Il Papa: in galera tanta sofferenza, mai togliere la dignità alle persone di Francesco De Felice Il Dubbio, 30 aprile 2024 Nell’agenda delle visite Papa Francesco c’è sempre un appuntamento con i detenuti. È successo domenica scorsa a Venezia e si ripeterà sabato 18 maggio a Verona, quando sarà a pranzo con i reclusi della Casa Circondariale di Montorio. Nell’incontro di domenica con le detenute della Giudecca il Papa ha detto chiaramente: “Il carcere è una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza. Però può anche diventare un luogo di rinascita, morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è “messa in isolamento”, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità, magari rimaste sopite o imprigionate dalle vicende della vita, ma che possono riemergere per il bene di tutti e che meritano attenzione e fiducia. Nessuno toglie la dignità della persona, nessuno”. E ha aggiunto: “Care sorelle, oggi tutti usciremo più ricchi da questo cortile. Forse quello che uscirà più ricco sarò io”. Parole che hanno colpito le ospiti della Giudecca, che quest’anno è stata scelta come padiglione della Santa Sede nell’ambito della Biennale d’arte per ospitare la mostra “Con i miei occhi”, nella quale dieci detenute-conferenziere guidano i visitatori nell’itinerario artistico che hanno contribuito a creare. L’appello di Papa Francesco è stato raccolto dal sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Facciamo nostre le parole del Santo Padre. Il carcere può diventare un luogo di rinascita, in cui la dignità del detenuto non viene messa in isolamento. Proprio per questo stiamo lavorando ad una serie di riforme strutturali, innovative rispetto al passato. Con più attenzione per i tanti assuntori di sostanze stupefacenti, come pure per i soggetti affetti da disturbi psicologici e comportamentali. Più lavoro e formazione per i detenuti. Più percorsi alternativi per chi, avvicinandosi al fine pena, dimostra piena volontà di aderire a un programma trattamentale, magari presso comunità esterne, iscritte ad un albo nazionale. Sconti e premi servono a poco: chi ha sbagliato, per rieducarsi, deve essere messo di fronte al peso dei propri errori e, contemporaneamente, sostenuto nel suo cammino di rieducazione”. Lettere dal carcere per Francesco di Fabrizio Peloni L’Osservatore Romano, 30 aprile 2024 In alcune missive consegnate al Pontefice storie di dolore e di speranza. “Vi ricorderò! E avanti e coraggio, non mollare, coraggio e avanti!”. È un congedo che nasce dal cuore quello di Papa Francesco dalle detenute del carcere femminile di Venezia, situato sull’Isola della Giudecca. Un momento molto confidenziale, di vicinanza fraterna, che ha concluso il primo appuntamento della visita pastorale compiuta dal Pontefice domenica mattina nella città lagunare. In un’atmosfera colma di speranza e di fiducia, molte tra le ottanta detenute presenti hanno voluto confidargli le loro esperienze di vita - storie di fragilità e dolore, ma anche di sogni che stanno accompagnando il percorso di detenzione e, in molti casi, anche di redenzione - scrivendole su alcune lettere che hanno consegnato nelle mani di Francesco. Come Dolores, che nella missiva ha confidato i suoi momenti di preghiera nella disperazione, quando la figlia in fin di vita stava entrando in sala operatoria: “ho chiesto a Dio di darmi il coraggio di affrontare ciò che stava succedendo”, sentendo così la forza “di superare ogni ostacolo senza il peso e il dolore”, anche quando le speranze erano poche. Pochi mesi fa la donna è entrata in carcere, e ora soffre terribilmente per la lontananza dalla figlia che avrebbe bisogno del suo aiuto. Un’altra detenuta, sulla sessantina, reclusa dal 2016 per espiare una condanna a trent’anni, ha affidato a Francesco una lettera con dentro “ciò che tengo nel più profondo del mio cuore”: la sua vita, segnata nell’infanzia da un papà alcolizzato, una mamma poco propensa a trasmettere amore, e soprattutto la responsabilità “pesante” di una sorella più piccola da tutelare. E poi un matrimonio presto rivelatosi fallimentare a causa dell’uso di eroina da parte del marito. Ma intanto era rimasta incinta del primo figlio. Successivamente, dopo un periodo in comunità il marito era riuscito a compiere un percorso di recupero ed erano tornati insieme. A quel punto erano in attesa della seconda figlia, quando il marito si è ammalato di linfoma, tornando a fare uso di droghe. Dopo 5 anni l’uomo è morto e la donna è crollata fisicamente e psicologicamente, ricorrendo agli psicofarmaci e perdendo la forza necessaria per stare vicina alla figlia di 8 anni. Da qui le scelte di vita sbagliate che l’hanno condotta al carcere, dove ha tentato anche il suicidio: “Quando mi sono ripresa ho guardato in alto e ho chiesto: “Signore mio, ho fatto del male, sono in carcere per questo e tu mi hai salvata... Perché?”. E dopo un po’ ho capito che voleva darmi una chance per riprendere in mano la mia vita”. Un percorso di redenzione, dunque, che la donna ha voluto definire “di rinascita, dove non c’è posto per la rabbia e il rancore” ha scritto, concludendo la lettera con la richiesta di preghiere al Santo Padre, perché la figlia da oltre quattro anni non vuole più saperne di lei. L’arrivo alla Giudecca - L’elicottero proveniente dal Vaticano con a bordo il Papa, era atterrato poco prima nel cortile interno della casa di reclusione, dove su una parete campeggiava tra le finestre sbarrate la scritta “Siamo con voi nella notte” in neon blu. È visibile anche nelle ore notturne quasi a voler accompagnare queste donne nel tentativo di alleviarne la pena. Le ottanta recluse hanno atteso Francesco nel chiostro del penitenziario, che nei secoli scorsi è stato un convento di convertite, ex prostitute. All’avvicinarsi del rumore del velivolo è partito spontaneo un primo applauso e alcune hanno cominciato a stringersi reciprocamente le mani tremanti, per condividere emozioni e tensioni accumulate in questi giorni di attesa. Quando il Pontefice ha fatto il suo ingresso, spinto sulla carrozzina, è stato accolto da un secondo applauso e da un corale “Viva il Papa!”. Passando tra le file di panchine in ferro su cui erano sedute le detenute, le ha volute salutare una ad una, così come aveva fatto un mese fa, nel pomeriggio del 28 marzo, all’interno del carcere femminile romano di Rebibbia, dove si era recato per celebrare la messa in Coena Domini del Giovedì santo con il rito della lavanda dei piedi. Anche nel penitenziario veneziano il vescovo di Roma ha scambiato sorrisi e carezze, ha ascoltato confidenze e ha consegnato coroncine del rosario. Una detenuta voleva donargli la propria fede nuziale, ma Francesco ha preferito benedirla e restituirgliela. E molte di loro, come appunto Dolores, hanno scelto la riservatezza di una lettera. Quando Francesco ha pronunciato il suo discorso, alla presenza anche del personale amministrativo, degli agenti della Polizia penitenziaria e dei volontari che prestano servizio all’interno del carcere, altri applausi sono partiti: soprattutto quando ha affermato che sarebbe uscito lui per primo più ricco da questo momento di fraternità, e poi successivamente quando con forza ha esclamato: “nessuno toglie la dignità di una persona, nessuno!”. Al momento dello scambio dei doni, alcune donne hanno consegnato una cesta con prodotti cosmetici biologici, realizzati all’interno del carcere, dove c’è anche un orto curato dalle detenute. Dal laboratorio di sartoria gli hanno offerto una papalina, altre gli hanno consegnato una cassetta contenente rose di lana realizzate all’uncinetto, grazie alla collaborazione dell’associazione di volontariato “Il granello di senape” e alla cooperativa sociale “Il cerchio”. Con le stesse rose avevano anche addobbato il pozzo del chiostro, perché come hanno raccontato al Papa, “abbiamo bisogno di colori”. Da parte sua Francesco ha lasciato in dono un’icona mariana raffigurante la Madre della Tenerezza. La prima volta di un Papa alla Biennale - Al termine il Papa ha raggiunto la chiesa della Maddalena, cappella del carcere, al cui ingresso era ad attenderlo il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione e commissario del padiglione della Santa Sede - curato da Chiara Parisi e Bruno Racine - alla Biennale d’Arte di Venezia. Qui, sotto i vestiti delle detenute raccolti in intrecci colorati pendenti dall’alto, opera della brasiliana Sonia Gomes, ha avuto luogo l’incontro del Pontefice con gli artisti. Il porporato lo ha introdotto spiegando il significato del titolo scelto da lui stesso per il padiglione, “Con i miei occhi”, allestito all’interno del penitenziario. Quindi ha sottolineato il lavoro di squadra con le stesse detenute: molte di loro infatti fanno da guide ai visitatori. E nella circostanza indossavano la t-shirt celebrativa del padiglione con la scritta “With my eyes”. Il Pontefice, nel suo discorso, ha ricordato la visita che gli artisti avevano compiuto nel giugno scorso nella Cappella Sistina. Forte l’appello, riprendendo il tema generale della Biennale - “Stranieri ovunque” -, affinché le pratiche artistiche possano costituire una rete per realizzare “città rifugio” in cui nessun essere umano è considerato un estraneo. La partecipazione della Santa Sede con un proprio padiglione espositivo e la visita di un Papa alla Biennale di Venezia, giunta alla sua sessantesima edizione, costituiscono una realtà inedita. E da questo punto di vista è sicuramente senza precedenti la scelta del carcere come “quartier generale”, altrettanto essenziale sia per permettere l’ideale abbattimento di muri, grate e barriere, sia per consentire all’universo esterno di aprirsi all’isolamento carcerario e dischiudere la gabbia del preconcetto. Così un luogo “straniero” e invisibile alla comunità, che poteva esistere solo nell’immaginario, si è materializzato divenendo realtà. Le opere esposte nel padiglione hanno come denominatore comune l’arte, la poesia, la spiritualità, l’umanità e il prendersi cura del prossimo, in particolare degli ultimi e degli emarginati, valorizzandone la dignità. Infine il Papa ha salutato i presenti nella cappella del carcere, tra cui l’arcivescovo Giovanni Cesare Pagazzi e il vescovo Paul Tighe, segretari del dicastero organizzatore. Quindi, a nome della casa di reclusione, la dirigente della Polizia penitenziaria Lara Boco e l’agente Francesca De Simone hanno donato al Pontefice una targa commemorativa e un’opera in vetro di Murano realizzata dai maestri Giovanni Nicola e Muriel Balensi. Il vescovo di Roma è poi uscito all’esterno del carcere dove è esposto il gigantesco murale - ricopre l’intera facciata dell’ingresso - realizzato da Maurizio Cattelan dal titolo “Padre” su cui sono rappresentati due piedi, nudi e sporchi, nel loro prospetto plantare; proprio quella parte del corpo che in natura costituisce il contatto con la terra, l’appoggio durante i cammini e i percorsi della vita, e, al tempo stesso, quello da cui inizia qualsiasi partenza o ripartenza. Proprio all’uscita del carcere, prima di salire sulla motovedetta che lo avrebbe portato alla basilica della Madonna della Salute, Francesco si è intrattenuto con alcuni bambini. Uno di loro gli ha chiesto di acquistare al prezzo simbolico di un euro il Libro dei vostri sogni, un quaderno realizzato artigianalmente con tutti i fogli interni ancora bianchi, per un futuro tutto da scrivere. Il Pontefice si è fatto convincere dall’audace commerciante, consegnandogli in cambio 5 euro. L’iceberg penitenziario italiano di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 30 aprile 2024 Le violenze e i maltrattamenti che sarebbero avvenuti presso l’istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano non rappresentano il modo d’essere del personale penitenziario e, se per davvero accaduti, non vi sarebbe alcuna solidarietà. Al riguardo, non giustifica che si vesta l’uniforme del corpo della Polizia penitenziaria, oppure quella, ancora militare, del corpo degli Agenti di custodia. Né condiziona che si indossino gli abiti “civili” dei direttori penitenziari, né quelli degli altri operatori penitenziari, atteso che il mondo del lavoro penitenziario è plurale e multi-professionale. Però, va ricordato che in esso vi sono almeno altre quattro famiglie professionali e non, che pure lo condizionano: in primo luogo i magistrati, collocati fuori ruolo, i quali dal 1923, allorquando con Regio decreto numero 1718, l’Amministrazione penitenziaria passò dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia, occupano manu militari i vertici dell’Amministrazione penitenziaria. Quest’ultima, pochi anni fa, è stata “spaccottata” in due differenti dipartimenti, moltiplicando così le funzioni apicali a vantaggio sempre dei magistrati: quella dei detenuti adulti e l’altra dei soli minori. Ma quest’ultima solo parzialmente, perché per dare maggiore peso al nuovo dipartimento, visto l’esiguo numero di minorenni allora in carico (neanche quattrocento), distribuiti in ben diciotto istituti penitenziari dedicati, si è deciso che negli stessi fossero accolti quanti, pur avendo superato i 18 anni e fino all’età di 24 anni compiuti, avessero commesso il reato da minori, dando così vita a una esplosiva miscela: quella di adolescenti costretti a convivere con giovani adulti, in contesti che avrebbero potuto favorire, ictu oculi, tra quattordicenni e ventiquattrenni, inevitabili gerarchie interne, emulazioni, sopraffazioni, violenze. Ma la cosa, forse, non era ritenuta importante dall’allora board amministrativo che rimase silente. Farlo, è un mio sospetto, avrebbe inoltre significato “ridurre” il peso del nuovo dipartimento e anche il numero delle cariche apicali, le più importanti assegnate a magistrati. Altra famiglia è quella degli operatori penitenziari per passione: il volontariato, costituito da singoli benemeriti cittadini e da una pletora di organizzazioni e associazioni. Queste presenze, nel tempo, hanno supplito le carenze dello Stato. Un esempio? Se un detenuto in miseria e appena arrestato (in verità lo sono quasi tutti) ha bisogno di un ricambio di mutande, non sarà l’Amministrazione penitenziaria a dargliele, perché, a dispetto delle norme, non le ha da decenni; fortunatamente, però, intervengono la Caritas, la Società di San Vincenzo, la Comunità di Sant’Egidio; così accade anche per tante altre necessità individuali. Altro esempio: quando un detenuto viene scarcerato senza il becco di un euro, semmai da un carcere lontano centinaia se non migliaia di chilometri dal suo luogo abituale di residenza, senza neanche che possegga un borsone dove mettere le proprie misere cose, lì dove non intenda, o debba, “donarle” ai suoi compagni di cella, sarà solo grazie al buon cuore delle Ong che, in alcune realtà più fortunate, gli verrà donato uno zainetto, con un panino e una bottiglia d’acqua, una piantina della città, qualche euro e dei biglietti per il bus: l’Amministrazione penitenziaria non gli darà, infatti, niente. Il volontariato è importante ma è anche pericoloso, perché così non emergono le gravissime contraddizioni di un sistema che da anni è abbandonato a sé stesso. Poi abbiamo i docenti della formazione professionale e del mondo della scuola, altre eroiche figure, ma la loro presenza non è spesso omogenea sul territorio. Vi sono Regioni che investono nella formazione professionale, comprendendo così che non con le volanti delle Forze dell’ordine, oppure con i manganelli, si farà sicurezza permanente sul territorio: se insegni a un detenuto che non sia incardinato nelle organizzazioni criminali un lavoro, con ogni probabilità non ritornerà in carcere. Grazie a visionari docenti della scuola e delle università, si riesce, non poche volte, perfino a ricostruire una dimensione di responsabilità e di coscienza sociale in capo ai detenuti-studenti. E questo fa bene a tutti. Abbiamo, infine, i ministri di culto di tutte le religioni, anch’essi, all’interno dei nostri templi con le sbarre. Tra di loro i cappellani, pagati dallo Stato, in quanto rappresentano la religione ufficiale dello stesso; si potrebbero muovere delle critiche circa la mancata “pari opportunità”, ma è opportuno sottolineare che ricevono uno stipendio modestissimo, che impiegano di regola per aiutare tutti i detenuti, a prescindere dal credo professato da ognuno. Ricordo Padre Ernesto, che aveva operato per anni in Palestina; affrontava il freddo e la bora invernale di Trieste indossando solo una “pellecchia”, un giubbino senza imbottitura di plastica. Gli procurai un cappotto nuovo, un elegante Montgomery grigio scuro, perché non stonasse con il di lui sobrio clergyman, mi ringraziò, nevicava forte. Dopo qualche giorno, il capo era indossato da un detenuto. Gli chiesi il perché, mi rispose: “Non ne ho bisogno, mi riscalda il Signore”. E infine voglio ricordare il personale sanitario, in carico alle Aziende sanitarie e alla Regione. Spesso sono medici e infermieri di buona volontà ma con scarsa esperienza; poco si investe, in verità: quando la sanità era in mano all’Amministrazione, le cose funzionavano meglio, vi erano medici ed infermieri. Se solo l’incentivassero. Rispetto a qualche anno fa, anche l’attenzione dedicata a detenuti ammalati, in particolare se tossicodipendenti, sembra essere mutata, declassificata. Soggetti con doppia diagnosi, non poche volte sono vittime di un palleggio tra Sert e Centri di salute mentale. Per non parlare del numero abnorme di malati “psichiatrici”, spesso pure “violenti”, che non dovrebbero essere inscatolati dentro le celle di cemento, perché le prigioni non sono luoghi di cura. Ma si fa finta di non comprenderlo, altrimenti si dovrebbe “ritornare” indietro, agli orribili Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che però avevano tanti infermieri e medici, altro che le attuali Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Molti non lo sanno, ma era negli Opg che si effettuavano le prime sperimentazioni di permessi all’esterno, perché si cura anche con la “libertà”, seppure per poche ore; oggi invece teniamo i pazzi, come degli animali pericolosi, dentro le carceri. Così come non si sa che i direttori penitenziari sono stati, soprattutto in questi ultimi dieci anni e prima dell’attuale Governo, sistematicamente maltrattati. Di recente, probabilmente grazie al post Covid, pur senza contratto di categoria (lo attendono da circa 20 anni) finalmente è stato riconosciuto a essi un compenso accessorio, per le grandi responsabilità che in ogni ora devono affrontare. Molti, tra l’altro, non sanno che fino a qualche mese fa tantissimi istituti penitenziari erano privi di direttori titolari, in perfetto contrasto con le regole penitenziarie europee. Anche l’istituto per minorenni di Milano era senza direttore titolare; si provvedeva mandando, a rotazione, dei dirigenti che già lo erano in altri istituti. Al riguardo, immaginate una grossa e malandata nave, che attraversa un mare agitato e che veda il suo comandante per due, tre giorni alla settimana, lasciarla, per poi trasbordare, in tutta fretta, su un’altra che inevitabilmente non conosce, affidatagli “in missione”. E questo per mesi, talvolta per anni. Ovviamente senza alcuna gratificazione. Quando si arriva all’istituto in missione, il direttore guarda l’orologio, deve tesaurizzare la risorsa “tempo”. Lui si affida al personale che trova nell’istituto, il quale l’aggiornerà sulla situazione, indicandogli le priorità: solo problemi da risolvere e poche volte possibili soluzioni. Le criticità saranno quelle di sempre: “Dottore, si è rotta la caldaia del riscaldamento e i detenuti sono arrabbiati”. Oppure: “Oggi mancano all’appello dieci agenti, sa, l’influenza! Dovremmo ridurre i posti di servizio e ci sarà un calo della sicurezza, ma non possiamo fare altro, abbiamo già esaurito il monte ore straordinario e non possiamo revocare congedi, ferie e riposi settimanali, perché i sindacati ci assalirebbero!”. E ancora “dottore, ci sono da fare i consigli di disciplina, prima che vadano perenti, ma non abbiamo a disposizione gli psicologi perché hanno già esaurito da tempo il loro monte orario !”; “direttore, gli agenti si lamentano della mensa di servizio, perché dicono che il cibo fa schifo e vogliono iniziare una protesta !”; “dottore, il pm vuole assolutamente che il detenuto sia posto in isolamento giudiziario, seppure non sappiamo dove metterlo, perché tutte le stanze sono sold out, non abbiamo neanche più i materassi!”. In passato, ho conosciuto uno, anzi una, dei direttori in missione del carcere Beccaria: collega seria, rigorosa, “legale”! Mi spiace che il suo nome emerga in termini dubitativi rispetto alla sua professionalità. E, ne sono certo, saprà spiegare ogni cosa; sono altri, invece, che continueranno a rimanere in silenzio, quelli che, con il loro non fare dall’alto, hanno consentito che maturasse il clima del disagio, della vergogna e del disonore. Ma non è questo il modello autentico di prigione “italiana”, che non ha bisogno di muscoli, di batterie di taser, di filo spinato o altro. Bensì, molto più semplicemente, di ragionevolezza e di buona amministrazione, di personale “vocato” alla mission del carcere. Non invece di chi, indossando l’uniforme o gli abiti borghesi, voglia evadere da esso prima che lo facciano i detenuti. *Coordinatore nazionale della dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae L’ultima del procuratore Gratteri: “Carceri invase da telefonini” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 aprile 2024 Il magistrato snocciola numeri e dati di una presunta invasione di mini apparecchi nelle mani dei boss. Costa (Azione): “Se non sono a casaccio, il Dap che fa?”. “O il ministero della Giustizia smentisce Nicola Gratteri o il ministero prenda provvedimenti”: non ha usato mezzi termini il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, nel commentare l’intervista rilasciata dal Procuratore di Napoli in cui, tra l’altro, ha dichiarato: “cominciamo col dire che mediamente in ognuna delle nostre strutture (carcerarie, ndr) ci sono 100 telefonini attivi in questo momento” e ancora: “detenuti di mafia organizzino chiamate collettive anche da carcere a carcere”. Immediata la reazione, dunque, del deputato e membro della Commissione Giustizia: “100 cellulari per ciascuno dei 190 istituti significa quasi 20mila cellulari attivi nelle carceri. O Gratteri spara numeri a casaccio o Nordio dovrebbe cacciare uno a uno quelli del Dap e i direttori degli istituti”. Ma come stanno in realtà le cose? Lo abbiamo chiesto in primis a Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UilPa Polizia penitenziaria: “Nessuno conosce il numero esatto dei telefoni presenti al momento all’interno degli istituti di pena. Però la percezione è che siano tantissimi”. Per De Fazio “le responsabilità sono da addebitare al sistema che consente l’introduzione e la detenzione di questi telefoni, insieme a droga e armi”. La falla “è all’inadeguatezza degli equipaggiamenti e nell’insufficienza degli organici, visto che mancano 18 mila agenti penitenziari. I controlli non sempre vengono effettuati così come dovrebbero essere effettuati su tutto il personale. La stessa polizia penitenziaria dovrebbe essere controllata al suo ingresso in carcere. Chiaramente questo non è possibile e si fanno controlli a campione. Maggiore attenzione è riservata agli estranei”. Ma come entrano i telefoni? “O tramite droni, o lanciandoli oltre il muro di cinta, o dalla porta principale, nascosti persino, quelli piccolissimi, nelle parti intime. Delle volte purtroppo ci sono anche agenti infedeli, ma in altre circostanze si sono resi responsabili pure i volontari, i medici, gli appartenenti a tutte le professionalità che lavorano negli istituti carcerari. Un anno e mezzo fa, se non ricordo male, fu scoperto persino un cappellano mentre introduceva cellulari”. Nel 2022, quando fu audito in commissione Giustizia del Senato, l’attuale Procuratore Nazionale Antimafia, Giovanni Melillo, ricordò come, quando era a lui a capo della procura partenopea, “a Secondigliano in un solo giorno, anzi in una sola ora, erano in funzione 253 telefonini”. Le soluzioni? Il responsabile di Via Arenula, rispondendo a febbraio scorso a una interrogazione parlamentare del deputato di Fratelli d’Italia Marco Padovani, che sollevava appunto il problema, chiarì: “Abbiamo avviato una sperimentazione con l’impiego dei jammer reattivi, che sono quelli che dovrebbero appunto schermare. L’esperimento si è concluso nel gennaio del 2024 e abbiamo ottenuto risultati positivi, però non le nascondo che non è un problema molto facile. La gran parte delle nostre carceri è costituita da istituti abbastanza vetusti per i quali la schermatura tecnicamente è molto difficile da far funzionare, per di più rischierebbe di compromettere anche le comunicazioni delle abitazioni circostanti. Regina Coeli è piazzata nel centro di Roma e le carceri dove questa scrematura funziona, essenzialmente quelle americane, sono piazzate in mezzo al deserto dell’Arizona o dello Utah o del Texas e sono formate da moduli modernissimi che vengono regolati a distanza e lì questa sorta di schermatura è più facile”. Quindi l’unica soluzione è la prevenzione. In particolare per contrastare l’introduzione di telefoni cellulari all’interno degli istituti penitenziari il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha provveduto negli ultimi anni ad acquistare e distribuire diversi strumenti tecnologici che sono attualmente in uso. In primo luogo, metal detector, sia a portale che portatili, per il controllo di zone di transito e di accesso, oltre a metal detector manuali. Sono inoltre in uso apparecchiature a raggi X per il controllo dei pacchi destinati alla popolazione detenuta, nonché rilevatori radio di telefoni cellulari. A breve, infine, sarà sperimentata una nuova tecnologia per l’inibizione di telefoni cellulari. Ma torniamo alla domanda con cui abbiamo aperto l’articolo: ci sono davvero 20 mila cellulari attivi nelle mani dei detenuti in questo momento? Gli ultimi dati ufficiali del ministero della Giustizia risalgono ormai a quattro anni fa: mediante il proprio canale di informazione online via Arenula- ricordava Padovani nell’atto di sindacato ispettivo - “ha divulgato i relativi dati statistici, dai quali si rileva che, solamente nei primi 9 mesi del 2020, sono stati 1.761 gli apparecchi rinvenuti nelle carceri italiane, requisiti all’interno o bloccati prima del loro ingresso. Nello stesso periodo del 2019, erano stati 1.206”. E adesso? Per ora nessuna comunicazione ufficiale è giunta dal Dicastero, quindi la domanda o meglio l’esortazione a fare chiarezza e/o prendere provvedimenti dell’onorevole Costa rimane sospesa. Tuttavia fonti del Dap ci hanno fatto sapere che “sono stati 3606 i cellulari sequestrati in totale nel 2023”. In pratica il 18 per cento del totale ipotizzato da Nicola Gratteri. Pur volendo supporre che quelli sequestrati non equivalgono a quelli effettivamente in uso ai reclusi, perché come abbiamo visto ci sono dei buchi nel sistema, come si fa ad arrivare a 20mila? “Boss al telefono in cella? Difficile impedirlo, schermare le carceri è rischioso” di Francesco Grignetti La Stampa, 30 aprile 2024 L’ex capo del Dap Renoldi dopo la denuncia di Gratteri: “Più possibilità di comunicare per i meno pericolosi”. Bando agli slogan, dice Carlo Renoldi, che era stato scelto dalla ministra Marta Cartabia come capo del Dipartimento penitenziario. La sua avventura è durata 9 mesi, fino al gennaio 2023. Poi è arrivato il destra-centro e Renoldi è stato rimandato in Cassazione. Dottor Renoldi, secondo il procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri, che ne ha parlato ieri a La Stampa, il carcere italiano è un “fallimento”. Anzi, “una delle migliori piazze di spaccio”. Condivide? “Il fallimento del carcere è legato alla difficoltà a realizzare la sua missione costituzionale: quella di restituire alla società, quando la pena finisce, persone che possano esservi riaccolte per iniziare una vita diversa. La presenza in carcere della droga è problema antico e si spiega con l’elevata percentuale di persone con problemi di dipendenza e abuso, che in carcere non dovrebbero stare”. Quanto ai telefonini che entrano di sottobanco nelle celle (duemila quelli trovati nell’ultimo anno): possibile che non si trovino contromisure a una situazione grottesca e allo stesso tempo tanto pericolosa? “Esistono molti modi per fare entrare in carcere un telefono e non ci sono soluzioni miracolose per evitarlo, come quella di schermare gli istituti, essendo ancora da verificare le ricadute sulla salute di operatori e detenuti. E da ripensare il sistema. Occorre impedire comunicazioni incontrollate con l’esterno solo per una minoranza di detenuti, per i quali il filtro deve essere rigoroso. Per gli altri, bisogna consentire un accesso molto ampio alle telefonate. Si controllerebbero meglio le situazioni che lo meritano davvero; e al contempo le persone più fragili potrebbero coltivare meglio le relazioni con la famiglia”. Molti magistrati sostengono che esistono due Italie anche nel campo della detenzione: un centro-nord dove la realtà è abbastanza sotto controllo, un sud dove spadroneggiano i clan. È d’accordo? “Non credo a distinzioni così nette, anche perché i clan non sono solo al sud. E però innegabile che la detenzione varia molto tra un carcere e l’altro. Ciò che fa la differenza è il tessuto sociale e istituzionale in cui il singolo carcere si trova. Chi associa il carcere soltanto alla questione sicurezza compie un errore tragico”. Il sovraffollamento è una realtà. Quali effetti concreti ha sul sistema e sulla vita delle persone detenute? “Produce grande vulnerabilità in chi vive e lavora in carcere. Gli operatori si sentono spesso impotenti a realizzare ciò che la Costituzione e le leggi richiedono e a dare risposte alle persone detenute. Queste, in specie se poco integrate, si sentono spesso abbandonate, senza che le loro richieste possano essere prese in considerazione”. Risulta che in molti casi gli spazi per le attività restino deserti perché manca persino il personale per accompagnarvi i detenuti. Quanto incidono i vuoti d’organico nel funzionamento del sistema? “Drammaticamente. In molte realtà, gli spazi ci sono, ma ciò che manca è il personale; e quello in servizio vive spesso in una condizione di sostanziale abbandono, che generà fragilità negli operatori, a volte perdita del senso della loro alta missione, fino alle gravi cadute che le cronache raccontano. Verso le quali non può esserci indulgenza; ma bisogna cercare di capire perché certe cose accadono”. I sindacati della Polizia penitenziaria protestano per la conflittualità interna. I meccanismi premiali della benemerita legge Gozzini funzionano ancora oppure sono superati dai tempi, con così tanti detenuti stranieri in cella? “Il rischio, con il sovraffollamento crescente, è che la situazione di vulnerabilità degli attori dell’universo carcerario possa degenerare. La Gozzini, pilastro di civiltà giuridica, è spesso sterilizzata dai tempi delle procedure, legati alla situazione difficile della magistratura di sorveglianza, in particolare per quanto riguarda le cancellerie, sempre più deserte. Spesso, le persone detenute per pene brevi vengono scarcerate prima di una risposta”. Una delle misure adottate da chi le è subentrato riguarda il circuito della media sicurezza, dove le celle sono tornate a chiudersi… “La mia circolare sulla media sicurezza rispondeva a una filosofia opposta a quella di una indiscriminata chiusura. Significava scommettere sulla possibilità di ampliare le occasioni di trattamento, anche mobilitando risorse esterne, come il volontariato e il terzo settore. E una prospettiva tanto più attuale col sovraffollamento: occorrerebbe ampliare le sezioni a trattamento intensificato, scommettendo sulla responsabilità di chi è più affidabile”. Intanto dilagano dipendenze e disagio mentale. Aumentano drammaticamente i suicidi. Che cosa andrebbe fatto, in concreto? “Ferma l’esigenza di maggiore controllo per coloro che gravitano nell’orbita della criminalità organizzata, il carcere deve aprirsi e non chiudersi. La società civile e le istituzioni devono riappropriarsi degli spazi del carcere, garantendo l’assistenza sanitaria, psicologica e psichiatrica, troppo spesso negata e prendendosi cura, all’esterno, delle famiglie. Ci si suicida quando ci si sente invisibili. Occorre una rete di ascolto permanente. Ma il carcere, da solo, non può farlo”. Carriere separate fra giudici e pm, la premier cede a Forza Italia di Ilario Lombardo La Stampa, 30 aprile 2024 Si accelera sulla riforma “bandiera”: l’ipotesi di portarla in Cdm. È l’ultimo tassello del patto elettorale a tre prima delle Europee. Restava da accontentare Forza Italia. Se non sarà oggi, come inizialmente era stato preannunciato ai leader dei partiti di maggioranza, sarà il prossimo Cdm a licenziare il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. Uno dei grandi progetti di Silvio Berlusconi, una sfida del secolo per gli azzurri, presente nel programma anche di Giorgia Meloni. Era il tassello mancante di un accordo elettorale a tre, che prevede per ogni partito della coalizione una riforma di bandiera pronta da spendere prima del voto delle Europee, l’8 e il 9 giugno. Il premierato caro a Fratelli d’Italia è ben incardinato in Senato e dovrebbe ricevere l’approvazione in prima lettura entro un mese. Obiettivo già raggiunto per l’Autonomia, la legge madre per la Lega di Matteo Salvini, ora in discussione alla Camera, dopo l’ok di Palazzo Madama. Lo scambio doveva concludersi con il via libera del governo alla separazione tra magistratura inquirente e giudicante, cara a Forza Italia. Una riforma che accenderà un altro fronte con le toghe, e che proprio per questo motivo la premier avrebbe preferito frenare, rinviandone la discussione il più a lungo possibile. La scorsa estate parlò di obiettivo di legislatura. Poi, a metà marzo, dopo un lungo confronto con il ministro della Giustizia Carlo Nordio e con il leader di Forza Italia Antonio Tajani, Meloni ha ceduto alla richiesta di avviare la norma prima dell’avvio della campagna elettorale. A indicare l’imminenza del completamento di questo accordo a tre è il segnale arrivato ieri mattina. In apertura dei lavori sul ddl Autonomia in Aula a Montecitorio, il deputato azzurro Alessandro Battilocchio concede alla riforma leghista un riconoscimento forzato e poco sentito. Ma alla fine dell’intervento chiede di accelerare sulla separazione delle carriere. È quello che chiede in cambio Tajani, per placare la consistente componente meridionale degli azzurri, guidata dal governatore calabrese Roberto Occhiuto, contrarissimo all’Autonomia. È un gioco di pegni da pagare reciprocamente, per arrivare integri fino alle elezioni. Meloni conta su tempi che si prevedono lunghi, perché per separare i percorsi dei pubblici ministeri da una parte, e dei giudici di corti e tribunali, dall’altra, serve un disegno di legge costituzionale. Ma la premier sa che inevitabilmente ci sarà comunque una nuova rivolta delle toghe su un provvedimento che una parte significativa della categoria considera la prova definitiva della volontà di assoggettamento definitivo al potere politico e al governo. Secondo la corrente Magistratura democratica è una riforma “contraria ai principi affermati in ambito europeo che incoraggiano l’autonomia del pubblico ministero come presupposto dell’indipendenza di tutto il potere giudiziario”. Se venisse approvata, pm e giudici non seguirebbero più la stessa carriera e non sarebbero soggetti più allo stesso concorso. Una norma di buon senso per i suoi sostenitori largamente rappresentati in questo Parlamento, che ricordano come anche Giovanni Falcone fosse favorevole a introdurla. Una importante limitazione al passaggio da una funzione all’altra era stata già introdotta nel 2022 dalla riforma di Marta Cartabia, ex Guardasigilli del governo di Mario Draghi. La destra, spalleggiata dai centristi, vuole fare un passo ulteriore, molto più radicale, eliminando l’appartenenza a un unico ordine giudiziario, nella convinzione che la realtà attuale rende meno paritarie le parti del processo - pm, cioè l’accusa, e l’avvocato - davanti al giudice. Per l’associazione dei magistrati è il colpo finale al lavoro delle toghe dopo la stretta sulle indagini, il test attitudinale e la cancellazione di reati come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze. Capitoli di un disegno complessivo che il ministro Nordio sta portando avanti senza lasciare margini alle opposizioni contrarie. Ieri Pd e M5S, dopo la protesta in aula contro una deputata leghista che indossava provocatoriamente la maglietta “Vento del Nord”, sono scesi in piazza contro la legge sull’Autonomia. Per i 5 Stelle è un altro cedimento di Meloni, da immortalare in uno slogan stampato sui cartelli in mano al leader Giuseppe Conte e ai parlamentari: “Da patriota a secessionista”. Pur di seppellire Cospito in galera la giustizia fa testacoda di Frank Cimini L’Unità, 30 aprile 2024 Respingendo il ricorso dei difensori sul 41bis la Cassazione si appella alle parole della Procura nazionale antimafia ma poi boccia il parere della stessa Dna che riconosceva una ridotta pericolosità dell’anarchico. Sul 41bis di Alfredo Cospito confermato dalla Cassazione che ha respinto il ricorso del difensore la giustizia riesce ad andare in corto circuito con una motivazione che risulta il massimo della contraddittorietà. I supremi giudici da un lato citano le parole della procura nazionale antimafia e antiterrorismo secondo cui Cospito pur da detenuto “continuava a compiere condotte apologetiche della violenza anarchica”. Dall’altro lato viene letteralmente bocciato il parere della stessa Dna che dava atto di una ridotta pericolosità dell’anarchico e chiedeva di sostituire il regime del 41bis con quello dell’alta sorveglianza, un gradino appena più sotto, mantenendo la censura sulla corrispondenza. Secondo la Cassazione il parere della Dna “seppure particolarmente autorevole non costituisce un ‘fatto nuovo’ ma piuttosto una valutazione di carattere meramente giuridico come tale non decisiva ai fini della revoca anticipata del regime carcerario di cui si tratta”. Insomma la Cassazione gira e rigira la frittata affinché Alfredo Cospito sia seppellito vivo. Nemmeno le sentenze che avevano dichiarato insussistente l’associazione sovversiva nei procedimenti “Bialystock” e “Sibilla” non influiscono in alcun modo sulla “operatività della Federazione Anarchica Informale”. Per la Suprema Corte non c’è stata nessuna violazione di legge perché la motivazione del Tribunale di Sorveglianza di Roma non risulta mancante, avendo dato risposta a tutte le argomentazioni contenute nella richiesta di revoca anticipata. Il ricorso viene così dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato a pagare le spese processuali e 3.000 euro in favore della cassa delle ammende. La Cassazione spiega la sua decisione facendo riferimento al ruolo di Alfredo Cospito “descritto come figura di vertice del movimento anarchico insurrezionalista FaiFRI “ancora attivo e pericoloso”. Gli eventi prospettati dalla difesa di Cospito per la Cassazione “erano già stati valutati in sede di ricorso avverso il decreto genetico del regime speciale oppure non potevano considerarsi nuovi e come tali indicativi del venir meno delle condizioni poste a fondamento di detto provvedimento prima della sua scadenza naturale”. La realtà è che Cospito viene considerato ancora più pericoloso dopo il lunghissimo sciopero della fame che ne avrebbe aumentato il carisma nell’ambito dei movimenti anarchici. Insomma siamo alla creazione di una sorta di nuovo reato, “il digiuno a scopo di terrorismo”. Per cui reclami e ricorsi non servono. La continuazione dell’apologia della violenza anarchica serve a confermare il regime del 41bis tradendolo e travisandolo nello spirito e nella lettera perché il regime speciale dovrebbe (condizionale d’obbligo) servire esclusivamente a impedire contatti con le organizzazioni esterne. L’apologia insomma è un alibi perché non sanno che pesci pigliare. Milano. Torture al Beccaria, “scene cruente” riprese dalle telecamere interne Di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 30 aprile 2024 Nelle immagini il pestaggio di un detenuto di 15 anni. L’episodio è avvenuto l’8 marzo scorso. Il ragazzo si era procurato dei tagli. Viene trascinato per le scale, spinto contro il muro e colpito ripetutamente finché cade a terra, dove un agente lo prende a calci. La “scena cruenta” di un pestaggio ai danni di un detenuto di 15 anni, con tanto di fotogrammi delle violenze riprese dalle telecamere interne, è contenuta in un’annotazione del 15 marzo scorso, redatta dal Nucleo investigativo regionale della Polizia penitenziaria, agli atti dell’inchiesta della Procura di Milano su presunte torture e maltrattamenti nel carcere minorile Beccaria, che una settimana fa ha portato in carcere 13 agenti e alla sospensione di altri otto colleghi. Nell’annotazione degli investigatori si parla, in particolare, dell’episodio avvenuto l’8 marzo scorso, una delle imputazioni contenute già nell’ordinanza cautelare. Quel giorno il 15enne, che in precedenza si era procurato dei tagli “sulle braccia”, sarebbe stato prima “condotto fuori dalla cella” da quattro agenti e poi trascinato per le scale, “tirandolo anche dal braccio sanguinante”, da uno di loro. Due degli agenti, poi, stando alle imputazioni, lo avrebbero spinto “contro il muro” e colpito “ripetutamente alla testa e al torace” fino a “farlo cadere a terra”. A quel punto uno degli agenti lo avrebbe colpito, quando era a terra, ancora “con numerosi calci”. Nell’annotazione, depositata agli atti dell’inchiesta dell’aggiunto Letizia Mannella e dei pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena e condotta anche della Squadra mobile, vengono ricostruite fotogramma per fotogramma le fasi delle presunte violenze e si legge che i quattro agenti erano “in abiti civili”, ossia senza divise. L’annotazione degli investigatori si basa sui “video tratti dal sistema di videosorveglianza” del Beccaria. Verso le 18.57 gli “agenti conducono fuori dalla camera il detenuto”, che si “oppone all’accompagnamento”. Sono, si legge, “nitidamente visibili alcune lesioni da taglio sanguinanti al braccio sinistro”. Nell’annotazione vengono indicati anche i nomi dei quattro agenti, poi arrestati o sospesi. Verso le 19.10 le telecamere riprendono il 15enne che torna verso la cella con una fasciatura al braccio, dopo essere stato medicato in infermeria. Prima, però, dopo che il ragazzo era stato portato fuori dalla cella, c’è “una sequenza di immagini da cui si coglie” che uno degli agenti lo “sbatte al muro, gli dà uno schiaffo”, mentre lo “trascina e sbilancia con la mano destra”. Il 15enne “cade a terra” e l’agente “insiste con un calcio sferrato con il piede sinistro”. Un altro degli agenti, tra l’altro, poco dopo “si occuperà - si legge - di approntare il vitto per i ragazzi del gruppo mediante trasporto a mezzo di appositi carrelli”. Operazione in cui verrà “aiutato dai ragazzi” detenuti. Pure un’altra telecamera, si precisa nell’annotazione, ricostruisce “inequivocabilmente” il momento in cui l’agente “scaglia” il 15enne contro il muro e “gli sferra uno schiaffone”. La scena “cruenta”, tra l’altro, viene “visualizzata parzialmente anche” da una telecamera vicino all’infermeria: si vede “un materasso posizionato a terra” su cui il ragazzo “cade”. Si vedono, poi, anche “quattro persone probabilmente sanitari che, sentito il trambusto, si spostano nel locale infermeria”, dove è entrato il detenuto. Infine, si legge ancora, dopo essere stato riportato in cella e dopo il passaggio in infermeria, il 15enne viene “nuovamente prelevato” da due agenti e portato in un “ufficio al piano terra” dove rimarrà “per circa otto minuti”. Là, però, stando all’annotazione, non vi sarebbero state ulteriori condotte “violente”. Milano. Pestaggi ai baby-detenuti: le foto della vergogna nel carcere Beccaria di Andrea Siravo La Stampa, 30 aprile 2024 Le botte a un quindicenne riprese dalle telecamere nell’indagine che ha portato all’arresto di 8 agenti. Circondato e spinto al muro, strattonato per un braccio e poi a terra viene scalciato almeno una volta. La sequenza è immortalata, fotogramma dopo fotogramma, da una telecamera di sorveglianza dell’Ipm Beccaria di Milano. Da un lato alcuni degli agenti della polizia penitenziaria, finiti in carcere il 22 aprile con le accuse di torture e minorenni, dall’altra un detenuto quindicenne. La “scena cruenta” dell’otto marzo l’hanno descritta in un’annotazione i colleghi della Polizia penitenziaria degli autori del pestaggio. Non loro complici, ma quelli del nucleo investigativo regionale che con la squadra mobile della questura hanno indagato su di loro. Quel giorno il quindicenne aveva attirato l’attenzione, dopo essersi provocato tagli al braccio sinistro da cui perdeva sangue. Da quattro agenti era stato fatto uscire dalla cella e poi trascinato per le scale, “tirandolo anche dal braccio sanguinante”, da uno di loro. Due degli agenti, poi, stando alle imputazioni, lo avrebbero spinto “contro il muro” e colpito “ripetutamente alla testa e al torace” fino a “farlo cadere a terra”. A quel punto uno lo avrebbe colpito, quando era a terra, “con numerosi calci”. Nell’informativa, agli atti dell’inchiesta dell’aggiunto Letizia Mannella e dei pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena, gli investigatori segnalano i nomi dei quattro agenti, poi arrestati o sospesi. Verso le 19,10 le telecamere riprendono il quindicenne che torna verso la cella con una fasciatura al braccio, dopo essere stato medicato in infermeria. Prima, però, dopo che il ragazzo è stato portato fuori dalla cella, c’è “una sequenza di immagini da cui si coglie” che uno degli agenti lo “sbatte al muro, gli dà uno schiaffo”, mentre lo “trascina e sbilancia con la mano destra”. Il quindicenne “cade a terra” e l’agente “insiste con un calcio sferrato con il piede sinistro”. Un altro degli agenti poco dopo “si occuperà - si legge - di approntare il vitto per i ragazzi del gruppo”. Operazione in cui verrà “aiutato dai ragazzi” detenuti. Pure un’altra telecamera, si precisa nell’annotazione, ricostruisce “inequivocabilmente” il momento in cui l’agente “scaglia” il quindicenne contro il muro e “gli sferra uno schiaffone”. La scena “cruenta”, tra l’altro, viene “visualizzata parzialmente anche” da una telecamera vicino all’infermeria: si vede “un materasso posizionato a terra” su cui il ragazzo “cade”. Si vedono, poi, anche “quattro persone, probabilmente sanitari, che sentito il trambusto, si spostano nel locale infermeria”, dove è entrato il ragazzino. Infine, si legge ancora, dopo essere stato riportato in cella e dopo il passaggio in infermeria, il quindicenne viene “nuovamente prelevato” da due agenti e portato in un “ufficio al piano terra” dove rimarrà “per circa otto minuti”. Là, secondo l’informativa, non vi sarebbero state ulteriori condotte “violente”. Intanto, oltre alle otto vittime accertate nell’ordinanza, le indagini si concentrano su altre presunte violenze (una decina i detenuti che saranno ascoltati) e pure sulle sospette omissioni e coperture di personale sanitario, educativo e dei vertici della struttura, tanto che sono indagate le due ex direttrici. Come persone informate sui fatti sono stati sentiti anche don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio, ex ed attuale cappellano del carcere minorile. Oggi, infine, davanti al gip Stefania Donadeo, ha parlato anche per quasi due ore, cercando di difendersi, l’ex comandante della Polizia penitenziaria Francesco Ferone, sospeso e accusato di aver falsificato le relazioni. “È una persona che sta chiarendo la sua situazione”, si è limitato a dire il suo legale Paola Sanna Milano. Stefano Anastasìa: “Al Beccaria un uso sistematico della violenza” garantedetenutilazio.it, 30 aprile 2024 “L’uso sistematico della violenza: questo è preoccupante, il fatto che fosse un regime”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personale della Regione del Lazio, Stefano Anastasìa, a proposito del caso Beccaria durante la trasmissione “Periferie-il sabato di RaiNews24” del 27 aprile. Un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 13 agenti della Polizia penitenziaria, 12 dei quali in servizio presso l’istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano, nonché la misura della sospensione dall’esercizio di pubblici uffici nei confronti di ulteriori otto, anch’essi tutti in servizio all’epoca dei fatti, sono state eseguite lo scorso 22 aprile. I reati a vario titolo contestati dalla Procura sono maltrattamenti, concorso in tortura, e una tentata violenza sessuale nei confronti di un detenuto. “L’idea che all’interno di una istituzione dello Stato che ha un delicato compito che è quello come sappiamo rieducativo viceversa ci possa essere un uso sistematico della violenza è veramente inquietante”, ha detto Anastasìa nel corso del programma. “Credo che di questo si debba discutere. Ovviamente, i magistrati inquirenti accerteranno le responsabilità individuali, questo non spetta a noi, però è necessario capire per prevenire situazioni di questo genere che non devono succedere. Uno dei temi è quello del sovraffollamento delle carceri: in Italia abbiamo 14.000 detenuti in più a livello nazionale, più del 20% rispetto alla capienza effettivamente disponibile.” In merito alle carriere criminali in crescita, secondo Anastasìa, “la prevenzione si fa certamente con la presenza sul territorio di forze di polizia, ma si fa innanzitutto nelle azioni di recupero e di integrazione sociale nelle periferie, perché, se non si lavora lì, il risultato è che le azioni devianti ci siano, la funzione dell’istituto penale per minori, soprattutto per i più svantaggiati, diventi una necessità e la funzione dell’istituto finisce per essere soltanto di contenimento e non rieducativa”. Il carcere dovrebbe dunque rieducare, ma sembra che qualcosa si sia inceppato in questo meccanismo che dovrebbe essere virtuoso, secondo uno dei principi fondativi, quello della rieducazione sancito dalla nostra Costituzione. “Si è inceppato un sistema di giustizia minorile che però ci ha fatto onore in Europa - ha proseguito Anastasìa a tale proposito- Abbiamo un sistema di giustizia penale minorile che, al di là di questi ultimi episodi, è stato un esempio in molti paesi, perché riduceva il ricorso al carcere. Tuttavia, oggi abbiamo molti ragazzi che entrano dentro il sistema di giustizia minorile e che non hanno alcun tipo di risorsa esterna: sono completamente soli. Per esempio, può aver causato l’incremento degli ingressi in carcere anche l’aumento delle presenze degli stranieri non accompagnati che non hanno più rete di protezione e integrazione sociale esterna”. “Il caso Beccaria - ha concluso il Garante del Lazio - evidenzia anche che bisogna dare più opportunità di formazione a chi opera dentro queste strutture. In particolare, il personale di polizia deve essere più consapevole di essere parte di una istituzione che è integralmente orientata alla finalità rieducativa dei ragazzi e delle ragazze che vi sono ospitate”. Massa Carrara. Il primato del carcere: lavoro per tutti (e si fa la “casula” per il Papa) di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 aprile 2024 Viaggio nel penitenziario toscano dove l’80 per cento dei detenuti è occupato e retribuito. “Abbiamo all’interno veri e propri stabilimenti industriali: così garantiamo dignità e armonia”. La possibilità di guadagnare denaro per le famiglie e cli imparare un mestiere per il futuro. Non succede praticamente da nessuna parte. Per questo fa notizia il carcere di Massa, dove sono circa 180 (su 220 presenti) i detenuti impegnati quotidianamente con un lavoro. La media dei reclusi che hanno una occupazione, in Italia, è di circa il 29 per cento. Al carcere di Massa, la media sale fino ano per cento. Tutto questo è possibile grazie alla sartoria industriale e al lanificio che fabbricano lenzuola, federe, coperte, copriletti per tutti gli altri penitenziari italiani, biancheria da letto che finisce nelle celle di altri detenuti oppure nelle stanze degli agenti. Stiamo parlando di uno spazio industriale piuttosto unico nel panorama carcerario italiano, dove le persone in detenzione lavorano metà giornata con salari che si aggirano dai 540 ai 570 euro netti mensili. I reclusi che si approcciano per la prima volta alla professione vengono formati con un apprendistato iniziale retribuito. Tutti loro sono pagati dal Ministero della Giustizia tramite commesse di lavoro. E poi ci sono i detenuti che svolgono attività connesse alla cura dei luoghi, ad esempio pulizie, alla cucina e alla manutenzione del fabbricato, oltre a quelli che lavorano all’esterno. Un ottimo esempio di applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, in tema di “giustizia riparativa”. “Nella nostra Casa di reclusione - conferma la direttrice Antonella Venturi - ci sono dei veri e propri stabilimenti industriali grazie ai quali è possibile dare lavoro a molti detenuti. Questo consente di riempire di senso il tempo della pena, spesso altrimenti vuoto. I detenuti imparano un mestiere ma, soprattutto, si riappropriano della loro dignità: lavorare consente loro di guadagnare soldi da mandare alle famiglie o anche semplicemente di avere quanto serve per la vita all’interno dell’istituto. L’attività lavorativa, poi, aiuta a mantenere le giornate impegnate e questo contribuisce ad allentare le tensioni, con benefici non solo per i detenuti stessi ma anche per gli operatori penitenziari che, ogni giorno, mettono la loro professionalità al servizio dello Stato”. Un carcere certamente atipico, all’interno del quale ci sono telai e filati, orditoi e tessuti rifiniti, macchine ad aria, macchine a pinza. Strumenti ed attrezzature che non ricordano l’ambiente di reclusione, ma dove le persone possono vivere una realtà lavorativa a 360 gradi. A coordinare il gruppo c’è un tecnico civile, detto capo d’arte, che dirige il lavoro dei vari addetti. Due sono i turni lavorativi: quello mattutino e quello pomeridiano. E proprio negli ultimi mesi, i detenuti della sartoria hanno confezionato una casula, veste liturgica che partirà per il Vaticano e che dovrà essere consegnata a papa Francesco. “Lavorare - commenta uno dei detenuti - mi permette di vivere l’esperienza in carcere con più serenità. Ritengo che se non ci fosse questo lavoro, sarebbe come scontare una pena doppia”. Un altro aggiunge: “II lavoro in sartoria per me è un’ottima opportunità di reinserimento, in quanto le abilità che si acquisiscono possono essere spendibili anche all’esterno, una volta terminata la pena. Mi sento inoltre valorizzato, perché si tratta di un lavoro di responsabilità ed è gratificante svolgerlo, soprattutto se si ottengono risultati”. Roma. La paura di morire in carcere per mancanza di cure di Stefano Anastasìa* garantedetenutilazio.it, 30 aprile 2024 Qualche settimana fa, una civile protesta dei detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia, una di quelle legittime proteste che incomprensibilmente un disegno di legge del Governo vorrebbe rendere sanzionabili penalmente, ha richiamato la nostra attenzione sulla morte di un loro compagno, avanti negli anni, diabetico e cardiopatico, che lamentava dolori e sofferenze, apparentemente di natura odontoiatriche. L’inchiesta della procura ci dirà della tempestività dei soccorsi e dell’assistenza che gli è stata prestata in quei giorni e nelle ultime ore. Con la Garante comunale, Valentina Calderone, ci siamo impegnati a incontrare i dirigenti della Asl responsabile dell’assistenza sanitaria nel polo penitenziario di Rebibbia, per verificare le risorse messe a disposizione dei detenuti e lo stato degli interventi discussi nel tavolo tecnico per la sanità penitenziaria a novembre del 2022 e poi nell’assemblea con una rappresentanza dei detenuti nel marzo scorso. Certo è che tra i detenuti si palpa con mano la paura di morire dietro le sbarre e a questa paura bisogna dare risposte, innanzitutto qualificando l’assistenza sanitaria in carcere, garantendo la presenza in istituto di specialisti, di strumenti diagnostici e di telemedicina che possano ridurre il ricorso alle visite e agli esami esterni che l’Amministrazione penitenziaria non riesce a garantire per la cronica carenza di personale addetto alle traduzioni in ospedale, ma anche riscoprendo l’incompatibilità con la detenzione delle malattie gravi che non possono essere adeguatamente curate in carcere, anche solo perché il carcere non è in condizione di garantire il continuo contatto con le strutture sanitarie esterne. Infine, e non sembri parlar d’altro, a quella paura di morire dentro bisogna rispondere anche rinunciando all’ossessione di risolvere tutti i problemi del mondo mettendo la gente in galera, fino a farne un luogo così affollato che qualsiasi disponibilità di personale e di strumentazione è sempre insufficiente alle necessità. Se il carcere può funzionare, lo può fare con pochi detenuti, per reati obiettivamente gravi e con pene importanti da scontare, adeguatamente seguiti dagli operatori sanitari e penitenziari e accompagnati in un percorso di reinserimento sociale attraverso alternative e opportunità di lavoro e formazione. Non certo nelle condizioni di sovraffollamento attuali. *Articolo pubblicato su “Non tutti sanno”, notiziario della Casa di reclusione di Rebibbia, n. 4, aprile 2024 Napoli. Don Merola: “Ho tolto ai clan oltre mille ragazzi. Mi minacciano ma io non mollo” di Gennaro Scala Corriere della Sera, 30 aprile 2024 Al prete anticamorra hanno prima danneggiato e poi rubato l’auto. Rafforzata la vigilanza sia diurna che notturna. “Lo Stato non ci abbandoni”. L’auto prima danneggiata e poi rubata. Don Merola, ancora minacce? Ci risiamo? Cosa è accaduto? “Sotto casa alcuni giorni fa la mia auto, una Smart, fu forzata per portare via un lampeggiante che era all’interno. Poi, nella notte tra il 23 e il 24 aprile, l’auto è sparita”. Che reazione ha avuto? “Mi sono messo a cercarla insieme alla polizia ed è stata ritrovata a Scampia. Completamente inutilizzabile. Ho sentito Bruno Corda, il prefetto che si occupa dei beni confiscati che, a nome del ministro, ha annunciato che metterà a disposizione della mia fondazione due auto sottratte alla criminalità”. Don Luigi Merola, il sacerdote anticamorra, è il padre della fondazione “‘A voce d”e creature” grazie alla quale, in circa venti anni, ha salvato moltissimi ragazzi di strada. Ha vissuto sotto scorta a causa delle minacce della criminalità, in località protetta per anni e l’incubo non è finito. Anzi, è ritornato ancora una volta. Tanto che ieri il prefetto di Napoli, Michele Di Bari, ha disposto il rafforzamento della sorveglianza diurna e notturna. Dopo il furto ha chiesto di non essere lasciato solo. Come mai? “Perché sono un personaggio scomodo. Contro non ho avuto solo la camorra, ma a volte anche parte delle istituzioni. Con la fondazione togliamo la manovalanza ai clan, facciamo prevenzione sociale con la cultura, allo Stato chiedo di non indugiare sulla sola repressione”. Cosa manca per fare la differenza? “Bisogna investire sui bambini, perché nessun bambino nasce delinquente. In 18 anni abbiamo salvato 1.300 ragazzi dando loro un lavoro. E li seguiamo tutti. Molti lavorano nella Dlm (acronimo di Don Luigi Merola, ndr) ad Alessandria, un’azienda che si occupa di trasporti”. Quanti sono i ragazzi a rischio accolti nella fondazione? “Centocinquanta, tutti minorenni di età compresa tra i 6 e i 17 anni. Per loro facciamo un doposcuola a titolo gratuito. Da questo arriva l’appello a sostenerci. Spendiamo 300 mila euro all’anno e abbiamo dieci dipendenti a tempo indeterminato, ma siamo una realtà da preservare. L’evasione scolastica si è ridotta dal 40 al 18%”. Come si accede? “Dopo il decreto Caivano, grazie a una segnalazione che passa per il Tribunale. Prima, invece, dalle segnalazioni che arrivano dalle scuole”. Lei è diventato un sacerdote simbolo quando era a Forcella, minacciato dalla camorra per il suo impegno per il rione. Cosa l’ha portata a dichiarare guerra ai clan? “Ho 52 anni, a Forcella ci andai da 30enne. Mi accorsi che il controllo della criminalità era capillare. Una volta, mentre benedicevo una casa, mi fecero benedire anche le piante sul balcone: era cannabis, non lo sapevo. Quando chiesi spiegazioni mi risposero che quello era il loro pane. Denunciai ed ebbi le prime intimidazioni. Nei giorni seguenti cominciai ad andare a casa dei bambini che non andavano a scuola per portarceli io. Poi nel 2004 ci fu l’omicidio di Annalisa Durante. Fu un punto di svolta. In un’intercettazione si fece riferimento all’intenzione della camorra di volermi eliminare. Fui trasferito in località protetta e mi fu dato un altro lavoro. Con i soldi guadagnati in quel periodo, presi in gestione una villa confiscata a un boss per farne la sede della Fondazione”. Ma non si è mai tirato indietro... “Quando ho lasciato Forcella non sono andato in pensione. C’è ancora tanto da fare. Secondo me il procuratore Gratteri fatica a prendere sonno, per quanto c’è da fare a Napoli”. La scorta non ce l’ha più? “No, ho una vigilanza dinamica (ora rafforzata). Ma la scorta non si chiede, a una scorta non si aspira: avere la scorta significa che la società civile ha fallito. Il mio capo scorta si chiama Gesù”. Napoli. L’Associazione Jonathan: “Non fermate il progetto della barca dei ragazzi” di Antonio Averaimo La Repubblica, 30 aprile 2024 “Revocare l’ormeggio alla nostra barca a vela significa affondarla dopo 15 anni di vita. E questo, per noi, non è pensabile”. Silvia Ricciardi, responsabile dell’associazione “Jonathan”, che lavora a Napoli nel recupero di minori e giovani autori di reati, difende il progetto “Jonathan Vela” e ribadisce quanto già detto di persona al presidente dell’Autorità portuale Andrea Annunziata in un incontro chiesto in seguito alla revoca dell’ormeggio nella darsena Acton alla barca a vela Blue Marlin II appartenente all’associazione. A “Jonathan” l’Autorità portuale contesta di aver fatto pervenire in ritardo, rispetto ai termini previsti dalla legge, la richiesta per ottenere l’ormeggio nella parte della darsena riservata alle attività sociali. “La verità - sostiene Annunziata - è che ci si perde in un bicchiere d’acqua. Se c’è posto, glielo daremo. Non c’è alcun problema. Ogni anno si ripetono queste complicazioni perché la richiesta di ormeggio viene presentata fuori termine. Così anche rispettare la legge diventa un problema”. Dal canto suo, “Jonathan” ribadisce la posizione espressa nei giorni scorsi al presidente dell’Autorità portuale e poi nel suo “appello alla città”. “Sono diversi anni - dice Silvia Ricciardi - che presentiamo regolarmente la richiesta poche settimane prima della scadenza. Solo ora abbiamo scoperto che va fatto con almeno un mese di anticipo. Abbiamo anche chiesto scusa. Ma in tutti questi anni l’ormeggio ci è stato assegnato ugualmente, senza battere ciglio. Chiediamo semplicemente che si tenga conto di questo e che ciò ci venga concesso come un’attenuante, speriamo che si possa trovare una soluzione. Alternative, non ce ne sono: gli altri ormeggi costano troppo”. All’”appello alla città” dell’associazione ha risposto il sindaco Manfredi, che ha scritto una lettera ad Annunziata nella quale auspica una “possibile soluzione” capace di far sì che il progetto “Jonathan Vela” “possa proseguire nel tempo, consentendo ai giovani in questione di poter partecipare agli eventi sportivi programmati e per i quali si sono fortemente impegnati (i ragazzi delle comunità di “Jonathan” dovrebbero partecipare a inizio maggio alla Regata dei tre golfi, ndr)”. Anche il dirigente del Centro giustizia minorile di Napoli, Nicola Palmiero, ha risposto all’appello e ha scritto all’Autorità portuale e al quartiere generale della Marina militare di Napoli. Nella sua lettera, Palmiero ricorda le “attività formative e i percorsi di recupero” portati avanti da “Jonathan” in collaborazione con il Centro giustizia minorile di Napoli, tra cui figura anche il progetto “Jonathan Vela” (di cui sottolinea la “grande valenza educativa”) e chiede di “valutare di sostenere tali progettualità e individuare soluzioni che possano consentire di superare l’impasse burocratico”. Al quartier generale della Marina militare, il dirigente del Centro giustizia minorile chiede l’”individuazione di uno specifico spazio per l’ormeggio dell’imbarcazione”, alla luce di un accordo di collaborazione tra le due istituzioni. Una soluzione, questa, che consentirebbe di prendere tempo, in attesa che l’Autorità portuale dia una risposta definitiva sulla concessione dell’ormeggio. I responsabili dell’associazione incontreranno il comandante del quartier generale della Marina militare, comandante di vascello Aniello Cuciniello. “Jonathan” non solo insiste sull’assenza di alternative plausibili all’ormeggio nella darsena Acton - destinato proprio ad attività sociali - e sul fatto che la revoca sia frutto di un equivoco non chiarito, ma soprattutto sull’importanza del progetto “Jonathan Vela” per i ragazzi presi in carico nelle proprie comunità. “Questo progetto - dice Ricciardi - trasforma il “branco” della cronaca nera in equipaggio, insegna a questi ragazzi lo stare insieme e il rispetto delle regole. Non possiamo accettare di vederlo affondare”. Milano. “Bisogna aver visto”. Studenti universitari e detenuti alla scuola del carcere di Paolo Bustaffa difesapopolo.it, 30 aprile 2024 Una decina di studenti bocconiani si sono incontrati nelle scorse settimane in un’aula studio del carcere San Vittore di Milano con una trentina di carcerati. Il progetto è dell’ex ministro della giustizia Marta Cartabia: una decina di studenti bocconiani tra i 19 e i 20 anni si sono incontrati nelle scorse settimane in un’aula studio del carcere San Vittore di Milano con una trentina di carcerati tra i 28 e i 60 anni. È stato un inconsueto percorso fatto di ascolto, di confronto, di contatto con la realtà: il carcere si è fatto scuola. Non un “sentito dire” sulle condizioni di vita e sul pensiero di chi vive dietro le barre ma un contatto con persone che con la privazione della libertà pagano per gli errori commessi, per le ferite inferte ad altri e alla società tutta. Non un’iniziativa di volontari che entrano nelle carceri con l’ammirevole impegno di condividere una sofferenza e di portare oltre le sbarre la richiesta di un sostegno per riaccendere la speranza. Neppure un aggiornamento del grave sovraffollamento che al 31 marzo 2024 porta a 61.046 il numero dei reclusi, delle inadeguate strutture, della violazione di diritti umani, dei suicidi in carcere di detenuti e anche di agenti che nei primi mesi del 2024 hanno superato quota trenta. Certamente l’intento del ponte culturale tra Università Bocconi e San Vittore è prendere atto della realtà partendo da un’affermazione di Piero Calamandrei: “Bisogna aver visto”. Studenti e i detenuti hanno imparato l’uno dall’altro come rispondere all’indifferenza e all’immobilismo di gran parte della politica, delle istituzioni e della stessa opinione pubblica. Gli universitari bocconiani non si sono seduti da una parte ma in mezzo ai detenuti per ascoltarsi e per ascoltare: la loro è una testimonianza che parla ai compagni di studio, a coloro che formeranno la nuova classe dirigente. “Chi è davvero disposto a dare fiducia a dei detenuti?”: questa è stata e rimane la domanda che ha unito ma anche inquietato i sei incontri dietro le sbarre. Tra le risposte c’è quella del direttore del carcere, Giacinto Siciliano: “Bisognerebbe proporre che le aziende con un tot di dipendenti siano obbligate ad assumere un detenuto”. Non bastano le agevolazioni previste dalla legge Smuraglia per le aziende che assumono ex detenuti e sono molto pochi i tirocini retribuiti. Le otto studentesse e i due studenti della Bocconi “hanno visto”, tornati ai loro studi, saranno tra qualche anno e con altri coetanei la classe dirigente del Paese, una classe dirigente consapevole che la civiltà di un Paese si manifesta nella risposta alle domande di giustizia e di dignità che vengono dai luoghi della fragilità. Luoghi che “bisogna aver visto” e dalla cui cura si misura la grandezza di un popolo. Con sorpresa si ritrova il senso di questo percorso nelle parole ricche di dignità e di speranza che domenica 28 aprile Papa Francesco ha avuto nel cortile del carcere femminile della Giudecca a Venezia e, pochi minuti dopo, nell’incontro con gli artisti al padiglione della Santa Sede alla Biennale d’Arte di Venezia dal titolo “Con i miei occhi”. Come non scorgere il filo che unisce questi occhi al “Bisogna aver visto” di Calamandrei? La Spezia. “Dirimpetto. La rete dell’abisso’”, studenti e detenuti insieme sul palco di Marco Magi La Nazione, 30 aprile 2024 La sesta edizione di “Per Aspera ad Astra” a La Spezia si conclude con lo spettacolo ‘Dirimpetto. La rete nell’abisso’ al Teatro Civico, frutto dell’incontro tra detenuti e studenti delle scuole superiori. Un progetto promosso da Acri e sostenuto da Fondazioni bancarie, incluso il patrocinio del Comune. Un’opportunità di crescita e riflessione attraverso la cultura e la bellezza. La conclusione della sesta edizione di ‘Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza’, è affidata a uno spettacolo, ‘Dirimpetto. La rete nell’abisso’, scena giovedì sera, alle 21, al Teatro Civico. Così terminerà il progetto nazionale promosso da Acri e sostenuto da undici Fondazioni di origine bancaria, tra cui Fondazione Carispezia, per la prima volta, con il patrocinio del Comune della Spezia, l’evento finale del progetto approderà al teatro civico cittadino, aprendosi sempre di più all’intera comunità. All’interno della Casa Circondariale della Spezia la realtà de ha scelto di proseguire in questa sesta edizione l’incontro tra detenuti e studenti delle scuole superiori della Spezia, avviato nel corso del 2023. L’idea dello spettacolo - da parte de Gli Scarti - Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, che cura dal primo anno la direzione artistica del progetto - nasce dalla volontà di fare interagire nel campo del teatro due gruppi di persone - i detenuti di Villa Andreino e gli studenti delle scuole superiori della Spezia - che, grazie all’appoggio della direzione del carcere, hanno lavorato insieme. La ‘favola nera’ portata in scena, così come la definisce Enrico Casale, regista e direttore artistico di “Per Aspera ad Astra” alla Spezia, parla di due edifici divisi da un breve tratto di strada, casa di due rispettivi fratelli. Uno dei due, dopo aver perso una partita di pallone, uccide l’altro per invidia. Il fratello omicida, cacciato da quella strada che fino a quel momento l’aveva protetto, sarà costretto dai Padri a vagare da solo per il mondo. Fonderà una città, costruirà una casa, diventerà adulto e imparerà cosa siano i compromessi e cosa significhi prendere posizione in un ambiente imparato a conoscere solo a proprie spese. Per informazioni e per acquistare i biglietti rivolgersi al Teatro Civico, al Teatro degli Impavidi di Sarzana o online sulla piattaforma Vivaticket. Dalla Columbia alle nostre università, non reprimiamo le manifestazioni e il dissenso politico di Francesco Ramella Il Domani, 30 aprile 2024 L’idea che le università italiane siano in mano a studenti estremisti e rettori-don Abbondio è distorta. Tutti i dati sulla fiducia nelle istituzioni lo testimoniano. L’accampamento pro Palestina alla Columbia University ha finalmente messo nella giusta prospettiva, internazionale e generazionale, anche le analoghe proteste degli studenti italiani. Forse i fatti di New York consentiranno di sprovincializzare un po’ il dibattito di casa nostra, che fatica a cogliere gli elementi di novità di questa ondata di manifestazioni contro la guerra a Gaza. Queste dimostrazioni, seppure riguardando una minoranza di studenti, le cosiddette “minoranze attive”, esprimono sensibilità ampiamente diffuse tra i giovani italiani. Negli ultimi mesi le nostre università hanno conosciuto una mobilitazione senza precedenti da diversi anni a questa parte. Le manifestazioni pro Palestina, però, sono solo gli episodi più recenti. Nei mesi precedenti, infatti, le contestazioni avevano riguardato i temi dell’antifascismo, degli abusi, dei femminicidi e del cambiamento climatico. Palestina, antifascismo, parità di genere, ambientalismo sono infatti alcune delle tematiche, identitarie e distintive, di una generazione che si sta politicizzando sempre più. Alla luce di ciò, quello che colpisce nel dibattito pubblico è la completa assenza di una riflessione sulla condizione dei giovani in Italia e i motivi che alimentano le loro proteste. L’anno scorso l’Istat ha certificato il loro disagio, evidenziando come ben 4,8 milioni di persone tra i 18 e i 34 anni risultano deprivati. Perché, dunque, stupirsi se si mobilitano e protestano? Ostilità del governo - Fin dal suo insediamento, l’attuale governo di destra-centro ha manifestato nei confronti di queste proteste e delle forme “non convenzionali” di partecipazione e di intrattenimento dei giovani un atteggiamento di aperta ostilità, tendente alla criminalizzazione. Basti pensare al decreto anti rave, all’inasprimento delle pene contro i cosiddetti “eco-vandali” e agli allarmi lanciati sul rischio di una deriva terroristica delle proteste studentesche. Non va poi dimenticato che diverse di queste manifestazioni hanno suscitato una reazione decisamente sproporzionata da parte delle forze dell’ordine. A ciò si è aggiunta un’accesa campagna di stampa lanciata contro le università che hanno sollevato perplessità sull’opportunità, in questo periodo di guerra, di nuovi accordi di collaborazione con le università israeliane. Molti commentatori hanno accusato queste posizioni di antisemitismo e deprecato i “cedimenti accademici” nei confronti di minoranze di estremisti. Alcuni di essi sono arrivati a mettere in discussione il decentramento e l’autonomia universitaria, auspicando un ritorno a un controllo politico centralizzato degli atenei. A giudicare dai titoli di molti articoli apparsi nelle ultime settimane sui quotidiani, le università italiane verserebbero in una profonda crisi e nel caos più assoluto per colpa, da un lato, di rettori e “docenti-Don Abbondio” e, dall’altro, di minoranze ideologizzate e violente. Questa narrazione allarmistica è profondamente distorta e contraddetta da numerosi indicatori. Non ultimi i ranking internazionali che, proprio nelle scorse settimane, hanno certificato lo stato di “buona salute” delle nostre università. Anche la reputazione (e la dignità) degli accademici sembra tutt’altro che compromessa. Un recente sondaggio, condotto dal Centro Luigi Bobbio dell’Università di Torino, attesta che il 74 per cento degli italiani nutre fiducia nei confronti delle istituzioni universitarie e di ricerca. Tra gli studenti con più di 18 anni si sale addirittura all’80 per cento. In una epoca di profonda sfiducia istituzionale, i “picconatori” dell’accademia dovrebbero soffermarsi a riflettere su questi dati. Jhumpa Lahiri, sul Corriere della Sera, a proposito delle proteste alla Columbia University, ha ricordato la riflessione di Primo Levi sul dissenso. Vale la pena di rileggere questo passaggio tratto da Il sistema periodico: “Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze (...). Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale”. La diversità che oggi si esprime nelle proteste giovanili, perciò, non può essere ridotta a un problema di ordine pubblico. E chi dialoga con gli studenti che protestano, chi si apre al confronto con loro, anche aspro, non può essere accusato di “mancare di dignità”. È piuttosto vero il contrario. Perché sono la “dignità dei manganelli”, la protesta violenta, il fanatismo e l’intolleranza a incarnare la mancanza di coraggio. Quello necessario al dialogo e al dissenso non violento. Migranti. La fabbrica di scafiste immaginarie: Marjan, accusata dai suoi violentatori di Angela Nocioni L’Unità, 30 aprile 2024 Traduttori che capiscono fischi per fiaschi, testimoni che incolpano qualcuno di essere dell’equipaggio dei trafficanti e spariscono puntualmente senza che nessuno si preoccupi di averli per l’incidente probatorio. Ma come le fanno le inchieste a Locri? Deve esserci una ragione nell’ostinazione con cui i giudici si accaniscono su Marjan Jamali, una donna di 29 anni, di Teheran, in attesa di giudizio in carcere dalla fine di ottobre perché indicata come scafista durante gli interrogatori in banchina, subito dopo lo sbarco, da tre uomini irakeni che durante la traversata verso la Calabria hanno tentato di stuprarla. Dopo che questo giornale ha riportato la denuncia sporta da Marjan nei confronti dei suoi violentatori presi per oracolo dagli inquirenti nonostante si siano dileguati e resi irreperibili appena firmata la dichiarazione d’accusa, alla ragazza è successo di tutto. Prima è stata trasferita all’improvviso dal carcere di Reggio Calabria al reparto psichiatrico dell’ex manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto. Senza che fosse avvisato il suo difensore. Senza che fosse possibile farle incontrare suo figlio, di 8 anni, dato in affidamento a una famiglia afghana di Camini, in Calabria, la notte stessa dell’arrivo. Poi alla prima udienza del processo, svolto con rito ordinario perché la Pm Luisa D’Elia della Procura di Locri ha richiesto di procedere con giudizio immediato senza accogliere la richiesta di interrogatorio presentata nei termini di legge, quando il difensore ha sollevato la nullità degli atti tutti presentati all’accusata in una lingua che lei non conosce - eppure è abbastanza noto che a Teheran si parla l’iraniano - è stata sepolta in cella a Reggio Calabria ad attendere la prossima udienza fissata per il 17 giugno. Rigettata con mezza paginetta la richiesta, circostanziata e documentata, con cui veniva chiesta la sostituzione (e si noti: non la revoca) della misura cautelare. Mandatela nella comunità di accoglienza di Camini dove sta anche suo figlio, chiedeva accorato il difensore, Giancarlo Liberati. Mandatela con braccialetto elettronico se vi pare il caso, ma mandatela là dove può stare con il bambino. Niente da fare, “non è emerso alcuno novum” scrive il collegio del tribunale di Locri composto da Mario Boccuto, Raffaele Lico e presieduto da Rosario Sobbrio. Le novità ci stanno, eccome. Bastava cercarle. C’è la ricevuta di pagamento all’agenzia di Teheran del biglietto ai trafficanti, pagato dal padre della ragazza. 14mila dollari. Bastava fare una telefonata. Ci sono i testimoni, che vanno cercati. Certo, bisogna lavorare. C’è la logica: ma è credibile che sia una ragazza con un bambino iraniana a gestire una barca di maschi iracheni? Ed è credibile una accusa fotocopia di tre maschi sunniti contro una (bella) donna sciita? Tutti e tre subito indicati come violentatori da lei, rimasta inascoltata e fatta tradurre da un interprete che ignora il persiano, la sua lingua. A guardare le carte parrebbe che il Tribunale pur di non ammettere d’aver sbattuto in cella la ragazza senza uno straccio di indagine, si stia attrezzando a farcela restare il più possibile. Occhio, il Tribunale di Locri è una fabbrica di scafisti immaginari. Escono da lì una serie lunghissima di prime sentenze di condanna poi puntualmente smontate in appello a Reggio. Persone assolte perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto. Tutti giovanissimi, tutti con la vita distrutta, tutti costretti a passare mesi, anni in cella perché qualcuno ha fatto le indagini coi piedi o non le ha fatte per niente. Due casi: quello di Shami Mohammad, ragazzino siriano fuggito dalle bombe su Aleppo. Additato come scafista. In primo grado, il 15 giugno del 2023 (Gip Mauro Bottone condannato a 4 anni e 6 mesi. Condanna cancellata il 20 febbraio in Appello a Reggio Callabria per assoluzione con formula piena richiesta dal procuratore. bastava fare una telefonata per capire che non c’emtrava nulla con quell’accusa il ragazzo, ma quella telefonata gli inquirenti non l’hanno fatta. Era in carcere ingustamente dal 16 maggio del 2022. Oppure il caso di Ashoour Mahrous EldenasaouriCondannato in primo grado il 2 marzo del 2023 a 4 anni e 6 mesi (Gip Mauro Bottone) assolto anche lui per non aver commesso il fatto il 14 marzo del 2024. Era in carcere ingiustamente dal 4 giugno del 20121. A Marjan e a suo figlio, è successo questo. Nella notte tra il 22 e il 23 di ottobre 2023 salgono a bordo di una barca a vela di quindici metri insieme a un centinaio di persone. Il cibo scarseggia, quasi subito finisce l’acqua. Tensioni. Liti sottocoperta per accaparrarsi un posto dove circoli un po’ d’aria. Un giorno durante la traversata, Marjan - con il bambino accanto si sveglia di soprassalto sentendosi mani che le si infilano sotto i vestiti, la palpano. Lei strilla. Chiede aiuto alle persone stipate insieme a lei lì sotto. Solo un ragazzo la difende. Iraniano, come lei. Si chiama Amir Babai e la pagherà carissima. Dice ai quattro di smettere, di lasciarla in pace. Parte un litigio. Il bambino guarda immobile, terrorizzato. I quattro sono furibondi. Si chiamano Rahen Khalid Rasul, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish. Tutti e quattro iracheni. L’ultimo, Ali Bishwan Darwish, dice Marjan, era uno dei capitani. Il più violento, dice lei, era Rahen Khalid Rasul. Bishwan Darwish la minaccia: te la faccio pagare. Ci sono persone che possono confermare? Sì, dice Marjan. Sono tutti iraniani quelli che dopo l’hanno un po’ aiutata. Alì Hussein, Irfan Barzigar, Mortaza Abbasi ed Aronzo Abbasi. Qualcuno alla Procura di Locri l’ha cercati? Perché poi è successo che quando la barca è intercettata e i migranti nel porto di Roccella identificati, alla solita domanda che gli agenti di polizia fanno agli sbarcati “chi sono gli scafisti?” i tre a rispondere sono proprio, Rahman Izadi, Mohammed Lateef Hasan e Ali Bishwan Darwish, ossia tre degli aggressori della ragazza. E chi indicano? Lei e Amir Babai, l’iraniano che l’ha difesa. Ma si guardano bene dall’indicare gli altri due membri dell’equipaggio, loro connazionali che l’hanno fatta franca. Qualcuno al tribunale di Locri si è chiesto quanto siano attendibili le accuse di iracheni, maschi, sunniti contro due iraniani sciiti? E soprattutto, visto che sono state prese per buone quelle accuse (uniche prove per sbattere in galera due persone su cui non grava nessun altro indizio) qualcuno si è assicurato di avere gli accusatori a disposizione per un incidente probatorio comandato dalla legge? No. E gli accusatori, ovviamente, arrivederci e grazie e sono spariti. Questo succede tutti i santi giorni. Chi arriva da clandestino e viene identificato ha subito notificato il reato commesso (ex articolo 10 bis Testo unico sull’immigrazione). Non si ferma lì cortesemente ad aspettare di passare altri guai. Si allontana prima possibile. Qualcuno si è preoccupato di ascoltare la ragazza indicata come scafista? Eppure è strano che in una barca gremita di 100 persone comandi una ragazza. Nel verbale di identificazione c’è scritto che Marjan parla e capisce l’arabo. Non è vero. L’interprete è un iracheno, maschio, sunnita che forse non capisce bene il persiano che lei parla ma al verbale di tutto ciò niente risulta. Anche il nome è sbagliato: Maryam Qaderi, sta scritto nel rapporto, nata il primo gennaio del 1995. Sbagliati nome, data di nascita e sbagliato anche il nome del bambino. Bastava guardare nell’Iphone che la ragazza aveva con sé per trovare le foto dei passaporti con i nomi corretti e le date di nascita. Ma nessuno l’ha fatto. Gli accusatori vengono lasciati liberi di sparire, insieme a loro e a tutti gli altri spariscono pure i due scafisti iracheni. Insieme a Marjan e l’iraniano Amir che l’ha difesa vengono fermati due egiziani uno dei quali confermerà di essere uno scafista e forse, se glielo avessero chiesto avrebbe potuto dire che quei due iraniani erano dei passeggeri. D’altra parte basta fare due telefonate, una al padre della ragazza e una all’agenzia dove sono stati depositati i soldi per il viaggio - il cui nome, numeri di telefono ed indirizzi mail sono scritti belli grossi sulla ricevuta di pagamento - per verificare che qualcuno ha pagato 14mila dollari il viaggio di Marjan e di suo figlio: 9mila per lei e 5mila per il bambino. Niente di tutto ciò è stato fatto dagli inquirenti. Non sembra per la verità che nessuno abbia indagato un bel nulla, è stato soltanto preso per buono il verbale con le dichiarazioni dei migranti accusatori lasciati sparire nel nulla senza occuparsi di assicurarseli disponibili per un incidente probatorio come comanda la legge. Il 27 ottobre Marjan è stata fermata, il 30 il fermo è stato convalidato dal Gip di Locri, Mauro Bottone. Il bambino affidato dal Tribunale dei Minori a una famiglia afghana in una comunità in Calabria. Lei, iraniana, sciita, additata come trafficante dai tre iracheni, sunniti, che hanno tentato di stuprarla portata a Reggio Calabria, in carcere. Dove non è mai stato portato suo figlio fino ai primi di febbraio. Un bambino di otto anni, strappato alla madre dopo una odissea dall’Iran al porto di Roccella, dopo lo sbarco non ha visto sua madre fino a febbraio. Viene fatta istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare, perché almeno possa essere mandata ai domiciliari nella comunità con il bambino. Istanza respinta dopo nemmeno 24 ore in mezza paginetta dal gip di Locri. Viene anche chiesta la trasmissione degli atti in Procura con la segnalazione delle false generalità che avrebbe fornito Marjan sulla sua identità: come se fosse colpa di lei l’errore nel nome e non di chi le ha preso i dati senza nemmeno guardare il telefono dove le foto dei passaporti coi nomi c’erano. La ragazza da ottobre ad oggi non è mai stata sentita. Avrebbe molte cose da dire utili agli investigatori. Saprebbe indicare i capitani, i testimoni. Il suo difensore dice: “Ho chiesto l’interrogatorio alla pm Luisa D’Elia, siccome non mi rispondeva sono andato fisicamente lì il 28 gennaio, a chiederglielo di persona. Lei ha detto di no, che non l’avrebbe interrogata perché, mi ha detto, aveva già chiesto il giudizio immediato. Ma non era vero che il 27 aveva già depositato la richiesta di giudizio immediato. Anche se sull’atto c’è scritta la data del 26, la sua richiesta l’ha depositata in segreteria il 29”. Ora, a parte che il giudizio immediato si chiede quando le prove a carico dell’imputato sono schiaccianti, va notato che la pm ha chiesto il giudizio immediato senza aver nemmeno sentita l’accusata dopo che il difensore nei termini di legge ha chiesto l’interrogatorio. Marjan in carcere ha già tentato di ingurgitare overdose di psicofarmaci. Ha violentemente sbattuto la testa sulle mura della cella. Vuole vedere suo figlio, è preoccupatissima per il bambino. Il bambino, dicono dalla comunità dove sta vivendo, chiede sempre della mamma. La risposta al malessere è stata sbatterla per un mese di osservazione psichiatrica (poi dopo mille proteste ridotto a 15 giorni) in un ex manicomio criminale in Sicilia fregandosene altamente del fatto che il figlio della donna è in Calabria. Strana maniera di occuparsi della salute mentale di una detenuta in attesa di giudizio e mai interrogata da un magistrato, strana maniera di occuparsi anche del superiore interesse del minore. Qualcuno in Procura, in questi mesi, si è domandato come mai i tre accusatori che hanno indicato la “donna scafista” e poi sono stati lasciati liberi di rendersi irreperibili, nella loro dichiarazioni non hanno menzionato l’esistenza del bambino? Non si erano accorti che insieme a lei c’era un bambino di 8 anni. Migranti. La fabbrica di scafiste immaginarie: Maysoon, l’interprete allo sbarco ha tradotto male di Angela Nocioni L’Unità, 30 aprile 2024 I due iraniani che accusano Maysoon Majidi sono in Germania, se li è dovuti andare a cercare il difensore perché la procura di Crotone ha preso per buona la traduzione e l’ha sbattuta in carcere. S’è dovuta occupare dell’Italia l’altro giorno la Hana Human Rights organization, di solito impegnata a denunciare le violazioni dei diritti delle persone compite dal regime degli ayatollah di Teheran. Increduli di fronte all’incubo giudiziario in cui è rinchiusa una nota regista e attivista curda per i diritti umani, Maysoon Majidi, 27 anni, arrestata a Capodanno a Crotone con l’accusa di essere una scafista e da allora in cella a Castrovillari senza possibilità di spiegare il (chiamiamolo) equivoco, hanno dovuto metter da parte per qualche ora gli ayatollah e occuparsi della repubblica italiana, la nostra. “Dopo l’uccisione di Zhina Mahsa Amini da parte della polizia morale iraniana e l’ondata di proteste antigovernative in tutto l’Iran - spiega un appello della Hana Human Rights Organization - Maysoon Majidi ha intensificato le sue attività contro il governo iraniano, il che ha reso il Kurdistan iracheno non sicuro per lei ed è stata costretta ad andarsene con suo fratello. Si sono imbarcati per l’Europa, ma quando è arrivata in Italia, è stata arrestata con l’accusa di aver aiutato il capitano della nave. Hana Human Rights Organization conferma che Maysoon Majidi ha lavorato per il rispetto dei diritti umani in Iran e ha pagato insieme a suo fratello migliaia di euro per viaggiare in Italia, e questo è stato confermato dai suoi avvocati. Chiediamo, come organismo umanitario, alla magistratura italiana di tenere conto delle attività dei diritti umani di Maysoon Majidi e di ricordarsi che i trafficanti non pagano soldi. Chiediamo inoltre a tutte le organizzazioni italiane ed europee per i diritti umani e alla comunità internazionale di sostenere un attivista vittima dell’ingiusto sistema giudiziario e del governo della Repubblica islamica. Nel frattempo la magistratura italiana è responsabile del futuro di Maysoon Majidi”. Dopo aver chiesto invano da febbraio che la ragazza sa interrogata, il suo difensore, Giancarlo Liberati, il 23 aprile è andato di persona in procura a Crotone a cercare la pm, Rosaria Multari. Le ha chiesto di nuovo di interrogare l’accusata, le ha detto che la ragazza sta molto male, è dimagrita 13 kg, di rendersi conto della gravità del caso. Racconta che la pm Rosaria Multari gli ha risposto: “Eh in carcere si sta male, lo so”. Discorso chiuso, interrogatorio negato. A Maysoon è successo che l’interprete che avrebbe dovuto tradurre lei e due testimoni appena fermata in Calabria ha travisato quasi tutto quel che ha sentito. L’aveva anche rassicurata: “Tranquilla, ti liberano subito”. Non ci voleva molto a capire chi fosse quella donna. Basta digitare il suo nome in rete e piovono documentari suoi di denuncia della violazione dei diritti in Iran. Parla di lei il sito della Bbc, ci sono in rete molte sue fotografie. Ha manifestato a suo rischio e pericolo contro l’omicidio di Masha Amini ed è persona nota agli uffici Onu. In realtà sarebbe stato sufficiente chiederle, appena fermata a Crotone dalla Guardia di finanza, se parlasse inglese, lingua che lei conosce. Ma nessuno gliel’ha chiesto. Quindi è finita in cella con l’accusa di essere una trafficante di esseri umani anche se era una delle 59 persone stipate sottocoperta nella barca a vela incagliatasi senza affondare a Capodanno nella costa calabrese. Usando il tender di bordo lei ed altre quattro persone - incluso suo fratello e un cittadino turco, Ufu Aktur, che ha poi confessato di essere il capitano della barca a vela - sono arrivate a terra. La Procura di Crotone sostiene che due migranti a bordo l’accusano. I due, nel frattempo andati in Germania, rintracciati dall’avvocato Liberati, hanno raccontato di non aver mai detto che la ragazza era una scafista, ma di aver detto - interrogati appena fermati quindi che lei li aveva aiutati. Il 10 maggio ci sarà finalmente un incidente probatorio in video conferenza da Berlino. L’avvocato difensore Giancarlo Liberati dice: “Li ho rintracciati io in Germania e mi hanno mandato due video in cui spiegano che lei era una passeggera, stava sotto coperta come loro e che loro non hanno mai detto alla Guardia di finanza quel che viene loro attribuito”. Sarebbe stato sufficiente mettere a confronto l’accusata con i testimoni, invece ai due dichiaranti dalle cui parole travisate è stata estrapolata l’accusa, è stato permesso di lasciare l’Italia. Agli inquirenti di Crotone non è bastata nemmeno la confessione del cittadino turco, Ufu Aktur, che ha ammesso di essere lui il capitano della barca e ha spiegato che Maysoon Majidi era una dei migranti a bordo. Lei ha con sé la ricevuta del pagamento di 8500 dollari fatto per imbarcarsi. Hanno pagato 8500 dollari a testa lei e suo fratello in Turchia. Dopo averne pagati altri 15mila a dei truffatori per un viaggio mai fatto. Maysoon ha con sé anche un certificato dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, che dimostra che lei è una richiedente asilo. Laura Boldrini, presidente del Comitato della camera sui diritti umani: “Sono molto preoccupata per Maysoon che era già molto provata e dimagrita quando l’ho incontrata a febbraio in carcere. Un ragazza che si batte per i diritti delle donne in Iran, scappata in cerca di sicurezza e libertà che non si spiega come in Italia sia finita in cella con un’accusa così grave. C’è anche un’altra ragazza iraniana in carcere in Calabria con la stessa accusa, Marjan Jamali. Trovo davvero crudele che le venga negata la possibilità di ottenere i domiciliari nella struttura in cui vive il figlio di appena 8 anni. Temo che queste due giovani siano usate come capri espiatori di una guerra ai migranti che si accanisce su persone fragili e vulnerabili invece di colpire i trafficanti veri che rimangono al sicuro e indisturbati nei Paesi di partenza”. Migranti. Caporalato, gli schiavi nei campi a meno di un euro l’ora: il caso Piombino di Filippo Fiorini La Stampa, 30 aprile 2024 Piombino, da un ex resort diventato centro migranti i caporali reclutavano ogni giorno i braccianti per turni di dieci ore senza contributi né sicurezza. Il villaggio turistico La Caravella era un luogo di relax, poi è diventato un bacino per attingervi gli schiavi. “Due passi dal mare”, “una delle zone più belle della Costa Est”, “80 appartamenti”, “due piscine”, “solarium”, “un campo da tennis e un campo di calcetto”, si legge nell’annuncio dell’asta giudiziaria seguita alla messa in liquidazione, nel 2016, di questa struttura sull’Aurelia Sud, fuori Piombino, in provincia di Livorno. Una gara che andò più volte deserta, finché il resort fu acquisito da una coop e trasformato in un Cas, ovvero un centro di accoglienza straordinaria per migranti. “Sfruttando lo stato di bisogno degli ospiti”, “turni di oltre 10 ore al giorno, che si protraevano dall’alba al tardo pomeriggio senza pause”, “con retribuzioni inferiori a quanto previsto dai contratti collettivi, senza versamento di contributi, e paghe che in un caso arrivavano addirittura all’importo di 0,97 euro all’ora”, ma soprattutto, “caporalato”, è quel che si legge invece nel documento con cui, ieri, i Carabinieri hanno annunciato l’operazione “Piedi Scalzi”. Tutti uomini e stranieri le vittime. Tutti uomini e stranieri gli indagati. Sessantasette, per la precisione, sono le persone che quotidianamente e per settimane i militari dell’Arma e l’ispettorato del lavoro di Livorno e Piombino, hanno ripreso coi droni mentre veniva affidata loro, per esempio, una zappa negli orti del grossetano o un troncarami e un trattore negli ulivi e le vigne del livornese. Sempre “con sistematica violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene”, nonché senza formazione. A insospettire gli investigatori, è stato quello che hanno descritto come “uno strano via vai alle porte del Cas”. Da lì è nata tutta l’inchiesta. Tenevano sotto controllo il posto perché, tempo addietro, si erano susseguiti episodi criminali: l’accoltellamento di un operatore da parte di un rifugiato. L’ingresso abusivo di un irregolare e la pretesa, con minacce, di disporre di un alloggio. I nomi iscritti nel registro degli indagati sono dieci. Si tratta di pakistani che agivano in tre gruppi separati. Sei di loro avevano aperto una partita Iva, per operare in ambito agricolo. Gli altri quattro erano i caporali veri e propri: ogni mattina andavano al Cas, reclutando a discrezione i braccianti. Sono stati tutti arrestati, tranne uno che è latitante all’estero. Dai conti correnti delle aziende sono stati sequestrati 45 mila euro e l’Inps potrà disporvi per rifarsi delle tasse non pagate. Sempre secondo i Carabinieri, il prezzo di uno schiavo nel Sud della Toscana, oggi, “poteva variare tra i 3 e i 9 euro l’ora circa”, cifra che in un caso era scesa a 97 centesimi. I salari venivano corrisposti “con oltre 3 mesi di ritardo e in alcuni casi neanche versati”. Secondo la Cisl, la retribuzione media di un bracciante agricolo regolare, in orario di lavoro ordinario, è di 12 euro e può arrivare a 16. Per lo straordinario, che ovviamente in questo caso non veniva preso in considerazione, la media è 14 e il massimo 18. La vicenda ha suscitato notevoli polemiche tra i politici, che si sono scontrati sui temi dell’immigrazione e dello sfruttamento del lavoro. Da un lato, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, si è complimentato con gli inquirenti e ha sottolineato “l’impegno del governo Meloni per combattere lo sfruttamento dei lavoratori nel settore agricolo”. A Lollobrigida, si è unita la sottosegretaria all’Interno, Wanda Ferro, per cui “dietro alla retorica dell’accoglienza, si nasconde una realtà di sfruttamento e di degrado che nulla ha a che fare con la solidarietà”. Dall’altro lato, l’onorevole Marco Simiani, del Pd ha detto dell’esecutivo che “chi dovrebbe governare i flussi migratori per assicurare manodopera alle imprese, finanzia i lager in Albania con i soldi dei contribuenti. Chi dovrebbe verificare la legalità e l’umanità nei Cpr e nei Cas, si volta dall’altra parte”, e che “chi dovrebbe garantire il lavoro dignitoso, affossa in ogni modo il salario minimo”. Un report pubblicato dalla Cgil nel 2022, identifica l’agricoltura come il settore più soggetto al fenomeno del caporalato e tra gli stranieri la maggior parte delle vittime. Nel reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, recentemente introdotto, con pene da uno a otto anni e multe fino a 5 mila euro (di questo sono accusate le persone coinvolte nell’operazione di ieri), compaiono però sempre più spesso anche minorenni e italiani. Francia. Una legge per favorire i mafiosi “pentiti” come quella italiana di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 30 aprile 2024 Una legge sui pentiti che prende spunto “dal modello italiano della lotta alla mafia”. Il ministro della Giustizia francese Eric Dupond-Moretti lancia la sfida alle grandi reti criminali organizzate (grandi trafficanti di droga e di armi), annunciando la creazione di una procura nazionale ad hoc (Pnaco), sulla falsariga delle già attive procure antiterrorismo (Pnat) e contro i crimini finanziari (Pnf). “Questo nuovo strumento rafforzerà il nostro arsenale giudiziario per lottare al meglio contro la delinquenza di alto livello ma anche per imprimere un nuovo slancio alla nostra organizzazione giudiziaria”, spiega il ministro in un’intervista alla Tribune du Dimanche. A coordinare e dirigere tutte le attività del Pnaco ci sarà l’ex procuratore nazionale antiterrorismo Jean-François Ricard, nominato pochi giorni fa consigliere speciale del ministro; dovrà definire tutti i dettagli della riforma che verrà presentata in autunno. Ma Dupond Moretti ha voluto anticipare ai media francesi alcuni aspetti di questa grande riorganizzazione. Al centro del progetto la creazione di un vero e proprio “statuto dei pentiti” che si ispira esplicitamente alla legge italiana che ha permesso di colpire al cuore le cosche, in particolare Cosa Nostra. “In Francia esiste già una legislazione in materia ma è troppo debole e restrittiva e quindi poco efficace”, osserva il ministro, illustrando i limiti delle norme attuali: “I complici dei grandi criminali si trincerano nell’omertà a volte per convinzione o per “lealtà” verso i loro capi, ma molto più spesso per semplice paura, per se stessi e soprattutto per l’incolumità della propria famiglia, è venuto il momento di spezzare questo silenzio” . In sostanza quando saranno approvate le nupove norme , un magistrato avrà la possibilità di concedere uno status speciale a un pentito che “ha collaborato con la giustizia, rilasciando dichiarazioni sincere, complete e decisive per smantellare le reti criminali”. In tal caso la pena verrebbe ridotta (ma non meno di un quarto) e il pentito e i suoi familiari potranno godere di protezione da parte dello Stato che li assegnerà a residenza segreta, fornendo loro nuova identità e stato civile. Naturalmente lo status di pentito potrà venire revocato in qualsiasi momento dall’autorità giudiziaria : “Si tratta di un sistema completamente nuovo per la Francia, un sistema che ci permetterà di combattere con maggiore efficacia le organizzazioni criminali che operano sul nostro territorio”. Inoltre, alle corti di assise speciali, composte esclusivamente da magistrati di professione, verranno affidati non solo i processi per traffico di droga internazionale, come avviene già oggi, ma anche i cosiddetti i regolamenti di conti all’interno delle bande. “Ciò eviterà pressioni e minacce sui giurati cittadini che devono giudicare i presunti omicidi”. Infine verrà anche messa mano anche al codice penale con l’istituzione del reato di “associazione a delinquere organizzata”, punibile con vent’anni di reclusione, esattamente il doppio della pena per associazione a delinquere semplice. Per la prima volta da quando si è insediato a Place Vendôme nel luglio del 2020, Dupond Moretti riceve il plauso convinto da parte della magistratura d’oltralpe che, non meno di un anno fa, lo aveva denunciato per abuso di potere portando, caso più unico che raro nella storia della Quinta repubblica, un membro del governo davanti al tribunale dei ministri. Uno scontro istituzionale furibondo che si è concluso con la (logica) assoluzione del guardasigilli e con una specie di tregua armata tra le parti che non ha allentato la tensione. Dupond Moretti, che di professione è avvocato penalista, aveva denunciato alcuni giudici per violazione del diritto di difesa, definendo i magistrati in questione “dei cowboy che utilizzano metodi da vecchi spioni!” e inviando gli ispettori del ministero nelle procure chiamate in causa. Ora però questo clima di guerra aperta sembra lasciare spazio a un nuovo terreno di intesa tra il guardasigilli e le toghe d’oltralpe, anche per l’intervento personale del presidente Macron che all’indomani della sua assoluzione ha chiesto al sanguigno Dupond Moretti di moderare le polemiche e di assumere toni più istituzionali. “Possiamo affermare con soddisfazione che finalmente siamo stati ascoltati dal ministro”, si è rallegrato dai microfoni di France Info Ludovic Friat, presidente dell’Unione sindacale dei magistrati (Usm), salutando in particolare il nuovo statuto per il pentitismo: “Se vogliamo smantellare dall’interno queste pericolose organizzazioni, abbiamo bisogno di nuovi strumenti che permettano ai loro membri pentiti di collaborare con la giustizia senza timore di subire rappresaglie”. Medio Oriente. Netanyahu nel mirino della Cpi. Cosa rischia il premier israeliano di Enrico Franceschini La Repubblica, 30 aprile 2024 Secondo indiscrezioni circolate in questi giorni a Gerusalemme e Washington, la Corte Penale Internazionale starebbe valutando se incriminare il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per crimini di guerra e contro l’umanità commessi dallo Stato ebraico nella guerra nella Striscia di Gaza. Ecco una scheda per capire di cosa si tratta e cosa rischierebbe Netanyahu in caso di incriminazione. Che cos’è la Corte Penale Internazionale? - La Corte Penale Internazionale (Cpi) è un tribunale per crimini internazionali che ha sede all’Aia, in Olanda. Ha competenza su crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini di aggressione e genocidio. Rappresenta 124 Paesi che aderiscono allo Statuto di Roma, l’atto stipulato il 17 luglio 1998 che ha fondato la Corte Penale Internazionale definendone giurisdizione e funzionamento. Dunque non è un organo delle Nazioni Unite e non va confusa con la Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu, anch’essa con sede all’Aia. La Corte Penale può incriminare singoli individui. La Corte dell’Onu processa gli Stati: presso di essa è in corso il procedimento di accusa di genocidio a Israele per la guerra di Gaza, su denuncia inoltrata dal Sud Africa. Chi sta indagando la Corte Penale? - In base a indiscrezioni e dichiarazioni rese nei giorni scorsi dallo stesso premier israeliano, la Corte Penale Internazionale avrebbe aperto un’indagine su Netanyahu, sul ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e sul capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi. Tutti e tre potrebbero essere incriminati per crimini contro l’umanità, sia per l’alto numero di vittime civili tra i circa 34 mila palestinesi uccisi a Gaza, sia per gli ostacoli alla fornitura di aiuti umanitari alla popolazione della Striscia. Sempre secondo le indiscrezioni, la Corte potrebbe incriminare anche i capi di Hamas per l’aggressione nel sud di Israele del 7 ottobre scorso in cui sono morti circa 1.200 israeliani e ne sono stati rapiti come ostaggi 230, l’azione che ha dato inizio al conflitto. Cosa rischia Netanyahu? - Se incriminati dalla Corte Penale Internazionale, Netanyahu e gli altri due alti responsabili israeliani, così come i capi di Hamas, sarebbero innanzi tutto colpiti da un mandato di arresto internazionale: ciò significa che non potrebbero recarsi in nessuno dei 124 Paesi rappresentati dal tribunale penale dell’Aia. La Corte Penale non può processare individui in contumacia: occorre quindi che l’incriminato sia presente in aula. Tre dei Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu non hanno aderito alla Corte Penale Internazionale e non ne riconoscono la giurisdizione: Stati Uniti, Russia e Cina. Non la riconosce nemmeno Israele. Il premier israeliano ha già dichiarato che non accetterebbe l’azione della Corte Penale Internazionale, né si farebbe condizionare da un’eventuale incriminazione. In teoria, se processato, riconosciuto colpevole e condannato all’Aia, Netanyahu potrebbe ricevere una lunga sentenza carceraria. Ci sono altri casi simili? - Il più recente è stato l’incriminazione di Vladimir Putin: la Corte Penale Internazionale, dopo un’indagine sul campo, ha accusato formalmente il presidente russo per i crimini di guerra commessi dalle sue truppe nell’invasione dell’Ucraina, in particolare il trasferimento forzato di bambini ucraini in Russia. Il capo del Cremlino ha respinto l’accusa. Da allora non si è più recato in nessuno dei Paesi occidentali nei quali avrebbe potuto essere arrestato, dove per la verità, dopo l’invasione dell’Ucraina, sarebbe difficilmente andato comunque perché non benvenuto. Un altro caso simile è stato quello dell’ex-presidente della Serbia, Slobodan Milosevic, incriminato per crimini di guerra dal Tribunale Internazionale Speciale per l’ex-Jugoslavia, arrestato dalle autorità del suo Paese dopo avere perso il potere ed estradato all’Aia, dove è morto in carcere per un attacco cardiaco durante il processo. Un altro caso è stato quello di Radovan Karadzic, presidente della Republika Srpska (l’autoproclama repubblica dei Serbi di Bosnia), incriminato per crimini di guerra sempre dallo stesso Tribunale Speciale Internazionale per l’ex-Jugoslavia: a lungo latitante, arrestato a Belgrado nel 2008, nel 2016 è stato condannato a 40 anni di prigione, sentenza commutata in appello in ergastolo. Verrà incriminato Netanyahu? - Le indiscrezioni riportano forti pressioni diplomatiche sulla Corte Penale Internazionale, in particolare da parte di Stati Uniti e Regno Unito, affinché il premier israeliano e i suoi ministri non vengano incriminati, specie mentre continuano le trattative alla ricerca di un cessate il fuoco a Gaza e per la liberazione degli ostaggi israeliani. Alcune fonti sostengono che la possibilità di un’incriminazione ha già comunque influito sulle decisioni israeliane nelle operazioni militari nella Striscia, inclusa la facilitazione degli aiuti umanitari, anche se quest’ultima era già una reazione alle richieste presentate dalla Corte Internazionale dell’Onu nella prima udienza del processo per genocidio. Medio Oriente. Le imprevedibili conseguenze degli ordini contro Netanyahu di Guido Rampoldi Il Domani, 30 aprile 2024 Quando l’esercito israeliano pareva ormai prossimo a lanciare l’attacco finale su Rafah, ecco riapparire all’orizzonte il fantasma che rovina i sonni e i piani del governo Netanyahu: la giustizia internazionale. Tre mesi fa il tribunale dell’Onu, sigla Icj, aveva intimato a Israele di porre fine agli “acts of genocide” inflitti ai palestinesi. Adesso, seguito prevedibile di quella pronuncia, è un altro prodotto dell’universalismo liberale, la Corte penale internazionale, a incupire governo e stato maggiore. Stando ai media israeliani, premier, ministri e generali potrebbero essere presto colpiti da ordini di cattura internazionale per crimini gravissimi. Gli ordini di cattura si emettono, non si preannunciano. E quando si preannunciano, talvolta non si emettono. Sicché è possibile che chi ha messo sull’avviso Bibi volesse fargli capire che pagherebbe caro l’attacco a Rafah. Rinunci, come gli chiede Biden, o si troverà a condividere con Putin e con i generali sudanesi lo status di criminale internazionale. Sia o no questa la mossa dello scacco matto, mai come ieri sera un accordo per il cessate il fuoco pareva non impossibile. L’ingresso in scena della Corte penale internazionale (in sigla Icc) era stato richiesto da varie democrazie - le ultime: Cile e Messico - ma non pareva scontato. Il procuratore della Corte, Karim Khan, era apparso sul confine di Rafah, ma non aveva potuto varcarlo perché l’esercito israeliano aveva fatto sapere di non volerlo tra i piedi. Nondimeno qualche soggetto internazionale deve averlo aiutato a raccogliere prove, altrimenti non si parlerebbe di imminenti ordini di cattura. Il governo di Netanyahu li dà per certi, ne ha discusso domenica, e oggi il ministero degli Esteri ha messo in allarme le ambasciate: si teme, dice il ministro, che la decisione dell’Icc provochi ondate di “antisemitismo”. Che questa epoca offra ghiotte occasioni a giudeofobi e islamofobi è sicuro. Ma screditare preventivamente le accuse collegandole all’antisemitismo con un nesso di causa è una strategia che ormai funziona solo nei pochi paesi dove la destra israeliana gode ancora di ampio credito, come l’Italia. Altrove è sempre più difficile, per Bibi e sodali, contrastare l’incalzare d’un lessico che non lascia nascondigli: “acts of genocide”, crimini di guerra, crimini contro l’umanità… “Israele è diventato un paria internazionale”, dice il ministro degli Esteri giordano, e non pare affatto gongolare: quanto più il diritto internazionale smaschera il governo Netanyahu, tanto più diventa difficile, in Giordania e in Egitto, arginare proteste di massa dagli esiti non prevedibili: “Oggi scendono in piazza per la Palestina, domani potrebbero protestare contro Lui (il dittatore al Sisi)”, dice al New York Times Nabeh Ganady, legale di 14 attivisti arrestati al Cairo all’inizio di aprile. Sono infatti un’arma a doppio taglio, i diritti umani: se nei paesi arabi all’improvviso diventasse lecito difenderli perché Israele li calpesta, poi i regimi potranno continuare a terrorizzare i dissidenti con i sistemi tradizionali, tortura, omicidio, decenni di galera? Potrebbe aprirsi una partita interessante anche all’interno del radicalismo arabo, se la Corte penale internazionale raccontasse concretamente cosa è stato il pogrom di Hamas/Jihad: crimine contro l’umanità, e così ripugnante da far accapponare anche pellacce islamiste. In fondo questa è la vera funzione della giustizia internazionale: dare alle cose il loro vero nome, la definizione universale sulla quale possano convergere tutte le società, quale che sia il loro sistema di valori. Beninteso, non sarebbe irrilevante se dal giorno alla notte Netanyahu e i suoi ministri scoprissero di non poter viaggiare in alcuno dei 124 paesi che riconoscono la Corte penale, perché qualsiasi ufficio giudiziario sarebbe autorizzato a farli arrestare. Ed è comprensibile che il premier, così raccontano le cronache di palazzo, ora sia di pessimo umore: un cessate il fuoco gli toglierebbe definitivamente la possibilità, ancorché remota, di annichilire Hamas. Potrebbe cercare gloria militare nel Libano, ma intanto sarebbe più esposto alle pressioni occidentali perché il suo giverno riconosca uno stato palestinese, soluzione che i cinque sesti della Knesset al momento rifiutano. E dovrebbe rendere conto degli ostaggi morti sotto i bombardamenti, inutilmente. La sua sventura sarebbe la fortuna dei più vulnerabili tra i vulnerabili, gli ostaggi ancora vivi, e dei palestinesi di Gaza, quelli sopravvissuti all’ordalia. A questi ultimi il futuro riserva solo macerie, anche se la guerra finisse domani occorrerebbero 14 anni, calcolano tecnici internazionali, per sgomberare quel che resta, tra detriti e ordigni inesplosi, di tanti urbicidi. L’università di Gaza, per esempio, è una rovina. Ecco un tema cui in Italia potrebbero applicarsi con proposte concrete studenti che protestano e flemmatici presidi, non particolarmente turbati dal fatto che un’università sia stata intenzionalmente rasa al suolo. Medio Oriente. “La Cpi cambia rotta: è in gioco la sua legittimità” di Chiara Cruciati e Giovanna Branca Il Manifesto, 30 aprile 2024 Parla Triestino Mariniello, associato di diritto penale internazionale alla Liverpool John Moores University e parte del team legale che rappresenta le vittime palestinesi di fronte alla Corte penale internazionale. Stanno crescendo le voci di possibili mandati d’arresto della Cpi verso tre alti esponenti del governo e dell’esercito israeliano, il premier Netanyahu, il ministro della difesa Gallant e il capo di stato maggiore Halevi. Cosa ci si può attendere? Al momento sono solo voci, messe in giro da organi di stampa israeliani. È impossibile quindi per ora dire se i mandati d’arresto verranno spiccati, e quando. Quello che sappiamo è che l’indagine sta procedendo con la “massima urgenza”, con le parole del procuratore capo della corte penale internazionale Karim Khan. È plausibile che quando ci saranno mandati di arresto o ordini di comparizione riguarderanno crimini di guerra o contro l’umanità commessi dai membri armati di Hamas il 7 ottobre, e per quando riguarda gli israeliani dovrebbero incentrarsi su crimini - probabilmente di guerra - commessi dai cosiddetti coloni violenti. L’unico crimine che Khan ha citato a proposito delle autorità israeliane è quello di affamare intenzionalmente la popolazione di Gaza, ancora una volta un crimine di guerra. Credo sarebbe auspicabile, anche in qualità di rappresentante legale delle vittime, che indagini e mandati non abbiano un raggio d’azione corto ma vadano a coprire gli (ampiamente documentati) crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio commessi nella Striscia. Sarebbe invece preoccupante se, per esempio per quanto riguarda i bombardamenti, ci si concentrasse soltanto sugli attacchi sproporzionati, ignorando che le autorità di Israele hanno effettuato attacchi intenzionali e indiscriminati contro la popolazione civile. Sarebbe inoltre fondamentale che i mandati d’arresto non si concentrassero su specifici incidenti dimenticandosi del contesto in cui vengono condotte queste ostilità: un attacco sistematico su vasta scala che nasce con il blocco della Striscia di Gaza. Ne potrebbero far parte anche crimini commessi in precedenza nei territori, ovvero quelli segnalati dal team palestinese in questi anni e consegnati alla procura della corte? Ci sono già delle indagini in corso, aperte nel 2021, che riguardano gli insediamenti illegali, i crimini commessi da israeliani e palestinesi nel 2014 - durante l’operazione Margine protettivo - e a Gaza nell’ambito della Grande marcia del ritorno dal marzo 2018. La mia impressione è che però queste indagini siano finite nel dimenticatoio per scelta esplicita di Khan: da quando è stato eletto, anche dopo l’ottobre 2023, non ne ha mai parlato. Quindi il mio timore - e quello delle vittime che speravano in un intervento della Cpi in merito alle indagini aperte -, è che almeno per il momento non entreranno a far parte della nuova inchiesta. A darne notizia sono i media israeliani. Quale potrebbe essere l’obiettivo politico-mediatico di tale rivelazione? Le motivazioni sono molteplici: legali, giuridiche e politiche. Su un piano di politica estera e interna mi sembra, leggendo le parole di Netanyahu, che l’obiettivo principale fosse mandare un messaggio agli alleati di Israele, e al suo governo, più che alla Cpi. Come a dire: sono l’unico in grado di proteggervi dall’intervento della Corte penale internazionale. Mentre l’intento ancor più lampante nei confronti degli alleati è di spingerli a fare pressioni sulla Cpi. In particolar modo sull’ufficio della procura, ed eventualmente sui giudici nel caso in cui fosse già stata inoltrata la richiesta per l’emanazione dei mandati di arresto. Ci tengo a sottolineare che per ora queste pressioni stanno funzionando, almeno a vedere le reazioni negli Stati uniti di alcuni parlamentari ma anche della stampa. In primo luogo in un articolo a firma dell’editorial board del Wall Street Journal, e quindi del massimo organo di stampa dell’establishment economico e finanziario statunitense, che invita Gran Bretagna e Usa a fare pressioni sulla Cpi, ricordando a Khan che è stato eletto grazie a questi paesi. Finora il procuratore Khan era stato criticato per non essersi attivato con rapidità a fronte di una situazione drammatica e anche alla luce delle decisioni della Cig a fine gennaio. Cosa è cambiato? L’abbiamo criticato e continuiamo a farlo. Almeno fino a fine ottobre del 2023 Khan è sempre stato infastidito da questa inchiesta, era l’ultima fra le indagini aperte ad avere la sua attenzione. Non lo dico io ma i dati: il budget del 2022 non le destinava un euro, nel 2023 la somma era di 1/5 rispetto a quanto era stato destinato all’Ucraina - che non è nemmeno mai stata parte della Cpi a differenza dello stato di Palestina - e in generale meno di qualunque altra delle 10 indagini attive. Perché Khan abbia cambiato approccio lo capiremo dalla richiesta dei mandati d’arresto, che in sé non sono sufficienti: bisogna vedere contro chi saranno spiccati, e per quali reati. Sarebbe preoccupante uno scenario in cui vengono richiesti nei confronti di cosiddetti pesci piccoli, per reati riguardanti solo incidenti specifici nella Striscia. È comunque innegabile il cambiamento di rotta, dovuto alla gravità della situazione: non era più sostenibile per le pressioni della comunità internazionale, della società civile, le varie agenzie delle Nazioni unite. E inoltre perché la Corte di giustizia ha ritenuto che ci sia un genocidio plausibile. Khan ha probabilmente compreso che ci troviamo in un momento in cui è in gioco la stessa sopravvivenza della Cpi in termini di legittimità e credibilità dell’istituzione. Non è mai successo che mandati d’arresto della Cpi siano spiccati verso esponenti del governo e dell’esercito israeliani. Quali potrebbero essere le conseguenze legali e politiche di un simile terremoto? In termini giuridici significherebbe che qualsiasi paese che è stato membro della Cpi - parliamo di 124 stati - avrebbe l’obbligo giuridico di dare esecuzione ai mandati di arresto. È chiaro che questa sarebbe una fortissima limitazione per l’esercizio delle funzioni governative della leadership israeliana. È un rischio che poi va valutato nel medio e lungo periodo: se determinati esponenti politici - Netanyahu o altri - non dovessero più essere rappresentanti di governo, il pericolo per loro aumenterebbe, si ritroverebbero più isolati loro ma anche lo stesso stato di Israele. Ma l’effetto principale è quello della deterrenza: i mandati di arresto avrebbero una grossa efficacia in questo senso per quanto riguarda le violazioni nella Striscia di Gaza. E soprattutto l’invasione via terra a Rafah: se i mandati dovessero arrivare a breve io credo fortemente che le autorità israeliane rivedrebbero prima di tutto la loro decisione di attaccare la città. Iraq. Vent’anni fa le immagini da Abu Ghraib: ancora oggi quella tortura è impunita di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2024 Il 28 aprile 2004 il programma “60 Minutes” della rete televisiva statunitense CBS rivelò scioccanti immagini di prigionieri iracheni sottoposti a maltrattamenti e torture da soldati americani nel carcere di Abu Ghraib. Per 20 anni, a chi ordinò e a chi eseguì quelle torture è stata garantita una pressoché totale impunità. I soldati ritratti nelle fotografie sono stati condannati a qualche mese di carcere, il comandante della prigione - il colonnello Thomas Pappas - se l’è cavata con una multa e la radiazione dall’esercito. Ma un processo civile, iniziato il 15 aprile negli Usa, con enorme ritardo e dopo numerosi tentativi di archiviazione sin dal 2008, potrebbe portare a qualche novità. Sotto accusa è un’azienda privata cui era affidato l’incarico di interrogare i detenuti. I ricorrenti sono Suhail Najim Abdullah al-Shimari, As’ad Hamza Hanfoosh al-Zuba’e e Salah Hasan Nusaif al-Ejaili, tre civili iracheni - l’ultimo, un giornalista di al Jazeera - che trascorsero vari periodi di tempo ad Abu Ghraib prima di essere scarcerati senza accusa né processo. Semplicemente, non avevano commesso alcun reato. L’elenco dei maltrattamenti e delle torture che hanno denunciato di aver subito è spaventoso: scariche elettriche, violenza sessuale, diniego del cibo, minacce di essere aggrediti dai cani, obbligo di rimanere nudi, getti d’acqua ghiacciata e bollente, bastonate sui genitali, lunghi periodi di isolamento. Gli effetti, sul piano fisico e mentale, continuano a farsi sentire ancora oggi. In tutti questi anni l’azienda privata si è difesa affermando che la responsabilità delle torture ad Abu Ghraib ricadeva sulle autorità statunitensi. Ma a suo carico vi sono prove schiaccianti, come ad esempio le istruzioni date alla polizia militare affinché “ammorbidisse” i detenuti prima degli interrogatori. Dal punto di vista della prevenzione e della repressione del reato di tortura, negli ultimi 20 anni il mondo non ha fatto passi avanti. Lo vediamo bene anche in Italia, dove la norma rischia di essere cancellata. Pochi giorni fa Amnesty International ha pubblicato un rapporto sulle prigioni, nel nordest della Siria, in cui sono trattenuti 11.500 uomini, 14.500 donne e 30.000 minorenni catturati dopo la sconfitta dello Stato islamico: 56mila persone prive di diritti, tenute in condizioni subumane, spesso non accusate di alcun reato, talora vittime di reati commessi proprio dallo Stato islamico. Oltre a siriani e iracheni, ci sono cittadini di altri 74 stati. Meno di un quinto è stato processato, peraltro in modo del tutto sommario, sulla base di prove estorte con la tortura, senza neanche la presenza di un avvocato. In Israele ci sono circa 9.500 detenuti e prigionieri palestinesi. Duecento sono minorenni. Il 40% è in detenzione amministrativa senza accusa né processo. Molti subiscono torture e sono privati di cibo, cure mediche adeguate e contatti con le famiglie. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, almeno 40 prigionieri e detenuti palestinesi sono morti in custodia dallo scorso ottobre e spesso le autorità israeliane trattengono i corpi dei defunti senza restituirli alle famiglie. A febbraio l’Ufficio del difensore pubblico israeliano ha dichiarato che c’è “una crisi senza precedenti” nel sistema penitenziario, nel quale “persone condannate e in attesa di giudizio sono ammassate in ambienti inumani”; a causa di un “intollerabile sovraffollamento”, lo spazio a disposizione per ciascuna persona è di tre metri quadrati. L’esercito israeliano ha reagito a questa denuncia annunciando che saranno costruite altre 936 celle per i cosiddetti “prigionieri di sicurezza”. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha plaudito all’iniziativa, ma si è detto favorevole a una soluzione più radicale per risolvere il problema del sovraffollamento: la pena di morte. *Portavoce di Amnesty International Italia