E poi c’è anche chi non tortura mai di Giusi Fasano Corriere della Sera, 29 aprile 2024 Cosa ci lascia la sconvolgente inchiesta sui pestaggi nel carcere minorile Beccaria di Milano. Diciamoci la verità: dei detenuti non importa niente a nessuno, o quasi. Le condizioni di vita nelle carceri, per loro come per il personale che le gestisce, sono sempre state argomento di poche, lodevoli associazioni e mai fra i temi fondamentali di nessun partito. Esclusi i radicali, ovviamente. E così quando la cronaca impone racconti come quelli che arrivano dal carcere minorile Beccaria, i dettagli planano sul mondo esterno come rumori sulla neve, attutiti dalle mura e dalle sbarre che ci separano da tutto e tutti, là dentro. Ma se chiudi gli occhi un istante e provi a immaginare quei detenuti giovanissimi mentre subivano violenze e torture, finirai per vedere non delinquenti irriducibili (qualsiasi cosa abbiano fatto) ma ragazzini soli davanti allo strapotere di uomini in divisa. Violenze e torture, dicevamo. A parte le intercettazioni e le (parziali) ammissioni di colpa degli agenti penitenziari, un educatore ha raccontato alla nostra Elisabetta Andreis di volti tumefatti, labbra sanguinanti, sguardi spaventati o completamente spenti per gli psicofarmaci: “Un ragazzo era particolarmente irrequieto: è stato legato e pestato fino a massacrarlo di botte. Al mattino quasi non lo riconoscevo più... Ho chiesto alla direzione come era possibile trovare così spesso nelle celle sangue dappertutto... Non erano solo atti di autolesionismo... potevo intuire anche altro. Eppure dalla direzione mi sono sentito rispondere: “È più grave quello che fanno i ragazzi”“. Ecco. Davanti a dettagli come questi (e ce ne sarebbero di ben più cruenti) viene da chiedersi: dov’è il vecchio concetto della “rieducazione” a cui la detenzione dovrebbe tendere? Di quale rieducazione parliamo se il 40% dei detenuti fa uso sistematico di psicofarmaci e se nessuno si pone mai il problema della salute mentale in carcere? Come facciamo a legare il termine “rieducazione” con il dato dei suicidi: 85 nel 2022, 70 nel 2023, già oltre 30 quest’anno...? Va detto che nel mondo carcerario è tutto carente, a cominciare dall’organico degli operatori e dai corsi per la loro formazione. Ma su questo specifico punto però va anche detto che se sei una brava persona, se sei illuminato dal rispetto per gli altri, non partecipi a un pestaggio. Nemmeno se è stato un turno massacrante e se nessuno ti ha spiegato in un corso di formazione che non si fa. Una proposta rieducativa basata sul dare fiducia e responsabilità ai ragazzi “difficili” di Marta Cartabia* sistemapenale.it, 29 aprile 2024 Partiamo da un fatto. Poco più di un anno fa, il pomeriggio di Natale del 2022, sette ragazzi evadono dall’Istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria di Milano. Nella concitazione del momento, alcuni appiccano il fuoco nelle celle e nel cortile. In pochi giorni i ragazzi saranno rintracciati e rientreranno in carcere, ma quel 25 dicembre 2022 resterà una pietra di inciampo, anche per il valore simbolico del momento prescelto. Un fatto così induce a interrogarsi sulle ragioni della fuga e, soprattutto, a pensare a risposte adeguate. Ma la vera notizia è quella che don Claudio Burgio riporta senza alcuna enfasi in una pagina di questo libro: “ B., uno dei sette “babbi Natale” evasi, nel corso dell’anno è venuto ad abitare in Kayròs dove i cancelli sono aperti giorno e notte: nei mesi in cui è stato con noi, non si sono registrate fughe”. È paradossale, ma sorprendentemente reale: i ragazzi ribelli che riescono a evadere, sfuggendo a tutti i controlli e alle misure di sicurezza, non si allontanano da una comunità che lascia le porte aperte. Un ragazzo che evade dall’istituto penitenziario sa bene di correre rischi seri, ma la minaccia dell’inasprimento della sua condizione non riesce a frenarlo; eppure, quello stesso ragazzo, non fugge dalla comunità a cui è stato affidato, anche se sa di poterlo fare senza difficoltà. Questo contrasto suscita interrogativi ineludibili. Perché restare se te ne puoi andare? Perché l’attrattiva della vita normale della città, che si svolge a pochi passi dai cancelli della comunità, non prevale su quella della vita insieme agli altri ragazzi in difficoltà che risiedono a Kayròs? Gli interrogativi diventano ancor più pressanti se si considera che la scelta di B., di rimanere pur potendosene andare, non è un’eccezione isolata. Molte sono le storie di ragazzi che sono arrivati nella comunità Kayròs dopo tante peregrinazioni, fughe, fallimenti anche in altre realtà educative. Tuttavia, chi arriva a Kayròs tendenzialmente rimane. Questo fatto mi ha evocato l’esperienza brasiliana delle Apac, Associazione di protezione e assistenza ai condannati: una rete di realtà carcerarie dove i detenuti hanno le chiavi delle celle e dell’istituto. Il modello di detenzione delle Apac è riconosciuto tra i più riusciti al mondo. Per l’Onu rappresenta il più efficace sistema di recupero in assoluto. Qual è il punto comune di forza di queste esperienze? Una proposta educativa, o rieducativa (per richiamare il senso della pena come descritto nella nostra Costituzione), basata sul dare fiducia. Dare fiducia e responsabilizzare i ragazzi. “ Il nostro tentativo è quello di puntare più sulla libertà che sulle regole”: così si legge nel sito di presentazione della comunità Kayròs. E in effetti, se un ragazzo decide di rimanere per scelta, e non per costrizione, il suo percorso sarà più convinto e fruttuoso. Ho visto con i miei occhi cosa possa significare questa scommessa sulla fiducia in varie occasioni e in particolare durante le vacanze della comunità Kayròs a Valles, in val Pusteria, la scorsa estate. Poche regole essenziali e giornate dense, piene di proposte attraenti: rafting, mountain bike, piscina, biliardo, parco avventura. Per i più tenaci un trekking verso le cime più belle. La sera, dopo cena, del tempo per lavorare su sé stessi, che replica in qualche misura un momento centrale della proposta educativa di Kayròs: l’appuntamento settimanale della koinè, in cui si condividono esperienze, scoperte, fatiche, delusioni. In montagna, per stimolare il dialogo, si proietta ogni giorno un breve brano di un docufilm che racconta la storia di don Pino Puglisi, il sacerdote del quartiere Brancaccio di Palermo, assassinato dalla mafia a cui sottraeva, per attrazione, i ragazzi di strada. Al netto delle dovute differenze di contesto, le dinamiche sono le stesse che questi ragazzi vivono nelle periferie delle grandi metropoli, dove nella desolazione sociale si fa strada la possibilità di guadagno facile attraverso lo spaccio, i furti e le rapine. Dopo la proiezione, don Claudio non commenta, non fa prediche, non snocciola regole morali. Si rivolge a loro con una domanda soltanto: “ Perché don Puglisi ha rifiutato i soldi che gli volevano “donare”? Non ne aveva forse bisogno? Perché dire “no” a quel regalo?”. Una sola provocazione, per far pensare, per attivare il senso critico. Don Claudio è così: provoca continuamente la responsabilità di ciascun ragazzo. Non li trattiene con regole, minacce e sanzioni. Ma neppure lascia correre: li pone continuamente davanti alle loro responsabilità. Questo è lo stile della vita a Kayròs. Lo racconto con un episodio, piccolo ma emblematico, che si è svolto sotto i miei occhi. Durante le vacanze a Valles, la casa è autogestita e c’è da cucinare per un centinaio di persone: colazione, pranzo e cena. In cucina c’è Davide, del carcere di Opera, ora in semilibertà. Un metro e novantacinque, napoletano, viso aperto e allegro, sempre autorevole e accogliente con tutti. Con lui tanti volontari, mentre i ragazzi entrano ed escono in continuazione, per dare una mano o per chiedere qualcosa da mangiare. Uno di loro, A., sembra un bambino, eppure ha a suo carico imputazioni pesanti, per lesioni gravi e, credo di capire, tentato omicidio. 15 o 16 anni a malapena e l’indomani una udienza del processo. È teso, si apparta, non sta con gli altri ragazzi: Davide lo vede, lo chiama e si rivolge a lui non senza una certa ironia: “Tu che sai maneggiare così bene i coltelli [sic!], vieni ad aiutarci con le patate”. Si mette accanto a me e tagliamo venti chili di patate. Poi, quando abbiamo finito, Davide si rivolge a me e mi dice: “Dai, contiamo i coltelli per essere sicuri che siano rimasti tutti in cucina”. Ci sono tutti. Dare fiducia. Il primo frutto si vede nel fatto che questi ragazzi si aprono, raccontano il loro vissuto, il loro dolore, la desolazione e l’abbandono che li abita. Nel dialogo con don Claudio superano la diffidenza che istintivamente nutrono nei confronti di tutti gli adulti. Dare fiducia fa guadagnare fiducia: di don Claudio i ragazzi si fidano, perché sa trovare la chiave di accesso alle loro personalità ermetiche, e sa trovare il modo per consentire a ciascuno di “dirsi”. Se non riescono a farlo con le parole, don Claudio li invita a farlo con la musica: con il rap e il trap. Don Claudio è un musicista raffinatissimo, per anni responsabile del coro di voci bianche nel Duomo di Milano, ma non esita a misurarsi con le espressioni musicali più consone ai ragazzi, per noi adulti così ostiche. I ragazzi si riconoscono nei testi di Marracash e allora, perché non sperimentare un laboratorio musicale, in cui i ragazzi possano esprimere il loro vissuto? Marracash è il loro modello. Ma loro stessi si cimentano in prima persona e diventano autori di testi e di canzoni. Durante la cena di Natale 2023 don Claudio ha invitato alcuni dei suoi ex ragazzi: alcuni di loro ora sono sposati e giovani padri, altri si sono laureati e lanciati nella loro vita professionale, altri ancora sono tornati a Kayròs in veste di educatori. Vederli lì sul palco a parlare ai ragazzi più giovani, a condividere il loro cambiamento e la loro seconda vita è davvero un segno di speranza per tutti. Don Claudio chiosa con poche parole: “ Il bene esiste, e la vita di questi ragazzi ne è la prova”. Ed è proprio così: puntare sulla fiducia e sulla possibilità di cambiamento dei ragazzi “difficili” non è per sognatori, come siamo tentati di pensare. Sono le vite cambiate di questi ragazzi a vincere la nostra incredulità. Occorrono adulti autentici e credibili agli occhi dei ragazzi, capaci di rischiare tutto sulla loro libera decisione di stare alla proposta educativa che viene loro offerta. *Con l’autorizzazione della casa editrice, pubblichiamo di seguito il testo della prefazione della Prof.ssa Marta Cartabia al libro di Don Claudio Burgio, “Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Storie di cadute e di resurrezione”, San Paolo Edizioni, 2024. L’Autore del libro è Cappellano dell’Istituto Penale Minorile “Cesare Beccaria” di Milano e Presidente/Fondatore dell’Associazione Kayros, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti con l’obiettivo di offrire supporto e alloggio a minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i Minorenni, dai Servizi Sociali e dalle forze dell’Ordine. Calamandrei ha ragione: ai giudici serve l’anima di Donatella Stasio La Stampa, 29 aprile 2024 “Non sappiamo che farcene dei giudici di Montesquieu, etrés inanimés fatti di pura logica. Vogliamo i giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il giudicare”. Erano gli anni 60 del secolo scorso quando il mai troppo citato Piero Calamandrei, padre nobile della Costituzione antifascista, scriveva queste parole “sempreverdi”, tanto più in tempi come questi, in cui i giudici engagés sono accusati dal centrodestra di interpretazioni creative, di supplenza abusiva, di politicizzazione e di invasioni di campo. Il caso Apostolico - la giudice di Catania finita nel mirino per aver negato la convalida del trattenimento di un migrante, disposto dal questore sulla base del decreto Cutro - è uno dei numerosi casi di attacco politico al cuore del lavoro del giudice, l’interpretazione della legge, cui è seguito il rilancio di un modello di magistrato etre inanimé, distante dalla società, “bocca della legge”, apolitico ma allineato sempre allo spirito politico del tempo, stretto nella camicia di forza del sillogismo giudiziale, senza alcuna possibilità di respirare l’aria della Costituzione o del diritto europeo. Stando così le cose, non c’è da meravigliarsi se l’Associazione nazionale magistrati abbia deciso (non senza qualche mal di pancia delle correnti di centrodestra) di dedicare il suo prossimo Congresso del 10-12 maggio proprio a questo tema: l’interpretazione e il ruolo del giudice. Può sembrare roba da addetti ai lavori mentre riguarda chiunque abbia a cuore la democrazia, non una qualunque, alla maniera “illiberale” di Orbàn, bensì la democrazia costituzionale, basata su un sistema di pesi e di contrappesi in funzione “contromaggioritaria”, ovvero in grado di arginare esondazioni delle maggioranze politiche e di garantire il pluralismo e i diritti delle minoranze. Sono principi figli dell’antifascismo, giusto per dare concretezza a questa parola. Da questa idea di democrazia è nato anche un preciso modello di magistratura, autonoma, indipendente, responsabile, soggetta solo alla legge, ma che della legge è interprete e non semplice replicante. Un modello oggi sotto attacco con ispezioni e iniziative disciplinari, con sistematiche narrazioni delegittimanti di giudici e pm che sbagliano e non pagano, con l’annunciata riforma della separazione delle carriere e del Csm e con il rilancio, appunto, del modello del giudice bocca (solo) della legge (e per il resto imbavagliato perché il giudice, ça va sans dire, deve parlare solo con le sentenze). In questo contesto, la scelta dell’Anm è coraggiosa, anche se per certi versi inevitabile. Ma non è priva di rischi, perché la magistratura contemporanea è molto diversa da quella che, nel 1965, in uno storico Congresso svoltosi a Gardone, mandò un forte e chiaro segnale di emancipazione dal ruolo burocratico in cui l’aveva relegata il fascismo e che ancora sopravviveva in ampie fasce. A Gardone fu approvata all’unanimità una mozione che affermava un modello di giudice “consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur nella sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”. Il che ne faceva anche un soggetto “sociale”, attivo nel dibattito politico, sociale e culturale, che percepisce la valenza politica della sua funzione, anche rispetto all’equilibrio tra i poteri, ed è consapevole della sua indipendenza come strumento di tutela dei diritti di tutti i cittadini. All’epoca, l’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, ex magistrato, aveva 7 anni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, magistrato in pensione, ne aveva 18, e Giorgia Meloni, oggi presidente del Consiglio, non era ancora nata. Ma l’anagrafe è un motivo sufficiente per seppellire quella svolta storica e il modello di giustizia che ne uscì? È mai possibile demonizzare la possibilità dei giudici (e degli avvocati) di “inventare il diritto”, per dirla con Paolo Grossi, o di “interpretare la vita”, per dirla con Francesco Carnelutti? Il clima che oggi si respira, dentro e fuori la magistratura, non sembra favorevole ad una riaffermazione di quelle conquiste. Tra le toghe, anche a causa delle ripetute pressioni politiche, si sta facendo strada un’anima più burocratica, un diffuso sentimento di quietismo istituzionale, un’irresponsabile indifferenza, proprio il contrario di quanto diceva Calamandrei: “Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici, e in generale tutti i pubblici funzionari, è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima”. È il pericolo che viene dal modello del giudice “bocca della legge”, essere inanimato, appunto, macchina sillogizzante, proprio come potrebbe essere, oggi, un qualunque algoritmo. E in tempi di intelligenza artificiale non è una battuta. Vale la pena rileggere Calamandrei: “Ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire impoverirla, inaridirla, disseccarla. La giustizia è qualcosa di meglio, è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana. Ed è questo calore vitale, questo senso di continua conquista, di vigile responsabilità che bisogna pregiare e sviluppare nel giudice”. Anche i magistrati sbagliano. Colloquio con Pierantonio Zanettin di Giuseppe Ariola L’Identità, 29 aprile 2024 Non è solo questione di risarcimenti per l’ingiusta detenzione ma di responsabilità civile dei magistrati. Zanettin: “La carcerazione preventiva è un’anomalia, da attenuare con il garantismo”. Anche i magistrati sbagliano. Non è uno spot pubblicitario o il brand di una campagna discriminatoria nei confronti dell’ordinamento giudiziario. Lo dicono i numeri. I dati del ministero della Giustizia parlano infatti chiaro e sono impietosi: dal 2018 al 2023 in Italia almeno 4.368 persone sono state ingiustamente arrestate, tanto che lo Stato ha dovuto risarcire una somma di 193 milioni e 547 mila 821 euro a quanti sono stati immeritatamente privati della libertà. Donne e uomini che, nel frattempo, nella maggior parte dei casi, hanno perso tutto, dalla libertà al lavoro, passando, in molti casi, per la famiglia e gli affetti. Per non parlare della dignità e della voglia stessa di andare avanti e di guardare al domani di chi, ingiustamente, si ritrova umiliato in cella da innocente ed è costretto a difendersi da accuse per reati che non ha commesso. Si tratta di statistiche e distorsioni impressionati snocciolate, in un colloquio con L’identità, dal senatore e capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato Pierantonio Zanettin. “Forza Italia - puntualizza immediatamente il parlamentare azzurro, rimarcando la centralità che questa tematica ha per il suo partito - è da sempre molto sensibile al tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari. Abbiamo visto, dai dati resi noti a seguito di una ricognizione del ministero della Giustizia, che negli ultimi cinque anni ci sono stati quasi 200 milioni di euro di risarcimenti erogati per circa 4.300 casi verificati e ritenuti meritevoli di indennizzo”. È evidente che qualcosa non torna dinanzi a numeri esorbitanti come questi. “Va detto - ci spiga Zanettin - che questi casi di ingiusta detenzione riguardano quasi sempre la detenzione preventiva, un’anomalia tutta italiana”. La custodia cautelare domiciliare o in carcere, infatti, è una misura preventiva che, in quanto tale, viene adottata prima del processo, quindi senza che si sia stabilita la colpevolezza o meno non solo dell’imputato in un procedimento, ma addirittura di chi è ancora solamente indagato. Una misura che nel nostro Paese è pari a circa il 57% delle misure cautelari disposte in totale. Una distorsione che, ci dice ancora il senatore forzista, “come centrodestra cerchiamo di attenuare attraverso tutta quella serie poderosa di interventi in chiave garantista che portiamo avanti quotidianamente. Mi riferisco alle iniziative per una migliore disciplina delle intercettazioni, per un migliore utilizzo del trojan, per addivenire a metodi investigati trasparenti, lineari e rispettosi dei diritti dei cittadini, così da evitare errori giudiziari e, quindi, che ci siano casi di ingiusta detenzione. Da questo punto di vista Forza Italia nel panorama politico italiano è certamente il partito che, fin dalla sua fondazione, si è più impegnato sui temi della giustizia”. Eppure, davanti a un simile stato dei fatti, un’osservazione sorge spontanea: quando parliamo di ingiusta detenzione il presupposto, ovviamente, è che ci sia stato un errore giudiziario. Da qui alla responsabilità civile dei magistrati, questione da anni dibattuta con toni decisamente accesi nelle aule parlamentari, il passo è più che breve, conseguenziale. “C’è stato un referendum trent’anni fa - ricorda Zanettin - che è rimasto disatteso. Tutte le normative che da allora si sono succedute non hanno mai portato a una responsabilità vera da parte dei magistrati e su questo bisognerà ulteriormente lavorare per responsabilizzare di più i giudici quando sbagliano. Anche su questo il centrodestra ha lavorato affinché nei giudizi dei magistrati emergano gli eventuali errori giudiziari. Abbiamo chiesto che nelle cosiddette pagelle si tenga conto non solo delle gravi anomalie, ma dell’intero percorso disciplinare e professionale dei singoli magistrati, proprio per evidenziare se c’è qualcuno che sbaglia più di altri”. Ma se errare è umano, perseverare è diabolico. Quindi, in nome di tutte le vittime della malagiustizia, sarebbe auspicabile che si abbattessero quelle trincee invalicabili che erigono certe professionalità, ipso facto, ad entità superiori, semplicemente per sistemare alcune storture e fare in modo che i comuni mortali restino tali, senza rischiare di vivere ingiustamente l’inferno da vivi e, soprattutto, da innocenti. Così il Cnf guida le avvocature del G7 nell’appello per un uso corretto della IA nella giustizia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 29 aprile 2024 Al summit che ha riunito a Roma le rappresentanze forensi dei sette grandi indicata la strada per coniugare sviluppo tecnologico, giusto processo e deontologia. Il G7 delle avvocature, organizzato dal Consiglio nazionale forense e svoltosi a Roma, nella Pontificia Università della Santa Croce, il 16 aprile scorso, è stato dedicato all’Intelligenza artificiale e ai valori democratici. Nella giornata di studio e di dibattito le attenzioni degli esperti e delle delegazioni di avvocati giunti da diversi Paesi, Canada compreso, sono state rivolte all’impatto dell’IA sulla vita di tutti i giorni, senza tralasciare la professione forense e la giustizia. Come si concilia l’Intelligenza artificiale con l’etica, l’innovazione tecnologica e la tutela dei diritti della persona? A questa domanda hanno risposto gli ospiti italiani e stranieri del G7 delle avvocature. Tutti hanno ribadito un concetto molto chiaro: gli avvocati devono rafforzare la consapevolezza di essere, in questo momento storico, delle “sentinelle per la salvaguardia del diritto”. Non a caso il presidente del Cnf, Francesco Greco, ha sottolineato che occorre governare i nuovi fenomeni derivanti dall’uso dell’Intelligenza artificiale e non subirli. “Il G7 delle avvocature - commenta - ci ha consentito di confrontarci con i colleghi stranieri in maniera estremamente utile e costruttiva. Inoltre, abbiamo registrato, da parte dei colleghi giunti da tutta Italia, un grandissimo interesse su come approcciarci rispetto ai nuovi confini del sapere. L’IA è una grandissima novità e darà grandi benefici all’intera umanità. Nel campo del diritto e della giustizia alcune cose, però, vanno registrate. Quello che può valere per le discipline tecniche, per le discipline scientifiche e per le discipline mediche, non può essere applicato al diritto. Il diritto non è una scienza esatta e ingabbiarlo in alcuni schemi o principi sarebbe sbagliato. Questo discorso vale soprattutto per i sistemi giuridici come il nostro. Nei sistemi di Common law, basati sul precedente processuale, l’IA replica e agisce sulla scorta del pregresso. Pertanto, si applica meglio. Nel nostro sistema giuridico, invece, dove non vige il principio del precedente, l’Intelligenza artificiale che verrà applicata dovrà tenere conto dell’esame e della replica di ciò che esiste”. I cambiamenti ai quali stiamo assistendo possono indurre a guardare al futuro con qualche preoccupazione. Occorre, dunque, farsi trovare pronti. “Qualcuno - dice Francesco Greco - ha paragonato l’evoluzione tecnologica legata all’Intelligenza artificiale alla scoperta della scrittura o alla invenzione della ruota, come una invenzione capace di fornire al genere umano grandissime potenzialità di cambiamento e di miglioramento delle condizioni di vita. Noi avvocati ci troviamo di fronte a una nuova tecnologia e alcune preoccupazioni che ne derivano vanno affrontate con un approccio lucido “. Ecco perché l’avvocatura italiana, attraverso il Consiglio nazionale forense, si doterà dei migliori strumenti di Intelligenza artificiale da mettere a disposizione di tutti gli avvocati italiani. Nessun dovrà rimanere indietro. “Dobbiamo aprirci al futuro - sottolinea il presidente del Cnf -, dobbiamo essere capaci di confrontarci con le sfide che si presentano di volta in volta. Allo stesso tempo, dobbiamo essere ottimisti sul futuro della nostra professione in una società che cambia. Questo approccio ottimista dobbiamo anche trasmetterlo ai nostri colleghi, ai 240mila avvocati italiani. L’avvocatura pure in questo contesto, ne sono convinto, riuscirà ad essere al passo con la società che cambia e che si evolve”. Vittorio Minervini, consigliere Cnf e vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana, è molto soddisfatto per il livello della discussione e la qualità dei contributi che hanno caratterizzato il recente evento romano. “Il G7 delle avvocature - afferma - è stato un successo anche perché organizzato poco dopo l’approvazione dell’AI Act, la regolamentazione europea in materia di Intelligenza artificiale. Il livello della giornata di studi, grazie alla presenza dei rappresentanti esteri dell’avvocatura, è stato altissimo. Un lavoro prezioso per il successo dell’iniziativa è stato fatto dall’avvocato Nicola Cirillo. Il presidente del Cnf, Francesco Greco, ha intuito l’importanza del momento che stiamo vivendo. Da qui la possibilità di discutere con grandi esperti, come la professoressa Gatt che ha presentato proposte molto utili, e di assistere agli interventi della professoressa Paola Severino e del presidente emerito del Cnf Guido Alpa”. Nella deliberazione di qualche giorno da parte del governo del disegno di legge sull’Intelligenza artificiale c’è anche il contributo dell’avvocatura. “Gli atti processuali - osserva Minervini - devono poter essere letti non solo dal giudice, ma anche dal sistema. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, hanno saputo cogliere l’importanza del dato culturale emerso nel G7 delle avvocature e cioè che, innanzitutto, il giudice deve limitarsi all’attività preparatoria della decisione. L’avvocatura ha la necessità della creazione di un sistema di validazione di quelli che sono i sistemi di IA. Ci vuole una validazione degli atti di input, vale a dire la definizione di “dati puliti”. La digitalizzazione è importante perché consente sia nei nostri atti, ma anche soprattutto al giudice, di redigere delle sentenze che possano essere intellegibili da parte del sistema. Sono, quindi, molto importanti alcune fasi: la validazione dell’atto, il controllo dell’algoritmo, sapere come funziona, e poi l’output, conoscere quello che esce dal sistema che non deve essere casuale”. In questo contesto sarebbe utile la presenza di uno specifico organismo. “La costituzione di una Authority - spiega il vicepresidente della Fai - avrebbe la finalità di mettere in contatto il ministero della Giustizia, la magistratura con il Csm e l’avvocatura con il Cnf per lavorare su alcuni progetti e rendere sicuri i sistemi utilizzati dai magistrati, che riteniamo debbano essere messi a disposizione anche della nostra categoria professionale “. L’esigenza di una collaborazione armonica e di una omogeneità è molto sentita dall’avvocatura. Nella giustizia tributaria, per esempio, Prodigit rischia di creare diverse applicazioni, per magistrature diverse, dell’IA con una incomunicabilità tra i sistemi. Su questo l’avvocatura ha più volte espresso le proprie perplessità. L’importanza del dialogo tra le avvocature di Paesi diversi su temi strategici come l’Ia viene sottolineata da Daniela Giraudo, consigliera Cnf e capo delegazione presso il CCCBE (Consiglio degli Ordini forensi d’Europa): “Il confronto con le avvocature straniere rispetto al tema del G7 è stato estremamente arricchente sotto molteplici profili. Innanzitutto, ci ha concesso di confrontarci con sistemi giuridici e approcci diversi, inevitabile pensare, soprattutto in tema di decisioni dei magistrati, alla distanza tra i sistemi di Civil law e di Common law. Abbiamo, tuttavia, realizzato che le preoccupazioni e le riflessioni sull’IA sono assolutamente le stesse. La giornata di studi è stata apprezzatissima dai colleghi stranieri ed è stato riferito che quanto al grado di approfondimento e di speculazione sull’IA, oltre che ai rapporti con il legislatore e la politica in generale, l’Italia si pone in una situazione privilegiata, per grado di sensibilità al problema e di come lo stesso debba essere affrontato “. Le questioni legate alla presenza sempre maggiore dell’IA nella professione forense vanno affrontate con un impianto di regole comuni. “Ferma la constatazione che non si possono porre ostacoli al progresso - aggiunge l’avvocata Giraudo -, è emersa la necessità tra tutte le delegazioni di condividere un tessuto di regole che potranno e dovranno divenire una comune linea guida nel gestire il fenomeno in rapporto alla giustizia e alla tutela dei diritti, che non conceda mai alla macchina di sostituirsi all’uomo. Nonostante le differenze, è emerso con chiarezza che il dna dell’avvocatura è il medesimo e ha gli stessi timori, a prescindere dalle nazioni, dalla lingua o dai sistemi giuridici di riferimento. Il Cnf ha quindi proposto delle raccomandazioni che saranno oggetto di valutazione e l’auspicio è che la guida italiana possa portare a una forte, condivisa posizione che riunisca la voce delle avvocature”. Secondo la consigliera Cnf, i cambiamenti vanno governati. “Nel corso della storia - conclude Daniela Giraudo -, la figura dell’avvocato si è sempre contraddistinta per essere al centro di ogni cambiamento e rivoluzione. Calamandrei sosteneva nel 1956 che “in tutti i Paesi, il ruolo degli avvocati va sempre più assumendo un contenuto di natura sociale: il difensore, pur conservando un’inviolabile prerogativa di indipendenza, acquista sempre più nella società una posizione che non è soltanto di natura privata, ma anche di diritto pubblico” e, altresì, a mio avviso, una posizione di ordine costituzionale. La riflessione oggi appare di grande attualità. Il nostro ruolo ci porterà a proseguire nella funzione di tutela della società nel suo insieme e a ispirare tutte le avvocature a unirsi in un utilizzo dell’IA che non perda mai di vista la centralità della nostra intelligenza, unica e soprattutto irriproducibile”. L’AI è a “portata di tasto”. Vietarla è irrealistico, pensare a formazione critica di questo strumento di Lucilla Gatt Il Dubbio, 29 aprile 2024 Con l’evento del G7 delle Avvocature il Consiglio nazionale forense ha dimostrato di essere attento e sensibile di fronte ai cambiamenti in corso. Il Cnf, nella persona del Presidente Francesco Greco, ha portato l’avvocatura a discutere sul tema dell’Intelligenza artificiale in maniera competente e attenta: è doveroso, dunque, rivolgere un apprezzamento alla governance dell’avvocatura italiana per aver manifestato chiaramente la volontà di dialogare con l’università, con la magistratura e con tutte le istituzioni coinvolte nel processo di transizione in atto. Il G7 delle avvocature diventa, de facto, la sede in cui riflettere per prendere decisioni importanti, potenzialmente idonee a governare lo sviluppo dei sistemi di Intelligenza artificiale nel mondo legale. Qui e ora è stata lanciata una sfida: raccoglierla è un atto di responsabilità. Il tempo presente vede, infatti, la diffusione di sistemi di intelligenza artificiale cui è possibile delegare non solo, banalmente, la scrittura di un atto giuridico bensì interi processi decisionali a tutti i livelli compresi quelli politici (DDS-Decision Support System). La ricerca in questo settore corre senza sosta nel mondo industriale ma anche negli atenei e negli enti di ricerca dove è ormai chiaro il mutamento di passo sul piano metodologico anche e soprattutto nel dominio della ricerca giuridica: non più indagini isolate e individualmente condotte ma studi collettivi generati da team di ricercatori versati in discipline diverse, facenti parte di Centri di Ricerca e capaci di dialogare tra loro per la costruzione di un prodotto finale che contenga funzioni e dati provenienti da mondi fin ad oggi lontani: quello delle leggi, delle sentenze dei contratti, da una parte, e quello dell’informatica, della matematica, della statistica, della data analysis, dall’altra. L’IA è davanti a noi, già a nostra disposizione; è sui nostri pc e notebook posti sulla scrivania dei nostri studi legali. Se si lavora in “Windows”, il sistema operativo di Microsoft, e si utilizza il programma di scrittura “word”, che tutti i giuristi utilizzano costantemente e prevalentemente, ci si trova di fronte a un sistema di IA, denominato “Copilot”. L’estensione Copilot è a disposizione di tutti e si apre rivolgendosi all’utente con l’espressione “Chiedimi qualsiasi cosa”! Copilot è in tutte le applicazioni del c.d. Pacchetto Office. Con Copilot si può riassumere un documento, si può redigere la bozza di un atto giudiziario con l’utilizzo, per esempio, di documenti già scritti e presenti nella memoria del pc utilizzato o nel cloud personale. “Copilot” è Chat GPT4, perfezionato, sebbene sia ancora una c.d. GenAI, Artificial intelligence generica, non specializzata in ambito legale. È, però, chiaramente uno strumento potenzialmente utile per fare una ricerca veloce su database open access presenti sul web nonché per riassumere grandi quantità di testi o ancora per redigere una bozza di contratto o di lettera. CoPilot come le altre GenAI generiche (ChatGPT, Google Gemini, Perplexity, Claude 3) deve essere utilizzato con la consapevolezza della necessità di verificare l’output ottenuto dalla interrogazione posta (query, prompt): gioca un ruolo essenziale la formazione all’utilizzo di questi strumenti che, tuttavia, allo stato sono incapaci di offrire un risultato che possa considerarsi, dal punto di vista di un legale, come informazione affidabile in percentuali elevate e ciò perché si tratta pur sempre di GenAI addestrate su lingue straniere, materiali generici, istruzioni generali. Lo tesso CoPilot è stato addestrato ad allertare l’utente che lo interroga su questioni legali con il consiglio di rivolgersi pur sempre a un legale umano! Se la consapevolezza sulla fallibilità dell’AI è necessaria, è, altresì, evidente come l’AI sia già negli studi legali e sulle scrivanie dei giuristi (avvocati e non); l’AI è ormai a “portata di tasto”, e impedirne o vietarne l’uso non appare realistico, bisogna invece provvedere a una massiccia formazione sull’uso consapevole e critico di questi strumenti. Ciò che, invece, ci può domandare è come mai l’estensione CoPilot sia entrata nei sistemi operativi dei nostri pc senza che si avvertisse l’esigenza di regolarla sul piano normativo o, quantomeno, di limitarne l’uso solo ad alcune funzioni o ambiti tematici. Il problema si pone tenendo conto dell’approvazione del Regolamento Ue sull’AI di marzo 2024 nel cui ambito di applicazione il sistema CoPilot può senz’altro ricadere. Questo esempio ci permette di affrontare il tema degli strumenti di AI che, anche alla luce dei recenti interventi legislativi in materia di modellizzazione, lunghezza e sinteticità degli atti giudiziari (cfr.DM n. 110 del 2023), ben potrebbero essere utili agli avvocati. Non si deve temere di mortificare il contenuto di un atto giudiziario (sia esso uno scritto difensivo o un provvedimento giurisdizionale) accettando di configurarlo in un form condiviso perché il suo contenuto resterebbe sempre e comunque unico e originale, tagliato su misura per il singolo cliente dal singolo avvocato. La forma non uccide il contenuto ma semplicemente lo rende uniforme e più facilmente riconoscibile nonché leggibile dagli algoritmi di AI: va preso atto che si sta attraversando un ponte verso una configurazione delle informazioni, in particolare, delle informazioni giuridiche, che richiede un mutamento di paradigmi culturali in ambito legale. Ma la forza dei sistemi di AI sta, ovviamente, non solo e non tanto nella standardizzazione della struttura degli atti giudiziari quanto nel supporto al ragionamento giuridico del professionista. Su questo punto va trovato un accordo su cosa debba intendersi per ragionamento giuridico e su quali siano i materiali necessari al suo svolgimento: solo precisando questo aspetto è possibile affrontare il dilemma relativo a confini di liceità dell’uso di sistemi di AI in ambito legale e il suo corollario relativo alla responsabilità del professionista in caso non solo di abuso ma anche di “non uso” dei sistemi di AI. Là dove si ritenesse che una più rapida e puntuale ricerca e individuazione dei dati normativi rilevanti così come una più rapida e puntuale lettura degli atti di parte o, ancora, una più rapida e puntuale lettura di contributi dottrinali sul tema oggetto di analisi così come di materiali giurisprudenziali pertinenti, meglio se organizzati, gli uni e gli altri, per orientamenti rilevanti, possa essere un valido ausilio al professionista legale per la comprensione del problema giuridico e per la raccolta degli elementi utili al suo processo decisionale, allora si sarebbe fatto un passo avanti verso un approccio opportunistico in senso positivo ai sistemi di AI. Adottando questa prospettiva, si vede come la strada da fare sia ancora tanta ma non necessariamente lunga in termini temporali. Già nel mondo legale italiano stanno emergendo alcune sperimentazioni interessanti come quella di Giurimatrix. Sono sperimentazioni perfettibili ma ispirate dall’idea condivisibile che sia possibile realizzare per il mondo legale italiano uno o più strumenti di AI realmente utili per il ragionamento giuridico come sopra inteso, senza approcci timorosi ma al contrario considerando alcuni strumenti come una grande opportunità per migliorare la situazione italiana del sistema giudiziario e del mondo forense. Diffamazione. Epopea di un offeso di Ester Viola Il Foglio, 29 aprile 2024 Dove sta la diffamazione, quanto serve (e quanto costa) un avvocato, fino a che punto si può contare su un risarcimento. La procedura in ogni caso è lunga, e quasi mai vale la pena. Come ci siamo ridotti. Come siamo depressi, come ci pensiamo sfortunati, a che vita afflitta ci stiamo votando. C’è una perdita di fiducia verticale, chi ha l’ansia climatica, chi ha l’ansia del mutuo, chi fa un lavoro che non gli garba e gli pare di morire col burnout e poi non muore e continua a lavorare. È un clima opposto e simmetrico a quello degli anni Ottanta, pare sempre che qualcosa di tremendo e pesante stia per piombarci in testa, dopodomani, tra mezz’ora. Sono finiti gli ottimisti anche in America, yes we can no more. Si va a letto sempre più presto. La questione preoccupa non solo perché non siamo più di compagnia e stentiamo a fare figli o a tenerli su di morale, questi ragazzi, ma anche per conseguenze più immediate e cretine. Avrete certamente notato che ci è cambiato collettivamente il carattere, negli ultimi tempi siamo molto inclini al risentimento. Torti minimi ci fanno piangere, perfino leggere idee altrui che risultano sgradite fa l’effetto di prendere sassate. Uno non se ne accorge, serve pure un atto di umiltà per farsi l’autodiagnosi: appena sei triste, diventi moralista. È un’equazione infallibile. Il felice è distratto, l’infelice è moralista. Basta girarsi intorno. Ci si offende per tutto. Per il babbo, la mamma, per la figlia della sorella, per il cane se ti dicono che non può entrare al ristorante e tu insisti che è educato. Ci si offende per sé specialmente se non ci riconoscono come pezzo di umanità che soffre. Ci si offende per le maggioranze, le minoranze, per cose di scarso conto, per cose enormi che sfuggono all’umana possibilità di mutarle. Ci si offende per procura. Che hai fatto in questi anni? Mi sono offeso. È una pratica però che non si svolge più dal vivo. Nel passato per offendersi serviva almeno uno sgarbo, un pettegolezzo. Parlarsi. Conoscersi. Oggi è facile mortificarci anche senza innesco, senza polvere da sparo, avviene così, con naturalezza, come una forza di gravità. Ce le andiamo a cercare. Chiunque è a rischio di offendere il prossimo suo, volontariamente o per caso, succede anche indipendentemente da atti precisi di volontà. Ma come? - uno si dice. Offendo qualcuno senza sapere, senza capire, ignorando perfino chi è? Eppure, eppure. Conosciamo tutti qualcuno di intelligentissimo che su un social network è finito come Willy Coyote, schiantato contro un muro sul quale ha lasciato un buco a forma di ciò che era, mentr’era in fuga da invasati che gli rinfacciavano sbagli che non s’era accorto d’aver fatto. Abbiamo tutti un amico che poi ci ha detto “Ma io ho solo detto cose che potrei dire tranquillamente a cena e nessuno se ne scandalizzerebbe”, o che s’intratteneva a spiegarci (e a volte, illuso, pretendeva di spiegarlo anche ai commentatori offesi, furiosi, sdegnati) il valore iperbolico o antifrastico dell’affermazione per la quale l’internet per un giorno lunghissimo lo aveva massacrato. (Guia Soncini, L’era della suscettibilità, Marsilio). È successo che il diritto d’opinione s’è allargato a dismisura. Attraversa i mari, fende l’aere. Ester Viola è avvocata, collabora col Foglio, ha una posta del cuore su io Donna e una newsletter, “Ultraviolet”. Ultimo libro pubblicato, “Voltare pagina” (Einaudi 2023). Sputati metaforicamente in faccia, vilipesi sui social, è difficile non aver pensato mai una volta in questi anni: ti faccio causa! Ci siamo passati tutti. Sono perfino germogliati avvocati ad hoc, quelli che ti lisciano promettendoti grandi ricompense risarcitorie. S’è data una spropositata importanza a proporre tutti i giorni la nostra certa idea di mondo, solo i cafoni dello spirito non hanno opinione. Al prezioso parto segue poi il necessario schierarsi, pena un’ignavia percepita che è il peccato mortale totale. Nota a margine: l’indifferenza di cui si parla non è quella del secolo scorso, sorella cattiva della dignità. È un non prendere parte alle più fesse battaglie contemporanee. Incredibile ma ce ne dimentichiamo anche la fatica, delle opinioni, visto che al liceo eravamo pregati di averne, di opinioni, e i professori erano costretti a estorcerle nel giorno deputato, il compito in classe di italiano. Ma l’opinione online è un’altra cosa, più facile, più oliata. Intanto, è una scoperta americana del 2004, l’hanno fatta arrivare dalla California assieme ai social network. Prima della dittatura Zuckerberg, alle nostre opinioni non badava nessuno, neanche noi. L’opinione era una faccenda per nicchie professionali, dottrina per gli altri. L’uomo comune l’adoperava poco: la manifestazione del pensiero chiede sempre un minimo di pubblico e l’uomo comune non ce l’ha. Sei davvero invogliato a esprimerti, se non ti notano mentre ti esprimi? A Palo Alto avevano capito: per monetizzare bene gli articoli 21 del mondo si doveva risolvere il problema della vanità. Ci voleva una platea forzata per tutti. La crearono, ed eccoci qua: con la vita che dipende dai social, i fidanzati che si trovano sui social, i nuovi lavori generati dai social, la crisi dei giornali conseguenza dei social, la depressione infantile dilagante venuta dai social, e tutta la baracca non chiude mai, nemmeno quando te ne vai a Domineddio, perché ti rammentano pure quando sparisci. Esisti ancora, sui social. Anche i morti sono notificati. Non esiste un Ei Fu. Un sabato mattina dell’autunno 2014 ho annunciato, sul mio modesto feed di Twitter, il mio nuovo corso universitario: “Il mio corso, intitolato ‘Perdere tempo su Internet’, si terrà alla Penn University il prossimo semestre”; allegavo un link dove si poteva leggere la descrizione del programma: “Passiamo la vita davanti agli schermi, principalmente prendendo tempo: teniamo d’occhio i social media, guardiamo filmati di gatti, chattiamo e facciamo acquisti. E se invece usassimo tutte queste attività - cliccare, messaggiare, aggiornare il nostro profilo, navigare a caso - come materiale grezzo per creare opere letterarie avvincenti ed emozionanti? Potremmo ricostruire la nostra autobiografia usando soltanto Facebook? Potremmo scrivere un grande racconto saccheggiando il nostro flusso di Twitter? Oppure definire Internet come il più grande poema mai scritto? Utilizzando soltanto il nostro computer portatile e un collegamento Wi-fi, il corso verterà su una rivalutazione della navigazione in Internet senza scopo e la trasformerà alchemicamente in una importante opera letteraria. Agli studenti verrà richiesto di fissare lo schermo per tre ore, interagendo solo attraverso le chat Room, i BOT, i social media e LISTSERV. Per fornire un sostegno teorico alla nostra pratica, esploreremo la lunga storia della rivalutazione della noia e dello spreco di tempo attraverso la lettura di testi critici. Capacità di distrazione, versatilità (multitasking) e deriva senza meta sono da considerarsi requisiti obbligatori. Quando ho controllato poche ore dopo il tweet era diventato virale, accompagnato da commenti come “Ehi ma io in questa materia mi ci sono laureato”, e “Sarei il primo della classe”. Nel mio flusso compariva anche una richiesta per un’intervista da parte di Vice, intervista che ho concesso il giorno successivo. Poco dopo nella mia casella di posta elettronica ho trovato un messaggio del Washington Post; anche loro chiedevano un’intervista, e l’ho concessa. Da quel momento, tutti i giorni venivo inondato da richieste di interviste, che però ho declinato ad eccezione di alcune trasmissioni per le televisioni generaliste. Le esche che gettavo diminuivano, di conseguenza i media vennero colti da una frenesia alimentare che finì con il consumare sé stessa. Dopo le due interviste per Vice e per il Washington Post notai che una serie di siti notizie di seconda fila riproponeva sostanzialmente gli articoli di Vice e del Post nella loro interezza, infilandoci nuove frasi di apertura e chiusura, cambiando il titolo e aggiungendoci il nome dell’autore. Era una dimostrazione pratica non solo del modo in cui l’informazione si diffonde in un mondo di taglia-e-incolla, ma anche di quanto poco tempo impiega a degradarsi e diventare disinformazione distorta. dsmith, Perdere tempo su Internet, La storia successiva la conosciamo, confidenza divenne mala creanza ed eccoci qui, ogni giorno, naufragati in questo mare di gente sconosciuta che si odia da lontano, si insulta fino ai paccheri, trova i pretesti per la rissa. Le persone leticano tutto il tempo, lassisti contro moralisti. È un continuo ininterrotto. Per non parlare di quello che ti dicono dietro, come una salumeria di paese, ma più maligna, più precisa. E così, sputati metaforicamente in faccia, vilipesi sui social, è difficile non aver pensato mai una volta in questi anni: ti faccio causa! Ci siamo passati tutti. Sono perfino germogliati avvocati ad hoc, quelli che ti lisciano promettendoti grandi ricompense risarcitorie. Ti hanno mancato di rispetto? Hai episodi d’odio al passivo? Chiamami, diventi ricco. Finisco con le lunghe premesse. Questo lungo articolo è il mio invito alla rinuncia. A lasciar perdere, a non chiamare nessun avvocato, a trovare soddisfazione su altri livelli e speriamo a non offendersi mai più. La diffamazione a mezzo social - Sui social network, come nella vita: diritto di critica sì, espressioni offensive no. Scrivere che qualcuno è un camorrista, un corrotto, un prostituto non è consentito, nessuna indulgenza è prevista. Sono espressioni non tollerate dal vivere civile e dall’ordinamento, e se pubblicate possono senz’altro integrare il reato di diffamazione. Che vuol dire diffamare? Per il codice penale: offendere la reputazione e l’onore di una persona. È un reato tipizzato dall’articolo 595. Odiare, prima cosa, non si fa da soli. Non basta il diario segreto o lunghe conversazioni immaginarie in cui dai del coglione a qualcuno. Il soggetto che delinque dovrà comunicare con più persone in maniera effettiva. Dire/scrivere coglione in un contesto. A un destinatario identificabile. Questo contesto di quante persone è? Almeno due. Possono essere anche non presenti nello stesso momento. Altro requisito richiesto dalla legge per il puzzle risarcitorio è l’assenza del diffamato. Il coglione non ci deve essere. Bisogna che gli si parli alle spalle. Il momento della consumazione del reato è individuato nella consapevolezza, nella percezione da parte del terzo delle parole diffamatorie. Fin qui sembrerebbe quasi facile. Diventa meno facile se approfondiamo lo studio. Prendiamo proprio il termine: coglione. La diffamazione, una costruzione giuridica delicata. Dall’avvocato o dai carabinieri: l’alternativa per rispondere al bullismo online. Il processo penale, per competenza territoriale, nel luogo di domicilio dell’imputato. La legge non ha pazienza e non ha pietà. E non arricchisce mai nessuno Se io dico: “Quello è un coglione”, non c’è reato di diffamazione se chi insulta intende, con tale termine, il significato di ingenuo, sprovveduto (Cass. n. 34442/2017). E come lo sa il giudice che cosa intendono, dicendoti coglione? Esagero io o minimizza il magistrato? È una storia lunga, e principia da molto lontano. Intanto, siamo diventati iperemotivi. L’affezione è quella temperatura emozionale spesso invisibile che pervade tutte le situazioni sociali, come ad esempio quando entrate in una stanza e percepite una tensione “che si taglia col coltello”, per quanto non vi siano segni visibili di quella tensione. È simile a quando siete spaventati, e vi accorgete di avere i palmi sudati, una reazione tangibile che - eccettuate le strette di mano - è per lo più invisibile agli altri. I palmi sudati sono una pre-emozione dell’affezione, opposta alle emozioni conclamate che si esprimono urlando, ridendo, piangendo. Forse il più famoso esempio di affezione è la salivazione del cane di Pavlov, L’affezione è un insieme di lampi, sfumature, stati d’animo. È contagiosa, e passa rapidamente da un corpo a un altro, trasmettendo a chi sta vicino microemozioni e microsensazioni che sono estensioni pulsanti del nostro sistema nervoso. Le nostre vite online sono sature di affezione, le nostre sensazioni vengono amplificate e proiettate dal network. I nostri network wi-fi, veicoli dell’affezione, sono invisibili ma onnipresenti, e trasmettono attraverso l’etere pulsazioni e sensazioni che, una volta visualizzati sui nostri schermi, hanno il potenziale di tradursi in emozioni. Sarebbe lungo spiegare quanto la pratica di frequentare i social network sia iperemozionale, anche su una piattaforma così fredda. L’affezione spiega perché certe cose diventano virali nella rete. L’affezione, forza invisibile, rende contagiosa ogni cosa. (Kenneth Goldsmith, Perdere tempo su Internet, Einaudi) Perché scrivere insulti innocenti sui social può integrare diffamazione - Quello sui social è un particolare tipo di diffamazione. È punito con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 euro chi offenda l’altrui reputazione comunicando con il mezzo della stampa o con un mezzo di pubblicità. La Cassazione ritiene che i social network vadano considerati mezzi di pubblicità. Ergo: diffamazione aggravata. Per la giurisprudenza si configura un’ipotesi aggravata perché si tratta di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone (Cass. n. 50/2017). È una costruzione giuridica delicata, la diffamazione. Una costruzione molto sensibile, molto incerta, lascia uno strano spazio di manovra, all’operatore del diritto. Un esempio: dare del pregiudicato può integrare il reato di diffamazione, anche se lo stesso è indirizzato a un soggetto che sia già stato condannato con sentenza definitiva? Sì, se l’uscita appartiene a un contesto offensivo e diffamante (Cass. n. 475/2015). E non è un controsenso? Che vuol dire? Vuol dire che dipende. Come tutto, nella vita. Non vi dico in tribunale, come dipende. Agire in giudizio - A volte l’offesa è troppo forte e uno non resiste. Sono stato diffamato! Proprio io! Come osano! Hai deciso, devono pagare. Non si può lasciar correre così. C’è un’etica, va rispettata, una lezione questi bulli online se la meritano, così la prossima volta imparano. All’inizio è semplice. Raccogli le prove, devi solo estrarre uno screenshot della conversazione. In particolare del commento diffamatorio. Grazie al commento e al nominativo, le forze dell’ordine riescono a individuare chi ti ha diffamato. Con le successive indagini risaliranno al codice ID (paghi le tasse, questi sono i servizi minimi garantiti al cittadino), ovvero il codice numerico che identifica l’account di ogni utente iscritto a un social network e all’indirizzo IP, i.e. il punto da cui è registrata la connessione internet. Trovato il malfattore che ha offeso, dovrà essere presentata una querela, allegando come prova lo screenshot. Qui la prima scelta si impone alla vittima: vai da un avvocato penalista oppure ti rechi presso la caserma più vicina? Per un querelino fatto bene un avvocato chiede 1.500 euro, e tu dici: ma come? Tutti questi soldi? L’offesa è ancora calda, caldissima, ma non li vuoi pagare. La vita è un pendolo continuo tra compro e non compro. Vai in caserma dai carabinieri. Veloce, gratis, indolore. Veloce non tanto. Caserma dei carabinieri, ore 12.30 di mattina. Dopo tre ore di attesa ti ricevono. Ti chiedono che è successo perché hai la faccia di uno a cui non è successo proprio niente. Con la voce bassa da persona apertamente maltrattata rispondi: “In una conversazione social mi davano del coglione. Voglio denunciare”. I due carabinieri si guardano sottecchi, cercano di sopprimere un sorrisetto da compari ma hanno vent’anni e non ci riescono, stanno pensando in modo inequivocabile che se sei andato a fare una fila di tre ore in caserma, e per questo sei davvero un coglione. Bisogna ingoiare il rospo. Fare giustizia a questo mondo si paga o in soldi o in dignità. Dopo la presentazione della querela inizieranno le indagini volte all’individuazione del colpevole. Quando inizierà il processo penale (se inizia) potrai costituirti parte civile e chiedere un risarcimento del danno all’autore del reato. Qualche tempo dopo - Ce l’hai fatta! Inizia il processo penale! Nota a margine: sono passati quasi due anni da quel coglione, il processo è incardinato presso gli uffici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Ce). È lì che risiede l’aggressore, tu vivi a Brescia. Ora l’avvocato ti serve. Dai incarico e paghi parcella. Millecinquecento euro. Ti avverte che dovrai presenziare all’udienza. “Ma in che senso devo andare a Caserta? Da Milano? Sono io l’offeso, perché dobbiamo andare noi a Caserta?”. Perché sì. Competenza territoriale, si chiama. La competenza territoriale - Il giudice competente in caso di diffamazione sui social è scelto con un criterio preciso: il luogo del domicilio dell’imputato (Cassazione, sez. V, sent. n. 854/21). L’offeso si armi quindi di altra pazienza e apra il borsellino. La giustizia varrà bene due spicci. Dovrà prendere un aereo per Napoli, noleggiare una macchina in aeroporto se non vuole prendere venti treni, spostarsi fino in provincia di Caserta, trovarsi un hotel e pagare il soggiorno per presenziare all’udienza. Le stesse spese, anche per l’avvocato. A meno di non nominare un domiciliatario, ovvero un avvocato in loco. Un altro, oltre al tuo di fiducia. Anche lui, bisogna pagarlo. La spesa per sentirti offeso ammonta già a 3.500 euro circa. Qualcosa nella coscienza vacilla: la giustizia a questo mondo vale lo sforzo fatto per averla? Li rivedrai, tutti questi soldi d’avvocato, o li stai buttando? Speriamo bene. Il giorno dell’udienza - Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Il tribunale non è come te lo aspetti. La legge non ha stanze solenni, ha solo stanze piene di gente parecchio scocciata. L’offeso non sa cosa ci fa lì. Una scemenza successa due anni fa, manco ti ricordi come si chiamava quello, ma chi te lo ha fatto fare. Tu e il tuo avvocato sembrate Totò e Peppino con la morìa delle vacche. Ma come hai fatto a offenderti perché uno che non ti conosce ti ha dato del coglione? Peraltro, apprenderai dalla sentenza, che non ti sono dovuti soldi per esserti sentito offeso. Hai preso un abbaglio. Ti hanno detto coglione intendendo fessacchiotto. Il giudice aveva l’aria di essere amico dell’avvocato avversario: un dubbio gelido ti attraversa la schiena, ma non è che pure la giustizia funziona con gli amichettismi? Il prezzo dell’offesa - Ma se avessi vinto, cos’era il premio? Chi decide quando costa offendere? La quantificazione poggia sui criteri fissati dalle Tabelle di Milano in materia di danno da diffamazione a mezzo stampa (Cassazione, n. 18217/2023). Sono considerate un valido parametro per determinare il danno da diffamazione. Il tariffario dell’offeso considera la minore o maggiore gravità delle parole. In presenza di una diffamazione di tenue gravità l’importo risarcibile varia dai 1.000,00 ai 10.000,00 euro, nel caso di modesta gravità potrebbe essere riconosciuto un danno dal valore compreso tra gli 11.000,00 e i 20.000,00 euro, se la diffamazione è di media gravità la somma risarcibile può variare tra i 21.000,00 e i 30.000,00 euro, mentre in caso di offesa di intensa gravità il danno può essere quantificato tra i 31.000,00 e i 50.000,00. Infine, nell’ipotesi in cui venisse riconosciuta una condotta diffamatoria di eccezionale gravità il danno è liquidabile in importo superiore ai 50.000,00 euro. La gravità - E come si fa a stabilire quanto le parole malvagie ti hanno scorticato? Chi può dirlo? Come riesce un giudice a sapere come ti sei sentito quella sera? Si immedesima? Figurati. Lui ha il problema eterno della legge: oggettivizzare. Aggrapparsi da qualche parte per decidere. I magistrati faranno riferimento ai criteri individuati dalla giurisprudenza e dunque, ex multis, eccoli: il mezzo con cui è stata realizzata la diffamazione, la natura della condotta diffamatoria o la rettifica successiva, l’intensità dell’elemento psicologico. E l’intensità dell’elemento psicologico dove la prende? La natura della condotta? Ma che è la natura della condotta? Chi gli dice con certezza quale sia il grado di stronzaggine malevola di qualcuno? Appunto. Ma soprattutto: chi ha voglia di indagare? A quale giudice piacerebbe approfondire come ti senti dopo che ti hanno scritto coglione? Ma a chi importa, a parte te? E così scopri che la legge non ha pazienza e non ha pietà. E che non arricchisce mai nessuno. Che offendersi è peggio che soffrire, non serve a niente e ti sale pure la pressione. Le altre possibilità - Il tribunale non è come te lo aspetti. La legge non ha stanze solenni, ha solo stanze piene di gente parecchio scocciata. L’offeso non sa cosa ci fa lì. Una scemenza successa due anni fa, manco ti ricordi come si chiamava quello, ma chi te lo ha fatto fare. Come hai fatto a offenderti perché uno che non ti conosce ti ha dato del coglione? Il tariffario dell’offeso considera la minore o maggiore gravità delle parole. In presenza di una diffamazione di tenue gravità l’importo risarcibile varia dai 1.000 ai 10.000 euro. Nell’ipotesi in cui venisse riconosciuta una condotta diffamatoria di eccezionale gravità il danno è liquidabile in importo superiore ai 50.000 euro. Inutile pensare a mezzucci alternativi, evitarsi la causa con intimazioni micromafiose, agire da furbi e far telefonare da un avvocato e blandamente adombrare il sospetto: se non mi paghi procedo con querela. Si chiama estorsione. Peraltro, a parte il reato, gli avvocati hanno un codice deontologico che no, non consente di chiamare nessuno per dire: io ti denunzio! Ecco allora ristabilito un poco di principio di realtà: nessuno studio legale con un minimo di decenza e senso per la professione consiglierebbe niente, in caso di offese social. Perché la procedura è lunga, costa, urta i magistrati e fa fare brutta figura bagatellare, può finire dopo anni e ricavi, se tutto va bene, quattro pidocchi. In più: già i tribunali sono così pieni di carte che crollano, e sono lenti, le cause importanti dormono, ci mettiamo pure noi feriti nell’onore? Desistere, desistere, desistere. Siamo nell’èra in cui le cose si guastano rapidamente, e l’assolutismo morale è diventato cosa infantile. Mafie. Gratteri: “I boss si chiamano da una prigione all’altra, è il fallimento del sistema” di Giuseppe Legato La Stampa, 29 aprile 2024 L’allarme del procuratore di Napoli: “In questo momento nei penitenziari ci saranno cento telefonini attivi. Così i capimafia mantengono rapporti e danno ordini. E all’interno lo spaccio è diventato business”. Difficile accettare che “detenuti di mafia organizzino chiamate collettive anche da carcere a carcere mentre fuori si conduce una battaglia per arginare profitti e reati delle organizzazioni”. E ancora: “È ormai più facile gestire una piazza di spaccio in carcere che fuori”. Il procuratore di Napoli Nicola Gratteri parla apertamente di “fallimento” del sistema carcerario italiano, ridotto ormai a un colabrodo. Tra droni, palloni imbottiti di device e sim card lanciati nei cortili del passeggio, il quadro “è allarmante”. Telefoni, microtelefoni, droga. In carcere, in Italia, entra di tutto dottor Gratteri. Cosa sta succedendo nei penitenziari del nostro Paese? “Cominciamo col dire che mediamente in ognuna delle strutture italiane ci sono 100 telefonini attivi in questo momento”. Su centonovanta istituti nel nostro Paese il calcolo restituirebbe una cifra drammatica... “È l’amara realtà dei fatti”. Partiamo dalla droga: dall’hashish alla cocaina, fino al mercato del Subutex, un farmaco che ha effetti simili al metadone. L’immagine di molte carceri sembra quella di una piazza di spaccio. È cosi? “Il traffico di sostanze stupefacenti dentro i penitenziari è diventato un vero e proprio business. È più facile oggi gestire una piazza di spaccio in carcere, dove i detenuti di spessore hanno a disposizione una nutrita manovalanza di detenuti di minore levatura per la gestione, che in una singola città ove le rivalità tra clan ne riduce la loro potenzialità”. Risultato? “I capi si arricchiscono e i detenuti tossicodipendenti invece di essere curati continuano a drogarsi in ambiente che dovrebbe invece essere deputato al loro recupero”. Un fallimento? “Ne sono assolutamente convinto”. E poi ci sono i telefonini. Più di duemila sono stati ritrovati nell’ultimo anno nelle celle... “La situazione è allarmante, non c’è bisogno di ripeterlo”. Siamo tornati ai tempi del Grand Hotel Ucciardone? “La domanda non è retorica, ma pertinente a una storia che si ripete, con i dovuti adattamenti, uguale a se stessa”. Bastano gli strumenti attuali per combattere il fenomeno? “Dire proprio di no”. Cosa servirebbe? “È oltremodo necessario recidere definitivamente il fenomeno con la predisposizione di jammer con i quali poter impedire ai telefonini, in possesso illecitamente dei detenuti, di poter ricevere e comunicare”. Che posta c’è in gioco? “Il pericolo è la possibilità di poter decidere le sorti di un carcere anche con soli pochi telefonini, mai in possesso di capimafia ma da loro comunque utilizzati, con i quali detenuti di alta e media sicurezza, per i quali dovrebbe esistere la netta separazione, organizzano la commissione di reati, proteste e spedizioni punitive per accrescere il loro carisma penitenziario e mafioso”. Può citare esempi? “Ci sono detenuti appartenenti ad organizzazioni mafiose che organizzano incontri telefonici, anche collettivi e finanche tra carcere e carcere. In alternativa pensiamo al fatto che nel carcere di Rossano, ove esistono reparti di alta sicurezza per mafiosi e per terroristi internazionali, di recente sono stati rinvenuti complessivamente circa 140 telefonini”. Che immagine ci restituisce quanto sta dicendo? “Un capomafia, inserito nel circuito dell’Alta Sicurezza, riservata essenzialmente a soggetti di elevato spessore criminale, che ha nella disponibilità un telefono cellulare rappresenta il sunto di un fallimento. Con l’occhio rivolto alle dinamiche extra-murarie, i boss riescono agevolmente a mantenere vivi e vitali i rapporti criminali - impartendo ordini e contribuendo alla commissione di nuovi reati satellite - nonché ad accrescere il loro prestigio e, di pari passo, il vincolo associativo stesso. Credo assolutamente si debba parlare di fallimento, o, forse meglio, di un duro colpo che la criminalità di stampo mafioso sferra allo Stato, nella sua perenne e gravosa lotta a tale abietto fenomeno”. Perché? “L’immagine del mafioso che diventa - se possibile - ancor più autorevole, in grado di esibire pienamente il proprio potere, ancor più percepito giacché esercitato da dietro le sbarre, in barba all’amministrazione penitenziaria e allo Stato stesso è scoraggiante e mortificante per tutto l’apparato che cerca invece di elidere i contatti con l’esterno attraverso la carcerazione”. Puglia. Innocenti in carcere, è boom: casi triplicati tra Bari e Foggia di Ciriaco M. Viggiano L’Edicola del Sud, 29 aprile 2024 Arrestati, finiti nel tritacarne mediatico-giudiziario, poi scagionati e infine risarciti dallo Stato: è un’esperienza traumatica quella che in Italia ha riguardato 619 persone nel solo 2023 e ben 31.175 dal 1991 al 31 dicembre dello scorso anno. Il dato emerge dall’ultimo dossier stilato da errorigiudiziari.com, l’associazione che da oltre 25 anni fa luce sul dramma degli innocenti in cella e che ora lancia l’allarme anche su Bari e dintorni, dove i casi di ingiusta detenzione risultano quasi triplicati nell’arco di 365 giorni. Per comprendere la portata del fenomeno bisogna analizzare i numeri. Dal 1992 al 2023, in Italia, oltre 974 persone l’anno sono finite in carcere pur essendo completamente innocenti. Per indennizzarle, lo Stato ha versato riparazioni per circa 875 milioni complessivi, pari a una media di 27 milioni e 328mila euro l’anno. Nel 2023 i casi di ingiusta detenzione sono stati 619, cioè 80 in più rispetto al 2022, per una spesa di 27milioni e 844mila euro, pari a circa mezzo milione in più. E in Puglia e Basilicata che cosa succede? Il dato più preoccupante riguarda il distretto di Corte d’appello di Bari, dove le ingiuste detenzioni accertate passano dalle otto del 2022 alle 20 del 2023 con una spesa in indennizzi che ha superato i 548mila euro: un valore, quest’ultimo, più che decuplicato, visto che nel 2022 si aggirava intorno a “soli” 51mila euro. Situazione pressoché immutata a Lecce, dove i casi di innocenti in cella calano da 33 a 31 mantenendosi, dunque, nella media storica salentina che oscilla tra i 25 e i 40. Qui, però, l’esborso è ben più consistente rispetto a quello fatta segnare da Bari: si parla di poco meno di un milione e 180mila euro. La spesa relativa a Lecce, è comunque, in linea con quella fatta segnare nel 2022, quando per indennizzare gli innocenti arrestati ingiustamente sono stati spesi un milione e 42mila euro. Quanto a Taranto, i sei casi di ingiusta detenzione registrati nel 2022 risultano confermati nel 2023, per una spesa di poco superiore a 185mila euro. Anche in questo caso la cifra sborsata dallo Stato per indennizzare le vittime di malagiustizia è in aumento di circa 15mila euro. Passando alla Basilicata, a Potenza si contano tre casi: un numero in linea col dato storico, per una spesa che si aggira sui 60mila euro e risulta in leggerissima flessione rispetto a quella del 2022. Le statistiche messe insieme dall’associazione errorigiudiziari.com rivelano innanzitutto un aspetto: il numero delle ingiuste detenzioni e delle riparazioni torna ad aumentare, seppure leggermente, ma è difficile immaginare che si tratti esclusivamente di un processo virtuoso del sistema. Assai più probabile, invece, è che la pandemia continui a far sentire i suoi effetti sull’attività giudiziaria a tutti i livelli, dunque anche sul lavoro delle Corti d’appello incaricate di smaltire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Ma un discreto peso su questo calo dei casi lo ha soprattutto quella tendenza restrittiva secondo la quale lo Stato respinge la stragrande maggioranza delle domande presentate o comunque tende a liquidare importi sempre molto vicini ai minimi di legge. La seconda osservazione riguarda il distretto di Corte d’appello di Bari che comprende, oltre il Tribunale del capoluogo, anche quelli di Trani, Lucera e Foggia. Il crescente numero di maxi-operazioni, con l’arresto di decine o centinaia di persone per volta, rischia di tradursi, nel giro di cinque o sei anni, nell’ennesima impennata di casi di ingiusta detenzione e di spese per gli indennizzi. Puglia. “Custodia cautelare e processi soltanto se indispensabili” di Guglielmo Starace* L’Edicola del Sud, 29 aprile 2024 Chi ha deciso di dedicare la sua vita all’impegno per l’affermazione della Giustizia parla di errori giudiziari sapendo di affrontare il tema del fallimento degli ideali perseguiti. Quando si fa riferimento agli errori giudiziari bisogna innanzitutto fare un distinzione tra l’errore giudiziario in senso stretto, rappresentato dall’ingiusta condanna definitiva seguita da un processo di revisione che termina - dopo anni di sofferenza - con l’assoluzione, e l’errore giudiziario in senso più ampio, che fa riferimento alle vittime di ingiuste misure cautelari seguite da sentenze di assoluzione. In ordine a quest’ultima categoria, va innanzitutto sgombrato il campo dall’automatismo che identifica l’errore nella sentenza assolutoria in quanto essa rappresenta una delle fisiologiche conclusioni del processo penale che può conseguire a chiarimenti o arricchimenti probatori, così come può essere frutto di prove sopravvenute che non erano conosciute e conoscibili nel momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero al momento dell’applicazione delle misure cautelari. Proprio la fase cautelare rappresenta il “problema dei problemi”, risolvibile, invero, con l’applicazione rigorosa delle norme già in vigore, le quali sono orientate verso l’adozione delle misure cautelari quale extrema ratio rispetto all’ordinario succedersi delle vicende procedimentali e processuali. Nella prassi ci si rende conto che molto spesso potrebbe farsi a meno della restrizione preventiva della libertà personale, nelle forme più varie e nei differenti livelli di afflittività. Parliamo di quella restrizione da cui derivano le peggiori e irrevocabili condanne mediatiche che segnano per sempre la reputazione dei presunti colpevoli. Se proprio dovessimo pensare a una riforma indispensabile per restituire la dignità ai presunti innocenti, dovremmo invitare il Parlamento a limitare con chiarezza e senza quelle oscure eccezioni che aprono le porte della fase cautelare per troppi indagati e che offrono illusorie certezze all’opinione pubblica. Venendo agli errori giudiziari in senso stretto, se invece volessimo evitare i casi come quelli di Beniamino Zuncheddu (33 anni in carcere), Giuseppe Gulotta (22 anni dietro le sbarre) o Angelo Massaro (21 anni in cella), dovremmo pensare a un processo realmente accusatorio con una difesa così ben attrezzata da fare fronte alla potenza dei mezzi della pubblica accusa. Per questo basterebbe rendere meno timida la disciplina del processo accusatorio, non ancora pienamente metabolizzato dai protagonisti della giurisdizione e per nulla entrato nella “pancia” dell’opinione pubblica, bombardata dalla suadente narrazione dell’organo inquisitorio. I numeri affascinano e condizionano, però non bisogna farsi influenzare dalle somme erogate dallo Stato a titolo di risarcimento dei danni per l’ingiusta detenzione sofferta dagli innocenti, sia perché non esisterebbe somma di danaro in grado di restituire alla persona un parte di vita strappata, sia perché tante persone ingiustamente detenute non hanno ricevuto un risarcimento del danno perché non lo hanno chiesto oppure perché non l’hanno ottenuto in quanto chi decide sulla richiesta di risarcimento dei danni si deve porre al momento dell’applicazione della misura cautelare, ragione per la quale si restringe enormemente il campo di osservazione. Sembra chiaro che valutare l’operato dell’Autorità giudiziaria con gli elementi a sua disposizione in quel momento lascia spazio ai risarcimenti soltanto nel caso di un evidente errore di valutazione. Avendo reso così semplice l’applicazione delle misure cautelari, lo Stato dovrebbe assumersi la responsabilità di risarcire ogni persona privata della libertà personale senza la postuma giustificazione della sentenza di condanna, a prescindere da ogni valutazione e da ogni onere di richiesta, addirittura entro il termine breve di due anni dal momento dell’irrevocabilità della sentenza di assoluzione. Sembra paradossale pensare che un sistema che tollera processi di durata indeterminata imponga al cittadino di richiedere il doveroso risarcimento, onerandolo anche di dotarsi di un grande numero di documenti, entro appena due anni dalla fine dell’incubo. Gli unici numeri da esaminare sono quelli delle vittime delle ingiustizie, ossia quelle 974 persone all’anno che perdono ingiustamente la libertà personale, e sperare che entri nel metabolismo giudiziario il principio esaltato dalla riforma “Cartabia” per cui sarebbe proprio il caso di evitare processi senza una ragionevole possibilità di prevedere la condanna dell’imputato. Soltanto una rivoluzione culturale potrà consentire alle generazioni future di vedere ridurre al minimo quei numeri che provocano un sentimento di vergogna in chi ha fiducia nella Giurisdizione. *Penalista, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Bari Calabria. Il Garante: “Promettenti prospettive sul fronte della sanità penitenziaria” di Anna Foti lacnews24.it, 29 aprile 2024 Sovraffollamento e carenza di personale le criticità ancora da risolvere. Ci sono però segnali incoraggianti grazie alla nuova frontiera della telemedicina nell’istituto reggino di Arghillà e alla crescita della struttura hub regionale di Catanzaro. Sovraffollamento (con picco nel carcere reggino di Arghillà, carenza di polizia penitenziaria (con picco nel carcere di Catanzaro) ed emergenza suicidi. Le dodici carceri calabresi non sono esenti dalle problematiche che attanagliano l’universo carcerario in Italia. “In Calabria 3036 persone, di cui 63 donne e un figlio al seguito, sono detenute in strutture la cui capienza arriva a 2711 unità. Nel 2024 è stato registrato un suicidio sui 31, con un incremento di 13 detenuti in più rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno, in Italia. Questi gli ultimi dati raccolti dal garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Felice Maurizio D’Ettore, in vista della recente giornata del 18 aprile in cui anche in Calabria abbiamo promosso iniziative di sensibilizzazione su questo drammatico fenomeno. La giornata era stata indetta dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale. Attendiamo di capire come saranno proporzionalmente distribuiti i 5 milioni di euro annunciati dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione. Auspichiamo che ci saranno risorse cospicue anche per le dodici strutture penitenziarie calabresi per le innumerevoli criticità”. Così il garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia. La missiva al ministro Nordio - Con il presidente del Consiglio regionale Filippo Mancuso, lo stesso garante regionale Luca Muglia nelle scorse settimane ha già inviato una missiva al ministro Nordio e al capo del dipartimento Applicazione della Pena, Giovanni Russo. Denunciati il progressivo sovraffollamento, le gravi carenze di organico e il moltiplicarsi di eventi critici nei 12 istituti penitenziari della Calabria, invocato un intervento tempestivo. Il sovraffollamento - Investiti della questione anche il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, e i sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Del Mastro delle Vedove e il garante nazionale Felice Maurizio D’Ettore. “Allo stato, quasi tutti i 12 istituti penitenziari della Calabria registrano fenomeni di progressivo sovraffollamento, con valori elevati a Reggio Arghillà (+ 98), Cosenza (+ 57), Crotone (+ 44) e a Rossano (+ 52). In alcuni istituti, peraltro, sono presenti camere detentive, dotate di letti a castello, che ospitano fino a 6/8 persone”. Il deficit di personale di polizia penitenziaria - A ciò si aggiunga “il deficit del personale di Polizia penitenziaria raggiunge in alcuni casi livelli allarmanti (-100 Catanzaro; -70 Vibo Valentia; -42 Rossano; -37 Palmi; -36 Reggio Arghillà). L’assenza di un numero adeguato di Polizia penitenziaria genera effetti a catena che recano danno all’intero sistema, oltre a causare problemi di sicurezza e a richiedere sforzi sovrumani del personale in servizio. Nel corso del 2023 in Calabria si sono verificati 150 tentativi di suicidio e 4 suicidi. Nel 2024 c’è già stato un nuovo decesso per suicidio”. È quanto segnalato dal presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso e dal garante regionale Luca Muglia. La telemedicina sperimentale ad Arghillà - “L’esperienza delle telemedicina nel carcere di Arghillà - spiega il garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia - sarà certamente implementata. La ritengo una prassi assai positiva perché foriera di benefici per la qualità e la tempestività di un numero sempre crescente di prestazioni sanitarie non solo dal punto di vista degli esami specialistici. Ove possibile potrebbero essere strutturati anche dei consulti psicologici e psichiatrici. Il che concorrerebbe a colmare carenze attualmente esistenti. Essa contribuirà a lenire anche l’impatto della carenza cronica di agenti di polizia penitenziaria deputati al piantonamento in ospedale dei detenuti da portare fuori per accertamenti. Tutto ciò grazie anche al prezioso impulso della direttrice generale dell’Asp di Reggio, Lucia Di Furia, che di recente ha istituito il coordinamento funzionale e gestionale per la vigilanza e la sorveglianza delle attività sanitarie nelle Case Circondariali della provincia di Reggio Calabria. Affidato di recente l’incarico di coordinatore al dottore Nicola Pangallo”. L’eccellenza sanitaria a Catanzaro - “Una esperienza virtuosa che in Calabria fa il paio con l’ormai riconosciuta l’eccellenza del Centro clinico di sanità penitenziaria della Casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro. Presso la struttura hub regionale, diretta da Giulio Di Mizio, vengono accolti da tutta Italia detenuti con pluripatologie ad elevato impatto assistenziale. Un unico centro in Italia con reparto di riabilitazione e piscina per idrochinesiterapia. Stiamo pertanto valutando, ma ancora la fase è puramente ipotetica, di ampliare la capienza dell’articolazione di tutela della salute mentale di Catanzaro. L’Atsm al momento può ospitare 12 detenuti ma, dopo la chiusura di quella a Reggio, è rimasta l’unica in Calabria”. È quanto spiega ancora il garante regionale dei diritti delle persone detenute, Luca Muglia. “Guardiamo con grande attenzione alle nuove sfide per la sanità penitenziaria che in Calabria stanno riguardando Reggio e Catanzaro. Concorreranno a lenire le tante criticità ancora presenti su altri versanti. Di recente ne abbiamo anche discusso in occasione del primo tavolo convocato dal neo direttore generale che si occupa di Sanità penitenziaria e del relativo osservatorio, Francesco Lucia, con tutti i direttori sanitari degli istituti penitenziari calabresi. Implementeremo, dunque, una serie di prassi che speriamo diano segnali positivi”. Così ancora il garante regionale Luca Muglia. Un percorso virtuoso che segna nuove tappe importanti che beneficia anche dell’attività avviata ad Arghillà qualche anno fa dalla garante comunale Giovanna Russo. Il tavolo istituzionale con l’asp e tutti gli attori competenti per la sanità penitenziaria ha garantito la copertura medica ad Arghillà. Milano. Caso Beccaria. “L’impressione è che non ci sia più un Istituto minorile” di Paola Militano Corriere della Calabria, 29 aprile 2024 Intervista all’ex direttrice Stefania Ciavattini: “Serve sorvegliare, non ricorrere ad interventi contenitivi. Non è pensabile che la formazione degli agenti sia la medesima siano essi impegnati nel lavoro con gli adulti e con i minori”. Su richiesta del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, arriveranno presto all’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano nuovi rinforzi di personale: ai 13 agenti di Polizia Penitenziaria, che hanno già assunto servizio il 22 aprile - dopo l’arresto di altrettanti colleghi coinvolti a vario titolo nell’inchiesta della Procura di Milano su maltrattamenti e torture nel carcere minorile - si aggiungeranno altre 22 unità, distinte in vari ruoli. Nelle scorse ore, invece, sono stati interrogati gli ultimi agenti della polizia penitenziaria fra i 13 arrestati, due si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Gli altri, davanti al giudice, avrebbero parlato di “interventi contenitivi” nei confronti dei detenuti, spiegando che svolgevano “turni massacranti e senza fare mai ferie”. Il Corriere della Calabria ha intercettato a Crotone, l’ex direttrice dell’istituto penitenziario minorile Stefania Ciavattini. Quattro anni trascorsi alla guida dell’Istituto e ben ventitrè da educatrice nella medesima struttura. Quali sensazioni ha provato nell’apprendere queste notizie, avendo lei diretto l’Istituto? “È veramente un grande dispiacere e mi sono anche messa in contatto con le educatrici che ancora lavorano lì, erano più giovani di me, e vedo che lo sconforto è anche presente nel personale di oggi. L’impressione è quella che non ci sia più un istituto minorile. Gli istituti per i minori erano molto molto diversi 15-20 anni fa. Al Beccaria, in particolare, la parte educativa era fondamentale. Non è pensabile che la formazione degli agenti sia la medesima siano essi impegnati nel lavoro con gli adulti e con i minori. Arrivano assolutamente a digiuno di informazioni. Pensi che per moltissimi anni, gli agenti non avevano neanche la divisa, proprio per una maggior vicinanza con i detenuti”. La formazione degli agenti è fondamentale però, scorrendo l’elenco delle contestazioni, è inevitabile soffermarsi sui presunti reati: abuso di potere, tortura aggravata, lesioni aggravate, falso ideologico, tentata violenza sessuale... “Ha ragione, aggiungo che tra i nomi delle persone coinvolte compare anche un agente che ho conosciuto: una persona molto buona e quindi mi viene da pensare che si sia innescato un meccanismo perverso, che ci siano state tante trasformazioni. Mi hanno detto gli educatori, che c’è un ricambio di agenti che sono arrivati tra l’altro proprio nel giorno in cui sono stati arrestati gli anziani. Il continuo ricambio vuol dire che nessun agente conosce davvero i ragazzi. Ed allora mi chiedo, come ci si rapporta a loro”? È evidente che - a prescindere dal singolo grave caso del Beccaria - ci sia un tema più generale e strutturale da affrontare e che attiene all’organizzazione, alla normativa, alle procedure... “Sì, credo sia opportuno un regolamento per i minori. Pensi che dormono soli e di notte possono avvenire anche tra loro delle cose che non dovrebbero accadere, può essere che il più forte prevarichi sul più debole. E poi, i minori sono in una fase della vita sulla quale si può agire ancora moltissimo, lo dice la psicologia, la pedagogia e questo non può essere ignorato”. Nelle drammatiche espressioni che trovano ospitalità nelle procedure, ne cito una che è stata utilizzata da qualcuno dei soggetti coinvolti in questa operazione al Beccaria: interventi contenitivi... “Una parola che non si sarebbe mai dovuto utilizzare. Ci sono già i muri intorno ai ragazzi e già questo forse in molti casi è troppo contenitivo. Pensi che ho lavorato lì quando è entrata in vigore la nuova legge che consentì l’uscita di quasi tutti i ragazzi, ne rimase uno solo che aveva commesso un reato veramente grave”. In Italia, possiamo definire la questione delle carceri un buco nero. La vicenda del Beccaria può essere utile ad accendere un riflettore su uno dei settori forse un po’ in ombra rispetto al buco nero generale? “Si, ho questa speranza. Però questo dipende anche molto da voi, dall’interesse che continuerà a rimanere acceso su questi episodi e sul perché accadono. La situazione, mi dicono, pare un po’ migliorata perché finalmente è arrivato un direttore fisso e c’è stata anche una rotazione enorme dei direttori. Oggi bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo”. Firenze. La Costituzione e i diritti negati di Sollicciano di Marco Carrai La Nazione, 29 aprile 2024 Tra non molto i cittadini saranno chiamati ad esercitare il loro diritto costituzionale, massimo tra i diritti nei Paesi liberali, del voto. Sentiremo parlare di turismo, sicurezza, parcheggi, infrastrutture, finanche per i più illuminati di asili e scuole, ma credo che nessuno parlerà di carceri e nello specifico di Sollicciano. Questo perché la democrazia liberale si fonda sul diritto del voto, facoltà preclusa ai carcerati. La costituzione italiana però fonda anche il sistema delle carceri, o meglio della pena, sulla rieducazione del condannato. Infatti nell’articolo 27 è scritto: …”Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Perché tutti ci riempiamo la bocca di libertà e Costituzione ma non ne applichiamo i principi? Nel messaggio di fine anno del 1979 Sandro Pertini disse che “giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, coerenza e altruismo”. Ecco oggi avremmo bisogno di veri interpreti di onestà intellettuale, coerenza e altruismo. Dovremmo essere coerenti e onesti intellettualmente nel portare avanti i valori della Costituzione. E poi avremmo bisogno di politici che hanno lo sguardo rivolto all’altro in modo disinteressato: e quale sguardo può essere più disinteressato se non quello nei confronti del carcerato che non contribuisce alla vita politica neppure con il voto? Inutile parlare di educazione se non proviamo a rieducare, cioè a tirare fuori il buono, che anche chi ha sbagliato nella vita ha comunque magari sepolto in anni di problematiche familiari, di povertà sociale ed educativa, di sbagli che ognuno può fare. Allora lo sguardo dell politica di fermi sul carcere di Sollicciano e dei suoi ospiti che li vivono la peggior esperienza della loro vita in un non luogo inumano. Lo alzino e poi se giurano sulla Costituzione agiscano perché quella non condizione cambi. Non avranno un voto in più, anzi forse qualcuno in meno, ma non saranno venuti meno ai valori che dicono di incarnare. Venezia. Il Papa dalle detenute: “In carcere sofferenza da sovraffollamento e violenze” di Domenico Agasso La Stampa, 29 aprile 2024 Francesco, come primo gesto nella sua visita a Venezia, saluta, una a una, le circa 80 donne recluse che lo attendevano alla Giudecca. Accanto al Papa il patriarca di Venezia monsignor Francesco Moraglia. Nel discorso dentro la prigione il Pontefice scandisce: “Il carcere è una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza. Nessuno toglie la dignità della persona, nessuno”. Successivamente parla agli autori del padiglione della Santa Sede alla Biennale d’Arte collocato nella casa circondariale, e afferma: “Le donne artiste insegnano”. E cita Frida Khalo. Jorge Mario Bergoglio ha lasciato l’eliporto del Vaticano alle 6,32 in direzione Venezia, dove visita la Biennale, incontra i giovani e celebre la Messa a piazza San Marco. L’elicottero con il Vescovo di Roma atterra nel cortile del carcere femminile della Giudecca. Nella casa di reclusione papa Francesco visita anche il padiglione della Santa Sede, intitolato “Con i miei occhi”. Sono iniziate intorno alle 7 le operazioni per l’afflusso dei fedeli in piazza San Marco a Venezia. L’entrata ai varchi intorno all’area marciana si volge in maniera ordinata, e sul grande palco dove è stato allestito l’altare per le celebrazione si sono disposti i componenti dell’orchestra che accompagnerà i canti. I fedeli hanno la possibilità di vedere le tappe della visita papale da alcuni maxi schermo. Un primo applauso si leva dalla piazza quando si vede il Pontefice arrivare nell’istituto femminile di pena della Giudecca. Bergoglio coglie l’occasione per lanciare un appello sul tema carceri: la prigione “è una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza”. Il Papa invita a “non togliere la dignità a nessuno”. Il carcere “può anche diventare un luogo di rinascita, morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è “messa in isolamento”, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità”. Francesco rivela alle carcerate di avere “desiderato incontrarvi all’inizio della mia visita a Venezia per dirvi che avete un posto speciale nel mio cuore. Vorrei, perciò, che vivessimo questo momento non tanto come una “visita ufficiale” del Papa, quanto come un incontro in cui, per grazia di Dio, ci doniamo a vicenda tempo, preghiera, vicinanza e affetto fraterno. Oggi tutti usciremo più ricchi da questo cortile - forse chi uscirà più ricco sarò io - e il bene che ci scambieremo sarà prezioso”. È “il Signore che ci vuole insieme in questo momento, arrivati per vie diverse, alcune molto dolorose, anche a causa di errori di cui, in vari modi, ogni persona porta ferite e cicatrici. E Dio ci vuole insieme perché sa che ognuno di noi, qui, oggi, ha qualcosa di unico da dare e da ricevere, e che tutti ne abbiamo bisogno, ognuno di noi ha una propria singolarità, un dono per offrirlo e condividerlo”. Per il Pontefice è “fondamentale che anche il sistema carcerario offra ai detenuti e alle detenute strumenti e spazi di crescita umana, spirituale, culturale e professionale, creando le premesse per un loro sano reinserimento. Per favore, non “isolare la dignità”, ma dare nuove possibilità!”. Francesco esorta a non dimenticare “che tutti abbiamo errori di cui farci perdonare e ferite da curare, io anche, e che tutti possiamo diventare guariti che portano guarigione, perdonati che portano perdono, rinati che portano rinascita. Cari amici e amiche, rinnoviamo oggi, io e voi, insieme, la nostra fiducia nel futuro. Non chiudere la finestra, per favore, sempre guardare al futuro, sempre guardare con speranza”. Alcune delle donne hanno gli occhi lucidi. Le detenute fanno dono al Pontefice di alcuni dei prodotti che realizzano nei laboratori del carcere: saponi naturali, bagnoschiuma, e anche una nuova papalina bianca, che Francesco mette subito al posto della propria. Bergoglio tiene un secondo discorso, con gli artisti: “Il mondo ha bisogno di artisti. Lo dimostra la moltitudine di persone di ogni età che frequentano luoghi ed eventi d’arte. Vi confesso che accanto a voi non mi sento un estraneo: mi sento a casa. E penso che in realtà questo valga per ogni essere umano, perché, a tutti gli effetti, l’arte riveste lo statuto di “città rifugio”, una città che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti. Tutti, a cominciare dagli ultimi”. Il Papa chiede all’arte di fare “rete, collaborando per liberare il mondo da antinomie insensate e ormai svuotate, ma che cercano di prendere il sopravvento nel razzismo, nella xenofobia, nella disuguaglianza, nello squilibrio ecologico e dell’aporofobia, questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”. Dietro a queste antinomie c’è sempre il rifiuto dell’altro. C’è l’egoismo che ci fa funzionare come isole solitarie invece che come arcipelaghi collaborativi. Vi imploro, amici artisti, immaginate città che ancora non esistono sulla carta geografica: città in cui nessun essere umano è considerato un estraneo. È per questo che quando diciamo “stranieri ovunque”, stiamo proponendo “fratelli ovunque”. È vero che nessuno ha il monopolio del dolore umano. Ma ci sono una gioia e una sofferenza che si uniscono nel femminile in una forma unica e di cui dobbiamo metterci in ascolto, perché hanno qualcosa di importante da insegnarci. Penso ad artiste come Frida Khalo, Corita Kent o Louise Bourgeois e tante altre. Mi auguro con tutto il cuore che l’arte contemporanea possa aprire il nostro sguardo, aiutandoci a valorizzare adeguatamente il contributo delle donne, come coprotagoniste dell’avventura umana”. Papa Francesco entra nel padiglione del Vaticano per la 60esima Biennale Arte, allestito all’interno della chiesa di Santa Maria Maddalena delle Convertite. Lo illustra al Pontefice il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, e commissario del padiglione. All’incontro sono presenti, tra gli altri, anche il ministro della giustizia Carlo Nordio, il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, il presidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco, il sindaco Luigi Brugnaro. È la prima volta che un Papa visita una mostra della Biennale di Venezia. L’antichissima icona della Madonna “Mesopanditissa” viene esposta a lato dell’altare dove papa Francesco celebrerà la Messa in piazza San Marco. Si tratta della prima “uscita” dopo settant’anni dell’immagine, conosciuta come Madonna della Salute e custodita nell’omonima Basilica. L’icona mariana giunse a Venezia dall’isola di Candia il 26 febbraio 1670, e il 21 novembre dello stesso anno venne collocata nella nicchia dell’altare della basilica del Longhena, eretta dopo la pestilenza. Il termine significa “mediatrice di pace”, perché dinanzi alla sua immagine i veneziani e i candiotti, nel 1264, avevano posto fine alla guerra che li aveva visti coinvolti per un sessantennio. A Venezia viene chiamata Madonna della Salute perché da lei i veneziani riconobbero di aver ricevuto in dono la guarigione dalla peste e la salvezza da Dio. Uscendo dal carcere della Giudecca di Venezia, il Pontefice saluta alcuni bambini che gli consegnano dei disegni. Poi il Papa risponde alle domande di un giornalista locale: “Come ha trovato Venezia?”. “Fresca!”. Sulla visita nel penitenziario dice: “Il carcere è una preferenza per me. Ogni volta che vado in carcere dico: perché loro e non io?”. Lo riferiscono sui social i media vaticani. Un divertente siparietto viene raccontato da Salvatore Cernuzio, inviato di Vatican News: il Papa fa avvicinare un bambino da un gruppo di ragazzini che lo sta salutando, nel campo esterno dell’istituto. Il piccolo ne approfitta per “vendere” a Francesco un quadernetto realizzato dalla sua classe di catechismo, al prezzo (simbolico) di 1 euro. Il Pontefice ringrazia il bimbo, e loda la sua intraprendenza di imprenditore in erba: “Bisogna essere coraggiosi, come lui”. Papa Francesco lascia il carcere della Giudecca per spostarsi con un motoscafo della Guardia di Finanza alla basilica della Madonna della Salute, dove lo aspettano circa 1.700 giovani delle diocesi del Triveneto. Il palco da cui parlerà è stato sistemato sul campo che si apre davanti alla basilica, a pochi passi da Punta della Salute, uno dei luoghi più spettacolari della città, affacciato sul bacino di San Marco. Bergoglio viene accolto dagli applausi dei ragazzi. “Santo Padre, la ringraziamo per la sua presenza di oggi, qui tra i giovani delle 15 diocesi del Veneto. L’abbiamo accolta come ci ha aveva chiesto lei in occasione della Giornata mondiale della Gioventù: facendo rumore, cantando e applaudendo”. Così lo salutano i ragazzi e le ragazze. Un papa Francesco sorridente saluta decine e decine di giovani sfilando in papamobile lungo il percorso che lo porta al palco. Facendosi avanti con l’auto elettrica tra due ali di folla, dietro le transenne, Bergoglio scambia con il tocco delle mani i saluti che moltissimi ragazzi festanti gli rivolgono. Il Pontefice incoraggia le nuove generazioni ad “alzarsi. Alzarsi da terra, perché siamo fatti per il Cielo. Alzarsi dalle tristezze per levare lo sguardo in alto. Alzarsi per stare in piedi di fronte alla vita, non seduti sul divano. Alzati e vai”, ribadisce più volte il Papa ai giovani di Venezia e di tutto il Triveneto, facendolo ripetere anche ai giovani. Propone loro una riflessione: “Avete pensato che cosa è un giovane tutta la vita seduto su un divano? Ci sono divani diversi che ci prendono e non ci lasciano alzare. Ognuno ha un tesoro da condividere con gli altri, questo non è autostima, è realtà”. Per Dio “non sei un profilo digitale, ma un figlio, che hai un Padre nei cieli e che dunque sei figlio del cielo. Eppure spesso ci si trova a lottare contro una forza di gravità negativa che butta giù, un’inerzia opprimente che vuole farci vedere tutto grigio”. Il Pontefice dunque chiede di “andare insieme” perché “il “fai da te” nelle grandi cose non funziona. Per questo vi dico: non isolatevi, cercate gli altri, fate esperienza di Dio assieme, seguite cammini di gruppo senza stancarvi. Tu potresti dire: “Ma attorno a me stanno tutti per conto loro con il cellulare, attaccati ai social e ai videogiochi”. E tu senza paura vai controcorrente: prendi la vita tra le mani, mettiti in gioco; spegni la tv e apri il Vangelo”. Quindi commenta: “È troppo questo?”. Francesco invoca: “Lascia il cellulare e incontra le persone! Il cellulare è molto utile per comunicare ma state attenti quando il cellulare ti impedisce di incontrare le persone. Un abbraccio, un bacio, una stretta di mano, le persone”. Il Papa spinge i giovani a essere “rivoluzionari” non cercando l’utile come fa il mondo. Auspica che i ragazzi siano “creatori di bellezza”, si impegnino per “qualcosa che prima non c’era. Pensate dentro di voi ai figli che avrete”. Quindi l’esortazione: “Non siate professionisti del digitare compulsivo ma creatori di novità. Un gesto d’amore per qualcuno che non può ricambiare: questo è creare, imitare lo stile di Dio. È lo stile della gratuità, che fa uscire dalla logica nichilista del “faccio per avere” e “lavoro per guadagnare”. Il centro è la gratuità. Siate creativi con gratuità, date vita a una sinfonia di gratuità in un mondo che cerca l’utile! Allora sarete rivoluzionari. Andate, donatevi senza paura!”. Il Papa definisce Venezia “bella ma delicata. Dio sa che, oltre a essere belli, siamo fragili, e le due cose vanno insieme: un po’ come Venezia che è splendida e delicata al tempo stesso. Cioè è bella e delicata, ha qualche fragilità che deve essere curata”. Poi un nuovo passaggio sulla città lagunare, quando domanda ai giovani di andare “controcorrente. Proprio Venezia ci dice che solo remando con costanza si va lontano. Se voi siete cittadini veneziani imparate a remare con costanza per andare lontano. Certo, per remare occorre regolarità; ma la costanza premia, anche se costa fatica. Dunque, ragazzi, questo è alzarsi: lasciarsi prendere per mano da Dio per camminare insieme”. Una forcola, simbolo della gondola e della città di Venezia, è donata dai giovani a Francesco, per ringraziarlo della visita. La forcola, una vera scultura in legno, è lo scalmo sul quale si fa perno con il remo per vogare sulle gondole e le barche veneziane. La forcola regalata al Vescovo di Roma è stata realizzata dal maestro d’ascia Matteo Tamassia. Un regalo che ha anche un valore simbolico: in un momento in cui tutti percorrono una strada, “si deve avere coraggio di andare contro corrente”, messaggio che proprio il Papa ha rivolto ai ragazzi. Papa Francesco sulla papamobile elettrica attraversa il ponte di barche realizzato sulla laguna, che lo fa giungere ai Giardinetti di San Marco. A seguirlo i giovani che lo hanno accolto e ascoltato alla Salute. Ai lati del ponte decine di imbarcazioni, chi dal Canal Grande, chi dal bacino San Marco, omaggiano il passaggio del Vescovo di Roma. Nell’area di piazza San Marco sono in attesa 10.500 fedeli. Francesco compie alcuni giri fra i settori in cui sono stati sistemati i fedeli. Sul grande palco allestito davanti all’Ala Napoleonica, di fronte alla basilica marciana, si tiene la Celebrazione. “Gesù è la vite, noi siamo i tralci - esordisce il Papa nell’omelia - E Dio, il Padre misericordioso e buono, come un agricoltore paziente ci lavora con premura perché la nostra vita sia ricolma di frutti”. Per questo, il Figlio di Dio “ci raccomanda di custodire il dono inestimabile che è il legame con Lui, da cui dipende la nostra vita e la nostra fecondità. Egli ripete con insistenza: “Rimanete in me e io in voi. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”. Solo chi rimane unito a Gesù porta frutto. Soffermiamoci su questo”. Cristo sta per “concludere la sua missione terrena. Nell’Ultima Cena con quelli che saranno i suoi apostoli, Egli consegna loro, insieme con l’Eucaristia, alcune parole-chiave. Una di esse è proprio questa: “rimanete”, cioè mantenete vivo il legame con me, restate uniti a me come i tralci alla vite”. Usando questa immagine, “Gesù riprende una metafora biblica che il popolo conosceva bene e che incontrava anche nella preghiera, come nel salmo che dice: “Dio degli eserciti, ritorna! / Guarda dal cielo e vedi / e visita questa vigna”. Israele è la vigna che il Signore ha piantato e di cui si è preso cura”. E quando il popolo “non porta i frutti d’amore che il Signore si attende, il profeta Isaia formula un atto di accusa utilizzando proprio la parabola di un agricoltore che ha dissodato la sua vigna, l’ha ripulita dai sassi, vi ha piantato viti pregiate aspettandosi che producesse vino buono, ma essa, invece, dà soltanto acini acerbi. E il profeta conclude: “Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti / è la casa d’Israele; / gli abitanti di Giuda / sono la sua piantagione preferita. / Egli si aspettava giustizia / ed ecco spargimento di sangue, / attendeva rettitudine / ed ecco grida di oppressi”. Gesù stesso, riprendendo Isaia, racconta la drammatica parabola dei vignaioli omicidi, mettendo in risalto il contrasto tra il lavoro paziente di Dio e il rifiuto del suo popolo”. Dunque, la metafora della vite, mentre “esprime la cura amorevole di Dio per noi, d’altra parte ci mette in guardia, perché, se spezziamo questo legame con il Signore, non possiamo generare frutti di vita buona e noi stessi rischiamo di diventare rami secchi, che vengono gettati via. Fratelli e sorelle, sullo sfondo dell’immagine usata da Gesù, penso anche alla lunga storia che lega Venezia al lavoro delle vigne e alla produzione del vino, alla cura di tanti viticoltori e ai numerosi vigneti sorti nelle isole della Laguna e nei giardini tra le calli della città, e a quelli che impegnavano i monaci a produrre vino per le loro comunità”. Dentro tale “memoria, non è difficile cogliere il messaggio della parabola della vite e dei tralci: la fede in Gesù, il legame con Lui non imprigiona la nostra libertà ma, al contrario, ci apre ad accogliere la linfa dell’amore di Dio, il quale moltiplica la nostra gioia, si prende cura di noi con la premura di un bravo vignaiolo e fa nascere germogli anche quando il terreno della nostra vita diventa arido”. Ma la “metafora uscita dal cuore di Gesù può essere letta anche pensando a questa città costruita sulle acque, e riconosciuta per questa sua unicità come uno dei luoghi più suggestivi al mondo”. Venezia è un “tutt’uno con le acque su cui sorge, e senza la cura e la salvaguardia di questo scenario naturale potrebbe perfino cessare di esistere”. Così è pure “la nostra vita: anche noi, immersi da sempre nelle sorgenti dell’amore di Dio, siamo stati rigenerati nel Battesimo, siamo rinati a vita nuova dall’acqua e dallo Spirito Santo e inseriti in Cristo come i tralci nella vite. In noi scorre la linfa di questo amore, senza il quale diventiamo rami secchi, che non portano frutto”. Il papa beato Giovanni Paolo I, quando “era Patriarca di questa città, disse una volta che Gesù “è venuto a portare agli uomini la vita eterna. Quella vita sta in lui e da lui passa ai suoi discepoli, come la linfa sale dal tronco ai tralci della vite. Essa è un’acqua fresca, che egli dà, una fonte sempre zampillante”. Fratelli e sorelle, questo è ciò che conta: rimanere nel Signore, dimorare in Lui. E questo verbo - rimanere - non va interpretato come qualcosa di statico, come se volesse dirci di stare fermi, parcheggiati nella passività; in realtà, ci invita a metterci in movimento”, perché restare “nel Signore significa crescere nella relazione con Lui, dialogare con Lui, accogliere la sua Parola, seguirlo sulla strada del Regno di Dio”. Perciò si tratta “di metterci in cammino dietro a Lui, lasciarci provocare dal suo Vangelo e diventare testimoni del suo amore. Per questo Gesù dice che chi rimane in Lui porta frutto. E non si tratta di un frutto qualsiasi! Il frutto dei tralci in cui scorre la linfa è l’uva, e dall’uva proviene il vino, che è un segno messianico per eccellenza”. Gesù, infatti, “il Messia inviato dal Padre, porta il vino dell’amore di Dio nel cuore dell’uomo e lo riempie di gioia e di speranza. Cari fratelli e sorelle, questo è il frutto che siamo chiamati a portare nella nostra vita, nelle nostre relazioni, nei luoghi che frequentiamo ogni giorno, nella nostra società”. Se oggi si guarda a “questa città di Venezia, ammiriamo la sua incantevole bellezza, ma siamo anche preoccupati per le tante problematiche che la minacciano: i cambiamenti climatici, che hanno un impatto sulle acque della Laguna e sul territorio; la fragilità delle costruzioni, dei beni culturali, ma anche quella delle persone; la difficoltà di creare un ambiente che sia a misura d’uomo attraverso un’adeguata gestione del turismo; e inoltre tutto ciò che queste realtà rischiano di generare in termini di relazioni sociali sfilacciate, di individualismo e solitudine”. E i cristiani, “che siamo tralci uniti alla vite, vigna del Dio che ha cura dell’umanità e ha creato il mondo come un giardino perché noi possiamo fiorirvi e farlo fiorire, come rispondiamo? Restando uniti a Cristo potremo portare i frutti del Vangelo dentro la realtà che abitiamo: frutti di giustizia e di pace, frutti di solidarietà e di cura vicendevole; scelte di attenzione per la salvaguardia del patrimonio ambientale ma anche di quello umano: abbiamo bisogno che le nostre comunità cristiane, i nostri quartieri, le città, diventino luoghi ospitali, accoglienti, inclusivi. E Venezia, che da sempre è luogo di incontro e di scambio culturale, è chiamata a essere segno di bellezza accessibile a tutti, a partire dagli ultimi, segno di fraternità e di cura per la nostra casa comune. Venezia terra che fa fratelli”. Poi, il Regina Coeli: “Anche da qui, come ogni domenica, vogliamo invocare l’intercessione della Vergine Maria per le tante situazioni di sofferenza nel mondo. Penso ad Haiti, dove è in vigore lo stato di emergenza e la popolazione è disperata per il collasso del sistema sanitario, la scarsità di cibo e le violenze che spingono alla fuga. Affidiamo al Signore i lavori e le decisioni del nuovo Consiglio Presidenziale di Transizione, insediatosi giovedì scorso a Port-au-Prince, affinché, con il rinnovato sostegno della Comunità internazionale, possa condurre il Paese a raggiungere la pace e la stabilità di cui tanto ha bisogno. Penso alla martoriata Ucraina, alla Palestina e a Israele, ai Rohingya e a tante popolazioni che soffrono a causa di guerre e violenze. Il Dio della pace illumini i cuori perché cresca in tutti la volontà di dialogo e di riconciliazione. Cari fratelli e sorelle, grazie ancora per la vostra accoglienza! Grazie al Patriarca. Vi porto con me nella preghiera; e anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me, perché questo lavoro non è facile!”. Dopo la visita privata nella basilica, Francesco esce verso la riva del bacino di San Marco, dove si imbarca su una motovedetta per tornare al carcere della Giudecca, e da lì ripartire in elicottero alla volta del Vaticano. A salutarlo, davanti alla basilica, gli operatori della Croce rossa, a cui rivolge la richiesta di pregare per lui, e alcune monache, che si intrattengono per pochi minuti. Lungo la piazzetta di San Marco lo acclamano i giovani che sono giunti con lui dalla Madonna della Salute. La realtà cambia solo se cambia la lingua con cui la raccontiamo di Venanzio Postiglione* Corriere della Sera, 29 aprile 2024 Avvocata, prefetta, primaria (e femminicidio). Servono parole nuove, per battere antichi stereotipi: e la pedagogia del linguaggio passa da varietà e condivisione. Uomini e donne. Parole nuove contro stereotipi, ripartire da varietà e condivisione. “Lo so. Il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, figlio per dire figlio e figlia... La prima creatura non è una donna, è Adamo. Eva arriva dopo per divertirlo e combinare guai”. È scritto bene, vero? Infatti è una frase di Oriana Fallaci nel libro Lettera a un bambino mai nato. Sono passati 50 anni, ma forse non sono passati. In principio fu una costola, appunto, nella Genesi. “Il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò. Gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Formò una donna e la condusse all’uomo”. Il serpente, la tentazione e il ruolo di Eva sono abbastanza noti, diciamo, li diamo per letti. Ma non è solo nella Bibbia, altrimenti sarebbe semplice. “Stereotipo” viene dal greco antico stereòs, rigido, e typos, impronta. L’impronta della rigidità, quando sappiamo che invece l’homo è diventato homo sapiens perché flessibile. Lo stereotipo nasce nella notte dei tempi. Nella Teogonia di Esiodo, ottavo secolo avanti Cristo, Zeus crea la donna con un obiettivo sereno: punire l’umanità. Il motivo è che Prometeo, geniale, (un maschio) aveva rubato il fuoco, l’aveva donato a noi mortali e aveva acceso la civiltà. La donna creata si chiama Pandora e ha due caratteristiche luminose: ingannatrice e bugiarda. Anche un po’ tonta. Le affidano il vaso, il famoso vaso di Pandora, con dentro tutti i mali del mondo. E lei, una sprovveduta, toglie il coperchio, fa uscire i flagelli e ci rovina per sempre. Giù, in fondo al recipiente, resta soltanto la speranza. L’unica cosa che doveva venir fuori rimane dentro. E adesso arriva un passaggio epocale. Agamennone, un re brutale, guida i Greci alla conquista di Troia. Prima di partire, per avere il favore degli dei, sacrifica la figlia Ifigenia. Terribile. Sparisce in guerra per dieci anni. La moglie Clitennestra ha una storia con Egisto: Agamennone torna, finalmente, e loro lo uccidono. Ha conquistato Troia ma fa una brutta fine. E qui, seguitemi, è una grande storia, entra in scena il figlio Oreste: ammazza la madre Clitennestra per vendicare il padre Agamennone. La dea Atena inventa l’Aeropàgo, il primo tribunale del mondo: deve giudicare Oreste. I voti sono pari e allora decide la presidente, Atena, che è nata direttamente dalla testa di Zeus, quindi senza madre: assolve Oreste. Eva Cantarella dice che è il salto dalla vendetta alla giustizia. Vero. Ma è anche la consacrazione della società patriarcale: uccidere la madre, in nome del padre, si può. Fatto. I posteri prenderanno nota. Sono meravigliose, le donne del mito. E, allo stesso tempo, prigioniere del loro stereotipo. Di più: una galleria di stereotipi. Per l’eternità. Didone soffre, si dispera e si uccide per amore: Enea la abbandona perché ha una missione molto maschile, lui, il progenitore dei Romani. Medea è viscerale e vendicativa, anche spietata. Elena è bellissima, irresistibile e ambigua, fa scoppiare la madre di tutte le guerre. Penelope aspetta il marito per vent’anni e cresce il figlio da sola. Circe è una maga subdola e inquietante. Calipso nasconde Ulisse al mondo in un rapporto esclusivo: lui sogna di andarsene e piange da solo, in riva al mare. Andromaca saluta Ettore sulle porte Scee e conosce già il suo destino: diventerà schiava, sarà un bottino di guerra. Un bottino di guerra. Tremila anni fa come adesso. I Greci hanno inventato la democrazia. È una verità, ma dimezzata. Hanno inventato la democrazia maschile: votavano solo gli uomini. Le donne avevano la cittadinanza, quindi libertà personale, matrimonio, eredità, ma non i diritti politici, non la vita dello Stato. In Italia il suffragio universale è arrivato nel 1946, lo sappiamo bene, Paola Cortellesi ha fatto un film bellissimo. Nell’antica Roma, la donna passava dal pater familias al marito, il divorzio lo decideva l’uomo, la mamma dei Gracchi mostrava i figli orgogliosa, “ecco i miei gioielli”, ma lei? Chi era lei? Wikipedia dice: “Cornelia, famosa per essere la madre dei Gracchi”. Ottimo. La giovane Lesbia dava scandalo perché era una donna libera. Cicerone ne era inorridito. Catullo la amava e la odiava, odi et amo, con una tempesta interiore, una passione struggente che ci tolgono il respiro ancora oggi. Uomini e donne. Parole nuove contro stereotipi, ripartire da varietà & condivisione I finali sono alquanto conosciuti, quindi ne possiamo parlare, non riveliamo nulla. Madame Bovary e Anna Karenina. Flaubert pubblica il romanzo nel 1856 e Tolstoj nel 1878: quanto sono lontane la Francia e la Russia nell’Ottocento? Ma tanto, tantissimo. Eppure. Gli amori di Emma e Anna sono tormento puro, sono rivolta e vergogna, sono la sfida impossibile alle convenzioni. Flaubert e Tolstoj le inventano, Flaubert e Tolstoj le condannano. È lo scotto che pagano alla società: va bene lo strappo, va bene la scelta, va bene la forza personale, ma devono morire. Non possono che morire. Il reato di libertà femminile prevede il suicidio. Con il veleno o sotto a un treno: cambia poco. Fa eccezione, ed è una rivoluzione e uno scandalo, Casa di bambola di Ibsen, anno 1879. Ci parla ancora, e molto, tanto che nel 2006 è stata l’opera teatrale più rappresentata al mondo. Nora lascia il marito e l’aria irrespirabile della famiglia in cerca della sua identità. Se ne va, se ne va via, e la novità è che non si uccide. “Ho doveri prima di tutto nei confronti di me stessa”. Il tonfo della porta che si chiude diventa la metafora del mondo che si apre. Il mondo dell’autodeterminazione. Che parola meravigliosa: autodeterminazione. Nora di Ibsen si prende la vita: non è Penelope paziente, Elena attraente, Andromaca sposa, non c’è già un destino scritto (da qualcuno) e definito e preciso e immutabile. L’altra mattina, nel centro di Milano, si sono scontrati un’auto e un furgone. Nell’auto c’erano un papà e un figlio piccolo. Il padre, purtroppo, non ce l’ha fatta, se ne è andato sul colpo. Il bimbo, salvo ma ferito, è stato portato in ospedale, in chirurgia, per un intervento. Solo che il primario, prima di operare, ha urlato: “Non posso! Questo bambino è mio figlio!”. No, un attimo, ho fatto confusione, il papà è morto nell’incidente, non può essere il primario... Ho sbagliato? Ho sbagliato, giusto? No, non ho sbagliato. Il primario era donna ed era la mamma. Storia già nota, ma ripeterla non fa male. Bastava che dicessi la primaria. O basterebbe che ci fossero più donne anche ai vertici degli ospedali visto che (per fortuna) ci sono più donne nella Sanità. Tra i medici in generale le donne sono il 49,9 per cento, la metà, e sotto i 45 anni sono il 63,8 per cento. Tra i primari sono soltanto il 17,9 per cento. Magari un giorno in ospedale incontriamo veramente una primaria. Io l’abbraccio. I pre-giudizi sono una colpa fino a un certo punto: sono il modo in cui funziona il cervello. Contesto, abitudini, anche la mente ha la sua comfort zone. Ma se li vogliamo abbattere bisogna prima di tutto riconoscerli. Gli stereotipi sono lo specchio del vecchio mondo, modestamente vorremmo costruire il mondo nuovo. Per i David di Donatello del 2018 Stefano Bartezzaghi scrisse un monologo strepitoso, che recitò Paola Cortellesi, sembrava cabaret e invece era un’orazione civile. “È impressionante vedere come nella nostra lingua alcuni termini, che al maschile hanno il loro legittimo significato, se declinati al femminile assumono tutto un altro senso, diventano un luogo comune, sempre lo stesso, con ammiccamento verso la prostituzione. Un uomo di strada: un uomo del popolo. Una donna di strada... Un uomo disponibile: un uomo gentile. Una donna disponibile... Un passeggiatore: un uomo che cammina. Una passeggiatrice... Un uomo con un passato: con una vita brillante. Una donna con un passato....”. E l’elenco è lungo e farebbe pure ridere se non fosse una tragedia linguistica. Non è semplice risalire la montagna delle parole. Anche i termini della medicina e della psichiatria sono pieni di pregiudizi. Quando i figli hanno qualcosa è sempre un problema di mamme. Le madri-frigorifero portano all’autismo, le madri-drago conducono all’anoressia, le madri delle caverne determinano le intemperanze, le madri dei mammoni non lo diciamo neppure, le madri-coccodrillo divorano gli eredi, le madri indesiderate fanno sfracelli... mi fermo qui, se no facciamo notte. Sui padri, è strano, il supermercato planetario del luogo comune è meno fornito. Ci si mettono anche le fiction. La collega Elisa Messina si è vista un po’ di titoli. A febbraio Califano, a seguire Mameli. E prima abbiamo visto Volare, la grande storia di Domenico Modugno, Giuseppe Moscati, l’amore che guarisce, Perlasca, un eroe italiano. E invece la serie sulla vita di Oriana Fallaci si intitolava L’Oriana, lei l’avrebbe presa bene. E adesso, quella su Rai 1, dedicata all’astrofisica Margherita Hack, si chiama Margherita delle stelle. Ha perso il cognome pure lei e io mi ricordo che ci teneva. Siamo in attesa di Ciao Rita! per Levi Montalcini. La realtà cambia se cambiano le parole che usiamo per raccontarla e rappresentarla. Lo diceva già la linguista Alma Sabatini in Raccomandazioni per un uso non sessista dell’italiano, manuale per la presidenza del Consiglio del 1987: le raccomandazioni valgono ancora oggi. Direi che il linguaggio deve diventare in fretta più inclusivo. Ma non basta. Ci vuole un passo in più. L’ho capito leggendo il libro, illuminante, della sociolinguista Vera Gheno Chiamami così. Intanto c’è una parola più bella di diversità ed è varietà. “Una realtà in trasformazione richiede pensieri e parole mutevoli, che si aggiornino in base alle esigenze della società”. Verna Myers, vicepresidente per l’inclusione di Netflix, l’ha detto bene: “Diversità è venire invitati alla festa, inclusione è venire invitati a ballare”. Ma Vera Gheno lo dice ancora meglio: “Diversità è andare alla festa, inclusione è essere membro del comitato che la organizza”. Aggiungo io: un termine ci sarebbe, perfetto. Condivisione. Nel greco antico, la lingua geniale, logos significa sia pensiero che parola. Perché sono la stessa cosa, perché l’umanità è nata con il linguaggio. Il tempo delle donne richiede pensieri nuovi e quindi parole nuove, parole nuove per avere pensieri nuovi. Non una semplice fotografia della realtà, altrimenti non avremmo termini astratti come utopia, sogno, meraviglia. In quale futuro vogliamo abitare? Quale futuro sappiamo immaginare? L’italiano è una lingua bellissima, ricca di poesia e di sfumature, una lingua colorata: usiamo tutta la tastiera, tutti i toni, tutto l’arcobaleno. Il tempo delle donne prevede una pedagogia del linguaggio. Che è in corso, non siamo all’anno zero, ma ha bisogno ancora di molte tappe. Sentite il titolo del rapporto Cnr dell’anno scorso: L’abbattimento degli stereotipi di genere, una meta ancora all’orizzonte. Giusto e onesto, ma al confronto gli slogan della Democrazia cristiana sembravano rivoluzionari. E allora ha ragione la linguista Cecilia Robustelli: “La lingua non solo rispecchia una realtà in movimento, ma può svolgere una funzione ben più importante, quella di rendere più visibile lo stesso movimento e contribuire così ad accelerarlo”. È per questo che è nato il termine “femminicidio”. Per una risposta, finalmente, culturale. Parliamo di donne uccise perché donne, dove l’uomo si considera proprietario dell’anima e del corpo della donna, fino ad annullarne la libertà e la vita. Non un omicidio generico. Carlotta Vagnòli, il testo si chiama Poverine, lo dice meglio di me: “Le donne muoiono per possesso e cultura patriarcale, non per troppo amore. Non esiste il troppo amore e qualcuno ce lo dovrà pur insegnare, prima che altre centinaia di donne muoiano per questa colossale bugia”. Ecco il punto: “Dare un nome a un fenomeno ci insegna a riconoscerlo e comprenderlo”. E a spingere a dire le due parole magiche: “Ci riguarda”. Uomini e donne. Parole nuove contro stereotipi, ripartire da varietà & condivisione I termini corrono, cambiano, non siamo un’accademia in cima al Monte Bianco. L’italiano ha il femminile e il maschile. Dire avvocata, prefetta, sindaca, non è un capriccio o un gioco di società: aiuta le ragazze a pensarsi in quel ruolo, a vedersi lì. Perché è normale, non perché è uno strappo. Il linguaggio crea l’immaginario. E le frasi fatte, che già erano ridicole, adesso sembrano antiche come per incanto: sei una donna con gli attributi, brava e pure mamma, adesso ti spiego, era solo un complimento, non si può più dire niente... Non è vero che “non si può più dire niente”. È che, gentilmente, non bisogna ferire la metà della popolazione mondiale. Confidiamo nelle ragazze, nei ragazzi. Che sono nativi digitali, nativi ecologisti e spesso anche nativi “corretti” e “sensibili”, perché figli di una società diversa. Ma non possiamo aspettare loro: sarebbe un alibi collettivo per non fare nulla. Il tempo delle donne e degli uomini assieme, fianco a fianco, finalmente alla pari, è esattamente adesso. La formazione emotiva non è l’aggiunta di un’ora nelle scuole con la verifica e il voto: è un esercizio quotidiano, un impegno collettivo, farebbe bene pure una lezione in più di poesia e la lettura ad alta voce di un romanzo. O magari un verso di Shakespeare al giorno: “Questo germoglio d’amore che si apre al mite vento dell’estate sarà uno splendido fiore quando ci rivedremo ancora”. Cosa ci proporrà l’intelligenza artificiale? Cosa pescheranno gli algoritmi? Una ventata di stereotipi con il mostro scacciato dalla finestra che bussa di nuovo alla nostra porta oppure, al contrario, la capacità di scoprirli e svelarli più facilmente, quegli stereotipi? Tutto fa capire che dobbiamo sbrigarci. Le tecnologie più sofisticate possono cristallizzare le idee più retrive oppure spingere il nuovo linguaggio, il mondo della varietà. Chiudiamo con l’Oriana, allora. “Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, dovrai batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza”. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato. Sono passati 50 anni, ma forse non sono passati. Ricordate all’inizio? In fondo al vaso di Pandora, ancora chiusa e prigioniera, è rimasta la speranza. Vi direi: facciamola uscire. *Questo testo è il contenuto della lectio magistralis “Cultura, stereotipi, linguaggio” che l’autore ha preparato per l’evento “Verso il Tempo delle Donne” svoltosi a Genova La legge per i fragili è solo una presa in giro di Toni Nocchetti La Stampa, 29 aprile 2024 Negli scorsi giorni è stata annunciata dal ministro della Lega Locatelli con toni entusiastici la approvazione della legge delega sulla disabilità. Più precisamente la ministra ha parlato di una rivoluzione culturale e civile per il nostro Paese e per le persone con disabilità. Se ci addentriamo nel merito del dispositivo governativo scopriamo che si dovrebbe definire per ciascuna persona con disabilità il progetto di vita individuale a fianco ai Lep (livelli essenziali di prestazioni ). Tutto perfetto. Sulla carta però. Solo sulla carta. Purtroppo la disabilità e la definizione di una attenta presa in carico di una persona con disabilità rappresentano un costo economico sensibile che non sembra essere minimamente considerato dall’annuncio rivoluzionario della ministra. Una famiglia che accoglie al suo interno un familiare con disabilità vede scandire ogni minuto della giornata da necessità e bisogni inimmaginabili per le famiglie cosiddette normali. I disabili richiedono, in maniera diversificata ovviamente, una attenzione ed una cura che hanno un costo economico molto alto. Di questo nessuno sembra occuparsene nel governo Meloni o, piuttosto maliziosamente, lo fanno lasciando immaginare trasformazioni e sviluppi fantastici che rimarranno fantasie senza concretezza. Inquietano non poco le affermazioni dell’ultimo candidato del partito della ministra Locatelli sulla necessità di ritornare alle classi differenziali che lasciano intravedere una visione dell’esistenza meschina. I prossimi giorni chiariranno quanti nella Lega e nel governo prenderanno le distanze dal soldato Vannacci, ma mi sembra più opportuno concentrarsi sui contenuti evanescenti della legge delega. Parlare ad esempio di Lep significa non solo ipotizzare una ennesima sperimentazione ma dire quante risorse economiche certe, costanti nel tempo ed esigibili senza una burocrazia asfissiante si garantiranno alle famiglie dei disabili. Raccontare e descrivere la magnificenza del progetto di vita di una persona con disabilità senza aggiungere un numero preciso seguito da alcuni zero è una squallida presa per i fondelli . Demagogia allo stato puro, chiacchiere senza senso. Se poi questo corredo di parole prive di supporto economico proviene da un ministro rappresentante di un partito che sta provando a disintegrare in f(r)azioni l’unità del Paese nei distretti della sanità e della scuola allora il sospetto che siamo di fronte all’ennesima legge inutile per le persone con disabilità diventa concreta. La ministra Locatelli sa di quante risorse in meno dispone una persona con disabilità che vive nel Centro Sud? A quali Lep si riferisce e per i cittadini di quale regione d’Italia? Dove pensa di trovare le risorse? Eppure in modo singolare i partiti dell’opposizione, forse troppo concentrati a cercare un’etica perduta per sempre grazie ad un sistema elettorale indecente, non hanno minimamente fatto notare alla ministra che non basta levare la parola handicappato dai documenti. Non ho mai pensato che alle famiglie di un disabile servisse tanta “pulizia” di linguaggio ma piuttosto servizi per le persone. Ed a fianco ai servizi un impegno costante per garantire diritti che oggi di sicuro non lo sono. Mi permetto di offrire un consiglio alla ministra Locatelli: frequenti più assiduamente il ministro del Bilancio, il ragioniere centrale dello Stato e provi con loro a “fare la rivoluzione” di cui parla per le persone con disabilità. Allo stesso tempo, metaforicamente si intende, prenda a calci nel sedere chi pensa nel suo partito che i disabili siano un mondo a parte e non una parte del mondo. Soltanto dopo averlo fatto potrà forse scomodare la rivoluzione, in caso contrario sarà soltanto un’altra penosa pantomima senza significato. E le persone con disabilità non credo ne abbiano bisogno. Corte Penale Internazionale, possibile la richiesta di arresto per Netanyahu, Gallant e Halevi di Paolo Brera La Repubblica, 29 aprile 2024 La domanda potrebbe essere formalizzata la prossima settimana. L’accusa è di crimini umanitari condotti sia a Gaza che in Cisgiordania. C’è un nuovo grosso guaio sulle spalle del governo israeliano. Mentre naviga a vista tra la pressione internazionale per le vittime civili della guerra scatenata dopo il 7 ottobre e le proteste interne sul fallimento degli obiettivi dichiarati - cioè liberare gli ostaggi e sconfiggere definitivamente Hamas - deve affrontare l’imminente decisione della Corte penale internazionale che, secondo indiscrezioni, nel corso della prossima settimana sarebbe pronta a chiedere l’arresto del premier Benjamin Netanyahu, del ministro della Difesa Yoav Gallant e del capo di Stato maggiore delle forze armate Herzi Halevi. L’accusa nei loro confronti è infamante: a tutti e tre vengono contestati crimini contro l’umanità commessi ai danni dei palestinesi. Secondo il sito israeliano di informazione Walla, Netanyahu sarebbe impegnato in prima persona in un “pressing telefonico senza sosta” per evitare l’intervento della Corte dell’Aja. E anche gli Stati Uniti avrebbero mosso la propria diplomazia per convincere i giudici a non compiere un passo così clamoroso. Il precedente più recente, in questo senso, è il mandato internazionale d’arresto spiccato contro Vladimir Putin per l’invasione dell’Ucraina. Non è un guaio con immediate conseguenze giudiziarie, perché Israele non riconosce la Corte penale internazionale, ma un immenso problema politico di immagine e credibilità. Non si tratta della risposta all’accusa di genocidio formulata presso la Corte internazionale di giustizia (Cig) dal Sudafrica, ma dell’evoluzione di un’indagine che la Corte penale internazionale (Cpi) porta avanti dal 2014, e che si è allargata alla catastrofe scatenata dopo il 7 ottobre. A spiegarlo era stato lo stesso procuratore capo della Cpi, Karim Khan, confermando nei mesi scorsi che era in corso un’indagine su possibili crimini di guerra in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. L’indagine, diceva Khan, era iniziata nel marzo di tre anni fa, ma risale fino alla denuncia di crimini avvenuti il 13 giugno 2014, e “si estende all’escalation delle ostilità e della violenza dopo gli attacchi avvenuti il 7 ottobre”. Dal punto di vista giuridico la vicenda è complessa perché Israele non ha firmato lo Statuto di Roma che istituiva la Corte, ma l’Autorità palestinese lo ha fatto nel 2015 e la Corte ha quindi pieno titolo per giudicare sul sospetto di crimini avvenuti nei territori palestinesi. La notizia secondo cui i mandati di arresto sarebbero imminenti ha scosso il governo di Israele. Netanyahu ha twittato nei giorni scorsi un messaggio in cui avverte che “sotto la mia guida, Israele non accetterà mai alcun tentativo da parte della Corte penale internazionale di minare il suo diritto intrinseco all’autodifesa”, sostenendo che “la minaccia di arrestare soldati e funzionari dell’unica democrazia del Medio Oriente e dell’unico Stato ebraico al mondo è oltraggiosa. Non ci piegheremo”. “Israele - ha aggiunto - continuerà a condurre fino alla vittoria la nostra giusta guerra contro i terroristi genocidi e non smetteremo mai di difenderci. Ma anche se la Corte penale internazionale non influenzerà le azioni di Israele, creerebbe un pericoloso precedente che minaccia i soldati e i funzionari di tutte le democrazie che combattono il terrorismo selvaggio e l’aggressione sfrenata”. Dal punto di vista politico è una grossa tegola nel momento più delicato della trattativa con Hamas, che il governo israeliano conduce usando la minaccia di stanare la leadership dei miliziani direttamente nella loro ultima roccaforte a Rafah. Persino gli alleati più stretti, come gli Stati Uniti e il resto del G7, attaccare sarebbe un errore insostenibile, senza aver prima trovato una soluzione - di fatto impossibile - per tutelare i civili dall’inevitabile ulteriore catastrofe umanitaria che provocherebbe. Ma la minaccia serve a Netanyahu per costringere Hamas ad accettare l’accordo senza alzare continuamente la contropartita. Anche per questo l’eventuale decisione della Corte di chiedere l’arresto del premier e dei vertici politici e militari delle forze armate con un’accusa così infamante come quella avanzata contro Putin è un’enorme problema che sta spingendo il governo a reagire con veemenza. Il tentativo è di bloccarla politicamente, come è stato fatto nei giorni scorsi per le sanzioni americane contro un battaglione dell’Idf accusato proprio di crimini di guerra. Secondo una fonte diplomatica israeliana citata dal Jerusalem Post, la Cpi non potrebbe agire contro Netanyahu e i vertici dell’Idf “senza il sostegno palese o tattico degli Stati Uniti. Dov’è Biden? Perché resta in silenzio mentre Israele potrebbe essere gettato nel fango?”. A intervenire è stato invece il presidente della Camera, Mike Johnson, che in un tweet chiede alla Cpi di “rinunciare immediatamente” perché “Israele ha il diritto di difendersi dalle organizzazioni terroristiche che cercano di distruggerlo. Nota per la Cpi: i veri criminali sono Hamas e l’Iran”. Anche gli Stati Uniti, come Israele, non hanno ratificato lo statuto della Cpi per non cedere la propria sovranità giuridica a un ente superiore internazionale. Ma i lavori in corso per tentare di smontare in anticipo l’inchiesta delegittimando la Corte sono in piena attività: il Wall Street Journal ha invitato in un editoriale gli Usa e la Gran Bretagna a intervenire visto che entrambi i Paesi hanno “sostenuto la candidatura di Khan”, pressando il procuratore capo per fare marcia indietro e procrastinare la decisione: “È necessario scongiurare procedimenti giudiziari contro un alleato democratico”. Netanyahu resta convinto che le pressioni fino a oggi non siano bastate, e teme come imminente un ordine di arresto che obbligherebbe tutti i 120 Paesi firmatari a eseguire gli ordini di arresto qualora i destinatari si recassero nella loro giurisdizione. Tutto questo senza considerare l’impatto etico su alleati e sostenitori di Israele di una decisione che, come successo per Putin con l’Ucraina, sancirebbe ufficialmente l’esistenza di prove sufficienti per arrestare come sospetti criminali i decisori e gli esecutori di una strategia di guerra ad Hamas che secondo fonti palestinesi ha già causato più di 34.000 morti, tra cui un’infinità di donne, minori e bimbi. Gran Bretagna. I profughi deportati in Ruanda senza badare troppo ai diritti umani di Michael Pauron* Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2024 Come Londra si disfa del “problema” facendo felice il presidente Kagame che incassa centinaia di milioni di sterline. Ma a luglio si voterà e lo sfidante Habineza è contrario all’accordo. A un’ora di auto a sud di Kigali, la capitale del Ruanda, si trova il campo profughi di Gashora dove, dal 2019, in piccoli edifici bianchi e blu, sono accolti i richiedenti asilo provenienti da tutta l’Africa. Tutti sono stati evacuati attraverso la Libia, come previsto dal “Meccanismo per il transito di emergenza” gestito dall’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in accordo con il governo del Ruanda e l’Unione africana. Il programma è finanziato dall’Unione europea, con un budget di 25 milioni di euro per il periodo 2022-2026, in crescita rispetto ai 21,8 milioni per il 2019-2022. Questo accordo assomiglia molto al nuovo partenariato per la migrazione e lo sviluppo economico stretto tra Regno Unito e Ruanda, anche se certi aspetti sono leggermente diversi. Il controverso disegno di legge, iniziato nel 2022 dall’ex primo ministro britannico Boris Johnson, bocciato dalla Corte Suprema britannica nel 2023 ed emendato dall’attuale premier Rishi Sunak, prevede la deportazione in Ruanda dei richiedenti asilo arrivati illegalmente nel Regno Unito. Dopo due anni di negoziati, la legge è stata approvata lo scorso 22 aprile. Una volta a Kigali i rifugiati in arrivo da Londra saranno accolti in alberghi. La loro situazione amministrativa dovrà essere esaminata entro sei mesi. Due le opzioni possibili: i rifugiati potranno o chiedere asilo in un Paese terzo (compresa la Gran Bretagna) o stabilirsi in Ruanda attraverso uno specifico programma di integrazione. Non potranno in nessun caso essere trasferiti nel loro Paese d’origine. Se decidono di restare in Ruanda, Londra si farà carico delle loro spese (alloggio, formazione, studi, ecc.) per un massimo di 3.000 sterline (circa 3.480 euro) al mese. Se nessuna delle due soluzioni va in porto, il rifugiato potrà “chiedere asilo in Ruanda per poter muoversi legalmente e lasciare il Paese”, spiega Alain Mukuralinda, portavoce del governo ruandese. In un comunicato comune, Rishi Sunak e il presidente del Ruanda Paul Kagame, che si sono incontrati a Londra il 9 aprile, hanno scritto che “entrambi attendono con impazienza i primi voli per il Ruanda”. I conservatori vogliono che i primi aerei decollino prima delle elezioni parlamentari, previste per la seconda metà del 2024, in modo da poter dire agli elettori di aver mantenuto le promesse in materia di controllo dell’immigrazione illegale, anche se gli attraversamenti della Manica sono aumentati del 40% in un anno. La sera del 22 aprile cinque migranti, tra cui una bambina, sono morti nel tentativo di raggiungere il Regno Unito su un gommone dalle coste francesi. Da parte loro, i laburisti hanno annunciato che, in caso di vittoria alle elezioni, ritireranno la legge. Nel campo di Gashora, 538 rifugiati sono in attesa di una soluzione. Secondo Dhananjaya Bhattarai, responsabile dell’ufficio locale dell’Unhcr, dal 2019 “1.569 rifugiati sono stati trasferiti legalmente in Paesi dell’Europa o del Nord America”. Qui le opzioni a disposizione dei richiedenti asilo sono leggermente diverse: se il migrante non intende stabilirsi in Ruanda - e nessuno di loro, finora, ha voluto farlo - può decidere di tornare o in Libia o nel Paese da cui è fuggito. Awa ha deciso che non tornerà in Somaliland, il Paese che ha lasciato nel 2020. Quando l’abbiamo incontrata, la giovane donna, 26 anni, madre di un bimbo nato nel luglio 2023 nel campo di Gashora, aveva appena ottenuto l’asilo negli Stati Uniti. Awa occupa una stanza, arredata sommariamente, in un piccolo edificio a un piano con quattro appartamenti. Le famiglie hanno a disposizione una piccola casa con due camere da letto. I servizi igienici sono all’esterno. Il campo dispone di una mensa, che fornisce tre pasti da asporto al giorno, un campo sportivo e una scuola per i bambini, oltre a laboratori di lingua, cucito o informatica per gli adulti. Una clinica con 32 posti letto, sala parto e laboratorio di analisi, fornisce le cure mediche di base. “Sono partita senza sapere cosa mi aspettava - racconta Awa -. Alcune persone mi hanno detto che potevano portarmi in Libia, passando per l’Etiopia e il Sudan, dove avrei dovuto lavorare per poter pagare gli scafisti, prima di partire per l’Europa. Ma una volta in Libia, sono stata presa in ostaggio e la mia famiglia ha dovuta pagare per farmi rilasciare”. È quanto succede a molti candidati esuli che passano per la Libia: si stima che in 30.000 sono intrappolati nel Paese. “Quando sono stata liberata, mi sono rivolta all’Unhcr, che mi ha offerto la possibilità di andare in Ruanda - aggiunge Awa -. Vorrei solo poter vivere in un Paese dove mi venga permesso di studiare. Voglio diventare medico”. Il campo di Gashora è una vetrina per il Ruanda, che vuole dimostrare di poter accogliere in un’oasi di pace le donne e gli uomini che hanno lasciato il Paese in condizioni drammatiche. I ruandesi insistono sul fatto di aver loro stessi conosciuto l’esilio, dal 1959 e i primi pogrom contro i Tutsi fino al genocidio, che ha fatto quasi un milione di vittime tra il 7 aprile e il 15 luglio 1994. Il Ruanda mette poi in evidenza la sua ospitalità “tradizionale”, d’epoca precoloniale. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, il Paese accoglie attualmente 135.000 rifugiati (principalmente dalla Repubblica democratica del Congo e dal Burundi) per una popolazione di circa 14 milioni di abitanti. La narrazione ruandese non aveva tuttavia convinto la Corte Suprema britannica, che nel novembre 2023 ha stabilito che il disegno di legge voluto dal governo di Londra per trasferire in Ruanda i migranti illegali violava il diritto internazionale. Secondo la Corte c’erano “seri” motivi per ritenere che il Ruanda non potesse essere considerato “sicuro” per i rifugiati, che rischiavano di venire “respinti” in qualsiasi momento verso il loro Paese d’origine, dove avrebbero potuto subire violenze o maltrattamenti. Il testo era stato quindi rielaborato dal governo di Londra, in modo da garantire appunto che i richiedenti asilo non possano più essere rinviati nel loro Paese. Una commissione parlamentare britannica aveva a sua volta giudicato il progetto di legge “fondamentalmente incompatibile” con gli obblighi del Paese in materia di diritti umani, mentre per l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, “gli effetti del disegno di legge, cercando di sottrarre l’azione del governo al controllo giuridico di rito, sono contrari ai principi fondamentali dei diritti umani”. L’Onu aveva dunque chiesto a Londra di “riconsiderare il piano”. Delle opposizioni nei confronti del piano concordato da Londra e Kigali sono emerse anche in Ruanda. Il Partito verde democratico, il cui leader, Frank Habineza, è candidato alle presidenziali di luglio contro Paul Kagame, che si presenta per la quarta volta, è molto critico: “Il nostro partito sostiene l’accoglienza dei rifugiati che hanno scelto il Ruanda come prima destinazione, ma non quelli provenienti da Londra”. Secondo lui “i Paesi ricchi non dovrebbero sottrarsi all’obbligo internazionale di accogliere i rifugiati e trasferirli in Paesi terzi solo perché hanno i soldi per imporre la propria volontà”. Ma quali benefici trarrà il Ruanda da questo accordo? Secondo il National Audit Office del Regno Unito, l’accoglienza dei primi 300 richiedenti asilo costerà a Londra circa 541 milioni di sterline (circa 627 milioni di euro), di cui 220 milioni sono già stati versati al Fondo per l’integrazione e lo sviluppo economico, creato appositamente. “Non c’è da vergognarsi a parlare di soldi - sostiene Alain Mukuralinda -. Ogni spesa è trasparente, ma certo, una parte di questo denaro andrà a beneficio dell’economia ruandese”. Se l’aspetto finanziario non è trascurabile, altri vedono nell’accordo con Londra anche un’opportunità diplomatica: il Ruanda può infatti essere sicuro del sostegno incondizionato del Regno Unito in caso di critiche sui diritti umani o, per esempio, per il suo appoggio al gruppo armato M23 nell’est della Repubblica democratica del Congo, denunciato dalle Nazioni Unite. “Gli esuli diventano merce di scambio”, aveva avvertito già nel 2022 Brigitte Espuche, coordinatrice del network Migreurop. *Traduzione di Luana De Micco Stati Uniti. Proteste nei Campus, perché non sarà un altro ‘68 di Federico Rampini La Repubblica, 29 aprile 2024 Classe 2024 o Generazione Gaza? La protesta dei campus universitari americani si allarga. Era cominciata negli atenei di élite frequentati soprattutto da privilegiati: Columbia, Harvard, Yale. Poi la bandiera palestinese è stata issata all’ingresso del New York City College, frequentato dai figli di operai e immigrati. Alle occupazioni di università sulle due coste, negli Stati Usa che votano democratico, si sono aggiunti atenei del Sud repubblicano. L’America fa il tifo per i giovani o è spaventata dalla loro violenza (verbale e non solo), si appassiona, si schiera e si divide sulla nuova emergenza. Una parte di questa generazione vive il suo battesimo politico, in un movimento che è anche un rito iniziatico, l’ingresso nella vita adulta. Vuole dare una spallata decisiva alla politica dei genitori. Quale segno riuscirà a imprimere, è presto per dirlo. Le prime preoccupazioni riguardano il diritto allo studio. Questa generazione aveva subito un crollo di apprendimento nella pandemia, ora alcune università tornano alle classi in remoto. Le autorità accademiche sono processate da tutte le parti, sia che chiamino la polizia sia che non lo facciano: accusate di abbandonare il campo a minoranze violente e antisemite, o al contrario di soffocare la libertà di espressione dei giovani che manifestano. Sicurezza, ordine pubblico, portano i politici a intervenire ad ogni livello, con inedite convergenze: a New York hanno criticato le proteste studentesche sia il sindaco (black e democratico) sia il presidente della Camera (repubblicano trumpiano). Sul rispetto della legalità possono giocarsi le elezioni di novembre. Il 1968 americano, con le violenze razziali e il caos di proteste contro la guerra del Vietnam che assediarono la convention democratica di Chicago, spianò la strada all’elezione del repubblicano Richard Nixon. Così come a Parigi i moti studenteschi avevano finito per rafforzare il generale De Gaulle. La Generazione Gaza va ascoltata quando solleva questioni importanti, e lo fa spesso. Esige che l’America si comporti secondo i valori della sua Costituzione. Condanna la fornitura di armi a Israele, utilizzate per bombardare i civili nella Striscia. Promuove il boicottaggio degli investimenti in Israele per colpire gli insediamenti illegali di coloni in Cisgiordania, sull’esempio delle campagne contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid. Ragazze e ragazzi riscoprono (senza saperlo) una tradizione antica e nobile, soprattutto nel partito democratico. Una politica estera “etica” ispirò il presidente Wilson nel creare la Società delle Nazioni, il presidente Rooseevelt nel fondare l’Onu. I giovani dei campus inchiodano Joe Biden alla sua contraddizione: è in disaccordo su tutto ciò che fa Benjamin Netanyahu eppure continua nei fatti a fornirgli un sostegno incondizionato. L’intransigenza morale di questi giovani purtroppo è a sua volta macchiata da incoerenze. Le loro associazioni studentesche il 7 ottobre 2023 applaudirono la mattanza di civili israeliani da parte di Hamas, esaltarono quella violenza, inclusi gli stupri di donne e i rapimenti di bambini, come una santa vendetta. Gli stessi ragazzi che oggi invocano il Primo Emendamento sulla libertà di espressione, e si atteggiano a vittime dell’intolleranza se una rettrice di facoltà chiama la polizia, negli anni passati imponevano la censura del dissenso, la cancellazione di conferenze sgradite, la messa al bando di professori non allineati, in un crescendo di dogmatismo e di conformismo. La Generazione Gaza ha una visione del mondo manichea fatta di certezze ideologiche incrollabili. I ricchi (individui o nazioni) hanno sempre torto, i poveri sempre ragione. Chi è ricco deve avere per forza oppresso e sfruttato un povero. L’umanità si divide tra un Occidente imperialista e tutti gli altri: vittime, bisognosi di risarcimenti. Il progresso, impostura occidentale, è solo malvagio e distruttivo. Queste ideuzze vengono impartite da decenni dai cattivi maestri della Generazione Gaza. Sul conflitto mediorientale, la sua infinità complessità, le responsabilità diffuse da una parte e dall’altra, il ruolo di potenti registi come l’Iran, sanno poco o nulla né sono interessati a scavare in profondità. È possibile che l’America stia per scivolare in un altro periodo di instabilità e perfino violenza, come negli anni Sessanta? Sembra mancare una condizione perché i falò si trasformino in un grande incendio. L’economia è in buona salute, anche se la crescita rallenta e l’inflazione non scende abbastanza. La Generazione Gaza ha di fronte a sé il miglior mercato del lavoro del mondo, per opportunità e livelli salariali, e uno dei migliori nella storia americana. Una parte di questa salute è fittizia perché finanziata con i debiti, però il dinamismo innovativo dell’America continua a darle una marcia in più. La Generazione Gaza ha un altro punto in comune con i Sessantottini (ormai suoi nonni o perfino bisnonni): è in sintonia con il resto del mondo. Da anni il Grande Sud globale era critico verso l’America, questa divergenza è stata rafforzata dalla guerra in Medio Oriente. L’Africa e il Sudamerica sono più anti-occidentali che mai. Negli anni Sessanta la guerra del Vietnam accelerò l’allineamento di tante giovani generazioni in favore di regimi antiamericani: la Cina di Mao, Cuba, perfino l’Unione Sovietica. Poi furono quei regimi a crollare, o a intraprendere drastiche revisioni. Ma intanto la febbre degli anni Sessanta era stata lunga, e aveva lasciato dietro di sé anche una tragica scia di vittime. America Latina. La violenza continua a essere protagonista: una situazione preoccupante di Diego Battistessa* Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2024 La violenza in America Latina e nei Caraibi continua ad essere protagonista. È quanto è emerso da un incontro internazionale che si è celebrato per tutta la giornata del 23 aprile a Casa d’America nel cuore di Madrid, dal titolo appunto “Territorio di violenza. Il crimine in America”. In un intenso dibattito, con testimonianze e analisi di alto livello, si è discusso dei vari aspetti che alimentano questa spirale nella regione latinoamericana, utilizzando una prospettiva ampia che ingloba la geopolitica, le migrazioni, i femminicidi e la protezione dell’ambiente. Il punto di partenza lo offre InSight Crime, che nel suo report regionale riferito all’anno scorso spiega che “nel 2023 in America Latina e nei Caraibi sono state uccise almeno 117.492 persone, con un tasso di omicidi di 20 ogni 100.000 abitanti. Tuttavia, i dati sugli omicidi in molti paesi sono inesistenti o inaffidabili, quindi il numero reale è probabilmente più elevato”. Per riuscire a fare un confronto dobbiamo pensare che in Europa troviamo l’Italia con un numero di omicidi ogni 100mila abitanti pari a 0,6, in Germania 0,9, Regno Unito 1,2 e Francia 1,4. Le analisi sulla geopolitica della violenza hanno mostrato che la criminalità organizzata continua a crescere in 22 dei 35 paesi del continente americano (includendo anche l’America del nord) perché, come ha spiegato Nicolas Zevallos Trigoso (criminologo e fondatore dell’Istituto di Criminologia e Studi sulla Violenza del Perù) “le organizzazioni criminali hanno democratizzato la violenza e la criminalità in molti scenari”. Nello specifico sono stati analizzati i casi della Colombia, dove il presidente Gustavo Petro sta cercando di implementare un piano da lui stesso chiamato “Pace totale”, e del Messico, dove tra poche settimane si andrà alle urne per eleggere il/la futuro/a presidente. In Colombia è stato sottolineato come ad oggi esistano ancora almeno 18.000 persone legate ai gruppi armati criminali nelle aree urbane e 15.000 in quelle rurali, numeri enormi che misurano la sfida che affronta il primo governo di sinistra nei 200 anni della storia del paese sudamericano. In Messico, paese sotto osservazione per i femminicidi (vengono uccise 12 donne al giorno), l’espansione dei cartelli, soprattutto quello di Sinaloa e il cartello di Jalisco Nueva Generación, ha portati questi ultimi a diversificare il loro raggio d’azione (centrato all’inizio principalmente sul narcotraffico), includendo anche il traffico di esseri umani, il furto di veicoli, l’estorsione mineraria, la pirateria farmaceutica, il traffico di armi, i rapimenti, ecc. Non sono mancate le riflessioni sulla “Bukelizzazione” della regione e su quanto si stia vivendo nel Salvador, dove il presidente Bukele mantiene da due anni il paese in stato di eccezione. Da segnalare in questo senso il risultato della consulta del 21 aprile scorso, voluta dal presidente ecuadoriano Daniel Noboa, dove la popolazione ha deciso di autorizzare le forze armate ad ampliare il loro raggio d’azione per pacificare un paese che solo nel 2023 ha raggiunto la cifra di 8mila omicidi: un tasso di 45 morti per omicidio su 100mila abitanti (il più alto della regione). Un punto di analisi importante ha riguardato le migrazioni che sempre più rappresentano un fattore di lucro per le organizzazioni criminali. Le migrazioni, è stato segnalato durante l’evento, si producono in America Latina principalmente per tre fattori: quello economico, il problema dell’insicurezza e la degradazione ambientale (migrazioni climatiche). La meta principale continua ad essere il nord, nello specifico gli Usa, con rotte della morte dove specialmente le donne sono esposte a rischio di stupri e dove cresce il tasso di sequestri, con il fine di chiedere enormi riscatti alle famiglie delle vittime per la loro liberazione. Per quanto riguarda l’ambiente anche l’Ong Global Witness ha partecipato all’evento, ponendo l’accento sullo sfruttamento delle risorse naturali e sulla criminalizzazione di chi difende il territorio: persone che molto spesso nella regione latinoamericana pagano con la vita il prezzo del loro coraggio. Come già segnalato, il Messico primeggia (triste primato) nella classifica dei femminicidi; ma in generale ben 14 dei 25 paesi con più casi di femminicidi nel mondo si trovano in America Latina. Qui anche l’Honduras ha un triste record: si tratta infatti del paese con il maggior numero di femminicidi per tasso di popolazione, secondo i dati offerti da Cepal. In questo senso la nota intellettuale, sociologa, scrittrice e attivista afrofemminista Esther Pineda G. ha sottolineato durante l’evento come l’origine del problema in molti di questi paesi sia di carattere istituzionale, visto che “la maggioranza degli Stati non crede alla violenza contro le donne. Cedono semplicemente alla pressione sociale, ma poi non creano le condizioni reali ed effettive necessarie per combattere strutturalmente il fenomeno” generando in questo modo una risposta istituzionale inadeguata. Quanto emerso da questa giornata di riflessione è confermato e ampliato anche da ciò che si legge nel dettagliato report di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo nel 2023, reso pubblico il giorno successivo (24 aprile). Nel documento, rispetto all’analisi regionale, si spiega che lo spazio civico ha continuato a ridursi in tutte le Americhe, mettendo a repentaglio le conquiste in materia di diritti umani ottenute nei decenni precedenti. Giornalisti e difensori dei diritti umani, in particolare coloro che lavorano per la giustizia climatica e coloro che hanno combattuto per proteggere la propria terra e l’ambiente, sono stati soggetti di molestie e criminalizzazione, aggressioni e omicidi. La maggior parte dei paesi americani non dispone di sistemi solidi per proteggere i difensori dei diritti umani e allo stesso tempo le forze di sicurezza rispondono con forza illegittima alle manifestazioni pacifiche. A questo si aggiunge il fatto che le autorità hanno continuato a violare il diritto alla vita, alla libertà, a un giusto processo e all’integrità fisica, e sono sempre più diffusi i casi di detenzione arbitraria. Insomma, una situazione regionale preoccupante, con un aumento del protagonismo dei gruppi criminali transazionali, delle alleanze tra gli stessi e dove l’impunità e la corruzione creano un terreno fertile per la violenza. *Latinoamericanista