad altri slogan per concludere che il pubblico ministero, come rappresentante della società offesa dal reato e come organo rigorosamente soggetto alla legge, è tenuto a chiedere l’archiviazione ogniqualvolta gli elementi a sua disposizione non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna (art. 408 c. p. p.); allo stesso modo in cui nel dibattimento può chiedere la condanna solo quando vi sia la prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza (art. 533 c. p. p.). D’altronde, per la stessa polizia giudiziaria non occorre affatto postulare una sua imparzialità per concludere che ogni misura e iniziativa da essa intrapresa resta rigorosamente soggetta ai presupposti fissati dalla legge. L’idea che un pubblico ministero, a cui si attribuisca la qualità di ‘ parte’ in senso proprio e senza l’ossimoro della ‘ imparzialità’, sia sistematicamente indotto ad agire contro l’accusato nasce da una terribile confusione tra funzioni e azioni nel processo. La circostanza che il pubblico ministero sia un tipico organo di accusa è del tutto compatibile con l’obbligo di chiedere, in assenza di elementi idonei alla condanna, l’archiviazione o il proscioglimento, a seconda della fase processuale. In altri termini, il livello funzionale (parte o giudice, accusa o difesa) va tenuto ben distinto da quello attanziale, ossia dalla condotta che devono tenere i protagonisti, gli attanti del processo. L’obbligo del pubblico ministero di svolgere accertamenti anche a favore dell’imputato (art. 358 c. p. p.), lungi dall’implicare la sua ‘imparzialità’, è una semplice proiezione dell’esigenza di attribuire un solido fondamento all’azione penale, in assenza del quale s’impone come doverosa la richiesta di archiviazione. Il processo penale è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione nel ruolo di un soggetto si ripercuote inesorabilmente sugli altri, che si appropriano dello spazio rimasto vacante. In particolare, l’esperienza documenta che, quando il pubblico ministero latita o esita nella sua tipica funzione di parte, il processo inquisitorio è alle porte: a compensare la carenza, interviene il giudice, convertendosi in accusatore. Dunque, è bene che, ai fini di una corretta ripartizione dei compiti, il pubblico ministero mantenga nel processo la sua veste di organo focalizzato sull’accusa. (...) Le ‘finestre giurisdizionali’ della riforma ‘ Cartabia’: l’alternativa alla separazione delle carriere e l’affossamento del modello accusatorio. La terza forma di ostilità al modello accusatorio si è manifestata con la riforma ‘ Cartabia’. È un attacco, all’apparenza, meno aggressivo rispetto alla svolta inquisitoria del ‘ 92, più artificioso, più prudente e calcolato, nel quale la violenza arretra e si modera, ma soltanto al fine di colpire più in profondità. Nella logica del modello accusatorio, l’indagine preliminare dovrebbe essere fluida e poco formalizzata, dato che la vera garanzia sta nella irrilevanza probatoria delle dichiarazioni raccolte e degli accertamenti svolti in quella fase: il rapido passaggio al dibattimento è il necessario presupposto sia per un uso ristretto delle misure cautelari sia per conservare la memoria dei testimoni. La riforma ‘Cartabia’ prende la strada opposta e percorre le vie retrograde del ‘ garantismo inquisitorio’; moltiplica, nella fase delle indagini preliminari, gli adempimenti, i termini, le formalità e le c. d. finestre giurisdizionali, destinate agli interventi e ai controlli del giudice. L’indagine si frammenta in una sequenza di micro- procedure, accompagnate da distinzioni spesso oziose o inafferrabili. L’asse del processo si sposta verso l’indagine preliminare, appesantendola e trasformandola in un labirinto: la prospettiva del dibattimento si allontana, cresce il rischio di irripetibilità delle dichiarazioni già raccolte e la memoria dei testimoni si affievolisce: i “non ricordo ma, se l’ho detto, è vero” si moltiplicano, come accade nel processo misto. C’è una legge inesorabile, troppo spesso dimenticata, su cui Franco Cordero ha scritto splendide pagine: quanto più si sovraccarica di pseudo- garanzie l’indagine preliminare, tanto più si svilisce e perde autonomia il dibattimento, mentre si incrementa il ricorso alle misure cautelari Lungi dal depenalizzare, la riforma ‘ Cartabia’ de- processualizza, favorisce con ogni mezzo la fuga dal dibattimento, a tutto vantaggio del rito abbreviato e degli altri meccanismi di definizione anticipata. Vi è stato un tempo in cui si discuteva se difendersi solo nel processo o anche dal processo. Con la riforma Cartabia si inaugura una nuova esperienza nella quale si auspica che la difesa si svolga prima e fuori del dibattimento, al fine di contenerlo nei più ristretti limiti: siamo all’inno funebre del modello accusatorio. Il valore dei nuovi formalismi in termini garantisti è decisamente esiguo: i termini per le determinazioni del pubblico ministero e per le decisioni del giudice sono quasi sempre meramente ordinatori; quanto al controllo sulla tempestiva iscrizione della notizia di reato, la retrodatazione disposta dal giudice è subordinata alla pressoché diabolica prova che il ritardo sia “inequivocabile” e “non giustificato”. La ragione di questa ipertrofia delle indagini preliminari è abbastanza trasparente. Si ottiene il duplice risultato di affossare definitivamente il processo accusatorio e, insieme ad esso, ogni prospettiva di revisione dell’ordinamento giudiziario. L’idea è di indurre a credere che i controlli del giudice e le finestre giurisdizionali possano propiziare un pubblico ministero modellato più come organo di giustizia che di accusa e costituire così una valida alternativa alla separazione delle carriere. Il ‘ messaggio’ veicolato dalla riforma è, all’incirca, il seguente: se il giudice vigila sul pubblico ministero sin dall’indagine preliminare e la difesa in caso di abusi ne può sempre invocare l’intervento, è inutile, anzi dannoso, separare le carriere; non si otterrebbe altro risultato che accentuare al massimo grado la parzialità dell’accusa. È una scelta decisamente infelice: separate o no che siano le carriere, nella fase delle indagini preliminari si registrerà sempre, sia per la vicinanza al fatto di reato sia per la pressione dell’opinione pubblica, una maggiore sensibilità alle ragioni dell’accusa. La vera garanzia, come insegna Franco Cordero, sta nel celere passaggio alla fase del dibattimento e nella barriera che deve garantirne la sua autonomia rispetto agli esiti delle indagini preliminari. È solo nell’oralità e nel contraddittorio che si può realizzare la piena parità tra le parti. *Professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Torino Tutte le intercettazioni irrilevanti che avremmo volentieri evitato di leggere di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 dicembre 2024 I giornali della gogna protestano contro il “bavaglio” (inesistente). Ora torneranno a fare ciò che facevano prima del 2017, pubblicando parti delle misure cautelari che servono solo a sputtanare le persone coinvolte. Breve antologia, dal caso Guidi a Morisi. I quotidiani abituati da sempre a copiare e incollare sulle loro pagine parti di ordinanze di custodia cautelare (soprattutto le intercettazioni), senza mai considerare se si tratta di contenuto penalmente rilevante o soltanto sputtanante nei confronti delle persone coinvolte, sono in fibrillazione dopo l’approvazione definitiva del decreto legislativo che vieta la pubblicazione testuale delle ordinanze di arresto. I giornali della gogna protestano contro la “legge bavaglio”, che in realtà non fa che ripristinare le norme esistenti prima del 2017, quando non risulta che in Italia non ci fosse libertà di stampa. Anche prima del 2017, tra l’altro, la normativa prevedeva sanzioni meramente simboliche per chi non si attiene al divieto di non pubblicare i virgolettati dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale. La verità, dunque, è che non esiste nessuna legge bavaglio contro cui fare “obiezione di coscienza”, come prospettato dal Fatto quotidiano (che peraltro dimostra anche di non sapere la differenza tra Corte di giustizia Ue e Corte europea dei diritti dell’uomo). Lo stesso giornale ieri ha denunciato in un articolo “cosa non avremmo saputo” con la riforma ora approvata, come ad esempio le parole con cui il gip di Venezia descrisse la personalità di Filippo Turetta (“imprevedibile”, “potrebbe uccidere ancora”), o una delle intercettazioni dell’inchiesta di Milano sulla centrale degli spioni: “Tutta Italia inculiamo”. Notizie, è evidente, veramente cruciali per la vita pubblica del Paese. Oltre alla fake news sul “bavaglio”, insomma, si aggiunge l’ipocrisia dilagante dei giornali che ora torneranno a fare ciò che già facevano prima del 2017. Come pubblicare l’intercettazione in cui la ministra Guidi (non indagata) si lamentava con il proprio compagno di essere “trattata come una sguattera del Guatemala”. O l’intercettazione in cui il ministro Lupi (anche lui non indagato) chiedeva a uno dei più autorevoli dirigenti ministeriali di incontrare il proprio figlio neolaureato per parlare di “consulenze e suggerimenti”. Oro per i populisti forcaioli. I difensori della libertà di stampa potranno tornare a pubblicare, come fecero nel luglio 2015, l’intercettazione in cui Matteo Renzi esprimeva giudizi non lusinghieri su Enrico Letta (“Un incapace”), o quella in cui, sempre Renzi si sfogava con il padre (“Non dire bugie”), indagato nell’inchiesta Consip (e assolto pochi mesi fa). Anche in questo caso, notizie essenziali per il pubblico. Come l’intercettazione che nel 2010 travolse l’allora capo della protezione civile, Guido Bertolaso: “Se Francesca potesse, verrei volentieri per una ripassatina”. I giornali la pubblicarono sulle prime pagine parlando di scandalo sessuale. Peccato che Francesca non fosse una escort, ma una fisioterapista. E pazienza se questo copia-incolla dalle ordinanze di custodia cautelare nel frattempo ha prodotto danni reputazionali, economici e famigliari irreparabili sui malcapitati. Dopo la riforma del 2017, ora di fatto cancellata, questa prassi non ha fatto altro che aggravarsi. L’elenco è infinito, ma basta pensare allo scandalo che nel 2021 ha travolto Luca Morisi, all’epoca guru social di Matteo Salvini, con i quotidiani che si sono spinti a pubblicare integralmente alcune chat non riguardanti le accuse rivolte nei suoi confronti (detenzione e cessione di droga), poi comunque archiviate, bensì i suoi orientamenti sessuali, cioè uno degli ambiti più privati della vita di ciascun individuo. Lo stesso si può dire delle intercettazioni del primo colloquio avvenuto nel carcere di Verona tra Filippo Turetta e i suoi genitori, dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin. “Non sei uno che ammazza la gente, hai avuto solo un momento di debolezza”, disse Nicola Turetta al figlio, con l’evidente scopo di dissuaderlo dal compiere gesti estremi. La diffusione dell’intercettazione, del tutto penalmente irrilevante, suscitò un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica, spingendo Nicola Turetta a chiedere pubblicamente scusa. Ci perdoneranno i “guardiani” della libertà di stampa, ma di queste strabilianti opere di informazione si sarebbe volentieri fatto a meno. Stop al mercato nero degli atti giudiziari, firmato protocollo-svolta tra pm e media di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 dicembre 2024 Mentre gli amici del giornalismo manettaro e del sindacato delle toghe strillano isterici contro il decreto Nordio, una rivoluzione investe il palazzo di giustizia di Milano: ora i redattori accreditati potranno avere direttamente dalle cancellerie le ordinanze di custodia cautelare e i decreti di sequestro preventivo senza omissis. Mentre a Roma strillano gli amici di Travaglio e del sindacato delle toghe contro il decreto Nordio che tutela la reputazione di ogni cittadino sottoposto a indagini, parte da Milano l’iniziativa più sensata e rivoluzionaria. Un protocollo firmato a palazzo di giustizia tra i vertici della magistratura e gli ordini di avvocati e giornalisti perché si ponga fine al commercio clandestino di atti giudiziari come quelli che transitavano dalla procura nazionale antimafia a certe redazioni. Nelle inchieste più rilevanti i giornalisti accreditati potranno avere direttamente dalle cancellerie le ordinanze di custodia cautelare e i decreti di sequestro preventivo senza omissis. Una vera svolta, dopo decenni di carriere costruite, sia quelle di certi pm che quelle dei cronisti giudiziari, solo sulla capacità del commercio di carte, quelle che avrebbero dovute restare segrete. Si sono messi intorno al tavolo per oltre un anno il presidente del tribunale di Milano Fabio Roia, il procuratore Marcello Viola, il presidente dell’ordine degli avvocati Antonino La Lumia e quello dei giornalisti della Lombardia Riccardo Sorrentino e la presidente della Camera Penale Valentina Alberta. Hanno preso in esame le situazioni di cronaca giudiziaria in cui più di altre l’interesse giornalistico andava posto sulla bilancia al pari con la tutela della presunzione di innocenza. E hanno posto l’accento sui casi di crimini particolarmente gravi, del coinvolgimento di personaggi noti o di arresti in flagranza e misure di custodia cautelare in carcere. Abbiamo adottato un sistema di trasparenza, ha spiegato il presidente Roia. “È un punto d’incontro -ha commentato il procuratore Viola- tra esigenze non contrapposte ma concorrenti”. Come spesso succede, non solo nel settore della giustizia, Milano si rivela una volta di più un passo in avanti, grazie anche al ritrovato equilibrio dei vertici di una magistratura che preferisce mettere le carte in tavola piuttosto che fare la faccia feroce salvo poi lavorare sottacqua, collaborando alla pubblica gogna, come troppo spesso capitato negli ultimi trent’anni. Ed è bene che questa pagina si sia chiusa, come si spera, proprio ieri mentre si celebravano i funerali di Paolo Pillitteri, uno dei sindaci più amati e anche più vilipesi dal circo mediatico-giudiziario degli anni novanta. Naturalmente non mancheranno gli scontenti, tra le toghe come in certe redazioni, anche perché la firma del protocollo milanese è caduta negli stessi giorni in cui il Consiglio dei ministri ha licenziato un decreto che interviene sulla stessa materia, e in particolare sulla pubblicabilità degli atti nella fase delle indagini preliminari. Non va dimenticato che il punto di partenza di tutte queste iniziative è un provvedimento importato dall’Europa sulla tutela della presunzione di innocenza, con la direttiva del 2016 che vietava alla magistratura e alla stampa di presentare la persona indagata o imputata come colpevole. Quella direttiva aveva trovato la prima applicazione in Italia grazie a interventi del deputato Enrico Costa e della ministra del governo Draghi Marta Cartabia, mentre strillavano, proprio come oggi, il sindacato delle toghe e quello dei giornalisti, come se si stesse attentando alla democrazia. Ma benedetto sarà il giorno in cui si porrà fine alla pubblicazione di questi documenti che sempre di più sono diventati veri pamphlet ricchi di intercettazioni che parevano finalizzate a cucire addosso al malcapitato un vestito su misura più per la gogna che per la reale imputazione. Il decreto votato dal consiglio dei ministri nella seduta di lunedì vieta la pubblicazione delle ordinanze “che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Il che non significa che di una certa notizia non si possa parlare, ma solo che non si può pedissequamente copiare quanto scritto dal giudice. Ed è paradossale la protesta da parte della federazione della stampa, quasi come se non ci si fidasse dei propri cronisti. La verità è un’altra ed è racchiusa in una sola parola, “intercettazioni”. Sono quelle, tra l’altro spesso mal trascritte e ancor peggio interpretate, che perdono di efficacia se non riportate tra virgolette. E meno male che è così. Pensate alla differenza tra riportare una frase del tipo “guarda che ti ammazzo” e “Tizio disse a Caio dell’intenzione di ammazzarlo”. Peggio ancora quando si tratta di conversazioni tra esponenti politici, come insegna tutta la sovraesposizione dell’inchiesta che ha visto a Genova come imputato l’ex presidente della regione Liguria Giovanni Toti. Pure girano frasi di commento negativo che paiono variabili impazzite. Dalla Federazione della stampa che lamenta “Un altro provvedimento pensato per proteggere delinquenti e colletti bianchi”, fino ai vertici del sindacato delle toghe che addirittura paventano una “compressione di spazi vitali per la democrazia”. E chissà che cosa succederà quando sarà approvata la norma sulla separazione delle carriere tra funzioni requirenti e giudicanti. Terza guerra mondiale? Nuovi posti in Dna, tutto rinviato: gli esclusi già promettono battaglia di Simona Musco Il Dubbio, 12 dicembre 2024 Rimandata la scelta dei nuovi sostituti della Direzione nazionale antimafia a causa di divergenze sulle candidature e delle critiche sugli esclusi. Due proposte contrapposte e possibili ricorsi al Tar complicano il processo decisionale. Si preannuncia una strada in salita quella per la nomina dei sette nuovi sostituti in Dna. La scelta sarebbe dovuto arrivare nel plenum di oggi, dove all’attenzione dei consiglieri ci sono due proposte contrapposte. Ma ad anticipare la decisione sono state le prime lamentele degli esclusi, che hanno depositato delle osservazioni che hanno richiesto un surplus di approfondimento e, dunque, il rinvio alla seduta del 18 dicembre. Inizialmente la togata di Md Domenica Miele aveva chiesto un ritorno in Commissione, opzione appoggiata anche dall’indipendente Andrea Mirenda e dal togato di Unicost Marco Bisogni. Mirenda aveva anche suggerito la possibilità di un rinvio, proposta colta al balzo dal togato di Area Marcello Basilico e che, alla fine, è stata accolta dalla maggioranza dell’assemblea. Le proposte in campo sono due, con cinque nomi votati all’unanimità da tutti i membri della Terza Commissione - e pertanto presenti in entrambi i pareri - e due ulteriori nomi messi sul piatto da ogni gruppo di lavoro per coprire i posti aggiuntivi. A comparire in entrambi le proposte sono Ida Teresi, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, Paolo Sirleo, sostituto procuratore della Repubblica a Catanzaro, Antonio De Bernardo, anche lui pm a Catanzaro, Federico Perrone Capano, sostituto a Bari e Stefano Luciani, in forza alla procura di Roma. Per la proposta A, i due nomi “extra” sono quelli di Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma, e Antonella Fratello, in forza alla procura di Napoli. Una proposta supportata dal nuovo asse Area-Magistratura indipendente, che teoricamente ha la maggioranza dei voti in plenum, come emerso dal voto per il nuovo Testo unico. La proposta B, invece, è quella a sostegno di Maurizio Giordano, anche lui pm a Napoli, e Giovanni Musarò, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, nomi proposti dal togato di Unicost Antonino Laganà. A fare osservazioni sono stati Federico Manotti, sostituto procuratore presso la Dda di Genova, e Liliana Todaro, in servizio alla procura di Messina. Manotti ha sottolineato errori di valutazione nel curriculum, che comprende anche l’esperienza nel campo del terrorismo da 10 anni, oltre ai 6 di Dda, materie nelle quali alcuni dei candidati proposti non hanno esperienza significativa. La toga ha contestato il giudizio della Commissione secondo cui le sue esperienze sarebbero “meno significative” rispetto a quelle di altri candidati. Todaro, invece, ha sottolineato la propria esperienza pluriennale sia nell’ambito antimafia sia nella lotta al terrorismo, maturata come componente di gruppi di lavoro specializzati e in collaborazione anche con la Dna, contestando la decisione della Commissione di assegnare un punteggio più alto a un altro candidato che non ha mai avuto funzioni antimafia. La scelta dei nomi è arrivata dopo una lunga riflessione, a causa di difficoltà che non riguardano solo la difficoltà di selezione tra i curriculum presentati, considerati tutti di livello estremamente elevato, ma anche l’interpretazione della circolare che definisce i requisiti richiesti. In particolare, il punto centrale è stato capire se per ricoprire il ruolo di sostituto a Via Giulia fosse necessaria un’esperienza specifica nel campo della criminalità mafiosa, oppure se potessero essere valutati anche profili alternativi, quali ad esempio la concreta e attuale esperienza in ambito antiterroristico o di cyber crime, eventualmente arricchita da altre, non meglio definite, competenze pertinenti alla Direzione nazionale antimafia, di cui peraltro non vi era menzione nel bando di ottobre 2023. Le fibrillazioni riguardano dunque alcuni profili problematici, tanto che nell’aria, prima ancora del voto, c’è già l’ipotesi di ricorsi al Tar. Un pericolo che, secondo alcune voci critiche, conferma i rischi già evidenziati al momento dell’approvazione del nuovo Testo unico, quando al centro della discussione c’era la discrezionalità del Consiglio, rimasta assai ampia grazie alla proposta approvata solo pochi giorni fa dal plenum. Le scelte effettuate dalla Commissione - questa la critica sollevata da alcuni - presenterebbero alcuni profili di incoerenza col bando, risultando valorizzate - solo ex post - competenze per certi versi secondarie rispetto a quelle classiche, a favore di candidati privi di esperienza in Dda. Tutto rinviato al giorno 18, dunque, per un plenum che già promette scintille. Vasto (Ch). Suicidio in carcere del dirigente Asl Sabatino Trotta: “La tragedia si poteva evitare” di Miriam Giangiacomo Il Messaggero, 12 dicembre 2024 Ieri mattina, presso il tribunale di Vasto, si è svolta un’udienza relativa al suicidio in carcere di Sabatino Trotta, psichiatra e dirigente Asl di Pescara, avvenuto il 7 aprile 2021, a poche ore dal suo arresto nell’ambito di un’inchiesta su una gara da più di 11 milioni di euro indetta dalla Asl pescarese per l’affidamento della gestione di residenze psichiatriche extra-ospedaliere. L’udienza ha riguardato A.C., agente di Polizia penitenziaria, accusato di omicidio colposo, violazione dell’articolo 40 del codice penale, e negligenza nella sorveglianza e prevenzione dei suicidi nella sezione detentiva di Trotta. Davanti al giudice monocratico Stefania Izzi, i consulenti delle parti civili, Adriano Tagliabracci e Vittorio Fineschi, hanno evidenziato gravi carenze nel monitoraggio del detenuto. Trotta si sarebbe impiccato con il laccio dei pantaloni della tuta legandolo al gancio di apertura della finestra e la perizia medica indica che lo psichiatra è morto per asfissia meccanica dopo circa 20 minuti dal gesto. “Se fosse stato soccorso tempestivamente - hanno dichiarato - si sarebbe potuto evitare il decesso”. Inoltre, è emerso che Trotta era stato introdotto in cella tra i 60 e i 90 minuti prima del tragico evento. La tragedia forse avrebbe poteva essere evitata se il protocollo previsto per i nuovi detenuti fosse stato rispettato. Si sostiene infatti che sia stato annullato il percorso di accoglienza, evitando una visita psicologica e consentendo a Trotta di tenere oggetti pericolosi, come il laccio dei pantaloni con cui si è impiccato. Sembra inoltre che Trotta fosse in possesso di un televisore che trasmetteva notizie sul suo arresto, aggravando in questo modo il suo stato emotivo. Durante le ore cruciali, inoltre, non sarebbero stati effettuati controlli nella sezione, omettendo di utilizzare lo spioncino per verificare la condizione del detenuto. Sul fronte giudiziario, la prossima udienza è fissata per il 12 marzo del 2025 per l’esame dell’imputato e ulteriori tre testimonianze della difesa. La discussione è programmata per il 23 aprile 2025 alle ore 15. L’agente Caiazza è rappresentato dall’avvocato Arnaldo Tascione, mentre i familiari di Trotta sono assistiti dall’avvocato Ernesto Torino Rodriguez. Il caso ha suscitato un dibattito più ampio sulla gestione dei detenuti e sulle responsabilità delle istituzioni carcerarie: omissioni gravi e mancanza di una sorveglianza adeguata potrebbero essere state determinanti nel consentire il gesto fatale dello psichiatra pescarese. Viterbo. Omicidio in carcere, rito abbreviato condizionato a perizia psichiatrica Corriere di Viterbo, 12 dicembre 2024 Sarà processato con rito abbreviato condizionato a una perizia psichiatrica, il detenuto 23enne Iliyanov Krasimir Tsvetkov, che il 19 dicembre 2023 assassinò il compagno di cella, il 49enne Alessandro Salvaggio, nel penitenziario di Mammagialla. Erano circa le 22 quando al culmine di una lite per futili motivi, il 23enne bulgaro strangolò a mani nude il 49enne siciliano, residente a Barrafranca, in provincia di Enna. Al momento della morte, il detenuto, con precedenti per spaccio, stava scontando una condanna a poco più di due anni per evasione. Il movente del delitto sarebbe da ricondurre a un presunto debito di denaro. Sulla salma del 49enne fu eseguito l’esame autoptico all’ospedale Belcolle, e i familiari, rappresentati dall’avvocato Giacomo Pillitteri, del foro di Enna, nominarono come consulente medico legale Cataldo Raffino per poi denunciare i vertici del carcere. Cinque mesi fa il gip Rita Cialoni aveva accolto l’istanza di giudizio immediato avanzata dal pm Siddi e allo stesso tempo la difesa aveva chiesto il rito alternativo, che in caso di condanna prevede lo sconto di un terzo della pena. Ieri si è celebrata l’udienza al cospetto del gip Savina Poli che dopo aver ammesso l’istanza difensiva ha affidato l’incarico a Stefano Ferracuti, psichiatra della Sapienza. Da parte sua, il difensore dell’omicida, l’avvocato Giacomo Manganella, ha nominato come consulente lo psichiatra pescarese Giustino Cerritelli. Otto invece i familiari della vittima che si sono costituiti parti civili con l’avvocato Giacomo Pillitteri. Si torna in aula tra qualche mese per l’ascolto degli specialisti. Isernia. Detenuto morto, il compagno di cella assolto dall’accusa di omicidio di Antonio Esposito internapoli.it, 12 dicembre 2024 È stato assolto per non aver commesso il fatto A.S., giovane di Giugliano, finito sotto processo con l’accusa di omicidio del detenuto Fabio De Luca. Il Gup di Isernia, Dott. Sicuranza, ha emanato poco fa la sentenza a carico di S. (difeso dall’avvocato Salvatore Cacciapuoti). Anche l’accusa, vista l’assenza degli elementi probatori a carico dell’imputato, aveva chiesto l’assoluzione. Ed in effetti all’esito del processo S. è stato assolto da ogni accusa riguardo l’omicidio avvenuto nel 2014. De Luca fu ritrovato gravemente ferito nelle celle del penitenziario, in circostanze poco chiare. Aveva 45 anni quando, nel novembre del 2015, fu portato d’urgenza in ospedale in gravi condizioni. Era recluso per rapina ai danni della madre residente. Il reato ipotizzato inizialmente era quello di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto. Le gravi condizioni in cui versava - grave trauma cranico e conseguenti lesioni cerebrali all’altezza della nuca - ne determinarono il trasferimento a Campobasso per essere sottoposto a intervento chirurgico alla testa. L’11 novembre, dopo circa una settimana di agonia in rianimazione, De Luca muore al Cardarelli a seguito dei traumi riportati. A seguito dell’autopsia si ipotizzò che ad ammazzare De Luca non fu una caduta accidentale, così come si era ipotizzato inizialmente, ma un “trauma cranico multifocale”. Dunque si fece strada l’ipotesi di un pestaggio in cella. Tre ex compagni di detenzione della vittima furono accusati di omicidio dalla procura di Isernia. Tra questi c’è anche Aniello Sequino di Giugliano. Oggi la sua vicenda giudiziaria ha avuto fine con la completa assoluzione. Brindisi. “Dike, dentroltre le sbarre”: il protetto di riflessione e cambiamento dedicato detenuti di Paola Bari brindisireport.it, 12 dicembre 2024 Non solo un percorso formativo finalizzato all’acquisizione di competenze e attestati ma anche e soprattutto un percorso umano, di riflessione, di cambiamento e speranza. Nella mattinata di oggi, mercoledì 11 dicembre, presso la casa circondariale di Brindisi, si è svolta la conferenza stampa di chiusura del progetto “Dike, dentroltre le sbarre”, realizzato dalla Cooperativa Il Sogno con sede a San Pietro Vernotico nell’ambito dell’avviso pubblico promosso dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Puglia e Basilicata. Con il patrocinio gratuito del Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale della provincia di Brindisi nella persona della dottoressa Valentina Farina, rappresenta una risposta concreta alle sfide della detenzione, il progetto ha avuto come obiettivo centrale il miglioramento del benessere dei detenuti attraverso percorsi formativi e iniziative innovative”. Si legge nella nota di presentazione. Dodici detenuti della casa circondariale di Brindisi hanno conseguito certificati su competenze informatiche e l’attestato Haccp sulla salubrità degli alimenti. Ma soprattutto hanno attraversato un percorso di trasformazione interiore che è andato oltre ogni aspettativa. “Questo corso non era come gli altri, senza rendervene conto ci avete portato all’esterno del carcere anche se non fisicamente ma mentalmente, sembra quasi una magia”, spiega Antonello in un video podcast pubblicato su radio I-next, attraverso il quale i detenuti hanno avuto l’opportunità di raccontare in prima persona il proprio cammino di crescita e riflessione. “Non è tutto come si vede dall’esterno, noi siamo persone come tutti gli altri. Vogliamo solo riprenderci la nostra vita”. Ed è proprio l’aspetto umano, che ha messo le persone al centro delle attività rendendole protagonista, che ha reso questo percorso un progetto vincente. Durante la conferenza che ha visto la partecipazione della direttrice del carcere Valentina Meo Evoli, Mariella Ruggiero, dottoressa pedagogica, Tamara De Luca, pedagogista esterna funzionaria altro ente pubblico, Roberta Casaluce e Barbara Mele, docenti dell’ente di formazione Dea Center, Arianna Albi, Federica De Luca e Andrea Bari, oltre che dei detenuti che hanno concluso il corso, è stato raccontato il progetto, durato tre mesi, ma anche il rapporto di fiducia, confidenza e speranza che ha unito chi stava dietro ai banchi e chi dietro alla scrivania che ha permesso agli stessi partecipanti di vivere un’esperienza fuori dal comune pur restando dentro quattro mura. “La formazione, realizzata in collaborazione con Dea Center, ente accreditato dalla Regione Puglia, ha mirato a trasferire competenze tecniche e professionalizzanti, indispensabili per un reinserimento efficace nella società e nel mondo del lavoro. Parallelamente, la produzione di contenuti multimediali, come interviste e podcast, è stata curata dalla redazione di Radio iNext, progetto della Cooperativa Il Sogno, nato dall’avviso pubblico “Luoghi Comuni” iniziativa della Regione Puglia promossa dalle Politiche Giovanili e dall’Arti (Agenzia Regionale per la Tecnologia e l’Innovazione) sotto la guida di Andrea Bari, portando le storie dei detenuti oltre le mura del penitenziario”. “Il progetto mi ha dato tanto, ero diffidente e titubante, grazie alla vostra bravura e determinazione sono riuscito ad aprirmi. Secondo me questo è un buon progetto che deve essere portato anche in altri istituti”. Inoltre “Un aspetto cruciale del progetto è stato il focus sulla famiglia. La detenzione non solo priva i detenuti della libertà, ma spesso spezza legami fondamentali per il loro equilibrio e il reinserimento sociale. Secondo Alain Bouregba, mantenere i legami familiari riduce significativamente il rischio di recidiva. Particolare attenzione è stata data ai padri detenuti, aiutandoli a riflettere sulle proprie scelte e sull’impatto che queste hanno sui figli. L’obiettivo? Promuovere una genitorialità responsabile, capace di rispondere ai bisogni affettivi ed educativi dei più piccoli”. Massa Carrara. La sfida dell’alternativa al carcere, gli operatori: “Poche risorse e poco personale” La Nazione, 12 dicembre 2024 Il convegno delle Camere Penali di Massa e Spezia al Pungiglione ha aperto una riflessione sulla situazione. “Dall’esecuzione intramuraria alle misure alternative” è stato il tema del convegno organizzato dalle Camere Penali di Massa Carrara e della Spezia al Villaggio Il Pungiglione con il patrocinio dei Comuni di Pontremoli e Mulazzo, il sostegno della Diocesi e il contributo del Rotary Lunigiana. L’evento ha concluso la settimana che in Lunigiana ha visto esporre la mostra “Dall’Amore nessuno fugge” nel Tribunale di Pontremoli e poi trasferita a Mulazzo. Il convegno ha sottolineato l’importanza dell’attivazione di percorsi educativi individuali per l’esecuzione pena, portando come esempio l’esperienza concreta che la Comunità Papa Giovanni XXIII vive all’interno delle Comunità Educanti. I lavori hanno posto al centro la figura fondamentale del legale. Come ha messo in luce l’avvocato Fabio Sommovigo, presidente della Camera Penale della Spezia “i penalisti sono spesso il primo e unico contatto umano che il condannato ha dalla propria parte: è quindi compito dell’avvocato comprendere quali siano le buone prassi da mettere in atto e quali gli errori da evitare per proporre alla persona un percorso di riflessione e revisione positivo e prevenire indicibili sofferenze date dall’attuale disastro delle carceri che ad oggi conta, per il 2024, 85 suicidi fra i detenuti e 7 fra i poliziotti penitenziari. Un dramma che la politica volutamente ignora”. Aspetto sottolineato anche dal vescovo Mario Vaccari: “Le carceri sono diventate sinonimo di sofferenza”. E ha sottolineato il valore del “Pungiglione, vera perla di questa diocesi e della Lunigiana, luogo dove si cerca di trasformare questa sofferenza in speranza”. E’ questo che si porta avanti al Villaggio dell’Accoglienza attraverso la “contrapposizione della società del gratuito alla società del profitto, intuizione del nostro fondatore don Oreste Benzi”, ha ribadito Marzio Gavioli, responsabile della Zona Toscana per l’Apg23. La figura dell’avvocato non si ferma alla fase processuale, che è quella gestita e affrontata al meglio, ma deve “accompagnare la persona anche nella fase dell’esecuzione, fase che richiede una conoscenza diretta della persona e del territorio: solo in questo modo l’avvocato può essere un prezioso tramite tra il soggetto e il magistrato di sorveglianza”, ha detto l’avvocato Claudia Volpi, presidente della Camera Penale di Massa Carrara. Michela Mencattini, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Genova per l’ufficio di Massa ha lanciato un vero grido di aiuto: “Il lavoro va avanti grazie all’esperienza e alla sinergia tra le varie figure: Magistrato di sorveglianza, Uepe, avvocati, operatori del carcere, Serd, Servizio di salute mentale, Associazioni ed Enti territoriali e Servizi sociali. Ma le risorse ormai sono poche e non abbiamo più personale”. Bari. Il direttore dell’Ipm: “Qui non siamo a Mare Fuori. Difficile rieducare chi non vuole” di Nicolò Delvecchio Corriere del Mezzogiorno, 12 dicembre 2024 Da domani in onda sul Rai 2 “Oltre il cielo” girato al Fornelli. Saranno anche educatori, agenti e giovani detenuti dell’istituto penitenziario minorile “Fornelli” di Bari i protagonisti di “Oltre il cielo”, la docuserie Rai di otto puntate diretta da Alberto D’Onofrio in onda da domani su RaiPlay. La serie, che sarà poi trasmessa su Rai2, è infatti stata girata nel carcere barese e al “Beccaria” di Milano, e racconta la quotidianità sia di chi finisce dietro le sbarre da giovanissimo, sia di chi si occupa di rieducare i ragazzi. Con una doverosa premessa, come spiega il direttore del “Fornelli” Nicola Petruzzelli, in carica da 29 anni: “La realtà, qui dentro, non è per niente simile a quella di “Mare Fuori”. Direttore Petruzzelli, cosa vedremo nella serie? “Vedremo la realtà degli istituti minorili. D’Onofrio è riuscito nell’intento di fotografare, nella maniera più imparziale possibile, la vita all’interno delle carceri, facendo parlare in prima persona i testimoni. E incontrando anche le famiglie, in modo da capire da dove vengono i ragazzi e, soprattutto, dove vogliono arrivare. I ragazzi, poi, partecipano da anni a percorsi artistici e non sono stati timidi nel raccontarsi”. “Oltre il cielo” segue il successo di un altro prodotto Rai, “Mare fuori”, che però è una fiction. Quale è stato il suo impatto sulla percezione degli istituti minorili? “Chiariamo sin da subito che “Mare fuori” è un prodotto di pura fantasia, alcune delle dinamiche riprodotte non esistono minimamente. Se chi è all’esterno ha pensato che quella fosse la realtà, è meglio che cambi idea”. Uno dei detenuti del “Fornelli”, 19enne, nella prima puntata dice: “Quando esco voglio fare il casino, peggio di prima”. Come si rieducano certi ragazzi? “Rispondo con un’altra domanda: si può rieducare qualcuno non disponibile al cambiamento? La rieducazione non può essere coatta. La pedagogia, anche penitenziaria, si fonda sulla libera adesione al progetto di cambiamento. Noi educhiamo al cambiamento, ma non lo possiamo imporre. Quando quel ragazzo uscirà da qui avrà davanti un bivio, starà a lui scegliere che strada intraprendere. Noi diamo gli strumenti e facciamo delle proposte. Se continuerà a delinquere, sa bene a quali conseguenze andrà incontro”. Quali sono i reati maggiormente diffusi tra i giovanissimi? “I soliti contro la persona, il patrimonio e in materia di stupefacenti. Ma negli ultimi anni sono cresciute le violenze sessuali e i maltrattamenti in famiglia, spesso commessi da figli che pretendono dai genitori soldi per la droga. Un forte indice di disagio e di sofferenza relazionale nelle famiglie. In generale preoccupano tutte le dipendenze, dalla droga alla ludopatia. C’è l’abbaglio dell’arricchimento facile e del vivere senza lavorare. Il tutto parte dalle famiglie: ce la prendiamo con i giovani, ma sono gli adulti i primi a doversi fare un esame di coscienza”. Come si può evitare che i più giovani arrivino in carcere? “Lavorando sulla prevenzione, che parte da una corretta impostazione delle relazioni familiari. E da tutto ciò che c’è intorno: la scuola, le polisportive, gli oratori, i luoghi di aggregazione. Quelle sono le vere scuole di legalità”. Roma. Oggi si tiene il seminario “Nuovi approcci per la complessità detentiva” agensir.it, 12 dicembre 2024 Il Capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo, parteciperà al seminario “Nuovi approcci per la complessità detentiva - L’Italia protagonista del sistema penitenziario europeo: la sinergia tra normativa, formazione e professioni”, in programma oggi, giovedì 12 dicembre, alle 12.30, nell’Aula 1 della sede della Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani, in via G. G. Belli 86 a Roma. Il workshop è stato organizzato nella cornice del consolidato dialogo di collaborazione tra l’Università Lumsa e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che si arricchisce dell’apporto della Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani, “nella comune consapevolezza di come il rispetto dei diritti delle persone in regime di limitazione e privazione della libertà personale debba essere considerato un patrimonio da tutelare, rafforzare e consegnare alle generazioni future - si legge in una nota della Lumsa -. In questo senso appare fondamentale il ruolo e la responsabilità degli architetti e degli ingegneri, sia nel riconoscere i bisogni delle persone che nella struttura carcere sono recluse, sia nella cura della struttura stessa, dell’ambiente e del territorio in cui la struttura opera. Professionisti attenti alla dimensione sociale di luoghi in cui alla persona privata della libertà personale vengano garantiti diritti, progresso, opportunità, inclusione. È necessario, quindi, provare a ripensare lo spazio fisico della pena a partire dalla condizione materiale e psicologica dei detenuti, con attenzione al loro benessere, pur nella difficile situazione da loro vissuta”. È in questo contesto che nasce l’idea del corso di alta formazione sulle “Strutture detentive e management gestionale complesso”, che la Fondazione Lumsa Human Academy ha messo in cantiere per la primavera del 2025, pensandolo come laboratorio di idee utili a un miglior funzionamento del sistema penitenziario e delle sue strutture. Uno spazio in cui le attuali e future generazioni di professionisti - ingegneri e architetti - saranno chiamati a progettare, con uno spirito attento alla persona, le nuove strutture penitenziarie del Paese e a comprenderne le logiche virtuose di management gestionale. dopo i saluti di professori Francesco Bonini (rettore dell’Università Lumsa) e Stefano Zamagni (presidente della Lumsa Human Academy - Fondazione Luigia Tincani), seguiranno gli interventi di Giovanni Russo (capo Dipartimento Amministrazione penitenziaria), Domenico Alessandro De Rossi (presidente del Cesp - Centro europeo studi penitenziari), Alfredo De Risio (presidente di Across - Associazione dei Centri per la ricerca e l’osservazione dei sistemi di salute), Roberta Bocca (vicepresidente dell’Ordine architetti Roma), Filippo Cascone (presidente della Fondazione Ordine degli ingegneri della Provincia di Roma) e Riccardo Turrini Vita (Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale). Cagliari. Al carcere di Uta genitori detenuti e figli minori insieme per la festa di Natale sardegnareporter.it, 12 dicembre 2024 Prosegue il progetto “Liberi dentro per crescere fuori” e celebra i 10 anni della carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti. A 10 anni dalla firma della Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti lunedì 16 dicembre a Uta musica e giochi per la Festa di Natale in carcere. Con il progetto Liberi dentro per crescere fuori, e grazie all’adesione della Casa circondariale al progetto La partita con mamma e papà ideata da Bambinisenzasbarre, le famiglie si ritroveranno per trascorrere qualche ora di svago. L’obiettivo è di garantire ai figli dei detenuti il diritto alla relazione con i propri genitori in un ambiente più umano e inclusivo. Una festa di Natale in carcere per far sentire più vicine le persone detenute nella Casa circondariale di Uta e i loro familiari, con particolare attenzione al legame con i figli minori. Si tratta di un’ulteriore attività di Liberi dentro per crescere fuori, il progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e che vede coinvolte le cooperative sociali cagliaritane Elan (capofila), Exmè & Affini, Panta Rei Sardegna, Solidarietà Consorzio; la Casa circondariale “Ettore Scalas” di Uta, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sardegna (Uiepe), il Servizio Politiche Sociali Abitative e per La Salute del Comune di Cagliari e l’associazione Prohairesis e Aragorn S.r.l. Con l’organizzazione di Exmé Domus de Luna, nel pomeriggio del 16 dicembre, lo spirito natalizio oltrepasserà le sbarre del carcere grazie al potere festoso della musica e del gioco. Dolci e panettoni faranno il resto. Durante il pomeriggio saranno presenti gli amici di lunga data di Domus de Luna, l’artista Manu Invisible e DJ Gufo. Oltre alla gara tra minori e genitori, ci sarà la premiazione dei partecipanti all’iniziativa “La partita con mamma e papà”. Il progetto Liberi dentro per crescere fuori, della durata di 4 anni, nasce proprio con il molteplice obiettivo di affiancare i minori, figli di persone sottoposte a detenzione fuori o dentro il carcere di Uta, per combattere stigmi e pregiudizi e contemporaneamente offrire opportunità di crescita, integrazione sociale e radicamento del legame affettivo col genitore recluso. Per questo è prevista l’attivazione di un sistema integrato di interventi personalizzati e multidimensionali di supporto non solo al genitore recluso e al figlio minorenne, ma anche all’intero nucleo familiare. Per ottenere questi risultati il progetto si avvale di un’équipe di sistema, formata da un assistente sociale e da uno psicologo e un pedagogista, con il compito specifico di avviare il percorso preliminare all’attivazione dei vari interventi; e una micro-équipe di caso, formata da un educatore, uno psicologo e un pedagogista, che si occupa di portare avanti i progetti. “Schiavi della vendetta”: viaggio infernale tra ergastolo e 41bis di Frank Cimini L’Unità, 12 dicembre 2024 Il libro a cura dell’associazione “Yairaiha” racconta gli effetti fisici e psicologici devastanti del carcere duro: “una tortura silenziosa”. Pagina nera del nostro diritto penale. Luna Casarotti, l’autrice, scrive di tortura di Stato e spiega: “Il regime del 41bis caratterizzato da severe misure di isolamento si traduce in un costante preoccupante esempio di abuso di potere all’interno del sistema penitenziario, disumanizzando i detenuti e riducendoli a meri strumenti da controllare. Questa modalità di detenzione concepita per raccogliere informazioni e mantenere il predominio sui prigionieri considerati pericolosi, infligge una tortura silenziosa con effetti devastanti sia sul piano psicologico che fisico”. Tra le conseguenze gravi vi sono disturbi mentali che colpiscono gli individui più vulnerabili. Un esempio di questo deterioramento è rappresentato dalla sindrome di Ganzer, un raro disturbo psichico che si manifesta con risposte a semplici a domande che vengono definite approssimative. I detenuti che ne soffrono hanno amnesie dissociative aggravate dallo stress esterno. Ricercatori americani hanno documentato che l’isolamento prolungato può portare a depressione, ansia, istinti suicidari. Nelle celle del 41bis le finestre sono spesso oscurate o protette da reti e plexiglas privando i reclusi dell’opportunità di vedere l’esterno e di orientarsi nel tempo. La percezione di sorveglianza costante amplifica l’angoscia e il senso di oppressione rendendo ogni giorno una lotta contro forze invisibili. Il 41bis tende a spogliare le persone di ogni identità e senso di appartenenza. In questo è il degno erede dell’articolo 90 ideato e applicato ai tempi dell’emergenza antiterrorismo. Il 41bis serve non solo per punire ma anche per estorcere informazioni. Tendenzialmente è una fabbrica di “pentiti”. I diritti sono sacrificati in un ambiente in nome di obiettivi politici e di sicurezza. La Corte Costituzionale del 2019 aveva sancito l’illegittimità di parte della normativa sull’ergastolo ostativo dove si negava l’accesso ai benefici in assenza di “collaborazione” con la giustizia. In questo contesto anche il divieto di possedere foto di familiari come accaduto a Alfredo Cospito può apparire una misura minore, eppure assume un significato simbolico di controllo e privazione emotiva. Infatti i magistrati accogliendo il ricorso del difensore Flavio Rossi Albertini ordinarono la restituzione delle immagini perché non c’erano rischi di violazione del regime detentivo in assenza di messaggi criptati. L’ergastolo può essere considerato col 41bis una pena di morte mascherata. Per chi crede nella possibilità di recupero del reo il 41bis rappresenta una delle pagine più oscure del nostro diritto penale. Riccardo Bonacina, un’eredità che supera i confini del non profit di Massimo Calvi Avvenire, 12 dicembre 2024 Le parole più ricorrenti nei pensieri che tante persone in queste ore stanno esprimendo nel ricordare Riccardo Bonacina, giornalista, morto all’età di 70 anni questo mercoledì 11 dicembre 2024, sono due: passione e impegno. Chiunque lo abbia conosciuto, anche per poco, anche da lontano, può facilmente ritrovarsi in questi termini, che curiosamente paiono l’eco di un tempo diverso, appartenere a un contesto che nell’estremo saluto può persino delineare un’eredità. Bonacina è stato tante cose, il suo curriculum di giornalista dice che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso è stato tra i protagonisti del primo telegiornale delle reti Fininvest, “Studio Aperto”, poi ideatore della testata giornalistica su Rai2 “Il coraggio di vivere”, soprattutto fondatore di un periodico che ha fatto la storia del giornalismo sociale in Italia: “Vita”. Poi, certo, molto altro: trasmissioni radiofoniche, progetti editoriali, eventi, elaborazione culturale, impegno civile e sociale, dunque politico. “Vita” - all’inizio settimanale, oggi mensile e sito internet - è stata però la creatura capace di definirne la figura di padre e, a discendere, di maestro. Era il 1994, esattamente trenta anni fa, quello che tutti avevano sempre e solo definito “volontariato” o “mondo del bene”, stava conoscendo una trasformazione radicale, tra evoluzione culturale e novità normative: nasceva il Terzo settore, l’economia Non profit, prendeva forma e coscienza, convergendo, un aggregato di associazioni, cooperative e nuove imprese sociali, fondazioni, donne e uomini uniti dall’impegno e dal desiderio di far esprimere al massimo le migliori energie, con l’ambizione di essere interlocutore e parte sociale, e dove il valore dell’interesse si declinava principalmente nell’attenzione per gli altri. Alle aspirazioni serviva un racconto, e di quel racconto Bonacina è stato il protagonista indiscusso. C’eravamo anche noi, ovviamente, c’era “Avvenire”, presenza ampia, autorevole, costante, ma era difficile prescindere da Riccardo Bonacina, impossibile non domandare consigli, suggerimenti, confronti. Il Terzo settore italiano ha trovato in quegli anni la giusta narrazione per spiccare il volo, definirsi, nessun dubbio sul ruolo di chi è stato guida, riuscendo ad esserlo anche da lontano, persino nell’inconsapevolezza del ruolo. Come a pochi riesce. Per ricordare una persona le parole giuste sono quelle più intime, dei veri vicini e compagni di viaggio. E qui il registro cambia, si fa meno istituzionale. Passione e impegno lasciano il campo ad altro, molto di più. Uomo di fede, non conosceva confini, dialogava con tutti, intellettualmente onesto. Amava Péguy, dicono, e poteva essere altrimenti? È stato padre, non solo dei suoi figli, non solo del giornalismo sociale. Un padre spinge i figli nel mondo, non è nel controllo la sua autorevolezza, ma nella fiducia, e sprona a non accontentarsi della superficie, mai, incoraggia a cercare la storia, e a scriverla. Un dono, un altro passo, di un altro tempo. Nel ricordo, la voce si rompe: “Di quelle persone che pensi non muoiano mai”. Ecco. “Vita”, il giornale creato per “raccontare il mondo in modo non disperante, ma generativo” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 12 dicembre 2024 Riccardo Bonacina è morto a 70 anni, a poche settimane dalla Festa per il trentesimo anniversario di “Vita”: la sua creatura editoriale nata per “raccontare il mondo in modo non disperante né pettegolo, ma generativo”. Con la sua voce gentile, ma qui affaticata, Riccardo Bonacina aveva registrato il messaggio destinato alla Festa per i 30 anni di Vita, la sua creatura editoriale venuta al mondo proprio nell’autunno del 1994. Riccardo è morto, a settant’anni, dopo una malattia che non ha mai fiaccato il suo entusiasmo, le sue idee, la sua generosa passione per il giornalismo e per il Terzo settore e a riascoltare quelle parole sembra siano un’eredità da raccogliere. Ancora l’altra sera, dicono increduli e sgomenti gli amici più cari, si era attardato a discutere della situazione in Siria, a pensare cosa scrivere, come aiutare i cristiani di laggiù. Lecchese, giornalista prima in Fininvest e poi in Rai, era stato autore di programmi capaci di proporre un diverso sguardo sulla quotidianità come “Il coraggio di vivere”. Nel 1994 aveva lasciato posto fisso e sicurezze per mettersi alla guida di questo progetto editoriale che univa un gruppo di giornalisti e una cordata di soggetti del non profit ancora oggi riuniti nel comitato editoriale: “Un pezzo di Italia - aveva riassunto sulle pagine di Buone Notizie il 22 ottobre scorso - che indicava un modo di vivere ragionevole, sostenibile, auspicabile, persino fraterno. Ecco l’intuizione prima del nostro modo di fare giornalismo: la realtà e la vita innanzitutto, prima delle teorie e delle opinioni”. Il suo lavoro e Vita sono stati una delle ispirazioni più importanti anche per Buone Notizie e Riccardo è stato punto di riferimento per chiunque in questi anni abbia cercato di occuparsi dei temi che soltanto lui conosceva così nel profondo per essere stato uno di loro: pensatore, innovatore, narratore e anche coscienza critica ogni volta che è stato necessario. Oggi, che sentiamo con tanti un vuoto nel cuore, gli siamo ancora più grati per i suoi insegnamenti e la sua amicizia e abbracciamo la sua famiglia e la famiglia di Vita. Il Paese della paura: punire gli ultimi, proteggere i potenti di Antonello Ciervo Il Domani, 12 dicembre 2024 Due pesi e due misure: immunità e privilegi per gli amici, criminalizzazione e carcere per gli altri. L’idea di società della destra al governo è tutta qui, in questa riproposizione della logica amico/nemico che crea le condizioni per i fenomeni politici più morbosi e che rischia di mettere in pericolo la nostra democrazia. La svolta autoritaria che sta investendo il nostro Paese assomiglia a un puzzle che, giorno dopo giorno, si va componendo un pezzo alla volta: mentre il dibattito pubblico si concentra sui tasselli più pericolosi - il premierato, l’autonomia differenziata, la separazione delle carriere - in questi giorni al Senato si approva un disegno di legge che, senza modificare la Costituzione, rischia di trasformare la nostra democrazia in uno Stato di polizia. La cultura politica della destra ha sempre declinato il concetto di legalità in termini repressivi, soprattutto in ambito penale: il “ddl sicurezza”, soprannominato non a caso “ddl Ungheria”, conferma questa tendenza storica svelando le intenzioni del governo, ossia soffocare gli spazi di agibilità democratica. Si criminalizzano così movimenti e soggettività politiche che, oltre ad esprimere il loro dissenso nei confronti delle misure economiche neo-liberali varate dall’esecutivo, restano fedeli all’idea che soltanto una democrazia conflittuale possa considerarsi effettivamente tale. Se al termine della scorsa legislatura si era posto il problema di assegnare un codice identificativo alle forze dell’ordine presenti in piazza, la questione oggi sembra finalmente risolta, ma in senso opposto alle aspettative. La polizia, infatti, godrà di privilegi e tutele (il ddl prevede un aumento significativo delle pene per chi commetterà atti di resistenza a pubblico ufficiale), oltre che di body-cam che permetteranno arresti differiti indiscriminati, anche a giorni di distanza dallo svolgimento di manifestazioni pacifiche. Scendere in piazza per opporsi alle politiche del Governo significherà assumersi il rischio di essere condannati per blocco stradale - un corteo rischia quasi sempre di intralciare il traffico -, oppure perché ci si è rivolti in maniera non educata al poliziotto in tenuta antisommossa, o magari perché si è semplicemente urlato uno slogan che “turba” l’ordine pubblico. Emblematica del nuovo clima di paura che rischia di calare sul Paese e che colpirà innanzitutto le fasce sociali più deboli, è la norma che introduce lo “sfratto di polizia”, ossia la possibilità per le forze dell’ordine di procedere allo sgombero di un’abitazione, senza l’autorizzazione della magistratura. Una norma questa che potrà essere applicata tanto all’attivista dei movimenti all’abitare, quanto al semplice inquilino moroso che vive in affitto e non ha la possibilità di trovare una nuova sistemazione, perché con il suo lavoro precario non arriva alla fine del mese. Il ddl si spinge poi a criminalizzare la resistenza passiva in carcere, oltre che nei Cpr e nei Centri di accoglienza per migranti - che, a ben vedere, non sono neppure luoghi di detenzione - prevedendo pene fino a venti anni, se ad esempio dal rifiuto del pranzo da parte di tre detenuti derivi una rivolta in cui ci scappa il morto (da capire, poi, come possa morire un detenuto sotto il controllo dello Stato, se un altro detenuto decide di restare a digiuno per protestare contro l’amministrazione penitenziaria). Si tratta soltanto di alcuni degli oltre venti nuovi reati che il ddl introdurrà nell’ordinamento, in stridente contrasto con altre misure di politica criminale adottate in questi mesi dall’esecutivo, come l’abolizione dell’abuso d’ufficio (un evidente regalo ai colletti bianchi), il divieto di pubblicazione sui giornali delle ordinanze di custodia cautelare (a dimostrazione del fatto che il garantismo è un privilegio per soli ricchi e potenti), ovvero la cancellazione delle multe ai no-vax (una vera e propria amnistia che, di fatto, legittima la parte peggiore del paese). Due pesi e due misure, insomma: immunità e privilegi per gli amici, criminalizzazione e carcere per gli altri. L’idea di società della destra al Governo è tutta qui, in questa riproposizione della logica amico/nemico che crea le condizioni per i fenomeni politici più morbosi e che rischia di mettere in pericolo la nostra democrazia. Migranti. I Cpr sono un sistema di violenza istituzionale, ecco perché vanno chiusi di Martina Ucci L’Unità, 12 dicembre 2024 Nella giornata mondiale dei Diritti umani la presentazione del report sui Centri per il rimpatrio: “Un sistema di violenza istituzionale”. Si è tenuto ieri mattina a Roma il Tavolo asilo e immigrazione (Tai), in occasione della giornata mondiale dei Diritti umani. Durante l’incontro, coordinato da Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci, è stato presentato il rapporto “Cpr d’Italia: porre fine all’aberrazione”, frutto di un monitoraggio condotto tra aprile e agosto 2024 su otto centri di permanenza per il rimpatrio attivi in Italia: Bari, Gradisca d’Isonzo, Nuoro-Macomer, Milano, Palazzo San Gervasio, Pian del Lago, Brindisi-Restinco e Roma. “È un sistema che non funziona” - ha dichiarato Filippo Miraglia - “Ma che continua a essere finanziato. I Cpr sono un fallimento su tutta la linea: da un lato non raggiungono il loro obiettivo dichiarato, i rimpatri; dall’altro sono un’aberrazione etica e giuridica, una ferita aperta nello stato di diritto”. Infatti, secondo i dati presentati durante al Tai e contenuti nel report, tra 2014 e 2023 i rimpatri dai Cpr non hanno mai superato il 12%, mentre la spesa dello stato per questi centri si aggira attorno ai 92 milioni di euro, con una media annuale di 1,6 milioni per struttura e con un costo giornaliero per trattenuto che oscilla, nel 2023, tra i 30 e i 42 euro. “Queste risorse, anziché promuovere inclusione e sicurezza, sono state impiegate per alimentare un sistema fallimentare e disumano” - spiega il Tai, evidenziando che “anche l’uso di voli charter per i rimpatri, sempre più frequente, ha incrementato i costi, senza migliorare l’efficacia del sistema. Ogni rimpatrio diventa un’operazione dispendiosa sia in termini economici che umani, e ciò evidenzia ulteriormente l’insostenibilità dell’intero modello”. Il Tavolo asilo e immigrazione ribadisce la sua richiesta di chiudere questi “non-luoghi”, anche a seguito delle evidenze raccolte nel report che descrivono una situazione di “totale inadeguatezza delle strutture rispetto ai bisogni di salute fisica e mentale delle persone trattenute”: abuso di psicofarmaci, emergenze sanitarie affrontate con ritardo, quasi totale mancanza sia di mediatori culturali - indispensabili per facilitare la comprensione dei trattamenti e delle procedure - che di uno sportello psicologico. “Inoltre” - continua il Tai - “Si stima che dal 1998 ad oggi siano oltre 30 le persone che hanno perso la vita nei Cpr, le ultime due quest’anno, giovani appena maggiorenni, nei Cpr di Ponte Galeria e Palazzo San Gervasio. Una mera stima perché nulla di ufficiale, dalle istituzioni, è dato di sapere su queste strutture, neanche il nome esatto delle vittime”. “L’esperienza ci dice che il sistema dei Cpr va cancellato e basta, perché se noi guardiamo tutti questi anni, e sono ormai più di 20, troviamo delle problematiche irrisolvibili. Questo sistema ha prodotto un sistema di violenza istituzionale feroce e incredibile per un paese democratico, non ha risolto assolutamente nulla perché quello che abbiamo scoperto col tempo è che lo scopo dei Cpr non è allontanare le persone ma svolgere una funzione politico simbolica, che sostanzialmente non ha a che fare con la gestione reale dell’immigrato irregolare, che si affronta con altri strumenti”. Così ha dichiarato Gianfranco Schiavone di Asgi (Associazione Studi giuridici sull’Immigrazione), durante la presentazione del rapporto del Tai sui Cpr. Il Tavolo Asilo e Immigrazione si conclude con la proposta di favore la regolarizzazione e investire nell’integrazione: “Le risorse pubbliche dovrebbero essere destinate all’introduzione di un meccanismo di regolarizzazione sempre accessibile e percorsi legali di ingresso. Le istituzioni devono, nell’immediato, vigilare direttamente e consentire un accesso pieno e continuativo ai centri da parte di organizzazioni indipendenti, al fine di garantire al minimo il rispetto dei capitolati di appalto e la gestione delle risorse”. Così il Tai, che ha infine chiesto di rispettare i diritti fondamentali in questi Centri: garantire un accesso effettivo all’assistenza sanitaria, alla mediazione culturale e alla difesa legale. Migranti. Strage di Cutro, sopravvissuti condannati a 16 e 11 anni di Angela Nocioni L’Unità, 12 dicembre 2024 Ci sono volute 17 udienze all’Italia che ha lasciato per ore un pescatore da solo sulla riva di Steccato di Cutro a tirar fuori con le mani i corpi, perché nessuno c’era nemmeno a terra all’alba, per stabilire che la colpa è di tre naufraghi. Tre sopravvissuti alla strage di Cutro condannati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Uno a 16 anni, uno a 11 anni e un mese e un altro a 11 anni. Per la strage di Cutro l’Italia non condanna chi ha lasciato senza soccorso un caicco stracolmo fotografato dall’aereo di Frontex molte ore prima e di cui gli ufficiali italiani di stanza quella notte nella Sala Comando Frontex a Varsavia tutto sapevano e tutto riferivano “in costante contatto con Roma” (fonte: relazione di Frontex, agenzia di polizia europea) ma tre dei migranti a bordo. Non chi a Roma è andato a letto quel sabato sera sapendo che nel mare in burrasca c’era una barca stipata di persone, né chi in Calabria ha aspettato a piedi asciutti che il caicco Summer Love arrivasse da sé. Responsabili per quei 94 morti e non si saprà mai quanti dispersi tra le onde il 26 febbraio del 2023, tra loro decine di bambini, per l’Italia sono Hasab Hussain, 22 anni pakistano condannato a 16 anni (l’accusa aveva chiesto di 18 anni) Khalid Arslan, 26 anni pakistano condannato ad 11 anni, un mese e dieci giorni (richiesti 14 anni e 6 mesi) e Sami Fuat, turco di 51 anni condannato a 16 anni (richiesti 11 anni). Su di loro, sopravvissuti alla strage, si abbatte il decreto Cutro che inasprisce le pene per favoreggiamento all’immigrazione clandestina in caso di vittime. Sono stati tutti e tre assolti - si noti bene - dall’accusa di naufragio colposo. Ci sono volute 17 udienze all’Italia che ha lasciato per ore un pescatore da solo sulla riva di Steccato di Cutro a tirar fuori con le mani i corpi, perché nessuno c’era nemmeno a terra all’alba, per stabilire che la colpa è di tre naufraghi. Quando il presidente del Tribunale di Crotone ha letto la sentenza, riferisce il quotidiano locale “Il Crotonese” i due ragazzi pakistani sono scoppiati a piangere. Uno di loro ha urlato: cercavo un futuro in Italia e mi hanno condannato perché ho fatto da interprete.