Non possiamo più chiudere gli occhi sui problemi nelle carceri di Paolo Borgna Avvenire, 10 dicembre 2024 “Svuota-carceri, sicurezza a rischio, regalo dello Stato alla criminalità”. Sono le parole che sentiamo ogni volta che si invoca un provvedimento di clemenza per far fronte al degradante sovraffollamento delle carceri. In genere, ad alzare queste grida sono coloro che in carcere non sono mai entrati (o si sono fermati alle salette ove avvengono gli interrogatori). E che magari a volte ci dicono che nelle nostre carceri si sta fin troppo bene. È un vizio antico: se è vero che un secolo fa Mussolini polemizzava contro chi voleva “convertire le carceri in collegi ricreativi piacevoli, dove non sarebbe poi tanto ingrato il soggiorno”. Bisogna aver visto il carcere, per parlare di carcere. Bisogna aver capito che è un arcipelago. Dove, accanto a realtà positive - in cui, grazie a direttori e a personale che fanno i salti mortali, abbiamo celle chiuse solo di notte, laboratori, palestre, corsi di studio, apertura alla società - vi sono realtà infernali, non solo per la ristrettezza degli spazi ma per le condizioni di vita: eccessiva chiusura delle celle ed esclusione del detenuto da spazi comuni; mancanza di opportunità lavorative, di studio, di refettori; insufficiente ventilazione delle celle. Insomma: tradimento della riforma del 1975 che prevede un trattamento che assicuri “il rispetto della dignità della persona” e a tal fine disciplina caratteristiche dei locali, igiene, sanità, istruzione, lavoro, apertura verso le comunità esterne. Non vedere queste realtà significa farsi trascinare da quel “soffio di gelida crudeltà burocratica e autoritaria” di cui ci parlava Calamandrei. Quel soffio che, nei primi mesi del Covid, con i detenuti stipati in celle sovraffollate, faceva dire a qualcuno che, in fin dei conti, “il carcere, essendo isolato, è il luogo più sicuro contro il contagio”. Quel soffio che, a commento dei pestaggi nel carcere di S. Maria Capua Vetere (con manganellate su un uomo sulla sedia a rotelle e calci su detenuti già immobilizzati a terra), faceva dire in Parlamento, ad un sottosegretario alla Giustizia, che si trattava di una “doverosa operazione di ripristino della legalità”. Ci può essere però una ragione meno banalmente crudele per essere contrari a clemenze generalizzate. Perché sia l’amnistia (che cancella i reati meno gravi) sia l’indulto (che opera uno sconto di pena per tutti gli altri reati) rasano il campo in modo indifferenziato: tagliando allo stesso modo il grano e il loglio. Livellando i diversi percorsi di recupero dei condannati, negano loro quel trattamento differenziato (affidato ai magistrati di sorveglianza) che è alla base del nostro ordinamento penitenziario. E lasciano spesso le parti offese dei reati cancellati con la pericolosa sensazione di subire un secondo torto. Eppure, anche chi condivide queste preoccupazioni non può chiudere gli occhi di fronte alle 86 persone morte suicide in carcere da inizio anno (il numero più alto da sempre). Non può ignorare che l’attuale sovraffollamento carcerario è la principale causa della disperazione che porta questi detenuti a togliersi la vita. Avvenire lo scrive da anni. Per evitare che queste situazioni si ripetano, c’è bisogno di quegli interventi strutturali che già il Presidente Napolitano aveva indicato: carcere come extrema ratio, effetto meno rigido della recidiva, nuove assunzioni di personale, costruzione di nuove carceri, soprattutto di carceri a “bassa sicurezza” e semi-aperte, in cui scontino la pena condannati a sanzioni lievi (e dunque con basso rischio di evasione) che possano essere ammessi al lavoro esterno (che, grazie alla legge n. 94 del 2013, può essere anche “volontario e gratuito”). Ma poiché in tutti questi anni i governi, di diverso colore, non hanno realizzato questi interventi, l’emergenza di oggi chiama provvedimenti di emergenza. Come ha scritto Glauco Giostra su queste colonne: “ La promessa del domani non può assolvere la colpevole inerzia dell’oggi”. Se si ritiene impercorribile la via dell’indulto e amnistia (perché sarebbe difficile raggiungere in Parlamento quella maggioranza dei due terzi prevista dall’attuale art. 79 Cost.), allora si riprenda la proposta Giachetti (messa da parte dal Parlamento) che prevede l’ampliamento del già esistente istituto della liberazione anticipata, con un maggior “sconto” per i detenuti meritevoli per la loro condotta. C’è bisogno di un nuovo inizio. Quando il motore si imballa bisogna resettarlo. A costo di provocare qualche piccola ingiustizia che servirà però ad evitare, oggi e domani, più gravi e generali ingiustizie. Di cui il nostro Stato è il maggior colpevole. Suicidi in carcere, dati opachi. E al Marassi indagati 2 agenti di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 dicembre 2024 A Genova la procura apre un’inchiesta sulla morte del detenuto 21enne in osservazione. Decessi in cella, divergenze tra i numeri del Dap e quelli della Polizia penitenziaria. La notizia della sua morte non ha fatto scalpore, in fondo nel pomeriggio del 4 dicembre era solo uno degli 85 detenuti suicidatisi (o 79, secondo il calcolo del Dap che confuta i dati del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa e degli osservatori esterni) nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Ieri però, mentre nel frattempo sul lugubre pallottoliere la cifra monstre è diventata 86 lasciandosi alle spalle il triste record (84) segnato nell’anno 2022, la fine di Amir Dhouiou, magrebino di 21 anni che dopo vari tentativi è riuscito nel suo intento mentre era ricoverato nel centro clinico reparto Sai del carcere Marassi, è tornata agli onori delle cronache perché la procura genovese ha aperto un fascicolo per omicidio colposo e la pm Gabriella Dotto ha iscritto sul registro degli indagati due agenti della casa circondariale di Genova. Quest’ultima notizia ha agitato i sindacati di polizia penitenziaria e la Uilpa ha avviato una raccolta fondi sulla piattaforma Gofundme con l’obiettivo di raccogliere 20mila euro per le spese legali dei due indagati che, secondo il sindacato, avrebbero “speso già 2500 euro solo per nominare un perito”. Si tratta del quarto suicidio a Marassi dall’inizio dell’anno mentre, come detto, sul conteggio a livello nazionale non c’è concordia tra i numeri del Dap e quelli dei sindacati o di associazioni come Antigone e Ristretti Orizzonti. “85 suicidi, 231 morti totali. I due dati più alti mai registrati. 62.400 detenuti presenti, numero che non si registrava dai tempi della condanna europea per trattamenti inumani e degradanti. Il 2024 sta frantumando tutti i record negativi del sistema penitenziario italiano”, scriveva qualche giorno fa Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Mentre il Dap spiega che i 79 casi conteggiati (77 uomini e 2 donne) sono quelli per “i quali le evidenze dei fatti hanno escluso la necessità di ulteriori accertamenti da parte dell’Autorità Giudiziaria”. Dal canto suo, il collegio del Garante nazionale dei detenuti composto da Riccardo Turrini Vita, Irma Conti e Mario Serio prende questo dato per buono e nel Focus aggiornato al 2 dicembre 2024 sottolinea che “analizzando i dati relativi agli eventi critici, è stata rilevata la presenza di eventuali fattori indicativi di fragilità o vulnerabilità. La lettura ha fatto emergere che 43 persone (pari al 54%) erano coinvolte in altri eventi critici e di queste 19 (ossia il 24%) avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio. Inoltre, 14 persone (ossia il 18% dei casi) erano state sottoposte alla misura della “grande sorveglianza” e di queste 5 lo erano anche al momento del suicidio”. Dopo pochi giorni, il 7 dicembre scorso, alla triste lista si è aggiunto Robert Octavian Radion, rumeno di 24 anni che si è impiccato nella sua cella del carcere di Verona Montorio ed è morto in ospedale. È questo uno dei casi che difficilmente rientrano nella statistica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria perché, come spiega Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti che da 25 anni aggiorna con regolarità il dossier “Morire di carcere”, “spesso non vengono conteggiati quei detenuti che dopo aver tentato il suicidio in istituto muoiono in ospedale. Noi confrontiamo diverse fonti: dai famigliari al personale del carcere, i volontari e i poliziotti, verificando i dati poi con lo stesso Dap e con il Garante nazionale. Ma negli ultimi tempi il confronto con le istituzioni è molto faticoso perché c’è sempre meno trasparenza”. Non va dimenticato che la lista dei suicidi in carcere si allunga con i sette poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. “I detenuti dovrebbero vivere in sicurezza, mentre gli agenti lavorano senza organici adeguati e strumenti idonei”, è il grido d’allarme lanciato da Fabio Pagani, segretario della Uilpa che assicura di riporre “totale e incondizionata fiducia negli organi inquirenti” ma fa notare che “la polizia penitenziaria non può continuare a essere lasciata sola con i suoi appartenenti costretti, loro malgrado, ad affrontare procedimenti penali e disciplinari andando incontro di tasca propria a spese legali”. Un anno tragico per i suicidi in carcere: già 86 casi nel 2024 di Elisa Campisi Avvenire, 10 dicembre 2024 Amir Dhouiou aveva appena 21 anni ed era detenuto al carcere di Marassi, in provincia di Genova, per furto e resistenza a pubblico ufficiale. Dopo aver tentato già in passato il gesto estremo, il giovane di origine maghrebina ha posto fine alla sua vita il quattro dicembre scorso, impiccandosi nella sua cella. Aveva commesso atti di autolesionismo ed era considerato un soggetto fragile. Anche il giudice, quando il ragazzo si era presentato in tribunale, aveva sottolineato il pericolo che poteva rappresentare per sé e per gli altri. Per tutto questo era stato deciso di non metterlo in una sezione comune, ma nel centro clinico. Amir non ce l’ha fatta lo stesso. Il dramma è avvenuto in bagno, dove non ci sono telecamere. La Procura, ora, vuole capire se ci sono stati errori nella sorveglianza. Per indagare sulla sua morte è stato aperto un fascicolo con l’ipotesi di omicidio colposo. Al momento sul registro degli indagati sono stati iscritti due agenti della penitenziaria. La notizia delle indagini sul caso di Marassi “ripropone, ove mai ve ne fosse bisogno, il tema della tutela di quanti vivono e lavorano in carcere”, ha commentato Fabio Pagani, segretario della Uilpa - Polizia Penitenziaria. I detenuti “dovrebbero scontare la pena e le misure cautelari in un contesto di legittimità e sicurezza, che nella realtà pare molto prossimo all’utopia” ha aggiunto. Gli agenti, stando a quanto dichiarato dal sindacalista, “dovrebbero essere organizzati e avere gli organici e gli strumenti per poter assolvere alle loro funzioni in maniera efficace, dignitosa e senza dover essere costretti a difendersi per lo sfacelo delle carceri, di cui dovrebbe essere indagata tutta la politica che ha governato almeno negli ultimi 25 anni”. Il segretario ha poi sottolineato la totale e incondizionata fiducia negli organi inquirenti, spiegando di essere loro del sindacato per primi a volere che si faccia piena luce sull’accaduto. L’ennesimo suicidio in carcere è senza dubbio sintomo della crisi che il sistema penitenziario deve fronteggiare. A Marassi quest’anno si sono uccise quattro persone. Nel carcere genovese - con una capienza di 535 posti - sono ammassati 696 reclusi che vengono gestiti da 330 agenti, a fronte dei 551 che secondo il sindacato sarebbero necessari. Una situazione purtroppo simile a quella di tanti altri penitenziari in tutta Italia. Secondo Antigone, nelle nostre carceri sono presenti oltre 62mila detenuti a fronte di una capienza di 51.196 posti. Quello di Amir non è neppure l’ultimo caso. Lo stesso giorno della sua morte, a Verona nella casa circondariale di Montorio, un altro detenuto, il 24enne Robert Octavian, tentava di impiccarsi nella propria cella. Trasferito in ospedale in condizioni disperate, è morto due giorni dopo, portando a 86 il numero dei suicidi in carcere dall’inizio dell’anno: un triste sorpasso del record del 2022, che rappresentava il livello peggiore da trent’anni a questa parte, quando si erano tolti la vita 84 detenuti. In carceri così sovraffollate diventa sempre più difficile poter rispondere alle finalità rieducative della pena o dare maggiori speranze a chi è costretto a viverci. Altro indicatore importante della crisi attuale è il totale delle persone morte in un istituto penitenziario nel 2024: sono 232, la cifra più alta dal 1992 a oggi secondo i dati di Ristretti Orizzonti. Dai sindacati alle associazioni, tutti ormai chiedono misure urgenti per affrontare un’emergenza senza precedenti. Sempre ieri un’altra situazione problematica è stata denunciata dal segretario generale della Fns Cisl Sardegna, Giovanni Villa, a proposito del carcere di Cagliari-Uta, istituto che rappresenta “una bomba a orologeria che rischia di esplodere da un momento all’altro”. L’allarme riguarda il fatto che un numero importante di detenuti avrebbe messo “in serio rischio la sicurezza del carcere e l’incolumità del personale di polizia penitenziaria e di chi vi lavora a qualsiasi titolo, finanche l’incolumità di altri detenuti non facinorosi”. A porre un ultimo accento sull’emergenza ieri sono stati infine i deputata Maria Elena Boschi e Roberto Giachetti che hanno annunciato un’interrogazione al ministro della Giustizia dopo aver fatto visita all’istituto penitenziario di Viterbo, dove - spiegano - il sovraffollamento sfiora ormai l’80% a fronte del personale effettivo della polizia penitenziaria pari praticamente alla metà di quello previsto: “I detenuti sono costretti a vivere in spazi inadeguati, trasformati in celle prive persino di un bagno. Una condizione inaccettabile che allontana da ogni possibilità di riscatto e che deve vedere immediatamente il coinvolgimento delle istituzioni a ogni livello, a partire dal garante nazionale dei detenuti, e su cui il ministro della Giustizia deve intervenire innanzitutto provvedendo alla nomina del Garante vacante ormai da mesi”. Se dallo stato delle carceri si misura il grado di civiltà del Paese, aggiungono, “allora è evidente che ci troviamo di fronte ad un’emergenza democratica che il ministro Nordio non può ignorare. Specie dopo il record di detenuti che si sono tolti la vita”. Per lavorare in carcere serve cervello e non muscoli di Francesco Minervini L’Edicola del Sud, 10 dicembre 2024 La notizia non sta passando inosservata: si tratta del nuovo calendario 2025 della Polizia penitenziaria italiana. Un patinatissimo calendario in cui si avvicendano foto di agenti in tenuta d’attacco con tanto di manovre di blocco, pistole e scudi antisommossa. Una polizia tirata a lucido che mostra la sua efficienza: fin qui ci può stare, considerato il ruolo di controllo e ordine che essa è chiamato a svolgere. Ma un dato mi suona strano: nelle carceri italiane quest’anno si sono tolte la vita 86 persone. Il sottoscritto ha tenuto laboratori in carcere, conosciuto volti da ricostruire, sentito il loro bisogno di inclusione, ascoltato l’urlo silente di vite massacranti e massacrate. Che non significa legittimare tutto e dimenticare reati di ogni tipo in nome di un buonismo idiota. Però avrei preferito che un calendario del genere raccontasse di una Polizia penitenziaria che nelle Case circondariali aiuta il progetto di rieducazione attraverso percorsi di reinserimento, laboratori, attività artigianali. Specie in presenza di direzioni illuminate tante carceri non sono un luogo di rifiuto sociale, ma di recupero, prevenzione e quasi annullamento di devianza e disagio. Un Paese che si affretta a presentarsi civile non ha bisogno di mostrare i muscoli: usa il cervello, ci mette la faccia, scommette sulle persone. Non ricorre a stereotipi passati, non esalta la forza fine a se stessa. Si presenta intelligente e capace di ricostruire. Tutto e tutti. Anche passando da un oggetto inerme come un calendario che, affisso in carcere, dica ad ogni ospite che può cambiare, in nome di una forza come la polizia che, lungi dall’essere repressiva, lavora e agisce insieme a tutte le forze buone della società. Il dibattito sul carcere divide la politica ma unisce le sofferenze di Vincenzo Candido Renna* beemagazine.it, 10 dicembre 2024 L’Italia è stata più volte condannata per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Per cambiare passo occorre superare la tradizionale frammentazione ideologica. Guardando alla Costituzione. Il rapporto tra giustizia e ideologia politica costituisce un nodo centrale nel dibattito contemporaneo sulla società italiana. La tradizionale dicotomia destra-sinistra, un tempo fondata su visioni contrapposte ma coerenti - conservatorismo e patriottismo da un lato, progressismo e laicità dall’altro - si è trasformata in una contrapposizione sterile e polarizzata, che troppo spesso trascura le implicazioni costituzionali e umane del sistema giustizia. Vedi, per esempio, alla voce carcere. Sotto il profilo tecnico-giuridico, una delle derive più evidenti è la perdita di connotazione ideologica del “giustizialismo”, oggi adottato trasversalmente dai vari governi che si sono succeduti. I numerosi “pacchetti-sicurezza”, indipendentemente dal colore politico di chi li ha promulgati, riflettono una comune tendenza a privilegiare risposte emergenziali, spesso a scapito dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione. Uno degli elementi centrali del dibattito è il principio costituzionale della certezza della pena, che deve essere letto in combinazione con altri principi cardine, quali il giusto processo (art. 111 Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, co. 2, Cost.). La certezza della pena non implica una logica punitiva o “esemplare”, concetto del tutto estraneo al nostro ordinamento, ma richiede che la pena sia proporzionata, irrogata al termine di un processo equo e orientata alla rieducazione del condannato, come previsto dall’art. 27, co. 3, della Carta costituzionale. La polarizzazione ideologica che permea il dibattito politico sembra ignorare questa impostazione costituzionale. Da un lato, una visione repressiva e securitaria spinge verso un diritto penale simbolico, fatto di interventi legislativi spesso privi di reale efficacia. Dall’altro, il rischio di un eccesso di buonismo, non accompagnato da adeguati strumenti di reinserimento sociale, può condurre a una sostanziale inefficacia del sistema punitivo. Un esempio paradigmatico dell’incapacità di superare questa dicotomia è rappresentato dalla questione carceraria. I dati sono allarmanti: 61 suicidi in otto mesi costituiscono una palese emergenza costituzionale e sociale. Le condizioni delle carceri italiane violano in modo sistematico non solo l’art. 27 Cost., che impone il rispetto della dignità umana e la finalità rieducativa della pena, ma anche l’art. 3 Cost., che richiede l’uguaglianza e il trattamento equo di tutti i cittadini. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Le condizioni di sovraffollamento, l’inadeguatezza delle strutture e la carenza di programmi di reinserimento configurano una situazione che offende sia la Costituzione italiana sia gli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese. Tuttavia, la crisi del sistema penitenziario non riguarda solo i detenuti. Gli agenti di polizia penitenziaria, costretti a lavorare in condizioni insostenibili, subiscono a loro volta una sistematica violazione dei loro diritti fondamentali, con implicazioni sul piano della salute fisica e mentale. Questa correlazione evidenzia come il degrado delle condizioni carcerarie rappresenti un problema trasversale che non può essere affrontato in modo settoriale o ideologico. Per risolvere queste problematiche, occorre superare la tradizionale frammentazione ideologica del dibattito politico, adottando una prospettiva olistica e ancorata ai principi fondamentali della Costituzione. È necessario un sistema penale che bilanci in modo efficace i diritti della collettività con quelli dell’individuo, nel rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana. L’art. 3 Cost., che impone l’eliminazione delle disuguaglianze sostanziali, deve guidare ogni intervento legislativo e amministrativo nel settore giustizia. Analogamente, l’art. 32 Cost., che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, dovrebbe essere il cardine per una riforma delle condizioni lavorative degli agenti e delle strutture sanitarie interne al sistema carcerario. L’attuale governo, forte della competenza tecnica di alcune figure istituzionali, ha un’opportunità storica: inaugurare una stagione di riforme strutturali che, attraverso il rispetto rigoroso dei principi costituzionali e degli standard internazionali, contribuisca alla costruzione di un sistema giustizia più giusto, efficace e umano. Solo così sarà possibile trasformare il sistema penitenziario italiano da una realtà di emergenza cronica a un esempio di civiltà giuridica. *Avvocato cassazionista “Sulle carceri dal governo politiche criminogene, ledono lo Stato di diritto” di Sara Manfuso La Notizia, 10 dicembre 2024 Parla il presidente dei Radicali Italiani. Matteo Hallissey è stato il più giovane segretario dei Radicali Italiani e dalla scorsa domenica ne è presidente. Nel Congresso del partito, che si è svolto a Torino dal 6 all’8 dicembre, sono stati rinnovati i vertici. A restare invariata sembra essere la linea programmatica e l’assetto valoriale che conferma la centralità del rilancio del federalismo europeo e le battaglie per i diritti civili. Hallissey, la tre giorni torinese ha visto l’elezione del ventiquattrenne Filippo Blengino come nuovo segretario. In un momento storico in cui la politica sembra essere poco attrattiva per i giovani, quale il segreto dei Radicali per intercettarne tanti? “Il Congresso ha deciso di dare fiducia a questa dirigenza che viene confermata, con questo cambio di ruolo per tutti e tre. Uno degli obiettivi che abbiamo portato avanti negli scorsi mesi è sicuramente quello della partecipazione delle giovani generazioni alla politica, in prima persona e senza paternalismi. Lo abbiamo fatto a partire da “Giovani un Cazzo”, un tour nelle università promosso all’inizio dello scorso anno proprio per confrontarci con giovani e studenti in merito ai loro problemi, dalla salute mentale al caro affitti, passando per il rapporto, spesso difficile, con il mondo del lavoro. L’esperimento ha funzionato, visto che quest’anno metà degli iscritti a Radicali Italiani sono under 28”. Tanti i nomi di grande caratura nazionale e internazionale che si sono succeduti sul palco congressuale o che sono intervenuti in collegamento. Penso all’attivista georgiana che ha messo in allerta sui rischi della propaganda nell’orientare e manipolare il voto. Il sistema democratico è in pericolo? “Decine di testimonianze e interventi tra esperti e rappresentanti di forze politiche e associazioni, oltre al racconto di chi ha vissuto e vive sulla propria pelle i temi di cui parliamo. Durante il Congresso, intitolato proprio alla “Democrazia Liberale senza confini”, abbiamo discusso della doppia minaccia di oggi: i regimi apertamente contro lo Stato di Diritto e la democrazia, affiancati dalla propaganda e disinformazione di chi promuove le idee illiberali proprio qui, a casa nostra, inserendosi nel dibattito occidentale. Anche per questo abbiamo realizzato la campagna “Stop propaganda russa” di denuncia della disinformazione online del Cremlino, che inquina il dibattito pubblico”. Vi dichiarate contro i populismi di destra e di sinistra. Ci spiega meglio? Magari con degli esempi e dei nomi chiari... “Il centrodestra ha mostrato in questi anni di governo di sapere soltanto aumentare reati e alzare le pene, senza offrire soluzioni serie ai cittadini. Anche a sinistra, però, l’agenda politica di forze come il Movimento 5 Stelle è populista e molto lontana dalla nostra su tanti temi, a partire dal punto centrale, per i Radicali, della difesa del popolo ucraino. Per non parlare di tutti quei problemi che nessuno vuole affrontare, a partire dal sistema corporativo italiano. Su categorie come taxi e balneari buona parte della politica italiana ha paura di intervenire. Noi, invece, abbiamo fatto di questi temi un pilastro della nostra azione. Se non si smantellano le corporazioni che chiudono interi mercati e danneggiano i cittadini, c’è poco da fare”. Tema che storicamente vi vede coinvolti in battaglie pubbliche: la situazione delle carceri italiane. Il rispetto della Costituzione e dello Stato di diritto sono garantiti nel nostro Paese per i detenuti e per gli agenti che lavorano negli istituti penitenziari? “Le politiche criminogene del governo Meloni continuano a ledere profondamente il significato dello Stato di Diritto. A suon di reati, le nostre carceri sono sempre più intasate. Lo abbiamo visto nelle decine di visite fatte quest’anno in tutta Italia. E nemmeno davanti al sovraffollamento folle e al record di suicidi il governo interviene. Per questo abbiamo denunciato più volte il ministro Nordio per tortura dopo le nostre visite in carcere. Avvieremo una campagna, in particolare, rivolta agli istituti minorili, che dopo il decreto Caivano hanno visto raddoppiare gli ingressi”. Cosa pensa del ddl Sicurezza che tanto sta mobilitando i giovani a scendere nelle piazze italiane? Pensa sia in pericolo la libera espressione del dissenso? “A proposito di populismo, il ddl Sicurezza è un condensato di tutte le aspirazioni repressive di questo governo. Aumenti delle pene, armi fuori servizio, il reato di resistenza passiva per chi protesta in carcere e nei Cpr, la chiusura del mercato della cannabis light, le misure sulle detenute madri: insomma, un concentrato di assurdità. Noi siamo pronti a sostenere e organizzare manifestazioni, ma anche a nuove disobbedienze civili”. Dal palco si è tornati a parlare anche di matrimonio egualitario. Per l’attuale governo non è certamente una priorità… “Tutti i temi legati alla comunità LGBT sono dimenticati, se non osteggiati, da questa maggioranza. Le forze di opposizione, già ree di non aver fatto abbastanza quando facevano parte di precedenti esecutivi, anche su priorità come queste dovrebbero essere chiari e promuovere insieme iniziative e proposte di legge. Noi, come sempre, faremo da pungolo”. Decreto anti-gogna, alla fine il Governo sceglie la soluzione soft di Valentina Stella Il Dubbio, 10 dicembre 2024 Via libera in Consiglio dei ministri al decreto anti-gogna ma senza sanzioni per nessuno. In particolare, si legge nello “Schema di decreto legislativo riguardante la presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, approvato in via definitiva nel pomeriggio a Palazzo Chigi: “Fermo quanto disposto dal comma 7, è vietata la pubblicazione delle ordinanze che applicano misure cautelari personali fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”: questa la modifica all’articolo 114 del codice di procedura penale. Dunque sarà vietato pubblicare per intero o per estratto tutti quei provvedimenti che incidono sulla libertà personale ma anche quelli relativi alla libertà di determinazione nei rapporti familiari e sociali (divieto di espatrio, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, allontanamento dalla casa familiare, etc). Resta la possibilità per il giornalista di raccontare il contenuto dei provvedimenti, secondo però la sua sensibilità, senza poter riportare dunque virgolettati. Per questo molti, persino l’Anm, non la considerano in senso stretto una “legge bavaglio”. Escluse dal divieto le misure cautelari reali, che toccano singoli beni mobili o immobili, come i sequestri. L’estensione era stata richiesta da Forza Italia. Nella formulazione originaria della norma era previsto solo il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare; tuttavia, adesso, si va oltre, e si recepiscono in parte i pareri, seppur non vincolanti, espressi dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Si legge infatti nella introduzione della norma che si emana il decreto dopo aver “acquisiti i pareri delle competenti Commissioni parlamentari della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica e viste le osservazioni svolte, che sono state accolte solo in riferimento all’ampliamento del contenuto della norma, ma non all’introduzione di un nuovo apparato sanzionatorio”. Quindi sì all’ampliamento del divieto ma no alle sanzioni. Le commissioni parlamentari avevano infatti richiesto di ampliarlo anche “ad altri analoghi provvedimenti che, eventualmente, possono essere emessi nel procedimento cautelare, ovvero comunque a quei provvedimenti che, nella loro funzione, comportino una valutazione circa la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e la cui pubblicazione, dunque, produca analoghi effetti sovrapponibili a quelli della sola ordinanza di custodia cautelare”. Avevano sollecitato pure, escludendo il carcere per chi viola la norma, un ripensamento del sistema sanzionatorio “di modo da conferire effettività al divieto, e costituire un ragionevole argine alla sistematica violazione del medesimo: tanto alla luce della sperimentata ineffettività della attuale sanzione che presidia la violazione del divieto di pubblicazione, dettata dalla fattispecie contravvenzionale delineata dall’articolo 684 del codice penale (che si risolve nella possibilità di estinguere il reato attraverso l’oblazione con il versamento di una somma irrisoria) o dell’illecito disciplinare, raramente perseguito, previsto dall’articolo 115 del codice di procedura penale a carico degli impiegati dello Stato o di persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”. La direzione prevista era quella di prevedere multe salate per gli editori, come auspicato in audizione, tra gli altri, dall’Unione Camere penali. Ma ha prevalso la linea opposta di Palazzo Chigi e di via Arenula, in particolare dei due Uffici legislativi, convinti che prevedere anche delle sanzioni avrebbe portato il governo ad andare fuori dei parametri delega. È possibile che le sanzioni verranno inserite in altro provvedimento riguardante la giustizia. D’altronde, al di là delle controindicazioni di natura tecnico-giuridica, anche Fratelli d’Italia, e soprattutto il sottosegretario Andrea Delmastro, aveva spinto, a un livello più politico, per escludere o almeno mitigare le sanzioni. Il provvedimento era stato approvato in via preliminare il 4 settembre scorso, per essere trasmessa poi alle Commissioni giustizia di Camera e Senato per i pareri. Si tratta di un provvedimento condiviso dal Ministero della Giustizia e dalla stessa premier Meloni che hanno optato una linea più morbida per evitare uno scontro troppo acceso con le associazioni di categoria della stampa. Intanto è stato sottoscritto un protocollo dal presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti lombardo, Riccardo Sorrentino, dal presidente dell’Ordine degli Avvocati, Nino La Lumia, dalla presidente della Camera Penale di Milano, Valentina Alberta, dal procuratore Marcello Viola affinché le ordinanze di custodia cautelare che hanno “interesse pubblico” siano diffuse ai media. “I giornalisti - ha spigato Roia - potranno chiedere accesso a una copia dell’ordinanza, o anche ai decreti di sequestro e alle sentenze, dopo che ne avranno avuto conoscenza gli avvocati, evitando le rincorse per avere il testo presso singoli magistrati e avvocati”. Giustizia, allentato il “bavaglio”, priorità alla separazione delle carriere di Andrea Colombo Il Manifesto, 10 dicembre 2024 Vietato pubblicare le ordinanze, ma nessuna sanzione. Il bavaglio c’è ma per finta. Il consiglio dei ministri ha approvato ieri il decreto che vieta ai giornali la pubblicazione di estratti dagli atti di custodia cautelare sino al termine delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare. Si intende che è vietato pubblicare i virgolettati precisi perché il senso dell’atto può essere riassunto e ricapitolato a piacimento e i capi di imputazione possono essere riportati alla lettera. Ma non è per questo che il bavaglio è tale solo per modo di dire. La premier, dopo giorni di consultazione con il guardasigilli Nordio, ha infatti scelto di eliminare ogni tipo di sanzione, oltre che di disattendere la richiesta di Fi che voleva l’estensione del divieto di pubblicazione anche per gli atti di sequestro. Insomma i virgolettati non si possono pubblicare ma se capita non succede niente non essendoci più sanzioni. Non è che il Governo ci abbia ripensato per questioni di principio. In questo caso, come in quello del decreto che avrebbe dovuto impedire ai magistrati di esprimere opinioni e che è stato cassato senza che se ne facesse niente, la settimana scorsa, hanno prevalso considerazioni tattiche. Ieri alla Camera è iniziata la discussione generale sulla separazione delle carriere. Sarà approvata in gennaio. La seconda lettura, necessaria trattandosi di riforma costituzionale, dovrebbe essere conclusa prima della pausa estiva anche se potrebbe slittare a settembre. In entrambi i casi il referendum dovrebbe svolgersi nei primi mesi del 2026. È una prova che il governo non può permettersi di perdere e per farcela la premier ritiene che sia opportuno non dare la sensazione di una crociata in corso contro la magistratura. Meglio soprassedere su misure del resto poco apprezzate dallo stesso Nordio, più di facciata che altro. Meloni conta di ottenere sulla riforma costituzionale della giustizia una maggioranza più ampia di quella sul premierato. I 5S sono naturalmente i più ostili. Ieri hanno presentato la pregiudiziale di costituzionalità, che sarà respinta e la deputata Ascari ha tuonato contro “il sogno di Berlusconi che si realizza”. Pd e Avs sono altrettanto categorici su una riforma che è “contro la magistratura”. Ma i centristi di Iv, Azione e +Europa, essendo sempre stati a favore della separazione, sono di altro avviso. Non significa che si possa evitare il referendum e neppure che il governo lo auspichi. Il guardasigilli ha ripetuto più volte di “non temerlo” e ieri il suo viceministro Sisto, forzista, è stato anche più chiaro: “Il referendum è la miglior soluzione. Tutto passerà attraverso il giudizio degli italiani e questo dovrebbe tranquillizzare tutti”. Nelle previsioni del governo il referendum, che non necessiterà di quorum, dovrebbe confermare la separazione delle carriere perché - si ritiene - agli elettori di destra si aggiungeranno quelli centristi e probabilmente anche la parte più garantista dell’elettorato di sinistra e perché la popolarità dei magistrati, dopo gli scandali degli ultimi anni, non è più quella di un tempo. La premier, con un cambio di corsia piuttosto repentino ha deciso di puntare sulla giustizia invece che sul premierato fondamentalmente per due considerazioni. La sfida sulla forma di governo appare più rischiosa, disponendo l’opposizione di una carta preziosa come il rischio di esautorare il capo dello Stato. Ma soprattutto, anche in caso di vittoria, l’introduzione del premierato renderebbe inevitabile una nuova legge elettorale e per il centrodestra una legge più vantaggiosa di quella in vigore semplicemente non esiste. Molto meglio votare prima e pensare al referendum poi. Separazione carriere, via all’esame in Aula alla Camera di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2024 Le opposizioni: “Riforma punitiva dei pm, il governo corona il sogno di Berlusconi”. Il viceministro Sisto: “La proposta non tocca il tema dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. A quasi sei mesi dal suo varo in Consiglio dei ministri, la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere arriva in Aula alla Camera per la prima lettura. Dopo l’introduzione dei relatori, Nazario Pagano di Forza Italia e Simona Bordonali della Lega, l’esame è iniziato con la discussione generale sul provvedimento firmato dalla premier Giorgia Meloni e dal Guardasigilli Carlo Nordio, che - tra le altre cose - introduce nella Carta il principio delle “distinte carriere” di giudici e pubblici ministeri, sdoppia il Consiglio superiore della magistratura e dispone la selezione dei suoi membri tramite sorteggio. Per il deputato Pd Federico Gianassi, primo a intervenire, la riforma ha un “intento punitivo nei confronti della magistratura” ed è dettata da un’“ossessione ideologica della destra”: “Sulla giustizia ci sono enormi questioni che meriterebbero di essere affrontate con serietà, ma il governo preferisce agitare la bandierina della separazione delle carriere”, attacca. L’accelerazione decisa dall’esecutivo sul testo, dice, si inserisce in un “contesto del tutto evidente di ostilità: basti pensare agli attacchi ai magistrati per il processo a Salvini (sul caso Open Arms, ndr) o per il caso Albania”. Peraltro, ricorda Gianassi, “nelle aule giudiziarie le assoluzioni superano le condanne: questo dovrebbe indurre ad avere maggiore cautela quando si dice che il giudice è supino nei confronti del pm”. Inoltre, sottolinea, “se per il fatto di appartenere a uno stesso ordine non c’è più imparzialità, dovremmo anche separare i giudici di primo grado da quelli di Appello e Cassazione”. Il rischio nel prevedere una carriera distinta per i pm, è di creare “una categoria di accusatori di professione sempre più avulsi dalla giurisdizione e ossessionati dal risultato”. Per il deputato di Forza Italia Enrico Costa, storico fautore della separazione delle carriere, la riforma è invece necessaria per arginare la gogna mediatica a carico degli indagati: “Nello spirito del codice il momento culminante del procedimento penale è la sentenza e le indagini sono atti preparatori, svolti sotto il controllo del giudice. Ma la sentenza vera viene pronunciata durante le indagini, e a emetterla non è il giudice ma il pm”, dice. Per Costa, infatti, i giudici delle indagini preliminari sono vittime di “tanatosi”, cioè “si fingono morti come strumento di difesa di fronte alla prepotenza giuridica e mediatica dell’accusa: le proroghe delle indagini e le intercettazioni sono concesse al 100%, le misure cautelari richieste sono disposte in grandissima percentuale”, dice, mentre “le rarissime occasioni in cui il gip rigetta una richiesta del pm vengono lette come un ostacolo alle indagini”. Questa “forza schiacciante” del pm, sostiene, è dovuta al “marketing giudiziario”, cioè all’“applicazione di tecniche commerciali per promuovere l’indagine all’esterno e cercare il consenso dell’opinione pubblica”. Costa definisce un “segnale importante” anche un altro contenuto del ddl, la creazione di un’Alta Corte a cui affidare la funzione disciplinare nei confronti dei magistrati, togliendola al Csm: adesso, dice, la responsabilità dei magistrati è “completamente azzerata”, perché il procuratore generale della Cassazione, titolare dell’accusa, “archivia il 95% delle segnalazioni” e il Consiglio superiore “assolve in tre casi su quattro”. Devis Dori, di Alleanza Verdi e Sinistra, esordisce sottolineando che la riforma “modifica ben sette articoli della Costituzione e necessiterebbe di ampia condivisione politica”, mentre “governo e maggioranza non ci hanno nemmeno provato”. Il ddl, dice, è ispirato da una “furia punitiva”, contro “i magistrati “colpevoli” di applicare la legge, cioè di svolgere il compito che la Costituzione gli attribuisce. È solo il primo step di un disegno più ampio: prima si separano tra loro le magistrature, poi si scaverà un solco sempre più profondo e poi il pm verrà messo sotto il controllo dell’esecutivo. L’obiettivo è abrogare l’obbligatorietà dell’azione penale”, avverte. L’urgenza di separare le carriere, aggiunge rivolgendosi alla maggioranza, è una “necessità che vi siete inventati, fondata su miti fasulli: già oggi i passaggi di funzioni sono rari e limitati, sia concretamente sia per legge. Nel 2021 solo 15 giudici sono diventati pm e 16 pm sono diventati giudici. Da questi dati capiamo che la necessità di rompere questo modello costituzionale in realtà non ha alcun fondamento, la separazione delle funzioni è già concretamente realizzata”. E incalza: “Si abbia la decenza di tenere fuori Giovanni Falcone delle argomentazioni a favore della riforma, non vengano storpiate alcune sue frasi dette in tempi e contesti ben diversi”. Per Ciro Maschio di Fratelli d’Italia, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio, il ddl è “un’occasione storica per riformare veramente la giustizia dopo decenni di tentativi”, realizzando il “modello del codice Vassalli (il codice di procedura penale del 1989, ndr) che rappresenta accusa e difesa come parti in contraddittorio davanti a un giudice terzo”, mentre, “è evidente a tutti la stortura dell’attuale sistema delle carriere unificate, che mantiene un rapporto privilegiato tra pm e giudice, interconnessi in tutte le attività della vita quotidiana”. Per il Movimento 5 stelle parla la deputata Stefania Ascari: la riforma, attacca, produrrebbe uno “sconvolgimento democratico in netto contrasto con i principi della Costituzione”, nell’ambito di un “quadro complessivo estremamente preoccupante”, mirato a “modificare l’assetto fondamentale dello Stato. L’obiettivo del governo”, dice Ascari, è “porre sotto il proprio controllo la magistratura, depotenziare i pm e circoscriverne lo spazio operativo: si punta a delegittimare e intimidire i magistrati, per renderli obbedienti e sottoposti all’esecutivo”. Secondo la deputata pentastellata, è “erroneo pensare che i giudici assecondino i pm per il solo fatto di appartenere allo stesso ordine”, come dimostra “la prevalenza delle assoluzioni, anche su richiesta dello stesso pm”. La riforma, in definitiva, “punta a colpire autonomia e indipendenza del potere giudiziario, sterilizzare i pm e metttrli sotto l’influenza della politica, coronando il sogno di Silvio Berlusconi. Se il ministro prenderà il controllo dei pm”, avverte, “si giungerà a una politicizzazione occulta dell’azione penale, addomesticata contro la propria parte politica e usata come una clava contro gli avversari. Quello che è avvenuto in Polonia e Ungheria, paesi non a caso guardati con ammirazione dalla premier Meloni”. Intervenendo in replica dopo la discussione, il viceministro Francesco Paolo Sisto, presente in rappresentanza del governo, rinfaccia alle opposizioni di avere “timore di quello che non c’è”: “La proposta non tocca il tema dell’indipendenza dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, né dell’obbligatorietà dell’azione penale”, sottolinea. “Chi giudica non può avere parentela con nessuna delle due parti, nemmeno di genesi culturale e ordinamentale, anche se poi i passaggi da una funzione all’altra sono pochi”, afferma. L’esame del provvedimento riprenderà a gennaio con la votazione degli emendamenti: il primo ok è atteso a inizio 2025. Trattandosi di una riforma costituzionale, per l’approvazione definitiva serve un doppio via libera nello stesso testo da entrambi i rami del Parlamento: se nella seconda votazione, anche solo in una Camera, il provvedimento non ottiene i due terzi dei voti favorevoli, dovrà tenersi un referendum confermativo (che non prevede il quorum). Una prospettiva su cui Sisto mostra ottimismo: “Se questa riforma dovesse essere sottoposta al vaglio del popolo sarà la migliore tranquillità per tutti”, dice. “Libera i giudici” “No, li mortifica”. Carriere separate, lo scontro in Aula di Valentina Stella Il Dubbio, 10 dicembre 2024 Ieri al via la discussione generale alla Camera sulla riforma. Maschio (FdI): “Addio correnti”. La riforma della separazione delle carriere è approdata ieri, come previsto, nell’Aula della Camera. Prima la relazione sul disegno di legge di modifica costituzionale da parte dei membri della commissione Affari costituzionali - il presidente Nazario Pagano (FI) e la deputata Simona Bordonali (Lega) - poi la discussione generale. Il dibattito a Montecitorio è apparso prodromico a quello che avverrà in vista del referendum, previsto per la primavera del 2026: i favorevoli impegnati a ribadire che si tratta di una riforma che da un lato dà più garanzie ai cittadini contro lo strapotere della magistratura requirente “e dall’altro pone un freno al correntismo mai venuto meno nonostante la radiazione di Luca Palamara; i contrari, invece, compatti nel sostenere che si tratti di una punizione delle toghe per decisioni invise al governo e che sia la realizzazione del desiderio più grande di Silvio Berlusconi. Come ha dichiarato Ciro Maschio, presidente della commissione Giustizia ed esponente di FdI, “questa riforma epocale della giustizia ha l’obiettivo fondamentale di liberare la magistratura, di liberare i singoli magistrati dal giogo delle correnti politicizzate, per restituire ai cittadini un giudice veramente libero, terzo, autonomo e imparziale, nel pieno rispetto, questo sì, dei principi della nostra Costituzione”. “Qualcuno - ha aggiunto - per il solo fatto che la politica abbia osato tentare di riformare la magistratura, parla di eversione, di allarme democratico, di attentato alla magistratura o di attentato alla democrazia. Chi rivolge questi attacchi e queste critiche lo fa chiaramente in malafede, nel disperato tentativo di difendere quel sistema di potere fondato sulle correnti che stiamo cercando di riformare”. Il deputato forzista Enrico Costa sostiene a propria volta che la riforma servirebbe a spezzare, tra l’altro, quel rapporto patologico tra gip, gup e pm: nella fase dell’indagine preliminare, si è chiesto il parlamentare, “e in generale nei procedimenti, nei processi, il ruolo giudice è un ruolo attivo? È un ruolo dinamico? È un ruolo di filtro?”. E si risponde: “Non vorrei offendere nessuno ma vedo nel nostro procedimento penale, di fronte alla prepotenza, non solo giuridica ma anche mediatica dell’accusa, una paralisi del giudice. Io la chiamo la tanatosi del gip e del gup. L’immobilità tonica. Sapete qual è l’immobilità tonica? È quella di quegli animali che si fingono morti come strumento di difesa. Per difendersi dalla prepotenza giuridica e mediatica e per non ostacolare, perché capiscono di essere più deboli nella dinamica del processo, si fingono morti”. In rappresentanza del governo è intervenuto il viceministro della giustizia, Francesco Paolo Sisto, che ha seguito il dossier fin dall’inizio: “La proposta è molto chiara: non tocca minimamente il tema dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura; non tocca minimamente l’obbligatorietà dell’azione penale; non è un intervento, neanche a volerlo stressare, punitivo nei confronti di chicchessia e non ha una componente ideologica”. Ha poi ribadito quanto espresso dallo stesso guardasigilli Carlo Nordio: “Su questo condivido il pensiero del ministro secondo cui questa riforma deve essere sottoposta al vaglio del popolo mediante l’esercizio della democrazia diretta: questa sarà la migliore tranquillità per tutti e ognuno di noi potrà affidarsi a quello che sarà il giudizio degli strumenti di democrazia diretta” . Di tutt’altro spirito le dichiarazioni pronunciate in Aula da parte delle opposizioni. Il capogruppo dem nella seconda commissione Federico Gianassi ha attaccato nel suo intervento direttamente il responsabile di via Arenula: “Il ministro Nordio, in un recente attacco alla magistratura, ha citato sondaggi secondo cui solo il 30% degli italiani avrebbe fiducia nell’operato dei magistrati. Un dato che il ministro ha usato per delegittimare l’intero sistema giudiziario. Tuttavia, risulta che il gradimento dello stesso Nordio, come membro del governo Meloni, si attesta anch’esso al 30%. Delle due, l’una: o il ministro utilizza dati in modo pretestuoso per screditare una magistratura che non si piega alle derive illiberali del governo, oppure la sua credibilità è così scarsa da confutare le sue stesse affermazioni. Nordio farebbe meglio a concentrarsi sul proprio operato anziché attaccare chi è impegnato nella tutela della giustizia”. “Con la separazione delle carriere dei magistrati il centrodestra punta a colpire l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario, e in particolare a sterilizzare e a mettere sotto l’influenza della politica i pubblici ministeri, coronando il sogno di Silvio Berlusconi”, ha detto la deputata del M5S Stefania Ascari. Avs, con il capogruppo in commissione Giustizia Devis Dori ha invece stigmatizzato che tutte le 262 richieste di modifiche siano state bocciate: “Nessuna condivisione, tutti gli emendamenti delle opposizioni sono stati respinti, nessuna condivisione con i magistrati perché è una riforma contro i magistrati, mossa da una furia punitiva: i continui attacchi della magistratura e la volontà di delegittimarla rendono chiaro l’obiettivo del governo: riscrivere i principi dei rapporti tra poteri dello Stato. Se volete davvero la parità tra accusa e difesa - ha concluso - andiamo subito anche in quella direzione, anziché andare a incidere, come state facendo adesso sulla magistratura. Bene, allora mettiamo l’avvocato in Costituzione”. Il seguito del dibattito è rinviato a data da destinarsi. Separazione delle carriere in aula alla Camera. Il Governo: “Parola ai cittadini” di Angela Stella L’Unità, 10 dicembre 2024 Prove da dibattito referendario ieri nell’aula della Camera dove è sbarcato il Ddl di riforma costituzionale della Separazione delle carriere tra pm e giudici. Prima la relazione da parte dei membri della Commissione Affari costituzionali - il presidente Nazario Pagano (FI) e la deputata Simona Bordonali (Lega) - poi la discussione generale. Niente tecnicismi per il momento, in attesa del dibattito sui singoli articoli che ancora non è stato calendarizzato. Come ribadito dal vice ministro Francesco Paolo Sisto, che ha seguito la pratica sin dall’inizio a Montecitorio, Nordio vuole un referendum. “Se questa riforma dovesse essere sottoposta al vaglio del popolo mediante l’esercizio della democrazia diretta, questa sarà la migliore tranquillità per tutti” ha ribadito il numero due di via Arenula. E allora tutti gli schieramenti pronti ad affinare le armi dialettiche ipotizzando di parlare ad un vasto pubblico. Per Ciro Maschio, presidente della Commissione giustizia ed esponente di FdI, “Il sistema descritto da Palamara non è stato smantellato con l’eliminazione di Palamara, con la sua radiazione dalla magistratura, perché quel sistema esiste ancora ed esercita ancora pienamente il proprio potere su tutta la magistratura. Allora è giusto e doveroso che la politica si faccia carico di riformare l’ordinamento giudiziario”. Per il deputato forzista Enrico Costa: “La magistratura non dovrebbe intervenire nei procedimenti di approvazione delle norme perché, ripeto, cosa direbbe l’Anm se qualcuno di noi, prima di una sentenza, cercasse di interferire? Invece, noi vediamo alti magistrati, con “titoloni”, che intervengono sui procedimenti legislativi in corso, del tipo: “se passa questa legge, è un favore alla mafia, è un favore alla criminalità”. No, sono norme di garanzia”. Di tutt’altro spirito le dichiarazioni da parte delle opposizioni. Il capogruppo dem nella seconda Commissione della Camera, Federico Gianassi, ha infatti dichiarato: “Questo intervento è mosso da un intento punitivo nei confronti della magistratura che è autonoma e indipendente, ed è ispirato dalla tradizionale ossessione ideologica della destra in materia di giustizia. Il governo insegue scalpi e bandierine nel disinteresse più totale verso l’efficienza del sistema, mentre, con la manovra di bilancio, taglierà risorse alla giustizia, 500 milioni dal 2025 al 2027”. “Con la separazione delle carriere dei magistrati il centrodestra punta a colpire l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario e, in particolare, a sterilizzare e a mettere sotto l’influenza della politica i pubblici ministeri, coronando il sogno di Silvio Berlusconi”, ha detto la deputata del M5s, Stefania Ascari. Avs, con il capogruppo in Commissione giustizia, Devis Dori, ha invece stigmatizzato che tutte le 262 richieste di modifiche siano state bocciate: “Nessuna condivisione, tutti gli emendamenti delle opposizioni sono stati respinti, nessuna condivisione con i magistrati perché è una riforma contro i magistrati, mossa da una furia punitiva: i continui attacchi della magistratura e la volontà di delegittimarla rende chiaro l’obiettivo del governo, riscrivere i principi dei rapporti tra poteri dello Stato”. Giustizia e vizio di mente: negare la complessità della colpevolezza non produce prevenzione di Luciano Eusebi Il Riformista, 10 dicembre 2024 C’è una categoria giuridica, la colpevolezza, che, stante il suo nome, parrebbe funzionale a condannare. Ma già si puniva prima che essa fosse considerata necessaria per quel fine. Prima poteva essere, infatti, che qualcuno fosse reputato responsabile al pari di come lo si suole ritenere un fenomeno naturale, poniamo un fulmine, cioè per il mero aver causato un danno. Poi l’evolversi della civiltà giuridica ha condotto a richiedere che per punire, e per come punire, si debba tener conto della reale condizione personale, rispetto al suo agire, di chi pure, materialmente, quel danno l’abbia prodotto, cioè della sua colpevolezza: dunque, del suo essere stato o meno in grado di dominare la sua condotta e, pur quando lo si ritenga colpevole, degli elementi che abbiano inciso su di essa (potendo risultare ben diverse le caratteristiche della colpevolezza con cui venga commesso un medesimo reato). In sostanza, quella categoria ci dice che non si punisce condannando, al fine di gestire lo sgomento che sia derivato da un fatto offensivo, chi dal punto di vista oggettivo ne sia stato artefice, senza porsi questioni ulteriori (e spiegando quel medesimo fatto, in modo rassicurante, con riguardo al mero volere di tale persona); ma che si può punire solo in rapporto, e dando rilievo, a una rappresentazione reale, cioè non riduttiva, del soggetto agente. Sebbene l’attuazione di simile principio resti ampiamente inadeguata. Eppure, sembra che alcuni vogliano tornare indietro: a una società ancestrale della ritorsione per il mero fatto, salvo barattare, oggi, l’enfasi sul punire sbrigativo ed esemplare come strumento di prevenzione, quando ha soltanto, invece, finalità di consenso politico. Così, ad esempio, viene proposto di annullare, modificando la definizione del vizio di mente, le pur timide aperture giurisprudenziali a considerare rilevanti, onde riconoscerlo, non solo le malattie psichiatriche classiche ma anche taluni disturbi gravi della personalità: e senza ricordare, per lo più, che il vizio totale di mente, riscontrata la pericolosità dell’interessato, conduce pur sempre all’applicazione (anche detentiva nelle REMS) delle misure di sicurezza. Come pure si constata la persistente indifferenza per il fatto che vi è in carcere una grande quantità di detenuti i quali, pur riconosciuti capaci d’intendere e di volere o affetti da un vizio solo parziale di mente, risultano portatori di condizioni psichiche patologiche o comunque estremamente problematiche, oppure risultano averle acquisite nello stato di detenzione: come riprova il numero enorme dei suicidi e quello molto maggiore dei tentati suicidi in carcere, ma anche l’uso diffusissimo, fra i reclusi, degli psicofarmaci. Tutti detenuti per i quali, al pari dei reclusi tossicodipendenti, la condizione detentiva, salvo eccezioni particolari, è inappropriata e che avrebbero bisogno di opportunità curative credibili. Gli atteggiamenti suddetti contrastano in maniera radicale rispetto all’agire in senso preventivo, e anzi legittimano il non fare prevenzione: se si progetta di ignorare le complessità dei comportamenti umani, il che riguarderà soprattutto gli autori di reato più fragili, ne trae giustificazione, per esempio, l’additare come un lusso umanitario l’opera dei servizi sociali: costituenti, invece, l’unico filtro efficace rispetto alle situazioni psicologiche a rischio, suscettibili di sfociare (senza che incida in alcun modo la durezza della pena minacciata) in delitti efferati. Ove si ritenga che l’importante risulti condannare in modo esemplare e aproblematico, allora il messaggio è che non occorre altro, e che la società può ritenersi indenne da qualsiasi forma di corresponsabilità rispetto ai contesti in cui i delitti maturano. Ne deriva che le pene andrebbero bene così come sono, o ancor più dure. Quando la Costituzione, viceversa, evidenzia come la prevenzione stabile nel tempo sia quella che, anche attraverso il contenuto delle sanzioni penali, cerca di motivare sia i consociati, sia chi abbia commesso un reato, a scelte personali di rispetto della legge. E infatti, se non c’è motivazione, ma solo intimidazione e neutralizzazione, le occasioni per delinquere saranno pur sempre sfruttate da molti, e ai soggetti neutralizzati se ne sostituiranno altri. Mentre nulla rafforza di più l’autorevolezza della norma violata (e nulla è temuto maggiormente dalle compagini criminali, perché le destabilizza) del fatto che proprio chi l’abbia trasgredita si esponga a riconoscerne il valore e s’impegni in senso antitetico al reato commesso. Affinché questo accada, tuttavia, la pena non può essere costruita come una ritorsione, che del resto non richiede alcunché al condannato, bensì lo dev’essere come un programma, di natura finché possibile prescrittiva e adeguatamente supportato, il quale risulti significativo per il rapporto del condannato stesso con la società e con la vittima. L’aver concluso per la capacità d’intendere e volere dell’autore di un fatto illecito non può fungere da alibi, quindi, per disinteressarsi della realtà complessa di quella persona: posto che un programma è delineabile solo dando rilievo a tale realtà. La semplificazione ritorsiva non giova neppure alle vittime. Non dà loro alcunché. Al contrario le obbliga, per far valere la gravità di un’ingiustizia subìta, a chiedere il massimo danno per il colpevole. È solo nel confronto con la complessità umana, piuttosto, che può trovare una risposta non riduttiva il bisogno di verità rispetto alle tragedie che accadono e l’esigenza che, almeno, se ne traggano elementi per cercare di ostacolarne il ripetersi da parte di altri. Ed è solo nell’ambito di un programma che la vittima può vedere riconosciuta, non soltanto con parole formali, da parte di chi l’abbia commessa l’ingiustizia irreversibilmente verificatasi. Calabria: Genitori detenuti, l’ex Garante regionale: “Serve tutelare i legami familiari” di Francesco Chindemi avveniredicalabria.it, 10 dicembre 2024 Dall’importanza degli spazi adeguati per i colloqui ai servizi di supporto psicologico e sociale: le proposte dell’avvocato Luca Muglia per garantire la tutela dei figli di madri e padri reclusi. Nel contesto della tutela dei diritti dei detenuti, emerge spesso il ruolo della genitorialità e delle difficoltà che i genitori reclusi devono affrontare nel mantenere un legame con i figli. “La situazione riscontrata in Calabria è simile a quella di altre regioni, ma le difficoltà sono diverse”, spiega l’avvocato Luca Muglia, fino a poche settimane fa Garante dei diritti dei detenuti calabresi. Nel contesto della tutela dei diritti dei detenuti, emerge spesso il ruolo della genitorialità e delle difficoltà che i genitori reclusi devono affrontare nel mantenere un legame con i figli. Qual è la situazione in Calabria? La situazione riscontrata in Calabria è simile a quella di altre regioni, le difficoltà sono diverse. Le criticità riguardano, da un lato, il diritto ad esercitare le funzioni genitoriali durante il periodo di detenzione e, dall’altro, l’idoneità dei luoghi in cui si incontrano i figli minori d’età e la lontananza rispetto alla dimora dei familiari. Nei due anni in cui ho esercitato le funzioni di Garante regionale ho ricevuto svariate segnalazioni, intervenendo nei casi in cui appunto si lamentava l’impossibilità di mantenere un legame affettivo continuativo con i propri figli. Talvolta, peraltro, si trattava di minori affetti da patologie alquanto delicate. La proposta di istituire una sezione femminile nel carcere di Laureana di Borrello come potrebbe influire sulla tutela dei diritti delle madri detenute e sul mantenimento del rapporto madre-figlio? Beh, potrebbe influire e come. Il “modello Laureana” è fortemente innovativo sotto il profilo trattamentale, formativo e rieducativo, ma non solo. Nell’istituto a custodia attenuata di Laureana, infatti, ha trovato attuazione per la prima volta in Italia il progetto “genitori dentro”, rivolto ai detenuti con prole di età non superiore ai 16 anni. In tale contesto è stato realizzato un confortevole ed ampio monolocale in legno che ricorda la “Casa” (nella foto la Casa dell’affettività, ndr). Si tratta di un ambiente dedicato e attrezzato a misura di bambini e bambine in cui le persone detenute, secondo prestabilite turnazioni, possono incontrare i propri cari con il solo controllo delle telecamere. In altre parole, una sala per i colloqui a dimensione umana, che manca nella maggior parte degli istituti penitenziari italiani. Le linee guida sul tema da lei indicate evidenziano l’importanza di un accesso effettivo a percorsi di sostegno per detenute madri e detenuti padri. Quali strumenti o servizi reputa indispensabili affinché la genitorialità possa essere esercitata anche in un contesto carcerario? Occorre aprire una breccia, con le Linee guida “Carcere e genitorialità” emanate nei mesi scorsi ho provato a farlo. Gli strumenti da utilizzare hanno come obiettivo primario quello di prevedere ed agevolare l’ingresso in carcere di personale specializzato (Servizi sociali, Consultori familiari, Uepe, consulenti tecnici, periti) in grado di attivare misure efficaci di sostegno alla genitorialità. Oltre ad incidere sulla qualità delle funzioni genitoriali ciò faciliterebbe il percorso riabilitativo delle persone recluse, fornendo quel “quid in più” che spesso può essere determinante o addirittura decisivo. I figli di genitori detenuti affrontano sfide e stigmatizzazioni uniche. Quali azioni propone per assicurare che questi minori ricevano supporto emotivo e sociale adeguato, evitando discriminazioni e promuovendo il loro benessere? Il problema è innanzitutto culturale, mi riferisco allo stigma e all’etichetta sociale che colpisce i nuclei familiari e, in particolare, le persone minori d’età. Parliamo di personalità fragili e ancora in formazione che si ritrovano a fare i conti con il giudizio collettivo, quasi sempre crudele e spietato, oltre che con la detenzione del papà o della mamma. Esiste poi un problema di “risorse” da mettere in campo, in Calabria la carenza di personale nel settore dell’assistenza familiare e psicosociale è sotto gli occhi di tutti. Il carcere diventa, giocoforza, un luogo da evitare. La sua esperienza di Garante regionale dei diritti delle persone detenute si è conclusa da poco tempo. Guardando al lavoro svolto e ai progressi fatti in tema di diritti nei contesti penitenziari, cosa auspica? Sono stati anni di grande lavoro ed intensità, penso che siano stati fatti passi in avanti e che il sistema penitenziario abbia beneficiato di una interlocuzione istituzionale essenziale. Le persone recluse, tuttavia, stanno vivendo un momento di “emergenza umanitaria”, sono provate e svilite, e ciò anche in Calabria. In Italia sono diventati 80 i suicidi in carcere nel 2024, un record negativo senza precedenti, tutto italiano. Alla limitazione della libertà personale si aggiungono “privazioni” importanti, di diritti e/o prestazioni minime, che finiscono per ledere la dignità e per generare un clima invivibile. È una sensazione ormai palpabile che assale ed investe l’intera comunità del pianeta carcere, come dimostrano i 7 suicidi nel 2024 di appartenenti alla Polizia penitenziaria. Di carcere, purtroppo, si continua ogni giorno a morire, nell’indifferenza generale. Brescia. Per il nuovo carcere un altro anno perso, intanto il sovraffollamento peggiora di Manuel Colosio Corriere della Sera, 10 dicembre 2024 Il 2024 doveva essere l’anno nel quale si era imboccata “la strada giusta per la realizzazione del nuovo carcere di cui da anni si sente impellente il bisogno”, auspicava nella relazione di dodici mesi fa la Garante delle persone private di libertà del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani, ma su quella strada pare ci si sia persi ed oggi si scopre non solo che quei progetti sono lontani dall’essere realizzati, ma anche che le carceri bresciane risultano essere sempre più sovraffollate, con le celle di giorno ancora chiuse, diverse difficoltà ad accedere alle attività trattamentali, all’area sanitaria ed ai colloqui, acuendo le difficili relazioni tra detenuti, tribunale di sorveglianza e personale di polizia, mentre il “caro-detenzione”, causato dall’aumento dei prezzi nella lista della spesa, pesa sempre di più. I numeri inseriti nella relazione 2024 fotografano bene questa situazione drammatica: il numero dei reclusi a Nerio Fischione a fine ottobre è passato dai 376 dello scorso anno a 377 di questo 2024, portando il tasso di sovraffollamento al 207% (vista capienza di 182 detenuti) e dunque ben sopra quello nazionale (121%), mentre prosegue il trend al ribasso degli stranieri, che passa da 46,8% a 43,2%. Durante l’anno il sovraffollamento a Canton Mombello è stato anche peggiore: a gennaio è stata sfiorata la soglia delle 400 presenze, mentre a luglio 385. Anche per quanto riguarda la casa di reclusione di Verziano poco o nulla è mutato: lo scorso ottobre erano 114 i detenuti (116 nel 2023) che fissano il tasso di sovraffollamento al 160% (71 i posti regolamentari). Qui si alza invece la percentuale di stranieri presenti, che passa dal 31% al 37,7%, mentre rimane invariata la presenza di donne (32%). Eppure è stato un anno nel quale i riflettori sui detenuti sono stati accesi, eccome: diverse visite dentro le mura di politici nazionali e locali, incontri con magistrati e giudici, un documentario (“11 giorni” di Nicola Zambelli) che ha scosso le coscienze raccontando, attraverso le parole dei detenuti, le invivibili condizioni dentro quelle mura, messe anche nero su bianco anche nella lettera di denuncia che ha (inaspettatamente) ricevuto la risposta pubblica del Presidente della Repubblica Mattarella lo scorso luglio, dando così rilevanza nazionale al tema. Adesso si rilancia, con lo spettacolo teatrale di denuncia degli stessi detenuti “Terza branda”, che lunedì 9 dicembre ha animato la riunione della commissione comunale dentro il carcere “che per noi è un pezzo di città che va ascoltato” ha ribadito la sindaca Laura Castelletti. Nonostante i continui sforzi da parte della Direzione, Garante, Comune di Brescia e terzo settore che hanno evitato (nonostante le invivibili condizioni) le tensioni evidenziate invece in altre carceri italiane, i problemi restano irrisolti e gli strumenti per attenuare la situazione sottoutilizzati: l’esecuzione penale esterna rimane un miraggio per la maggioranza dei detenuti e risulta difficilissimo trovare un impiego esterno, a causa delle lungaggini formali e mancanza di personale, così come è quasi impossibile reperire una casa idonea a svolgere le misure alternative, seppur Brescia possa contare da anni su una rete di housing sociale che offre risposte ad una quarantina di persone. Un impegno che, seppur costante, porta risultati con il contagocce: ci sono voluti due anni per trovare la quadra e installare finalmente 7 lavatrici e 7 asciugatrici richieste dai detenuti, mentre a luglio sono arrivati sei televisori nuovi e 42 ventolini per far almeno girare un po’ di aria che, dentro queste mura, rimane pesantissima. Viterbo: Boschi e Giachetti a Mammagialla, interrogazione a Nordio: “Condizioni inaccettabili” viterbotoday.it, 10 dicembre 2024 Visita a Mammagialla dei deputati di Italia viva Maria Elena Boschi e Roberto Giachetti, che denunciano una situazione definita “drammatica” e “lesiva della dignità” tanto dei detenuti quanto degli operatori penitenziari. I parlamentari hanno annunciato la presentazione di un’interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio per chiedere un intervento immediato. “Se dallo stato delle carceri si misura il grado di civiltà del paese - dichiarano Boschi e Giachetti - allora è evidente che ci troviamo di fronte a un’emergenza democratica che il ministro Nordio non può ignorare. Specie dopo aver raggiunto il terribile dato record di 85 detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Nel carcere di Viterbo abbiamo toccato con mano una situazione non solo drammatica, ma lesiva della dignità sia delle persone private della libertà sia di chi vi opera”. La visita è avvenuta ieri mattina, lunedì 9 dicembre. I due deputati evidenziano le criticità principali del penitenziario intitolato a Nicandro Izzo: “L’ascolto di chi ogni giorno vive e lavora nelle carceri è il primo passo per comprendere la realtà carceraria e garantire la dignità delle persone che dentro vivono e lavorano. A Viterbo ci troviamo di fronte a una situazione paradossale. Il sovraffollamento sfiora ormai l’80% a fronte del personale effettivo della polizia penitenziaria pari praticamente alla metà di quello previsto. I detenuti sono costretti a vivere in spazi inadeguati, trasformati in celle prive persino di un bagno. Una condizione inaccettabile che allontana da ogni possibilità di riscatto e che deve vedere immediatamente il coinvolgimento delle istituzioni a ogni livello, a partire dal garante nazionale dei detenuti, e su cui il ministro della Giustizia deve intervenire innanzitutto provvedendo alla nomina del garante vacante ormai da mesi”. I parlamentari di Italia viva, infine, ricordano le proposte avanzate in passato per affrontare il problema del sovraffollamento carcerario. “Noi - concludono Boschi e Giachetti - avevamo messo in campo contro il sovraffollamento carcerario una proposta seria sulla liberazione anticipata perché non ci arrendiamo alla costante perdita di dignità delle persone e alla mancanza di civiltà del nostro paese”. Cagliari. Il carcere è allo sbando: “Detenuti che cercano di impiccarsi e aggrediscono gli agenti” cagliarinews.it, 10 dicembre 2024 È “allarme rosso” per il penitenziario più grande della Sardegna. Nelle ultime ore tante situazioni al limite, i poliziotti sono sempre più esasperati: “Possiamo ospitare 530 persone, invece ce ne sono 750 e ne arrivano anche per il 41 bis”. Il carcere di Uta “è una polveriera, la situazione sembra ormai sfuggita di mano, si attivino interventi urgenti immediati”. A lanciare l’allarme sono tutti i sindacati, uniti sempre di più. Michele Cireddu della Uil Pa, Luca Fais del Sappe e Alessandro Cara dell’Uspp, insieme a Giovanni Villa della Fns Cisl descrivono uno scenario di caos, confusione e violenza. “Diversi detenuti hanno cercato di impiccarsi, un altro ha distrutto gli arredi della sua camera, quelli dell’infermeria, ha aggredito gli Agenti con un bastone, altri si sono rifiutati di rientrare in cella, 4 detenuti sono stati trasportati d’urgenza in ospedali esterni, a questi eventi fanno da contorno le aggressioni e le minacce di morte a danno degli operatori, è allarme rosso. Sono giorni da allarme rosso quelli che vedono il personale di polizia penitenziaria nel carcere di Uta in estrema difficoltà”. “Sono infatti in continuo aumento le aggressioni a danno dei poliziotti, degli operatori, le minacce di morte, gli insulti e le ribellioni da parte di detenuti facinorosi che si rifiutano di rispettare le regole. La situazione ha raggiunto una soglia estremamente allarmante, attualmente sono 4 i detenuti ricoverati in luogo esterno di cura, uno dei quali continua a distruggere intere camere ospedaliere mettendo a rischio la sicurezza, non solo degli operatori, ma degli altri pazienti e del personale medico. Si tratta di un detenuto che ha già aggredito un numero elevato di Agenti e addirittura il vice direttore e, nonostante le reiterate richieste di allontanamento dal carcere di Uta, l’amministrazione non ha mai riscontrato le nostre richieste lasciando in bali degli eventi gli operatori”, denunciano i sindacalisti. “Il suo atteggiamento ha creato l’emulazione degli altri detenuti, quando infatti da in escandescenza ed ingerisce pezzi di vetro e distrugge ogni arredo che trova nelle proprie vicinanze, coincidono sistematicamente i tentativi di suicidio, le aggressioni le resistenze ed i rifiuti di rientrare nelle rispettive celle degli altri detenuti. Ci riferiscono che un sovrintendente per non abbandonare il personale allo stremo sia addirittura in servizio dalle 6 del mattino odierne e pare che sino alle 6 di domani non potrà smontare, lavorando ininterrottamente per 24 ore di fila, è una follia! Il Dipartimento nel mentre continua ad inviare detenuti facinorosi e nonostante il carcere possa contenere 530 detenuti sono già più di 750 quelli effettivamente presenti. Nonostante questo dato allarmante continuano ad inviare detenuti addirittura per scontare il 14 bis, malgrado ci siano altri detenuti sottoposti a tale regime che stanno letteralmente mettendo a ferro e fuoco il carcere. Siamo estremamente preoccupati perché il personale è allo stremo e sente una sensazione di abbandono giustificata dal fatto che nonostante il rischio concreto che possa succedere qualcosa di eclatante, non si intravedono iniziative concrete da parte dei vertici dell’Istituto tanto meno dal provveditore regionale. Si intervenga immediatamente, allontanando i detenuti che in questi giorni stanno coinvolgendo altri nel mettere in atto aggressioni, resistenze, minacce ed ogni tipo di atteggiamento che mette a rischio la sicurezza dell’Istituto e si integrino immediatamente i servizi all’interno delle sezioni e dal Prap si attivino piani di emergenza per fronteggiare i disordini che avvengono quotidianamente, prima che si verifichino situazioni estreme”. Reggio Emilia. Detenuto accusa alcuni agenti di tortura: chiesto risarcimento di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 10 dicembre 2024 Il detenuto tunisino denuncia torture subite in carcere. Chiesto risarcimento di 180mila euro. Dieci agenti sotto accusa. “Quello che è successo è un fatto gravissimo, inaccettabile e ha un nome preciso: tortura”. Davanti al giudice dell’udienza preliminare Silvia Guareschi, sono le parole scandite dall’avvocato Luca Sebastiani, che tutela il detenuto tunisino 44enne, in passato nel carcere della Pulce, che denunciò di aver subito pesanti vessazioni dalla Polizia penitenziaria e ora costituito parte civile. Nella scorsa udienza il pubblico ministero Maria Rita Pantani ha chiesto la condanna (la più alta di 5 anni e 8 mesi) per tutti e dieci gli agenti che hanno scelto il rito abbreviato, accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso nelle relazioni stilate sul fatto del 3 aprile 2023. “Abbiamo chiesto che al mio assistito sia riconosciuto un giusto risarcimento che tenga conto di tutto ciò che subì quel giorno e anche in quello seguenti: l’incappucciamento, l’essere denudato, picchiato, calpestato, arrivare addirittura a tagliarsi le vene pur di attirare l’attenzione per essere visitato. Non chiediamo pene esemplari: il quantum a noi proprio non interessa”. Nello specifico, la domanda include una provvisionale di giustizia e danni per 180mila euro di danni. “Gravi anche i reati di falso - dice Sebastiani -. Senza le telecamere, sarei stato qui a difendere il mio assistito da ben quattro reati, perché nelle relazioni trasmesse alla Procura era lui a essere indagato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e per danneggiamento”. Dopo Sebastiani, la parola è andata ai primi difensori degli imputati, mentre gli altri concluderanno in gennaio. L’avvocato Alessandro Conti ha chiesto l’assoluzione “per non avere commesso il fatto” per entrambi i suoi assistiti, un 50enne e un 52enne. Per il primo, ha sostenuto che mancano gli elementi essenziali per sostenere l’accusa di tortura e che non vi sia corrispondenza tra le condotte addebitate e il filmato interno; ha inoltre rimarcato che, a suo dire, il pm non ha considerato che il gip già nel 2023 sostenne che lui non avesse calpestato le gambe del detenuto. Per un 52enne accusato solo di falso, Conti ha detto che non si tratta di un atto fidefacente, ma di un’informativa interna che descriveva fatti per com’erano stati percepiti. Per un 37enne, l’avvocato Sinuhe Curcuraci ha insistito sul fatto che la tortura non si configura né per lui né per gli altri, e che al massimo si può inquadrare la condotta nel reato di abuso d’autorità contro un detenuto. Ha inoltre detto che non rivolse insulti o percosse e che non rafforzò gli altri. Ha anche citato le consulenze difensive, secondo cui il 44enne non ebbe conseguenze psicofisiche e anzi rifiutò anche di farsi visitare dal medico incaricato dal pm. In subordine all’assoluzione, sono state chieste le attenuanti generiche, della provocazione e di aver risarcito il danno (strada scelta da otto su dieci versando mille euro a testa). Anche un 50enne assistito dall’avvocato Federico De Belvis deve rispondere solo di falso. Il difensore ha chiesto l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” sostenendo che manchi l’elemento soggettivo del reato. La percezione che lui avrebbe avuto è che sulla testa gli fosse stato messo uno straccio e non una federa: un errore, senza la volontà di ingannare; avrebbe inoltre scritto solo di una caduta del 44enne, e non di uno sgambetto, perché dal filmato si vede che l’agente era voltato di schiena; scrisse che si era dimenato perché si riferiva all’inizio quando il detenuto non era ancora stato immobilizzato. Monza. “Mio fratello in carcere con la scabbia, non posso vederlo da 3 settimane” monzatoday.it, 10 dicembre 2024 Infezione da scabbia nel carcere di Monza. La denuncia arriva dalla monzese C.V, sorella di un detenuto nella Casa circondariale di via Sanquirico, che ha riferito l’impossibilità di andare a far visita al fratello perché affetto dalla scabbia. “Mi ha contattato dicendomi di non andare a trovarlo perché fra i detenuti è scoppiata un’epidemia di scabbia e anche lui ha contratto l’infezione - ha spiegato - So, sempre secondo quanto mi ha spiegato mio fratello, che la situazione si sta protraendo da diverse settimane e che si è anche proceduto con lo spostamento dei detenuti colpiti dall’infezione in aree dove sono tenuti in isolamento”. Una situazione, quella riferita dalla monzese, che oltre che essere preoccupante per chi sta in cella rischierebbe di diventare complicata anche per i loro parenti. “La cosa che trovo scandalosa è che a oggi la direzione ancora non si sia mai premurata di informare noi familiari di quanto va accadendo. E chi ancora ha accesso ai colloqui e viene dall’esterno dovrebbe essere avvisato prontamente sull’infezione. Per non rischiare di contrarla a sua volta”. La scabbia è una malattia pruriginosa e molto contagiosa, causata dall’acaro Sarcoptes scabiei homini, un parassita che compie il suo intero ciclo vitale nell’epidermide umana. E a confermare la presenza del parassita in via Sanquirico è stato anche il consigliere di Forza Italia Pierfranco Maffè, nel corso di una delle ultime sedute in consiglio comunale, elencando le criticità che affliggono l’istituto di detenzione monzese. “Il problema sanitario in questione è legato strettamente a quello del sovraffollamento, che rende difficoltosi anche lo spostamento dei detenuti per l’isolamento e la necessaria chiusura dei settori colpiti - ha ribadito il consigliere ancora a MonzaToday - La preoccupazione più grande riguarda quindi la condizione dei detenuti, inseriti in un contesto fatiscente e ben poco decoroso e dove l’igiene rappresenta un problema piuttosto serio”. “La situazione però è complicata anche per i familiari dei detenuti - ha chiarito ancora l’assessore - Anche le sale d’attesa e quelle per i colloqui denotano infatti mancanza di manutenzione e scarsa pulizia. Senza contare che, in un’epoca interconnessa come la nostra, la mancata comunicazione circa quanto andava accadendo all’interno delle celle sarebbe dovuta essere più puntuale”. Mancano gli educatori L’altro grosso problema segnalato da Maffè è quello delle condizioni di vita dei detenuti all’interno del carcere, e specialmente quello relativo alla mancanza di educatori. Una mancata assegnazione dovuta alla carenza di fondi, ritardi temporali, cause burocratiche. “Che però - ha sottolineato Maffè - va a incidere negativamente sulle attività lavorative e varie proposte ai detenuti”. “Se mancano gli operatori viene meno per i detenuti la possibilità di essere accompagnati nei percorsi lavorativi - ha concluso il consigliere forzista - Una possibilità che paradossalmente il carcere di Monza è stato fra i primi a sperimentare. Trasformando il periodo di detenzione in un periodo di riabilitazione, così come la pena in carcere dovrebbe essere. Dare pari dignità a tutti i cittadini, anche a quelli detenuti, è fondamentale. E chi amministra la città su questo tema si gioca un ruolo cruciale: è la prova di quanto e se sia in grado di tenere alta l’attenzione e la vicinanza ai bisogni di tutti i cittadini. Senza distinzioni. Ed è su questa scia che dovrebbe muoversi e agire. Affinché anche il carcere non sia un luogo ‘altro’ ma una parte della città”. MonzaToday ha contattato la direzione del carcere per avere chiarimenti e aggiornamenti sulla problematica segnalata e resta in attesa di ricevere una risposta. Treviso. Spazi ridotti e bagni di fortuna nel carcere minorile più affollato d’Italia di Ilaria Beretta Avvenire, 10 dicembre 2024 Nell’istituto penale per minorenni è tutto precario: dalle classi alla “palestra”. Il cappellano don Otello Bisetto: pesa il peggioramento delle comunità educative. Materassi a terra, refettori che senza soluzione di continuità distribuiscono pasti e lezioni di matematica e una turca come piatto doccia. Se è vero che gli spazi rivelano cosa intende fare di un luogo chi li ha progettati, l’Istituto penale minorile (ipm) di Treviso avrebbe da raccontare una storia grave. Già, perché quello che secondo tutti i report è l’Ipm più sovraffollato d’Italia, con un tasso di densità del 183%, è un carcere nato sotto una cattiva stella. Aperto nel 1981 in un braccio della casa circondariale un tempo riservato ai detenuti politici per il reato di terrorismo, è stato riassegnato ai minorenni senza una vera riprogettazione architettonica. L’Ipm è poco più che un corridoio, su cui si affacciano sette celle, ciascuna dotata delle brandine regolamentari ma anche di almeno un paio di materassi in più messi a terra a giaciglio dei detenuti soprannumerari. Una di queste è adibita a scuola con un’armadiatura e banchi di fortuna su cui i ragazzi fanno i turni per i corsi. I bagni, uno per cella, sono però talmente angusti che una grata mobile calata sulla turca e un tubo d’acqua a mo’ di doccione trasformano lo spazio in una doccia regolamentare. Nella “palestra”, che per gli adolescenti potrebbe essere una buona valvola di sfogo, gli attrezzi tra cui scegliere sono solo un biliardino o un ping-pong; e anche il campo da calcio di proprietà del carcere degli adulti, che di tanto in tanto lo prestava ai vicini dell’Ipm, è attualmente in ristrutturazione. Così gli spazi per giocare sono praticamente inesistenti, anche se c’è l’idea - ma i fondi ancora da raccogliere - di costruire un campetto da basket nel cortile. Una situazione emergenziale, si potrebbe dire, che però è diventata talmente ordinaria che chi di competenza, sollecitato dall’amministrazione dell’istituto e dagli operatori, non può che rispondere: “È così dappertutto”. “Quando sono arrivato - testimonia da dentro don Otello Bisetto, cappellano della struttura dal 2017 -, c’erano 24 detenuti su 12 posti. E, a parte il periodo del Covid, ho sempre visto l’Ipm saturo e sovraffollato. All’inizio ci finivano giovani adulti che erano scappati dalle comunità oppure non riuscivano a rispettare le misure alternative. In sette anni questa dinamica è scomparsa, si è abbassata l’età media, che ora è di 17 anni, e solo pochissimi (tre o quattro) hanno condanne definitive, gli altri sono in attesa di giudizio. Oggi i ristretti sono 22: un terzo italiani, un terzo stranieri nati in Italia e il resto minori non accompagnati; un gruppo, quest’ultimo, che sta aumentando”. Secondo don Bisetto a complicare le cose non è stato tanto il decreto Caivano, approvato nell’autunno 2023, che inasprisce le sanzioni per piccoli reati, quanto il peggioramento della situazione delle comunità educative dove i ragazzi potrebbero essere collocati in alternativa agli ipm. “Fino a qualche anno fa la detenzione era l’estrema ratio - commenta il sacerdote -, adesso mi sembra sia diventata una misura come tutte le altre, soprattutto perché il territorio non offre opzioni diverse. Un documento di programmazione del dipartimento minorile del ministero della Giustizia, nel 2023, aveva già previsto un aumento delle detenzioni nel successivo triennio, passando da circa 380 minori detenuti nel 2022, a 580 nel 2026: già allora il sistema stava collassando. Oggi le comunità educative sono poche e quasi tutte in mano a organizzazioni di privato sociale che, non avendo spazio per tutti, scelgono chi accogliere prima tra i ragazzi meno problematici. E gli altri?”. Entro due anni l’Ipm di Treviso dovrebbe essere chiuso e i detenuti trasferiti a Rovigo dove sono in corso i lavori di ristrutturazione del vecchio carcere che ospiterà dai 30 ai 40 minori. In attesa del trasloco, che potrebbe però non essere risolutivo, il personale è stato integrato e oggi gli educatori, che erano due, sono diventati cinque. “A loro - dice don Bisetto - si aggiungono la psicologa, il medico, il personale amministrativo… La Polizia penitenziaria però è sotto organico e fa quello che riesce con turni lunghi e stressanti, i ragazzi si sentono soffocare e la situazione genera in tutti grande frustrazione”. Condivide l’analisi anche Girolamo Monaco, direttore dell’Ipm di Treviso: “Il carcere - dice - e in particolare quello minorile, è il prodotto diretto della società, cioè il prodotto di una cultura e di un modo di vivere le relazioni tra le persone. Il carcere di oggi è diverso da quello di 10 anni fa perché sono cambiati i reati, il modo con cui questi vengono agiti. La violenza che domina la nostra cultura si riflette sul carcere. In questo senso l’unico antidoto è guardare le persone, essere presenti e offrire ad ognuno una possibilità di riscatto: questo vale nelle relazioni sociali, nelle case, nelle scuole, nelle strade ma vale ancor di più in questo carcere minorile che dirigo, pienissimo di detenuti e privo di spazi”. Milano. L’università entra in carcere. A Bollate di Ilaria Dioguardi vita.it, 10 dicembre 2024 I detenuti presso la Casa di reclusione iscritti ai poli universitari penitenziari di Milano-Bicocca, Bocconi e Statale di Milano avranno uno strumento in più per il loro corso di studi: un’aula multimediale con accesso alle piattaforme online degli atenei. Potranno usufruire dei servizi didattici, anche di e-learning, e di quelli di segreteria. Un’aula multimediale da cui accedere in tempo reale ai materiali del corso e, laddove disponibili, alle video-lezioni ma anche gestire autonomamente la propria carriera universitaria. È questo il nuovo passo avanti per gli studenti iscritti ai poli universitari penitenziari di Milano-Bicocca, Bocconi e Statale di Milano e detenuti presso la Casa di reclusione di Bollate, che potranno accedere alla piattaforma in tutta sicurezza. Grazie a un collegamento filtrato, usufruiranno dei servizi didattici erogati attraverso le piattaforme online dall’ateneo, tra i quali, ove previsti, quelli di e-learning, e accederanno autonomamente a servizi di segreteria, come ogni altro studente (anche se con le limitazioni del caso). Avranno anche accesso alla piattaforma dei servizi bibliotecari, potendo consultare in autonomia le fonti bibliografiche disponibili. L’Università di Milano-Bicocca si è fatta promotrice di questa iniziativa ed è capofila del progetto che ha coinvolto anche l’Università Bocconi e l’Università di Milano, svolgendo tutti i test di sicurezza necessari: ora anche dal carcere si possono vedere i dettagli dei corsi universitari, compresi gli obiettivi formativi, eventuali video-lezioni, slide e materiale integrativo richiesto per gli esami, ma anche gli esiti delle prove e tutte le informazioni relative al percorso universitario. L’iniziativa è stata realizzata grazie al contributo della Universo cooperativa sociale, che ha fornito i computer e provveduto a collegarli a una rete filtrata da firewall. La cooperativa gestirà il servizio e si farà carico del filtraggio dei contenuti. Il progetto è stato presentato alla presenza del direttore della Casa di reclusione di Bollate Giorgio Leggieri, nonché del responsabile dell’area educativa Roberto Bezzi e di Lorenzo Lento, presidente della Universo cooperativa sociale. Erano presenti anche i rappresentanti dei tre atenei milanesi attivi con i loro poli universitari penitenziari all’interno dell’istituto carcerario: il professor Stefano Simonetta, prorettore ai servizi agli studenti e diritto allo studio dell’Università Statale di Milano, il professor Carlo Salvato, prorettore vicario dell’Università Bocconi, e la professoressa Maria Elena Magrin, delegata della rettrice per le attività del Polo universitario penitenziario di Milano-Bicocca. “Si tratta di un progresso dal punto di vista operativo, ma anche psicologico”, ha detto Maria Elena Magrin. “Lo studente detenuto potrà avere, infatti, una certa padronanza nella gestione della propria posizione e non avrà più bisogno di qualcuno che gli faccia da filtro con l’istituzione universitaria”. Il Polo universitario penitenziario di Milano-Bicocca fa parte di una rete nazionale di 44 università e un centinaio di istituti di pena: attualmente gli studenti detenuti iscritti al Polo penitenziario dell’ateneo di Bicocca sono 90 (53 nella Casa di reclusione di Bollate), divisi tra 27 corsi di laurea che afferiscono a 13 dipartimenti. “Occuparsi delle comunità vulnerabili, come quella dei detenuti”, ha sottolineato Carlo Salvato prorettore vicario della Bocconi, “è un impegno che Bocconi porta avanti attraverso una molteplicità di iniziative che vanno dal Progetto carceri, che in questo anno accademico coinvolge 15 detenuti regolarmente iscritti al corso di laurea in Economia e management, alle cliniche legali presso le carceri di Bollate e Opera. Un impegno che continueremo a incrementare grazie alla competenza della professoressa Marta Cartabia, che da quest’anno è prorettrice all’Impegno sociale e agli Affari istituzionali”. “Per la Statale di Milano si tratta di un’ulteriore, importante tessera nel mosaico di azioni attraverso cui portare quotidianamente l’università nelle carceri”, ha detto Stefano Simonetta. “Quest’aula permetterà infatti alle persone ristrette di accedere in autonomia a una serie di servizi e materiali, ferma restando l’importanza primaria di una presenza concreta all’interno degli istituti penitenziari, attraverso i corsi che vi svolgiamo ogni settimana e l’ingresso quotidiano dei tutor che seguono le nostre studentesse e i nostri studenti ristretti. Il Progetto Carcere della Statale di Milano, anch’esso parte della rete nazionale, è tra i più grandi d’Europa con 159 studenti iscritti (di cui 51 a Bollate), 28 dipartimenti coinvolti sui 31 totali e tutte le dieci facoltà coinvolte”. Valorizzazione dei percorsi formativi: un vantaggio per tutta la società “Gli studenti del Polo universitario penitenziario hanno gli stessi diritti e doveri di tutti gli altri. Le condizioni detentive, però, limitano la loro possibilità di fruizione delle attività universitarie, didattica compresa: questa nuova aula accorcerà la distanza tra carcere e università, tra “dentro” e “fuori”, ha spiegato la rettrice di Milano-Bicocca, Giovanna Iannantuoni. “Educazione e istruzione sono indispensabili per la riduzione del crimine ed è per questo che dalla valorizzazione di questi percorsi ne deriva un vantaggio per tutta la società”. Velletri (Rm). “Voci di ballatoio”, la Casa circondariale ha il suo giornale garantedetenutilazio.it, 10 dicembre 2024 Presentato il primo numero del periodico, realizzato da 22 detenuti. Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, è intervenuto alla presentazione del primo numero del mensile Voci di Ballatoio, che si è svolta giovedì 5 dicembre nella Casa circondariale di Velletri, nato dopo una prima edizione sperimentale. Il progetto è stato ideato e curato dall’Associazione La Farfalla e realizzato da un gruppo di detenuti, grazie alla collaborazione della direttrice del carcere, Anna Rita Gentile, e della dirigente dell’Area giuridico-pedagogica, Sabrina Falcone. A presentare il primo numero del giornale sono intervenuti i responsabili del progetto, Paola Anelli e Nicolò Sorriga, quest’ultimo responsabile della grafica e dell’impaginazione del giornale. Il giornale della Casa circondariale di Velletri, realizzato da un gruppo di detenuti della struttura nell’ambito del progetto “Altri Giornali” dell’Associazione La Farfalla, è iniziato nel mese di marzo 2024, ha portato all’uscita del numero zero nel mese di luglio ed è proseguito con continuità fino alla presentazione del primo numero. L’evento, al quale hanno partecipato anche i 22 detenuti che compongono la redazione della pubblicazione, ha avuto luogo nell’aula conferenze del penitenziario di Velletri, con la partecipazione di numerosi ospiti, tra i quali: il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Marina Finiti; il magistrato di sorveglianza Leonardo Circelli; il dirigente Mario Petruzzo, delegato dal capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Giovanni Russo; e il giornalista fotoreporter Luciano Sciurba. Alla presentazione hanno partecipato anche diverse scuole superiori, tra cui il Liceo Landi di Velletri, il Liceo Meucci di Aprilia, l’Istituto tecnico Industriale Trafelli di Nettuno e il Liceo Chris Cappel di Anzio. Il mensile Voci di Ballatoio si compone diverse sezioni, come le storie dei detenuti, voci da dentro e da fuori, speciali e approfondimenti, tra cui articoli sui disordini della scorsa estate. Il giornale, stampato in 300 copie, viene distribuito all’interno della Casa circondariale, agli uffici dell’amministrazione penitenziaria e ai soggetti - istituzionali e non - coinvolti nel settore della Giustizia e dell’educazione. Il giornale può essere inoltre scaricato gratuitamente in pdf dal sito dell’associazione La Farfalla: http://www.lafarfalla.org/?page_id=1797 Firenze. Il padre detenuto e il colloquio in video con le maestre di scuola delle figlie di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 10 dicembre 2024 Ha chiesto alle maestre come le sue figlie stessero apprendendo la matematica, se fossero brave in italiano, come se la cavassero in storia e geografia. E alla fine si sono commossi tutti - sia lui che le insegnanti. Una videochiamata speciale, quella tra una scuola fiorentina e il carcere Gozzini (comunemente chiamato Solliccianino), dove un detenuto, padre di quattro figli, ha potuto sperimentare, per la prima volta, il colloquio a distanza con gli insegnanti. “È stato particolare ma tutto sommato molto naturale - dice una delle maestre della scuola, che per ragioni di privacy viene tenuta anonima - il padre di questa bambina era estremamente cordiale nei nostri confronti, molto rispettoso, si percepiva che aveva consapevolezza delle potenzialità dei propri figli. Durante quei minuti di colloquio attraverso uno schermo il padre si è dimostrato molto interessato a tutto quello che fanno i loro figli e a tutto quello che avrebbe potuto fare lui per contribuire al miglioramento del rendimento scolastico, ci ha chiesto come poter essere presente pur con tutti i limiti imposti dal regime carcerario”. E poi, naturalmente, il rammarico di non poter stare con i bambini come un padre normale: “Si è visto la sua tristezza per non partecipare alla vita quotidiana del figlio, ma si è notato in lui la grande volontà di partecipare a questa videochiamata per lui così importante”. Un’iniziativa al momento unica nel panorama fiorentino, quella andata in atto nei giorni scorsi da Solliccianino, messa in piedi grazie al lavoro dell’ufficio del garante dei detenuti, e delle associazioni di volontariato che operano nei penitenziari, prima fra tutte “Bambini senza sbarre”, che da molti anni lavora per dare sostegno psicopedagogico ai genitori detenuti e ai figli. Un’iniziativa particolare che è stata messa in piedi anche grazie alla collaborazione della direzione del carcere, della polizia penitenziaria e dell’area educativa, oltre naturalmente all’istituto scolastico frequentato dai figli del recluso. “Non occorre sottolineare - spiega il garante dei detenuti Eros Cruccolini - quanto questa iniziativa sia importante per l’esercizio alla genitorialità del detenuto che, ai fini di un mantenimento dei rapporti sociali, primi fra tutti quelli familiari, non dovrebbe prescindere dalla partecipazione alla vita scolastica, anche allo scopo di attutire l’impatto psicologico che la propria condizione di recluso ha nei confronti dei propri figli”. Andria (Bat). “A Mano libera”, taralli solidali che donano futuro ai detenuti di Marco Valletta vaticannews.va, 10 dicembre 2024 Un esempio di come fede, determinazione e inclusione sociale possano trasformare vite segnate da errori in storie di riscatto e speranza: è la missione del laboratorio nato ad Andria sotto la guida di don Riccardo Agresti, con l’obiettivo di offrire a chi è in carcere un’opportunità concreta di reinserimento sociale attraverso il lavoro, la preghiera e il recupero della dignità personale. “Nulla nasce se non è prima nelle mani di Dio”. Esordisce così don Riccardo Agresti, raccontando ai media vaticani come tutto sia iniziato dal suo impegno in un quartiere periferico e degradato di Andria: dopo 26 anni di ministero, si era accorto che molti parrocchiani erano assenti non solo dalla vita comunitaria, ma anche da quella familiare. “Un giorno, una donna venne a chiedermi di far fare la Prima comunione a suo figlio. Le chiesi del marito e lei mi rispose che lavorava al Nord. In realtà - spiega - scoprii che era in carcere: fu questo incontro a spingermi a entrare per la prima volta nel mondo carcerario”. Quella visita gli mostrò una realtà desolante: carceri sovraffollate e inadeguate a fornire veri percorsi di rieducazione: “Solo il 4% dei detenuti ha accesso a formazione o lavoro. L’ozio imperante non aiuta nessuno a cambiare. Così mi sono chiesto: perché non portare i carcerati nelle nostre comunità parrocchiali? Se ogni parrocchia - osserva don Agresti - accogliesse un detenuto, svuoteremmo le carceri e avremmo meno problemi con il sovraffollamento”. Dopo il primo passo, don Riccardo ha avviato un’iniziativa ancora più ambiziosa: grazie al supporto del vescovo, monsignor Luigi Manzi, una masseria fortificata ai piedi di Castel del Monte, un tempo abbandonata, è stata trasformata in un luogo di accoglienza per i detenuti. “Lì possono meditare sui propri errori e lavorare per ricostruire la propria vita. È un luogo dove possono ritrovare la speranza e sentirsi utili”, dice orgoglioso. La masseria non è solo un rifugio, ma un vero e proprio centro operativo, è qui che ha preso vita il tarallificio solidale “A Mano Libera”. “Quelle mani che un tempo si erano sporcate di sangue, oggi si sporcano di farina. I nostri taralli preparati seguendo una ricetta della nonna, sono - sostiene don Riccardo - simbolo del riscatto. Non solo un prodotto artigianale di qualità, ma un messaggio di dignità ritrovata”. Il lavoro rappresenta il cuore del progetto: “Non si tratta solo di dare un’occupazione, ma di fornire ai detenuti un percorso reale di reinserimento sociale. Il lavoro è uno degli elementi fondamentali per abbattere la recidiva e costruire una nuova vita”, racconta ancora e in sei anni di attività, i risultati sono tangibili: “Abbiamo visto abbassarsi drasticamente la recidiva tra i partecipanti. Il lavoro diventa così uno strumento di riscatto, di responsabilizzazione e di restituzione alla società. Questi ragazzi imparano a prendersi cura di se stessi e degli altri, ritrovano un senso di responsabilità e cominciano a ricostruire le loro relazioni personali”. L’impegno della cooperativa però non si ferma al lavoro: è un progetto di rete che coinvolge diocesi, imprenditori, istituzioni e amministratori locali. “Solo lavorando insieme - afferma il sacerdote - possiamo costruire un’alternativa reale al carcere dobbiamo andare a cercare questi ragazzi là dove si trovano, nel ‘mare del malè, e riportarli alla superficie, dove possano respirare l’amore e la speranza”. Tra le tante vite trasformate, don Riccardo racconta la storia di Agostino e Clara, due giovani che hanno trovato una nuova strada grazie al progetto. “Agostino - racconta - era membro di un clan criminale, ma grazie alla tenacia di Clara, la sua fidanzata, e al supporto della nostra comunità, è riuscito a cambiare vita. Ricordo il giorno in cui vennero da me a chiedermi di celebrare il loro matrimonio. Fu un momento emozionante: un segno di amore e di riscatto. Oggi sono una famiglia, e la loro storia ci dimostra che il cambiamento è possibile”. “Questo progetto non è solo nostro, ma di tutta la comunità. Sostenendo questi ragazzi, possiamo costruire un mondo con meno criminalità e più amore. È un percorso difficile, ma il Signore ci ha chiesto di essere pescatori di uomini, e noi siamo pronti a fare la nostra parte. Ogni gesto di solidarietà è un segno di speranza”, conclude don Riccardo. Il progetto “A Mano Libera” non si ferma alla produzione fine a se stessa di taralli: il ricavato delle vendite viene reinvestito per offrire nuove opportunità ad altri detenuti. Con il Natale alle porte, i prodotti del tarallificio rappresentano un regalo speciale, che unisce fede, qualità artigianale e solidarietà. È possibile acquistare quanto prodotto dalla cooperativa direttamente attraverso il nostro sito ufficiale www.amanolibera.eu o scrivendo alla seguente e-mail: amanolibera.andria@gmail.com. Monza. Milly e Alice con papà, volontari in carcere. Corsi di volley e speranza di Rosella Redaelli Corriere della Sera, 10 dicembre 2024 Francesco e le due figlie Alice e Milly allenano da tre anni tutti i sabato la squadra del carcere di Monza. Il progetto tra sport e reinserimento. “Vedi le persone e l’impegno che ci mettono, capisci che vale la pena”. Sabato mattina, ore nove. I Fanelli arrivano davanti all’ingresso della casa circondariale di Monza in via San Quirico. Sono papà Francesco 55 anni che nella vita di tutti i giorni è un tecnico in un’importante multinazionale e le figlie Alice, 25 anni, laurea in Scienze Politiche e Milly, 20 anni, iscritta al primo anno di Fisioterapia a Milano. Tuta da ginnastica, sacca con i palloni del volley per l’allenamento, passano i controlli, lasciano documenti e cellulari e varcano il pesante cancello d’ingresso. Per loro inizia una mattinata di allenamento con i detenuti del carcere di Monza: una dozzina di uomini tra i 20 e i 60 anni che partecipano al progetto “Liberi di giocare”. La scena si ripete tutti i sabato mattina dal 2022, quando papà Francesco ha risposto ad una mail del Centro Sportivo Italiano. Si trattava di un appello rivolto a tutte le società sportive milanesi per cercare allenatori disposti ad entrare in un carcere ed insegnare le basi di bagher, alzata e schiacciata. Francesco ha un passato da calciatore, ma si è avvicinato al volley quando Alice e poi Milly hanno iniziato a giocare nella Samz (Sant’Antonio Maria Zaccaria) di Milano, la squadra dell’oratorio del loro quartiere. “Mi sono reso disponibile - racconta Francesco - e in casa ne ho parlato con le mie figlie. Erano entusiaste e mi hanno chiesto di venire con me. Ora il sabato mattina è per noi anche un momento per stare insieme”. Varcare il cancello del carcere all’inizio è stata una prova: “Non conoscevamo la realtà carceraria se non per quello che si vede in tv o nei film - spiega Milly - solo per un attimo ho pensato “ma chi me l’ha fatto fare?”, ma poi incontri le persone, conosci le loro storie, vedi l’impegno che ognuno ci mette, l’entusiasmo con cui giocano la partita del sabato e ti dici che ne è valsa davvero la pena”. La pallavolo è una passione condivisa in famiglia: “Ho iniziato a giocare che avevo 8 anni - spiega Milly - perché vedevo mia sorella Alice giocare nella squadra dell’oratorio”. “Ora - prosegue Milly Fanelli - io continuo a giocare nella Samz, mia sorella è il direttore sportivo, mio papà allena le squadre maschili, io mi occupo anche delle ragazzine più piccole”. Ormai l’allenamento del sabato è diventata una bella consuetudine. Da una cella all’altra i detenuti si passano parola: “Sono arrivati i Fanelli”, gridano. E proprio loro si occupano della manutenzione del campo di allenamento che fino a poco tempo fa era una distesa di cemento ed ora è stato ridipinto, sono state rifatte le linee e la rete è stata portata ad altezza regolamentare. Si parte con il riscaldamento muscolare, lanci, passaggi, un po’ di tecnica e poi la partita. Milly e Alice scendono in campo, papà Francesco arbitra l’incontro che, spesso, vede la partecipazione anche di squadre esterne. “Noi alleniamo - spiega Milly - i detenuti della sezione Luce che non è il carcere duro: le loro celle sono aperte, le guardie non sono sempre presenti, ma osservano gli allenamenti dai monitor. Sono persone che stanno scontando condanne anche lunghe, ma hanno un’occupazione all’interno del carcere o anche all’esterno se sono verso la fine pena”. C’è un naturale turn over, ma molti giocano da due anni e hanno ottenuto buoni risultati. “Penso a un ragazzo di vent’anni come me - ricorda Milly - che era il contrario dello sport: non prendeva una palla neppure per sbaglio, ma con l’allenamento e la costanza è diventato bravo”. In squadra c’è un altro giovane che invece ha sempre giocato a calcio “e si vede che si muove bene e ha buoni riflessi”. Perché sono finiti dentro non è la domanda principale: “Anzi, proprio non la facciamo mai. Qualcuno si racconta, parlano soprattutto delle famiglie che hanno fuori, dei loro figli. Raramente dichiarano apertamente cosa hanno fatto. Sappiamo che tra loro c’è chi sconta una condanna per spaccio, furti, rapine”. Uno tra i più anziani che è sempre puntuale agli allenamenti, pronto a dare una mano, gonfiare i palloni, chiamare i compagni nelle celle era dipendente dal gioco e, come riassume parlando del suo passato, “ho combinato un grosso guaio”. “L’esperienza del carcere - prosegue Alice - ti apre la mente. Capisci che non c’è solo il bianco o il nero, ma esiste anche il grigio. Basta ascoltare i racconti di queste persone per capire la loro sofferenza, il loro dolore. Qualche compagno dell’università resta spiazzato dalla mia scelta, ma quando racconto l’esperienza condividono il mio entusiasmo”. Le ore di volontariato in carcere dei Fanelli non si limitano agli allenamenti del sabato perché ci sono anche le feste, il brindisi per Natale e i pranzi a cui partecipa anche mamma Paola. Proprio nella giornata “padri e figli”, “un uomo si è avvicinato e mi ha presentato la sua bambina. Poi le ha indicato Milly e ha detto alla figlia: “Da grande devi diventare come lei perché è una persona dal cuore d’oro”. Mi sono commosso, orgoglioso delle mie ragazze, ho capito che avevamo fatto centro. Non siamo qui solo per insegnare bagher e palleggi, ma per portare il messaggio che fuori da quel cancello c’è anche il bene. Anche per loro”. Napoli e l’esperienza dei minori stranieri non accompagnati di Massimo Congiu Il Manifesto, 10 dicembre 2024 Scaffale “Ragazzi sospesi” a cura di Elena De Filippo, Glauco Iermano e Giovanna Tizzi edito da Franco Angeli. Minori stranieri non accompagnati, giovani che si trovano sul nostro territorio, spesso soli e gravati dagli effetti di una situazione contraddittoria. Situazione che li vede da un lato tutelati, almeno sulla carta, da una legislazione nazionale e internazionale che afferma il superiore interesse, la non espellibilità e il diritto a essere collocati in un luogo sicuro, dall’altra vi sono provvedimenti restrittivi, in termini di immigrazione, che complicano il quadro e danno vita a chiari fenomeni di discriminazione ed emarginazione. Di questo parla Ragazzi sospesi. I neomaggiorenni stranieri verso l’autonomia (Franco Angeli Editore, pp. 145, euro 21), a cura di Elena de Filippo, presidente della cooperativa sociale Dedalus di Napoli, Glauco Iermano, coordinatore dell’area minori stranieri non accompagnati presso la medesima cooperativa e Giovanna Tizzi, formatrice e ricercatrice Oxfam. Il libro esamina a fondo una realtà complessa che non trova grandi spazi a livello di dibattito pubblico e che risulta essere discussa soprattutto dagli addetti ai lavori. Eppure si tratta di un tema attuale che coinvolge la nostra e tutte le società di oggi ormai caratterizzate da ingenti presenze di comunità originarie di altri paesi e continenti. Tra le problematiche che spiccano in tale scenario complesso vi è quella dei minori stranieri la cui esistenza sul nostro territorio è contraddistinta da una condizione socio-giuridica di difficile lettura e certo non priva di ambiguità, che finisce col complicare in modo considerevole la presa in carico dei medesimi. Essa comporta, d’altra parte, il determinarsi di altrettante criticità che accompagnano l’approdo di questi giovani alla maggiore età. Giuristi, sociologi, operatori sociali hanno contribuito allo studio contenuto in questo volume che, insieme a diversi interventi, comprende sei testimonianze di giovani che nel nostro paese sono passati attraverso la fase descritta dai curatori dell’opera e dai loro compagni di viaggio. Leggiamo, così, del “cammino” di Arkan, durato quasi due anni, per arrivare in Italia, quello di Couly partito dalla Costa d’Avorio all’età di soli 13 anni, e poi ancora quelli di Aleksander, albanese, di Daby, proveniente dal Senegal, di Amed, del Gambia e di Bilal, originario del Bangladesh, in Italia da quando aveva 17 anni. Sono sei storie di aspirazioni riposte in itinerari lunghi e faticosi che si sviluppano nello spazio, nel tempo e nella coscienza umana. Sei brevi racconti a titolo di esempio di una realtà ampia e diffusa che vede coinvolte numerose persone in viaggio, in transito verso migliori condizioni di vita e contribuiscono a sottolineare l’importanza del ruolo svolto dalla cooperazione sociale. Napoli ha un fitto tessuto di soggetti attivi su tale fronte; enti del terzo settore menzionati nel contributo al libro da parte di Luca Trapanese, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Napoli. Proprio nel capoluogo campano è stato proposto e realizzato il progetto Ragazzi sospesi - Azioni di accompagnamento all’autonomia nel passaggio alla maggiore età dei minori stranieri non accompagnati. Un progetto concepito al fine di dar luogo ai presupposti per percorsi completi di autonomia a favore di minori stranieri con l’obiettivo di seguire e supportare questi giovani “per un tempo ragionevole successivo al compimento della maggiore età”. Qui non si parla solo di bisogni primari ma di necessità riguardanti il mondo relazionale, la cultura, lo svago, la formazione, l’integrazione. Tre gli obiettivi del progetto descritto nel libro: il miglioramento delle condizioni di cittadinanza, la sperimentazione di modelli di intervento innovativi rivolti ai minori stranieri non accompagnati e l’affermazione di una nuova cultura dell’accoglienza. Questa va difesa contro pulsioni incoraggiate da sottoculture politiche intente a cercare il consenso popolare giocando la carta del securitarismo, quale sinonimo di involuzione umana e sociale. 533 storie di impatto sociale, cioè di guadagno umano di Giampaolo Cerri vita.it, 10 dicembre 2024 Intesa Sanpaolo presenta il suo “Rapporto sulla rilevazione degli impatti sociali 2023”: su 533 iniziative sociali finanziate per complessivi 144 milioni. Secondo l’analisi del ritorno sociale sull’investimento, Sroi, per ogni euro ne sono stati generati 3,1. La case-history della Cooperativa sociale Giotto di Padova che dà lavoro ai detenuti e a soggetti svantaggiati, il cui presidente dice: “L’impatto si vede nella fioritura dell’umano”. Si schermiscono quelli della Direzione Impact se gli ricordi che l’anno scorso, il Social return on investiment, il “ritorno sociale sull’investimento” era di due euro ogni euro finanziato - Il 2×1 del Terzo settore italiano, titolammo - e, ora il loro Rapporto sulla rilevazione degli impatti sociali generati dalle iniziative supportate nel 2023 dice che siamo a 3,1. Dati presentati nell’ImpactDay di ieri a Milano, trasmesso in streaming sul canale YouTube di Vita, dove l’incontro può essere rivisto. Qualcun altro avrebbe gonfiato il petto e “portato a casa” quel miglioramento del 50% e passa. Loro, invece, con la sobrietà di cui fanno una sorta di marchio di fabbrica, che è un po’ il tratto di Andrea Lecce, il loro responsabile, un sardo pacato e sensibile alla clientela che tratta, dicono subito che l’universo di iniziative analizzate, 533 da Nord a Sud in diversi settori sociali, non è esattamente lo stesso, anche se “certamente il dato è importante, perché si tratta di 144 milioni di finanziamenti a breve e medio lungo termine, che corrispondono a una gran fetta delle erogazioni annue complessive della Direzione impact”, erogazioni che, preciserà poi proprio Lecce, già nei primi nove mesi del 2024 hanno già raggiunto quota 210 milioni. Una ritrosia a sbandierare il risultato che esclude il cherry picking da iniziativa a iniziativa: se avessero scelto cioè fior da fiore, ciliegia da ciliegia per stare all’inglese, al fine di individuare i casi migliori, avrebbero suonato la grancassa. Eppure resta che il risultato sia davvero rilevante: quei 305 milioni di investimento, per la cui quasi metà concorre la banca col suo finanziamento, ne generano 945 di impatto sociale. Se poi si aggiunge anche quello economico, come ha spiegato bene Alessandra Lanza, senior partner di Prometeia che ha lavorato con Intesa Sanpaolo alla ricerca, si arriva a quota 1.379.Danari con cui si sostiene occupazione - vale a dire la si mantiene o la si crea - per 7.102 addetti. Anzi, correzione importante visto di cosa si parla e in quale contesto lo si fa, per 7.102 persone. Fra loro, 3.256 sono il frutto, anzi l’impatto, del finanziamento. L’ImpactDay non è stata l’autocelebrazione di buoni risultati ma l’indicazione di un metodo di lavoro: accompagnare il Terzo settore dentro la cultura della valutazione, come convenienza - la capacità di dare valore, la possibilità di comunicarlo, l’opportunità di documentarlo - ma anche come efficienza. Non una solfa efficientista, intendiamoci: chi opera “non per profitto”, vuol dire aumentare i servizi, far crescere la platea dei beneficiari, allargare le risposte ai bisogni, che sempre in endemica e drammatica espansione. Nella giornata, Intesa Sanpaolo aveva significativamente scelto di anteporre alla presentazione del Rapporto e delle sua metodologia, un intervento di contestualizzazione, affidato al capo dei suoi economisti: Gregorio De Felice, il quale, con precisione, ha composto il mosaico in cui la tessera del finanziamento a impatto oggi si incastra: lo ha fatto prendendo in esame l’arco temporale 2014-2023, quello delle curva di crescita del Pil (salvo l’anno del Covid), ma anche quello dell’aumento della povertà assoluta: oggi arrivata a 2,2 milioni di famiglie con 5 milioni e 700mila persone. De Felice ha ricordato la distribuzione di quei poveri - sempre maggioritaria a Sud - ma con una crescita, 2014-23, più importante nel Nord, pari 3,7%, contro il dato medio italiano del 2,2%. Non solo, il chief economist ha analizzato le facce stesse della povertà: i nuclei stranieri, le famiglie con figli, le famiglie con un disoccupato e poi, ancora, le correlazioni col basso dato di istruzione e la disoccupazione, la rinuncia alle cure, la salute. Il quadro che da alcuni anni spinge il ceo Carlo Messina a rivendicare una missione sociale alla prima banca italiana. Per via del Dna di alcuni suoi azionisti, certo - Compagnia di Sanpaolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Cariparo e giù giù, per quote inferiori - ma anche per una scelta di fondo, che ha portato a incorporare Banca Prossima, l’attuale Direzione impact collocata dentro la Banca dei Territori, divisione guidata da Stefano Barrese, ma anche a creare, lo scorso anno, “Per il Sociale”, altra direzione focalizzata all’analisi e alla progettazione e all’intervento su determinate aree sociali. Vocazione sociale, che sta iscritta in un’affermazione programmatica dello stesso Messina nel 2018: “Diventeremo la prima impact bank al mondo”. Il 3×1 che è uscito dalle slide mostrate dalla responsabile Design & evaluation Susanna Tancredi, con l’approfondimento metodologico successivo di Lanza, documentano aree diverse di intervento sociale. Ci sono l’istruzione e la formazione, la sanità e la salute, lo sviluppo economico e la coesione sociale, l’assistenza sociale e la protezione civile, c’è la cultura e ci sono lo sport con le attività ricreative. Come hanno spiegato quelli di Prometeia, per ogni realtà analizzata si sono individuati gli stakeholder, andando poi a indicare con puntualità i cambiamenti e i benefici generati. Usando appunto lo Sroi, che mette in rapporto il “valore atteso dei benefici” rispetto alle “risorse utilizzate. “Abbiamo provato a farlo con il più grande senso di responsabilità possibile”, ha assicurato Lanza, “ma monetizzare la cura ci aiuta a dare valore”. Che cosa significa per esempio, sostenere una delle tante realtà sociali che si occupano di istruzione e formazione, magari anche di giovani drop-out da riaccompagnare allo studio? Vuol dire generare un “aumento di stipendio futuro”, una “maggiore proattività dello studente”, ottenere la “certificazione di competenze”, alimentare lo “sviluppo di pensiero critico”, la “capacità di relazionarsi con gli altri” e, last but not least, “crescita dell’autostima”. Sroi alla mano, questi risultati per 13mila e passa persone da qualificare professionalmente, per oltre 8mila bambini e ragazzi, per 5.500 persone fragili inserite nel mondo del lavoro e per 3.600 studenti sostenuti, valgono 109 milioni. Per i loro familiari, oltre 31mila persone, significano “benessere psicologico”, “minori spese di istruzione per migliore rendimento scolastico degli studenti”, che valgono 26 milioni di euro. Ci guadagna anche la collettività, ovviamente: “Welfare e sistema sanitario”, non è difficile immaginarlo, si ritrovano meno disoccupati e depressi da prendere in carico, pari a 22 milioni. Non manca l’impatto anche per chi, in questi progetti, è impegnato: come i 206 che ci lavorano o i 168 che ci fanno volontariato. Si tratta di “soddisfazione nel proprio lavoro, di “acquisizione conoscenze trasversali, di “acquisizione conoscenze specifiche”. Il conto qui è di 2 milioni. L’imprenditore sociale e il guadagno umano - Dati che, nella tavola rotonda seguita, hanno preso il volto e la voce di un sessantenne padovano: Nicola Boscoletto, uno dei fondatori, nel 1986, della cooperativa sociale Giotto di Padova. Con un gruppo di amici realizzarono un singolare (allora) upgrade dell’antica virtù cristiana del visitare i carcerati: Boscoletto e gli altri, infatti, ai detenuti del carcere patavino dei Due palazzi portarono anche il lavoro. “Oggi siamo una realtà che occupa più di 600 persone”, ha raccontato, “un centinaio afferiscono al mondo del carcere, all’interno e all’esterno, un altro centinaio soffrono una disabilità fisica, psichica o psicofisica. Poi ci sono lavoratori che sono espressione di quel disagio sociale, non codificato, non riconosciuto, esploso dopo il Covid: non creato dalla pandemia semmai accelerato. Lo registriamo soprattutto nelle donne, nelle mamme, in maniera particolare”. Da sinistra, Nicola Boscoletto, Alessandra Lanza, Gregorio De Felice, Giampaolo Cerri, Presentato come generatore di impatto, Boscoletto non si è stupito - d’altronde Giotto è diventata un caso di studio della sociologa Vera Negri Zamagni che ne ha scritto per il Mulino (La cooperativa sociale Giotto. Una normalità eccezionale) - Boscoletto, dicevo, non si è sorpreso ma ci ha tenuto a precisare che “Nicola non ha generato nulla, semmai è stato generato”. E ha regalato all’uditorio sette concetti in cui personalmente valuta e traduce l’impatto del suo lavoro e di quello dei suoi soci. Una è la parola “orto”, spiegando che “bisogna passare da una concezione del proprio orto a una concezione di un orto che è di tutti”, come il nome di una cooperativa di Codogno (Lo), ha spiegato, con cui Giotto lavora. L’ultimo concetto è state quello del “guadagno umano”, spiegato così: “L’impatto per quel che ci riguarda non deve essere solo un risparmio per la Pubblica amministrazione o per la collettività, di sicurezza perché si abbatte la recidiva, ma deve essere un “guadagno umano”. L’impatto economico e sociale”, ha aggiunto, “si vede nella fioritura umana, nel volto delle persone, guardandole negli occhi”. Parole cui ha fatto eco Giuliana Baldassarre, docente di Management del non profit alla Sda Bocconi, tornata, come aveva fatto anche in un’intervista a VITA, sulla necessità di una cultura della misurazione, innanzitutto per gli enti di Terzo settore: “Se leggiamo la valutazione come “controllo” non funzionerà”, ha spiegato, “se invece partiamo da una prima motivazione, come quella di creare una cultura - perché la misurazione bisogna iniziare a farla, per capirla - arriveremo un domani, anche a vedere qual è, appunto, il “guadagno umano” di cui parla Boscoletto”. Di valutazione come leva di crescita ha parlato anche De Felice: “Credo che la valutazione sia molto utile e non solo per la banca ma anche per gli enti del Terzo settore che, così, hanno una visione di quanto è importante quello che fanno e di quali sono le priorità”, mentre Lecce, tirando le fila (qui l’audio dell’intervento), ha ricordato come “la valutazione debba essere utile, avere cioè uno scopo. Altrimenti è un appesantimento. Molte realtà”, ha osservato, “sono proprio concentrate sul fare, sul risolvere un bisogno e abbastanza appesantite dalle rendicontazioni”. Il responsabile di Direzione Impacto ha poi ricordato che “per Intesa Sanpaolo è fondamentale supportare il Terzo settore, per promuovere assieme uno sviluppo dell’economia reale anche in chiave sostenibile. Nei primi nove mesi di quest’anno abbiamo erogato al mondo non profit 210 milioni di euro”, ha concluso, “vogliamo continuare a crescere per essere punto di riferimento ed elemento di unione tra chi fornisce risorse e chi le utilizza per generare impatto sociale e rappresentare il bene comune quale valore civile per le comunità in cui operiamo”. L’agenzia di stampa Redattore Sociale chiude il 10 gennaio agensir.it, 10 dicembre 2024 Il comunicato della redazione: “Oggi i disoccupati che abbiamo raccontato siamo noi”. L’agenzia di stampa “Redattore sociale”, edita dalla Comunità di Capodarco, chiuderà tra un mese, il 10 gennaio. In quello stesso giorno, saranno licenziati tutti i dipendenti e i giornalisti che hanno già pagato la crisi aziendale, con due anni di pesante cassa integrazione. “Da due anni - si legge in una nota del Cdr e dell’assemblea dei dipendenti - nonostante le sollecitazioni della redazione, l’editore non ha cercato nessun’altra soluzione per tenere in piedi un progetto che considerava ormai concluso. Poco importa che quel progetto in questi anni abbia raccontato per primo il disagio, economico e sociale, sempre crescenti nel nostro Paese. Che abbia dato voce agli emarginati, ai disoccupati, ai lavoratori poveri e a tutte quelle categorie di persone che, nella convinzione dei giornalisti di Redattore sociale, erano i primi a dover essere ascoltati, rilanciati e protetti”. “Oggi i disoccupati siamo noi giornalisti di Redattore sociale che, senza un lavoro, rischiamo di precipitare nelle stesse condizioni di disagio delle persone che abbiamo raccontato tante volte - sottolineano -. Noi che ci troviamo a dover pagare le scelte di un editore che ci vede solo come un costo aziendale. E che oggi sceglie di mandarci a casa a condizioni inaccettabili e senza neppure onorare tutte le spettanze, che garantirebbero, almeno nell’immediato, una vita più serena a noi e alla nostra famiglia. L’accordo che ci è stato proposto prevede non solo una significativa decurtazione delle indennità, ma le vincola alla riscossione di alcuni crediti. Senza garanzie, dunque, potremmo non avere niente. Ancora una volta tutto sulle spalle dei lavoratori”. “In questi anni, nonostante le condizioni sempre più precarie del nostro lavoro, abbiamo cercato di portare avanti l’impegno giornalistico quotidiano, assicurando il notiziario, nella convinzione che c’era un mondo fuori dall’informazione mainstream che andava (e va) raccontato”, proseguono. “Finisce così la storia di Redattore sociale una testata piccola ma che, vogliamo credere, in questi anni ha contribuito a migliorare il modo di fare informazione - concludono -. Migliaia di colleghi e colleghe hanno partecipato ai seminari di Capodarco, si sono formati nel confronto e nello scambio che quelle giornate offrivano ai professionisti della comunicazione. Quello che chiediamo oggi all’editore è che almeno si chiuda in maniera onorevole, dando ai lavoratori quanto spetta per legge. Senza trattamenti diseguali tra giornalisti, mettendo in pratica i valori dichiarati negli anni, che oggi stridono con l’accordo farsa proposto ai lavoratori di Redattore sociale”. L’opposizione al governo riparte dalla piazza: “Il Ddl sicurezza è deriva antidemocratica” di Chiara Sgreccia Il Domani, 10 dicembre 2024 Sono oltre 800 le realtà che hanno aderito alla mobilitazione per opporsi al disegno di legge in discussione al Senato: “Siamo coloro che si impegnano ogni giorno a lottare per la giustizia sociale e ambientale”. Non è solo una manifestazione. Ma un appello all’unità per salvaguardare la democrazia quello convocato a Roma, per sabato 14 dicembre, dalla Rete No Ddl - A pieno regime. “Per contestare il ddl sicurezza, un tentativo di colpo di stato mascherato da disegno di legge, vista la gravità delle cose che ci sono dentro: dalla norma definita anti-Ghandi che sanziona come violente anche le proteste pacifiche, al carcere per le donne incinte e le madri con bambini di meno di un anno di età, fino all’allargamento spropositato della funzione dei servizi segreti, per fare solo alcuni esempi”, spiega Luca Blasi, della rete No Ddl, assessore del III Municipio di Roma con delega al diritto all’abitare: “Dalle 14.00 a piazzale del Verano fino a Piazza del popolo, sabato 14 dicembre, saremo in migliaia a riempire le strade della Capitale per dire no alla svolta autoritaria che il governo Meloni sta cercando di operare. Con l’obiettivo di rendere l’Italia sempre più simile all’Ungheria del primo ministro Viktor Orbán”. Per Blasi - che spiega di essere preoccupato per il futuro del Paese, sia come militante dei movimenti di base, sia come amministratore pubblico - i cittadini hanno bisogno di risposte concrete ai problemi che si trovano ad affrontare ogni giorno, “come il fatto che servono soldi per fare la spesa o pagare l’affitto di casa, mentre gli stipendi sono fermi da oltre di trent’anni. Invece l’unica risposta che il governo in carica è capace di dare sta nella riduzione dello spazio per il dissenso, proprio come vorrebbe fare con il disegno di legge n° 1660 che noi abbiamo ribattezzato “Ddl paura” perché è costruito per spaventare chi la pensa diversamente dalla maggioranza. E questo non è sano per la democrazia”. Da Libera ad Amnesty - A ritenere che il ddl “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario” in discussione al Senato, dopo essere stato approvato alla Camera lo scorso 18 settembre, sia una minaccia per i diritti umani e parte di un progetto più ampio volto a deformare le strutture fondamentali della Repubblica, che passa per l’autonomia differenziata, il premierato, i tentativi di delegittimare il diritto di sciopero e l’impegno dei sindacati, sono (ad oggi) oltre 200 realtà: da Arci a Cgil, da Libera all’Anpi, Antigone, Amnesty International, Social forum per l’abitare, Alleanza Verdi e Sinistra, e molte altre che hanno aderito alla Rete no-Ddl - A pieno Regime. “Siamo coloro che difendono e reinventano la democrazia come antifascist?, transfemminist?, attivist? impegnat? ogni giorno a lottare per la giustizia sociale e ambientale. Siamo l? lavorator? che rischiano il posto o vivono la precarietà. Siamo nelle scuole e nelle università a difendere il diritto allo studio. Siamo chi, e al fianco di chi, lotta contro la violenza patriarcale, quell? che nei quartieri lavorano per contrastare mafie e corruzioni, che denunciano il disastro climatico che devasta i nostri territori. Siamo con chi denuncia le torture e le indegne condizioni di vita nelle carceri sovraffollate. Con chi si oppone ai Cpr e rivendica la libertà di movimento. Siamo chi vuole un mondo libero da guerre [..] E crediamo che l’unica vera sicurezza sia quella sociale”, scrivono i militanti della Rete per spiegare perché il Ddl sia inaccettabile e segni “un salto autoritario senza precedenti, colpendo con carcere e repressione i pilastri della democrazia: il dissenso e il conflitto sociale”. Sindacati e intellettuali - Il progetto unitario di contestazione ai 38 articoli del testo n°1660 che introduce una trentina di modifiche al codice penale, tra nuovi reati, aggravanti, aumento delle pene già previste, ha preso forma durante la prima assemblea della rete “A pieno regime” che si è riunita nell’aula magna della facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma, lo scorso 16 novembre. Per chiedere il ritiro di un “provvedimento liberticida che rappresenta un ulteriore tassello della svolta autoritaria che il governo Meloni vuole imprimere, per cambiare le basi della nostra Repubblica, nata dalla Resistenza, la forma di Stato, la forma di governo e gli equilibri tra i poteri”, aveva chiarito, infatti, la segretaria Flc-Cgil Gianna Fracassi. Con lei intellettuali, rappresentanti e portavoce di realtà territoriali e nazionali, sigle sindacali, organizzazioni studentesche e movimenti sociali - come Christian Raimo, Zerocalcare, Michele De Palma, Luigi Manconi, Luigi Ferrajoli, Riccardo Noury - che hanno partecipato all’assemblea. “Ecco perché è fondamentale scendere in piazza uniti il 14 dicembre. Non possiamo permetterci di presentarci divisi a questo appuntamento della storia della Repubblica del nostro Paese. Questa volta non stiamo giocando una partita piccola, non stiamo contestando una singola norma fatta male. Ma ci opponiamo a un più ampio disegno di legge autoritario pensato per ridefinire gli equilibri del Paese”, ribadisce Blasi a Domani, che sottolinea anche l’importanza del lavoro istituzionale fatto dai partiti d’opposizione in Parlamento, come il Pd e Avs che insieme hanno presentato quasi 1500 emendamenti per modificare il testo del ddl. Migranti. Profughi siriani, la risposta europea è congelare l’asilo di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 10 dicembre 2024 Berlino la prima, poi le altre capitali. Tra loro Roma. E qualcuno pensa già alle espulsioni. Germania e Regno Unito vogliono togliere l’Hts, che ha preso il potere a Damasco, dalla lista dei terroristi internazionali. La reazione a catena sui rifugiati. Prima Berlino, poi Vienna e Bruxelles, seguono Roma, Atene, Copenaghen, Oslo, Helsinki e Amsterdam: scatta all’unisono lo stop alle domande di asilo presentate dai cittadini siriani. Fuori dall’Ue sulla stessa linea ci sono Londra, Stoccolma e Berna. Tra i paesi membri valuta la Francia, si oppone la Spagna. La decisione vale per le migliaia di richieste di protezione compilate in queste ore da chi sta prova a non essere travolto dal cambio di regime a Damasco, ma anche per le decine di migliaia depositate in attesa di approvazione. L’Italia di Giorgia Meloni lavorava da tempo su diverse ipotesi per sbarrare la strada ai siriani, che nel 2024 sono la seconda nazionalità nella classifica degli sbarchi: 12mila persone, poco dietro al Bangladesh, su un totale di 63mila. Per questo era stato recentemente nominato l’ambasciatore a Damasco, unico tra i colleghi Ue. L’obiettivo era studiare con il vecchio regime di Assad delle zone sicure dentro un Paese che sicuro non poteva essere considerato (magari in vista delle nuove regole europee che entreranno in vigore nel 2026). “Prendiamo atto della segnalazione relativa alla sospensione - dice l’Unhcr - Ai richiedenti asilo siriani in attesa di una ripresa del processo decisionale sulle loro domande dovrebbero continuare a essere concessi gli stessi diritti degli altri richiedenti asilo. Nessuno di loro dovrebbe essere rimpatriato forzatamente”. Mentre si bloccano le domande d’asilo, infatti, c’è già chi guarda oltre. L’Austria coglie l’occasione per avviare il giro di vite totale: l’espulsione dei profughi siriani. Solo una versione meno edulcorata della clamorosa soluzione proposta ieri in Germania dall’ex ministro della Sanità, Jens Spahn, attuale vice-capogruppo della Cdu al Bundestag: “Dovremmo incentivare il ritorno in Siria dei profughi man mano che la situazione lì si stabilizza. Bisognerebbe fare un’offerta economica a chi accetta: biglietto aereo di sola andata per Damasco più un assegno di mille euro a ciascun rifugiato”. Di “rimanere concentrati sulla questione dei ritorni”, del resto, lo consiglia anche Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Il muro sui migranti siriani non si limita ai confini Ue. A Londra il governo guidato dal primo ministro Keir Starmer lavora a ritmo accelerato per rimuovere quanto prima il principale ostacolo al “consolidamento della Siria”, di fatto l’ultimo scoglio che impedisce di instradare Damasco l’elenco dei “Paesi sicuri”. Lo ha lasciato intendere ieri Pat McFadden, ministro delegato al coordinamento del Gabinetto Starmer, evidentemente orientato a “riconsiderare” la scomoda presenza nella lista delle organizzazioni terroristiche degli jihadisti di Hayat Tahrir al-Sahm (Hts), l’ex Al Nusra affiliata ad Al Qaeda che ha rovesciato Assad. “Dipende sostanzialmente da come si comporteranno dopo la presa di Damasco”, è il nuovo metro di valutazione adottato dal governo Starmer per decidere se sdoganare il nuovo regime. Segnali colti al balzo anche a Berlino. Pure dal ministero dell’Interno guidato da Nancy Faeser (Spd) aprono alla revisione della lista-nera dei terroristi riconosciuta a livello internazionale: “Dobbiamo giudicare l’Hts dalle sue azioni”, sottolinea Faeser, ancora per poco nelle vesti istituzionali che dovrà deporre il 16 dicembre dopo il voto di sfiducia al governo Scholz del Parlamento. A pagare il gioco di sponda in nome di questa nuova realpolitik soltanto in Germania saranno i 47.270 siriani la cui domanda risulta attualmente al vaglio dell’Ufficio per l’immigrazione e i rifugiati (Bamf), l’ente incaricato - fino a ieri - di valutare “caso per caso” ogni singola domanda, come impone la legge tedesca. “La situazione in Siria oggi è confusa e ciò che accadrà a livello politico è troppo difficile da prevedere. Finché non si saranno ben chiariti gli sviluppi a Damasco qualunque domanda di protezione umanitaria presentata da siriani poggia sui piedi di argilla”, è la spiegazione ufficiale rilasciata dal Bamf. Secondo i dati del ministero dell’Interno in Germania oggi vivono 974.136 persone di origine siriana, tra rifugiati politici, titolari di protezione sussidiaria o di altri permessi di soggiorno, soprattutto per ricongiungimento. Aldilà delle sfumature tra i paesi membri, comunque, il messaggio è chiaro: la Ue che, con la Germania in testa, nel 2015 aprì momentaneamente le frontiere non esiste più. Adesso è il momento della “deterrenza”: bisogna scoraggiare i disperati. Con qualsiasi mezzo. Il giorno dei diritti umani: un barlume di speranza da tenere acceso nella crisi di Riccardo Noury* Il Domani, 10 dicembre 2024 Il 10 dicembre 1948 fu adottata la Dichiarazione universale dei diritti umani: 30 articoli che esprimevano la visione di un mondo in cui gli orrori della Seconda guerra mondiale non avrebbero più dovuto ripetersi. Oggi è la Giornata internazionale dei diritti umani, in cui si ricorda l’adozione - il 10 dicembre 1948 - della Dichiarazione universale dei diritti umani: 30 articoli che esprimevano la visione di un mondo in cui gli orrori della Seconda guerra mondiale non avrebbero più dovuto ripetersi. Un decennio aspro - Stiamo vivendo un decennio di crisi dei diritti umani: iniziato col devastante attacco globale al diritto alla salute causato dalla pandemia da Covid-19, che ha usato come corsia preferenziale lo smantellamento dei servizi di salute pubblica, le disuguaglianze economiche e gli assembramenti involontari, come le carceri e i centri per il rimpatrio dei migranti, proseguito con la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, il cui svolgimento ha superato i mille giorni, e poi coi crimini commessi da Hamas nel sud d’Israele il 7 ottobre 2023 e i 14 mesi di risposta militare israeliana, di cui pochi giorni fa Amnesty International ha denunciato l’intento genocida. La condotta delle operazioni militari nei due conflitti più noti, come in quelli dimenticati del Sudan e del Myanmar, sta minando alle fondamenta quel sistema internazionale di protezione dei diritti umani che aveva visto la luce proprio il 10 dicembre 1948 e che si era sviluppato attraverso le Convenzioni di Ginevra - la cui regola numero uno è “I civili non si toccano”, e abbiamo visto quanto e come siano toccati - e una lunga serie di trattati a tutela di singoli diritti. Perché parlare di crisi dei diritti - La parola “crisi” indica un periodo storico diverso dal precedente. Chi si occupa da tempo di diritti umani trova molte analogie tra l’attuale decennio e l’ultimo dello scorso secolo: iniziato e terminato nei Balcani, attraversato da due genocidi (uno proprio lì, in Bosnia nel 1995, l’altro un anno prima in Ruanda), dalle guerre di Cecenia, da quella all’Iraq a seguito dell’occupazione del Kuwait, il conflitto interno dell’Afghanistan, e altro. Ma proprio negli anni Novanta del XX secolo ci fu una risposta istituzionale: la nascita della giustizia internazionale, dapprima coi due tribunali ad hoc per il Ruanda e l’ex Jugoslavia, poi nel 1998 con l’approvazione a Roma dello Statuto della Corte penale internazionale. La giustizia sovranazionale come strumento di lotta all’impunità, dunque. Come alla fine del secolo scorso i due tribunali speciali emisero condanne per i gravissimi crimini, genocidio incluso, commessi nell’ex Jugoslavia e in Ruanda, così in questo decennio la Corte penale internazionale è intervenuta per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi in Ucraina, in Israele e a Gaza. Che la giustizia internazionale possa essere efficace e incisiva lo dimostra il fastidio che i suoi mandati di cattura provocano. Non c’è peggiore “doppio standard” di quello che plaude alla Corte quando accusa i nemici e la delegittima quando lo fa con gli amici. Per non parlare dei commentatori che smantellano il motto, “Non c’è pace senza giustizia”, che ispirò proprio la nascita della Corte, per i quali quel “non” è di troppo. Oltre alle guerre, osserviamo un arretramento generale della tenuta dei diritti umani: secondo l’ultimo Rapporto di Amnesty International, sono almeno 85 gli stati in cui le proteste pacifiche sono del tutto impedite, represse con la forza o criminalizzate da leggi liberticide: quest’ultima caratteristica riguarderà sempre di più l’Italia. Ma, se non sono crollati negli anni Novanta o di fronte agli asseriti “tempi nuovi” resi necessari dall’attacco alle Torri gemelle del 2001 e dalla successiva “guerra al terrore”, i diritti umani resisteranno anche all’attuale assalto. All’inizio di luglio gli studenti scesi in piazza in Bangladesh per protestare contro una legge che avrebbe riservato una quota sproporzionata di impieghi nell’amministrazione pubblica ai figli dei veterani della guerra d’indipendenza del 1971 avevano messo in conto di pagare con tanto sangue il loro coraggio. Ma non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi, neanche un mese dopo, intorno al nuovo primo ministro ad interim: un Nobel per la pace, Muhammad Yunus. Nonostante gli orrori di questo inizio di secolo, è quell’immagine arrivata dal Bangladesh che dobbiamo conservare e proteggere. Ci dice che l’utopia, quel sogno collettivo di un mondo in cui i diritti siano uguali e rispettati per tutte e tutti, resiste ancora. *Amnesty International Italia I diritti umani dimenticati: la Dichiarazione del 1948 e l’egoismo dei giorni nostri di Danilo De Biasio* Corriere della Sera, 10 dicembre 2024 L’Articolo 45 parla di “individuo” - non di uomo, donna, straniero - e lega il “tenore di vita”, quindi il lavoro, allo stare bene. Ma oggi è proprio così? Ricordate l’indovinello “quando c’è non si vede, quando si vede non c’è”? Vale più o meno anche per i diritti umani (di cui oggi si celebra la Giornata mondiale). Quando ne possiamo godere - per luogo di nascita, per sesso o conto in banca - li diamo per scontati. I problemi cominciano quando vivi la loro assenza. Ma a differenza dell’indovinello c’è poco da ridere. Tocchiamo ferro e immaginiamo di avere un problema di salute: prima magari non prestavi attenzione agli esami diagnostici prenotabili solo dal 2026, alle lunghe code al pronto soccorso. Ma quando ne hai bisogno le tue percezioni cambiano. Articolo 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”. Scritta nel 1948 dai sopravvissuti alla peggiore mattanza del Novecento, la Dichiarazione resta estremamente attuale. Parla di “individuo” - non di uomo, donna, straniero, autoctono, nisseno o bolzanino - e lega il “tenore di vita”, quindi il lavoro, alle condizioni che ci fanno stare bene: cibo sufficiente, un tetto sulla testa, welfare e, appunto, cure mediche. Controprova. Mettiamo il naso fuori dalla finestra e domandiamoci se quell’articolo corrisponde all’Italia 2024. Stipendi adeguati, affitti equi, assistenza sanitaria solerte? Mi domando cos’è successo dal 1948 a oggi, perché la parabola della sacralità dei diritti umani è precipitata. Non c’è una risposta univoca, ma sicuramente sta vincendo un’idea individualista, egocentrica e chiusa di società. È un trend pervasivo, che scende dalle élites e che piace alla gente, insomma una spirale che si autoalimenta. Comprenderlo è il primo passo per contrastarlo. Il secondo passo è aiutare chi va controcorrente. Perché solo se i diritti sono universali e paritari si sta meglio. *Direttore Fondazione Diritti Umani Siria. Dalle carceri riaffiorano i dissidenti scomparsi di Lorenzo Trombetta ansa.it, 10 dicembre 2024 Aperte dopo decenni le famigerate prigioni politiche di Assad. Un ex studente siriano di medicina, finito nelle carceri politiche del regime 13 anni fa perché aveva partecipato alle proteste governative del 2011, non ricorda nulla, nemmeno il suo nome. E i familiari faticano a riconoscerlo dietro il volto emaciato e trasfigurato dalle torture. Una donna esce dalla cella con quattro bambini, ma non sa chi è il loro padre. Mentre rivede la libertà dopo ben 43 anni di carcere Raghid Tatari, il decano dei prigionieri politici siriani, pilota militare imprigionato perché si era rifiutato di bombardare i civili durante il massacro di Hama compiuto dal governo nel 1982. Sono solo alcune delle numerose storie dell’orrore e di liberazione che emergono dagli abissi oscuri delle famigerate ma impenetrabili carceri-mattatoi dell’ormai dissolto regime, incarnato per più di mezzo secolo dagli Assad. Sono ancora diverse migliaia i desaparecidos finiti, alcuni da più di 40 anni e spesso senza mai un processo, nelle segrete stanze di tortura nel sottosuolo di caserme e centri di detenzione. Si stima che più di un migliaio di questi siano libanesi, rastrellati dalle truppe siriane durante la guerra civile del Libano combattuta tra il 1975 e il 1991. Queste e altre vicende del passato tornano prepotentemente d’attualità. Nelle ultime 24 ore le tristemente note prigioni politiche di Saydnaya e di Adra, attorno a Damasco, sono state letteralmente circondate e, in parte, invase da migliaia di familiari degli scomparsi, giunti a piedi e in auto alla ricerca dei loro cari o di tracce dei loro familiari nelle celle e negli angusti corridoi. Le fazioni armate che tra sabato e domenica scorsi hanno preso il controllo della capitale e delle altre città “liberate” di Latakia, Hama, Tartus, hanno chiesto l’aiuto della Protezione civile della regione di Idlib, da anni sotto il controllo delle opposizioni e per questo abituata a scavare sotto le macerie degli edifici crollati durante i ripetuti bombardamenti governativi e russi. Finora però i Caschi bianchi non sono riusciti a trovare alcun passaggio che possa condurre sotto presunti piani sotterranei del carcere di Saydnaya, sigillati dalle guardie carcerarie prima di darsi alla fuga sabato scorso. Il comitato delle famiglie dei prigionieri di Saydnaya riferisce che il carcere è ormai svuotato e che non sono stati trovati livelli sotterranei oltre a quelli già ispezionati nella cosiddetta Zona Rossa. Lo stesso comitato dei familiari ha ricordato che attorno a questi centri di detenzione il regime aveva posto cinture di mine anti-uomo e anti-carro e invita i civili ad evitare assembramenti nelle aree circostanti. A Saydnaya, come ad Adra, dove c’era anche la sezione femminile, una serie di celle e corridoi sono stati sigillati da cancelli blindati e chiusi elettronicamente. Prima di fuggire, i secondini hanno disattivato parte della rete elettrica delle prigioni, bloccando di fatto gli accessi a queste zone delle carceri. Le telecamere di sorveglianza sono rimaste però attive e dalla sala comandi erano invece visibili i detenuti, rimasti oltre i cancelli e ancora ignari di quello che stava succedendo oltre le sbarre e in tutto il Paese. “Cosa succede?!”, chiede affannosamente un uomo accecato dalle torce dei cellulari dei soccorritori dentro il carcere di Saydnaya. “È caduto Assad!”, gli risponde qualcuno. Siria. Le prigioni di Assad erano l’inferno in terra di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 10 dicembre 2024 Le torture e gli orrori nelle carceri di Sednaya e Tadmur dove finivano tutti i veri o presunti oppositori del regime. Le immagini che arrivano dalla Siria appena liberata dal regime di Bashar al Assad, fuggito a Mosca, mostrano un paese che festeggia dopo anni di terrore e guerra civile. Folle in strada non solo a Damasco ma anche nelle altre principali città. Non mancano il disordine e i saccheggi, certo, ma anche speranze per un futuro che comunque si mostra più che incerto. Nella capitale in questi concitati momenti moltissime persone si stanno radunando dove la repressione era tangibile e ben conosciuta, il carcere di Saydnaya. Qui, e non solo, si dispiegava l’universo concentrazionario caratterizzato da detenuti scomparsi e il sistematico uso della tortura. Le voci, che non sono state però confermate da prove tangibili al momento, parlano di celle sotterranee dove i detenuti venivano praticamente sepolti vivi. I video mostrano persone disperate in attesa di informazioni mentre gli investigatori sono alla ricerca frenetica di camere d’orrore nascoste. Le squadre utilizzano sonde sonore e attrezzature usate dopo i terremoti, nonché squadre cinofile con cani addestrati. Tutto ciò nonostante il gruppo Association of Detainees & The Missing in Sednaya Prison (Admsp) e i Caschi Bianchi siriani insistono sul fatto che non ci sono più detenuti nella prigione. Rimane il fatto tragico, avvalorato dalle testimonianze di prigionieri evasi da Saydnaya, che come riporta anche Amnesty International, si trattasse di un luogo paragonabile a una macelleria umana. I dati stimano che più di 30mila persone siano state giustiziate o siano morte tra il 2011 e il 2018. Secondo Raed al-Saleh, il capo della protezione civile siriana, nota appunto come Caschi Bianchi, le prigioni gestite dal governo di al-Assad sembravano “mattatoi dove le persone venivano torturate e massacrate. Le parole non possono descrivere la realtà, era un inferno la vita dentro queste prigioni. La tortura fisica nelle carceri era enorme sotto la supervisione degli ufficiali dell’intelligence”. E già nel 2016 era emerso il livello orrorifico di ciò che succedeva. Un ex ufficiale della Polizia Militare siriana, fuggito dal paese nel 2014, nome in codice Cesar, aveva salvato e portato con se archivio fotografico composto da circa 50mila scatti, devastanti, 28mila dei quali ritraevano cadaveri. La documentazione che provava la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar al-Assad. Il lavoro di Cesar consisteva nell’andare negli ospedali militari dopo ogni fatto grave o incidente e fare le foto, presentando un rapporto per la polizia. Nell’aprile del 2011, quindi, quando per stessa ammissione del presidente la rivolta in Siria era ancora pacifica, gli fu chiesto di recarsi presso un ospedale a Damasco e lì vide 50 cadaveri che a lui apparvero come di civili con dei chiari segni di tortura. Caesar rimane talmente turbato che immediatamente mostrò la volontà di fuggire dal paese, anche se dovette attendere in Siria per altri due anni, continuando a fotografare e conservando con grande rischio le immagini per poterle mostrare al mondo. Un’altra importante testimonianza, che si può leggere nel libro La Conchiglia, è quella di Mustafa Khalifa, uno studente che nei primi anni ottanta (all’epoca di Assad padre) era a Parigi ma una volta tornato in Siria venne immediatamente arrestato perché ritenuto appartenente ai Fratelli Musulmani. Trascorrerà da quel momento ben tredici anni, tre mesi e tredici giorni nelle carceri del regime. Una volta arrestato Khalifa viene condotto alla sede dei servizi segreti. Qui inizia l’interrogatorio a base di botte, torture che gli scorticano le carni. A niente è valsa la sua difesa di essere non solo cristiano ma anche ateo. Mustafa viene internato nel carcere di Tadmur a Palmira, qui la famiglia Assad ha costruito un altro luogo infernale. Khalifa, nel suo libro racconta nei minimi dettagli le violenze subite non solo da lui ma anche quelle sugli altri prigionieri che ha potuto testimoniare. Il racconto è da brividi: una cella di soli venticinque metri insieme a molti altri malcapitati trattati come bestie. Un viaggio attraverso un universo di esecuzioni, torture e ogni altro genere di vessazioni. L’impianto sul quale si è retto il potere degli Assad che oggi è tramontato ma che ha lasciato cicatrici indelebili nell’animo di un paese ancora in bilico sul baratro di una nuova possibile guerra.